giovedì 27 dicembre 2012

l’Unità 27.12.12
Bersani: «Nell’agenda Pd più lavoro e più equità»
I limiti del progetto Monti: niente diritti, troppa austerità e poca giustizia sociale
Il rapporto col Pd? «È il professore a dover pensare su come può interloquire con noi»
di Maria Zegarelli


Se il Pdl parte all’attacco a testa bassa contro Mario Monti, la sua agenda e l’operato del governo, il Pd usa toni sobri e rispettosi ma non calorosi. Il programma dell’attuale premier? «Non ci ho visto niente di sorprendente», risponde il candidato di centrosinistra Pier Luigi Bersani. «Tante cose condivisibili, alcune un po’ meno, alcune da discutere», spiega, ma niente a che vedere con il programma del Pd e dell’intera coalizione, dove ci sono «più lavoro, più equità e più diritti».
AGENDA POCO SORPRENDENTE
Un’agenda, quella del professore, che ai piani alti del Nazareno hanno letto con molta attenzione riscontrandone gli stessi limiti che hanno contraddistinto l’azione di governo del professore e dei tecnici: nessun accenno di diritti, né delle coppie di fatto (omosessuali o no), né dei lavoratori, molta attenzione all’austerità meno all’equità di cui il Paese «ha invece urgente bisogno». Ma a chi continua a chiedere al leader del centrosinistra cosa intende fare rispetto a Monti, ormai candidato, Bersani insiste nel ripetere il suo ragionamento di fondo: sono gli altri, compreso il Professore, a doversi chiedere come interloquire con il Pd, perché il Pd è il «più grande partito italiano. Il più riformista ed europeista». Vale per Monti come per Casini: decidano cosa vogliono fare. Non intende neanche portare troppo oltre il dibattito sulla sua alleanza con Vendola e Sel che tanto preoccuperebbe il leader Udc, «quante complicazioni...», sbotta, soprattutto dopo aver superato la prova delle primarie ed essersi sottoposto al giudizio di oltre 3 milioni di italiani. Il Pd si pone come alternativa a Berlusconi, alla Lega e ai populismi, spiega, quindi «aperto al dialogo» con quanti si riconoscono in questa linea.
E se il premier ormai dimissionario, annuncia di voler «salire in politica», Bersani preferisce aspettare prima di pronunciarsi, e capire cosa esattamente voglia dire. «Noi abbiamo massimo rispetto per Monti dice ai microfoni del Tg2 lo abbiamo sostenuto in momento molto difficili. Ora aspettiamo di vedere se si collocherà al di sopra o piuttosto con una parte. Questo andrà chiarito con gli elettori». Purché si esca dall’ambiguità. Quanto a Berlusconi non è la scesa in campo del Cavaliere a preoccuparlo, piuttosto lo è il fatto «che dopo tanto tempo sia tornato il messaggio berlusconiano», una notizia che non è bella né per gli italiani né per il mondo, spiega il segretario Pd. Il rischio è che questa campagna elettorale, per certi versi più di quelle passate, sia contrassegnata dal populismo di Berlusconi e da quello di Grillo, facendo passare in secondo piano i problemi reali del Paese.
Parlando invece con il Financial Times è all’Europa e alla Germania, in particolare, che parla Bersani. Al Paese con cui Monti ha intessuto un solido legame durante questo anno di governo. «Non ho intenzione di litigare con la Germania dice -. Voglio che l’Italia abbia un rapporto serio, franco e amichevole con la Germania sulla base di argomenti razionali e realistici». Se da settori dell’Europa, e non solo, è arrivato l’invito al premier a non lasciare la scena politica, Bersani assicura che non stravolgerà il lavoro portato avanti dal Professore della Bocconi cercando di mandare un segnale politico molto preciso: l’alternativa alle prossime elezioni non può essere Monti o Silvio Berlusconi, vero incubo di Angela Merkel, tanto che sottolinea: «Sono d’accordo con molte delle critiche che la Germania fa a Paesi come l’Italia, perché sono le stesse critiche che muovo a Berlusconi». Ma, sembra aggiungere, c’è un polo progressista forte e affidabile che può offrire garanzie di serietà e rigore.
«Ora mi piacerebbe che l’Europa spiega conversando con il quotidiano finanziario britannico si concentrasse sulla crescita e combattesse la recessione con la stessa tenacia con cui ha difeso l’unione monetaria. In caso contrario l’austerità, che è necessaria, da sola potrebbe diventare rischiosa nel lungo periodo». Guardare avanti, dice il leader Pd, perché se dovesse toccare a lui guidare il Paese non rinegozierebbe il patto fiscale o uno degli accordi raggiunti, ma non ci si può fermare lì. La spinta recessiva, in caso contrario, se non contrastata anche con misure per la crescita, sarebbe insopportabile e non soltanto per l’Italia. «Sono pronto a discutere spiega nell’intervista a discutere se sarà il mio turno di governare il Paese, a rafforzare il meccanismo di disciplina di bilancio per il monitoraggio dei bilanci nazionali, in cambio di nuove politiche volte a stimolare l’economia».
Sul fronte interno agitazione intorno all’uscita di Pietro Ichino dal Pd per correre nelle liste di Monti e delle possibili defezioni dal fronte renziano. Ma su questo il segretario, incalzato dai montiani sull’agenda del professore, mostra nervi saldi. «La mia posizione è chiara ragiona con i suoi collaboratori il programma è quello illustrato alle primarie, sull’agenda Monti ho detto quello che penso, alcune cose sono condivisibili altre no». Dario Franceschini in serata twitta: «Con Monti può nascere un polo conservatore normale al posto del berlusconismo. Nostri avversari ma nelle emergenze anche alleanze possibili». Dopo il voto. Perché in campagna elettorale sarà un avversario.

Corriere 27.12.12
Bersani: ora vedremo se il premier starà sopra le parti o ne sceglierà una
«Nella sua Agenda nulla di sorprendente. Alcune cose condivisibili, altre meno»
di Virginia Piccolillo


ROMA — «Grande rispetto per Monti, ma aspettiamo di vedere se per lui salire in politica significa mettersi sopra le parti o piuttosto con una parte». Prende tempo il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani. E attende che il presidente del Consiglio uscente e candidato premier, Mario Monti, passi dai tweet ai fatti. L'annuncio della «salita» in politica ha trasformato il professore della Bocconi da alleato in probabile avversario. E Bersani non intende concedere aperture al buio.
Certo c'è l'agenda Monti. Ma, dice il segretario pd al Tg2, non contiene «nulla di sorprendente. Ci sono alcune cose condivisibili, altre un po' meno, altre su cui si può discutere». In quella del Pd, per Bersani, sicuramente c'è «più lavoro, più equità e più diritti».
Il candidato premier del centrosinistra non vuole bruciarsi con prime mosse affrettate. Così non replica a chi, come Pietro Ichino, ha lasciato le file del suo partito per unirsi ai montiani. Preferisce volare più alto e rivolgersi all'Europa, dove il ritorno di Monti viene visto con favore.
In un'intervista al Financial Times, apparsa ieri sul sito online, Bersani invia messaggi rassicuranti. Dichiara che «sarebbe pronto — sintetizza FT — a cedere più poteri sovrani sulla spesa pubblica a Bruxelles, in cambio di una maggiore libertà di sostenere settori chiave dell'economia». «La prima cosa che vorremmo fare è rispettare i vincoli di budget, ma permettere maggiori graduali investimenti», spiega Bersani assicurando che intende dare continuità alle decisioni prese da Monti per contrastare la crisi dell'eurozona. «Non voglio rinegoziare il fiscal compact (l'impegno preso in sede europea di ridurre debito pubblico e rispettare pareggio di bilancio ndr) o qualsiasi altro accordo — dice il segretario pd — ma dobbiamo guardare avanti». «Ci piacerebbe che l'Europa si concentrasse sulla crescita e sulla lotta alla recessione con la stessa tenacia con cui ha difeso l'unione monetaria», «altrimenti l'austerity, pur necessaria, da sola potrebbe diventare rischiosa a lungo andare», aggiunge. Ai tedeschi, i più grandi sponsor di un Monti bis, fa sapere che auspica un «serio, franco e amichevole rapporto con la Germania» e di essere «pronto a discutere» la loro proposta per un supercommissario Ue all'economia che monitori le politiche di bilancio nazionali. È un piano che «non mi spaventa, purché l'intenzione sia di costruire fiducia e permetterci, pur in maniera controllata e selettiva, politiche di più ampio respiro» volte alla crescita.
Ma per non perdere il vantaggio che i sondaggi hanno finora accordato al Pd il punto cruciale da affrontare è quello delle alleanze. Bersani sa che la posta in gioco, l'ambito voto dei moderati, costringe a mosse caute e difese serrate da accuse di estremismo. A quella di Pier Ferdinando Casini, di essere collocato «troppo a sinistra», vicino a Nichi Vendola, Bersani replica con un sorriso: «Quante complicazioni... Noi siamo il Pd, di gran lunga il più grande partito italiano, europeista e riformatore. Un partito alternativo a Berlusconi, alla Lega e ai populismi, aperto a discutere con chi è contro Berlusconi, la Lega e i populismi. Queste sono le nostre posizioni, gli altri decidano cosa fare. Certamente bisogna che queste posizioni escano dalle ambiguità». Alla domanda se tema più Monti, Grillo o Berlusconi, Bersani risponde: «Io non temo nessuno», ma «dopo tanto tempo, il ritorno del messaggio berlusconiano non è una cosa bella per l'Italia». Soprattutto perché, secondo il Pd, viene amplificato in tv dalla presenza «straripante» e «abnorme» del Cavaliere. In una lettera all'Agcom ieri una decina di deputati del Pd (Zaccaria, Giulietti, Levi, Cuperlo, Giovanelli, Ciriello, Corsini, Fontanelli, Mazzarella, Melis, Peluffo, Pollastrini Touadì, Vita e Zampa) hanno chiesto i dati di questa disparità tra Berlusconi e gli altri leader in tv negli ultimi 10 giorni che potrebbe influenzare la campagna elettorale.
Un'altra insidia per Bersani viene da dentro il partito. Tenerlo compatto non è facile. Le sirene liberal, oltre a Pietro Ichino, hanno già conquistato quattro parlamentari e le voci (smentite) ne hanno già dati in transito verso l'agenda Monti altri. L'area ritenuta più a rischio, malgrado le rassicurazioni dell'interessato, è quella di Matteo Renzi. Ieri da lì è giunta una critica dura al segretario Pd: «Bersani non deve attendere Monti. Deve rispondere ai quesiti di Ichino e spiegare lui quale identità intende dare alla coalizione — ha dichiarato Mario Adinolfi —. Ancora non è chiaro se il Pd subirà più le istanze del 14% che ha votato Vendola o del 40% che ha votato Renzi». Il presidente dei deputati pd, Dario Franceschini invita a stare uniti: «Con Monti può nascere un polo conservatore normale al posto del berlusconismo. Nostri avversari ma nelle emergenze anche alleati possibili».

