lunedì 24 dicembre 2012

l’Unità 24.12.12
La «conciliazione» di divino e umano
Anche per tanti filosofi laici, da Hegel in poi, l’incarnazione cambia la percezione della vicenda umana
La Natività
Libertà e uguaglianza nella storia dell’uomo
La svolta radicale
La figura del Cristo capovolge il rapporto uomo-Dio proprio della filosofia greca
di Michele Ciliberto


Per quale motivo i laici, e anche i non credenti, festeggiano il Natale? Quale è il significato che essi assegnano a questa festività che ricorda, e celebra, l’Incarnazione (insieme alla Resurrezione il centro costitutivo della religione cristiana)?
Vorrei cercare di rispondere a queste domande da storico della filosofia, sostenendo queste tesi: l’Incarnazione è una base essenziale della concezione della storia umana come storia della libertà; è il fondamento di una visione dell’uomo quale principio di libertà e di responsabilità; con essa inizia a svolgersi, in termini nuovi, il principio dell’eguaglianza e di un comune destino come predicato originario dell’umanità.
Alla base di questa visione che fonda una concezione integralmente nuova della storia e dei fini che in essa l’uomo si propone stanno due motivi essenziali: la «conciliazione» di umano e di divino, che si realizza nella figura di Cristo; il mutamento radicale, rispetto alla filosofia greca, nel rapporto tra Dio e uomo e, di conseguenza, tra uomo e Dio. Vediamoli entrambi cominciando dal primo.
«La certezza dell’unità di Dio e dell’uomo è il concetto di Cristo, dell’Uomo-Dio. Cristo è apparso,un uomo che è Dio e un Dio che è uomo; da ciò il mondo ha avuto pace e conciliazione». Così scrive Hegel nelle Lezioni di storia della filosofia, illuminando il significato della Incarnazione e della figura di Cristo nella storia del pensiero e in quella del mondo.
Questa posizione è il punto di approdo di un lungo travaglio che attraversa fin dalle origini anche la filosofia moderna. Esso concerne precisamente la possibilità della «conciliazione» fra umano e divino di cui parla Hegel: come è possibile che finito e infinito, uomo e Dio, possano «conciliarsi» nella figura di Cristo? Se è incommensurabile la distanza tra l’uno e l’altro, la figura di Cristo si rivela come una sorta di creatura mostruosa una specie di centauro senza alcun fondamento filosofico e teologico. Infatti il rapporto tra divinità e umanità potrebbe darsi solo in termini di «assistenza» della prima alla seconda; non di «inerenza», inconcepibile sia dal punto di vista filosofico che teologico.
Queste sono posizioni di pensatori radicalmente estranei al cristianesimo; ma anche un grande cristiano e un profondo pensatore come Pascal esclude, da un punto di vista filosofico, la «conciliazione» di umano e di divino: solo la verità del Vangelo, osserva, «concilia la contrarietà con un’arte affatto divina e ne fa una saggezza veramente celeste in cui si conciliano quegli opposti, incompatibili in quelle dottrine umane». Come egli stesso precisa subito dopo, questa è però teologia, non filosofia.
La forza e la grandezza della posizione di Hegel sta precisamente nel porre in termini filosofici la «conciliazione» di umano e di divino, interpretando a questa luce la figura di Cristo e l’Incarnazione. Lo fa perché elabora una nuova teoria degli «opposti» risolvendo il problema di fronte al quale Pascal si era fermato, abbandonando il campo filosofico per quello teologico. A differenza di Pascal il quale aveva respinto drasticamente la possibilità che gli «opposti» fossero «nel medesimo soggetto» Hegel «concilia» umano e divino nella figura di Cristo, stabilendo le basi della concezione della storia come storia della libertà. E strappando, con Lutero, Cristo alla tomba in cui l’avevano cercato i crociati, lo pone nella interiorità dell’uomo, nella spiritualità che si «acquista solo nella conciliazione con Dio, nella fede e nella partecipazione». Quella cristiana è perciò una «dottrina della libertà» individuale, fondamento di una nuova concezione dell’uomo e della storia, di cui l’Incarnazione e la figura di Cristo sono fondamento essenziale.
È un’acquisizione filosofica decisiva dalla quale non sarà più possibile tornare indietro, e che il pensiero laico farà sua nei suoi esponenti più alti e significativi. Si potrà discutere dei caratteri della libertà, ma che essa sia il principio della storia umana e che il cristianesimo abbia svolto una funzione essenziale questo è ormai un dato acquisito.
E veniamo ora al secondo elemento. L’Incarnazione e la figura di Cristo generano un altro «principio» filosofico essenziale anche per un laico, consistente nel mutamento radicale, rispetto al pensiero greco, del rapporto tra Dio e l’uomo. Lo ha detto in pagine molto belle Max Scheler: mentre la concezione greca presenta un uomo che si sforza di salire verso Dio, il cristianesimo con la figura di Cristo rovescia questo punto di vista, presentando un Dio che discendendo verso tutti gli uomini, accoglie con un gesto di amore totale l’intera umanità. Nella concezione cristiana si attua perciò un vero e proprio «rivolgimento dell'amore»: «il nobile si abbassa all’ignobile, il sano all’ammalato, il messia ai pubblicani ai peccatori e questo senza la paura antica di diventare meno nobili ma nella più strana convinzione di guadagnare l’eccelso, di divenire simili a Dio».
Un motivo assai intenso, svolto con efficacia anche da Barth: «L’uomo può dirsi senza Dio, può sentirsi ateo, ma Dio non può dirsi senza l’uomo perché Dio non è più senza l’uomo, rimane abbracciato, così coinvolto con l’umanità da appartenere ad essa». Quello cristiano è un Dio che, coprendo ogni persona con la sua luce e il suo calore, pone le basi di quel principio di solidarietà e di eguaglianza tra tutte le creature che diventerà poi un principio essenziale della filosofia e del pensiero politico moderni.
In conclusione: libertà, responsabilità, eguaglianza sono tutti concetti che hanno a che fare con l’esperienza cristiana e con la dottrina della Incarnazione, e perciò con il Natale. Sarebbe stolto negarlo o occultarlo; come sarebbe sciocco trascurare l’originalità e la creatività con cui il pensiero laico ha ripensato e sviluppato queste radici. La nostra comune civiltà nasce e fiorisce da semi differenti: ieri come oggi il nostro compito è riconoscerli e riaffermarli nella loro autonomia e specificità.

l’Unità 24.12.12
La fede cristiana si sviluppa intorno a un’idea di salvezza che è pienezza di umanità, nel mondo e col mondo.
La storia del Logos ne è paradigma
Un bimbo il Dio che rischia non è solo spirito
Il Natale è una memoria coinvolgente e pericolosa
Il cristianesimo non è una «religione civile»
È la compromissione radicale del divino con la storia dell’umanità che spinge i cristiani alla passione per la giustizia
di Serena Noceti


In principio era il Logos, il Logos era presso Dio e il Lo gos era Dio... E il Logos divenne carne».
Con la loro incisiva lapidarietà queste parole del Quarto Vangelo, che vengono proclamate nelle chiese ogni anno nella liturgia del Natale, consegnano a una prospettiva essenziale, davanti al profluvio di parole sulla solidarietà, la condivisione, la bontà con cui si offre la reinterpretazione del Natale in una società ormai secolarizzata e post-cristiana, ma sempre segnata nei tempi del vivere collettivo dalla sua tradizionale storia cattolica.
Sono parole che sintetizzano la coscienza di fede cristiana sulla ineliminabile relazione di Dio con il mondo, sulla sua compromissione radicale con la storia dell’umanità, e insieme vogliono esprimere una parola significativa sull’umano, a partire dalla concreta vicenda di Gesù di Nazareth.
Le parole del Vangelo di Giovanni sono parole che possono raggiungere nella loro paradossalità anche gli uomini e le donne credenti e non abitatori di questa tarda modernità, perché parlano di «divenire» e di «carne», di un definitivo (che non è l’assoluto) nel frammento di un esistenza singolare e limitata; perché hanno la capacità di interpellarci attraverso il tempo a riconsiderare in modo nuovo la nostra stessa storicità, dischiudendone orizzonti di senso e di resistente speranza.
Quando la Bibbia ricorre al termine «carne», infatti, esprime l’essere umano integrale visto nella sua fragilità, nella debolezza, nella mortalità, nello stare in una rete di relazioni che qualificano l’identità singolare e nell’essere determinato e «de-finito» dallo spazio e dal tempo.
La fede cristiana si sviluppa intorno a un’idea di salvezza che è pienezza dell’umanità, nel mondo e con il mondo, di cui la storia del Logos incarnato è fondamento e paradigma. La progressiva tecnicizzazione del mondo e della vita, lo sviluppo rapido dei sistemi di comunicazione e di trasporto, l’evoluzione dei sistemi sociali stanno modificando in maniera sostanziale proprio la nostra percezione dello spazio e del tempo. «Com-presenti» al mondo intero e segnati da un egemonico presente che sembra presentarsi a noi già compiuto, pronto per essere consumato e abbandonato per fare spazio non al futuro, ma a nuovi presenti, siamo affascinati da una «possibile onnipotenza» e insieme sperimentiamo un inedito dis-orientamento: abbiamo smarrito il senso del tempo, di una storia collettiva che goda di radici che custodiscono identità in divenire, di una progettualità di futuro capace di una speranza che orienti le prassi dell’oggi. L’annuncio cristiano ha al centro non una verità a-storica su Dio, ma la paradossale affermazione che mediatore di salvezza per l’umanità intera è l’uomo Gesù Cristo, nella singolarità della sua vicenda umana, data nello spazio e nel tempo: una biografia segnata dalla parzialità come ogni altra esistenza umana (a iniziare da quella di sesso), ma capace di interpretare il «qui ed ora» nella permanente dinamica trasformativa del futuro. Davanti a quella volontà di potenza che ci fa perdere di vista la nostra condizione di fragilità il cristianesimo proclama non una verità a-storica sul divino e sulla trascendenza, ma il volto di Gesù di Nazareth. Nel Natale ricorda che, se contraddistingue l’umano (e il divino) lottare per ridurre ogni fragilità e vincere ogni alienazione, è proprio della maturità umana la coscienza che individuazione del senso, esercizio di libertà, crescita autentica sono connessi con il limite e il determinato.
Non «semplicemente» il «farsi uomo» di Dio, ma il «farsi carne» (sarx), lo sperimentarsi nella condizione spazio-temporale e nella storicità di un divenire libero e responsabile, per una salvezza che passa dall’impotenza della sarx di Gesù e quindi non impone, non vincola, ma si propone alla libertà di ognuno. È una proposta di fede che chiede di superare ogni concezione di un Dio «a-patico» e immutabile e ogni comprensione della verità che sia a-storicamente pensata, per aprirsi a una rivelazione di Dio nella storia e come storia, che comporta interpretazione e coscienza del relativo. Al di là del pittoresco e dell’aurea di innocente candore veicolata dai nostri presepi, il Natale è una memoria coinvolgente e pericolosa perché costringe ad abbandonare un’idea infantile di salvatore che, quale onnipotente e deresponsabilizzante Deus ex machina sceso nei contesti dolorosi della vita in cui si è sperimentato il limite del nostro possibile, viene a liberarci dalla finitudine dell’umano e dal rischio della libertà.
Fin dall’inizio del cristianesimo si è vigilato per mantenere la verità della «carne» di Gesù davanti alle ricorrenti tentazioni gnostiche, alle riduzioni spiritualizzanti o etiche della fede, al concentrarsi sulla natura divina di Cristo a detrimento della concretezza della sua persona umana. Anche oggi, in un tempo in cui è sempre più evidente la tentazione di risolvere l’esperienza cristiana nell’interiorità o in una spiritualità dedita a un sacro che semplifica e rifugge dalla complessità del mondo, mentre molti tentano di ri-ascrivere il cristianesimo a un destino di civil religion, la memoria del «Natale nella carne» si pone come interruzione necessaria per i cristiani affinché ritornino a declinare un annuncio significativo per tutti, perché ancorato all’effettività corporea di Gesù quale luogo dell’esserci di Dio, capace di ridisegnare il pensiero sull’umano e sul divino.

l’Unità 24.12.12
Bersani: «Il Pd è l’unico punto fermo nel caos»
Il segretario: basta maggioranze «strane»
Il leader democratico ringrazia il Professore e guarda avanti
Alle critiche replica: «La parola torni agli italiani, adesso serve una maggioranza vera, non “strana”»
di Natalia Lombardo


