domenica 23 dicembre 2012

Corriere 23.12.12
Bersani non aspetta: si volta pagina
Possibili trappole, attenti agli errori
Il Pd: bene se il premier non concede l'uso del suo nome
di Maria Teresa Meli

ROMA — Gioca, non gioca, fa l'allenatore in panchina o in tribuna? Nel Pd in attesa della decisione definitiva di Monti ci si interroga sulle reali intenzioni del premier.
Non metterà la maglietta di una squadra, a largo del Nazareno ne sono convinti, ma l'annuncio della sua partecipazione, oggi, alla trasmissione di Lucia Annunziata, ha messo tutti sul chi va là. E il grande mediatore tra il partito e Monti, ovvero Enrico Letta, avrà ancora da lavorare.
D'Alema, che difficilmente riesce a non dire quello che pensa, ragiona così: «L'Italia non può aspettare ancora troppo a lungo la scelta di Monti». Bersani che non può essere altrettanto esplicito dà questa indicazione ai suoi: «Voltiamo pagina e dimostriamo che la politica è in grado di gestire anche l'emergenza e che il centrosinistra è pronto a fare le riforme che servono al Paese».
Con il segretario in tutti i colloqui che hanno scandito questa fase delicata, Monti è stato conciliante, nonostante gli bruciasse il fuoco di sbarramento, non più tanto amico, del Pd: «Non sono un nemico e posso essere un alleato». Ciò che il premier ha spiegato agli ambasciatori del Partito democratico è questo: «Vi potranno essere delle liste che avranno come punto di riferimento l'azione del governo, io posso diventare il referente di queste formazioni, ma non penso di far mettere il mio nome nel simbolo. In questo passaggio verso la Terza Repubblica posso essere il garante di un rapporto di collaborazione tra le forze moderate, cattoliche e riformiste».
E se così fosse, Bersani non vi troverebbe nulla da dire. Anche lui sa che l'agenda Monti non può essere né archiviata né smentita, ma lui la vede come il punto d'inizio di un percorso che porterà «alla ricerca di una soluzione che coniughi rigore, sviluppo ed equità», non come una tabella di marcia fissa dalla quale non si può discostare. Quando il leader del Pd continua a dire che il premier può essere «una risorsa» e che senz'altro avrà «un ruolo anche in futuro» non mente. Bersani è intimamente convinto, e ben prima di questo tira e molla sulla candidatura di Monti, che la situazione italiana imponga al centrosinistra un rapporto con i moderati nella prossima legislatura.
Bersani ritiene che la «transizione dalla Seconda Repubblica» passi necessariamente per un «patto di ricostruzione» da siglare tra riformisti e moderati nella prossima legislatura. Per questa ragione crede che Monti non debba cedere al pressing di chi lo vuole comunque in campo, perché una scelta del genere offuscherebbe «la sua immagine di rigore e serietà».
Ma siccome Bersani è uomo «emilianamente» pragmatico, non resta in attesa delle decisioni montiane che verranno e va avanti con il suo ruolino di marcia, perché l'imperativo è vincere le elezioni. E non gli basta il fatto che i sondaggisti diano per scontato che senza il premier il centro non raggiungerà una percentuale a due cifre: «Non dobbiamo fare errori — dice il segretario ai suoi — né dobbiamo adagiarci sull'idea che abbiamo già vinto, visto che i sondaggi ci dicono questo. Calmi, perché cercheranno di farci ancora qualche scherzo».
Quindi Bersani raccoglie le forze intorno a sé. L'operazione liste centriste con Giacomo Portas non è riuscita. Il leader dei «Moderati per il centrosinistra» non vuole mischiarsi con Tabacci e i fuoriusciti dell'Idv. Lo ha detto chiaro e tondo al segretario. Perciò ora si tenta un'altra operazione: il «Centro democratico» come terza gamba dell'alleanza, con Donadi e, per l'appunto, Tabacci.
Anche Ingroia bussa alla porta, dopo aver visto che i sondaggi gli danno solo il 2 per cento. Ma la strada sembra sbarrata. Fassina l'ha chiusa e lo stesso Vendola, che pure vorrebbe l'ex pm, si rende conto che più di tanto il Pd non gli può dare, tant'è che rimanda ogni decisione al riguardo a Bersani. Il quale, per ora, non ha proferito verbo, ma il fatto che i suoi chiamino scherzando la lista Ingroia-de Magistris «Arancia meccanica», anziché «Arancioni», la dice lunga su quello che il segretario pensa di quella formazione.

La Stampa 23.12.12
Primarie del Pd, Ichino non si candida
“Ambiguità in economia”. Concia polemica, e Sel arruola Airaudo
Il 29 e il 30 dicembre le primarie del Pd per scegliere i parlamentari
di Fabio Poletti

Gente che va gente che viene. Gli aspiranti deputati e senatori di Pd e Sel vengono allo scoperto in vista delle «parlamentarie» dei due partiti del 29 e 30 dicembre. Tra quelli che hanno deciso di fare un passo indietro c’è il giuslavorista Piero Ichino già schierato con Matteo Renzi, la cui candidatura era data per sicura nelle liste del Pd: «Sono consapevole di dare una delusione a molti. A farmi desiderare il ritorno al privato è una vita più tranquilla». Ma l’ex senatore Ichino in una lettera anticipa non senza polemiche le spiegazioni politiche al suo gran rifiuto: «La campagna elettorale mi costringerebbe a negare le ambiguità del partito sulle modalità della strategia europea dell’Italia, per uscire dalla crisi economica».
Un passo indietro lo fanno anche Paola Concia «Non mi candido, non faccio come Rosy Bindi», sibila lei verso la collega di partito che ha chiesto una deroga come da tempo si sapeva e correrà invece per un seggio in Calabria - e Antonio Boccuzzi, l’ex operaio scampato al rogo della Thyssen a Torino: «Rinuncio a candidarmi alle primarie ma non certo all’impegno politico per la sicurezza». Per un deputato simbolo del lavoro che lascia altri si fanno avanti in Sel. Giovanni Barozzino, uno dei tre operai licenziati dalla Fiat di Melfi, ha deciso di correre con Nichi Vendola al Senato. Ma per Sel si sono schierati pure il numero due della Fiom Giorgio Airaldo, Laura Boldrini portavoce dei rifugiati Onu, il presidente del sindacato giornalisti Fnsi Roberto Natale e a sorpresa nel collegio di Grosseto pure l’avvocato Bruno Leporatti, l’ex difensore di Francesco Schettino il comandante della Costa Concordia. A chi gli chiede cosa c’entri con quella storia la sua candidatura lui risponde così: «Nulla. Metterò a disposizione del partito le cose che so fare meglio».
In casa Pd i candidati alle primarie a Torino sono venti ma pochissime le donne viste le difficoltà per raccogliere le firme necessarie. Otto sono ex parlamentari ma anche qui contano le esclusioni. La più clamorosa è sicuramente quella di Sandro Plano il valsusino dei No Tav per cui i probiviri hanno deciso di non accettare la candidatura. In Sicilia per il Pd corrono l’ex sindacalista Sergio D’Antoni e Bernardo Mattarella. In Liguria tra gli altri ci riprova Roberta Pinotti, deputato uscente ma sconfitta alle primarie comunali a Genova vinte da Marco Doria, il candidato di Sel poi diventato sindaco. Nel partito di Pierluigi Bersani, naturalmente, gli occhi erano puntati pure sulla Toscana, la roccaforte del suo antagonista alle primarie per la leadership del partito Matteo Renzi. Ma, se pure nella Regione il sindaco di Firenze aveva stracciato Bersani, alla conta di chi sogna di entrare in Parlamento tra i suoi sostenitori non sembra esserci grandissimo entusiasmo. Su undici candidati aspiranti parlamentari nel capoluogo quelli sicuramente riconducibili a Matteo Renzi sono solo tre.

La Stampa 23.12.12
Bersani non rinuncia a un ruolo per Monti. Ma Vendola già s’impunta
Sel: il Professore è il riferimento di un blocco conservatore
di Federico Geremicca

La parola d’ordine - tacita, non concordata e in fondo perfino comprensibile dopo tutto quel che è accaduto - è “aspettiamo”. Non una battuta di commento alle agenzie di stampa; e nemmeno sui diversi social network. Al massimo, quando è ormai sera, un laconico tweet di Enrico Letta: «Napolitano scioglie le Camere. Finalmente il sipario». Ma su Monti e sul ripensamento in atto (circa la ventilata sua discesa in campo) prudenza e silenzi.
Non è che il Pd - e Bersani in persona - non credano alla possibilità di un dietro-front del Professore, e quindi al permanere della sua “neutralità”: il fatto è che non credevano nemmeno possibile che SuperMario immaginasse di accantonarla, quella “terzietà” (e invece ci si è andati vicinissimi...). Così, per lo stato maggiore pd diventano dirimenti le cose che Monti dirà oggi, pubblicamente, prima nella conferenza stampa di fine anno e poi a “In 1/2 ora”, da Lucia Annunziata. I democratici, insomma, tirerebbero volentieri un sospiro di sollievo: ma aspettano che sia Monti ad annunciare che davvero non sarà in campo. Né direttamente né indirettamente...
Questo, per altro, renderebbe percorribile la via che il Pd auspica da tempo: e cioè la possibilità di utilizzare, dopo il voto, le competenze e l’autorevolezza di Monti. Ancora ieri, del resto - e proprio a “La Stampa” - Bersani ha ribadito il suo punto di vista: «Se Hollande apprezza il governo Monti, figuriamoci io che l’ho sostenuto! Monti è stato bloccato da una maggioranza singolare. La politica darà invece una maggioranza univoca: quindi andremo oltre Monti senza, spero, perdere il suo contributo... ».
Dunque, andare oltre Monti senza però perdere Monti. La nuova trincea elettorale del Pd va quindi definendosi: è certamente un passo in avanti, ma non significa certo che gli ostacoli siano finiti. Si potrebbe perfino dire che, per certi versi, i problemi cominciano adesso: e originano, come era prevedibile - visto che è già accaduto in passato - dal profilo delle alleanze in vista del voto. E più in particolare dal rapporto con Nichi Vendola.
Se infatti Bersani non fa mistero di sperare ancora nella possibilità di un rapporto con Monti, il governatore della Puglia su questo è lapidario: «Per me da oggi c’è solo l’agenda Bersani... ». E ancora: Monti «ha collocato il suo protagonismo politico nel recinto del popolarismo europeo e si candida a essere punto di riferimento di un blocco conservatore... ». Ora, se si considera che ancora ieri fonti vicine a Herman Van Rompuy spiegavano che «il Presidente ha già detto che il prossimo governo italiano non ha altra scelta che continuare le stesse politiche del governo Monti», si capisce come la faccenda rischi di farsi complicata.
Infatti, tra un Pdl che è già partito all’attacco di Monti (e dell’Imu, e dell’Europa e della politica fiscale) e i gruppi di centro che sposano in toto l’agenda Monti, il Pd dovrà ritagliarsi uno spazio “centrale” che non sarà però facile riempire di contenuti proprio in ragione della posizione di Vendola. Non a caso, la campagna contro la presunta ”inaffidabilità” dell’alleanza Pd-Sel è già partita: e per contrastarla potrebbero non bastare delle semplici dichiarazioni. Bersani lo sa: e infatti sta ragionando sulle contromisure.
Ancora qualche rassicurazione alle cancellerie europee; poi un programma che non stravolga la linea di rigore fin qui seguita; e infine gli uomini che quel programma dovranno realizzare, in caso di vittoria alle elezioni. Una squadra di governo che sia di per sè una garanzia. Presto, naturalmente, per annunciarla. Ma non troppo presto, forse, per inserire alcuni dei possibili ministri nel tanto discusso “listino dei sicuri”. Bersani ci sta pensando. Potrebbe rivelarsi una mossa efficace e ad effetto. E non è detto che, dopo i tanti azzardi di questo fine legislatura, il lader pd non ci provi davvero...

l’Unità 23.12.12
Lavoro e politica: la doppia sfida per ricostruire
di Guglielmo Epifani

LA FINE DELLA LEGISLATURA DEVE RAPPRESENTARE PER TUTTI LO SPUNTO PER UNA RIFLESSIONE MEDITATA SUI PROBLEMI DEL PAESE E SUI PROCESSI INEVITABILI DI RIFORMA.
I vent'anni trascorsi dalla fine della prima Repubblica offrono d'altra parte un tempo lungo di avvenimenti, fatti e tendenze che porta alla conclusione che l’Italia è oggi di fronte alla necessità di un profondo mutamento che investe assieme l'economia, il sistema politico e quello istituzionale. Abbiamo alle spalle un quadro pieno di ombre e contraddizioni, che la crisi ha finito per disvelare in tutta la sua gravità e che ha il segno del decadimento nel quale siamo immersi. Per questo c’è bisogno di reagire pena una ulteriore spirale negativa. Quando il Pd avverte che la prossima legislatura dovrà avere un carattere costituente esprime la coscienza dei rischi e chiama tutti ad operare per imprimere una svolta necessaria per quanto non semplice.
Sul terreno economico è evidente quello che si è prodotto. L'impresa che ha saputo e voluto investire e si è internazionalizzata, malgrado la crisi, ce la sta facendo come dimostrano i dati sulle esportazioni e quelli dei bilanci. Per le altre la lunghezza della crisi, il calo della domanda interna e l'assenza di una politica industriale producono effetti pesanti, con riflessi devastanti sull’occupazione. Il Paese ha visto crescere le disuguaglianze sociali e di reddito, il ceto medio-basso si è impoverito e si è allargata la frattura generazionale. I giovani, a partire da quelli del Mezzogiorno, rappresentano il fronte sociale più grave della nostra condizione. L’Italia non è riuscita a capire che il passaggio da una moneta debole e svalutabile ad una fortissima e rigida andava affrontato con una diversa politica fiscale, una diversa propensione agli investimenti e a un diverso rapporto, nella spesa pubblica, tra la parte corrente e quella per gli investimenti. Se la nostra produttività è costantemente calata negli ultimi dieci anni lo si deve esattamente a questo ritardo, e di questo il centro-destra di Berlusconi porta la responsabilità più grande.
A questo quadro economico e sociale occorre però aggiungere, come concausa del nostro decadimento, la incredibile fragilità del sistema politico e la permanente instabilità della rete istituzionale. Se si osserva con un minimo di oggettività, quello che non va del sistema politico italiano è facilmente individuabile in un’anomalia della quale fino ad oggi troppo poco e troppo genericamente si è parlato: l'esistenza, ripetuta e costantemente ricorrente con la rilevante eccezione del Pd, di partiti e movimenti a carattere personale che non ha uguali in alcun Paese democratico. Se dal punto di vista degli ordinamenti politici questo ci allontana dai modelli europei, dove il tratto fondante è esattamente l'opposto, dal punto di vista dell'efficacia della rappresentanza e del governo ciò rappresenta un fattore di instabilità e di irresponsabilità. Ed è anche lo schermo che rende possibile il crescere di pulsioni populistiche, localistiche, lobbistiche, decadenza dell'etica pubblica e aumento del sentimento antipolitico. Anche i fatti di questi ultimi giorni si muovono tutti nella medesima ottica: scomposizioni e composizioni di rassemblements e di nuovi ingressi senza alcuna razionalità politica e perciò senza avvenire.
Quando Bersani ha sollevato esattamente questo problema da un lato ha colto la sua funzione regressiva in un ordinamento realmente democratico e dall'altro ha riproposto un tema che per ignavia o conformismo si continua a sottacere e a non volere discutere in modo pubblico. Eppure questo è il punto, come può confermare la più logica e semplice delle domande: come può un partito o un movimento a carattere personale perseguire un progetto stabile e credibile di cambiamento, e insieme rappresentarne nella società il punto di riferimento? E come può un partito personale essere realmente democratico e perciò contendibile, se vive e ha senso solo in funzione di un leader? Naturalmente si può obiettare che questo sistema elettorale non favorisce un corretto rapporto di rappresentanza tra cittadini ed istituzioni, ma a sua volta chi ha voluto questo sistema era ed è esattamente la causa del problema che va risolto.
Anche questo carica il Pd di una responsabilità grande. Se alla lunga un sistema anomalo diventa una contraddizione troppo forte per lo Stato, per la condizione del Paese e per lo stesso svolgimento di una normale dialettica democratica, la prossima legislatura dovrà avere un carattere costituente anche in questa prospettiva: nella coscienza. cioè, che il risanamento economico e quello politico istituzionale vanno affrontati assieme. E, per quanto più difficile, a questa sfida il Pd non potrà sottrarsi. L'Italia deve diventare pienamente europea anche per la qualità del proprio sistema politico.