Corriere 27.12.12
«Pd e centristi destinati ad incontrarsi. È tempo di mettere le carte in tavola»
88 anni, ex deputato e senatore del Pci, fu anche sindacalista nella Cgil
di Emanuele Macaluso

ex senatore Pds

Il giornalismo
Macaluso è stato direttore de L'Unità (negli anni Ottanta) e de Il Riformista

Caro Direttore,
Ieri mattina il senatore Pietro Ichino, parlando con un giornalista di Radio Radicale, ha detto che la sua decisione di candidarsi in una lista che fa riferimento all'agenda Monti è dovuta a una sua opzione nettamente europeista. Il suo partito, il Pd, invece, dice il professore, su questo tema ha assunto posizioni equivoche e contraddittorie.
Il riferimento è a ciò che pensano e dicono da una parte il gruppo della sinistra che nel Pd farebbe capo a Fassina, dall'altro il Sel di Vendola alleato del partito di Bersani. Ichino ha ragione su un punto su cui non possono esserci equivoci: l'asse delle scelte politiche e sociali si è nettamente spostato verso l'Europa e molte decisioni dell'Ue sono vincolanti. Il senatore Ichino però sembra ignorare (ma non l'ignora) che in Europa si svolge una lotta politica tra forze democratiche conservatrici, radunate essenzialmente nel Ppe, e forze democratiche socialiste, organizzate nel Pse. Recentemente il Ppe ha preso una forte, inedita iniziativa, accantonando l'ex premier Berlusconi e investendo come leader delle forze politiche che in quel partito si riconoscono Mario Monti. Il quale, con tante cautele e tra il dire e non dire, ha sostanzialmente accettato di svolgere questo ruolo, con il prestigio che meritatamente si è guadagnato in Italia e soprattutto in Europa e nel mondo. Questa iniziativa del Ppe è dovuta non solo al fallimento di Berlusconi ma al fatto che i partiti socialisti sono in ripresa in Francia, in Germania e altri Paesi. E il Ppe, con Berlusconi leader non poteva competere. Insomma, a me pare che nel nostro continente va delineandosi una competizione e un'alternativa con più chiarezza tra il Ppe e il Pse. Se il prof. Ichino pensa che nel quadro italiano ed europeo sia giusto schierarsi e rafforzare il Ppe, la sua scelta, che non condivido, va rispettata perché ha una chiara valenza politico-culturale. A questo punto l'equivoco del Pd non è quello indicato dal prof. Ichino, dato che in tutti i partiti socialisti c'è stata e c'è una sinistra, ma non ha mai deciso le politiche di governo ed europee. L'equivoco sta nel fatto che il Pd non fa parte del Pse. Il buon Bersani cerca di rimediare usando gli incontri bilaterali con i leader socialisti europei. Attenzione, se, come pare, i socialdemocratici vinceranno in Germania, l'asse franco-tedesco sarà socialista ancora una volta l'Italia conterà meno del dovuto. So bene che il senatore Ichino solleva una questione che attiene al futuro governo italiano e alla sua maggioranza. Francamente non capisco il suo disappunto o l'astio di chi scopre che il Pd ha su molte cose una posizione diversa da quelle di Monti e dei suoi amici centristi. La destra e la sinistra che che ne pensino alcuni esistono in Italia e nel mondo ed esiste anche un centro il quale però non è l'ombelico della politica. Infine, io penso che se anche la coalizione Pd-Sel-Socialisti dovesse vincere alla Camera e risicatamente al Senato, non potrà governare senza un rapporto con il centro montiano. E questo per un motivo molto concreto. Non è un mistero che quando si sono svolte le primarie un vasto gruppo di parlamentari e militanti del Pd si schierò con Renzi per opporsi al gruppo dirigente che a loro avviso si era spostato a sinistra. Cioè, molti pensano come Ichino, ma non lasciano il Pd per non stare nella stessa coalizione di Casini, Montezemolo e Fini e non vogliono schierarsi con il Ppe. Li ritroveremo anche nei gruppi parlamentari del Pd. Però anche Monti senza il Pd non va da nessuna parte. Non sarebbe bene alla vigilia delle elezioni mettere le carte in tavola e capire meglio quali sono le convergenze e le divergenze tra le due coalizioni che, in ogni caso, sono destinate ad incontrarsi?
Emanuele Macaluso
ex senatore pds

il Fatto 27.12.12
L’intervista. Fabrizio Barca
“Basta governo, da grande voglio impegnarmi nel partito”
di Antonello Caporale


Vuol sapere la verità? Non ho affatto intenzione di candidarmi, reputo che questa esperienza di governo sia servita per suggerirmi un altro interesse che in questo Paese è vissuto come una diminutio ma che per me è essenziale per far girare le cose: l'organizzazione dei gruppi intermedi, quel collante indispensabile tra la società e l’esecutivo”
Altro che una poltrona in Parlamento, altro che un superministero, il sogno nel cassetto di Fabrizio Barca è andare al Partito, p maiuscola.
Esistono energie che non sono liberate, realtà che nessuno vede perchè non esistono più sezioni, circoli o come diavolo si chiamano oggi. Un governo funziona se funziona l’organizzazione dei gruppi intermedi, se l’ascolto del territorio è costante, se esiste mediazione tra base e vertice. Ecco, se dovessi dirle adesso, quella è una sfida che mi piacerebbe affrontare dopo questa parentesi ministeriale .
Il suo papà (Luciano, storico dirigente del Pci) ha vissuto a lungo a Botteghe oscure. Le sue simpatie si dividono tra Sel e il Pd. Bisogna solo aspettare che Bersani convochi il prossimo congresso e poi...
Non mi faccia dire di più, anche perchè l’ultima volta mi è stato richiesto di accettare di fare il ministro avendo un’ora soltanto per pensarci.
Bersani la vorrebbe superministro, e il suo nome era anche accreditato come candidato a sindaco di Roma.
Non ho doti particolari.
Poi si è detto che avrebbe fatto il capolista del Pd in Abruzzo.
Non me la sento di trasformare questa esperienza tecnica in una avventura politica senza un momento di sospensione.
Se puntasse alla segreteria del partito avrebbe il tempo che chiede: il successore si elegge tra un anno.
Vedremo. Confermo però che se abbiamo un guaio in Italia è di aver trascurato queste vitali organizzazioni che sono i partiti. Sono luoghi indispensabili – se aperti ai cittadini – a far rifiorire passioni e saperi.
La sua scelta è controcorrente
Sono felice che lo sia.
Sarà uno dei pochi ministri infedeli di Monti.
Nel senso che sono di qua?
Molto di sinistra.
Mi sono sempre chiesto come il premier avrebbe messo a frutto il suo ruolo al servizio dell'Italia.
Era convinto che si trasformasse, senza momenti di sospensione, in un capo popolo?
No, questo no e non credo che abbia queste suggestioni. Ma certo mi domandavo cosa avrebbe fatto in futuro. Non era immaginabile che la sua straordinaria esperienza non desse frutti.
A leggere le proposte che ha ricevuto anche lei non è messo male.
Ho piacere che si sia riconosciuto un impegno. Potevo far di meglio, ma anche far di peggio. Mi ha aiutato l'esperienza di quattro anni al ministero, a lavorare sulle politiche di coesione.
Qualche soldino l'ha recuperato per il sud?
Eravamo al 14 per cento e siamo giunti al 33 dei fondi investiti. Otto miliardi di euro la spesa che è stata accelerata, fondi europei che magari avrebbero dormicchiato. Quel che per me conta di più è invece aver cambiato marcia per il futuro: prima dei progetti bisogna sapere quali sono gli obiettivi, che risultato vogliamo raggiungere.
Lei scrive: l'azione pubblica è di cattiva qualità non per l'incapacità delle classi dirigenti che ne sono responsabili, ma per la loro espressa volontà.
È drammatico e crudele questo dato, ma così è. A me sembra che il potere costituito pur di autoconservarsi restringa le opportunità dei cittadini. Difende la sua piccola fetta di torta, trascurando la grande perchè teme di non esserne all'altezza.
Vogliono bandi di gara chiusi, intraducibili, e tutto già pianificato. Lo spreco come sostituto funzionale dell'apparato dei partiti.
Vero, purtroppo. Chiudersi alla vista, detenere un potere inemendabile e mai contendibile. Questo è il guaio. Ad Acerra, dove hanno costruito con l'esercito un termovalorizzatore, io ho voluto che i tecnici delle Ferrovie dello Stato prima di redigere il tracciato della linea ferroviaria parlassero con la gente. Vi piace di più se taglia la città o la bypassa? Ho chiesto che elaborassero i progetti in modo chiaro, intellegibile e si confrontassero in una assemblea aperta.
Il potere si preserva anche con la grammatica e i periodi ipotetici.
A Pompei sono stati assunti 23 archeologi, tutti ragazzi. Quando li ho sentiti parlare ho finalmente respirato un'aria nuova.
Si era dato il compito di shekerare il Mezzogiorno.
E infatti un po’ l'abbiamo shekerato.

La Stampa 27.12.12
“All’Italia non serve un’agenda Il futuro dipende dal metodo”
Il ministro Barca: “Le cose sono cambiate ma ci siamo impaludati”
di Tonia Mastrobuoni