ROMA «Il Pd è l’unico punto fermo» in questa situazione caotica di coalizioni fluttuanti, di spaesamento politico e di attrazione verso un’area che mira a indebolire il centrosinistra: questa è la convinzione che Pier Luigi Bersani ha ribadito ieri alle persone a lui vicine. Ufficialmente, ha risposto con distaccata cortesia e cautela alle parole di Mario Monti, senza raccogliere il tentativo del premier uscente di scompaginare l’accordo elettorale tra il Pd, la sinistra di Vendola e la Cgil, prevedendo un allontanamento di quei democratici, come Ichino, che più si riconoscono nell’Agenda Monti.
SCOMPAGINARE IL PD?
Il Professore nella conferenza stampa di fine anno ha giudicato il leader Pd come «un più che legittimo e un più che credibile candidato premier di una coalizione», ma gli ha lanciato un avvertimento tutto suo: se il «conservatore» Vendola (secondo il Professore) ha chiesto a Bersani di «prendere le distanze dall’agenda Monti. È diritto di Vendola chiederlo, è diritto di Bersani riflettere se aderire». Monti apparentemente dice «non voglio scompaginare le case altrui», ma di fatto si incunea nel dibattito interno al Pd «dove ci sono Fassina ma anche Ichino», quindi «posizioni articolate» sulla politica economica. E avverte Bersani: restando alleati con Sel, chi ha «più propensione» alle riforme potrebbe andarsene e lui sarebbe pronto ad accoglierlo nel contenitore ancora senza forma: «Se questo passaggio fosse necessario per dare massa critica a chi è disposto a lavorare per cambiare le cose, ben venga».
Con fair play il segretario Pd non entra in polemica con Monti e chiarisce un atteggiamento “laico”, facendo capire che i conti si faranno alle urne: «Ascolteremo con grande attenzione e rispetto le proposte di Monti sia laddove coincideranno con le nostre, sia laddove se ne allontaneranno», ma sulle prospettive politiche, «già da domani la parola passerà agli italiani», aggiunge, perché ciò che serve ora è una «maggioranza politica non più “strana” ma vera e coerente, saldamente europeista e saldamente riformatrice».
Del resto Bersani guarda avanti a un’alleanza fra progressisti e moderati e apprezza la di distanza dell’ormai ex premier dalla destra di Berlusconi, ma fa capire che la volontà «riformista» appartiene al Pd. Il cui leader sui temi concreti rilancia la necessità di un cambiamento. Se dall’esperienza del governo tecnico «bisogna preservare quel che si è fatto di buono e fare quello che non si è fatto fin qui», spiega, ora «ci vuole più cambiamento, ci vuole più equità, ci vuole più lavoro». Riguardo ai temi di merito indicati dal premier dimissionario il segretario puntualizza che «ci stiamo lavorando da anni con proposte precise in vista di una riscossa italiana fondata su moralità e lavoro».
Comunque il tono è di rispetto per l’azione del premier tecnico, infatti Bersani ricambia i ringraziamenti riconoscendo «il contributo che ha dato all'Italia guidandola fuori da un rischio di precipizio». Nessun pentimento da parte dei Democratici sul sostegno al governo dato con «lealtà e coerenza anche nei momenti e nelle condizioni più difficili» e che ancora non sono passati, dal momento che «la crisi c’è ancora e anzi è davanti alla sua fase socialmente più acuta» e che, fa notare il leader Pd, «forse è questo quello che è mancato di più nelle parole, pur apprezzabili, del presidente del Consiglio», parole «serie e in qualche caso puntigliose», osserva.
Mario Monti, quando Lucia Annunziata intervistandolo nella puntata di In Mezz’ora ha letto il commento del segretario Pd, non vi ha trovato un elemento di chiusura: «Non la vedo così. Bersani mi sembra molto legato giustamente alle idee sviluppate dal Pd, ma molto attento al dialogo: non mi sembra un’espressione di cortesia punto e a capo».
CAMUSSO E VENDOLA
A Susanna Camusso invece non va giù l’accusa montiana di essere «legata al passato», e che la Cigl freni le riforme; la segretaria nazionale ricorda che «molti provvedimenti che ha preso il governo non hanno affrontato il tema dell’emergenza del lavoro e della condizione dei lavoratori» e il governo non ha fatto nulla per «mettere fine a un’azione di discriminazione» verso la Cgil estromessa dalla Fiat, «questa sì mi pare una idea un po’ regressiva».
Anche Nichi Vendola risponde garbatamente all’ex premier. «Nessuno di noi si batte per una prospettiva di regresso», al contrario è urgente «andare avanti: nel senso di far guadagnare diritti alla società italiana. Penso che non si possa credere che i diritti per i giovani e nel mondo del lavoro siano il segno di un mondo arcaico, un reperto archeologico», mentre la politica del rigore, portata avanti da Berlusconi e poi da Monti, è «un rigore a senso unico che colpisce duramente i ceti popolari e fa smottare il ceto medio».

il Fatto 24.12.12
Dopo l’annuncio
Bersani a Monti: ora si dovranno contare i voti
di Carlo Tecce


Coperto il versante di destra, Mario Monti direziona i cannoni verbali verso sinistra: “Dentro il Pd c’è una posizione Bersani, una Fassina, una Ichino. La posizione sul mercato del lavoro è articolata, la Cgil, storicamente vicina ai democratici, è stata contro la riforma del lavoro e l’unico sindacato che non ha partecipato all’accordo sulla produttività”. E non manca l’orpello su Nichi Vendola, un asse del centrosinistra, che non è “mai stato liberale”.
PIER LUIGI BERSANI, che sente scricchiolii nel partito, interviene in diretta con un’agenzia di stampa, proprio mentre il professore, da Lucia Annunziata, continua l’assalto al Pd: “Lo abbiamo sostenuto con lealtà e coerenza anche nei momenti e nelle condizioni più difficili. Non abbiamo ragione di pentircene. Tuttavia, la crisi c’è ancora e anzi è davanti alla sua fase socialmente più acuta. Forse è questo quello che è mancato di più nelle parole, pur apprezzabili, del presidente del Consiglio. Adesso bisogna preservare quel che si è fatto di buono e fare quello che non si è fatto fin qui. Quanto alle prospettive politiche, già da domani la parola passerà agli italiani”. Tradotto: vediamo chi vince le elezioni, noi siamo la prima coalizione italiana; se dovessimo ottenere il governo del paese, poi potremmo pensare a collaborare con i moderati. Bersani chiude le porte in uscita, ma chi tiene un piede fuori, adesso che Monti è “asceso in politica” (così dice il prof.), non lo ritrae. Il senatore (e giuslavorista) Pietro Ichino, che non vuole ricandidarsi con il Pd, chiede al segretario di registrare la bussola: “A questo punto è il Pd che deve chiarire la propria posizione. Noi ascoltiamo Bersani che va nelle capitali europee a tranquillizzare gli interlocutori, dicendo che il centrosinistra proseguirà nella strategia europea di Monti, però sentiamo il responsabile nazionale per l’economia del Pd che dice, in modo molto netto, che la strategia di Monti è la causa dei mali dell’economia italiana. Io chiedo al Pd di allearsi con tutte quelle forze che sceglieranno di far parte di questa linea europea. Se Bersani farà questa scelta - conclude – io sarò felice, ma dovrà smentire categoricamente Fassina. A queste condizioni resto con il Pd, altrimenti farò la campagna elettorale con l’agenda Monti”.
E FASSINA? Non si preoccupa, l’economista del contendere, avverte il sostegno di Bersani che corrisponde a una maggioranza interna. Il segretario generale Cgil, Sussanna Camusso, difende la gestione del sindacato: “In momento occasioni ci siamo trovati in dissenso con Monti non perché vogliamo un passato che non c’è più, ma perché non c’è futuro senza lavoro ben retribuito e con i diritti”. E Nichi Vendola spiega perché Sel non ha accolto l’agenda Monti: “Ringrazio il presidente per la considerazione che ha sul carattere innovativo di alcune delle posizioni che io sostengo nel dibattito pubblico. Vorrei però rassicurarlo su ciò che più lo turba: nessuno di noi si batte per una prospettiva di regresso, né intende tornare indietro. Il punto al contrario è che è urgente andare avanti: nel senso di far guadagnare diritti alla società italiana. Penso non si possa credere che i diritti siano il segno di un mondo arcaico, un reperto archeologico”. Non male come primo atto di Monti in politica, anche qui, visto dal centrosinistra.

La Stampa 24.12.12
Pd, ora comincia il travaglio Ma regge l’asse con Vendola
Il dubbio però è quanti lasceranno il partito, scegliendo l’agenda Monti
di Federico Geremicca


Se il paragone fosse accettabile, si potrebbe dire che è come per un aereo in fase di decollo, raggiunta una certa velocità, fermarlo è impossibile: se si accoglie la semplificazione, questa potrebbe essere la migliore fotografia del Pd che corre verso le elezioni. La rotta è ormai segnata, la velocità già troppo elevata e - Monti o non Monti, agenda o non agenda - a questo punto non si può che andare avanti...
I rischi aperti dalla mossa del Professore, del resto, erano presenti e noti già prima: ora sono solo confermati, e meglio definiti. La parola però sta per passare al popolo ed è dal popolo che Pier Luigi Bersani, adesso, spera di avere la quantità di consensi necessari ad evitare di finire nella trappola (nemmeno poi così nascosta...) che lo attende: un risultato elettorale che non assegni al tandem Pd-Sel la maggioranza anche al Senato, rendendo così inevitabile un patto tra centrosinistra e centro per il governo del Paese. Un patto che, secondo ogni pronostico, prevederebbe che a Palazzo Chigi resti (o torni: è uguale) Mario Monti, con la sua agenda, il suo profilo rassicurante e la benedizione di mercati e cancellerie.
Ora che è diventato chiaro che questo rischio non solo non è evitabile ma è addirittura rafforzato dalla scelta-non-scelta di SuperMario, nel Pd le acque naturalmente si vanno agitando: e tra genuini travagli politici e arrabbiature per mancate ricandidature (travestite anch’esse, però, da travagli politici...) sta arrivando il momento dei primi abbandoni e di annunci o preannunci di abbandono. Se ne vanno quattro parlamentari legati a Beppe Fioroni - per dire Pietro Ichino si dice pronto a seguirli mentre tutto ancora tace (ma per quanto?) nel campo dei cosiddetti “filomontiani” del Pd...
Al mezzo scompiglio in casa democratica, naturalmente, ha dato una importante accelerazione - ieri - proprio Mario Monti, entrando a gamba tesa negli “affari interni” del Pd, in maniera inattesa per i più: che linea ha il partito - ha chiesto - quella di Bersani o quella di Fassina? E che mi dite del disagio di Pietro Ichino, delle posizioni di Susanna Camusso e Nichi Vendola? I democratici non hanno granchè gradito l’intrusione, naturalmente. Pur sapendo (o forse proprio per questo) che l’oggetto dell’intrusione - la linea in economia e il rapporto con Vendola - sarà precisamente l’argomento più insidioso che gli avversari politici useranno in campagna elettorale.
Ieri Massimo D’Alema - i cui rapporti con Nichi Vendola pure sono storicamente segnati da alti e bassi - ha difeso con convinzione il governatore della Puglia richiamando gli ottimi risultati (soprattutto in economia) raggiunti nella sua regione. Sa che questo argomento non sarà sufficiente a rassicurare chi non vuol essere rassicurato: ma mettendolo in campo con energia - insieme all’invito a considerare che bolscevichi in giro non ce ne è più... - ha confermato che la linea del Pd non cambierà.
Il patto con Vendola insomma regge e, del resto, sarebbe strano immaginare rotture, a questo punto: il governatore ed il suo partito hanno partecipato a primarie di coalizione per la scelta del premier assieme al “popolo del Pd”, stanno ora impegnandosi nelle primarie per la scelta dei candidati di Sel alla Camera e non è che tutto questo si possa buttar per aria perchè Monti - e non solo Monti, naturalmente - ha perplessità sul “rigore” delle politiche economiche che potrebbe mettere in campo un governo Pd-Sel.
Si va alle urne insieme a Vendola, dunque: e non a Ichino, ancora per dire. E’ una scelta, del resto, che - secondo la maggioranza bersaniana - non fa una piega né sul piano della linea né su quello del rispetto delle regole democratiche: «La linea Renzi-Ichino è stata proposta e già battuta alle primarie - spiegava ieri un autorevole dirigente Pd - e non si capisce perché dovremmo farla nostra adesso». Avanti tutta, insomma. Si va alle urne insieme a Vendola, dunque, ma sapendo che questo comporta un rischio e propone un interrogativo: quanti lasceranno ancora il Pd scegliendo l’agenda Monti piuttosto che Nichi Vendola? Difficile fare pronostici. Difficile, forse, anche per Bersani: che nonostante il grande vantaggio assegnatogli da ogni sondaggio, comincia a dormire sonni appena appena meno tranquilli...

Repubblica 24.12.12
Il Pd: andiamo alla sfida
Il Professore apre il cantiere-liste e Pierluigi si prepara a sfidarlo “Tardi per un patto elettorale”
di Goffredo De Marchis


COLLOQUI telefonici con Casini e Montezemolo. Una riunione serale con i ministri che lo seguiranno più da vicino nell’avventura politica: Corrado Passera, Enzo Moavero, Andrea Riccardi.
«È ARRIVATO il momento di accelerare », è stato l’imperativo del premier. Già nel corso di questa settimana, dopo le adesioni all’agenda Monti, arriveranno le prime risposte dei candidati di una lista che ormai, movimenti e partiti, hanno accettato di lasciare nella piena disponibilità del Professore. Italia Futura prepara una conferenza stampa per il giorno dopo Santo Stefano. Ha dato il via a una campagna acquisti che non esclude affatto i politici di destra e di sinistra, come dimostra l’arruolamento non sorprendente del senatore Pd Pietro Ichino. «Monti in campo significa rompere gli steccati dei vecchi schieramenti. Siamo pronti ad accogliere gli innesti della buona politica da qualunque parte essi provengano», spiega Carlo Calenda, uno dei più stretti collaboratori di Montezemolo.
Nell’area del centro si festeggiano così le parole del presidente del Consiglio. Come un invito ad andare avanti, anzi a darsi una mossa, a mobilitarsi più di prima, anche a raccogliere le pre-registrazioni alla lista per dimostrare “muscolarmente” interesse e voti futuri a favore dell’impegno diretto di Monti. Quella di Montezemolo (e di Monti) ha le sembianze di un’Opa ostile sul centrodestra ma anche sul centrosinistra. «Siamo aperti ai contributi di tutti i riformisti», insiste Calenda. Non è da escludere una nuova offensiva diretta a conquistarsi la simpatia di Matteo Renzi, nell’ottica di una scomposizione totale del quadro dove tutto viene rimesso in movimento grazie a Monti. E va registrato, accanto a quello di Ichino, il forfait di quattro parlamentari cattolici del Pd, che ancora prima di leggere le motivazioni del premier, mollano il partito e si avvicinano alla lista Monti. Li guida Lucio D’Ubaldo, senatore vicino a Beppe Fioroni. «Io, Benedetto Adragna, Flavio Bertoldi e Giampaolo Fogliardi siamo fuori dal Pd. Occorreva dare un segnale. Il dissenso di Ichino non è cosa diversa dal nostro». Fioroni non li segue: «Sono solo quattro sui 45 del mio gruppo — minimizza — . Ma per me la linea non cambia. Monti e Bersani contino i loro voti. Chi arriva primo va a Palazzo Chigi collaborando con l’altro. È una strada che avremmo dovuto dichiarare subito senza delegare alle primarie il nostro profilo ma facendo politica».
Come si costruisce questa collaborazione? È la domanda che si pone Pier Luigi Bersani dopo aver assistito da casa al Monti-day televisivo. Il segretario del Pd apprezza le aperture del premier presenti anche nell’intervista a Repubblica.
Considera fondamentale la rottura definitiva con Berlusconi. «Molti dei punti indicati da Monti sono gli stessi che noi proponiamo da un anno e mezzo », aggiunge. Ma c’è un problema di fondo: la prospettiva di un patto tra progressisti e moderati, sul modello sempre seguito da Bersani, andava costruita prima. «Mancano 15 giorni alla presentazione delle liste e per noi la campagna elettorale è già cominciata. Io aspetto ancora di capire. Aspetto che si configuri questo fantomatico centro — dice Bersani commentando con i suoi collaboratori la conferenza stampa del premier — , rimane un po’ di confusione. E non so se siamo ancora in tempo per fare un percorso comune in campagna elettorale. Finiremo invece per metterci le dita negli occhi? Beh, dopo diventerà tutto più difficile ». Fa piacere, al candidato del centrosinistra, la dichiarazione di amicizia di Monti e il riconoscimento della sua serietà. «Ma la politica è altra cosa dall’essere amici». Sicuramente il Pd considera ostile un manifesto che si rivolge a elettori di destra e di sinistra come se i due schieramenti fossero uguali. Sicuramente è irritante che Ichino e altri salgano sul carro di Monti dopo che il Pd ha fatto le primarie, cioè una prova di democrazia diretta, per stabilire una linea e un leader. «C’è stato un confronto e c’è stato un vincitore. Non è accaduto tutto per caso », dice Bersani.
In attesa che sia definito il campo elettorale, Bersani e il Pd sono convinti che le primarie per i parlamentari del 29 e 30 daranno un nuovo impulso al Pd. A gennaio comincerà la volata verso le urne del 24 febbraio puntando su una campagna modello Hollande: attenzione ai temi economici e sociali visti attraverso la piattaforma dei progressisti in Europa. Accordi con Monti prima del voto appaiono ormai impossibili. I candidati in pista saranno tre. «Con il Professore — commenta Francesco Boccia — avremo solo una comune visione su chi crede nell’Europa politica».