l’Unità 23.12.12
I cattolici e il partito dei ricchi
di Massimo D’Antoni

PUÒ IL POLO DI CENTRO RAPPRESENTARE EFFETTIVAMENTE UN PUNTO di riferimento per i cattolici italiani? Prendiamo il tema alla larga: c’era una volta il conflitto capitale-lavoro. Per la precisione, c’era una volta una lettura dei processi sociali in termini di conflitto tra interessi legati al modo di produzione e alla posizione dei soggetti sociali rispetto al controllo dei relativi mezzi. Su questa rappresentazione si sviluppò l’offensiva socialista, conquistando ampie masse di lavoratori alla lotta di classe. La risposta dei cattolici, già a fine Ottocento, fu un energico impegno sul piano sociale e sindacale prima che politico. Alla visione conflittuale il pensiero cattolico opponeva una visione interclassista, che non rifiutava l’idea di una divergenza di interessi ma ne vedeva la soluzione in una composizione, realizzata a livello politico anche mediante la spesa sociale.
Non c’è dubbio che l’evoluzione sul piano politico e sociale del XX secolo abbia progressivamente attenuato, anche nell’ambito della sinistra di ispirazione socialista, l’enfasi sulla dimensione conflittuale. Nel disorientamento culturale e ideologico della sinistra post-1989, il processo si è spinto peraltro molto oltre: non solo si è negata rilevanza al conflitto capitale-lavoro nella comprensione delle dinamiche sociali, ma si è messa in discussione la stessa centralità del lavoro. Del resto, si è detto, esiste ancora il lavoro nell’economia post-fordista? Il lavoro è frammentato, articolato. Il suo rapporto con il capitale è meno definito, e il conflitto di interessi tra lavoratori e capitalisti è una delle tante dimensioni di divergenza di interessi cui ci pone di fronte un’economia di mercato. L’individuo, si è sostenuto, non è solo lavoratore, è anche consumatore. E il capitale in un’economia globalizzata va attratto, non combattuto. Semmai, dobbiamo distinguere tra il capitale inserito in un contesto concorrenziale, quello che genera innovazione, e quello speculativo, finanziario, che si alimenta di posizioni di rendita.
E ancora: se il lavoro è uno dei tanti beni, se il mercato del lavoro è un mercato come gli altri (e non quella «istituzione sociale» di cui ci parla il padre della teoria economica della crescita Bob Solow) allora come leggere il ruolo di regolazione e protezione dei sindacati? Il conflitto è tra lavoratori protetti e non protetti, tra privilegiati e meno privilegiati, giovani e anziani. Non si difende l’ideale di uguaglianza prendendo le difese del lavoro ma eliminando posizioni di rendita, lacci e lacciuoli, facendo funzionare il mercato.
Se questo è grosso modo il punto di arrivo, e se il punto di arrivo è un inceppamento del meccanismo di crescita, società caratterizzate da diseguaglianze crescenti e crescente incertezza, non è così peregrino chiederci quando abbiamo smarrito la via. Non certo per vagheggiare impossibili ritorni alle origini, ma per capire quanto meno in quale passaggio, a forza di revisioni, abbiamo finito con il gettare il bambino con l’acqua sporca. Ad esempio: una cosa è relativizzare l’idea conflittuale tra capitale e lavoro, un’altra è rinunciare ad affermare la centralità del lavoro, o a considerare l’elevazione della sua qualità come chiave di valutazione del progresso economico. Rimettere al centro il lavoro è poi un’operazione opportuna sul piano politico: è il punto di caduta della migliore tradizione socialista “lavorista” e del pensiero sociale cattolico. «Il lavoro» afferma l’enciclica Laborem exercens «per il suo carattere soggettivo e personale è superiore a ogni altro fattore di produzione». La Costituzione dell’unica Repubblica “fondata sul lavoro” ribadisce il punto.
I moderati italiani stanno organizzandosi. Quale che sia la posizione che vorrà assumere il presidente Monti, c’è da augurarsi che tale tentativo abbia successo: aiuterebbe un’evoluzione positiva della politica del nostro Paese, dove la destra è sempre stata populista ed estremista. Non vorremmo però che qualcuno si illudesse. Le foto di gruppo del nascente polo di centro hanno finora inquadrato manager e imprenditori miliardari, restituendoci un vago sapore di partito di classe. Se è così, non sarà sufficiente la spolverata di solidarismo che può venire da qualche esponente dell’associazionismo cattolico, né velate benedizioni di questa o quella curia o il placet del Partito popolare europeo, a contendere al Partito democratico il voto dei lavoratori cattolici e l’eredità della tradizione popolare.

l’Unità 23.12.12
Tensioni con Di Pietro, freddezza a sinistra: anche Ingroia è incerto
«Il 28 e il 29 valuterò se ci sono le condizioni che avevo posto per candidarmi»
Il listone arancione fatica a decollare
Fiom e Libera non rispondono all’appello del magistrato
Lo staff del pm: «In settimana l’incontro con Migliavacca e poi Bersani»
di Claudia Fusani

Il listone Ingroia è sulla pista con i motori accesi ma ancora non decolla. Spuntano in continuazione bandierine rosse che danno l’alt e prolungano l’attesa. E il continuo rinviare «entro il 29 dicembre» la decisione sul suo destino restare un funzionario delle Nazioni Unite o diventare il leader di un nuovo soggetto politico contro il berlusconismo e il neoliberismo montiano è una scelta strategicamente comprensibile ma che inizia anche stufare i simpatizzanti. Una platea esigente, tanto vogliosa di ricambio quanto facile a disamorarsi se capisce di essere di fronte a giochi e tatticismi.
Una bandierina rossa è, ad esempio, l’applauso un po’ freddino che ieri mattina lo ha accolto al teatro Quirino all’assemblea di Cambiare si può mentre il pubblico si è scaldato assai di più per il segretario di Rifondazione Paolo Ferrero che rivendicava come «non tutto il male di questo mondo fosse nei partiti». È una bandiera rossa al decollo del listone Ingroia la richiesta di chiarimenti arrivata venerdì sera, dopo il bagno di folla del Capranica, nella riunione convocata negli uffici dell’Italia dei Valori. Dopo essersi sentito trattato come un ospite, Tonino Di Pietro ha spiegato agli eventuali compagni di viaggio che lui è anche disposto a fare il passo indietro richiesto dal palco da Ingroia. Ma per fare posto a chi? E a cosa? «Se la società civile dimostra di volerci mettere la faccia, ben vengano, si facciano
avanti e sarò lieto non solo di fare un passo indietro ma anche di mettere a disposizione le strutture del partito» avrebbe detto al tavolo il presidente dell’Idv. Ma questa società civile, per ora, latita. Di grandi nomi non si vede traccia. Quindi calma prima di vendere la pelle dell’orso-partito.
E certo non è incoraggiante il silenzio che arriva dagli ambienti Fiom come da quelli di Libera, delle donne di Se non ora quando, tutte quella realtà sindacali e civili che Ingroia ha chiamato per nome l’altra sera dal palco del Capranica per invitarli a metterci la faccia, «io ci sto, se voi ci state». Le riserve cadranno in base alle risposte al suo appello.
Il tempo corre veloce, il 24 febbraio si vota, il 17 gennaio devono essere consegnate le liste con migliaia di firme tutte da raccogliere tra panettoni, lenticchie e feste. «Dobbiamo uscire da divisioni e particolarismi che non portano da nessuna parte e allontanano da scelte di rappresentanza reale» ha ripetuto Ingroia. Qui per contare e fare quella «rivoluzione civile» occorre entrare in Parlamento. L’alternativa, un rischio che il pm ha ben chiaro, è una di quelle formazioni arcobaleno tante care a sinistra e sempre miseramente fallite.
Tutto in dieci giorni, quindi. Venerdì la presentazione al Capranica di Roma. Ieri mattina al Teatro Quirino all’assemblea di «Cambiare si può», cartello di intellettuali come Luciano Gallino e Paul Ginsborg, magistrarti come Livio Pepino, don Gallo e artisti come Sabina Guzzanti. Ieri pomeriggio a Palermo per la nascita di «Terza primavera» con il sindaco Orlando sullo sfondo. Un vero e proprio giro di consultazioni per aggregare una realtà molto variegata: sindacati, movimenti pacifisti, liste civiche, gli Arancioni dell’altro sindaco e anche pm Luigi De Magistris, il più grande supporter di Ingroia e anche colui che per primo ha chiesto il passo indietro a Di Pietro e agli altri politici come Ferrero, Diliberto, il verde Bonelli.
Ieri al Quirino, assai più tiepido del Capranica e quasi freddo rispetto alla prima uscita pubblica in un teatro a Trastevere l’8 dicembre, Ingroia ha insistito: «Se vogliamo partecipare alla competizione elettorale con dei risultati politici dobbiamo essere pragmatici, parlare di strategia e anche di tattica. Dobbiamo fare il massimo dello sforzo per trovare una sintesi». Che resta l’ostacolo più grande.
La base del listone ha come unico cemento due pregiudiziali: non al berlusconismo; no alle politiche neoliberiste di Monti. Ipotizzare un confronto con il Pd lascia perplesse le variegate platee consultate da Ingroia. «Ci sono forti critiche che dobbiamo fare al sostegno espresso fino ad oggi dal Pd alla politica di Monti, ma non dobbiamo avere paura di andare a un confronto per verificare cosa c’è di compatibile, il confronto in sé non ci infetta» ha ripetuto il pm ieri mattina.
L’offerta è sul tavolo. Abbastanza improbabile vista la storia di questi mesi e lo stato dell’alleanza tra Pd e Sel. Anche se ieri Vendola ha chiesto a Bersani di incontrare Ingroia che potrebbe portargli via una bella fetta di elettorato specie se il Pd virerà verso il centro di Casini orfano di Monti.
Lo staff di Ingroia e De Magistris lascia trapelare che ci sarà un incontro la prossima settimana, «prima con Migliavacca e poi con Bersani». De Magistris, che si offre di andare a prendere la valigie dell’ex collega Ingroia in Guatemala pur di strappargli un sì definitivo, non riesce proprio ad immaginare «un accordo col Pd».
E allora l’accordo durerà il tempo di un cappuccino.

l’Unità 23.12.12
Massimalismo senza sinistra
di Giuseppe Provenzano

OGNI CITTADINO ITALIANO, FEDELE ALLA COSTITUZIONE, SOGGETTO ALLE LEGGI DELLA REPUBBLICA,potrà farsi la sua idea sull’opportunità politica e morale della scelta di Antonio Ingroia di passare dal recente protagonismo giudiziario a quello elettorale. Dalla guida di indagini e processi, controversi nelle premesse e negli esiti, esplicitamente rivolti al cuore delle istituzioni repubblicane, alla costruzione di un cartello elettorale intorno alla sua leadership: qualcosa che va molto oltre il protagonismo politico-culturale che ha sempre legittimamente difeso, se non discutibilmente ricercato. Ogni elettore italiano, già deluso dalla prevedibile deformazione personalistica dell’IdV, troppo a lungo ospitata a sinistra per fronteggiare l’anomalia di Berlusconi, deciderà quanta fiducia accordare a un raggruppamento mediaticamente centrato sulla «triplice» dei procuratori (Ingroia, De Magistris e Di Pietro), con un freddo contorno di massimalismo di sinistra.
Quello che qui e ora interessa è il profilo politico di questa operazione elettorale. Interessa capire se esiste davvero (e se questa operazione occuperà) uno spazio politico, e prima di tutto sociale, di una qualche rilevanza, «a sinistra» della scelta di Vendola di assumersi il peso della sfida del governo e delle riforme, facendosi portare di una radicalità nelle istanze di cambiamento, che hanno a che fare con l’urgenza delle cose, con la «radice» dei problemi sociali e democratici che vivono gli italiani, a partire dai soggetti e dai luoghi più deboli. Il «quarto polo» che non si ritiene «secondo a nessuno» «pazientemente» in attesa di parole chiare e definitive di Ingroia, che ne è già leader tra qualche malumore della pattuglia di intellettuali raccolti intorno ai circoli di Alba è in effetti difficilmente catalogabile. Si tratta di una nuova forma del massimalismo di sinistra? Così sembrano volersi posizionare, ma anche questo andrebbe chiarito.
La questione da discutere è la radice, l’ancoraggio sociale di queste nuove forme di massimalismo. A quali soggetti sociali si rivolge, a quali dà rappresentanza? Quali ceti sociali vengono chiamati a rappresentarne le battaglie, non essendo organizzazioni in grado di garantire percorsi democratici di selezione della classe dirigente? Un’alleanza di pubblici ministeri, professori universitari e vette di ceto medio riflessivo, può davvero intercettare i soggetti del disagio sociale, che oggi affonda la sua radice nella degradazione del lavoro, quello dipendente o autonomo vero, da cui peraltro un’intera generazione di giovani rischia di essere tagliata fuori? Più probabilmente, potrà intercettare qualche voto «di sinistra» che sarebbe andato a Grillo, e che qui trova una forma più raffinata di protesta generalizzata contro il ceto politico, in nome di una lotta per la Giustizia e la Verità. I tratti di «comunitarismo» (a partire dalla teoria, più che dalla pratica, dei «beni comuni»), pur presenti nell’offerta variegata di questa aggregazione, sono con ogni evidenza marginali rispetto ai suoi caratteri di fondo: il giustizialismo dei seguaci delle Procure e il populismo orlandiano, che lo stampo di De Magistris colora un po’ di arancione, quasi rosso.
Non si pretende, da iniziative del genere, un ancoraggio politico europeo che renda minimamente seria la prospettiva politica, ma non si può accettare che il modello di rappresentanza politica rimanga il leaderismo mediatico e salvifico che ha disarticolato la vicenda democratica nazionale, essendo incapace di dare risposte sul piano economico e sociale. Solo una sinistra massimalista in cerca d’autore (e di qualche seggio in Parlamento), può scorgervi una prospettiva socialmente e politicamente credibile. Quella che s’è vista fin qui taglia fuori persino le frange più radicali dei sindacati dei lavoratori, e la stessa Fiom che avrebbe dovuto essere un interlocutore privilegiato nella intenzioni dei promotori. Infatti, tra la mille domande da porsi, quale sarebbe stata la posizione di questo «quarto polo» di fronte al dramma economico, sociale e ambientale di Taranto? Il decreto-legge del governo Monti che, tra mille limiti, ha offerto una prima soluzione politica, di necessità e urgenza, a fronte degli interventi della magistratura inevitabilmente incuranti delle ricadute sociali, sarebbe stato solo immaginabile con un movimento guidato da Ingroia? Questo massimalismo di sinistra senza sinistra, perché privo di una radice e di uno slancio sociale, è in realtà il frutto di una lunga deriva della sinistra italiana, che precede la stessa discesa di Berlusconi. Di fronte al «pericolo» Berlusconi è stato largamente introiettato e tollerato ma, per quanto perfezionato, difficilmente potrà prendere una vera forma politica. Il suo momento più acuto l’ha toccato proprio durante lo scontro tra la procura di Palermo e il presidente della Repubblica, che tuttavia ha aiutato a fare chiarezza a sinistra, nel vasto mondo progressista (grandi partiti e grandi giornali) che aveva subito o coltivato i suoi germi, per opportunismo o per inedia. Che fosse l’occasione per rilanciare una battaglia aperta contro il cedimento culturale di una sinistra che, come avrebbe detto Sciascia, «ha sostituito la bilancia della giustizia con le manette», non si poteva sperare. Si sperava però che, dopo Berlusconi, fosse il tempo di un ripensamento profondo, del ritorno a un garantismo che è lode al diritto, alla civiltà, alla giustizia: tutto il contrario di quel garantismo «peloso» dei berlusconiani e delle cricche di affaristi che hanno affollato le istituzioni nell’ultimo decennio.
Queste elezioni, ahinoi, vedranno ancora uno spazio, crediamo piccolo, per la stanca riedizione della contesa tra berlusconismo e antiberlusconismo più deteriori. Da un lato, a superare il primo, dovrà pensarci un polo moderato di ispirazione europea, se ne sarà capace. Dall’altro, a chiudere i conti a sinistra con la perversione giudiziaria sarà una proposta di governo forte, che poggia su due pilastri, «moralità e lavoro». Bersani è una persona seria, onesta, riconosce Ingroia. In politica l’onestà è una precondizione indispensabile. Però non basta. Contano gli orientamenti, le scelte e il modo di vivere nelle istituzioni, per ricostruire una vera democrazia dopo le macerie berlusconiane. Non bisogna solo rispettare le leggi, o farle applicare. Bisogna fare leggi migliori, più giuste. È un altro mestiere.

il Fatto 23.12.12
Ingroia e l’antieroe Landini
di Paolo Flores d’Arcais

Maurizio Landini e Antonio Ingroia sono le due personalità cruciali per il futuro politico prossimo dell’opposizione civile che vuole realizzare la Costituzione. Landini ha stracciato tutti nei sondaggi della trasmissione di Santoro. Conosciamo l’obiezione: il “popolo” di Servizio Pubblico non è certo rappresentativo dell’Italia, e neppure del centro-sinistra, mediamente è più radicale. E i diecimila partecipanti ai sondaggi settimanali sono probabilmente più motivati, e dunque radicali, sempre mediamente parlando, dei due milioni e mezzo di spettatori. Tutto vero, e il loro non è un campione statistico “scientifico”. Non si dimentichi comunque che i sondaggi elettorali sono condotti spesso su mille o duemila italiani in rappresentanza di cinquanta milioni di elettori. Che Landini stracci Monti 91% a 9% era forse scontato, che sconfiggesse successivamente De Magistris (70% a 30%), Vendola (75% a 25%) e Grillo (62% a 38%) decisamente meno.
A PROCLAMARE Landini leader dei cittadini che vogliono “giustizia e libertà”, del resto, è stato Monti in combutta di reazionari sensi con Marchionne, quando i due hanno preteso che lo show di regime nella fabbrica Fiat di Melfi avvenisse bensì nel tripudio dei dirigenti e iscritti Cisl e Uil, ma impedendo che Landini e i metalmeccanici Fiom potessero varcare i cancelli. Il pensiero unico degli oligarchi italiani ha paura di un dirigente operaio che pensa. Leader politico dell’Italia che resiste, però, Landini si rifiuta di diventare. Sente che la sua vocazione è il sindacato e niente altro. Scelta nobilissima da vero “cuore forte” (altro che quelli evocati da Monti, cuori di pappa conformista), ma davvero razionale? Landini sa bene che il prossimo governo, con Bersani da solo o in accoppiata con Monti, non solo non adotterà nessun provvedimenti dei tanti proposti dalla Fiom, ma tratterà l’ultimo sindacato vero da insopportabile intralcio. Detto senza perifrasi: cercherà di farlo a pezzi. E senza una forza politica che faccia da sostegno alle lotte di resistenza operaia e civica che certamente ci saranno nel paese, il disegno riuscirà. Vendola non adotterà la bandiera dei carabinieri (“usi obbedir tacendo”) perché anzi pronuncerà narrazioni di alti lai, restando però a cuccia.
Una scelta esistenziale non si discute, ma se Landini vuole restare solo sindacalista, non sarebbe razionale che almeno spingesse suoi strettissimi “compagni d’arme” alla testa del “quarto polo” con Ingroia? Si sentono voci di quadri operai Fiom tentati dalla candidatura Sel, sarebbe un dolorosissimo ennesimo episodio di sindrome di Stoccolma (per quanto soft) visto che il prossimo governo (con dentro Vendola) farà una politica anti-operaia, malgrado unguenti e chiacchiere, è matematico.
INGROIA proprio a Landini si è rivolto, come primo interlocutore. Ingroia ha compiuto la scelta più impopolare, che gli costerà rancori e comunque aspri dissensi anche fra tanti che lo hanno sostenuto come magistrato. In questo senso nessuno può onestamente negare che abbia assunto una decisione esistenzialmente coraggiosa. Saprà avere altrettanto coraggio nella prosaica navigazione della campagna elettorale? Il primo coraggio è quello della coerenza assoluta. I cittadini che oscillano tra non voto, voto a Grillo, speranza di un polo “giustizia e libertà”, non tollerano neppure un’oncia di equilibrismi e discrasie tra dire e fare. Chiedere ai partiti di “fare un passo indietro” significa chiedere ai rispettivi dirigenti di non candidarsi, altrimenti è vissuto già come linguaggio politicante. Sia chiaro, l’operaio di Pomigliano con tessera di Rifondazione o la precaria del call center con tessera Idv sarebbero una ricchezza per le liste, ma i dirigenti, i professionisti della politica, quelli no, il “quarto polo” perderebbe la metà dei suoi voti potenziali. Paolo Ferrero ha già rinunciato. Di Pietro e Diliberto non ancora. Se non lo facessero dimostrerebbero di non aver ancora debellato del tutto la “sindrome della cozza” che avvita la Casta alle poltrone.