Riforme Il ministro per la Coesione territoriale Fabrizio Barca è convinto che la strada delle riforme sia ancora lunga e che il prossimo governo molto dovrà lavorare per portarle avanti
Ministro Barca, ritroveremo il suo nome in una lista elettorale?
«No, lo escludo al 100%».
Molti la considerano già un ministro in pectore del prossimo governo.
«Non sarò io a deciderlo, ma non so se è quello il modo migliore per fare politica, per me».
Qual è?
«Si può anche lavorare nei territori o in un partito. Ma nei prossimi 90 giorni ho ancora talmente tante cose da fare che posso permettermi di non pensarci».
E dopo a che tipo di impegno pensa?
«Ritengo importante l’impegno nei corpi intermedi della società. E’ la cosa di cui abbiamo forse sentito di più la mancanza, in quest’anno di governo. E’ mancato un rapporto costante con le istanze più innovative della società. Twitter non basta: c’è un solo modo per stare sintonizzati con i territori: i partiti».
Se ne vedono pochi in giro. E lei è ministro di un governo tecnico.
«Non critico soltanto la distanza con la società civile. Il difetto maggiore è che senza un partito si fa fatica ad ascoltare le realtà territoriali, che in molti casi hanno già la soluzione attorno alla quale ci si sta arrovellando. Questo corpo intermedio che funziona nelle due direzioni, per me è una grossa tentazione. Non mi chieda quale partito: ci penserò quando avrò finito il mio compito di ministro».
Monti parte da un programma, l’Agenda, qualcosa che molti elettori chiedono da anni al posto dello scontro tra personalità. Ma l’ambiguità sul suo impegno diretto non è ancora sciolta. Cosa ne pensa?
«Penso che stia offrendo la disponibilità a svolgere la funzione che sente più fortemente, quella di garante che il cambiamento avviato non sia un episodio. Io, tuttavia, preferisco alla parola “agenda” la parola “metodo”. La chance dell’Italia di ripartire dipende da questo, più che dalla lista delle cose da fare. Che sono, tra l’altro, arcinote».
Molte delle vostre riforme si sono arenate in Parlamento o ne sono uscite massacrate.
«Mi perdoni se uso un modulo calcistico per una sorta di bilancio: è come un 1-4-1 nel calcetto a sette. L’uno, il libero, è la compattezza di questo governo. Poi ci sono 4 cose che vanno radicalizzate. Uno, il linguaggio: le cose sono cambiate, ma alla fine anche noi ci siamo impaludati. Non abbiamo saputo dire quanto vecchia e paludata sia stata la Legge di stabilità votata in Parlamento. Ci sono liste di trasferimenti a questo o quello veramente brutte» Come le vecchie leggi mancia...
«Esatto. Secondo: l’Europa. Il prossimo governo dovrà mettere molto più l’accento sullo sviluppo, dovrà fare una battaglia radicale per usare la flessibilità già esistente nel Patto di stabilità per far passare le spese che abbiano un particolare concorso allo sviluppo, ad esempio per alcune categorie di investimenti. Terzo tema da radicalizzare: la concorrenza. Ultima, più importante di tutte, lo Stato “giusto”: bisogna rinnovare i vertici della p. a., i gabinetti. Serve una nuova leva di innovatori. Quarto, dobbiamo attuare la revisione analitica della spesa. Poi ci sono le cose che abbiamo sbagliato. Sappiamo che la vecchia concertazione ai vertici non funziona più» Camusso ha paragonato Monti alla Thatcher e il loro rapporto è sempre stato difficile.
«Il problema c’è, ma non va bene neanche l’autoreferenzialità centralistica dei tecnocrati. Per quanto bravi possano essere, la loro conoscenza è limitata rispetto alla straordinaria vivacità della società. Poi, inevitabilmente, pochi tecnici sono soggetti all’influenza di pochi, e rinunciano alla conoscenza di molti. Serve una valutazione pubblica aperta, come la chiamerebbe Amartya Sen. Occorre favorire, luogo per luogo, la discussione. In questa visione il centro, il governo, diventa una rete di reti».
A proposito di nodi spinosi: nell’Agenda Monti si riparte dal problema del dualismo nel mondo del lavoro, come se non ci fosse stata una riforma Fornero...
«Anche a me ha colpito quella parte. Probabilmente si intende che una parte deve essere ancora attuata. Ma mi faccia dire un’altra cosa. Il resto del mondo guarda a Monti - non intendo solo le classi dirigenti ma i popoli - come a una figura di riferimento, perché per anni abbiamo dato una prova che è fuori dall’immaginabile, per un paese democratico. L’incomprensibilità della politica italiana è una cosa antica, ma a questa si è sovrapposta una assoluta inaffidabilità legata a vicende che non hanno eguali».
Condivide il giudizio di Monti su Vendola e la Cgil?
«Vendola non è un conservatore: penso che sia una persona radicale. Le cose che ha fatto in Puglia per i giovani, per la scuola e sulla ricerca sono interventi radicali, ma penso anche che ce ne vorrebbero per tutta l’Italia. Credo che sia un innovatore. Nella Cgil c’è un tasso di conservatorismo, ma è anche dovuto a un certo arroccamento degli interlocutori. Se la concertazione diventa un rito, anche la Cgil diventa conservatrice».

Corriere 27.12.12
Da Barca a Mauro Moretti (Fs), il segretario punta sugli «esterni»
Per il governo si fanno i nomi di Veltroni e D'Alema
di Maria Teresa Meli


Non bastano i viaggi all'estero, le rassicurazioni e una fedina ministeriale a prova di bomba per accreditarsi sia a livello internazionale che, in Italia, presso l'establishment che conta. Pier Luigi Bersani se ne rende ben conto. Come capisce che questi problemi si sono acuiti da quando Monti ha deciso che il mestiere di tecnico gli sta stretto.
Il segretario del Partito democratico teme che le ultime mosse del premier possano nuocere al Pd. Perché, al di là delle intenzioni di Monti, queste sue continue sortite in politica rischiano di essere usate a «sostegno della tesi di chi dice che il centrosinistra non garantisce una sufficiente affidabilità e che quindi il suo ingresso al governo potrebbe diventare un problema».
Dunque, come contrastare questo «disegno neocentrista» che mira a «scompaginare» i poli e a «dividere il Pd su questioni come il rapporto con la Cgil e quello con Vendola?». Bersani è convinto che un aiuto in questo senso potrebbe venirgli dall'inserimento nel listino di nomi eccellenti provenienti dalla società civile. Ma non solo. Il leader del Pd ritiene che un'altra carta da giocare in campagna elettorale sia quella della squadra di governo. Il segretario pensa ad anticipare alcuni nomi di futuri ministri su cui nessuno, né all'estero né in patria, avrà niente da ridire.
Perciò è partito, forte come non mai, il pressing nei confronti di Mauro Moretti. Il massimo per il Partito democratico sarebbe avere in lista l'amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato. Ma se ciò non fosse possibile, il Pd non dispera di poter avere Moretti nella compagine governativa. Per lui sarebbe già pronta la poltrona oggi occupata da Corrado Passera: quella di super ministro dello Sviluppo economico e delle Infrastrutture. Ma si tratta di un'impresa difficile: i vertici del Pd non sono ancora riusciti a strappare un sì all'amministratore delegato delle Fs.
Anche il ministro per la Coesione territoriale Fabrizio Barca è nel mirino di Bersani. Il segretario del Partito democratico lo stima molto, tant'è vero che gli ha proposto a più riprese di scendere in campo per partecipare alle amministrative romane. Lo voleva sindaco della Capitale, ma Barca si è tenuto sulle sue. Ora potrebbe essere inserito nel listino dei «garantiti» e comunque per lui c'è un posto di ministro nel futuro governo Bersani. Altri nomi nel listino sono quelli dello storico Alberto Melloni, del politologo Carlo Galli, del consigliere di Bersani Miguel Gotor, dell'attuale sottosegretario all'Istruzione Marco Rossi Doria, dell'ex segretario della Cgil Guglielmo Epifani, di Francesca Izzo, del comitato promotore del movimento «Se non ora quando» (moglie di Beppe Vacca) e della giornalista Sandra Bonsanti di «Libertà e giustizia».
E Bersani vorrebbe nel listino anche un esponente del mondo artistico. Ce ne sono tanti che lo hanno appoggiato nella campagna delle primarie: Massimo Ghini, Ottavia Piccolo, Ettore Scola, Giuseppe Tornatore, Sergio Staino, Gino Paoli, o fratelli Taviani e molti altri. Tra questi il segretario sta cercando un possibile candidato. Ma anche tra i papabili renziani vi sono esponenti della società civile: il costituzionalista Francesco Clementi, l'ex assessore alla Cultura del Comune di Firenze Giuliano da Empoli, lo scrittore Alessandro Baricco e il fondatore di Slowfood Carlin Petrini.
Sarebbe però un errore credere che il Partito democratico abbia deciso di rinunciare ai politici a tutto tondo. Non sarebbe da Bersani prendere una decisione del genere. E infatti nel listino vi saranno anche alcuni parlamentari. Due nomi per tutti: il capogruppo del Pd in commissione Bilancio della Camera Pier Paolo Baretta, su cui c'è l'accordo di tutti, e Donatella Ferrante, capogruppo del partito nella commissione Giustizia di Montecitorio, sul cui inserimento nell'elenco dei garantiti vi sono però opinioni contrastanti. Di più: nella compagine governativa potrebbero entrare due personaggi di peso del Pd, conosciuti in ambito internazionale: Veltroni all'Interno e D'Alema agli Esteri.

il Fatto 27.12.12
Pd, candidati “locali” per prendere il Senato
Sabato e domenica le primarie per i parlamentari
A Bersani servono uomini forti sul territorio
In campo i soliti noti e qualche sorpresa
di Caterina Perniconi


Un’operazione chirurgica necessaria. Le primarie per i parlamentari, dopo l’opposizione (almeno a parole) al Porcellum, il Partito democratico le doveva fare.
Per questo motivo sabato e domenica i volontari del partito riapriranno i gazebo per far votare chi si è già espresso alle primarie del centrosinistra e ora vuole dire la sua anche sulla rappresentanza parlamentare. In piene vacanze natalizie, di certo non è favorita la partecipazione. In più non ci sono da aspettarsi grandi nomi vip: il segretario democratico si è riservato un listino bloccato all’interno del quale coinfluiranno tutti i bersaniani più stretti e anche i candidati “protetti” delle altre correnti del partito. A cercarsi le preferenze sono stati mandati quelli che lo fanno con grande esperienza o chi non ha altra scelta per arrivare a un seggio. Della prima categoria, quella più affollata, fanno parte i dirigenti sul territorio. Segretari provinciali e regionali ma anche molti amministratori che hanno chiesto una deroga per poter approdare a Roma. L’ordine di Bersani è stato chiaro: le buone prassi amministrative possono aiutarci a spiegare come vogliamo governare il Paese ed evitare così il rischio di un pareggio al Senato. Battaglia dura in Lombardia, Lazio e Sicilia. Dove si preferisce il re delle preferenze Vladimiro Crisafulli alla più debole Anna Finocchiaro, costretta a emigrare in Puglia. Anche per Rosy Bindi niente sfide con la sua Toscana, meglio trasferirsi a Reggio Calabria. Del resto, dei dieci derogati, solo quattro si sottoporranno al giudizio dei gazebo. Oltra a Finocchiaro e Bindi anche Garavaglia e Cesare Marini. Della società civile, invece, rarissime tracce.
Alle prese con le primarie, negli stessi giorni, anche Sinistra, Ecologia e Libertà. Nichi Vendola ha scelto una rosa di parlamentari da inserire nel listino bloccato tra esterni (come il segretario Fiom-auto, Giorgio Airaudo) e uomini del partito. Escluso invece il leader dei giovani, Marco Furfaro.

il Fatto 27.12.12
Firme, ancora caos E adesso arriva anche il censimento


IL DECRETO tornerà al Senato venerdì pomeriggio alle 15. Ci sono ancora da approvare le norme per la raccolta firme: non solo per chi sta fuori dal Parlamento (dovrebbero essere 30 mila, secondo la bozza) ma soprattutto per chi sta dentro: La Russa, neo fondatore di Fratelli d’Italia con Meloni e Crosetto, ha chiesto l’esonero per tutti i gruppi presenti in una delle due Camere prima dello scioglimento. E continuano le polemiche. Ieri il leader della Destra, Francesco Storace, ha denunciato una nuova questione: “Nella tarda serata della vigilia i soliti ignoti che ormai albergano al Viminale hanno sfornato il censimento 2011 e come una banda qualsiasi ne hanno approfittato. E così, come regalo di Natale, abbiamo scoperto in Gazzetta Ufficiale che sono cambiati i numeri dei seggi attribuiti nella maggior parte delle regioni fra Camera e Senato. Dobbiamo ricominciare di nuovo?”. In particolare le modifiche riguardano Lombardia, Emilia Romagna e Lazio, le regioni dove ci sono state più variazioni nel numero di abitanti. “Il Viminale risponda rapidamente - dice Storace -. Ormai siamo a meno di quattro settimane dalla presentazione delle liste!”.