La Stampa 24.12.12
Con la Camusso tredici mesi di dialogo mai iniziato
Il Professore ha fatto un tentativo: respinto senza esitazioni
di Stefano Lepri


Era partito difficile fin dall’inizio, il rapporto tra il governo Monti e la Cgil. Già dopo pochi giorni, il 9 dicembre 2011, Susanna Camusso lo accusava di voler colpire i redditi medio-bassi piuttosto che «cercare risorse nell’evasione fiscale». Su quest’ultimo punto la leader della maggiore confederazione sindacale si è poi ricreduta, anzi la lotta all’evasione è il merito principale, o forse l’unico, che a Monti attribuisce.
Dopo, è andata sempre peggio. Già il 19 dicembre Camusso giudicava «folle» la riforma Fornero delle pensioni, mentre il Pd si apprestava a votarla in Parlamento. Lo scontro vero e proprio, sulla riforma del mercato del lavoro, ha eliminato ogni possibilità di recupero. Dopo l’estate scorsa, la Cgil ha ancora indurito i toni, arrivando qua e là ad affermazioni più vicine a quelle di Nichi Vendola.
In una intervista di tre settimane fa, ad esempio, il segretario generale ha dichiarato: «Berlusconi non aveva un’idea forte di politica economica. Monti ce l’ha» ed «aumentare le disuguaglianze ne è una parte fondante». Così l’accusa di ieri del presidente del Consiglio alla Cgil, ovvero di essere conservatrice, non poteva suonare da quella parte che come - per usare una frase fatta della retorica politica - una «puntuale conferma».
Anche Maurizio Sacconi, ministro del Lavoro nel governo Berlusconi, accusava la Cgil di essere «conservatrice». Ma lì il procedimento era opposto, tutto politico: l’impulso primo era di isolare la Cgil, la mossa successiva di trovarne un perché. Dal punto di vista di Monti e dei suoi, in questi 13 mesi è avvenuto invece l’opposto: un tentativo di dialogo che è stato respinto.
Certo il governo dei tecnici ha rifiutato di «concertare» con i sindacati la riforma delle pensioni. A parte l’urgenza, la scelta aveva una sua logica: i sindacati oggi in Italia rappresentano soprattutto i lavoratori di una certa età, più o meno vicini al ritiro, mentre la previdenza doveva essere resa sostenibile nell’interesse soprattutto dei giovani e delle generazioni future.
Sul mercato del lavoro invece il confronto c’è stato, ma è andato male. Né si è trattato soltanto dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, a cui il governo ha attribuito un’importanza cruciale, non condivisa da diversi economisti e perfino da alcuni imprenditori. La logica di insieme della riforma era di tutelare un po’ meno i lavoratori fissi e un po’ di più i precari, con una specie di do ut des. Almeno agli occhi del governo, la Cgil mentre faceva muro contro la prima parte pareva poco interessata alla seconda.
Per ridurre il dualismo del mercato del lavoro, tra fissi e precari, Monti ha detto ieri che occorrerà appunto intervenire ancora. La sua impressione sembra che la Cgil, forte tra gli anziani e debole tra i giovani, anche al di là dei propositi sia inevitabilmente spinta a tenere le cose come stanno, garantiti da una parte, non garantiti dall’altra.
Meno chiaro è che cosa abbia portato alla rottura più recente, sul patto per la produttività. E’ lecito dubitare che non si tratti né come sostengono i suoi esaltatori di una mossa essenziale per la crescita economica né - come proclamano la Cgil e l’estrema sinistra di un grave arretramento delle condizioni dei lavoratori. Del resto, l’eco sui mercati finanziari è stata molto modesta, per non dire che pochi se ne sono accorti.
In concreto a seguito dell’accordo sulla produttività si potranno avere aumenti di salario sgravati dal fisco nelle aziende dove direzione e sindacati collaboreranno. Si può anche ritenere che sarebbero stati più utili sgravi fiscali in altra forma, ad esempio sulle assunzioni. Ma Monti ne è uscito persuaso che le ragioni del no della Cgil siano soprattutto ideologiche. Per questo forse ha parlato di «visione nobilmente arcaica»; o sarà lui a spiegarcelo meglio nelle prossime settimane.

Corriere 24.12.12
«Monti come la Thatcher, sul lavoro sbaglia tutto»
Camusso: mai frenato il Pd. I progressisti sono in grado di governare da soli
di Lorenzo Salvia


ROMA — «Non siamo noi ad essere fermi al passato, è Monti che propone una ricetta vecchia di 30 anni». La conferenza stampa di Mario Monti, Susanna Camusso l'ha ascoltata in diretta mentre viaggiava in treno. Le gallerie le hanno impedito di sentire proprio quelle parole, quelle critiche del presidente del Consiglio alla Cgil, considerata un ostacolo alle riforme: «Le ferrovie — scherza il segretario generale — sono cortesi con i propri passeggeri. In effetti sarei stata sorpresa se non ci avesse attaccato». Poi, arrivata in stazione, ha sentito pure i passaggi che si era persa.
Perché dice che è Monti a essere fermo al passato?
«La sua ricetta prevede il taglio delle retribuzioni e la riduzione delle tutele nei contratti nazionali di lavoro. Una ricetta che abbiamo già conosciuto con la Thatcher, con Reagan, con il precedente governo italiano. Un programma che ha già dimostrato tutta la sua fallacia aumentando la precarietà e riducendo il valore sia del lavoro sia delle imprese. Ho la sensazione che Monti insista su questa strada liberista anche perché non è abituato a misurarsi con la concretezza dei problemi del lavoro».
Segretario, sta dando ragione a Berlusconi. Usa le sue stesse parole quando dice che Monti è un professore e non è mai stato nella trincea del lavoro.
«Non ho visto Berlusconi in tv, me lo sono risparmiato. Mi pare non riesca più a uscire dal personaggio, ripete una litania che non può essere condivisa. Anzi, credo che molte delle cose che il governo Monti è stato costretto a fare siano figlie di tre anni di sottovalutazione della crisi. Detto questo credo che per Monti, secondo la sua vecchia impostazione liberista, il lavoro sia solo una variabile di costo da tagliare e non la fonte della ricchezza. Sono idee conservative, da partito conservatore».
Ecco, da partito conservatore. Dice così perché considera sbagliata un'alleanza che, dopo le elezioni, il Pd potrebbe chiudere con il centro, sostenuto piò o meno esplicitamente da Monti?
«Questo è il momento in cui i partiti dicono quali sono i loro programmi e invitano i cittadini a votare per quei programmi».
D'accordo. Ma se dopo le elezioni, specie al Senato, il Pd e Vendola non avessero i numeri per governare pensa che sarebbe sbagliato allargare la maggioranza verso il centro?
«Diciamo che al momento mi pare importante che il fronte progressista sia in grado di governare da solo. Non c'è una condanna atavica per cui nel nostro Paese non possa governare una sinistra progressista oppure una destra moderna. Non è scritto da nessuna parte».
Be', in un certo senso è scritto nella legge elettorale: quella che abbiamo non aiuta certo la governabilità.
«Questo è vero, il Porcellum è stato scritto da chi avrebbe perso le elezioni per limitare la sconfitta. C'è un ventennio che va chiuso, dobbiamo voltare pagina».
Monti dice anche che voi avete frenato il Pd. Su cosa? Sulla riforma del lavoro, sull'accordo per la produttività?
«Su nulla, siamo solo stati dialettici come deve essere una forza sociale. Ma Monti, non è una sorpresa, non riconosce la nostra autonomia e la nostra rappresentanza. Mi colpisce che si parli del sindacato come di un ostacolo alle riforme e di un ex presidente di Confindustria che è stato molto rappresentativo della sua organizzazione, Montezemolo, come società civile».
Le leggo una sua frase del primo dicembre 2011: «Monti segna il ritorno alla civiltà. Siamo tornati un Paese dove si dice buongiorno, dove non ci si insulta, e si può esprimere dissenso». Poi che cosa è successo?
«Guardi che confermo tutto. Dobbiamo sempre ricordarci come eravamo messi 13 mesi fa: su tante cose Monti ha ricostruito quello che Berlusconi aveva distrutto. Ma la agenda che sta indicando guarda fortemente a destra e noi non siamo d'accordo, tutto qua. Semmai, rispetto ad allora, posso dire che è un po' più permaloso di quanto pensassi».
A cosa si riferisce?
«Non è sereno quando qualcuno gli dice che non riconosce il disagio sociale del Paese. Non è un caso che nella sua conferenza stampa non ne abbia fatto cenno. Il Paese, quello vero, non c'era. Basti dire che ci sono voluti undici mesi per accorgersi davvero di quanto era pesante il problema degli esodati».
Lei ha detto che Monti non ha idea di cosa fare per la crescita. Lei cosa farebbe?
«Secondo Monti per crescere bisogna tagliare. Per me bisogna investire».
D'accordo, ma i soldi dove li prendiamo?
«È vero, abbiamo poche risorse. Ma qualcosa abbiamo e, ad esempio, potremmo utilizzare al meglio quelle della Cassa depositi e prestiti. E poi servirebbe una patrimoniale che, oltre ad avere un valore simbolico di reale distribuzione dei sacrifici, ci permetterebbe di programmare una politica industriale, puntando su alcuni settori nei quali siamo forti».
Non c'è il rischio che con la patrimoniale i patrimoni vadano all'estero e alla fine si incassi poco?
«Il problema potrebbe teoricamente porsi ma ormai siamo tra i pochi Paesi europei a non avere questo tipo di tassazione. Una tale misura, oltre che economicamente apprezzabile, avrebbe anche un valore simbolico rilevante e tutti sappiamo quanto i simboli siano importanti specie in un momento di sacrifici. Non dimentichiamo poi che questo governo ha bloccato la rivalutazione delle pensioni sopra i 1.400 euro al mese e non è intervenuto significativamente sulle pensione d'oro».
Che voto finale dà al governo Monti?
«Non ne basta uno solo. Ha fatto benissimo dal punto di vista della credibilità dell'Italia all'estero e anche, con la lotta all'evasione, per la tenuta del patto fiscale di cittadinanza. Ma sul piano delle politiche sociali e del lavoro la bocciatura è inequivocabile».
D'accordo, ma promosso o bocciato?
«Resto dell'idea di allora. C'era un'emergenza e serviva una governo tecnico di breve durata. Ma poi un Paese forte deve dare voce agli elettori».
E se gli elettori dovessero scegliere un'altra volta Berlusconi? Sarebbe meglio o peggio di un governo sostenuto direttamente o indirettamente anche da Monti?
«Berlusconi sarebbe un drammatico ritorno al passato. Su questo non ho dubbi: i redivivi mi preoccupano, non mi affascinano».
Se invece dovesse vincere la sinistra accetterebbe di fare il ministro nel prossimo governo?
«No, assolutamente non è un tema che si pone. Neppure in astratto».
E i tanti sindacalisti che si candidano o si sono candidati?
«Libere scelte personali. La Cgil resta come sempre gelosa della sua autonomia».

l’Unità 24.12.12
Ichino e quattro senatori con Monti
Che non volevano fare le primarie
di M. Ze.


Il primo effetto, prevedibile, dell’Agenda Monti è la (quasi certa?) fuoriuscita del giuslavorista Pietro Ichino dal Partito democratico. Se l’altro ieri il senatore aveva lanciato una sorta di ultimatum al segretario Pier Luigi Bersani, «faccia chiarezza sulla linea economica», in aperta polemica con Stefano Fassina, responsabile economico del Nazareno, ieri è stato esplicito: «Sono disponibile a candidarmi per una lista Monti e a guidarla, in Lombardia, come nel resto d’Italia». Disponibile, ma in attesa di una risposta resta nel Pd. Un annuncio che non ha colto di sorpresa gli Stati generali al Nazareno, «lo sapevamo, era chiaro che stava cercando un pretesto per andare via. La linea economica del Pd, su cui tanto insiste Ichino è chiara, è quella con la quale Bersani ha vinto le primarie», commenta un collabatore del segretario. «Le primarie servono a fare scegliere i cittadini. Se a Ichino interessava il loro giudizio poteva candidarsi.
Non farlo per poi sostituirle con un gioco della torre in cui qualcuno finisce scaricato è un’operazione priva di senso. Le primarie del Partito Democratico sono aperte a Ichino, come a Fassina. E se vuole anche a Monti», replica invece Nico Stumpo, responsabile Organizzazione. E se qualcuno è entrato in fibrillazione temendo un’emorragia di renziani (Ichino è stato uno degli estensori del programma del sindaco di Firenze alle primarie), Bersani è tranquillo. Renzi è e rimarrà nel partito, i suoi più fedeli sostenitori sono candidati alle primarie o in quota protetta nel listino, da Roberto Reggi, a Giorgio Tonini, Salvatore Vassallo, Simona Bonafé e parecchi amministratori e dirigenti locali.
Escono invece quattro cosiddetti “fioroniani”, anche se il detentore del copyright, Beppe Fioroni, preferisce definirli «parlamentari vicini a noi ex popolari»: i senatori Benedetto Adragna, Flavio Pertoldi, Lucio D’Ubaldo ed il deputato Giampaolo Fogliardi, che hanno già costituito il gruppo «Popolari per Monti». Scrivono: «La proposta che meglio corrisponde al bene del Paese consiste unicamente nell’alleanza tra forze riformatrici ed europeiste, con l’indicazione di Mario Monti a Presidente del Consiglio».
Commenta sarcastico Fioroni: «Anche questa non è una novità, l’avevamo immaginato. Non si sono candidati alle primarie perché non avevano un elettorato di riferimento e dunque si sono regolati di conseguenza». Ma non è detto che siano gli unici. «Libertà eguale», di Enrico Morando, Ichino, Stefano Ceccanti ospiterà Monti alla propria assemblea annuale il 12 gennaio e già lì si capirà se valuteranno l’adesione all’Agenda del premier o continueranno a cercare di spostare al centro la linea del partito.
Enrico Letta osserva di fronte ai timori di nuove defezioni osserva: «Abbiamo le file davanti alle nostre porte per le candidature e le primarie». Uno strumento, questo, con il quale i democratici puntano a riconquistare la scena politica nei prossimi giorni per scongiurare il rischio di una polarizzazione della campagna elettorale Monti-Berlusconi di cui ieri si è avuto un ricco assaggio. Dai primi dati che confluiscono dalle direzioni provinciali si delinea già il profilo dei candidati: il 45% è donna, l’età media è di 40-45 annui, il 20% ha meno di 30 anni e il 60% sono new entry. I dati non sono ancora definitivi, bisognerà aspettare oggi, capire quanti ricorsi saranno presentati e quale sarà la conclusione per ognuno di loro, ma il segretario è certo che sarà un’ennesima iniezione di freschezza e partecipazione di cui non solo il Pd ha bisogno ma l’intero Paese per combattere la disaffezione verso la politica che ormai colpisce tanta parte degli elettori.
Ma in Campania scoppia dura la polemica: una vera e propria rivolta dei sindaci di fronte alla conferma della richiesta del Pd napoletano al segretario di essere capolista a Napoli oltre che a Milano e Roma. Alla base dei malumori la decisione di non derogare i sindaci delle città con più di 5mila abitanti, concedendole invece ai consiglieri regionali. «È assurdo dice il segretario di Napoli Gino Cimmino non avere la deroga per i sindaci campani che si volevano candidare alle primarie». «Siamo di fronte a liste troppo chiuse», dice l’europarlamentare Andrea Cozzolino.
Record di candidati a Milano e provincia: 36 candidati, mentre in tutta la Regione i posti sono 130 (150 con i capolista e i componenti del listino).