il Fatto 23.12.12
“Zurigo 11”, la sigla velenosa del ricatto al Professore
Il Pdl roda la macchina del fango: voci su un conto svizzero milionario del premier
Secca smentita di Palazzo Chigi
di Fabrizio d’Esposito

Interno Montecitorio, venerdì scorso. È l’ultimo giorno della legislatura, c’è il voto finale sulla legge di stabilità e il Professore è pronto per andare al Quirinale e dimettersi. Ma a scuotere i capannelli dei deputati è il tam tam insistente sul probabile no di Mario Monti alla candidatura a premier del centro moderato di Montezemolo, Riccardi, Passera, Casini e Fini. Un colpo di scena, o quasi. Dopo lo sprint iniziale per “scendere in campo”, il premier sembra bloccarsi e fare un passo indietro. Che cosa è successo?
SI CITANO sondaggi scoraggianti, il pressing asfissiante di Colle e Pd, finanche il braccio di ferro tra Monti e i suoi “partiti” sulla lista unica senza riciclati e vecchi arnesi provienienti dalla Prima Repubblica. Un deputato vicinissimo a Casini, scuro in volto, corre in aula e affida al cronista una frase ambigua e smarrita allo stesso tempo: “Non ci stiamo capendo più nulla, stiamo impazzendo”. La politica, come ripete spesso Paolo Cirino Pomicino, “una scienza esatta”. Perché, dunque, ricondurla a una dimensione di impazzimento come fanno i montiani del centro parlamentare, e proprio in riferimento alla personalità quadrata e taciturna del Professore bocconiano? Un tentativo di spiegazione arriva da un diva-netto. Ci sono seduti due finiani di rango, un tempo noti. Sibilano: “Berlusconi sta spaventando Monti con il metodo Boffo”. Ossia la fatidica macchina del fango che fece dimettere il direttore di Avvenire e poi lanciò la campagna della casa di Montecarlo contro il presidente della Camera. E qui si arriva al cuore dei veleni che circolano sull’improvviso dietrofront del Monti politico, non più tecnico super partes.
Il fango scorre tra i banchi del Pdl. Da lì rimbalza la voce (calunniosa, almeno fino a prova contraria) che vari peones riferiscono, con la presunta garanzia di autorevolissimi ex ministri berlusconiani: “Monti ha un conto di undici milioni di euro in Svizzera”. Si aggiunge il nome della città: Zurigo. La sintesi che va di bocca in bocca è sarcastica: “Chiamate Zurigo 11”. La sigla di un taxi. Quello su cui il premier alla fine sarebbe salito per scappare dalle offerte di centristi vecchi e nuovi. E giù sorrisi di compiacimento per questo veleno che ammorba l’ultimo giorno di una legislatura pessima, tra ricatti, compravendite di parlamentari e arresti (Alfonso Papa e Luigi Lusi). C’era da aspettarselo.
LA STORIA calunniosa di Zurigo 11, a detta di vari deputati del centrodestra, nasce dalla complessa trattativa tra il governo tecnico e la Svizzera per i capitali italiani, tra i 120 e i 150 miliardi di euro, depositati nel paradiso fiscale più famoso del mondo. Non solo. Nel gioco dei veleni incrociati c’è anche chi, nel Pdl, addebita questa voce ai nemici del Pd, anche per depistare. Il risultato è una nube tossica che vomita fango ovunque: “Zurigo 11 fa parte del pacchetto di minacce del centrosinistra a Monti. L’ambasciatore è Tizio”. “Tizio” (lo chiamiamo noi così) è un esperto deputato democratico, che ha ricoperto delicati incarichi nel partito. C’è anche un’altra versione in cui Tizio viene citato: “Tizio e Caio passeggiano a braccetto e stanno avvertendo i deputati dell’Udc: Berlusconi sta accumulando un’ampia documentazione su Monti”. Si ritorna al metodo Boffo. Dossier su dossier. “Caio”, invece, è un ex leader di primo piano del Pd. Palazzo Chigi smentisce nettamente qualunque voce su conti esteri del Professore.
Gli esegeti del fango strumentalizzano pure due frasi di Bersani contro l’ipotesi di Monti candidato premier dei moderati. La prima: “Io non farò campagna elettorale contro Monti ma quando il paesaggio cambia, cambiano le dinamiche. In campagna elettorale le dinamiche che scattano sono altre”. Le allusioni riguardano le “dinamiche”. Quali? La seconda: “Se vinciamo faremo subito una legge severa sul conflitto d’interessi”. Traducono alcuni esponenti del Pdl: “Siamo sicuri che si riferisse a Berlusconi e non a Monti, già consulente di banche internazionali? ”. A venire allo scoperto, però, sono soprattutto gli avvertimenti del Pdl, di cui il Fatto scrive a pagina due. Quello che è certo è che da mercoledì pomeriggio il destino di Monti è come impazzito. Al mattino, il vertice politico con Casini, Cesa, Riccardi e Montezemolo a Palazzo Chigi, requisito per una riunione di coalizione. Poi l’accelerazione del leader dell’Udc: “Monti in cuor suo ha già deciso”. Al pomeriggio la frenata del ministro Riccardi, custode dell’ortodossia montiana: “Monti sta riflettendo non ha deciso ancora”. In privato il ministro confida ai suoi fedelissimi: “Il Professore sta subendo tantissime pressioni per non candidarsi”. Giovedì e venerdì, infine, i giorni del progressivo ripensamento. Oggi per fortuna qualcosa dirà.

Repubblica 23.12.12
Cosa mi ha detto il Premier sul suo futuro in politica
Ecco il memorandum di Monti “Qualcosa mi dice di non candidarmi ma insieme va ricostruito il Paese”
“Centro e Pd dovranno allearsi dopo il voto. Mai con Berlusconi”
di Eugenio Scalfari

HO INCONTRATO Monti nel suo studio di Palazzo Chigi. Erano le nove e mezza del mattino e lui m’aveva invitato a prendere insieme un caffè. È stato un caffè molto lungo perché sono uscito alle dieci e tre quarti. In quest’anno del suo governo l’avevo incontrato una sola volta a Bologna dove con Ezio Mauro lo intervistammo nel teatro della città.
Eppure ci conosciamo da molto tempo: nel 1950 io dirigevo l’ufficio estero della Banca Nazionale del Lavoro nella filiale di Milano guidata da suo padre. Diventai amico del Monti senior che di tanto in tanto mi invitava a cena a casa sua insieme ad altri collaboratori del suo staff. Monti junior aveva più o meno dieci anni, io ne avevo ventisette. Ma molti anni dopo, quando lavorava alla Bocconi di cui poi fu rettore, diventammo amici, ci incontravamo e ci telefonavamo spesso e quando veniva a Roma spesso ci vedevamo a “Repubblica”.
Racconto queste cose per meglio inquadrare il nostro colloquio. Mentre scrivo queste righe non sappiamo ancora, né voi né io, che cosa dirà stamattina nella conferenza stampa con la quale si conclude la sua azione di governo. Annuncerà qualche cosa, ma che cosa? Nel pomeriggio di venerdì è andato al Quirinale a dimettersi dopo un breve Consiglio dei ministri che ha formalizzato le dimissioni del governo. Nel frattempo Camera e Senato avevano approvato la legge di stabilità finanziaria.
Non credo di commettere un’indiscrezione se racconto i passi principali del nostro colloquio. Due amici si scambiano opinioni sulla situazione politica mentre una legislatura finisce e un governo nato per gestire l’emergenza economica rassegna le dimissioni.

SIAMO all’inizio d’una campagna elettorale decisiva per molti aspetti, non solo per l’Italia ma anche per l’Europa di cui l’Italia è un tassello essenziale. Forse le cose che ci siamo dette possono servire a chiarire alcune questioni. Del resto non ci sono segreti da rivelare ma soltanto una trasparenza utile ad orientarci.
* * *
Che cosa pensi di fare? gli ho chiesto quando ci siamo seduti uno di fronte all’altro. Non avevo più messo piede in quella stanza dai tempi dell’ultimo governo Amato, alla vigilia delle elezioni del 2001. «Parla tu e dimmi come vedi le cose» ha risposto.
Io le cose le vedo così. Anzitutto, quale che sia il risultato che uscirà dalle urne, Monti è una persona indispensabile per garantire l’Italia di fronte agli alleati europei e americani e lui ne è pienamente consapevole. Del resto l’ha già detto più volte. Ricordatelo. Hai detto: sarò disponibile a dare il mio contributo se chi ha titolo per farlo me lo chiederà. Ricordo bene? «Sì, ricordi bene, ho detto così».
Il titolo per farlo ce l’ha anzitutto il presidente della Repubblica. Napolitano avrebbe preferito che si votasse ad aprile alla scadenza naturale della legislatura o al più presto a marzo; in quel caso non sarebbe toccato a lui dare l’incarico al nuovo capo del governo, bensì al suo successore. Alfano però, sotto la spinta di Berlusconi, dichiarò che il suo partito considerava chiusa la partita e nel tempo che restava avrebbe votato solo i provvedimenti che approvava. Sugli altri si sarebbe astenuto anche se fosse stata posta la questione di fiducia e così fece fin dalla prima occasione. In Senato, tra l’altro, l’astensione equivale a voto contrario. Insomma volevano cuocerti a fuoco lento per altri tre mesi. La tua risposta è stata quella di preannunciare le tue dimissioni immediate, non appena fosse stata approvata la legge di stabilità finanziaria. Napolitano si è molto rammaricato ma non con te bensì col partito che aveva provocato una crisi inevitabile. Io personalmente sono contento che le cose siano andate in questo modo perché dà molta più sicurezza agli italiani che il risultato elettorale e la formazione di un nuovo governo siano gestiti da Napolitano.
«Questa è anche la mia opinione».
Aggiungo ancora una riflessione a questo proposito: il Porcellum è una legge vergognosa perché confisca la libertà degli elettori di scegliere i loro candidati al Parlamento, ma consente però di decidere qual è la maggioranza alla quale affidare il compito di governare. Nelle attuali condizioni una legge elettorale a base proporzionale avrebbe eletto un Parlamento ingovernabile.
«Su questo punto non sono d’accordo, ci sono già 20 liste in preparazione, ti pare poco?».
Alcune si coalizzeranno tra loro e la maggior parte sono liste di peso numerico assai scarso. Quelle che contano in questa partita a scacchi saranno quattro o al massimo cinque: le liste di Berlusconi, il Centro, il Centrosinistra, Grillo, la Lega. «Non sono pochi». Hai ragione, non è poco ma non sono venti.
«Come valuti Berlusconi?».
Più forte di quanto molti pensino. Il suo vecchio elettorato l’aveva lasciato e preferiva astenersi, ma ora che è tornato in scena e farà campagna contro di te che sei accusato d’aver imposto sacrifici insopportabili sulle spalle dei “soliti noti” cioè delle fasce sociali deboli e del ceto medio, i suoi ex elettori in gran parte lo voteranno ancora. Aggiungi la sua propaganda contro i comunisti e vedrai che i suoi voti aumenteranno un bel po’.
«Per la sesta volta? Dopo aver visto quali danni ha fatto all’economia italiana e alla credibilità del paese?».
Il nostro, caro Mario, è un paese molto emotivo e di memoria assai corta. Ed è anche un paese con molti furbi. Il populismo c’è dovunque ma da noi più che altrove. I furbi scambiano il voto con qualche favore chiesto e ricevuto, i gonzi credono alle promesse che non saranno mai mantenute e si scordano d’esser già stati per cinque volte gabbati.
«A quanto valuti i berlusconiani?» Al 20 per cento e forse anche di più. «Anch’io faccio
analoghe valutazioni. Questo è uno dei motivi per i quali bisogna rafforzare il Centro: fare muro e limitare il riafflusso alla destra populista».
Ma tu quanto valuti il Centro, quello attuale, Casini, Fini, Montezemolo con il tuo ministro Riccardi? «Conosco i sondaggi. Così com’è, lo stimano tra il 9 e il 12 per cento». Così com’è vale a dire senza di te.
«Esattamente, senza di me». Loro però diranno che in ogni caso vogliono te a capo del nuovo governo. «Questo nessuno glielo può impedire». A te fa piacere? «Beh, sì, mi fa piacere». E se tu ti metti alla loro testa, quanto vali tu come moltiplicatore? «Questo non lo so. Vedo che i sondaggi su di me mi danno intorno al 40 per cento; alcuni anche di più».
Secondo me meriti di più, hai salvato il paese dal baratro in cui stava precipitando e gli hai ridato una credibilità che avevamo perso da tempo. Ma tieni conto che più del 60 per cento preferisce che tu non partecipi alla campagna elettorale. Ma c’è un ultimissimo sondaggio: se ti metterai alla testa del Centro, la loro quota aumenterà del 6 per cento. Dal 10 al 16. «Tu pensi che accadrebbe così?». Parliamo di sondaggi, valgono quel che valgono. Se il Centro facesse blocco con Berlusconi, arriverebbe almeno al 30 per cento se non di più.
«Sai bene che non lo farò mai». Certo che lo so. Però si dice che alcuni parlamentari del Pdl vorrebbero transitare in liste da te guidate. «Alcune persone per bene, sì, vorrebbero venire al Centro e io non sarei contrario». Mi viene in mente il nome di Pisanu, ma lì finisce l’elenco. «Ce n’è qualcun altro». Bada, non vanno oltre le dita d’una mano ma comunque la questione non è la transumanza dei parlamentari bensì il consenso degli elettori. Il Centro di Casini esiste ormai da molto tempo, quello di Fini da due anni, ma non hanno mai decollato. Casini oscilla tra il 6 e il 7, Fini con il 2. Non si muovono da lì.
«Perché sono politici fin da ragazzi e la gente non sopporta più i politici professionali. Si parla ormai di esperti e di società civile. È questo che non fa decollare il Centro, cioè i partiti che lo rappresentano e che non sono populisti. Questo è un loro pregio ma non porta voti. Un movimento della società civile forse li porterebbe».
Montezemolo, secondo te, rappresenta la società civile?
«Rappresenta in qualche modo le imprese. Riccardi è il fondatore di Sant’Egidio...». E rappresenta la Chiesa. Anche tu sei cattolico, ma non rappresenti la Chiesa. Io non credo che la religione si debba occupare di politica e di partiti. Purtroppo vedo che se ne occupa ma non credo sia sopportabile. Carlo Azeglio Ciampi è cattolico ma ha rappresentato il laicismo dello Stato. Lo stesso fece Scalfaro che era cattolicissimo ma laicissimo. Napolitano poi è tutt’altra cosa.
«Anch’io sono laico nel senso che tu intendi». Lo so e per questo dico che una lista imbottita di persone pur degnissime che fanno parte di Comunione e Liberazione o di Opus Dei, o di Acli o di altre analoghe associazioni del tipo delle cooperative bianche e dei coltivatori diretti cattolici, non è società civile ma Chiesa militante. Allora il piano cambia, si rifà la Dc.
«Nessuno di noi pensa questo e io non mi propongo un obiettivo del genere». Di te sono certo, di altri tuoi compagni di viaggio sono assai meno convinto. Può darsi che io abbia un pregiudizio su questo argomento, come sai sono laico e non credente. Ma ammiravo e frequentavo il cardinal Martini che non godeva di gran favore nella Chiesa di Bertone. Quanto alla Dc, c’era una forte sinistra nella Dc di allora. Non vedo una sinistra nell’eventuale Dc che nascesse oggi.
«Senti, sono stato a Melfi l’altro giorno...». Posso dirti che stare in una fabbrica da cui era esclusa la Cgil non ti giova? «Mi ha provocato molti attacchi, lo so, ma quel cortile era pieno di operai, migliaia di operai. Non credo che fosse una claque, erano lavoratori che vedevano tornare il lavoro. Per questo applaudivano. Mi sono commosso a vederli e ad ascoltarli». Capisco. Ma fuori dai cancelli ce n’erano altri di operai, che non sono stati fatti entrare. Questo non va bene, non ti pare?
«Infatti mi è dispiaciuto, ma non spettava a me di aprire i cancelli». Mi permetterai di dire che forse dovevi farne cenno nel tuo discorso. Comunque torniamo a te. Hai deciso? Lo dirai domenica nella conferenza stampa?
«Ecco il punto. Domenica farò un bilancio consuntivo dei miei 400 giorni di governo, come ho ereditato una situazione fallimentare e come la lascio oggi. Elencherò gli impegni presi con l’Europa e già adottati, e gli impegni non ancora attuati ma già previsti».
L’agenda Monti insomma. «Sì, gli impegni che ci hanno ridato credibilità e che non possono essere smantellati senza ripiombare nel precipizio che abbiamo evitato». Quello che Grillo contesta e i berlusconiani rimettono in discussione.
«Purtroppo li contestano anche la Camusso e Vendola. Questa è una forte differenza tra il Centro e il Pd».
Per quanto riguarda la Camusso, hai ragione, secondo me però è un personaggio con la quale bisognerebbe aprire un discorso serio.
«Tu l’hai fatto e scritto quando la mettesti di fronte alla politica riformista di Luciano Lama». Sì, lei mi rispose a male parole e soprattutto disse che la situazione di oggi è molto diversa da quella di allora. In questo però aveva ragione.
«Comunque la Cgil vuole smantellare l’agenda degli impegni con l’Europa. Questo è un obiettivo impensabile».
Bersani però ha riconfermato che il Pd rispetterà tutti gli impegni presi ed è andato a dichiararlo a Bruxelles l’altro giorno. L’aveva già detto ripetutamente nei dibattiti nelle primarie. Del resto io ricordo che tra gli impegni presi da te e dall’Europa c’erano anche equità e sviluppo. Il Pd ritiene che anche questi sono impegni da rispettare ma ancora evanescenti. Quanto a Vendola hai torto. Te lo dico perché tu ne tenga conto. Vendola vuole trasformare il welfare perché quello attuale – è lui che lo dice – non tiene conto della realtà, dei contratti nuovi e innumerevoli, della società invecchiata. Insomma
della modernità. Mette al primo posto la necessità di investire nella scuola, prima di ogni altro obiettivo secondo lui c’è quello: scuola, università, ricerca. Gli ho chiesto, in un incontro di pochi giorni fa, chi sono i suoi punti di riferimento, le persone rappresentative dei valori in cui crede e questa è stata la risposta: Gramsci e Gobetti. Mi ha sorpreso. Gli chiesto: e i fratelli Rosselli? Ha risposto: certo anche loro e il liberalsocialismo. Gli ho detto: ma da quanto tempo la pensi così? Ha risposto: da quando ho cominciato ad amministrare la Puglia, una delle regioni più grandi d’Italia e più moderne.
«Sarà così e ne sarei contento, ma per ora non parla in questo modo. Camusso, Vendola e molti altri nel Pd vogliono e dicono di voler smantellare quello che è stato fatto. Io sono del parere di Ichino che del resto è uno dei più fedeli a quel partito e credo nell’onestà intellettuale di Bersani».
Torniamo alla tua conferenza stampa. Gli impegni che hai effettuato e quelli che dovranno essere realizzati. E poi?
«Poi leggerò un messaggio, un memorandum, forse è meglio chiamarlo così, rivolto al Paese». Non anche alle forze politiche? «Al Paese, alla pubblica opinione e alle forze sociali e politiche».
E che cosa dirai?
«Proporrò un programma che a mio avviso dovrebbe essere attuato fin dall’inizio, nei primi cento giorni del nuovo governo». E cioè? «Una legge aggiuntiva contro la corruzione; quella varata poche settimane fa è stata di fatto concordata con la cosiddetta “strana maggioranza”, ma è manchevole, consapevolmente manchevole di alcuni punti importanti. Bisogna completarla. Altrettanto bisogna fare con le liberalizzazioni. Bisogna rendere più penetrante l’azione antitrust in favore della libera concorrenza. Portare a termine l’impegno di abolizione delle Province. Cambiare la legge elettorale basandola sui collegi. Dimezzare il numero dei parlamentari. Portare avanti al riforma fiscale. Difendere fino in fondo la riforma delle pensioni. Cambiare il welfare e creare un sistema generale di ammortizzatori sociali. E soprattutto investire nelle scuole superiori, nell’università e nella ricerca».
Ci sono molti punti comuni con il Pd. «Certo». Tu pensi ad un’alleanza post elettorale?
«La considero indispensabile. Dobbiamo ricostruire la pubblica amministrazione e costruire lo Stato dell’Europa federale. Ti sembrano compiti che possano essere portati avanti da un solo partito? Ci vuole una grande alleanza perché si tratta di una vera e propria rivoluzione».
Ma poi che altro dirai? Ti proponi come portabandiera e leader del Centro?
«Non lo so ancora. Ma dentro di me qualcosa mi dice di no. Chi si impegna nelle elezioni lo fa per vincere. Poi ci si può anche metter d’accordo ma alcune ferite possono essere inflitte da una parte e dall’altra. Io non voglio che questo accada tra due forze che poi dovranno necessariamente stare insieme».
E allora?
«Allora ci dormo sopra. So che Napolitano preferirebbe che io, pur incoraggiando la parte politica a me più congeniale, restassi in panchina. Vedrò. La notte porta consiglio. Intanto Buon Natale».
Ci siamo dati la mano e mi ha accompagnato fino all’ascensore. Davanti ai commessi e ad alcuni suoi collaboratori mi ha abbracciato. Sobrio in privato, affettuoso in pubblico. Avrà certo le sue ragioni. A me ha fatto molto piacere.