Repubblica 27.12.12
Primarie, la carica dei mille i decani rischiano lo sgambetto nella sfida con i big dei territori
A Bari c’è il fratello di Emiliano. Bindi in Calabria
di Goffredo De Marchis


Meno due giorni alle primarie per i parlamentari del Pd. Si vota il 29 e in alcune regioni il 30. Corrono quasi mille e cinquecento candidati e alla fine avremo alcuni esclusi eccellenti. Soprattutto nelle grandi città dove molti parlamentari uscenti sfidano nomi nuovi o nomi antichi dotati di un grande bacino elettorale. In Sicilia per esempio corre l’ex segretario della Cisl Sergio D’Antoni, da anni deputato. Ma lui, come altri onorevoli, fronteggia la forza di uomini dal consenso radicato come Davide Faraone, il renziano che corse per la carica di sindaco, e Pino Apprendi. Solo un esempio, ma la storia si ripete a Roma, Milano, Torino, Napoli, Firenze. Alla vigilia del voto, non mancano le polemiche. La Puglia è una delle regioni più calde. Perché è quella dove saranno in competizione il maggior numero di consiglieri regionali, ben quattro, travolti da un mare di critiche. Loro si sono giustificati così: se Vendola viene eletto (cosa sicura) cadrà il consiglio, abbiamo il diritto di tentare un’altra strada. Giustificazione ammessa. A Bari è in pista anche il fratello del sindaco di Bari e presidente del Pd pugliese Michele Emiliano. Si chiama Alessandro, ha 50 anni, è un imprenditore. «Ho provato a dissuaderlo, ma non potevo più fermarlo», racconta il primo cittadino. «Ha già rinunciato nel 2010». Alessandro è stanco di «essere il fratello di». Corrono nella regione i deputati bersaniani Francesco Boccia (Barletta-Trani-Andria) e Dario Ginefra (Bari). Mentre a Taranto sbarca oggi Anna Finocchiaro, la capogruppo al Senato, per giocarsi la conferma in un collegio complicato. A Roma sono a caccia di voti gli unici due membri della segreteria a essersi messi in gioco: Stefano Fassina e Matteo Orfini. Si batteranno contro un gruppone di consiglieri uscenti del Lazio, contro il segretario locale Miccoli, contro la deputata Marianna Madia, ex assessori del calibro di Roberto Morassut. A Firenze l’ondata di candidati renziani è data per favorita dopo il tracollo delle truppe bersaniane in regione. A Torino rischiano il tutto per tutto un ex ministro come Cesare Damiano, un deputato uscente come Stefano Esposito mentre l’operaio della Thyssen Antonio Bocuzzi ha rinunciato in accordo con il partito. Nel grande risiko i più esposti sono, per una volta, i maschi grazie alla regola del doppio voto da dare obbligatoriamente a un uomo e una donna. Tra gli esclusi illustri non bisognerà sorprendersi se la parte del leone la faranno i candidati di sesso maschile. Anche a Milano, tra i tanti candidati, si presentano gli uscenti Emanuele Fiano e Emilio Quartiani, accanto a Barbara Pollastrini, un’altra ex ministro. Giorgio Gori corre a Bergamo. A Napoli, dove è in campo il presidente provinciale Massimiliano Manfredi, Anna Maria Carloni, la moglie di Bassolino, senatrice uscente, denuncia di essere stato abbandonata dalla sua corrente. Tra i big gli occhi sono puntati su Rosy Bindi, che partecipa in Calabria e per la precisione nella provincia di Reggio, e su Beppe Fioroni che corre a Messina. A partire da oggi sbarcheranno nel loro collegio per una campagna elettorale di 48 ore, massimo 72. All’organizzazione del Pd e di Sel che tiene le sue primarie negli stessi giorni verrà chiesto uno sforzo straordinario. Ci sono molti rischi di ricorsi e polemiche nel dopo-voto. Nel partito di Vendola per esempio si contesta la quota protetta del 20 per cento. In Veneto si sente ancora l’eco degli attacchi al sindaco di Este Giancarlo Piva, eletto pochi mesi fa ma ora candidato alle primarie. Il punto è che Este presto sarà accorpato a un altro comune e il municipio non esisterà più.

Repubblica 27.12.12
Ai renziani 17 posti blindati dentro lo staff, Baricco frena
In corsa anche Gentiloni, Realacci e Scalfarotto
di Massimo Vanni


FIRENZE — «La corsa continua », ripetono i candidati renziani a caccia di voti per un posto in parlamento. Le primarie si tengono domenica 30 in Toscana e non c’è tempo di celebrare Santo Stefano. Si corre, si telefona, si organizzano aperitivi con gli elettori. Matteo Renzi invece no, il suo Santo Stefano è con gli sci ai piedi sui pendii dell’Abetone: l’accordo con Bersani sulla ‘quota nazionale’, cioè sui posti in lista blindati, in fondo ce l’ha già. Sono 17 in tutto, secondo l’ultima versione: 17 caselle ancora da attribuire nella geografia delle regioni, ma da riempire con nomi di suo gradimento. Non c’è ancora stato un faccia a faccia Renzi-Bersani. E neppure una trattativa con il segretario del Pd, che si è riservato cento posti di ‘quota nazionale’ al di fuori delle primarie. Si sono però sentiti, Bersani gli ha offerto 17 caselle in bianco e Renzi l’ha accettate. «Se davvero ci fosse stata una trattativa il segretario avrebbe dovuto partire dal 40 per cento, che è la quota raggiunta al ballottaggio», rivendicano i suoi. E invece neppure il venti per cento, perché un tira e molla sui posti sarebbe stato devastante anche per l’immagine del sindaco-rottamatore. Chi saranno i 17 candidati in quota Renzi? Il sindaco aveva pensato allo scrittore Alessandro Baricco, che considera una delle sue muse ispiratrici e che sente spesso. Solo che, a quanto pare, lo scrittore non è convinto. Frena davanti all’idea di sedersi a Montecitorio. Pietro Ichino, a cui deve tanta parte del suo programma sul tema del lavoro, se n’è andato dal Pd. Anche l’ex Mediaset Giorgio Gori sembra fuori gioco: ha scelto di correre presentandosi direttamente alle primarie. E nel suo entourage si dà per certa la presenza nelle quote garantite del suo capo staff Roberto Reggi, che quando c’è da alzare la voce «è sempre un asso». Si fanno pure i nomi del costituzionalista Francesco Clementi, docente a Perugia, del vicepresidente del Pd Ivan Scalfarotto, dell’ex ministro Paolo Gentiloni, che si è schierato da tempo con il sindaco di Firenze, e di Ermete Realacci, l’ambientalista eletto l’altra volta in Toscana che non ha ancora ottenuto nessuna rassicurazione. C’è chi giura che tra le 17 caselle potrebbe finire anche lo scrittore Giuliano Da Empoli che, dopo aver lasciato la carica di assessore alla cultura di Firenze, è rimasto a fianco di Renzi come l’uomo del programma. Solo che anche Da Empoli non pare entusiasta all’idea di trovarsi «a schiacciare bottoni» in parlamento. Mentre la ex responsabile del tour elettorale Simona Bonafè, assessore a Scandicci e stretta collaboratrice di Renzi, sembra ormai assodata. Una candidatura, la sua, alla quale potrebbe affiancarsi anche quella del capogruppo Pd a Palazzo Vecchio Francesco Bonifazi. Renzi in realtà non ha ancora deciso. In fondo, c’è ancora tempo dal momento che le ‘quote nazionali’ saranno decise ben dopo la conclusione delle primarie. Perfino dopo la Befana. Il sindaco però ha già chiaro di voler puntare su almeno un paio di nomi ‘di peso’, un paio di esponenti della ‘società civile’ che incarnino credibilità e innovazione allo stesso tempo. Tra questi, magari, un imprenditore come il ‘re del cachemire’ Brunello Cucinelli, che lo stesso Renzi ha voluto al suo fianco come testimonial durante la campagna delle primarie per la premiership.

il Fatto 27.12.12
L’allarme
Cgil: precari, 500 mila a rischio
Contratti in scadenza il 31 dicembre, aziende in fuga, “cassa” a 1,1 miliardi di ore
di Giampiero Calapà


Per il sindacato “i padroni sono pronti a lasciare a casa un esercito di lavoratori, aggirando la legge Fornero”. Come? “Facendo ricorso a tipologie contrattuali peggiori di co.co.co. e co.co.pro.: lavoro a chiamata, occasionale e partite Iva”
CGIL: “SONO MEZZO MILIONE I PRECARI A RISCHIO DAL 2013”
L’ALLARME DEL SINDACATO: “CONTRATTI IN SCADENZA E LE AZIENDE STANNO AGGIRANDO LE LEGGI CON TIPOLOGIE ANCORA PEGGIORI”

L’esercito dei precari a Capodanno potrebbe avere ben poco da festeggiare, colpito da un possibile aggiramento della legge Fornero per esser lasciato a casa in favore di nuovi ingressi in azienda con tipologie di contratto ancora peggiori.
Il passo dal precariato alla disoccupazione, quindi, è breve. Lo denuncia la Nidil (il sindacato della Cgil che si occupa dei non garantiti da nulla): il 70 per cento dei circa 700 mila contratti di lavoro a progetto o co.co.co. in scadenza il 31 dicembre potrebbe non esser rinnovato dalle aziende.
“Un allarme serio”, spiega Filomena Trizio, che della Nidil è segretario generale. Tanto serio che potrebbe tradursi in un vero bagno di sangue per questi lavoratori “che appartengono alle più svariate categorie, dalla commessa all’usciere, all’operaio alle catene di montaggio, ma che sono comunque ormai una vera sostituzione del lavoro dipendente”.
PERCHÉ le imprese potrebbero sbarazzarsi del precario che costa poco e lavora già da tempo in azienda, appunto adempiendo in tutto e per tutto a compiti e mansioni da lavoro dipendente? “Questi contratti possono essere non prolungati in buona parte proprio per non essere, presto o tardi, regolarizzati come lavoro dipendente – spiega Trizio – tanto che è già evidente una tendenza a sostituirli con tipologie ancora meno tutelate”. Esistono? “Certo, penso ad esempio alle partite Iva, lavoro a chiamata e occasionale”.
Trizio riconosce alla legge Fornero “una delle pochissime norme positive introdotte: i contratti di collaborazione devono rispondere a progetti veri, con retribuzioni non inferiori ai minimi contrattuali”. Ma? “Succede che stanno venendo da noi decine di lavoratori, avvisandoci che, paradossalmente, con la scusa dell’entrata in vigore della legge Fornero, i loro contratti sono a rischio. Perché le aziende non stanno rinnovando i contratti o in alcuni casi, anziché stabilizzare le collaborazioni a progetto in lavoro dipendente, aggirerebbero le norme utilizzando, appunto, tipologie di contratti ancora peggiori per i lavoratori”. Per questo motivo la Nidil lancia la campagna “Non restare solo a Capodanno, se il tuo contratto sta per scadere rivolgiti alla Cgil”.
Proprio in queste ore tiene banco nella politica nazionale il passaggio del giuslavorista Pietro Ichino dal Partito democratico all’area centrista che sosterrà la candidatura a premier di Mario Monti. Ichino ha fatto una bandiera del ‘meno garanzie per i garantiti uguale più diritti per i precari’. Per Trizio “una sciocchezza colossale che in realtà si traduce in salviamo i precari precarizzando tutti, le ricette di Ichino non ci hanno davvero mai convinto: serve un’inversione di tendenza rispetto a quasi vent’anni in cui il lavoro è diventato capro espiatorio di tutte le debolezze economiche di questo Paese”.
LA PENSA allo stesso modo un ex ministro del Lavoro, Cesare Damiano (Pd): “L’allarme della Cgil sui precari va ascoltato. Il rischio di interruzione del lavoro alle prossime scadenze dei contratti temporanei è reale. Si tratta di mezzo milione di persone in difficoltà. A questo si aggiunge il problema che, al prolungamento della crisi, corrisponde la crescita della cassa integrazione che arriverà a un miliardo e cento milioni di ore autorizzate alla fine del 2012. Il nuovo governo dovrà avere come punti fondamentali della sua azione la correzione delle riforme delle pensioni e del mercato del lavoro per evitare una crescita della disoccupazione”.