La Stampa 24.12.12
Pietro Ichino
“Pronto a guidare la lista Monti in Lombardia”
“Nel Pd, tra Bersani e Fassina, posizioni inconciliabili”
di Francesco Spini


Professor Pietro Ichino, il presidente Monti l’ha chiamata esplicitamente alle armi, immaginando la possibilità che i «montiani» del Pd - a cominciare da lei - possano lavorare «per il cambiamento» anche fuori dal partito guidato da Bersani. Che cosa risponde?
«Il mio problema è molto semplice: il segretario del mio partito va a Parigi e Berlino ad assicurare che il centrosinistra guidato da lui proseguirà senza incertezze sulla linea tracciata da Mario Monti; a Roma però il responsabile nazionale dell’Economia dello stesso mio partito, non smentito dal segretario, dice che la strategia delineata da Monti è rovinosa per il Paese».
Fassina contro Bersani...
«Sono due posizioni tra loro inconciliabili. Mi chiedo come posso chiedere il voto degli elettori per il Pd senza che questa contraddizione sia stata risolta in modo chiaro».
Dunque scelta obbligata...
«La risposta negativa di Bersani al bellissimo discorso di Monti di oggi (ieri, ndr) è per me decisiva. La campagna elettorale la farò a sostegno dell’Agenda Monti, attorno a cui si aggregherà una forza politica nuova, fuori dagli schemi tradizionali della politica italiana».
Chi sarete a rappresentarla?
«Qui in Lombardia, come altrove, si sta formando una lista che è espressione di tutta quella grande parte della società civile che rifiuta il populismo antieuropeo di Berlusconi e che, allo stesso tempo, vede le contraddizioni del Pd su questo terreno, e invece vuole cogliere la grande occasione della crisi per allineare l’Italia ai migliori standard europei, contro tutte le chiusure corporative e le posizioni di rendita che appesantiscono il Paese. Sono pronto a lavorare per il successo di questa lista, e anche a guidarla, se così mi sarà chiesto».
Accetterete anche chi oggi è già nel Palazzo ma si dichiara montiano convinto?
«Lo stesso Monti ha chiarito che negherà il suo consenso all’utilizzo del nome “Agenda Monti”, se usato per riciclare espressioni della vecchia politica. L’intendimento è di creare una forza politica profondamente nuova, negli schemi e nelle persone».
Si aspetta un dibattito nel Pd, dopo i distinguo che il premier uscente ha fatto tra le posizioni di Bersani, Fassina e della Cgil?
«Lo spero, per il bene del nostro Paese. E il mio cuore continua a battere per quel 40% del Pd che lotta perché la sua ambiguità sulla questione cruciale della strategia europea si risolva nel modo migliore. Se mi stacco da loro, nonostante che mi sia stata offerta la candidatura nella testa di lista del Pd per la Lombardia, è perché in campagna elettorale dovrei chiedere il voto per il partito senza tanti distinguo; dovrei negare la contraddizione, che invece c’è ed è grave».
Lei come preferirebbe si sviluppasse la relazione tra il Pd e la nuova lista per l’Agenda Monti?
«La cosa di gran lunga migliore è un’alleanza del Pd con chi fa propria l’Agenda Monti. Ma un’alleanza decisa prima delle elezioni, non dopo, come Bersani dice di voler fare. Gli elettori hanno il diritto di sapere con precisione per che cosa votano. Se questo non accade, credo che i “montiani” del Pd facciano bene a votare per l’Agenda Monti».
Monti ha citato le posizioni del lavoro come punto su cui il Pd deve fare chiarezza...
«Nel memorandum il capitolo sul lavoro è sostanzialmente ripreso dal documento che nel settembre scorso Enrico Morando e io presentammo all’assemblea dei parlamentari Pd “per l’Agenda Monti al centro della prossima legislatura”. Sono le stesse cose che il vertice Ue e la Bce ci chiedono e su cui ci siamo impegnati. Su questo terreno, il programma del Pd mi sembra invece molto fumoso, e per qualche aspetto addirittura orientato in senso contrario».
Ma l’Agenda Monti è adatta per favorire la crescita?
«Se, come propone il memorandum, riusciamo ad abbattere di 20 miliardi la spesa per gli interessi sul debito pubblico portando lo spread a quota 200, e nel contempo ad aprirci agli investimenti stranieri, avremo in tempi brevi le risorse necessarie per ridurre la pressione fiscale e mettere in moto la ripresa».

La Stampa 24.12.12
Rossi: “Stupiremo Il Pd è solo al 15% degli elettori totali”
“Dal premier nessun partito personale, ma un progetto originale”
Economista Nicola Rossi, economista, ha lasciato il Pd per entrare in «Italia Futura», la lista di Montezemolo
di Alessandro Barbera


Senatore Rossi, lei in passato non ha lesinato critiche al governo Monti. È così?
«E’ vero che non ho votato la riforma del mercato del lavoro, snaturata dalla mediazione con i partiti».
Allora lei è la persona giusta: come giudica il discorso del premier?
«Ottimo. Un atto politico molto innovativo. Da vent’anni non si immaginava che un movimento politico nascesse intorno alle cose da fare prima che intorno alle persone. Contrariamente a quanto è stato detto, ciò che si può immaginare oggi, tutto è tranne che l’embrione di un partito personale».
Molti lamentano l’opposto, un discorso pieno di perifrasi: non mi candido alle elezioni, però magari alla premiership, dipende da quel che mi proporrete. Non è così?
«E non le pare innovativo un discorso del genere? Monti ha detto: questo è il programma, chi lo condivide si faccia avanti. Rispetto al dibattito politico dell’ultimo mese mi pare un enorme passo avanti. Dirò di più: dovrebbe essere la normalità. Si discuteva così anche ai tempi di De Gasperi e Togliatti. È che siamo disabituati al confronto sulle cose».
Con la legittimazione del voto Monti può essere un premier meno condizionato dalle mediazioni? Francesco Giavazzi e Franco Debenedetti parlano di «illusione tecnocratica» da superare.
«Lo ha ammesso lui stesso: per avere la forza di imporre le riforme fino in fondo ci vuole sostegno popolare».
Siete delusi dalla sua decisione di non mettere il suo nome a disposizione di un partito dei centristi?
«Io ho capito che lui non esclude ancora nulla, purché ce ne siano le condizioni. Mi pare del tutto comprensibile».
Vi presenterete come Italia Futura alle elezioni? Come vanno le trattative con l’Udc?
«La risposta a questo tipo di domanda l’avremo dopo che i nostri potenziali alleati, e tutti coloro che ci vorranno stare, avranno risposto alla domanda fatidica: il Paese lo volete davvero riformare o no? Volete una riduzione delle tasse da finanziare con un taglio alla spesa pubblica? Volete più liberalizzazioni e un mercato del lavoro più dinamico? »
Farete insieme la lista al Senato?
«La lista unica al Senato sembra una strada obbligata, vista la legge elettorale. Ma molto dipenderà dal tasso di rinnovamento e dalla presenza di persone estranee alla politica di professione che riusciremo a imporre a noi stessi. Noi comunque stiamo raccogliendo le adesioni on-line, pronti a presentare le nostre liste».
Monti ha detto di aver fatto un discorso erga omnes, la sensazione è che guardi anzitutto al Pd di Bersani.
«Non sono d’accordo. Il discorso di Monti si può riassumere in tre domande. La prima: a destra sono convinti che le ragioni del mercato possono essere difese con posizioni populiste e demagogiche? E pensano a sinistra che la giusta richiesta di equità sociale possa passare dalla difesa di antiche rendite? E la terza, rivolta a tutti gli italiani: siete certi che dobbiate tradire i valori in cui credete semplicemente per non votare contro qualcuno, che sia Berlusconi o Bersani? » Senatore, fra due mesi si vota. Mi sta dicendo che nelle vostre riunioni non parlate di alleanze? Credete di poter scompaginare gli equilibri in sessanta giorni?
«Se ragioniamo in termini di potenziali votanti, il primo partito italiano, il Pd, raccoglie più o meno il 15% dei consensi. Per scompaginare gli equilibri basterebbe un solo, parziale scioglimento del ghiacciaio del non voto».
Ottimista.
«Guardo ai fatti. È bastato un discorso di Monti per cambiare segno al dibattito. Fino a ieri l’unico tema della campagna elettorale era l’abolizione dell’Imu».
Lei prima ricordava i limiti dell’azione di Monti premier. Perché dovremmo votarlo?
«In un anno Monti ha avviato processi di cui in passato abbiamo al massimo discusso. Dalla riforma delle pensioni ad una seria revisione della spesa pubblica. Non mi sembra di ricordare una minaccia di dimissioni di Bersani quando, con l’abolizione dello scalone, abbiamo alzato la spesa pensionistica di dieci miliardi. Né ricordo aver visto Berlusconi alzare il dito mentre fra il 2001 e il 2006 la spesa correva allegramente. I costi li paghiamo oggi. E la differenza è evidente».

Repubblica 24.12.12
Intervento del presidente della Cei, Bagnasco
E il cardinale Bertone: “Non è tempo di facili promesse”
L’endorsement dei vescovi al premier “Proposte concrete e metodo innovativo”
di Marco Ansaldo


CITTA’ DEL VATICANO — Il cardinale Angelo Bagnasco plaude Mario Monti e al suo «metodo». E il segretario di Stato Tarcisio Bertone invita i politici a fare meno promesse e pensare di più al bene comune. Intanto Marco Tarquinio, il direttore, indica sul sito dell’Avvenirela ricetta dei cattolici per salvare l’Italia. Due buoni e grandi pilastri, adatti a chi sogna un bipolarismo diverso da quello degli ultimi 18 anni.
Prende posizione la Chiesa italiana sulle ultime vicende politiche. Monti - dice il presidente della Cei in un’intervista al Gr1 «ha presentato un modo, una strada, che mi pare sia offerta alla riflessione seria e onesta di tutti, indistintamente, creando secondo le scelte di ciascuno un consenso, una posizione. Mi pare sia un metodo innovativo sotto questo profilo e tutti quanti, se vorranno, nel mondo politico e nella gente potranno misurarsi su queste proposte concrete».
Bertone, invece sprona il mondo politico. «Soprattutto coloro che sono impegnati nella sfera sociale e politica facciano un buon proposito: non basta parlare, non basta fare promesse, non basta nemmeno proferire denunce sulle stridenti ingiustizie se invece non c'è una presa di coscienza più viva sulle proprie responsabilità e se non c'è accanto a questa responsabilità la volontà di fare e di fare il bene comune», dice il segretario di Stato.
Tarquinio, parla dei due pilastri del nuovo bipolarismo, ma non si spinge a dire di più. Ma il commento, titolato “Serietà e chiarezza oltre ogni convenienza” provenendo dai più alti ambienti ecclesiastici assume una valenza significativa nel momento della nuova discesa in campo di Silvio Berlusconi e dell’avvicinarsi della data delle elezioni. È evidente l’apertura della Chiesa – mentre è in atto lo sforzo di individuare le forze capaci di portare il Paese fuori dalla crisi - a una possibile alleanza fra i moderati
di centro e i democratici della sinistra. Uno scenario teso ad accantonare il berlusconismo, al quale gli ambienti ecclesiastici assegnano, dopo l’abbandono di Mario Monti al governo, una nuova spallata. Ma leggiamo l’articolo di Tarquinio.
«Ci sono fasi della vita dei Paesi – scrive il direttore di Avvenire - nelle quali forze alternative coniugano i propri sforzi anche solo su temi ben definiti nel nome dell’interesse nazionale. Ma perché questo accada, in Italia, occorre che ci siano almeno due buoni e grandi pilastri in un quadro politico rinnovato». E così continua l’editoriale: «Chi ha idee, energie, umiltà e responsabilità sufficienti per aiutare il “centrista radicale”, il moderato e riformista Monti che in questi mesi ha lavorato a Palazzo Chigi a rendere esplicita la propria rinnovata disponibilità di servizio, chi sogna un’altra politica e un altro bipolarismo rispetto a quello degli ultimi 18 anni, chi è disposto ad aiutare l’Italia a incamminarsi su una via nuova e ben tracciata ha occasione e motivi per farsi sentire. E - conclude a sua volta, farsi apprezzare».

il Fatto 24.12.12
Oltretevere
I misteri del Vaticano sono ancora chiusi lì
di Marco Lillo


A OTTOBRE LA COMMISSIONE HA ASCOLTATO MONSIGNOR VIGANÒ, IL PRIMO AD AVER DENUNCIATO LA CORRUZIONE DENTRO “LE MURA”; UNICO COLPEVOLE RESTA IL MAGGIORDOMO