il Fatto 23.12.12
Risponde Furio Colombo
Gli italiani e gli immigrati

CARO FURIO, ti scrivo nella giornata che l'ONU dedica ai migranti (18 dicembre) e mentre leggo un rapporto di Amnesty International che classifica l'Italia uno dei peggiori Paesi nei confronti di coloro che vengono a cercare salvezza nel nostro Paese. Ti chiedo perché proprio noi, siamo e siamo stati così crudeli, indifferenti e incapaci?
Liliana

PERCHÉ noi siamo il Paese della Lega, partito di profittatori fondato sulla paura, e su rozzi sentimenti di paleo-fascismo. Perché noi siamo il Paese di Berlusconi, che ha messo nelle mani di un partito secessionista e razzista il ministero dell'Interno, dando cioé ai peggiori tutti gli strumenti di persecuzione. E lo ha fatto perchè in cambio voleva voti per le sue leggi ad personam. Perché l'Italia è il Paese della “Bossi-Fini”, la peggior legge europea contro persone più deboli e indifese. Perché abbiamo tollerato (istituzioni, Chiesa e media) che il capogruppo della Lega Nord al Parlamento europeo fosse il pregiudicato Borghezio, celebre per eventi di stampo nazista. Perché - in omaggio e ubbidienza all'editore - padrone Berlusconi, i media italiani, a cominciare dalla televisione di Stato, si sono prestati a tacere su fatti disumani e nessuna inchiesta è stata mai tentata, neppure dopo l'uscita dal potere di Berlusconi, sui migrantimorti nel Mediterraneo senza soccorsi e senza altra politica che non fosse il famigerato "respingimento in mare" attuato con la complicità criminale di Gheddafi. Perché ci siamo legati a Gheddafi, con una stretta e "fraterna" alleanza, accogliendo come un sovrano uno dei dittatori più crudeli, specializzato in uccisioni si massa nelle sue prigioni, oppure nella vendita dei prigionieri ai predoni del Sahara (gli stessi prigionieri che vengono venduti o uccisi nel Sinai in caso di mancato pagamento, dopo essere stati trasportati in catene da un ignobile mercato all’altro). Noi, la Repubblica italiana nata dalla Resistenza, siamo stati il Paese e il governo che più hanno infierito sulla condizione di debolezza e di sottomissione degli immigrati. Il Paese che ha inventato il delitto di "clandestinità" estraneo a ogni sistema giuridico democratico, che ha riempito le sue prigioni sovraffollate, per metà di non italiani spesso del tutto incolpevoli o colpevoli solo di reati inventati dalla burocrazia di un governo incivile ed estraneo alle regole democratiche, che ha lasciato senza pasti i bambini nelle scuole e ha tentato di lasciare senza cure i colpevoli dell'inesistente reato di clandestinità. L'immagine internazionale dell'Italia come si vede è pessima e tutto ciò ha a che fare con la fiducia, che il Paese sotto Berlusconi ha cominciato a perdere. Questa non è la descrizione dei cittadini italiani, che sono colpevoli di astensione ma non di partecipazione alla crudele stupidità Berlusconi-Bossi. E deve essere un omaggio alla massa di immigrati e clandestini che, nonostante tutto quello che è stato detto in questa pagina e provato dagli eventi (e peggiore di quanto qui detto, nella realtà quotidiana) non si sono mai abbandonati ad atti di rivolta o di violenza e fino a ora hanno violato le leggi del Paese ospitante meno, molto meno dei cittadini italiani.

l’Unità 23.12.12
«In Siria l’orrore contro i bambini»
Colloquio con Carla Del Ponte
Magistrato, svizzera, fa parte della commissione Onu sui diritti umani
È stata procuratore capo del Tribunale internazionale per l’ex-Jugoslavia
di Umberto De Giovannangeli

Pesa le parole, perché la sua lunga esperienza di magistrato in trincea le ha insegnato il valore di affermazioni che «lasciano il segno nella vita di una persona o in quella di un popolo». La sua vita in trincea, la trincea del diritto, l’ha portata a fare i conti con la «banalità del male» che ha provocato tragedie indicibili e crimini che restano, come macchie indelebili, nella storia dell’umanità. Ieri in Bosnia, oggi in Siria. Il martirio dei più deboli, degli indifesi raccontato da Carla Del Ponte, ex procuratrice generale del Tribunale per la ex Jugoslavia (Tpi) e oggi nella commissione d’inchiesta dell’Onu per la Siria. Con l’Unità, Carla Del Ponte ribadisce l’atto d’accusa presentato nei giorni scorso nel suo rapporto alle Nazioni Unite. Quello che l’ex procuratrice del Tpi delinea è un quadro agghiacciante, che inchioda la comunità internazionale alle sue responsabilità, morali, prim’ancora che politiche. «La situazione in Siria dice è a un punto catastrofico. Le violenze hanno raggiunto picchi di crudeltà elevatissimi, come l’inaccettabile utilizzo dei bambini in guerra, e non c’è una soluzione militare al conflitto, ma solo un negoziato metterà fine alla crisi».
Ma questo auspicio si perde nell’impotenza, imbelle se non complice, dei grandi della Terra e in una quotidianità marcata dall’orrore e dal sangue. Bastano queste parole per dar conto di ciò che è il mattatoio siriano, nel quale, rimarca Del Ponte, «ho visto cose peggiori che nei Balcani»: peggiori delle fosse comuni, della carneficina di Srebrenica, degli stupri di massa....
E le cose continuano a peggiorare. «Assolutamente sì annota Del Ponte Da alcuni mesi la situazione è veramente catastrofica, non ci sono solo i crimini commessi dal regime, ma anche dall’altra parte, quelli che chiamiamo resistenti, che non scherzano in fatto di qualità dei crimini. Sto vedendo delle cose che non avevo mai visto e soprattutto quello che non avevo mai visto nella guerra dei Balcani è il coinvolgimento dei bambini. Come messaggeri di guerra, quindi a rischio enorme e proprio come combattenti, una cosa inaccettabile».
Le cose peggiorano. Nonostante gli appelli alla moderazione, i moniti di un intervento militare esterno. Nonostante ripetuti tentativi di giungere ad una tregua conclusasi con un fallimento. La parola resta alle armi. Ma Carla Del Ponte non vede, dal suo osservatorio in «trincea», una possibile soluzione militare del conflitto. «Da quello che riscontriamo nella nostra attività investigativa spiega una soluzione militare non è da vedere, perché il regime è ancora molto forte anche sotto il profilo militare e poi vorrebbe dire solo molte più vittime e rifugiati, sarebbe una situazione assolutamente peggiore. L’unica soluzione possibile è il negoziato».
IL RAPPORTO ONU
Cosa sia diventata la guerra in Siria, lo sintetizza chiaramente l’ultimo rapporto della Commissione d’inchiesta Onu, di cui Carla Del Ponte fa parte, che riguarda il periodo 28 settembre -16 dicembre 2012; rapporto elaborato senza poter entrare nel Paese, ma intervistando oltre 1.200 testimoni e vittime: «Il conflitto in Siria, che si avvicina alla fine del secondo anno, è diventato chiaramente un confronto tra etnie, tra alawiti e sunniti, con le altre minoranze etniche costrette a prendere le armi per difendersi, e molti combattenti che vengono da altri Paesi». Ed ancora: «Le forze governative e le milizie vicine al governo hanno attaccato civili sunniti e ci sono informazioni credibili di gruppi armati anti-governativi che attaccano alawiti ed altre minoranze pro-governative...». «Molti combattenti stranieri giunti in Siria per unirsi ai gruppi armati governativi o combattere indipendentemente accanto a loro sono sunniti provenienti dai Paesi del Medio Oriente e del Nord Africa», viene aggiunto. Mentre la «crescente natura settaria del conflitto fornisce un motivo ad altri attori di entrare nel conflitto», osserva il rapporto. Anche questo incalza la magistrata ticinese è un elemento molto pericoloso e lo sarà di più soprattutto nel dopo, ossia quando il presidente Assad non sarà più in carica e il regime sarà cambiato perché questi mercenari che combattono al fianco degli opponenti sono molto addestrati alla guerra, e ci si chiede come mai i ribelli abbiano accettato di essere affiancati da queste milizie. Forse perché hanno tecniche di guerra molto migliori e sanno come riuscire, però una volta terminato non se ne andranno tranquillamente via dalla Siria. Quindi, in quella che sarà la soluzione di negoziazione, questo sarà un aspetto molto difficile da affrontare». E tutto ciò rappresenta un inquietante ipoteca sul futuro della Siria del dopo-Assad.
Il presente è cronaca di guerra che, nella giornata di ieri, registra un nuovo attentato a Damasco (almeno 5 morti, decine i feriti) e l’uccisione di un cameraman della tv di Stato colpito dal fuoco di una «milizia terroristica» fuori dalla propria abitazione nei pressi di Damasco. A riferirlo è la stessa emittente televisiva, la Syrian arab television, Il presente è la minaccia dei ribelli rivolta, attraverso un video, agli abitanti di due località cristiane nella regione di Hama, nel centro della Siria: «Ribellatevi alle milizie del dittatore o sarete loro complici e ne pagherete le conseguenze».
IL DRAMMA RIFUGIATI
Una tragedia nella tragedia è quella dei rifugiati. Un esodo biblico. «Questa imponente crisi umanitaria richiede un sostegno urgente da parte di governi, aziende e singoli individui», dice Panos Moumtzis, Coordinatore regionale dell’Unhcr per i rifugiati siriani. «Se questi contributi non giungeranno al più presto avverte non saremo in grado di rispondere nella maniera più adeguata alle necessità vitali dei civili che fuggono dalla Siria, molti in condizioni davvero disperate». «Siamo costantemente sconvolti dalle terribili storie che ci raccontano», prosegue Moumtzis. «Le loro vite sono in subbuglio. Hanno perso le loro case e i loro familiari. Quando finalmente riescono a raggiungere il confine sono esausti, traumatizzati e senza risorse su cui fare affidamento». Una testimonianza angosciante che rende ancor più possente la denuncia di Carla Del Ponte: «In Siria è peggio che in Bosnia».

Corriere 23.12.12
Il destino bellicoso dei leader asiatici
di Luigi Ippolito

Q uattro leader segnati dalla Storia: personale e collettiva. Intenti a scrutarsi l'un l'altro con sospetto e diffidenza dalle rive del Pacifico. Ognuno gravato da un carico di memorie che scorre assieme al sangue delle vene. Tre sono giunti al potere da poche settimane, il quarto si è unito alle celebrazioni sparando nello spazio un missile balistico.
A novembre è stato il turno di Xi Jinping di assumere il timone della Cina comunista, al termine di una selezione rigidamente coreografata. Questo mese il voto popolare ha portato Shinzo Abe alla testa del governo giapponese e la signora Park Geun-hye alla presidenza della Corea del Sud. Mentre l'anno scorso il paffuto Kim Jong-un, non ancora trentenne, aveva ereditato il regno pauperistico della Corea del Nord.
Xi è un principe rosso, figlio di Xi Zhongxun, eroe della Rivoluzione maoista e tra i fondatori della guerriglia comunista, forgiata nel fuoco della lotta anticoloniale contro i giapponesi. Abe invece è il nipote di Nobusuke Kishi, ministro durante la seconda guerra mondiale che svolse un ruolo nel controllo della Manciuria occupata da Tokio. La signora Park è la figlia di Park Chung-hee, il dittatore assassinato nel 1979 che nei suoi vent'anni di potere trasformò la Corea del Sud in un Paese moderno fronteggiando allo stesso tempo la sfida del Nord comunista. Mentre Kim è il nipote di Kim Il-sung, il Grande Leader fondatore della Corea del Nord al termine della guerra anti-giapponese.
Ce n'è abbastanza per dire che figli e nipoti hanno in mano un copione scritto dai loro antenati. E che in particolare tre potenziali conflitti vanno osservati da vicino. Il più immediato è quello fra le due Coree. Negli ultimi anni i rapporti fra Pyongyang e Seul si sono gravemente deteriorati, con una serie di incidenti culminati nel marzo del 2010 nell'affondamento di un vascello sudcoreano e la morte di 46 marinai. Il giorno dopo la sua elezione, la signora Park ha tenuto a sottolineare la «grave» minaccia per la sicurezza tuttora rappresentata dal regime di Kim.
Non meno spinoso è il rapporto fra la Corea del Sud e il Giappone. Gli Stati Uniti premono per una più stretta collaborazione fra i loro due principali alleati nel Pacifico. Ma di mezzo c'è il passato. I sudcoreani sono convinti che i giapponesi non abbiano fatto abbastanza ammenda dei loro trascorsi coloniali. E ora al governo a Tokyo c'è il nazionalista Abe, che arriva anche a negare l'infame pagina di storia che vide le truppe nipponiche sequestrare migliaia di coreane per impiegarle come schiave del sesso.
Ma la contesa potenzialmente più pericolosa è quella fra Giappone e Cina. Il pretesto è offerto dalla disputa sulle isole Senkaku, un pugno di scogli disabitati controllati da Tokyo ma rivendicati da Pechino, che li chiama Diaoyu. I cinesi, desiderosi di riscattare le umiliazioni del passato, li rivogliono indietro, anche per proiettarsi nel Pacifico oltre la «prima catena di isole». I giapponesi con Abe sono pronti a stracciare la costituzione pacifista e non hanno più alcuna voglia di continuare a cospargersi il capo di cenere. E qualche consigliere del neopremier si spinge a teorizzare che Tokyo avrebbe la capacità di prevalere in una guerra navale con Pechino.
L'Occidente è al momento ripiegato su se stesso, con l'Europa intenta a districarsi dalle spire della crisi del debito sovrano e l'America di Obama interessata più che altro alla «ricostruzione interna». Ma distogliere lo sguardo da quanto avviene sulle sponde dell'Asia sarebbe un errore, perché un conflitto fra i giganti del Pacifico lancerebbe scosse telluriche da far tremare il globo.