l’Unità 27.12.12
La denuncia
Non so più dove seppellire i migranti morti in mare
di Giusi Nicolini
Sindaca di Lampedusa


SONO IL NUOVO SINDACO DELLE ISOLE DI LAMPEDUSAEDILINOSA.Eletta a maggio 2012, al 3 di novembre mi sono stati consegnati già 21 cadaveri di persone annegate mentre tentavano di raggiungere Lampedusa, e questa per me è una cosa insopportabile. Per Lampedusa è un enorme fardello di dolore. Proprio in questi giorni abbiamo dovuto chiedere aiuto attraverso la Prefettura ai sindaci della Provincia per poter dare una dignitosa sepoltura alle ultime 11 salme, perché il Comune non aveva più loculi disponibili. Ne faremo altri, ma rivolgo a tutti una domanda: quanto deve essere grande il cimitero della mia isola?
Non riesco a comprendere come una simile tragedia possa essere considerata normale, come si possa rimuovere dalla vita quotidiana l’idea, per esempio, che 11 persone, tra cui 8 giovanissime donne e due ragazzini di 11 e 13 anni, possano morire tutti insieme, come sabato scorso, durante un viaggio che avrebbe dovuto essere per loro l’inizio di una nuova vita. Ne sono stati salvati 76 ma erano in 115 e il numero dei morti è sempre di gran lunga superiore al numero dei corpi che il mare restituisce.
Sono indignata dall’assuefazione che sembra avere contagiato tutti, sono scandalizzata dal silenzio dell’Europa che ha appena ricevuto il Nobel per la pace e che tace di fronte ad una strage che ha i numeri di una vera e propria guerra. Sono sempre più convinta che la politica europea sull’immigrazione consideri questo tributo di vite umane un modo per calmierare i flussi, se non un deterrente. Ma se per queste persone il viaggio sui barconi è tuttora l’unica possibilità di sperare, io credo che la loro morte in mare debba essere per l’Europa motivo di vergogna e disonore. In tutta questa tristissima pagina di storia che stiamo tutti scrivendo, l’unico motivo di orgoglio ce lo offrono quotidianamente gli uomini dello Stato italiano che salvano vite umane a 140 miglia da Lampedusa, mentre chi era a sole 30 miglia dai naufraghi, come è successo sabato scorso, e avrebbe dovuto accorrere con le velocissime motovedette che il nostro precedente governo ha regalato a Gheddafi, ha invece ignorato la loro richiesta di aiuto. Quelle motovedette vengono però efficacemente utilizzate per sequestrare i nostri pescherecci, anche quando pescano al di fuori delle acque territoriali libiche.
Tutti devono sapere che è Lampedusa, con i suoi abitanti, con le forze preposte al soccorso e all’accoglienza, che dà dignità di esseri umani a queste persone, che dà dignità al nostro Paese e all’Europa intera. Allora, se questi morti sono soltanto nostri, allora io voglio ricevere i telegrammi di condoglianze dopo ogni annegato che mi viene consegnato. Come se avesse la pelle bianca, come se fosse un figlio nostro annegato durante una vacanza.

il Fatto 27.12.12
Clochard alla stazione
Mario “Binario 12” e gli altri invisibili
di Veronica Tommasini


Sono in stazione centrale, a Milano. Cerco un uomo che proviene dall’Est Europa, è un senza fissa dimora. Quest’uomo ha bisogno di cure. So che si accompagna a un italiano qualche volta. L’italiano è un certo Mario. Mi dicono che sta al binario 12 o 14. Me lo indicano i suoi compagni, un paio di arabi, un ucraino, stanno tutti in giro a mezzogiorno, Mario sta al binario 12 o 14 e infatti lo chiamano Mario Binario dodici o quattordici. Viene da Andria. Sale e scende dal treno quando è fermo, ha un cellulare carico con un sacco di minuti gratuiti. Mario è un uomo di mezza età. Non so altro. La sera vanno al Greco Pirelli, dicono così, dormono al Greco Pirelli, una volta stavano in sala d’attesa, adesso non più. La festa è finita dice un bresciano, un tossico, “fanno casino, e poi ci mandano via”. Fanno casino quelli che bevono, dice il bresciano.
Ombre, sottopassaggi e storie lunghe
Ognuno ha la sua zona. Gli underground si somigliano tutti. Penso a Christiane Felscherinow, al suo diario, la kurfustendamme, i sottopassaggi del Bahnhof Zoo. Si somigliano tutti. L’uomo dell’Est che ha bisogno di cure potrebbe riparare al Greco Pirelli, detto al maschile, nel gergo dei senza tetto. “Tranquilla, non stanno da soli” mi spiega il bresciano, “non preoccuparti, il tuo amico non muore di freddo”. Che ne sai dico. E poi non è un mio amico, è una storia lunga. Temo di non riuscire a salvarlo. Il bresciano ride. Salvarlo. Chi sei tu, sua madre?
Una tizia cercava il marito, il marito stava a Monza. Sapeva molto meno di me, non un indirizzo, al limite un non meglio identificato dormitorio in una via ics del centro. Chiamava dalla Puglia, il marito le rispondeva a giorni alterni, se non era troppo ubriaco. Chiamate inutili, insulse se vogliamo. Se un marito blatera ubriaco non serve starlo a sentire, non gli serve manco un cellulare. Minacciava di gettarsi da un ponte. Esistono ponti a Monza? La tizia era davvero spaventata, tremava poveretta, prendeva per buone tutte le balle che il marito le raccontava. Chiamò il commissariato. Così trovarono il marito, la tizia al telefono dalla Puglia, i minuti scorrevano, e tanto poco credito le restava. Finì tutto bene, se non fosse per una frase sfuggita a qualcuno al di là del cavo, due parole sommesse, dette di passaggio, uno stigma, una lapide, la tizia ancora in attesa: “È un barbone”. Barbone, ripeté la tizia che chiamava dalla Puglia.
L’uomo dell’Est non è in stazione. Noto il teatro degli Arcimboldi. Torno in centrale. Incontro Mario, è un omone. Mi stende la mano, sono Mario binario dodici forse quattordici. Ecco quel forse mi ha fatto commuovere. Sono all’altezza di piazza Andrea Doria. Mario sta con una polacca, so che è polacca, “Jak sie masz”, dobrze, tak, dobrze. È polacca, sì. Parla al cellulare. Dorme in stazione, non so dove. Non dorme con Mario. Quarantina d’anni, suvvia, portati benino, salvo tutto il resto, cioè l’alcol, la stazione, i cartoni. La morte di un immigrato l’ho appena letta sulle notizie meteo. Gli effetti del freddo, le gelate sulle campagne, un indiano che muore in un quartiere di Roma, muore assiderato, il lancio nelle news del meteo. Io sono a Milano però, all’altezza di piazza Andrea Doria. L’uomo dell’Est che ha bisogno di cure è ovunque, non esiste. Penso alla segreta costernazione con cui ho fissato il teatro degli Arcimboldi. È tutto così tragico, certo. Il bresciano, il tossico, mi avvicina di nuovo, chiede d’accendere, mi dà una dritta. “Prova in mensa a San Francesco, domani”. Qui, mi urla dietro poi, inspiegabilmente, non moriremo mai mai mai. In che senso, di freddo, di fame? Ci sono le navette dei volontari, le associazioni, io cerco un uomo e non lo trovo. E se per caso ascoltassi una frase lapidaria, lo stigma, la vergogna, qualcuno al di là dal cavo che sussurra “è un barbone”, non inorridirei. No, per niente.
Tre minuti e giù nel sonno perenne
Tutti gli anni si fa la conta dei morti assiderati, e tutti gli anni a legger i necrologi sui giornali, che poi son notizie, penso a Orhan Pamuk e al suo romanzo Neve. Scrive Pamuk che bastano tre minuti per scivolare nel sonno perenne. Morire di freddo, come un tale Miroslaw che morì dalle mie parti, una città del sud, sopra una pietra, una notte piena di stelle, nel mese di dicembre. Miroslaw Dobek, polacco, 58 anni, passaporto ancora nella giubba. Qualche giorno di troppo in dormitorio, nessuno che se lo venisse a prendere. Dunque, il bresciano mi avverte di star tranquilla, la mattina c’è il Pane Quotidiano, quell’uomo lì, dice il bresciano, va al Pane Quotidiano. Al Pane Quotidiano distribuiscono alimenti. È un pellegrinaggio, avvilente, al contrario, è nobile invece. Il tossico chiede spicci, io mi faccio, dice. Sì come no, eroina anfetamine coca. Non bevo. Lascia perdere. Alcune ossessioni non ti mollano, fino alla fine, Christiane Felscherinow ad esempio, era un diario maledetto. E penso a Riboldi Gino, che era la pietà di Testori tutto sommato. In exitu. In stazione centrale.

il Fatto 27.12.12
Pannella apprezza la scelta di Monti: “Sono d’accordo”


LO SCIOPERO della fame e della sete per protestare contro le condizioni delle carceri e chiedere l’amnistia, per il momento è sospeso. Ma Marco Pannella non si riposa mai. Così ieri, dopo una visita al penitenziario di Pistoia, è intervenuto per commentare le nuove mosse di Mario Monti. “Sale in politica? - ha detto - Sono d’accordo”. Il leader dei Radicali si è soffermato sul significato del “salire in politica”, facendo un raffronto con Berlusconi. “A Silvio - ha ricordato Pannella con aria divertita - qualche volta ho detto: ‘Ahò, sali in politica, non scendi!“’, riferendosi all’annuncio di Berlusconi di “scendere in campo”. “Semmai - ha proseguito Pannella - ho trovato Monti un po’ commovente quando qualche giorno fa con la sua aria seria ha detto ‘italiani fate bambini’. Anche Mussolini lo diceva e anche il mondo comunista lo diceva per avere tanti piccoli rivoluzionari”.
Quanto alla collocazione politica dei Radicali, Pannella risponde così: “Dove andiamo noi Radicali? Dove siamo sempre stati. Il problema è dove vanno gli altri”.

l’Unità 27.12.12
Il prete e le donne: «Violenza? Se la cercano»
A Lerici affigge volantino shock sul femminicidio. Poi dà del «frocio»
a un cronista. Il foglio viene «ritirato» dopo le polemiche. Ma la vergogna resta
di Jolanda Bufalini