Tutto era cominciato a gennaio con la pubblicazione delle lettere di monsignor Carlo Maria Viganò che denunciava la corruzione in Vaticano. E tutto finirà quando sarà pubblicata la testimonianza resa dallo stesso Viganò alla Commissione pontificia di indagine presieduta dal cardinale Julian Herranz. Al Fatto risulta che il nunzio negli Stati Uniti è tornato appositamente da New York ed è stato ascoltato in gran segreto ad ottobre non solo sui suoi rapporti con Paolo Gabriele ma anche sul contenuto delle sue lettere che avevano dato origine al caso. Il 25 gennaio le prime due missive dell’allora segretario generale del Governatorato erano state mostrate in tv dalla trasmissione Gli Intoccabili. Una terza lettera, la più devastante, era stata pubblicata il 27 gennaio dal Fatto. In quella missiva monsignor Viganò – prima di essere trasferito a New York – accennava ai reati, compiuti dentro e fuori le mura Leonine, e si diceva pronto a denunciarli alle autorità laiche. Il Fatto aveva poi continuato a pubblicare numerosi documenti inediti sulle vicende interne, dalle voci di un complotto di morte contro il Papa ai problemi sul fronte anti-riciclaggio dello IOR con il braccio di ferro tra il cardinale Attilio Nicora e lo stesso Bertone e poi ancora le lettere che documentavano la sponsorizzazione del capo di Comunione e Liberazione per il presidente Roberto Formigoni e il braccio di ferro tra l’arcivescovo Dionigi Tettamanzi e il cardinale Bertone per la scelta del presidente dell’Istituto Toniolo.
ANCHE QUESTO È STATO il caso Vatileaks, il tentativo di un umile uomo solo, senza altro potere che quello della verità, di aprire le finestre per mostrare a tutti quello che accadeva dentro le mura leonine. Per questa ragione il caso non può definirsi chiuso con il gesto di clemenza del Papa.
Il 25 maggio Gabriele è stato arrestato dopo la pubblicazione del libro di Gianluigi Nuzzi, Sua Santità. Il 21 luglio ha ottenuto la libertà provvisoria ma è stato condannato a 18 mesi tornando in cella il 25 ottobre. Dopo quasi due mesi di detenzione in isolamento, senza alcuna possibilità di socializzazione e al di fuori da ogni garanzia e norma per un comune cittadino itaiano, il 22 dicembre Benedetto XVI ha concesso la grazia. L'immagine del pontefice che perdona l’assistente nonostante avesse tradito la sua fiducia, è una dimostrazione di forza e di buon senso.
Gabriele potrà trascorrere il Natale con i suoi tre figli e la moglie Manuela. Avrebbe potuto perdere il posto e la casa con conseguenze pesanti per la sua famiglia già duramente provata dallo scandalo e dalla detenzione ma anche per il Vaticano in caso di pubblicazione di un libro autobiografico, invece sarà solo trasferito al di fuori delle mura leonine.
Risolta la questione della pena del “Corvo”, resta aperto il caso sollevato dal contenuto esplosivo dei documenti: la corruzione nel Vaticano, lo Ior, le indagini e gli affari in territorio italiano della Gendarmeria vaticana. Su tutto questo è calato un silenzio che mal si concilia con la chiusura del caso.
La grazia è un istituto che ha origini religiose. Nel bel libro di Marco Bouchard e Fulvio Ferrario edito da Bruno Mondadori Sul perdono. Storia della clemenza umana e frammenti teologici, si ripercorre la storia della prospettiva cristiana del perdono. La grazia presuppone una domanda che riconosce il potere e rafforza il sovrano. Allo stesso tempo però, quando mira alla riconciliazione del tessuto sociale leso dalla colpa, è intimamente legata al concetto di verità. “Il tempo della grazia” segue la confessione piena perché presuppone la presa di coscienza del peccato da parte sia dell'autore che della vittima. La riconciliazione nel segno del perdono è possibile grazie a una ricostruzione condivisa dei fatti. Prima di essere rimosso il peccato deve essere evocato nei suoi termini reali perché l'esorcismo abbia senso ed effetto. “Secondo la Bibbia il perdono deve essere accompagnato”, scrivono i due autori, “dalla nomi-nazione del peccato”. Nella vicenda che va sotto il nome di Vatileaks il peccato, non solo quello di Paolo Gabriele, è stato rimosso prima del raggiungimento di una verità comune tra la vittima e l’autore. La riappacificazione di questa grazia è monca come l’inchiesta e ricuce solo la lesione del rapporto personale tra il Pontefice e il suo ex assistente.
“LA COSA CHE SENTO fortemente dentro di me”, è l'ultima frase pronunciata da Paolo Gabriele prima che la Corte si riunisse per deliberare la sentenza di condanna, “è la convinzione di aver agito per esclusivo, direi viscerale, amore per la Chiesa di Cristo e per il suo Capo visibile. È questo che io sento. E, se lo devo ripetere, non mi sento un ladro”. Il Papa qualche giorno fa - a sorpresa - ha ricevuto la commissione cardinalizia incaricata di indagare parallelamente al Tribunale. I tre porporati, guidati da Julian Herranz (Opus Dei) continuano le loro audizioni non solo delle persone coinvolte nella divulgazione ma anche di quelle che hanno scritto i documenti, come monsignor Viganò, e di quelle citate nelle lettere. Solo se e quando saranno resi pubblici gli esiti di questo lavoro, la grazia a Paolo Gabriele acquisirà il senso pieno della verità.

l’Unità 24.12.12
D’Alema: «Lo scontro sarà tra Pd e destra»


L’eventuale discesa in campo di Mario Monti, ammesso e non concesso che alla fine ci sia, non destabilizzerebbe né la destra né la sinistra. A dirlo, ospite di Fabio Fazio, è Massimo D’Alema.
«Il presidente Monti dichiara D’Alema lancia un messaggio molto chiaro sull’esigenza per l’Italia di proseguire sulla via europea, ma mi sembra che sulle forme del suo impegno mantenga una riserva. Una cosa però l’ha detta con chiarezza: che lui non sarà il capo di tutti quelli che sono contro la sinistra». Lo dimostra il fatto che «in questi ultimi giorni, in modo molto confuso e contraddittorio, Berlusconi lo aveva chiamato a guidare quelli che con notevole senso dell’umorismo si chiamano moderati: Storace, Calderoli...». Ma questo appello a guidare il fronte contro la sinistra, osserva il presidente della fondazione Italianieuropei, è stato respinto.
Del resto, aggiunge, non sarebbe stato comprensibile vedere Monti «alla testa di un fronte contro di noi, che siamo quelli che lo hanno sostenuto con maggiore coerenza». In ogni caso, la convinzione di D’Alema è che lo scontro, alle prossime elezioni, sarà ancora una volta tra centrosinistra e centrodestra, qualunque cosa decida Monti.
«A me piacerebbe vivere in un Paese come la Germania spiega D’Alema in cui si sceglie tra Steinbrück, il candidato della Spd, e Merkel, ma noi in viviamo in Italia, non in Germania, e qui da noi la sfida è tra centrosinistra e Berlusconi, sono vent’anni che è cosi. Anche perché Berlusconi torna in campo, perché rappresenta ancora una forza nella società italiana. E gli unici che possono fermarlo siamo noi».
Pietro Ichino annuncia la sua disponibilità a passare con una eventuale lista Monti e anche altri quattro senatori del Pd si dicono pronti a lasciare. Alla domanda se in questo D’Alema veda un rischio di disgregazione del partito, la risposta è secca: «Io non credo che se ne aggiungeranno altri. Certo, in questo momento ci sono anche molti che sono alla ricerca di un modo di tornare in Parlamento e Monti può apparire come una zattera di salvataggio, ma non è questo che sposterà i dati di fondo».
D’altra parte, anche grazie alle primarie per i parlamentari organizzate dal Pd, e sia pure in modo confuso, secondo D’Alema nel partito sta emergendo una nuova classe dirigente, in linea con il desiderio di rinnovamento che viene dal Paese. «Monti non rappresenta il bisogno di riduzione delle diseguaglianze e di lavoro che è cosi forte nella società italiana. Certo, noi ora vogliamo vincere le elezioni, ma la campagna elettorale non sarà contro Monti, sarebbe assurdo, avendolo sostenuto noi. Abbiamo stima di Monti qualunque cosa faccia, e vogliamo dialogare con le forze democratiche del centro. Ma prima dobbiamo vincere le elezioni, perché se non le vinciamo noi le vince Berlusconi, e poi sarebbe difficile dialogare».
La prospettiva dell’Italia, conclude D’Alema, è certamente in Europa, ma in Europa c’è una battaglia politica: «Io voglio cambiarla, non voglio un’Europa che impone solo tagli e austerità, ma che combatta la speculazione, le diseguaglianze. Questa è la ragione per cui c’è bisogno di una forza come la nostra. Ecco, di questo vorrei discutere con Monti».

l’Unità 24.12.12
Anche gli arancioni nel loro piccolo si dividono
A poche settimane dalla presentazione delle liste la carovana movimentista ancora attende
la candidatura di Ingroia (e litiga su tutto il resto)
di Rachele Gonnelli


Èuna corsa contro il tempo, anche molto scomposta, quella del movimento degli arancioni per presentarsi alle elezioni del prossimo 24 febbraio. Il leader acclamato nelle kermesse di questi giorni a Roma, il pm Antonio Ingroia, non ha ancora accettato l’investitura ufficiale né ha preparato le valigie in Guatemala dove è appena sbarcato con un incarico Onu di lotta al narcotraffico. Ma questo sarebbe ancora un problemuccio. Il movimento dalle diverse anime quella propriamente arancione di De Magistris, quella degli intellettuali dell’appello “Cambiare si può” e i partiti Prc, Pdci e Idv non ha una linea chiara dialogo sì, dialogo no con il centrosinistra né un programma unico e coerente, né un metodo di raccolta delle candidature, delle firme di sostegno e dei consensi.
Si cerca di correre ai ripari ma è sempre più incombente il rischio che tutto si sgretoli, si sfilacci, svanisca. Anche perché l’offerta di candidati espressione della società civile nella lista bloccata di Sinistra ecologa e libertà ha tolto terreno agli arancioni. Esempio più eclatante: il rapporto con la Fiom di Maurizio Landini. Blandita, corteggiata e invocata l’organizzazione delle tute blu non è mai scesa direttamente nell’agone politico a sostegno di questa compagine di personalità e forze politiche. Né potrebbe farlo, come sa chi ne conosce le dinamiche e le deliberazioni congressuali.
Ma anche tra i suoi esponenti più in vista non c’è stato alcun ingaggio. Di più, il numero due della Fiom, Giorgio Airaudo è tra i capolista di Sel. E l’ex segretario Gianni Rinaldini, che pure è intervenuto sul palco del cinema Quirino, contattato da l’Unità, alla domanda se si è posto il tema di una sua candidatura con gli arancioni, risponde secco: «No, non esite». Interloquire sì, con tutte le forze della sinistra e del centrosinistra, ma schierare il sindacato o dare indicazioni di voto a sostegno di questo o quel partito non è possibile. «E gli arancioni nel momento in cui si presentano alle elezioni non saranno un partito ma sono uno schieramento politico». Fine.
Restano i tanto vituperati partiti, ai quali Guido Viale a nome dell’intellighenzia che anima il movimento ha chiesto di fare non uno ma due passi indietro. E in effetti i partiti a testa china hanno accettato di immolare i loro simboli. L’ultimo a prendere questa sofferta decisione è stato ieri sera il partito della Rifondazione comunista. Il comitato politico nazionale è disposto, pur di essere della partita, a non porre condizioni neppure sulla candidatura del segretario Paolo Ferrero e del gruppo dirigente.
Le altre decisioni sono al momento demandate ad un comitato, una trojka piuttosto, di coordinamento: il sociologo Marco Revelli, il giudice cassazionista Livio Pepino e Alba Sasso, ex dirigente Ds, poi assessora nella giunta Vendola e quindi sostenitrice del movimento No Tav della Val Susa. Tutti e tre di stanza a Torino. Saranno questi tre saggi a dover redigere un sistema di regole per il vaglio delle candidature da parte delle assemblee territoriali del movimento. Il comitato a tre dovrà anche avanzare le proposte di candidature che saranno poi sottoposte ad una assemblea nazionale da convocare probabilmente a Roma tra il 28 e il 29 dicembre.
Ed è possibile che contemporaneamente venga attivato un sistema di validazione informatica delle candidature, sottospecie di primarie un po’ alla Grillo ma solo per chi ha già aderito ai due appelli lanciati in rete “Io ci sto” e “Cambiare si può”. Gli appelli sono stati sottoscritti da 180mila persone e da personaggi vari del mondo dell’informazione, della cultura e della politica. Da Luciano Gallino a Moni Ovadia, da Oliviero Beha a Sabina Guzzanti, da Fiorella Mannoia a Guido Ruotolo. Ma ciò non significa che queste persone e queste personalità abbiano anche dato una disponibilità a candidarsi o a sostenere la trasformazione degli appelli in una formazione che si presenta alle elezioni. Il giornalista del Fatto quotidiano Oliviero Beha ad esempio a domanda diretta risponde: «Mah, ci dovrei pensare, ne dovrei parlare, vedremo quello che succede, sono sempre più chiaro di Monti, no?».
Finora ci sono state oltre un centinaio di assemblee in tutta Italia di questo raggruppamento che aspira a superare lo sbarramento del 4 per cento e addirittura a raggiungere il 7 per cento, rosicchiando consensi soprattutto ai grillini. Ma incombe sempre il detto di Nenni «piazze piene, urne vuote».

l’Unità 24.12.12
Femminicidio, strage che si può fermare
di Barbara Spinelli
Avvocata penalista