Repubblica 23.12.12
La Gran Bretagna al referendum sull’Europa
di Timothy Garton Ash

All’approssimarsi del quarantesimo anniversario dell’ingresso della Gran Bretagna in quella che nel lontano 1973 era ancora semplicemente la Comunità Economica Europea, esiste una sola strategia di politica interna valida per portare avanti la complicata politica europea del Regno Unito. I leader dei tre maggiori partiti del parlamento di Westminster, conservatori, laburisti e liberaldemocratici, devono cioè impegnarsi ad indire un referendum, una volta che la nuova Unione Europea sarà uscita dalla crisi dell’Eurozona e saranno chiare le condizioni dell’adesione britannica, per stabilire se restare dentro o uscirne. Dato che con tutta probabilità l’Eurozona si salverà, ma solo con grande lentezza, a tappe, nello stile della Merkel, e dato che la posizione della Gran Bretagna si potrà chiarire solo una volta emerse le conseguenze politiche del salvataggio, il referendum si farà, stando alle proiezioni attuali, tra il 2015 e il 2020, durante il mandato del prossimo parlamento britannico.
Il premier David Cameron dovrebbe promettere il referendum nel tanto atteso discorso sull’Europa, ora fissato per metà gennaio. Se il leader dei Laburisti, Ed Miliband, e il liberaldemocratico Nick Clegg avranno fegato lo bruceranno sul tempo, cavalcando la tigre delle istanze indipendentiste dell’Ukip. Tutti quanti i partiti potranno comunque fare riferimento alle approfondite analisi sulla ‘ripartizione delle competenze’ tra Unione Europea e Regno Unito, condotte nell’ambito di vari dipartimenti governativi britannici, che saranno completate solo nel 2014 e fungeranno da base per il dialogo tra le due sponde della Manica. Esisterà allora una posizione nazionale ben definita. I cittadini britannici avranno la possibilità di prendere una decisione sulla permanenza nell’Unione solo quando sarà chiaro da cosa usciranno e in cosa resteranno. La questione è assolutamente prioritaria.
L’opinione pubblica britannica è favorevole al referendum. In un sondaggio YouGov di qualche tempo fa il 67% degli intervistati si è detto favorevole ad un ‘referendum sul rapporto tra Gran Bretagna ed Europa da tenersi a distanza di qualche anno’. Benché nella democrazia rappresentativa l’uso del referendum debba essere limitato, questo tipo di consultazione è diventato parte integrante dell’evolversi della costituzione britannica. A quarant’anni di distanza dall’ultima consultazione diretta sul tema europeo, il referendum del 1975, è giusto dare ai britannici una nuova occasione perché l’Unione Europea di oggi ha una portata ben diversa rispetto al cosiddetto mercato comune di allora.
Indire un referendum prima del 2015, come insistono certi conservatori euroscettici, equivarrebbe ad una totale perdita di tempo e ad un ingente dispendio di denaro dei contribuenti. Non sapremo ancora quale sarà l’Unione Europea del dopo crisi e non si può ‘rinegoziare’ la convivenza della Gran Bretagna in una casa sconosciuta, unifamiliare o bifamiliare che sia. ‘Rinegoziare’ e ‘rimpatrio dei poteri’ sono termini in voga tra gli euroscettici che il Labour e i liberaldemocratici probabilmente non vorranno usare. La verità però è che la Ue è permanentemente in negoziato, oggi più che mai. Inoltre ‘rinegoziare’ può significare in pratica qualunque cosa, da un minimo aggiustamento marginale (come dimostrò il premier laburista Harold Wilson prima del referendum del 1975 ‘rinegoziando’ ai minimi termini) fino ad un piano di completo distacco istituzionale, che ponga la Gran Bretagna sullo stesso fiordo della Norvegia, (che non è paese membro della Ue ma deve ottemperare a gran parte dei regolamenti dell’Unione per poter accedere al mercato europeo).
Quindi i leader dei tre maggiori partiti britannici dovrebbero impegnarsi ad indire il referendum “dentro o fuori”, ma tutti e tre finora hanno cercato di svincolarsi. Perché? Il premier Cameron paventa ripercussioni negative sul suo mandato di premier ed un effetto dirompente all’interno del suo partito. Miliband teme che il referendum proietti un’ ombra sinistra sul suo governo se il Labour vincerà le elezioni del 2015. Clegg ha timore che faccia perdere al partito Liberaldemocratico anche i pochi voti che gli ultimi sondaggi gli attribuiscono. In breve, per usare un termine reso popolare da Margaret Thatcher, tutti sono ‘frit’ (espressione dialettale per frightened, spaventati). Sembra una parodia in stile MontyPython della sparatoria finale del film western: «Il Buono, il Brutto e il Cattivo». Tre ottimi tiratori che si fissano negli occhi sotto il sole cocente – solo che nella versione britannica piove, le pistole sono ad acqua e i tre segretamente non vedono l’ora di andarsene a bere una buona tazza di tè.
Ma non possono, e non devono. È vero, l’Europa non rientra tra le massime priorità degli elettori britannici. La gente ha in mente i posti di lavoro, il costo del carburante, la scuola, gli ospedali, la criminalità, l’immigrazione. Ma pensa anche all’Europa. Quando, se sarà, le cose andranno meglio in patria e i contorni della Ue post crisi saranno più definiti, i cittadini vorranno essere consultati. Se tutti e tre i leader di partito, il Buono, il Brutto e il Cattivo – lascio a voi decidere come distribuire i ruoli – dovessero accordarsi in questo senso, può darsi che nei prossimi anni la questione europea perda addirittura importanza in Gran Bretagna.
Non sarebbe però il caso di rimandare il referendum alle calende greche. In questo caso il domani è vicino, arriverà tra il 2015 e il 2020. Dopo più di quarant’anni
avremo nuovamente la possibilità di condurre un dibattito serio sulla posizione della Gran Bretagna in Europa e nel mondo – ben diverso dalla guerra montata dai tabloid che abbiamo vissuto nei vent’anni successivi al trattato di Maastricht, difficile parto dell’allora primo ministro conservatore John Major. Sarà compito dell’attuale governo conservatore liberaldemocratico e del governo successivo, qualunque sia il suo colore politico, porre le basi, collaborando per quanto possibile con i partner europei, per ottenere l’accordo più vantaggioso per la Gran Bretagna. Tutto questo è fattibile, lo dimostra l’ottima decisione recentemente assunta sull’unione bancaria dell’eurozona. Nella Ue c’è chi ci vedrebbe volentieri girare sui tacchi (come si dice in francese?) ma anche chi, e sono molti, non da ultimi i tedeschi e i polacchi, davvero auspica che restiamo.
La mia attività di saggista ed editorialista è da sempre legata alle tematiche europee e personalmente guardo con entusiasmo alla prospettiva di un grande dibattito referendario. Credo che saremo noi filo europei a vincere, anche se molti dei miei amici temono il contrario. Non penso che i britannici si siano fatti frastornare dai miti euroscettici spacciati dal Sun e dal Daily Mail al punto da decidere che uscire dalla Ue e ritrovarsi come la Norvegia, ma senza petrolio, o la Svizzera, sia l’opzione migliore per questo paese. E se invece vinceranno gli euroscettici? Beh, sarà un errore storico, ma lo avrà voluto il popolo. Sono un sostenitore del progetto europeo, ma ancor più credo nella democrazia. Forza allora, votiamo, e vinca la logica migliore.
Traduzione di Emilia Benghi

l’Unità 23.12.12
Torna la Storia del partigiano Bocca
di Oreste Pivetta

GIORGIO BOCCA È MORTO GIUSTO UN ANNO FA, NELLA NOTTE DI NATALE... AVEVA PASSATO I NOVANT’ANNI, SE LA SENTIVA. L’avevamo chiamato pochi giorni prima e il saluto era stato come l’annuncio di un addio. Rimarrà nel nostro ricordo come il «partigiano Bocca», il ragazzo di una «generazione di ferro» che aveva scelto la «responsabilità totale nella solitudine totale» (sono parole di Claudio Pavone), non aveva temuto allora di affrontare i nazifascisti e aveva saputo poi resistere ai poteri vecchi e nuovi, difendendo la propria rivolta anche dalle insidie dell’amarezza e della delusione.
Fino all’ultimo continuò a pensare l’antifascismo come l’unico, possibile tratto fondante di un virtù nazionale.Come non ha mai trascurato di ricordare e di scrivere e come ci ha spiegato in un libro che è la sua ricerca più densa e corposa sugli anni della Resistenza: Storia dell’Italia partigiana. Settembre 1943 maggio 1945, un libro che apparve nel 1966, per Laterza, che fu più volte ristampato e che Feltrinelli ripubblica ora, con l’aggiunta di uno scritto di Marco Revelli.
Storia dell’Italia partigiana è il risultato di un lavoro rigoroso. Lo scrupolo nell’indagine s’accompagna ad un linguaggio semplice, lo stesso che ritroviamo nelle pagine migliori di Bocca giornalista e scrittore, perché l’intento è la divulgazione, l’impegno... un impegno morale, è far conoscere quegli anni di lotta partigiana, che condurranno alla Liberazione e alla nascita dell’Italia repubblicana. Bocca sottolinea il peso decisivo della Resistenza nella sconfitta dei nazifascisti, contrastando la tesi assai diffusa di una indifferenza della lotta antifascista nello scontro tra occupante tedesco e esercito alleato.
IL FUTURO DEL PAESE
Ricorda i centomila partigiani combattenti, le migliaia di caduti, ricorda che quello italiano fu il più forte movimento in Europa. Ma soprattutto ci dice che senza la Resistenza l’Italia sarebbe rimasta una monarchia, che senza la Resistenza non sarebbe stata scritta quella Costituzione, fondamento della nostra democrazia. Non fu una rivoluzione sostiene Bocca perché non si possono attribuire alla Resistenza le causali classiste e ideologiche di una rivoluzione. Fu una guerra politica, «la cruenta, penata gestazione di un’Italia diversa». Se poi il risultato non fu raggiunto a pieno, se la Resistenza non riuscì, da sola, a rigenerare un paese degradato da un malgoverno secolare, le ragioni sono tante: per prima la profondità dei guasti e poi la spartizione del mondo fra i vincitori e la restaurazione frutto della guerra fredda. Bocca conclude la sua ricerca citando pagine di Norberto Bobbio, là dove il filosofo nega l’esaurimento o il fallimento o il tradimento della Resistenza. Definisce invece la Resistenza come «incompiuta», «purché si intenda e citiamo anche noi Bobbio la incompiutezza propria di un ideale che non si realizza mai interamente, ma ciononostante continua ad alimentare speranze e a suscitare ansie ed energie di rinnovamento». Incompiuta, ma non esaurita lezione, ancoraggio e insieme orizzonte possibile. Così la Resistenza appare sempre a Bocca, nei giorni della pace come in quelli del terrorismo o in quelli, che detestava, del berlusconismo. Non fece in tempo a giudicare la svolta montiana.
Storia dell’Italia partigiana ha il pregio di restituirci geografia e cronaca, battaglie e politica della lotta partigiana e poi il dettaglio delle vite sui monti, dolori, morti, fughe, sofferenze, accanto a momenti di esuberante vitalità. È il racconto di una guerra civile e la testimonianza diretta e appassionata della ricerca di un sentimento comune e di una cultura, nei quali ritrovare una identità e una comunità nazionali, ricerca che si traduce nella tessitura di una rete di governo democratico del territorio e i cui segni si intravvedono comunque nella solidarietà che si stabilisce «lassù in montagna» tra ribelli e montanari, contadini e pastori.
Sono i pastori che dividono poco latte e poco formaggio in baita con i partigiani, sono i contadini che rinunciano alle lire di risarcimento che i partigiani distribuiscono dopo la rappresaglia nazista a mostrare il vento nuovo. Anche in questo caso si potrebbe scrivere di una impresa «incompiuta». L’Italia del dopoguerra non sempre manterrà quella strada di unità (la ritroverà talvolta e più spesso di fronte ai grandi lutti nazionali, come ha ben spiegato Giovanni De Luna nel suo La Repubblica del dolore, saggio edito da Feltrinelli).
Tuttavia Bocca non trascurerà mai di rammentare quel valore proprio della Resistenza. Anche nella introduzione all’edizione del 1995, dopo aver sintetizzato i tempi della rivolta dagli scioperi operai del ’43 alla formazione delle prime bande alla «occupazione» di tutte le valli appenniniche e alpine, noterà: «Il fatto nuovo, decisivo, non ignorabile non era solo e tanto quello militare, ma il consenso di popolo». Come in tutte le guerre di liberazione, il consenso popolare è l’elemento determinante, è l’acqua «in cui la ribellione ha potuto nuotare».
«UNA MERAVIGLIOSA VACANZA»
Giorgio Bocca lo abbiamo conosciuto giornalista e ci ha lasciato memorabili reportage, lo abbiamo conosciuto scrittore, a volte ripetitivo, ma capace anche di grande letteratura e le prove sono la sua splendida autobiografia, Il provinciale, o la raccolta Fratelli coltelli... Ma Giorgio Bocca fu soprattutto un partigiano, anzi «un partigiano della montagna», come richiama il titolo del suo primo libro, Partigiani della montagna, pubblicato a Cuneo già nel 1945, appena dopo la Liberazione. L’esperienza partigiana lo accompagnerà per tutta la vita: «Una meravigliosa vacanza», la definirà con schiettezza citando un altro grande partigiano, Dante Livio Bianco perché comunque lassù in montagna si viveva una storia di straordinaria libertà. Fu quella esperienza a fare di Bocca quello che è stato, furono quei mesi occasione di crescita e di rivelazione a se stesso e diventarono il baricentro dal quale non si allontanerà mai.
Giorgio Bocca era di Cuneo, nato il 28 agosto 1920. Era uno sportivo, sciatore, aveva vinto ai Littoriali, studiava legge a Torino e si era iscritto al gruppo universitario fascista. Del Guf di Cuneo era persino diventato il reggente, quando il segretario Detto Dal Mastro, futuro comandante partigiano e futuro cognato, era stato richiamato alle armi: «Nella sede del Guf facevamo delle cene antifasciste, arrivavano tutti i miei amici e facevamo una bella cardata parlando male di Mussolini».
Andò sotto le armi e il 25 luglio dell’armistizio era in caserma a Cuneo: vide Dal Mastro e Duccio Galimberti, l’avvocato, medaglia d’oro della Resistenza, assassinato dai fascisti, entrare per rifornirsi di armi: «Sono stati i primi a capire che la guerra non finiva subito e che bisognava andare in montagna. Lì seguì, mentre i tedeschi si preparavano ad occupare la città e la pianura attorno.
Passata la bufera, il lavoro di giornalista. Qualche prova l’aveva già sostenuta, ragazzo, a Cuneo. Alla Liberazione aveva cominciato a scrivere sul giornale di Giustizia e Libertà, poi era passato alla Gazzetta del Popolo. Dopo sette anni, il viaggio a Milano, prima all’Europeo e poi al Giorno di Mattei, dell’Eni e di Italo Pietra, ex partigiano nel Pavese. Quindi nel 1976 il salto a Repubblica, dall’origine, con Scalfari direttore. Proverà la televisione con Berlusconi, ma chiuse alla svelta. Non solo incompatibilità politica e culturale, anche probabilmente idiosincrasia per il mezzo: Bocca era uomo di scrittura. Di una scrittura rapida, forte, dura, a larghe pennellate.
Anni fa l’Unità ristampò e distribuì la sua biografia di Togliatti, apparsa nel 1973, contestatissima dai vertici del Pci. Ne fu felice. Sentì quell’iniziativa come un risarcimento e un riconoscimento della sua onestà. Disse d’aver stimato più di tutti Enrico Berlinguer: «Era uno con cui non vedevo nessuna differenza».

il Fatto 23.12.12
Il documento
Quando la Cia usava gli ex 007 nazisti contro il nemico rosso
di Marco Dolcetta

Il 22 giugno 1941 più di 3 milioni di soldati tedeschi, su un fronte lungo 400 chilometri, iniziano l’Operazione Barbarossa, nome in codice dell’invasione della Russia. Il sogno di Adolf Hitler è ottenere un milione di chilometri quadrati dell’Urss per lo “spazio vitale” per la Germania. Le truppe sono precedute da un nutrito contingente di spie. Poco meno di un anno dopo, il 1° aprile 1942, Hitler sostituisce il capo dello spionaggio antirusso designando un oscuro colonnello dello Stato maggiore, Reinhard Gehlen, che diventerà uno specialista dell’anticomunismo. Gehlen acquisisce una conoscenza del nemico pressoché perfetta ed è tra i primi a informare i suoi superiori che la situazione militare sul fronte russo si sta deteriorando.
Utili voltagabbana, “riprogrammati” e tornati a servire la Germania post-bellica
Anni dopo, poco prima dell’ingresso delle truppe sovietiche a Berlino, Gehlen e Guderian consegnano a Hitler una cruda relazione in cui si descrive con cifre, piani e fotografie il quadro tragico di una capitale ormai indifendibile. Hitler s’infuria e ordina a Guderian di internare il capo dello spionaggio in manicomio, ma viene placato dai generali. Qualche tempo dopo, Gehlen presenta a Hitler un piano di difesa interna, per quando i russi saranno diventati i padroni di Berlino: a metterlo in atto per sabotare l’invasione saranno i gruppi di guerriglieri urbani, i “Lupi mannari”. Hitler lo rifiuta ritenendolo disfattista. Gehlen viene destituito dal proprio incarico il 9 aprile 1945. A metà aprile si nasconde assieme a 5 ufficiali del suo Stato maggiore sulle Alpi bavaresi, dove prende contatto con gli occupanti nordamericani.
Nel corso di un incontro che ebbi con lei nel-l’estate 2004, Cristina Gehlen, nipote del generale e figlia del filosofo Arnold Gehlen, che vive a Roma, mi raccontò: Mio zio, durante il lungo tirocinio cui è stato sottoposto dai servizi segreti americani, ha dovuto produrre una serie di documenti in suo possesso e anche subire una lunga sessione di interrogatori, oltre che da agenti segreti nordamericani, anche da parenti delle vittime e da sopravvissuti ebrei dei campi di concentramento, che interrogarono lui e gli altri appartenenti alla sua rete con una divisa da soldati. Gehlen viene portato assieme ai suoi ufficiali a Washington, dove per due anni conduce negoziati con i capi degli 007 americani per convincerli della sua buona fede e competenza. È in questi anni che viene definita la creazione di un’organizzazione spionistica privata finanziata dagli Usa e operativa in Germania, chiamata appunto rete Gehlen. Quando la Germania riconquista l’autonomia, la rete Gehlen, che conta ormai 10mila agenti, diviene il servizio segreto della sua parte occidentale, agli ordini di Konrad Adenauer.
L’anticomunismo riassembla come un potente collante i cocci del Terzo Reich, e fornisce un nuovo nemico da combattere a chi si è fronteggiato su campi opposti nella Seconda guerra mondiale. Per contrastare la nuova minaccia gli Usa non si fanno scrupoli a impiegare quella vecchia, ed è così che comincia l’americanizzazione dei nazisti più “utili”, i cui curriculum vitae vengono ripuliti in virtù dei meriti conquistati sul campo antisovietico. I nazisti hanno combattuto contro i russi con straordinario accanimento, e lo stesso accanimento hanno usato in patria, contro la propaganda filocomunista che si diffondeva al seguito dell’Armata rossa. Dopo il patto Ribbentrop-Molotov e la spartizione della Polonia, dopo l’Operazione Barbarossa e l’invasione della Russia, dopo la disfatta di Stalingrado, ora coloro che più hanno contrastato sul campo i comunisti hanno uno scopo in comune con gli Usa: e si mettono al servizio dell’ex avversario americano in quella che verrà definita come “Operazione Paperclip”, graffetta. Per coadiuvare in Europa le operazioni dell’Oss di Allen Dulles, viene quindi riciclata l’intera rete spionistica dei nazisti, l’efficiente Abwehr di Reinhard Gehlen. Un’ottima struttura che opera soprattutto nella Germania divisa e in Italia, dove l’agente di riferimento è un aretino di nome Licio Gelli, noto imprenditore, che vanta importanti contatti anche in Sud America. La rete, che includeva ovviamente molti nazisti reclutati nei campi di prigionia da agenti dei servizi americani, fino al 1956 ricevette dall’America ricchi finanziamenti. Conformemente al Foia (il Freedom of Information Act, cioè la legge sulla libertà d’informazione) e grazie all’opera di un ricercatore di nome Carl Oglesby, a fine anni ‘90 il Nazi War Crimes Disclosure Act ha costretto la Cia a rendere pubblici i documenti sui crimini di guerra nazisti.
Americanizzazione degli ex avversari
È nato così il Gruppo di lavoro sui documenti relativi ai crimini nazisti (il Nazi War Criminal Records Interagency Working Group), che per oltre 2 anni ha studiato e divulgato le carte segrete conservate negli archivi nazionali. Dal lavoro di ricerca è emersa la documentazione relativa ai rapporti tra la Cia e la rete di intelligence del generale tedesco Reinhard Gehlen, tenuta segreta durante la Huerra fredda. E si è potuto così gettare nuova luce sulle origini e le dinamiche dello scontro tra i blocchi, e di conseguenza sulle strutture e gli equilibri di potere di un presente in cui gli estremi si sono riuniti e servizi d’intelligence un tempo ostili si ritrovano alleati in una battaglia comune contro nuove insidie, terrorismi e mafie transnazionali. Me lo ha confermato lo stesso Licio Gelli durante un incontro avuto ad Arezzo nel novembre 2005.