ROMA Come possa una donna uccisa dal marito o fidanzato fare autocritica non si capisce, ma la logica non è il punto forte don Piero Corsi, parroco di San Terenzio a Lerici. Il parroco è autore di uno scritto appiccato alla porta della chiesa della bella cittadina della riviera di Levante. L’ardita tesi sostenuta è che le donne vittima di violenza devono fare autocritica perché «provocano». Le donne che portano «abiti succinti», che «si sentono indipendenti», che non cucinano, non accudiscono i figli, che si comportano «con arroganza», secondo il parroco, devono fare «un sano esame di coscienza» perché, magari, se «la sono andata a cercare». Don Piero, che dovrebbe fare il pastore di anime, nella confusa riflessione, mette tutto insieme, la violenza sessuale e l’uccisione della donna in quanto tale, quella che vuole lasciare il fidanzato o separarsi, che accudisce i figli, spesso vittime anche loro di uomini violenti. E, per additare le donne piuttosto che chi le aggredisce usa l’argomento più trito che si conosca, la «provocazione», l’abito «succinto».
Forse Don Piero è in cerca di una facile visibilità mediatica, perché non è nuovo all’espressione di punti di vista eclatanti quanto grossolani e razzisti. Qualche mese fa ha messo in bacheca le vignette contro i mussulmani che hanno provocato le rivolte nei paesi arabi. In un’altra occasione se l’è presa con un clochard. Ieri, interpellato da un giornalista che gli ha telefonato per conoscere il motivo di quel volantino esposto alla vigilia di Natale, se l’è presa anche con gli omosessuali: «Come reagisci tu di fronte a una donna nuda? O sei fr..?».
Queste idee il parroco di Lerici se le è fatte frequentando un sito che non nasconde, dietro la facciata, la propria simpatia per tutte le tematiche fasciste e razziste, che si chiama «Pontifex», noto per le prese di posizione omofobe e per la lettura delle tragedie come «castigo di Dio». Su Pontifex era stato pubblicato un commento alla lettera apostolica «Mulieres dignitatem» di cui, infatti, il volantino esposto in bacheca, è un estratto. E ieri il sito ha preso le difese del parroco: se ci sono i femminicidi o tutti gli uomini sono impazziti oppure la colpa è nel comportamento delle donne.
La violenza di questa presa di posizione contro le donne, l’uso della bacheca di una chiesa, ha fatto indignare la presidente di «telefono rosa», Maria Gabriella Carnieri Moscatelli: «Chiediamo alle massime autorità civili e religiose che si attivino perchè venga immediatamente rimosso il manifesto affisso dal parroco che riteniamo una gravissima offesa alla dignità delle donne».
Ha protestato anche Mara Carfagna, ex ministro nel governo Berlusconi alle pari opportunità: «Ancora una volta qualcuno si è permesso di attribuire alle donne la responsabilità della violenza che troppo spesso gli uomini commettono su di loro. Ciò che più mi rattrista, e lo dico da cattolica, è che, questa volta, si sia provato a far risalire questa assurda teoria alla dottrina della Chiesa. Niente di più falso». Considerazioni diverse sono venute da Silvio Viale, presidente dei radicali italiani: «Bisogna rompere la convinzione diffusa che le azioni violente contro le donne siano reazioni a provocazioni, inevitabilmente determinate da una crescente emancipazione e da una maggiore libertà di costume». Secondo il radicale questo non è vero nemmeno delle pubblicità definite «offensive» contro cui si fanno delle campagne: «Il problema è quello di una corretta informazione».
LA SPARIZIONE DALLA BACHECA
Ieri mattina il volantino era sparito dalla bacheca e, in serata, il vescovo di La Spezia, Luigi Ernesto Palletti, ha spiegato: «Appena appresa la notizia dell’affissione della locandina contenente le affermazioni che conducono a dare un’errata lettura dei drammatici fatti di violenza sulle donne, ho subito dato disposizione che la stessa fosse prontamente rimossa. In nessun modo infatti può essere messo in diretta correlazione qualunque deprecabile fenomeno di violenza sulle donne con qualsivoglia altra motivazione, nè tantomeno tentare di darne una inconsistente motivazione». «A tal proposito continua il vescovo ritengo doveroso cogliere l’occasione per invitare tutti a prendere sempre più coscienza di questo inaccettabile fenomeno perchè non si debbano più ripetere fatti di violenza sulla donna come quelli che nell’anno ormai trascorso hanno drammaticamente segnato la vita del nostro Paese».
Resta lo shock per una parrocchia affidata a un personaggio che, solo dopo le parole del vescovo, ha chiesto scusa. Alessandra Servidori, Consigliera nazionale di parità del ministero del Lavoro: «Anziché chiedere scusa delle farneticanti parole contro le donne, il parroco di Lerici insiste nella sua crociata inquisitoria più degna di un coatto da bar che di un pastore della Chiesa. Mi auguro che non solo l’opinione pubblica ma anche le autorità ecclesiastiche sappiano e vogliano tutelare la dignità e la libertà della donna la cui avvenenza non è certo una provocazione ma un dono di Dio».

Repubblica 27.12.12
Don Corsi insiste: ho scritto quello che penso, le ragazze in abiti discinti scatenano i nostri istinti
“I maschi sono violenti per natura sta alle donne non provocarli”
di Marco Preve


LERICI — «Non volevo offendere nessuno ma finiamola con questa ipocrisia. Si sa che il maschio è violento e la donna non deve provocare».
Don Piero Corsi è un marcantonio che l’abito talare rende ancor più imponente. Ha appena aperto il cancello elettrico di villa Carafatti, la casa di riposo per anziani di Lerici dove ha l’alloggio di servizio, e sta salendo sulla sua Fiat Multipla blu scuro.
Don Piero buongiorno, possiamo parlare un momento del volantino?
«Voi giornalisti siete bugiardi e strumentalizzate ogni cosa, altro che galera ci vorrebbe la pena di morte».
Molte donne, si sono sentite offese dalle sue parole.
«Siete voi che avete strumentalizzato le mie opinioni, ed è l’ennesima volta».
Guardi che nessun giornalista controlla la sua bacheca, sono le sue parrocchiane che hanno telefonato ai giornali.
«Allora diciamo le cose come stanno — don Piero lascia acceso il motore della Multipla ed esce dall’abitacolo — . La mia era soltanto un’opinione, non stavo svolgendo il mio compito leggendo o interpretando il vangelo, invece, come spesso faccio, ho voluto commentare un tema molto discusso in questi tempi».
Lei però non è uno al bar, è il parroco del paese, una delle istituzioni delle nostre comunità.
«E allora? Vuol dire che non ho diritto a esternare il mio pensiero?».
Appunto il suo pensiero, proprio in un periodo in cui molte donne sono vittime di violenze da parte degli uomini.
«Intanto bisogna leggere tutto il testo che ho scritto dove ho detto che gli uomini violenti vanno puniti eccome, messi in galera, ma il discorso è un altro... ».
Quale?
«Quando vedo, quando vediamo tutti noi donne o ragazzine in abiti discinti, è la dignità delle nostre madri e sorelle che viene maltrattata, umiliata».
Ma lei non parlava solo di dignità, ha messo in correlazione questo tema con le violenze.
«Senta un po’, lei è eterosessuale o gay?».
Ma cosa c’entra?
«Mettiamo che lei veda un donna nuda davanti a lei, che cosa prova? Me lo dica, vuol dirmi che non sente qualcosa, che l’istinto non abbia la meglio?».
C’è il desiderio, ma il buon dio ci ha dato il raziocinio e i freni inibitori.
«Sì va bene, tutto vero, ma la prego, per questa volta pensi e risponda... ecco risponda con i coglioni!».
Don, sembra di essere in caserma, tra l’altro dicono in paese che lei sia un ex militare.
«Macchè militare, non è vero. La verità, invece, è che l’uomo, il maschio, è da sempre violento, non sa trattenere l’istinto, e quindi se la donna lo provoca lui, o almeno molti, tanti, non si sanno controllare».
Ma allora vale per tutto, basta non sapere resistere alla provocazione e giù botte.
«Ma no, non è per tutto così, il problema è solo il richiamo sessuale, è sempre stato e sarà sempre così».
Le sue opinioni però hanno svuotato la chiesa e sono arrivati anche i carabinieri.
«Sono a Lerici da dieci anni, e so che c’è chi mi vuol male, chi mi vuole morto, ma anche tanta gente che mi apprezza. I carabinieri poi non è la prima volta, in
un’altra occasione sono venuti in chiesa, mi hanno visto con la tonaca e hanno comunque voluto i miei documenti, come se non mi conoscessero».
Ha messo in difficoltà pure il suo vescovo che le ha fatto ritirare il volantino.
«E cosa voleva che facesse, poveretto? Ci siamo ritrovati tutti e due coinvolti in questo uragano, solo perché ho espresso delle opinioni».
Ma lei era già stato al centro di polemiche, perché lo ha fatto?
«Perché non sopporto quest’ipocrisia, e poi queste campagne recenti sul femminicidio mi sembrano abbiano nel mirino soltanto l’uomo, che vogliano colpirlo. Ma, invece, guarda caso nessuno parla della Cina».
Cosa c’entra la Cina?
«C’entra perché laggiù migliaia di donne muoiono per gli aborti ma a nessuno interessa, forse per ragioni politiche, invece qui da noi c’è questa insistenza sulle donne vittime senza mai interrogarsi sui comportamenti e sui valori della nostra società».

il Fatto 27.12.12
Ultrà cristiani
Campagna ispirata dai crociati di “Pontifex”
di Carlo Di Foggia