«IL FEMMICIDIO E IL FEMMINICIDIO SONO DUE NEOLOGISMI CONIATI PER EVIDENZIARE LA PREDOMINANZA STATISTICA DELLA NATURA DI GENERE della maggior parte degli omicidi e violenze sulle donne. Femmicidio è l’uccisione della donna in quanto donna» (Diana Russell), e nella ricerca criminologica include anche quelle situazioni in cui la morte della donna rappresenta l’esito/la conseguenza di pratiche sociali misogine. In alcuni Paesi, in particolare dell’America Latina, si è scelto anche di introdurre nei codici penali le fattispecie o le aggravanti di femmicidio o di femminicidio.
La violenza maschile sulle donne costituisce una violazione dei diritti umani, della quale il femminicidio costituisce la manifestazione più estrema. La codificazione del femminicidio quale violazione dei diritti umani, è avvenuta nell’ambito del sistema di diritto internazionale umanitario internazionale e regionale. In Italia, anche rispetto ad altri Paesi europei, persiste una significativa difficoltà per le Istituzioni e per i giuristi a concepire la necessità di un approccio giuridico e politico alla violenza maschile sulle donne che la affronti quale violazione dei diritti umani.
Di conseguenza, le politiche e le riforme legislative difficilmente rispondono all’esigenza di attuare le obbligazioni istituzionali in materia – come prevenire la violenza maschile sulle donne, proteggere le donne dalla violenza maschile, perseguire i reati che costituiscono violenza maschile, procurare compensazione alle donne che hanno subito violenza maschile – nei modi e nelle forme indicati dalle Nazioni Unite (Raccomandazioni all’Italia del Comitato Cedaw e della Relatrice Speciale Onu contro la violenza sulle donne, Rashida Manjoo). Si ricorda infatti che anche in materia di violenza maschile sulle donne, gli Stati sono tenuti non solo a non violare direttamente i diritti umani delle donne, ma anche ad esercitare la dovuta diligenza .
Si configura una responsabilità dello Stato, qualora i suoi apparati non siano in grado, attraverso l’esercizio delle funzioni di competenza, di proteggere, attraverso l’adozione di misure adeguate, il diritto alla vita e all’integrità psicofisica delle donne, o qualora l’aggressione da parte di privati a questi diritti fondamentali sia favorita dal mancato o difficile accesso alla giustizia da parte della donna. In tal senso, si ricorda che l’Italia nel 2009 è già stata condannata dalla Cedu. Il problema principale che caratterizza l’inadeguatezza delle risposte istituzionali alla violenza maschile sulle donne in Italia, è rappresentato dal mancato riconoscimento da parte delle Istituzioni della persistente esistenza di pregiudizi di genere, e dell’influenza che questi esercitano sull’adeguatezza delle risposte istituzionali in materia.
C’è infatti una vera e propria tendenza alla rimozione, del fatto che fino a ieri il sistema giuridico italiano era profondamente patriarcale: chi ricorda la data della riforma del diritto di famiglia, che ha abolito la potestà maritale? E le riforme del codice penale che abolito l’attenuante – per gli uomini – del delitto d’onore e hanno spostato la violenza sessuale da reato contro la morale a reato contro la persona? Il fatto è che quella stessa mentalità ancora oggi è profondamente radicata nel pensiero degli operatori del diritto e, in assenza di formazione professionale sul riconoscimento della specificità della violenza maschile sulle donne e delle forme in cui si manifesta e degli indicatori di rischio che espongono la donna alla rivittimizzazione, spesso si risolve in sentenze dalle motivazioni anche palesemente sessiste ovvero nella mancata ricezione di denunce-querele ovvero nella mancata adozione di misure cautelari a protezione della donna, il tutto descritto dalle Nazioni Unite come il persistere di atteggiamenti socio-culturali che condonano la violenza di genere.
La percezione di inadeguatezza della protezione da parte delle sopravvissute al femminicidio in Italia risponde a un problema reale, confermato dai dati ormai noti: 7 donne su 10 avevano già chiesto aiuto prima di essere uccise, attraverso una o più chiamate in emergenza, denunce, prese in carico da parte dei servizi sociali. Allora occorre anche da parte degli operatori del diritto sollecitare i soggetti istituzionali preposti al corretto adempimento delle obbligazioni internazionali in materia di prevenzione e contrasto al femminicidio. In particolare sul fronte della prevenzione, con la predisposizione di sistemi di efficace e uniforme raccolta dei dati sulla vittimizzazione e sulla risposta del sistema giudiziario (con dati pubblici, disponibili online e costantemente aggiornati); e la formazione di genere per tutti gli operatori del diritto. Mentre sul fronte della protezione bisogna favorire la formazione di sezioni specializzate, l’intervento anche in emergenza da parte di «volanti specializzate» , e favorire linee-guida e protocolli di azione nazionali da adottarsi per i vari uffici (protocolli di intervento per le forze dell’ordine, protocolli della magistratura inquirente sulla conduzione delle indagini, protocolli per l’adozione degli ordini di protezione, ecc.) per facilitare anche l’organizzazione delle procure e dei giudici per le indagini preliminari e per l’esecuzione della pena in maniera tale da trattare in via prioritaria le situazioni di violenza nelle relazioni di intimità. A cui aggiungere un maggiore coordinamento tra tribunale per i minorenni, procura della repubblica, tribunale civile, anche attraverso la previsione di obblighi di comunicazione, e il divieto di mediazione per i reati famigliari. Sul fronte della persecuzione bisogna invece favorire l’immediata implementazione della direttiva europea del 2012 sulle vittime di reato e sul fronte della compensazione portare avanti la formazione professionale per favorire il riconoscimento della specificità dei danni nei casi di violenza di genere.
Questo intervento è tratto dalla Tavola sul «Femminicidio: analisi, metodologia e intervento in ambito giudiziario» organizzata a Roma da Luisa Betti e Antonella Di Florio

l’Unità 24.12.12
Atipici a chi?
Quelle grandi piazze evocate da Ingrao
Nel dvd «Non mi avete convinto»  le immagini degli anni 70: masse in piazza e voglia di cambiamento
di Bruno Ugolini


C’È NEL FILM DEDICATO A PIETRO INGRAO, DISTRIBUITO CON L’UNITÀ, UN SOGGETTO, UN «PROTAGONISTA» CHE SEMBRA SCOMPARSO. È quello che emerge nelle piazze tumultuose, nei cortei imponenti. È la testimonianza di un mondo del lavoro unito e combattivo e che accompagna la vita del dirigente del Pci. Dove sono finite quelle masse e che cosa pensano oggi i figli e i nipoti di quegli uomini e di quelle donne? Sono, in definitiva, le domande che lo stesso Ingrao rivolge, nel film, a un ragazzo taciturno. Come è potuto avvenire che quel potenziale di lotta, di voglia di cambiamento così presente anche nel movimento sindacale si sia frantumato e disperso? Eppure è ancora viva, in questa nostra affaticata società, una voglia di protagonismo, di partecipazione. Lo si è visto, ad esempio, nelle stesse primarie del centrosinistra, nel dibattito attorno a Bersani, Vendola, Renzi, Tabacci, Puppato. Ecco perché a me pare che la storia di Pietro non sia la storia di un melanconico addio, di nostalgie disperse, di un sognatore solitario, come in un romanzo d’altri tempi. Bensì invece, ancora una volta, semmai, un incitamento a dubitare, a ripensare. Con un invito semplice e profondo: «Coltivare la democrazia». È uno dei fili conduttori di quello che veniva chiamato l’«ingraismo». Accanto all’altro leit motiv della sua esistenza «La liberazione non dal lavoro, ma del lavoro» -, un ideale caro anche a Bruno Trentin che aveva dedicato opere e vita per tracciare un percorso capace, appunto, di cominciare a spezzare le catene oppressive che gravano sul mondo del lavoro salariato e che alla fine non giovano nemmeno alle fortune produttive.
Ecco perché non condivido il pensiero di tanti che hanno sempre pensato a Ingrao come a un poeta sconfitto. Certo le sue battaglie riecheggiano molto la bella canzone che accompagna il film: «La solitudine delle idee» dei Têtes de Bois. Ricordo anche io quell’undicesimo congresso del Pci che lo vedeva prima massicciamente applaudito (dalla platea) e poi sottoposto a veementi reprimende da parte di quasi tutti i dirigenti, a causa di quelle sue parole cocenti («Non mi avete convinto») che danno oggi il titolo al film di Filippo Vendemmiati. Era la richiesta del “diritto al dissenso” che per me, allora giovane cronista di questo giornale a Brescia, consegnava emozionanti speranze. Apparivano come un segnale di apertura. Come del resto, a quell’epoca, mi erano sembrate certe prese di posizione di Giorgio Amendola tese a superare il fossato tra comunisti e socialisti. Per cui io, alle prime armi nell’antica sede della federazione comunista, un ex convento di suore, nella città dei Montini e dei Bazoli, ero un po’ ingraiano e un po’ amendoliano. Anche se più tardi, a Milano, avevo sperimentato la presenza di un autorevole e potente settarismo dogmatico, indegnamente autodefinitosi seguace di Giorgio Amendola. Per costoro chi era in odore di «ingraismo» era considerato un pericoloso estremista, da evitare e isolare, non certo da promuovere. Magari da contrapporre agli operai «stalinisti». Eppure fu proprio la tenacia di uomini come Ingrao che permise di non spezzare i ponti con il grande movimento prima degli studenti e poi degli operai negli anni 60-70 e anche col mondo cattolico piú impegnato nella societá. Permise di sconfiggere, nella sinistra, chi guardava con malcelata diffidenza chi era impegnato nel sollecitare l’esperienza dei consigli di fabbrica e dell’unità sindacale cresciuta dal basso. Ricordo ancora i dirigenti intenti ad avvicinare il cronista per sussurrargli: «Questo è pansindacalismo alla Sorel, questi vogliono fondare un nuovo partito anticomunista. Questi rappresentano solo rigurgiti corporativi». Con una assoluta incomprensione di un sommovimento democratico che scuoteva l’intera società, prima di essere travolto da esaltati criminali fautori della lotta armata.
Ecco perché ho amato Pietro Ingrao. Perché non aveva la sicumera del burocrate. E non penso, come mi suggerisce un amico, che abbia perso tutte le sue battaglie e basta. Lascia, come tante personalità della sua epoca (penso ai miei direttori Alicata, Pintor, Pajetta, Macaluso, Tortorella, Reichlin, Pavolini, Ferrara, Ledda, Coppola... ) un esempio di buona e alta politica. Ed è lo stesso Pietro Ingrao che oggi, ultranovantenne, allacciandosi a quelle scene di massa che lo circondano, a quei cortei, a quelle piazze a dirci che non basta l’indignazione, il tuffarsi nell’antipolitica. Bisogna continuare a «coltivare la democrazia». E prima o poi, anche nelle fabbriche, anche nell’esercito dei precari, nascerà un movimento non solo di rivolta, ma di cambiamento vero e possibile.

il Fatto 24.12.12
Siria
Quando i Mig mirano al pane: oltre 300 morti
di Roberta Zunini


La guerra è guerra, soprattutto quella civile. Nessuno si aspettava che lo spietato regime siriano avrebbe fermato i suoi jet carichi di bombe o il lancio di scud, per concedere ai cittadini siriani di fede cristiana di prepararsi a celebrare il Natale. Ma nemmeno ci si aspettava il massacro nei dintorni di Hama, in cui sarebbero morte almeno 300 persone, tra le quali molte donne e bambini, in coda per comprare il pane.
IERI, INFATTI, dopo una settimana di umiliante attesa al Cairo, l’inviato speciale dell’Onu e della Lega araba, il negoziatore algerino Lakdar Brahimi, era riuscito a entrare in Si-ria attraverso il Libano, per recarsi a Damasco a incontrare Assad. Lo scopo, ancora una volta, era sottoporgli alcune alternative per riprendere ufficialmente i negoziati e provare ad avvicinarsi a una soluzione del conflitto che a marzo compirà due anni. Solitamente quando un inviato della comunità internazionale è sul territorio del conflitto, i bombardamenti non si fermano, però si limitano “all’indispensabile”, per rispetto di coloro che l’ambasciatore rappresenta, e dunque anche della Russia e dell’Iran. Gli unici due membri di peso dell’Onu che continuano a puntellare il regime siriano per calcoli geopolitici. Dopo l’umiliante, è il caso di ripetere l’aggettivo, attesa nella capitale egiziana e l’ingresso in Siria via Beirut, si era tuttavia capito che Brahimi aveva ben poche chance di convincere il sanguinario presidente ad allentare la presa. La strage è la dimostrazione del fallimento di Brahimi, ma non potrà comunque non diventare il punto di svolta. La comunità internazionale ha il suo ennesimo e più sensazionale “casus belli” a disposizione. Da mesi le code per il pane in Siria si sono trasformate in una roulette russa per i civili siriani. sempre più affamati, infreddoliti e terrorizzati. Decine di civili sono già morti. L’Unicef e molte organizzazioni non governative hanno lanciato l’allarme non più tardi di un mese fa: la gente in Siria non ha più nulla da mangiare, non ha modo di riscaldarsi per mancanza di gasolio mentre gli ospedali sono al collasso perché mancano la luce, i medicinali e i medici. Migliaia di persone sono fuggite e fuggono. Sanno che quando un regime sta per crollare, non c’è più pietà per nessuno. E il clima, via via più freddo per l’arrivo del rigido inverno siriano, ci mette del suo, con giornate di vento gelido. Non c’è tregua per la popolazione. Schiacciata tra ribelli e soldati. Da una parte infatti c’è l’intransigenza dei nemici del regime, soprattutto il fronte Al Nusra, costituito da salafiti e miliaziani legati ad Al Qaeda, che ha messo sotto assedio le cittadine di Mharda e Sqilbiya, proprio nella provincia di Hama, lanciando un ultimatum affinché la cittadinanza a maggioranza cristiana si schieri contro Assad. Dall’altra parte c’è la minaccia delle atrocità dei soldati lealisti, ancora più temibili mentre il regime lancia i suoi colpi di coda.
INTANTO la barriera di missili patriot richiesti dalla confinante Turchia alla Nato (di cui Ankara è membro) come sistema di autodifesa sta per essere dispiegata sulla lunga frontiera. La Russia e l’Iran avevano commentato l’assenso accusando gli Stati Uniti di preparare in questo modo il pretesto per un ingresso nel conflitto. Indipendentemente dalle reali motivazioni e intenzioni dietro la barriera di patriot, la situazione non può durare ancora a lungo. E la conferma arriva anche da Israele, che si prepara a un cambio di regime. “Stiamo collaborando con gli Stati Uniti e la comunità internazionale per prendere le misure necessarie e prepararci alla possibilità di grandi cambiamenti di regime con le conseguenze che comporterebbero per la presenza di armi sensibili che si trovano nel Paese”, ha detto il premier Netanyahu. Il lancio dei missili Scud contro i ribelli nella Siria del Nord, avvenuto nei giorni scorsi secondo Israele e il segretario della Nato, Rasmussen, è la dimostrazione lampante che il regime è alla disperazione.

 il Fatto 24.12.12
Cina
Manette sotto l’albero per far tacere oppositori e Vaticano
di Simone Pieranni