Corriere La Lettura 23.12.12
Filosofia
Nascere ha sempre senso
Già prima di Cristo gli stoici negavano che fosse meglio non esistere
In tempi di crisi ritorna il pessimismo cosmico ma conviene seguire Pirandello e non Leopardi
di Marco Rizzi

Pur nel mezzo della pesante crisi che stiamo attraversando, un calendario del prossimo anno non mancherà di certo anche nei più smilzi pacchi dono che ci saranno recapitati in questi giorni di Natale. Tuttavia, a differenza di qualche tempo fa, il futuro verso cui ci farà alzare lo sguardo appare segnato dall'incertezza e dal dubbio; quanto riusciremo a conservare del benessere acquisito sino a oggi? Soprattutto: potremo sperare ancora in un futuro migliore, in un progresso comune in cui ciascuno possa inserirsi e lasciare qualcosa di significativo a chi verrà dopo di noi?
Il pensiero ritorna ai banchi di scuola, alla lettura — immancabile nella scuola italiana di ogni ordine e grado — del Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere di Leopardi, quello in cui un passante smonta, con diabolica abilità dialettica, l'offerta di acquistare un calendario per l'anno nuovo, perché, nonostante le promesse del venditore, nessuno vorrebbe ricominciare daccapo la vita che ha sin lì vissuto: «Ciascuno è d'opinione che sia stato di più o di più peso il male che gli è toccato, che il bene».
L'idea compariva già in un passo dello Zibaldone di qualche anno precedente; comunemente si pensa che Leopardi l'abbia derivata dai suoi amati autori antichi: è celebre il detto attribuito a Sileno secondo cui «non essere mai nati è la cosa migliore e la seconda, una volta venuti al mondo, tornare da dove si è venuti» — così nella forma in cui lo riporta Sofocle. Non tutti gli antichi, però, condividevano un simile pessimismo cosmico; i filosofi stoici, ad esempio, non solo ritenevano che la presenza nel mondo di ogni uomo facesse parte di un mirabile disegno provvidenziale, ma addirittura giungevano a sostenere che gli eventi di questo mondo e la vita di ciascuno si sarebbero ripetuti identici nel corso di una infinita successione di ere cosmiche sempre eguali tra loro. Dal canto loro, i primi cristiani affermavano che nascere era una fortuna, proprio (o solo) perché permetteva di rinascere alla vita eterna; in questo modo, era ribadito il disegno della provvidenza, ma il ciclo degli eterni ritorni veniva definitivamente infranto e il destino dell'uomo posto nell'amore misericordioso di Dio. Anche quando l'attenzione al destino ultraterreno si verrà attenuando, la rottura cristiana della ciclicità del tempo antico lascerà aperto lo spazio della speranza e del fattivo impegno per un futuro migliore già in questo mondo.
È con l'Illuminismo che si opera un decisivo cambio d'orizzonte; nel Dictionnaire historique et critique di Pierre Bayle, pubblicato nel 1697, il rifiuto di rinascere una seconda volta poggia sull'esperienza del singolo, su di un pessimismo personale, non più su una visione cosmica: è nella vicenda di ciascuno che si rivela drammaticamente l'assenza della provvidenza e di un qualsiasi disegno che diriga la vita dell'uomo, ancor prima che il corso della storia. Non il nascere in quanto tale è un male, come voleva Sileno, bensì il concreto andamento dell'esistenza umana che indica, a chi la osserva con ragione, come non valga la pena di riviverla — salvo invidiare quella degli altri, che illusoriamente appare meno infelice. Il vasto dibattito illuministico su questi temi, ricostruito da Stefano Brogi (Nessuno vorrebbe rinascere. Da Leopardi alla storia di un'idea tra antichi e moderni, Ets, pp. 216, 22), suscitò ovviamente la reazione dei teologi e dei pensatori cristiani in difesa della provvidenza e dell'azione di Dio nella storia; ma persino Leibniz, che pure sosteneva che quello presente fosse il migliore dei mondi possibili, dovette ammettere che, in fondo, chiunque accetterebbe di rinascere solo a condizione di avere una vita diversa da quella vissuta — diversa, non necessariamente migliore.
Questo è il retroterra su cui si innesta il Dialogo di Leopardi: un testo, a sua volta, presente alle riflessioni di Schopenhauer, che riconosce come «lo scherno e lo strazio di questa esistenza… egli (Leopardi) lo dichiara in ogni pagina della sua opera, e però con una tale molteplicità di forme e di giri, con una tale ricchezza di immagini, da non ingenerare mai fastidio, riuscendo anzi sempre dilettoso e stimolante».
È con Nietzsche che l'idea leopardiana subisce una torsione sorprendente e inaspettata: il giudizio sulla vita dell'uomo resta sconfortante e negativo, ma proprio perché non vi è alcuna provvidenza, e in fondo nessun senso nell'esistenza, l'unica speranza che ci è data è la vita che viviamo, a cui occorre dire di sì in tutti i suoi aspetti, compresa la sua identica riproposizione. Tale si rivela il significato ultimo della dottrina dell'eterno ritorno proclamato dallo Zarathustra nietzschiano: una prova sovrumana, alla quale potrà rispondere solamente l'Übermensch, il superuomo, colui che è «il vero senso della terra». Il mito stoico dell'eterno ritorno non risulta più legato all'azione della provvidenza o alla promessa di Dio, ma diviene trasparente metafora della condizione umana, condannata a consumarsi nel fallimento di questa vita.
A ben vedere, questo esito risulta insostenibile. Lo riconosce un altro insospettabile pessimista incontrato sui banchi di scuola, Pirandello. Nel racconto Notizie dal mondo, Tommaso tiene un monologo sulla tomba dell'amico morto, Momino; interrogandosi proprio sull'origine del mito dell'eterno ritorno, conclude che solo due amici felici — o due innamorati — potevano aver sognato una cosa simile: «Quanto mi piacerebbe, se ci facessero tornare tutti e due assieme! Sono sicuro che, pur non avendo memoria della nostra vita anteriore, noi ci cercheremmo sulla terra e saremmo amici come prima». Siamo ormai consapevoli che non ci è dato scegliere se rinascere o no; né ci è facile cogliere quale sia la direzione in cui l'umanità si muove; proprio questo, però, ci rende liberi di dare un senso al nostro nascere e rinascere ogni giorno, alzando lo sguardo da noi stessi e cercando quello degli altri.

Corriere La Lettura 23.12.12
Psicologia
Un recente studio di Rudd, Vohs e Aaker ha testato gli effetti positivi della disposizione ad ammirare l’inatteso
La meraviglia è un ansiolitico naturale
La rabbia ci prepara a combattere, il senso di colpa a scusarci, lo stupore ci congela L'emozione che in inglese si chiama «awe» rende più spirituali e meno impazienti
di Anna Meldolesi

Oltre la soglia della meraviglia c'è lo sbigottimento che lascia senza parole. Oltre lo sbigottimento c'è una sensazione enigmatica, sospesa fra il timore reverenziale e l'estasi. Il tempo rallenta, i confini tra il sé e il noi diventano labili, la natura spalanca la porta al trascendente. Se qualche volta vi siete sentiti minuscoli di fronte alla vastità del mondo o ai misteri della vita, allora avete provato questa emozione. Gli anglosassoni la chiamano «awe», in italiano non ha nome.
Gli psicologi hanno iniziato a studiare questa forma estrema di meraviglia solo di recente. Forse perché rispetto ad altre emozioni la incontriamo raramente. Quando ci nasce un figlio e tutto quello che c'è intorno cambia significato. Quando godiamo di una vista inaspettata e mozzafiato, ci perdiamo in un cielo stellato, osserviamo sgomenti la furia di un uragano. Riprodurre in laboratorio queste sensazioni, per studiarle con i metodi della psicologia, è difficile, ma Melanie Rudd, Kathleen Vohs e Jennifer Aaker ci hanno provato. Nella loro ricerca, che è stata pubblicata ad ottobre su «Psychological Science», hanno mostrato ai loro soggetti immagini allegre oppure sorprendentemente maestose. Chi osserva queste ultime (una cascata in città, ad esempio), nei test si dimostra meno impaziente, più spirituale e collaborativo. La meraviglia attenua l'ansia per il tempo che fugge. Ma se vogliamo che il mondo riesca a stupirci, spetta a noi fermarci ogni tanto. Il cielo è infinito ed è sempre lì sopra, per chiunque voglia guardarlo.
Nella sua autobiografia, pubblicata in Italia da Einaudi, Darwin racconta come si è sentito nel mezzo di una foresta brasiliana: «È impossibile dare un'idea adeguata della profondità dei sensi di meraviglia, di stupore e di devozione che si impadroniscono del nostro spirito e lo elevano». Ha occhi da naturalista e una mente da scienziato, ma in quell'occasione si sorprende a pensare: «In un uomo vi è qualcosa di più del semplice respiro del suo corpo».
Cosa è successo a Darwin, e cosa succede a tutti noi quando ci sentiamo rapiti? Lo psicologo morale Jonathan Haidt lo spiega in The Righteous Mind (Pantheon Books).
Ci chiamiamo Homo sapiens ma siamo piuttosto Homo duplex, come sosteneva il padre della sociologia Émile Durkheim. Duplici, perché siamo insieme delle creature individuali e sociali, api e alveari. Ecco, la natura a volte sa suscitare una meraviglia totale e spiazzante. È come un pulsante che scatta, portandoci nella modalità collettiva e facendoci sentire parte di un tutto. I rituali estatici, in cui il gruppo sintonizza i battiti diventando un unico grande organismo, funzionano anch'essi da interruttore. Così si spiega la potenza delle grandi manifestazioni, dei rave party, delle iniziazioni. L'antropologo Luis Devin ha partecipato a quella dei Pigmei Baka nel Camerun e la racconta in La foresta ti ha. Storia di un'iniziazione (Castelvecchi). «Ti stringe a sé, ti protegge. Ti striscia sui piedi e ti vola addosso, ti graffia. Ovunque tu sia, senti la sua voce. Il suo odore. Il suo respiro. Anche a volerlo non puoi nasconderti perché i suoi occhi sono dappertutto. E un po' alla volta ti trasforma. Ti inghiotte. La foresta».
Chi parte zaino in spalla per viaggi solitari fuori dalle rotte più battute, magari non lo sa, ma è un cultore della meraviglia. Virtuosi di questa emozione sono sempre stati i mistici e gli asceti. Qualche anno fa Haidt ha firmato, insieme a Dacher Keltner, un articolo su «Cognition and emotion» che ha acceso l'attenzione della comunità scientifica sul tema. I due studiosi riconoscono uno stato di «awe» in san Paolo, folgorato sulla via di Damasco: la luce accecante, l'esperienza sensoriale intensa, lo stordimento, la trasformazione del sé. Ancora più potente è la scena descritta nel testo hindu Mahabharata, quando Krishna porge ad Arjuna un occhio cosmico, che svela divinità, astri, spazio e tempo infiniti. «La mia gioia è estatica, eppure la mia mente trema per la paura», dice l'eroe. La meraviglia estrema non suona come un «wow», è piuttosto un «oddio», o meglio ancora un silenzio. «Se volete essere sempre felici, non fa per voi. È troppo sconvolgente e causa troppa incertezza», scrive il guru della neuropsicologia Paul Pearsall in Awe: The Delights and Dangers of Our Eleventh Emotion (HCI Books). Che le emozioni siano undici, come recita il sottotitolo del libro, è opinabile. La meraviglia reverenziale, comunque, ha una particolarità rispetto alle altre, che in genere ci predispongono all'azione. La rabbia ci prepara a combattere, il senso di colpa a chiedere scusa. Lo stupore, invece, ci congela. Tutto ciò che vogliamo è stare fermi, ad occhi spalancati. «È una specie di emozione cognitiva, che ci apre a nuove idee, ci trasforma», sostiene Haidt, senza rinunciare a proporre un'interpretazione evolutiva. Assomiglia allo stato d'animo dell'umile di fronte al sovrano splendente: l'uomo è un animale gerarchico e un sentimento primordiale di sbigottita devozione può esser stato funzionale al mantenimento dell'ordine. L'ammirazione, dunque, è intrisa di paura, anche se nel linguaggio comune il sostantivo «awe» (e l'aggettivo «awesome») hanno subìto uno slittamento semantico. L'ingrediente agro va scomparendo, mentre resta quello dolce, la meraviglia più consueta.
Il timore reverenziale nasce reazionario, forse, ma può turbare piacevolmente anche una mente rivoluzionaria. «L'emozione più bella che possiamo sperimentare è il mistero. È il potere della vera arte e della vera scienza. Chi non conosce questa emozione, chi non si può più fermare per meravigliarsi e sentirsi rapito, è come se fosse morto», ha scritto Albert Einstein in Il mondo come io lo vedo (Newton Compton). Non sono solo le cattedrali più imponenti o la grande musica che compiono questo miracolo emozionale. Se si è in grado di coglierne davvero il significato, si può restare sbalorditi anche davanti alla grandiosità di una teoria scientifica, che racchiude in una formula il funzionamento dell'universo.

Corriere La Lettura 23.12.12
La matematica sul traghetto di Poincaré
Mente geniale, inaugurò nuovi filoni di ricerca e si battè in favore di Dreyfus
di Stefano Gattei

Nel 2006 fece scalpore il rifiuto, da parte del matematico russo Grigori Perelman, di ritirare la medaglia Fields, l'equivalente del premio Nobel per la matematica. Gli bastavano la soddisfazione e la gloria di aver associato il suo nome alla dimostrazione di uno dei più complessi problemi della matematica moderna: la «congettura di Poincaré». Lo studioso francese l'aveva enunciata nel 1904, nell'ambito delle sue ricerche di topologia. Nata nel Settecento, la topologia studia le proprietà geometriche invarianti a trasformazioni molto generali. Immaginiamo una massa di plastilina: possiamo operare su di essa in tantissimi modi, dandole infinite forme; se evitiamo però di strapparla, o di forarla, essa conserverà alcune proprietà, quali il numero di dimensioni o quello dei «buchi». Per questo motivo la superficie esterna di un cubo è topologicamente equivalente a quella di un pallone da rugby, non a quella di una ciambella. Poincaré (1854-1912) si propose di ricostruire gli spazi a partire dagli invarianti, contribuendo in modo decisivo alla comprensione del concetto stesso di invariante e segnando la strada per molta matematica successiva. La trasformazione della vecchia analysis situs nella moderna topologia non costituisce però che uno dei molti contributi di Poincaré, la cui opera svolgerà, con quella di Hilbert, un ruolo cruciale nel «traghettare» la matematica ottocentesca nel nuovo secolo. Sua fu la soluzione negativa, nel 1887, del cosiddetto «problema dei tre corpi» (ovvero come descrivere in modo analitico il moto di tre o più corpi soggetti alla legge di Newton e in moto attorno al comune centro di gravità); fu lui a utilizzare per primo le geometrie non euclidee per risolvere problemi di analisi complessa; e fu lui ad avanzare, nello stesso anno, una teoria equivalente alla relatività speciale proposta da Einstein nel 1905. La sua produzione è così ricca da scoraggiare gli sforzi tesi a offrirne un quadro completo. Ci prova ora Jeremy Gray: il suo Henri Poincaré. A Scientific Biography, uscito da pochi giorni, è il primo tentativo, riuscito molto bene, di presentare in un'unica sintesi i contributi di Poincaré alla matematica, alla fisica e alla filosofia. La sua attenzione non è tanto rivolta all'uomo, quanto allo scienziato e intellettuale impegnato (celebre fu il suo intervento sul caso Dreyfus). Gray riesce così a dare corpo, attraverso la lente di una mente prodigiosa, alla natura stessa della matematica. Contrariamente a quanto di solito si crede, infatti, essa ha solo marginalmente a che fare con i numeri: si occupa in realtà di astrazioni, di strutture, di intrecci nascosti. I progressi più significativi non si misurano con la dimostrazione di teoremi, ma con la costruzione di «ponti» fra ambiti che si pensavano separati. E in questo Poincaré fu un grandissimo maestro.