Il femminicidio? “Un'assurda leggenda nera messa in giro da femministe senza scrupoli”. Basterebbe questo assioma per comprendere a pieno Pontifex. roma, “sito di apologetica cristiana” assurto più volte agli onori della cronaca per le infelici invettive dei suoi animatori. Uno su tutti, il fondatore e direttore, Bruno Volpe, barese classe 1961, “giornalista e fotoreporter” iscritto all'ordine dei giornalisti dal 1983 (albo pubblicisti). Il volantino affisso da monsignor Piero Corsi è stato confezionato qui, e porta la firma dello stesso Volpe, ormai avvezzo a questo tipo di iniziative provocatorie. Ultima in ordine di tempo quella sul femminicidio. “Una storiella che non regge - si legge in un post pubblicato ieri sul sito -, e che fa acqua da tutte le parti. Riflettiamo: vero che alcuni uomini hanno perduto la testa e che nessuna legge al mondo può giustificare un delitto ma da parte delle donne ormai assistiamo a comportamenti arroganti, senza alcuna decenza, spesso libertini”. La colpa, secondo Volpe, non sarebbe solo delle donne ma dei media che amplificano il fenomeno, trasformando episodi di cronaca nera in un un'emergenza nazionale. “Ricordo che l'Italia risulta essere il paese europeo più sicuro per le donne – continua l'articolo - mentre tantissime sono le donne killer o che si abbandonano a gesti inconsulti”. Un aspetto che secondo Volpe viene costantemente ignorato da tv e giornali: un'escalation di “violenza a ruoli invertiti, scarsamente analizzata e fortemente sottostimata”. Volpe cita anche un fantomatico Centro documentazione violenza donne”, un blog che raccoglie dati e notizie di cronaca su episodi di violenza commessi da esponenti del gentil sesso.
Se non fosse per le provocazioni del suo fondatore, “pontifex” sarebbe rimasto uno dei tanti blog (non è una testata registrata) che compongono la variegata galassia dei siti ultracattolici, persi nel mare magnum della rete. Nel dicembre 2011, Volpe si rese protagonista di una polemica a distanza con Fiorello, colpevole di aver incoraggiato l’uso del profilattico in uno spot con Jovanotti. Episodio che secondo il giornalista avrebbe provocato il crollo del palco costruito in occasione della tappa triestina del tour del rocker romano, causando la morte di un operaio. Nel giugno del 2011 era toccato a Michele Santoro subire gli strali di Pontifex, che non esitò a sporgere querela contro il giornalista, accusato di peculato, “per aver utilizzato la Rai, servizio pubblico, non per fini informativi, ma per interessi personali”. Ma è nel novembre scorso che Volpe raggiunge l’apoteosi, con un articolo indirizzato alla mamma del quindicenne romano suicidatosi dopo aver subito gli sfottò di alcuni compagni di classe del liceo scientifico Cavour per il suo modo eccentrico di vestirsi. “Se quella mamma avesse per tempo capito l'inclinazione (presunta) del figlio che covava in lui il malessere della omosessualità - si legge nell’edioriale ancora online -, sarebbe intervenuta per tempo con adeguati ausili medici”. Una strategia mediatica pensata per uscire dall’anonimato con invettive studiate per far rimbalzare la testata sui siti d’informazione e farsi pubblicità. E, a giudicare dalle visite (tremila utenti connessi solo nella serata di ieri, stando al contatore del sito), vincente.

La Stampa 27.12.12
Nuove famiglie
Allarme negli Usa un bambino su tre cresce senza padre
Quindici milioni vivono solo con la madre
di Paolo Mastrolilli


Che fine hanno fatto i padri? Dove si sono nascosti? Sono domande che diventano urgenti, leggendo dati che arrivano dall’America e dall’Europa. Negli Stati Uniti, il numero dei bambini che crescono senza il genitore maschio è salito a 15 milioni, ossia circa uno su tre. In Gran Bretagna, invece, avere un padre risulta nella top 10 dei regali chiesti a Babbo Natale: una curiosità, che però dice parecchio. E come crescono poi questi bambini, senza una figura paterna che li porti a giocare o li segua nei compiti?
I dati degli Usa, raccolti dal Census Bureau e dall’American Community Survey, sono impressionanti. Non solo i figli che vivono senza i genitori maschi sono arrivati a 15 milioni, ma la tendenza è in aumento: nel 1960, solo l’11% dei bambini negli Stati Uniti non aveva il padre, mentre ora siamo intorno al 35%, con un incremento di 1,2 milioni di casi durante l’ultimo decennio. I figli che crescono senza la madre, invece, sono circa 5 milioni.
Il problema è generale, ma diventa più grave tra alcuni gruppi etnici, sociali e geografici. Il 54% dei bambini neri vive con la madre, e solo il 12% delle famiglie afro-americane sotto la soglia della povertà hanno entrambi i genitori, contro il 32% di quelle bianche e il 41% delle ispaniche. Sul piano geografico, la situazione è difficile in certe aree urbane e nel Sud. A Baltimora ci sono quartieri dove il numero dei figli senza padri tocca l’80%.
Gli effetti sono disastrosi, a partire da quello economico. Non è un caso se le coppie sposate con figli hanno un reddito medio di 80.000 dollari, mentre le madri single si fermano a 24.000. I bambini già partono da una condizione economica svantaggiata, che preclude loro l’accesso ad una buona istruzione. A questo, poi, si aggiunge l’impatto negativo di non aver l’affetto, il sostegno, il controllo di un padre.
Perché c’è questa tendenza, e come si potrebbe rimediare? Quando si passa dai numeri all’analisi, si finisce nel terreno minato degli interessi politici. I conservatori usano queste statisticheperpuntareilditocontrol’irresponsabilità di alcuni gruppi, comeinerieipoveri.Ilproblema però esiste, e ha varie radici. E’ vero che in alcuni gruppi etnici la paternità viene presa con più superficialità, mentre tra i poveri spesso manca l’istruzione per fare le scelte giuste. L’emergenza però esiste anche tra i bianchi, a conferma del fatto che c’è una generale fuga dai doveri legati al concepimento dei figli. In alcuni casi le madri ingannano i partner, che scappano perché non avevano mai programmato una famiglia, oppure fanno scelte ponderate usando tecniche di fecondazione artificiale e donazione del seme. La stragrande maggioranza, però, resta senza padre per la mancanza di responsabilità da parte di chi li ha messi al mondo. La dimostrazione, non scientifica ma preoccupante, sta nel sondaggio condotto in Gran Bretagna e pubblicato dal «Daily Telegraph». Circa duemila famiglie si sono sottoposte alla ricerca, da cui è emerso che avere un papà è al decimo posto nella lista dei regali più desiderati dai bambini per Natale. Per chi è cresciuto in altri tempi, avere un genitore maschio era la norma: qualcuno pregava di ritrovarsi un po’ più libero dal controllo del padre. La situazione è cambiata, e alcuni bambini si sentono così soli da chiedere un papà nelle letterine a Babbo Natale. Qualunque sia il motivo, e qualunque la nostra posizione politica e sociale, è un’emergenza da affrontare.

I dati Istat sul 2011: due milioni e mezzo di nuclei monogenitoriali (13%)
E il fenomeno è in crescita anche in Italia
di Raffaello Masci


La situazione, qui da noi, non è ancora come in America, dove un bambino su tre vive con un solo genitore, ma ci stiamo avvicinando. Oggi, alla luce dei primi dati sul censimento del 2011, si sa che le famiglie monogenitoriali, costituite cioè da un solo genitore hanno superato i due milioni e mezzo di unità, sfiorando il 13% del totale delle famiglie.
L’annuario statistico presentato all’Istat il 18 dicembre scorso è un volumone pieno di dati di oltre 800 pagine, ma per capire come è cambiata la famiglia italiana basta consultare un grafico nella brochure denominata «L’Italia in cifre 2012», dove compare il dato di sintesi: su 100 famiglie, quelle tradizionali con figli sono solo il 37%, il 20% è costituito da coppie senza figli, il 28% da famiglie costituite da una persona sola (un dato che supera il 33% in alcune grandi città), il 7% da situazioni «altre» (cioè famiglie plurinucleari, comunità, eccetera).
Mentre l’8% - rileva l’Istat - da famiglie composte da un genitore solo con figlio. A questo dato va poi aggiunto quello di single con figlio a carico che continuano a vivere con i genitori per ragioni economiche e logistiche: sommando quest’ultimoinsieme a quell’8% di famiglie monogenitoriali, si ottiene un dato che sfiora il 13% delle famiglie in cui un bambino vive con un solo genitore (la madre nell’84% dei casi).
Il fenomeno è peraltro crescente nel tempo. Nel 1988 le famiglie monogenitoriali erano il 6,9% del totale, cioè meno di un milione e 400 mila, nel ‘95 erano diventate il 7,6%, nel 2003 hanno sforato quota 8%... e così via, fino al 13% attuale.
Per capire questo fenomeno, però, non ci basta rilevare questi numeri, ma occorre valutare più complessivamente le trasformazioni della famiglia dagli anni Settanta a oggi. Intanto c’è stato il crollo dei matrimoni, 204 mila lo scorso anno contro gli oltre 430 miladel1972, conunacadutaverticale dal 2007 in avanti.
Sono cresciute, per contro, le coppie di fatto (quadruplicate dal 2008 a oggi) ed è in quest’ambito che vengono generati molti figli: solo nel 2011 - per dire - ben un bambino su quattro è nato in Italia da genitori non sposati.
Mettendo insieme tutti questi dati, si capisce che in un contesto di pochi matrimoni e molte convivenze, associati ad una precarietà occupazionale che disincentiva i giovani dal costituire una famiglia (o anche solo una convivenza stabile more uxorio) è abbastanza facile che possano nascere dei figli che, in caso di separazione, restano con uno dei due genitori, il quale vive - quindi - da solo con il bambino.
Ma la precarietà di lavoro e di reddito che ha dissuaso dal contrarre matrimonio prosegue anche dopo la nascita del bambino e così molte ragazze single tornano a vivere con i genitori. Anche in questo caso la percentuale è in crescita: se erano madri lo 0,4% delle ragazze over trenta che vivevano in famiglia nel 1988, ora la quota ha superato l’1%.

Corriere 27.12.12
Giovani che vivono con i genitori. È (anche) una questione culturale
di Gianpiero Dalla Zuanna


I giovani italiani (18-30 anni) che vivono a casa con i genitori sono sette milioni, il 60% del totale. In questo l'Italia è simile alla Spagna, molto diversa dai Paesi dell'Europa centrale, settentrionale e dagli Usa, dove i giovani escono di casa quando hanno vent'anni per andare al college, a vivere da soli, con amici o con il/la partner. Due sono i motivi che spiegano queste differenze. Il primo è di ordine economico: per un giovane italiano è difficile rendersi indipendente, perché il mercato del lavoro è rigido, perché nel primo tratto della vita il lavoro non c'è o è sempre più precario, e perché praticamente non esiste un mercato degli affitti a costi abbordabili. Questa motivazione è certamente rilevante, anche perché — negli ultimi anni — l'aumento dei giovani che vivono in casa con i genitori è stato particolarmente accentuato nelle regioni meridionali, dove il disagio economico è maggiore. Tuttavia la crisi non spiega tutto, perché in Italia anche i figli dei ricchi stanno a casa con mamma e papà. L'anomalia italiana sarebbe incomprensibile senza ricordare una frattura culturale che — almeno dalla fine del Medioevo — coincide con le Alpi e i Pirenei. Nell'Europa del Centro e del Nord erano i genitori stessi a spingere i giovani a uscire presto di casa, andando a fare i garzoni o gli apprendisti presso altre fattorie. I giovani italiani, invece, uscivano di casa solo per sposarsi o per emigrare, spinti dal bisogno. Con il benessere le differenze fra Europa del Nord e del Sud non sono cessate. In Italia la necessità di cercar lavoro lontano da casa per molti è venuta meno, e a partire dagli anni Ottanta — grazie ai cambiamenti dei costumi sessuali — anche la spinta al matrimonio precoce è venuta a cessare. Così molti giovani italiani continuano a restare a casa con i genitori, anche se avrebbero i mezzi economici per andare a stare per conto loro. E quando vanno a convivere o si sposano, in più di un caso su due vanno ad abitare a meno di un chilometro dai genitori di almeno uno dei due partner. Piaccia o non piaccia, oggi come ieri sono questi grappoli di famiglie a fare l'Italia.