Pechino Nel giorno in cui il Pontefice esordiva su Twitter, in Cina le autorità del Partito Comunista revocavano l'incarico al vescovo ausiliare di Shanghai, il quarantacinquenne Thaddeus Ma Qin, regolarmente nominato da Roma. Si è trattato dell'ennesimo sgarbo da parte del Partito nei confronti del Vaticano, nel quadro di rapporti che sembrano ormai compromessi, ancora una volta. E l'avvicinarsi del Natale, festività percepita come puramente commerciale dai cinesi, potrebbe riservare altre sorprese, sia di natura religiosa, sia di natura repressiva come è ormai tradizione da qualche anno.
IN CINA il Natale è presente solo nelle grandi città, dove è alta la presenza di stranieri e dove il ceto medio urbano comincia ad avere abitudini molto simili a quelle “occidentali”. Rimane, però, un momento complicato per i cattolici, il cui culto non gode ancora delle libertà che la comunità internazionale richiede alla Cina. A Pechino esiste la cosiddetta Chiesa Patriottica, che riconosce l'autorità del Papa, ma non la sua possibilità di nominare vescovi. Anche il mondo cattolico vive così l'assurdità storica subita dai lamaisti tibetani, ovvero un'entità laica come il partito Comunista cinese che decide di avere la prerogativa di compiere nomine “religiose”. Se non fosse che il Pcc ha perso da tempo anche il senso del ridicolo, immaginare il funzionario zelante che disserta di spiritualità e anime, decidendo vescovi e futuri Dalai Lama, farebbe ridere. Eppure in Cina accade anche questo.
Nel periodo natalizio, di solito, si è abituati a straordinarie operazioni giudiziarie. A cominciare la tradizionale “retata di Natale” era stato niente meno che Liu Xiaobo – poi premio Nobel per la pace - condannato a 11 anni di prigione proprio il 25 dicembre del 2009. I cinesi sanno bene quanto la propria repressione possa scatenare proteste internazionali e scelgono così i giorni in cui l'opinione pubblica occidentale è immersa nelle prelibatezze da consumare con il pranzo, o la cena natalizia. Anche l'anno scorso ci furono arresti e condanne: dieci e undici anni di carcere ad alcuni attivisti e dissidenti particolarmente noti a Pechino.
QUEST'ANNO, dopo gli arresti degli appartenenti ad una Chiesa Cristiana che predicava la fine del mondo, nei giorni scorsi, potrebbe essere la volta di Bo Xilai, il reietto dell'anno 2012. L'ex funzionario di Chongqing, accusato di molti crimini, ma fatto fuori perché politicamente non conforme alla leadership, è ancora in attesa di processo. La sua vicenda ha scoperchiato la lotta interna al Pcc, si è mischiata agli scandali, ai tentati o supposti, colpi di stato e soprattutto alla guerra che ha dato al novello segretario Xi Jinping i pieni poteri. Si dice che il procedimento a carico dell'ex leader del Partito di Chongqing, potrebbe iniziare proprio in questi giorni e concludersi, guarda il caso, il 25 dicembre. All’insegna di un Natale in manette made in Cina.

La Stampa 24.12.12
“Io, Pussy Riot prigioniera nel Gulag”
Maria Alyokhina è detenuta a Perm: nelle sue lettere lavori forzati, inquinamento e gelo
di Federico Varese


L’Arcipelago I detenuti avevano costruito qui fabbriche e miniere già negli Anni 30 Poi il modello si è esteso a tutta l’Urss Filo spinato Nella regione ci sono più prigioni che città o paesi. Il centro di Berezniki, gioiello di architettura stalinista, è opera dei carcerati Prigioniera Maria Alyokhina è stata condannata insieme all’altra Pussy Riot Nadezhda Tolokonnikova a due anni di carcere per la performance anti-putiniana nella cattedrale di Mosca Le ragazze sono state dichiarate colpevoli di «teppismo a sfondo religioso» Il lager Il campo di lavoro N°35 di Perm era riservato soprattutto ai detenuti politici e ai dissidenti che sfidavano il regime sovietico. È stato trasformato in un museo ma tanti altri campi penitenziari restano attivi nella regione di Perm Lo scrittore Varlam Shalamov (1907-1982) ha trascorso più di vent’anni nei Gulag staliniani e al confino siberiano. Ha raccontato questa esperienza nei «Racconti di Kolyma» Il criminologo Federico Varese è professore di criminologia a Oxford. Ha fatto ricerche sulla mafia russa a Perm negli anni ’90. Il suo ultimo libro è «Mafie in movimento» (Einaudi)
«Tutto intorno a me è grigio. Anche se qualche oggetto ha un colore diverso, non manca mai una sfumatura di grigio. In ogni cosa: gli edifici, il cibo, il cielo, le parole». Così scrive in una lettera del 17 dicembre Maria Alyokhina, l’attivista del gruppo Pussy Riot condannata a due anni di prigione nel campo di lavoro numero 28, nella regione di Perm, nei pressi della cittadina di Berezniki. Perm è il cuore dell’Arcipelago Gulag, dove negli Anni Cinquanta c’erano più campi di prigionia che città o paesi. Questa è anche la regione dove ho vissuto per un anno quando ero studente, dove è nata mia moglie e dove torno con una certa regolarità. Quello che può sembrare un luogo remoto e inospitale è il centro del mondo per chi vi è nato.
Nei primi Anni Novanta mi ero trasferito a Perm per studiare gli effetti della transizione all’economia di mercato e l’emergere del crimine organizzato. Lontano da Mosca e nel cuore della Russia. La capitale della regione, anch’essa chiamata Perm, è la terza fermata sulla Transiberiana che va da Mosca a Vladivostok. In quegli anni vi erano pochi voli, e il modo migliore per raggiungerla era col treno che partiva nel tardo pomeriggio dalla stazione Yaroslavsky e arrivava circa ventiquattr’ore dopo. I segni del passato regime erano ancora evidenti nel centro cittadino, come le statue in onore degli eroi sovietici e dei lavoratori stakanovisti. Lo studentato dove avevo trovato una sistemazione si affacciava sulla via Lenin. Mentre in altre città ci si affrettava a cambiare nomi e insegne, qui nessuno sembrava avere fretta.
Maria Alyokhina non ha viaggiato sulla Transiberiana per raggiungere il campo di lavoro numero 28. «Sono arrivata dopo aver fatto tappa in tre prigioni di transito», scrive nella lettera pubblicata sulla rivista Novoe Vremya. «Abbiamo viaggiato in carrozze senza finestrini e in una moltitudine di furgoni. Quando l’ultimo è arrivato di fronte all’imponente ingresso di ferro battuto, ha scaricato diciannove di noi, diciannove nuove prigioniere, future operatrici di macchine da cucire elettriche». Oggi come ottant’anni fa il viaggio verso i campi di prigionia al di là della catena degli Urali segna l’ingresso nell’universo concentrazionario. Lo scrittore russo Varlam Shalamov, che meglio di ogni altro ha raccontato la fragilità e la resistenza dell’anima umana nel Gulag siberiano nell’opera «I racconti di Kolyma» (introdotti in Italia da Piero Sinatti), subì il primo arresto nel 1929 e fu spedito non in Siberia ma nella regione di Perm, a Berezniki, dove fino al 1931 lavorerà alla costruzione di uno stabilimento chimico. Lo sfruttamento su scala industriale del lavoro forzato fu concepito proprio a Berezniki. Poiché l’esperimento condotto in quel campo fu ritenuto un successo, le alte sfere del Partito decisero che i lavori forzati sarebbero stati alla base di ogni nuovo progetto industriale. «Da allora», scrive Shalamov, «nessuna regione fu senza un campo di lavoro, nessun nuovo progetto senza la sua quota di forzati».
Berezniki è un gioiello dell’architettura stalinista, la città socialista per antonomasia, costruita durante il primo piano quinquennale (1928-1932) in puro stile costruttivista. Gli affreschi sui palazzi pubblici celebrano l’anno di fondazione, il 1932, e i pionieri delle organizzazioni giovanili del partito, ma dimenticano di ricordare che Berezniki fu costruita dagli zek, abbreviazione con cui la burocrazia sovietica chiamava i prigionieri del Gulag. Gli impianti chimici e le miniere della città che compaiono nei racconti di Shalamov sono tuttora in funzione: oggi producono fertilizzanti e carbonato di potassio.
A queste latitudini, però, non ci sono solo l’architettura e la taiga da ammirare. Questa terra rappresenta il grado zero della devastazione industriale del Ventesimo secolo, un buco nero quasi del tutto ignoto al resto del mondo. Come ricorda lo studioso Paul Johnson, a Berezniki i bambini sotto i quindici anni sono otto volte più a rischio di soffrire di malattie ematiche dei coetanei che vivono nei 121 centri più inquinati dell’ex Unione Sovietica. Ogni anno più di tre milioni di tonnellate di rifiuti tossici entrano nell’atmosfera e almeno 100.000 ettari di vegetazione è andato perduto per sempre. Maria Alyokhina scrive nella sua lettera: «È abbastanza ironico che io, una ex attivista del movimento ecologista, sia finita in un’area dove la gente respira i rifiuti della produzione industriale più pericolosa del pianeta». Ma non è tutto: negli ultimi anni l’intera città viene risucchiata in immense voragini, imbuti che si aprono senza preavviso nel terreno a seguito dell’intensa attività estrattiva. Una voragine si è aperta sotto i binari della stazione, un’altra a pochi centimetri da un complesso di appartamenti. La più grande di queste valli carsiche è larga 100 metri e profonda 237. Duemila persone sono già state evacuate ed è stato messo a punto un piano per ricostruire la città sulla sponda opposta del fiume Kama. A pochi chilometri dal centro cittadino, nel campo di lavoro numero 28 la vita è scandita dai rituali delle istituzioni totali, come racconta l’attivista delle Pussy Riot. «Sveglia alle cinque di mattina, corsa ai bagni (tre lavandini e due cessi per quaranta prigioniere), colazione alle sei. Dopo due settimane che mi lavo nell’acqua gelata, le mie mani hanno cambiato colore... ». Le regole sono ferree e vengono ripetute tutte le mattine nella «stanza del regolamento». Ogni conversazione nel campo ruota intorno al rilascio anticipato, noto con l’abbreviazione Udo, con l’accento sulla «o» finale. «Vuoi un Udo? Ti daranno un Udo? Quand’è il tuo Udo? Cosa farai dopo l’Udo? ». Ottenere un Udo non è difficile, basta cucire per dodici ore al giorno senza lamentarsi, denunciare le proprie compagne, tacere, andare a messa, sopportare e, conclude Maria, «infrangere anche l’ultimo dei propri principi».
Le coincidenze della geografia e della storia sono impietose e rivelatrici. Ekaterina, nata pochi mesi dopo Maria Alyokhina, ha qualcosa in comune con l’attivista delle Pussy Riot. Entrambe figlie della Russia post-sovietica, sono di estrazione borghese e hanno frequentato l’università. Il padre di Ekaterina, Dimitri, è un medico di Perm che ha fatto fortuna, fino a diventare l’oligarca locale: come ogni centro abitato dell’Urss poteva vantare un suo Gulag, oggi ogni municipalità può vantare un suo oligarca. Fino al 2008, Dimitri era il padrone della miniera che ora sta risucchiando Berezniki in crateri sempre più grandi. Nel 2010 si è trasferito nel Principato di Monaco, dove ha comprato la locale squadra di calcio. Nel frattempo è stato esonerato dal governo per ogni danno ambientale. La figlia Ekaterina ha acquistato qualche mese fa l’appartamento più costoso mai venduto nella Grande Mela, al numero 15 di Central Park West. Chissà se i suoi vicini di casa o i compagni di università americani saranno mai in grado di tracciare la linea che separa ed unisce Ekaterina e Maria: una linea tanto breve quanto infinita. Vent’anni fa volevo studiare come la patria del Gulag si sarebbe adattata all’economia di mercato. Oggi questa terra grigia inghiotte i suoi figli migliori, mentre altri fanno lo shopping di Natale sulla Quinta Strada.

Repubblica 24.12.12
Migliaia di studenti da giorni in piazza
Si battono contro i tagli del governo di Orbán all’università. E danno la carica all’opposizione
I giovani ribelli di Budapest
di Andrea Tarquini