Corriere La Lettura 23.12.12
Nel mondo escono ogni anno circa 400 titoli suoi o su di lui
Sant'Agostino, uno al giorno
Guida spirituale della filosofia ha fondato l'idea d'Europa
di Armando Torno

Ogni giorno nel mondo esce un libro con opere di Agostino o con un saggio che ne analizza il pensiero. Poco meno di quattrocento titoli ogni dodici mesi dedicati al lascito di questo santo e filosofo che da un millennio e sei secoli ha riversato sull'umanità un oceano di pagine e di idee. In tale computo non sono compresi saggi, articoli e altri contributi a lui dedicati, appartenenti a quel genere che non si concretizza d'acchito in volume. Per limitarci alla lingua italiana, si può notare che sono disponibili nel nostro mercato editoriale ben più di 350 titoli cartacei riguardanti Agostino. Giuliano Vigini, che oltre ad essere un esperto di editoria, ha curato antologie e scritti di questo autore, sostiene che il prossimo anno, dedicato alla fede, i numeri saranno destinati ad aumentare. Oggi, utilizzando le cifre care alla statistica e alle previsioni elettorali, potremmo dire che si pubblicano 1,05 opere di e su di lui ogni giorno; nel 2013 si dovrebbe arrivare a 1,09, ovvero a quattrocento titoli. Non dimentichiamoci che il Papa lo cita continuamente e ne raccomanda la lettura. La qual cosa non è una sponsorizzazione da poco. Le tabelle di Vigini offrono anche una sorta di geografia degli interessi. Aggiungiamo che le nazioni agostiniane forti sono Francia (la Bibliothèque augustinienne prevede l'opera completa in 85 volumi), Spagna (decine di tomi già usciti nella Biblioteca de autores cristianos), Italia, Paesi di lingua inglese (Stati Uniti, Gran Bretagna). Seguono i tedeschi, che tuttavia hanno dato agli studiosi edizioni critiche indispensabili (Giovanni Reale, curatore dell'ultima traduzione e interpretazione delle Confessioni, si è basato sul testo di Martin Skutella, pubblicato da Teubner nel 1969). Che aggiungere? Semplicemente che Agostino è il crocevia dei grandi temi del pensiero occidentale e intuì l'idea portante continuamente ripresa dai sommi: cercare Dio è l'inizio di tutto.
In italiano è disponibile l'opera integralmente tradotta, con testo latino a fronte. La progettò Agostino Trapè (priore dell'ordine) per l'editrice Città Nuova e il primo volume apparve nel 1965. Ci vollero una quarantina d'anni per terminarla. Dopo la scomparsa del fondatore, il testimone passò a Remo Piccolomini e la realizzazione è stata curata da Franco Monteverde. Sono stati necessari 70 volumi. Ora è in corso la pubblicazione dell'iconografia; sono allo studio ulteriori indici e si sta lavorando alle opere attribuite. Alla fine sarà una mole di poco meno di 50 mila pagine, che ha coinvolto una ottantina di studiosi. Ma tutto questo patrimonio è anche online. Lorenzo Boccanera, webmaster del sito www.augustinus.it (in esso si trova anche una traduzione spagnola di circa la metà del lascito agostiniano, nonché collegamenti a siti dove si possono leggere traduzioni inglesi e francesi) ricorda che viene visitato da poco meno di mille lettori distinti certificati al giorno. Con qualche punta favorita dagli eventi: il 30 gennaio e il 1° febbraio 2010, allorché la Rai trasmise lo sceneggiato su Sant'Agostino, si toccò — nota Monteverde — il picco di 18 mila utenti. E il fenomeno durò per alcuni giorni. Va anche precisato che il sito è completamente gratuito. Boccanera è un ingegnere e ama i dati. Senza nulla togliere al valore dell'opera di Agostino, sottolinea che quantitativamente lo stampato latino-italiano equivale a 350 volte il testo de I Promessi sposi, a 100 volte la Divina Commedia (con le relative chiose). Di più: il vocabolario di Agostino è composto da 117.500 lemmi, ma se si contano declinazioni e verbi si giunge a 220 mila. Con Office un dizionario latino-agostiniano, per essere utilizzabile, si è dovuto spezzare in 7 file. La parola più citata dal santo è Deus (56.346), che con Pater arriva a 67.749; Christus è a 22.818, tuttavia se si unisce a Dominus, Verbum, Filius, Iesus, Salvator si giunge a 74.234. Peccatum, con l'inevitabile peccator, è presente 20.628 volte e batte amor, che unito a caritas e dilectio, giunge a 12.604. Né va dimenticato che Città Nuova ha pubblicato, in calce all'opera, un indice analitico che ha richiesto 5 volumi distinti, con 700 mila frasi e 200 mila rimandi per eventuali confronti. La sola voce Agostino occupa 250 pagine stampate e più di 15 mila frasi. E vi sono 5 volumi di lettere raccolte in circa 3.500 pagine. Ci assicurano che il sito, curato anch'esso da Monteverde con l'apporto tecnico di Boccanera, non ha fatto calare le vendite del cartaceo, anzi si stanno preparando nuove edizioni perché alcune opere si sono esaurite. Inoltre sono nate, accanto a questa impresa, altre biblioteche. Si prenda, per esempio, il sito del fondatore www.agostinotrape.it: contiene tutti i documenti di studio digitalizzati dell'intera sua vita, anche quelli giunti da diversi pontefici, cardinali e ricercatori di ogni parte del mondo. Autore di oltre 120 titoli editoriali, è diventato anche grazie a questo sito il punto di riferimento per gli studi agostiniani.
Oltre tali considerazioni quantitative, non è possibile dimenticare l'influenza esercitata dal santo sul Cristianesimo e dal filosofo nella storia del pensiero. Quell'oceano di parole, di idee, di intuizioni ha continuamente condizionato gli uomini e la loro fede. Dal punto di vista religioso, Agostino resta attualissimo per le sue considerazioni sull'itinerario interiore testimoniato nelle Confessioni o per quanto ha lasciato nei quindici libri de La Trinità. Per rendersi conto, basterebbe aprire la recente edizione di quest'ultima opera, curata da Giovanni Catapano e Beatrice Cillerai (edita ne «Il Pensiero occidentale» di Bompiani, pp. 1.496, 38), per accorgersi che lo scopo dell'autore fu quello di rendere ragione — partendo dalla fede e utilizzando le facoltà conoscitive a nostra disposizione — dell'unicità e identità sostanziale di Padre, Figlio e Spirito Santo. E non vanno dimenticati i commenti biblici. Quello sui Salmi si legge nei sei tomi di oltre 5 mila pagine di Città Nuova. Ma ve ne sono a Giovanni, né mancano trattati sul Discorso della montagna, sulle questioni poste dai Vangeli o per la Lettera ai Romani; vi sono, tra l'altro, annotazioni a Giobbe e poi conviene aggiungere eccetera. Le opere polemiche — contro i Manichei, i Donatisti, Giuliano et similia — occupano sedici tomi e in essi si trova una miniera di informazioni sul cristianesimo dei primi secoli e sulle controversie che ne hanno caratterizzato la diffusione. Per lo storico delle religioni o per il teologo le opere di Agostino sono ancora un riferimento indispensabile. E in filosofia? Anche in tal caso, temi come il tempo, il male, il libero arbitrio, la fede, solo per limitarci ad alcuni, hanno in questo autore una fonte continuamente consultata. Uno studioso quale Luigi Alici ha sottolineato che «il plesso Deum et animam» è al centro del pensiero di Tommaso d'Aquino; inoltre da Agostino partono le riflessioni di Lutero ma anche quelle opposte di Giansenio, le medesime che daranno origine al cattolicesimo di Pascal. Nemmeno il movimento di idee che caratterizza il pensiero di Cartesio può farne a meno, anzi alcuni aspetti dell'agostinismo sono stati utilizzati per difendere le prospettive di questo filosofo francese. E agli inizi del '900 uno studioso come Henri-Xavier Arquillière ideò la formula di «agostinismo politico»: ad esso riconduceva, tra l'altro, le tendenze teocratiche del XIII secolo. Ma dall'immenso lascito transitava anche il concetto di «guerra giusta», utilizzato ancora in tempi a noi molto vicini. Che dire? Tali tesi vennero contestate da illustri accademici, ma La città di Dio restò un'opera letta dai grandi spiriti politici. Giuseppe Prezzolini la ritrovava, insieme ad altre intuizioni di Agostino, in Machiavelli. Mentre María Zambrano — lo ha ricordato Giovanni Reale — ha inteso le Confessioni come l'atto di nascita dell'idea di Europa. Non c'è che l'imbarazzo della scelta. Nell'elenco dei personaggi che hanno dedicato tempo ed energie ad Agostino ci sono un po' tutti, da Bergson ad Einstein, da Petrarca a Voltaire (che cercava di criticarlo senza sconti), né mancano i teologi del Novecento. Inutile stilare un elenco di questi ultimi perché Barth, De Lubac, lo stesso Ratzinger, von Balthasar o Rahner hanno dedicato energie notevoli a codesto autore. Cattolici, protestanti, razionalisti del Seicento francese e persino molti teorici della musica non possono non definirsi agostiniani. E anche chi legge le pagine di Heidegger relative al tempo, è tentato di tornare a quelle da lui scritte su una materia così bisbetica. Dicevamo che questo autore è un oceano. Le sue idee, del resto, hanno toccato o permeato buona parte dei ragionamenti umani. Oggi, dopo aver meditato sul pensiero debole e su quello corto, siamo impotenti quantitativamente e qualitativamente dinanzi ad Agostino. Forse si potrebbe parlare di lui come del Platone cristiano. Ma questa, come si suol dire, è un'altra storia. E un giorno qualcuno la racconterà.

Dal manicheismo al cristianesimo. La vita
Aurelio Agostino (Tagaste 354 – Ippona 430), uno dei Padri della Chiesa di maggior influenza in ogni epoca, studiò retorica a Cartagine e tale materia insegnò anche a Roma e a Milano. Attratto da correnti quali manicheismo, scetticismo e neoplatonismo, trovò la pace intellettuale convertendosi al cristianesimo. Fu battezzato a Milano da Ambrogio, insieme al figlio Adeodato. Ritornato in Africa, nel 395 diventò vescovo Le opere Tra le sue innumerevoli opere vanno innanzitutto ricordate le «Confessioni» in 13 libri, che lasceranno una traccia indelebile nella cultura occidentale; quindi «La città di Dio» in 22 libri. In essa si trovano le linee di una teologia della storia, distinguendo la città degli uomini che vogliono vivere in pace secondo la carne e il benessere terreno, e quella di coloro che desiderano vivere secondo lo spirito aspirando alla beatitudine eterna. Tra le altre, fondamentale il «De Trinitate», in 15 libri, punto di arrivo della patristica sul piano della speculazione relativa alla Trinità

Corriere La Lettura 23.12.12
Le confessioni secolarizzate Format letterario e televisivo
Dai romanzi di Rousseau al Grande Fratello Il vissuto personale viene rivelato in pubblico
di Guido Vitiello

La confessione è un genere letterario? Sì, ma lo diventa solo al termine di una lunga secolarizzazione. Tutto comincia, a sentire María Zambrano, con Giobbe, il giusto che lamenta le sue sventure in prima persona. Dall'erosione di quell'antico ghiacciaio biblico la confessione, con Sant'Agostino, prende corso e figura di fiume e scorre, allontanandosi via via dalla sua fonte religiosa, fino alle Confessioni di Rousseau, per sfociare infine nei romanzi di Proust o di Joyce. Questa, pressappoco, la linea tracciata nel saggio La confessione come genere letterario. Letterario, ma fino a un certo punto: ogni confessione, dice Zambrano, è parlata anche quando è scritta, aspira a essere parola pronunciata a viva voz. Parola, vorremmo aggiungere, bisbigliata in un ipotetico confessionale dove al di qua della grata siede il lettore-sacerdote, che dispensa indulgenze e assoluzioni. Molto si è scritto, dai tempi di María Zambrano, sulla laicizzazione della confessione che diventa diario, memoriale, romanzo e da qualche tempo anche un ricco filone editoriale (dalle Confessioni di un sicario dell'economia alle Confessioni di una groupie, passando per decine d'altri titoli). Un po' meno si è ragionato sulle metamorfosi laiche del confessionale, l'arredo liturgico semplice e ingegnoso che il cardinal Borromeo diffuse nella Milano della Controriforma, con quella lastra di metallo traforata che consente di dire cose terribili senza esser visti, e quei tendaggi che proteggono la penombra di un rituale che non è pubblico ma che non è neppure del tutto privato, e che anzi tra pubblico e privato, tra istituzione e coscienza, consente i commerci più vari.
Chateaubriand definì il sacramento della confessione «capolavoro della saggezza», e tutto sta a intendersi se fosse all'opera il genio spirituale del cristianesimo o il genio secolare del gesuitismo. Il confessionale, insegnano gli storici, è stato per secoli un formidabile strumento di governo, il luogo di un potere capillare amministrato in segreto. Benché declinante, lo è tuttora, e ogni tanto qualcuno cerca di divulgarne gli arcani: dall'inchiesta Il sesso in confessionale dei primi anni Settanta, a Giordano Bruno Guerri che girò per parrocchie da finto penitente e raccontò tutto nel libro Io ti assolvo, a Pino Nicotri, che ai tempi di Mani pulite si spacciò per politico corrotto e andò a sentire cosa gli dicevano i preti (Tangenti in confessionale), fino a inchieste più recenti sulla stessa falsariga. Ma i legami tra confessione e potere non si esauriscono qui. Il confessionale è metafora più vasta, perfino — si può azzardare? — uno dei grandi archetipi del potere italiano, il simbolo di uno spazio confidenziale ma solenne, intimo ma istituzionale. D'altronde, in un Paese che passa allegramente di controriforma in controriforma senza riformarsi mai, non c'è da stupirsi che i riti della politica siano anch'essi di derivazione tridentina, come mostrò Sciascia negli «esercizi spirituali» di Todo modo. Anticaglie democristiane, vecchie liturgie di piazza del Gesù spazzate via dalla politica spettacolo? Forse, ma non del tutto, se pensiamo che il libro-intervista di Massimo Mucchetti al banchiere Cesare Geronzi porta il titolo Confiteor (Feltrinelli), che soffonde come da un turibolo un forte odore di sacrestia. Geronzi è un cattolico di rito andreottiano, ed è difficile non rievocare quel vecchio romanzo di Giulio Andreotti, Operazione via Appia, dove un ex seminarista all'epoca del fascismo diventa intercettatore e origlia conversazioni tra potenti. Ecco, il confessionale è la metafora di un Paese dove le parole captate, intercettate, scambiate a mezza voce, valgono più dei discorsi pubblici e dei proclami ufficiali, dove tutto quel che conta davvero è sussurrato in contesti informali. Solo nel regno opaco della politica-confessionale si capiscono gli esordi avventurosi del Minzolini cronista, che in piedi sulla tazza del gabinetto nella sede del Psi di via del Corso origliava le riunioni di partito.
Oggi forse non ce ne sarebbe più bisogno. E non certo perché le cose si svolgano in piena luce, al contrario: il cono d'ombra del confessionale si è allargato fino a fagocitare larga parte della sfera pubblica. Non che il magistrato-intercettatore sia un succedaneo del confessore (i pastori d'anime sono di solito più indulgenti), ma un lascito di quella lunga tradizione confidenziale e penitenziale vive ancora nella nostra ossessione pettegola per le intercettazioni divulgate a mezzo stampa. È la via italiana a quella che il sociologo Zygmunt Bauman, così prodigo di definizioni epocali, ha chiamato «società del confessionale», dove la linea di confine tra pubblico e privato è resa ormai indiscernibile dai social network, e dove il confessionale ha potuto vantare anche le sue glorie televisive nel format del Grande fratello. Bauman sceglieva come spartiacque simbolico un talk show francese degli anni Ottanta in cui una certa Vivienne, davanti a milioni di telespettatori, aveva confidato di non aver mai avuto un orgasmo nel suo matrimonio poiché il marito era afflitto da eiaculazione precoce. Era, per Bauman, l'avvento di «una società di un genere finora inaudito e inconcepibile, in cui si piazzavano microfoni dentro i confessionali, cioè le cassette di sicurezza e i ricettacoli per eccellenza dei più segreti fra i segreti — il genere di segreti che si potevano rivelare soltanto a Dio o ai suoi messaggeri e plenipotenziari terreni —, e in cui quei microfoni erano collegati ad altoparlanti sistemati nelle pubbliche piazze». Oggi i confessionali sono disertati, e non c'è più un curato d'Ars davanti al quale i fedeli fanno la fila per raccontare i loro casi. Capita pure che quei vecchi arredi siano acquistati da qualche antiquario e — allegoria perfetta della secolarizzazione — convertiti in armadi. Ma guai a trarre conclusioni affrettate: non è ancora chiaro, infatti, se i confessionali scompaiono perché non servono più o se, al contrario, non servono più perché sono ormai ovunque.

Corriere La Lettura 23.12.12
Sulle orme di Nietzsche
Se Galimberti veste i panni dell'Anticristo
di Corrado Ocone

Se in Kant il cielo stellato generava ammirazione, per Umberto Galimberti esso è del tutto vuoto. O, quanto meno, lo è per noi occidentali, la cui civiltà, secondo lui, coincide del tutto, proprio come vorrebbe Papa Ratzinger, con il cristianesimo. È stata la religione di Gesù, scrive nel libro Cristianesimo (Feltrinelli,
pp. 436, 18), a svuotare il cielo, a farci perdere sentore del sacro, a farci concentrare su questa valle di lacrime. Ed a generare infine la vera bestia nera di Galimberti: la tecnica che tutti ci domina e avvolge e che oggi si lega a meraviglia al culto del dio denaro. Conservando uno stile fra il sentenzioso e lo ieratico, fatto per affascinare le signore che leggono i suoi pezzi su un noto settimanale femminile, Galimberti confeziona un grosso tomo che però non è altro che una rielaborazione di quegli stessi articoli. Francamente non se ne sentiva la mancanza. Sia perché buona parte delle sue analisi erano già in Nietzsche, sia perché non si capisce bene da che parte il nostro stia. O, meglio, si capisce che furbescamente strizza gli occhi ai catastrofisti contemporanei e agli anticapitalisti ad oltranza, ma poi non ci fa capire se pensa, con l'altro suo maestro Heidegger, che solo un Dio possa salvarci o che siamo irrimediabilmente perduti. Ora, il cristianesimo ridotto ad «agenzia etica» può anche non piacergli, ma sinceramente preferiremmo lasciare alla notte dei tempi l'ebbrezza dionisiaca dell'orgia primordiale.