BUDAPEST Lei, Andrea Kobor, è la bionda magiara perfetta, maglione irlandese blu e orecchini sudamericani suggeriscono che quel bel sorriso è di sinistra, quasi jeunes filles rouges, toujours plus belles.
Lui, Daniel Kìs, è un gentilissimo bel ragazzo impeccabile, barba dal taglio perfetto al filo della mascella, giacca e cravatta tutto borghesia per bene, conservatore dichiarato, sembra un giovane pro-Sarkozy, Merkel è il suo idolo e due anni fa era per Orbàn. Nello stesso partito non potrai mai vederli, eppure ora lottano insieme ogni giorno, l’una accanto all’altro in piazza incitano i giovani a non cedere, a protestare fino all’ultimo, loro due quasi mano per mano nel gelo invernale su palchi improvvisati, mentre davanti al Parlamento o a Moszkvà Tér universitari e liceali bruciano simbolicamente i contratti-capestro con cui Orbàn, che taglia quasi ogni fondo agli atenei, vuole imporre ai giovani l’impegno preventivo a lavorare solo in patria dopo la laurea, insomma la rinuncia al futuro.
«No, questo non lo inghiottiremo mai, la libertà non è uno scherzo, rifiutiamo appoggi di ogni partito ma siamo patrioti e vogliamo lavorare qui a patto che sia per scelta, basta con questo “chi non è col governo è contro la nazione”», dicono i due fianco a fianco e, al freddo sottozero, incitano con megafoni di fortuna le piazze piene di giovani a cantare l’inno nazionale, Szozat o “Evviva la libertà ungherese”, i canti del Risorgimento. O l’Inno alla gioia di Beethoven. Budapest, Natale amaro per l’autocrate amico di Berlusconi: sboccia sorridente e non violento nel gelo un piccolo Sessantotto natalizio ungherese ma senza ideologie totalitarie.
È partita dai giovani apolitici e indifferenti fino a ieri la prima sfida minacciosa, con la solidarietà di rettori, insegnanti e famiglie, e si respira un’atmosfera quasi come nella Varsavia ‘68 di Kuron e Michnik o nella Parigi di Cohn-Bendit, nella Praga con i giovani in piazza per Dubcek contro i Panzer russi o nei campus americani dove i giovani davano alle fiamme le cartolineprecetto per la dirty war in Vietnam. Speranza e sorpresa, i giovani provano a svegliare l’Ungheria e per la prima volta il potere di Orbán tradisce panico e paura.
«Abbiamo sei punti di rivendicazioni, non cederemo su nessuno, meno che mai sul no alla libera circolazione per i laureati», dicono concordi Andrea e Daniel, leader di Haha e Hook, i due movimenti studenteschi. Sei punti irrinunciabili che ricordano i 21 punti per la libertà sindacale e d’opinione con cui - guidata da Lech Walesa e assistita dai grandi intellettuali oppositori, Kuron, Geremek, Michnik o Mazowiecki - Solidarnosc nel lontano agosto ‘80 aprì la prima breccia nel Muro e nell’Impero. No ai tagli brutali agli atenei, diritto di studio senza discriminazioni di censo, ripristino delle Borse di studio che Orbán vuole cancellare lasciando l’università solo ai figli dei nuovi ricchi suoi seguaci. E ancora: riforme e risparmi sì ma negoziati con rettori, insegnanti e studenti, e no al capestro dell’obbligo di non espatriare dopo laureati. Sfilano in piazza ogni giorno, calmi ma combattivi. «Guarda, ecco il nostro simbolo», mi dice sorridendo nel corteo la giovanissima Fruzsina: è un fiocco tipo anti-Aids, ma nel colore giallo fluorescente delle divise della polizia di pronto intervento. «Gentilezza verso di loro che non ci attaccano, invito a pensare ai loro figli».
Kossuth tér, Astoria, i bei ponti sospesi sul Danubio, la piazza davanti al Palazzo della radio dove nel ‘56 cominciò la rivoluzione. Pacifici ma decisi, i ragazzi col fiocco giallo percorrono i luoghi della memoria tragica dell’Ungheria moderna. Orbán è colto di sorpresa, promette concessioni ma non sul divieto d’espatrio di fatto, «e per le facoltà decisive, specialità economiche o diritto o altre, 16 in tutto, vuole che gli studenti paghino, senza più Borse», spiega Andrea. La lista dei tagli è brutale: dai già pochi 200 miliardi di fiorini per le università di pochi anni fa, il governo vuole scendere a 120 (in Germania la sola università della piccola Bonn ne ha 180 annui minimi). Conti al netto dell’inflazione, avvertono gli economisti. Agli antipodi di Berlino Stoccolma o Helsinki ma anche della Polonia liberal. Poco importa, il regime alterna frasi allettanti a calunnie. «Il movimento è grandioso, ma devono capirci», ha detto Orbán tornato in corsa da Bruxelles dove era stato l’unico al Ppe a lodare l’amico Berlusconi.
Editorialisti e turiferari del regime vanno giù più pesanti. Per Zsolt Bayer, columnist antisemita amico del premier, il conservatore Daniek Kìs e i suoi «sono solo barricadieri estremisti e sfaticati, contro questo nuovo Cohn-Bendit reagiremo come de Gaulle, con la maggioranza silenziosa in piazza, le organizzazioni di questi giovinastri barricadieri sono strumenti dell’opposizione di sinistra, ricordano la vecchia gioventù comunista». Cui Bayer in passato appartenne per carrierismo, notano i due leader del movimento. «Ma quali barricate? Non siamo ideologici, io sono conservatore ma non per avere un governo che vuole essere il solo ad aver ragione, ci siamo rivolti alla Corte europea e alla Commissione », mi spiega Daniel. Lui come Andrea organizzano tutto online e su Facebook, più veloci in rete d’un potere abituato a decidere e imporre sempre tutto e colto di sorpresa. Direttivi e comitati di base si vedono ogni giorno in caffè e bistrò di tendenza del bel sudest giovanile di Buda attorno a Kalvin Tér. «C’è di peggio, il superministero per le risorse umane che ha in mano istruzione, sanità, welfare e altro», mi spiega Daniel, «ha fornito i nostri dati personali ai giornali governativi che ci diffamano».
Il governo calunnia, minaccia, «e cerca di dividerci», avvertono sia Daniel sia Andrea, ma il movimento si allarga. Da Budapest a ogni altra città sede universitaria. Rettori, sindacati degli insegnanti e pedagoghi, genitori, sono con loro, da finestre e balconi la gente applaude i ragazzi. Protesta civile, cortei ogni giorno ma non hanno interrotto né corsi né esami. «Il potere dice solo “chi non è con noi è contro di noi”, linguaggio stalinista, io voglio credere che siamo una libera democrazia occidentale », continua Daniel. «Ora siamo uniti, lo resteremo rimanendo diversi», incalza Andrea. «Noi siamo una Ong, puntiamo a dire no anche al legiferare autoritario a raffica con cui Orbán svuota la democrazia. E vogliamo dare un esempio, aiutare e incoraggiare studenti e società a organizzarsi, a dire basta a un potere secondo cui il dibattito democratico è perdita di tempo».
Natale amaro per l’autocrate Orbán, la lotta dei ragazzi d’idee diverse ma ora uniti continua. Risveglia speranza anche nell’intelligentsia anziana degli eterni dissidenti, ieri contro l’Impero del Male e oggi contro l’autocrate che li espelle dalla vita culturale. «Gli studenti coraggiosi mostrano per primi a noi adulti sfiduciati che unirsi, dire no e lottare è possibile, toccherà ai partiti d’opposizione imparare la lezione », afferma Péter Eszterhazy, uno dei massimi scrittori nazionali. «È una svolta, dopo due anni di voci governative invitanti a far sparire le opere di noi scrittori critici da ogni libreria. Questa gioventù apolitica e apatica fino a ieri ha sorpreso noi come il governo, sveglia tutti, invita a smetterla col linguaggio aggressivo del potere e le sue tradizioni antiche ». Incalza il suo collega e amico Gyorgy Konràd: «Disciplinati, bravi a discutere e negoziare, gentili coi poliziotti, innamorati dello Stato di diritto. Riportano noi adulti al mondo, alla voglia di viverlo, sono la prima luce di speranza ». E correndo nella splendida capitale a caccia di voci della vecchia intelligencija, odiata dal potere oggi come ieri, ecco la voce del più radicale, Gaspar Miklos Tamas: «È la prima resistenza efficace contro l’autocrate, in una settimana i ragazzi hanno realizzato l’unità d’azione che i partiti democratici storici cercano invano da due anni. Alle elezioni del 2014 toccherà alle opposizioni saper vincere. Se per disgrazia i giovani non dovessero vincere ora, avranno dimostrato che ribellarsi è possibile. Saranno comunque una “rivoluzione vinta ma feconda”, come il grande esule François Fejtö definì il ‘56 del paese in armi contro Mosca.

Repubblica 24.12.12
Parla la filosofa Agnes Heller: “Serve la ribellione dell’intera società”
“Combattono per tutti noi ora dobbiamo sostenerli”


BUDAPEST «Finora, nell’emergenza del quotidiano autoritario, la maggioranza dei cittadini si stava riducendo a pensare solo ai soldi e alla carriera, e la gente comune pensava che anche loro, i ragazzi, vedessero il mondo così. E invece no, provano a pensare al futuro, noi adulti dobbiamo vergognarci. Eppure non possono escludere che non finirà bene». La grande filosofa Agnes Heller, discepola di Lukacs e massima voce dell’intelligentsia ungherese e forse mitteleuropea, analizza così la rivolta dei giovani magiari.
Professoressa Heller, la rivolta studentesca la fa sperare, lei perseguitata dal regime?
«Prima di tutto, insisto, noi adulti dobbiamo vergognarci di non aver avuto il coraggio di questi ragazzi, e dare loro solidarietà. Secondo, però, per rovesciare l’autoritarismo di Orbàn ci vogliono partiti democratici d’opposizione che sappiano unirsi e parlare al paese. I giovani lo hanno fatto per la loro causa, ma ognuno ha il suo ruolo».
Minimizza il ruolo dei giovani?
«Assolutamente no. Ma noti bene che giustamente i giovani hanno rifiutato ogni appoggio diretto dei partiti d’opposizione. Bravi, ragazzi. Hanno tolto al governo la possibilità di attaccare studenti e opposizioni affermando per propaganda che i giovani sarebbero strumenti dell’opposizione. Insomma, questi ragazzi temerari hanno dato una lezione di coraggio ma anche di sapienza politica. Affrontando anche il duplice rischio che il potere tenti di dividerli tra di loro, e loro dal resto della società».
È un Sessantotto ungherese, tipo il Maggio francese?
«Attenti ai paragoni. Nel ‘68 a Parigi c’erano anche i sindacati con gli studenti.Questo è nato come movimento spontaneo per le rivendicazioni giuste dei giovani: bisogna anche aspettare e vedere se resterà limitato alle sue rivendicazioni assolutamente legittime o se riuscirà a chiarire al paese che i problemi degli studenti sono parte dei problemi generali che la nostra patria affronta e subisce a causa del classismo e dell’incompetenza economica del governo».
Cioè gli studenti in piazza non bastano?
«Non dico questo, dico che pongono questioni che riguardano tutti. Ma che al tempo stesso nella società il potere ha creato
un clima di paura e di controllo onnipresente. Gran parte della gente ha paura persino di dire quello che pensa quando è interrogata nei sondaggi».
Perché tanta paura nella società ungherese?
«È anche eredità isterica di paura e abitudine al silenzio di un paese che di fatto non ha mai vissuto in una vera democrazia, da generazioni. Da Horthy al comunismo senza soluzione di continuità, poi un dopo-89 troppo diverso dai cambiamenti di fondo polacchi,cechi,slovacchi e anche nell’ex Ddr. Solo questi giovani sembrano persone liberate dal peso del passato. Per questo, insisto, posso solo sperare che loro, più coraggiosi e sinceri di noi adulti, sappiamo ampliare il loro discorso politico oltre le loro giustissime richieste».
Può essere una piccola riedizione del’56 ungherese o del ’68 studentesco polacco?
«Attenzione. Noi in piazza nel ’56 passavamo correndo in corteo da uno slogan a un altro, prima ‘Imre Nagy (ndr: il comunista riformatore leader della rivoluzione poi impiccato per ordine di Mosca) nel governo’, poi ‘Imre Nagy premier’, poi ‘russi a casa’. E persino nella Polonia dove nel 1968 la coraggiosa rivolta studentesca e accademica di Kuron, Michnik, Modzelewski, Kolakowski fu repressa il potere comunista era screditato corrotto e repressivo ma non tenne mai processi-farsa conclusisi con assassinii, come fu da noi con Rajk o in Cecoslovacchia con Slanski o ovunque altrove nell’impero. La Polonia aveva un passato diverso dal nostro: combattente contro Hitler militarmente più pesante della Francia, non alleato di Hitler come Horthy. Quindi la stessa dittarura cmunista doveva rifarsi a un’altra legittimità nazionale. Mentre oggi da noi con Orbàn comincia la riabilitazione di Horthy».
Orbàn può essere sconfitto?
«Non chiediamo troppo a questi bravi giovani audaci. Tocca ai partiti non abdicare al loro ruolo, bensì puntare a vincere alle politiche del 2014, unendosi come fece Solidarnosc nel 1989. Senza unità non si vince. E attenzione: la Fidesz, il partito di Orbàn, sta reagendo alla crisi emarginando i suoi migliori intellettuali conservatori. Orbàn caccia i migliori del suo campo, quasi come per ordine di Mosca fece il Partito comunista cecoslovacco dopo l’invasione sovietica che stroncò la Primavera di Dubcek. Le sembra promettente?».
(a.t.)

Corriere 24.12.12
I neuroni che si parlano, così percepiamo un profumo
di Edoardo Boncinelli


Percepire è distinguere. O per dirla con il grande Ferdinand de Saussure, capostipite della linguistica moderna e padre dello strutturalismo: «Ciò che distingue un segno, ecco tutto ciò che lo costituisce». Applicato agli organi di senso, ciò significa che perché un determinato stimolo sensoriale sia chiaro, occorre che qualcosa venga rafforzato e qualcosa di antagonistico venga messo a tacere: il segnale ne uscirà più nitido. Succede anche nella nostra retina: quando un fotorecettore viene colpito da un raggio luminoso, quelli circostanti vengono messi a tacere. Ma come?
Un lavoro sull'ultimo numero di Nature fa vedere come almeno per i sensori del gusto e dell'olfatto, siano i neuroni stessi a «darsi di gomito» e a suggerire l'un l'altro: «Ora riposati un attimo, che tocca a me produrre un segnale nervoso». Quello che ho chiamato «darsi di gomito» è un nuovo meccanismo con il quale i neuroni, almeno alcuni neuroni, possono parlarsi, e porta un nome altisonante: interazione ephaptica, cioè per contatto, dal greco epì, sopra, e haptomai, tocco.
I neuroni, cioè le cellule nervose, di solito comunicano attraverso segnali elettrici che corrono lungo speciali prolungamenti detti assoni. Per passare poi da un neurone all'altro devono «saltare» un fosso molto particolare detto sinapsi. Tutto ciò richiede tempo, anche se brevissimo rispetto ai nostri standard. I neuroni di cui sto parlando io, aggirano tutto questo, e comunicano tra di loro all'istante. Stanno molto vicini fra di loro, ovviamente, in uno speciale organello detto sensillo, olfattivo o gustativo, e se uno emette un segnale, l'altro sta zitto anche se non ne avrebbe tanta voglia. Un'altra volta succede naturalmente il contrario, ma così non ci si può confondere: l'odore è quello e non un altro, almeno stavolta. Naturalmente non esiste un solo sensillo e quindi alla fine tutti gli odori sono percepiti, ma alla radice non c'è ambiguità e quindi possibili equivoci.
Perché il meccanismo in questione è così veloce? Gli autori se lo chiedono e rispondono che forse ciò serve a dare più prontezza alle nostre reazioni: The readiness is all, la prontezza è tutto, dice in fondo Amleto.

l’Unità 24.12.12
Buon Natale a Marco Pannella
risponde Luigi Cancrini
psichiatra e psicoterapeuta


Sono vicino al grande Marco Pannella in questo periodo dell’ennesimo e giustissimo sciopero della fame in favore dei detenuti che vivono in condizioni da quarto mondo. Problema che solo un indulto-amnistia risolverebbe. Ma è mai possibile che in questa nazione si deve arrivare a gesti estremi per farsi sentire?
VALENTINO CASTRIOTA

Gli auguri di Buon Natale vorrei rivolgerli anch’io a Marco Pannella e ai detenuti per cui lui ha portato avanti il suo sciopero della fame e della sete. Un Natale di crisi come questo, in cui le famiglie si raccolgono intorno ad alberi e a cene più povere, è un Natale in cui dovrebbe essere più facile che per il passato ricordarsi di chi ha di meno. Dei nuovi poveri e degli emigrati, dei bambini lontani dalle loro famiglie, delle persone malate e di quelle che nelle carceri soffrono della mancanza del bene più prezioso, la libertà: in una situazione resa così confusa dai ritardi e dalle incertezze di una giustizia sempre più in difficoltà e così pesante a causa di un sovraffollamento indegno del Paese civile che potremmo essere e non siamo ancora. Faremo qualcosa di nuovo anche in questo settore nel 2013? Spero di sì. Anche se dobbiamo passare, per riuscirci, da uno scontro elettorale difficile perché solo un governo ispirato a idee di progresso potrebbe parlare di amnistia e di interventi alternativi alla pena, di cura e rieducazione dei colpevoli invece che di violenza carceraria. Tornando, dopo 18 anni di berlusconismo, ai principi della nostra Costituzione, «la più bella del mondo». Permettendoci, fra un anno, di pensare alle carceri in un clima meno confuso e incerto di quello contro cui Marco sta lottando. Buon Natale a lui, dunque e a tutti i lettori de l’Unità!