Corriere 23.12.12
La Natività ci insegna la fiducia nel futuro»
Lo psicoanalista Ammaniti: solo un Paese che fa figli migliora se stesso
di Paolo Conti

«La nascita che il Natale cristiano richiama ha un fortissimo carico simbolico anche per i non credenti. Indica l'ingresso di nuovi membri nel gruppo umano, cioè nel mondo. Dunque un avvenimento legato tanto all'idea complessiva di fertilità quanto alla capacità di una società di incrementarsi e di progettare un futuro. Cioè di immaginare che le generazioni in arrivo saranno in grado di migliorare il mondo così come lo conosciamo. Ragionando, possiamo capire perché la scarsa natalità italiana sia strettamente legata alla crisi economica che viviamo. L'Italia, in questo momento, sembra lontanissima dall'idea stessa di fertilità...».
Massimo Ammaniti, psicoanalista e professore di Psicopatologia dello sviluppo all'Università La Sapienza di Roma, sa bene che il Natale, così come lo conosciamo è solo l'involucro chiassoso, multicolore e superficiale di un contenuto ben più impegnativo: «Infatti la festa andrebbe, anche laicamente, ritrovata e riscoperta, liberata da quegli automatismi legati al consumismo che ne hanno oscurato il senso stesso. Partiamo da un presupposto. Il Natale cristiano, in molti modi, riguarda anche i non credenti. Nel senso che ricorda alla nostra civiltà l'arrivo di un personaggio che ha comunque modificato la concezione della morale introducendo per esempio il concetto di perdono, la comprensione dell'altro e superando la vecchia legge dell'"occhio per occhio, dente per dente"». Naturalmente, ricorda il professore, c'è una differenza fondamentale: «Per i cristiani quell'uomo è il Messia, per chi non crede è comunque una nascita importantissima per un'intera cultura, la nostra». Fin troppo ovvio aggiungere che quel lontano Natale segna da due millenni anche le espressioni intellettuali, dalla letteratura all'arte e all'architettura, del mondo occidentale.
Messo da parte il Natale cristiano, resta il «significato» anche non religioso di una nascita festeggiata in buona parte del mondo. Perché un piccolo bambino incarna un'immagine così eloquente per qualsiasi civiltà? Si potrebbe dire, in tempi crudi e pragmatici come i nostri, che la nostra esistenza è fatta da persone che arrivano, cioè nascono, e da altre che partono, cioè muoiono... Per Ammaniti non è così: «In realtà la nascita continua a rappresentare moltissimo anche nell'organizzazione sociale contemporanea. Simbolicamente quando il gruppo cresce, aumentano le possibilità di una sua conquista del controllo non solo sulla natura e dunque sul "mondo" ma anche sugli altri gruppi umani. Non è escluso che l'affermazione dell'homo sapiens rispetto all'homo neanderthalensis sia stata legata proprio all'aumento della quantità di individui».
Insomma, per ritornare al nostro Natale 2012 e all'imminente 2013, se una società guarda al futuro, si riproduce, e se invece stenta a farlo, vede l'avvenire come un pericolo? «Esattamente questo è il punto. In Italia, lo sappiamo bene, il tasso di natalità non garantisce nemmeno il mantenimento della popolazione attuale. Siamo intorno a 1,25 figli a coppia. Invece in Francia, dopo un periodo di calo, si è tornati a sfiorare quota 2 figli a coppia. In quel Paese c'è stata una chiara scelta politica: aiutare i genitori, sostenerli quando crescono i figli. Insomma il concetto di fertilità non riguarda solo le singole donne o le singole coppie ma l'intera società. Ecco, in questo momento l'Italia non è un Paese "fertile" non solo tecnicamente ma anche psicologicamente». Le cause di tutto questo sono molto chiare a Massimo Ammaniti: «Fare figli con consapevolezza significa sentirsi pienamente calati nel ruolo di genitori. Dunque avere speranza rispetto al futuro con progettualità e positività».
Uno psicoanalista non è un economista e quindi il professore non intende avventurarsi per i sentieri più tecnici della crisi. Però sa bene cosa passa per la testa di questi italiani così poco fertili: «Il dramma dell'Italia è che circola poca fiducia in ciò che ci aspetta. Chi dovrebbe fare figli non ha un lavoro stabile e sicuro, dispone di poco denaro e quindi semplicemente prova paura. È un segnale terribile, per una società. Guardando i dati europei complessivi si arriva alla stessa deduzione. A ciò si aggiunga una caratteristica dell'attuale generazione in età fertile: si è molto presi da sé stessi, e qui la crisi non c'entra. Quindi con difficoltà si riesce a pensare di potersi prendere cura stabilmente di un nuovo essere umano e di trasmettergli qualcosa di concreto e importante». Diciamo che l'Italia «starà meglio», non solo economicamente ma anche psicologicamente, quando riprenderà a fare figli? «Esatto. Riflettere laicamente sul Natale, in questo senso, può essere utile...». Parola di psicoanalista.

Repubblica 23.12.12
Michel Onfray
La filosofia buonista contro il pessimismo
di Antonio Gnoli


Capita sempre più spesso che la filosofia si vesta di un buonismo sconosciuto in passato. Si direbbe, con qualche approssimazione, che la tanto sospirata popolarità di cui essa attualmente gode sia il frutto di un pensiero samaritano destinato ad accarezzare le anime più che a incitarle al dubbio. In un ipotetico modello di “istruzioni per l’uso” si nota il ricorso frequente alla parola “felicità” ( Politiche della felicità, Michel Onfray, Ponte alle Grazie; Percorsi di felicità, Joseph Campbell, Cortina). Che dovremmo cercare di accogliere, se non altro per gli effetti benefici che si suppone possa produrre su di noi. Il mondo antico aveva perlustrato il senso della felicità accostandolo alle molteplici virtù e alla verità. Quello moderno ha reso difficilmente praticabile l’idea di una felicità virtuosa. Anche se scopriamo, in alcuni recenti libri (da ultimo quelli del filosofo tedesco Wilhelm Schmid, edito soprattutto da Fazi), un forte richiamo al modello antico e all’arte del prendersi cura del proprio sé (corpo, anima, passioni). La verità è che si è “felici” in tanti modi. E alcuni di essi sono davvero discutibili, come suggeriscono le più recenti teorie del godimento. Le piccole frasi della melodia filosofica tendono a dare un nuovo significato all’espressione delfica “conosci te stesso”. In questa palestra di soffice edonismo è lecito, tuttavia, domandarsi che cosa e quanto siamo disposti a sapere di noi. È come se la violenza, la brutalità, il diffuso pessimismo che di questi tempi ci avvinghiano siano cancellati con un colpo di spugna. Possibile che il mondo sia davvero diventato più buono e quindi più felice? Ecco quello che puntualmente ad ogni Natale ci disponiamo ad accogliere di buon grado.

Repubblica 23.12.12
Ginevra Bompiani. “La scrittura è per me una forma di vita”
Heidegger aveva occhi che facevano paura
“Da Calvino a Deleuze, quante intelligenze perdute così oggi preferisco l’invenzione alla memoria”
di Antonio Gnoli


Una casa editrice – nottetempo – che compie dieci anni; un padre importante: Valentino Bompiani, scomparso vent’anni fa; un compagno – Giorgio Agamben – con cui per anni ha condiviso passioni, interessi, amore; una decina di libri – tra saggistica e narrativa – tra cui, ricordo, Le specie del sonno ( Quodilibet) che entusiasmò Italo Calvino e l’ultimo, appena pubblicato da Sellerio: La stazione termale, un lungo racconto su come un ambiente di agi e rilassatezza si possa trasformare in un luogo di sofferenza.
Ginevra Bompiani è una donna che fa. Insegna letteratura inglese. Dirige nottetempo, dove insieme ai libri di successo di Milena Augus e Luciana Castellina, pubblica una saggistica raffinata, tra cui Giorgio Agamben e Alfonso Berardinelli. Vive a Roma in una bella casa ai margini di Trastevere. La incontro in una rarefatta mattina di dicembre. È una donna gentile. Premurosa. Preoccupata. Confessa, mentre prepara un caffè, di non possedere memoria. Mi viene di pensare che il distacco dal tempo libera da certe dipendenze: «Non è che non ricordi, ma è come se all’episodio rievocato non sappia mettere il cartellino con le date».
A proposito di date nottetempo compie dieci anni.
«Sì, la fondammo insieme a Roberta Einaudi e altri amici. Fu un gioco, una scommessa, poi un impegno».
Lei aveva alle spalle l’esempio editoriale di suo padre, Valentino Bompiani. I confronti possono essere complicati, perfino impietosi.
«Non sono mai facili. Tanto è vero che ho impiegato un bel po’ a decidermi. Poi nel 1998 la Bompiani organizzò una celebrazione per mio padre che se fosse stato vivo avrebbe allora compiuto cento anni. Io e mia sorella siamo rimaste un po’ defilate, come due spettatrici che ascoltavano le testimonianze degli altri. E questo ha fatto scattare in me una cosa insolita. Improvvisamente ho visto mio padre con occhio diverso. Più esterno. Senza sentirmene emotivamente coinvolta».
Che ricordo ha di lui?
«Un uomo intelligente e tosto. Grandissimo lettore. Un seduttivo dotato di una natura fortissima che usava in casa editrice. Sapeva mettere a frutto perfino i suoi difetti».
E tra questi?
«Beh, soprattutto in alcune circostanze, era collerico».
Anche con lei?
«Con me aveva maniere brusche. A un certo punto finito il liceo e dopo un anno all’estero, decise che non avrei fatto l’università, perché un lavoro c’era già in casa editrice. Cominciai così a correggere le voci del
Dizionario.
Poi passai all’ufficio estero. In quel periodo arrivò come redattore Umberto Eco. Si distingueva per la sua vasta cultura, per il modo agile con cui poteva passare da San Tommaso a Joyce. E io pensai: come farò un domani, ignorante come sono, a diventare il capo di questo qua? Mollai la casa editrice. E questa volta senza soldi, né protezione tornai a Parigi».
Un atto di ribellione.
«Non lo so. Certo un atto necessario per poter riprendere a pensare. Mi iscrissi all’università con l’intenzione di laurearmi in psicologia».
Voleva fare l’analista?
«Era un obiettivo possibile. Poi ci ho ripensato. Negli anni in cui sono stata in analisi compresi che non era il mestiere adatto».
Perché?
«Non volevo scambiare il mio posto con quello dell’analista. Preferivo, nonostante le dipendenze che l’analisi crea, la mia libertà alla sua».
Di che libertà parla?
«Libertà di parola, di espressione, di associare le idee. L’analista invece ha potere ma non ha libertà».
Il potere ha vincoli che la libertà non conosce?
«È auspicabile. Un potere libero rischia di essere arbitrario. La libertà è un concetto strano. Io ne appresi il senso assistendo a una bellissima lezione di Gilles Deleuze su Leibniz e la libertà appunto».
Cosa le insegnò?
«Ci spiegò che quello che sembrava il filosofo della monade e del determinismo era in realtà un grande filosofo della libertà. Ci disse: la libertà è una piccola frangia mobile che si crea attorno al determinismo. Sta a noi allargarla».
Ha conosciuto Deleuze?
«Molto bene negli ultimi anni della sua vita. La prima volta che lo incontrai fu a una cena a casa del mio amico Jean-Paul Manganaro che tra l’altro gli aveva fatto conoscere Carmelo Bene. Fu una serata meravigliosa, ci sentivamo tutti a nostro agio in una specie di armonia delle parole. Poi, al momento di andarsene, Deleuze si sentì male. Era già sul pianerottolo.
Jean-Paul gli portò una sedia e lo vidi accasciarsi di spalle tentando di riprendere fiato».
Deleuze scelse alla fine di suicidarsi. Come giudica quel gesto?
«Si gettò dalla finestra del bagno. E se ripenso a quell’atto credo che lui l’abbia compiuto per almeno due ragioni. La prima è che l’amico François Châtelet soffriva della sua stessa malattia ai polmoni. Ne aveva visto il lento degenerare e infine la terribile dipendenza dalle macchine. Sapeva, lui che era stato operato di tracheotomia, cosa lo aspettava».
E la seconda ragione?
«Ricordo che una delle ultime volte in cui lo vidi mi disse che stava scrivendo un libro sul “virtuale”, tanto che gli regalai alcuni romanzi di Philip Dick che lui non conosceva. Poi ci vedemmo un’ultima volta, poche settimane prima che si suicidasse. Gli chiesi del libro e mi rispose che non aveva trovato una forma da dargli. Lo disse con un tono di disperazione che mi morse il cuore».
La scrittura è una forma di vita?
«Lo è, sicuramente lo è per me».
Cosa la lega al gesto della scrittura?
«Più che un gesto è un movimento interiore. O, come disse Anna Maria Ortese, un modo per essere a casa».
Ha dei momenti in cui scrive?
«Nessuna disciplina. Scrivo a ondate».
La spaventa scrivere?
«Non ne ho paura, né mi procura dolore. Non ho mai
capito la sofferenza della scrittura. Mi chiedo perché uno dovrebbe fare qualcosa che lo fa soffrire. Scrivo quando ho il tempo, l’agio, il silenzio interno giusto. Ne ho bisogno per recuperare la mia vita. Che è come spinta dai venti».
Il suo nuovo romanzo si svolge in una stazione termale. Cos’è? Il bisogno di curarsi, di preservarsi, di lottare contro il tempo?
«Forse tutte queste cose. Ma nella consapevolezza dell’illusione e del vano lottare. In fondo quel luogo non è così distante da un campo di concentramento».
Però in uno ci si rinchiude nell’altro si è rinchiusi.
«È la differenza vera. Come diversa è la violenza che vi si esercita».
In un suo altro romanzo – L’orso maggiore– si evoca la figura di sua madre. Che donna è stata?
«Molto concreta e schiva. Adorò mio padre per tutta la vita. Ne fu pazzamente innamorata. Le scrissi una lettera che lei, con un gesto davvero singolare, volle conservare in cassaforte».
«La precisione introspettiva è il fine cui tende lo scrivere di Ginevra Bompiani», lo ha detto Calvino.
«Mi lusinga, ovviamente. L’intelligenza di Calvino, quella sì, era di una precisione assoluta. Si avverte oggi la mancanza dell’intelligenza».
E di chi la esibiva. Ne ricorda qualcuno?
«Mi viene in mente Rodolfo Wilcock, con quel suo profilo di uccello. Fu un meraviglioso irregolare della letteratura. Aiutò me e Giorgio Agamben nella creazione del “Pesanervi”, una collana di letteratura fantastica che facemmo per Bompiani. Ricordo che Wilcock diceva: Ginevra dirige il Pesanervi e Giorgio dirige Ginevra. Pubblicammo, tra gli altri, Beckford, Jarry, Bioy Casares che allora nessuno conosceva».
Insieme ad Agamben lei partecipò a un seminario di Martin Heidegger.
«Furono due i seminari – che Heidegger tenne a Le Thor, un paesino della Provenza – ai quali partecipai. In entrambi giunsi negli ultimi tre giorni. Non parlavo tedesco e Heidegger che capiva il francese a sua volta non lo parlava. Fui dunque una specie di testimone muta. E affascinata».
Cosa la colpì di quest’uomo?
«Subii l’effetto di un contrasto. Una mattina tardi lo vidi in paese giocare alla pétanque. E sembrava davvero un vecchietto con cui ti potevi amabilmente misurare con le bocce. Ma i suoi occhi facevano paura».
In che senso?
«Non era l’occhio bonario, avaro, sornione del contadino. C’era qualcosa di inquietante».
Cosa pensa della vicenda che lo legò al nazismo?
«Ho sempre trovato esagerato, lo dico senza alcuna competenza, l’accanimento. E mi viene da pensare appunto ai cani che si gettano all’inseguimento della volpe – perché lui era proprio una volpe – e la sbranano, per liberarsi della sua intelligenza, del suo sguardo terribile e passare ad altro. Per quel che ne so il suo accecamento politico durò sei mesi. E a me è parsa una forma di stupidità. Comunque in quei seminari ebbi la sensazione di avere di fronte un uomo straordinario».
Che anno era?
«Oddio, non ricordo, mi pare fossimo alla metà degli anni Sessanta. Non ho una grande dimestichezza con gli anni».
Che rapporto ha con il tempo?
«Lo stesso che ho con lo spazio: di disorientamento».
Da analista mancata come interpreterebbe la cosa?
«Accade come per l’inconscio che non ha né tempo né luogo. Forse la mia vita è in un perenne presente. Forse non ho molto interesse per la memoria. Ne ho poca e l’ho spesso sostituita con l’invenzione. Ma questo non significa che il passato sparisca. Se no non sarei qui a raccontarmi. Dopotutto, ci sono figure che restano indelebili».
A chi pensa?
«A Giorgio Caproni con cui si andava a passeggiare dalle parti della Moschea, perché è il solo punto a Roma dove non c’erano macchine. A Elsa Morante, a Ingeborg Bachmann, a Giovanni Urbani, a Pier Paolo Pasolini. Tutti amici che vedevo spesso insieme ad Agamben. Ci si può aspettare che ogni tanto il passato irrompa con il suo carico di felicità e infelicità. Ma non è la memoria a evocarlo. Né la nostalgia. È una spinta che nasce fuori dal tempo».
Che in qualche modo si lega al mito?
«Ogni amicizia vera, ogni presenza significativa, contiene una parte di mito».
Tra gli amici non ha annoverato Moravia.
«Perché non lo siamo mai diventati. Abbiamo continuato a darci del lei per tutta la vita. È stato una delle colonne della casa editrice. Ma i rapporti con mio padre, per quello che ne so, furono sempre freddi. Formali. Una volta mi disse scherzando: Moravia non mi ha mai offerto un caffè. Però una cosa mi ha sorpreso di recente. Leggendo le lettere che scriveva a Elsa Morante (pubblicate da Einaudi) ho colto un affetto profondo. Mentre Elsa sosteneva che quell’uomo non l’aveva mai amata».