Repubblica 27.12.12
E i fidanzati cattolici sorprendono la Chiesa una coppia su tre convive prima delle nozze
Lo studio realizzato per la Cei: il record in Emilia Romagna e Veneto
di Giovanni Valentini


AL GIORNO d’oggi il termine “fidanzati” è caduto un po’ in disuso. Adesso, per le coppie non ancora sposate, si usa dire comunemente “compagni” per indicare due persone che “stanno insieme”. Ma la novità è che anche all’interno del mondo cattolico aumentano i “conviventi”, prima e fuori del matrimonio, con buona pace dei precetti morali della Chiesa che si ostina a considerare irregolari i rapporti prematrimoniali. E ciò mentre nelle regioni settentrionali le nozze civili superano ormai quelle religiose.
La tendenza risulta da un’indagine del Centro internazionale studi sulla famiglia, sotto l’egida della Conferenza episcopale italiana, realizzata fra i giovani che frequentano i corsi di preparazione al matrimonio. Sull’universo del campione, da cui sono stati raccolti 5.437 questionari su un totale di 20.000 in 35 diocesi di tutt’Italia, il 27% dei fidanzati dichiara di essere già convivente. Ma lo stesso responsabile della ricerca, Pietro Boffi, avverte nella relazione che il dato può risultare sottostimato, proprio per la posizione ufficiale della Chiesa su questo delicato argomento: in effetti, oltre un terzo delle coppie di fedeli praticanti convive prima del matrimonio.
Anche qui influisce, però, il contesto sociale e territoriale. Al Nord la convivenza tra i fidanzati tocca il 48%, al Centro arriva al 38% e al Sud invece scende drasticamente al 9%. È lo specchio di una realtà variegata in cui si riflettono differenze profonde di cultura, di tradizione e di costume. Una mentalità collettiva ancora diffusa nelle regioni meridionali che, in modo particolare nelle fasce più popolari, relega la donna a un ruolo subalterno di “sposa illibata”, subordinando in pratica la sua emancipazione al rito del matrimonio.
Non a caso le percentuali minime di convivenza si riscontrano in Abruzzo
(6,8%), in Campania (7,4) e in Molise (7,8). Mentre quella di gran lunga più alta viene registrata in Emilia Romagna (74%). Seguono a distanza il Veneto, la Sardegna e la Liguria con il 50%.
Naturalmente, la convivenza prematrimoniale tende ad aumentare con l’età dei fidanzati: oltre i 40 anni, sale fino al 38%. Ma è particolarmente interessante l’incrocio fra questi dati con il titolo di studio, la condizione professionale
e la pratica religiosa. Se fino a qualche tempo fa il fenomeno era maggiormente diffuso fra i ceti più istruiti, oggi il livello di scolarizzazione non è più una discriminante: anzi, la percentuale più alta (28,6%) si riscontra tra i fidanzati con licenza di scuola media inferiore, anche rispetto a quelli laureati.
In parallelo, si poteva ritenere che i conviventi prima del matrimonio fossero soprattutto giovani senza la sicurezza di un lavoro e di un reddito, disoccupati o precari costretti a fare quasi una scelta di necessità o, per così dire, di mutua assistenza. La ricerca dimostra invece che chi ha un lavoro stabile e duraturo (29,2%) già convive, ancor prima di sposarsi, più di chi ha un’occupazione a tempo determinato (25,4) e dei non occupati (18,8).
Ma quanto influisce la pratica religiosa su questo trend? È ovvio che la convivenza
pre-matrimoniale risulti più diffusa tra i fidanzati non praticanti (41,6%) che pure frequentano i corsi diocesani di preparazione al matrimonio con un grado di generale soddisfazione. Ma la sorpresa è che, sommando i “praticanti regolari” e i “praticanti attivi e impegnati” che già convivono, si arriva quasi al 33%: ormai una coppia su tre che si dichiara più vicina alla fede religiosa è formata insomma da conviventi. E deve far riflettere che il 13% sia rappresentato proprio dai fedeli più ferventi.
Dall’indagine del Cisf, emerge poi che i fidanzati iniziano la loro convivenza in media a 29 anni e si presentano ai corsi di formazione dopo aver già convissuto più di due anni. E circa la metà di loro ha fatto questa scelta entro i primi tre anni di relazione. Un ulteriore elemento, considerato indicativo dai curatori della ricerca, è che in genere tra i “praticanti attivi e impegnati” la durata della convivenza è inferiore ai due anni, più breve quindi rispetto alle altre categorie.
Quanto alla futura abitazione, quasi il 77% dei fidanzati dichiara che — una volta sposati — andranno a vivere in una casa di proprietà e il 18% in affitto. Solo una piccola minoranza resterà con i genitori. Ma in ogni caso il 36% usufruirà di un aiuto economico, fornito per la maggior parte dalla famiglia d’origine (96,2%).
Fidanzati, cattolici e anche conviventi. Non sbagliava, dunque, quel sant’uomo di monsignor Martini quando nelle sue “Conversazioni notturne a Gerusalemme” predicava una maggiore comprensione e tolleranza da parte della Chiesa nei confronti dei rapporti prematrimoniali fra le giovani coppie. Il suo era soprattutto un richiamo alla realtà, fondato sulla consapevolezza del tempo in cui viviamo e sull’esercizio della responsabilità individuale. E forse non aveva torto neppure quando avvertiva che «la Chiesa cattolica è indietro di duecento anni».

La Stampa 27.12.12
India, la furia delle donne  contro le violenze
di Mariella Gramaglia


Sono furiosi, «impazienti» - come scrive eufemisticamente la cronista del Times of India - i cittadini e le cittadine di Nuova Delhi che manifestano in tutta la metropoli (e non solo) per una giovane donna che lotta fra la vita e la morte. E’ stata stuprata da un branco di sei aggressori su un autobus abusivo della capitale. I manifestanti sono così furiosi che i medici che avevano in cura la ragazza prima che venisse trasferita, hanno dovuto pregarli di allontanarsi dell’ospedale per non perdere la concentrazione. Così minacciosi che il Parlamento ha deciso di dedicare oggi un’altra seduta speciale alla vicenda.
Qualcosa di nuovo è accaduto. La violenza contro le donne, endemica nel subcontinente, sta spezzando gli argini. E’ aumentata del 25% negli ultimi sei anni. La modernizzazione la rende più visibile, più simile a ciò che anche noi soffriamo.
Le donne sfilano in corteo con i cartelli scritti a mano, in inglese, in hindi, in altre lingue locali: giù le mani dal nostro corpo - gridano, come in tutto il mondo. Gli uomini, o meglio molti uomini, innalzano manifesti stampati in serie con un cappio a tutto campo: impiccateli, impiccateli – ripetono.
Il 31 ottobre 2007, quando Giovanna Reggiani morì a Roma in seguito alla violenza feroce di un rom, il corpo di una donna diventò pretesto di lotta politica fino alle elezioni dell’aprile successivo. Allo stesso modo la destra indiana, chiedendo pena di morte e castrazione chimica, affila le sue armi contro il Congresso di Sonia Gandhi. Molti giovani maschi seguono questa strada. Gli slogan miti degli uomini italiani, le migliaia di firme sotto lo slogan «Mai più complici», le catene di Sant’Antonio per aiutarsi a vicenda a non far del male alle proprie compagne, qui sembrano non attecchire: padri, fratelli e mariti mescolano lo sdegno con il possesso. Questo alla destra piace molto.
Sonia Gandhi, come in altre grandi occasioni in cui si è esposta a difesa dei poveri o dei musulmani perseguitati, ha intuito il momento. Da quando nel 2004 ha rinunciato alla carica di primo ministro, è una madre della patria. Ora ha deciso di investire il suo carisma potente per moltiplicare la voce delle donne con la sua. Dopo aver visitato la giovane al centro clinico di Delhi ha dichiarato che «tutto il Paese deve provare vergogna» e che la polizia e la giustizia vanno addestrate in modo nuovo: devono smettere di colpevolizzare le vittime.
Più giovani autonome, di ceto medio, si affacciano sulla scena pubblica e osano denunciare: vogliono la libertà e non sono disposte a sentirsi dire da avvocati e poliziotti che i loro abiti e i loro comportamenti inducono in tentazione.
Come nell’Italia degli Anni Settanta (quelli del delitto del Circeo e della tortura di Donatella Colasanti e Rosaria Lopez) è il branco a farla da padrone. La violenza familiare e di coppia – quella che da noi oggi prevale – è ancora sotto traccia.
Ma anche nei luoghi antichi, che parevano senza riscatto, qualcosa cambia. Nei villaggi remoti dell’Uttar Pradesh c’è il movimento dei sari rosa: ragazze di campagna, un tempo a capo chino, circolano in bande con questa nuova divisa e sono armate di bastone. Si difendono da sole dove la polizia non sa arrivare.
E dove talvolta, al contrario, infierisce come una gang sicura dell’impunità.
La condanna massima per violenza sessuale in India è di 10 anni. Noi - a prescindere dalle aggravanti - arriviamo fino a 16 anni per la violenza di gruppo. Ma, anche lì, come in Italia, l’incertezza della pena è desolante: solo il 25% dei processi si conclude con una condanna. Molte vittime, consapevoli di una cultura nemica, non sporgono nemmeno denuncia. Però sgolarsi sulla pena di morte fa bene ai polmoni.

Repubblica 27.12.12
Solo quest’anno 600 casi a Delhi. L’ultimo ha scatenato le proteste Ora il governo cede: pugno duro contro le gang e la polizia connivente
In piazza contro gli stupri la rivolta delle indiane
di Raimondo Multrini


NEW DELHI Le ragazze della nuova India non hanno avuto nemmeno il tempo di festeggiare: dopo giorni di proteste il governo ha finalmente deciso di creare una commissione di inchiesta sullo stupro collettivo di una studentessa di 23 anni che da qualche giorno lotta tra la vita e la morte in un ospedale di New Delhi. Ma la gioia per questa parziale e tardiva vittoria politica, in un Paese dove i diritti delle donne sono spesso calpestati fin dall’infanzia, è stata ben presto offuscata dalla notizia rimbalzata da Mumbai, dove una studentessa di 21 anni è morta dopo essere stata accoltellata da un innamorato respinto. E dove una nepalese sarebbe stata violentata per ben tre volte in un giorno.
Restano le immagini di questi inediti giorni di protesta, lo sdegno per l’aggressione contro una studentessa, stuprata a bordo di un autobus da 6 uomini ubriachi. Rimasta viva per miracolo, è diventata il simbolo della ribellione di una metropoli da 19 milioni di abitanti, scossa da una sequenza di violenze sessuali che
solo quest’anno ha superato di gran lunga i 600 casi, quasi il 20 per cento in più del 2011.
Da quando domenica scorsa si è sparsa la notizia, una folla impressionante ha preso a raccogliersi attorno al cuore del potere politico indiano, l’ufficio del primo ministro e della presidenza, per chiedere giustizia. Per disperdere le decine di migliaia di manifestanti dei primi giorni, la polizia ha usato lacrimogeni e cannoni ad acqua, e più di trenta sono rimasti feriti, compresi parecchi agenti, uno dei quali è morto, forse per un attacco cardiaco. Per arrivare in centro abbiamo impiegato ore, mentre numerose strade erano ancora affollate dagli studenti che sciamavano dopo aver manifestato a Rashtrapati Bhavan, con ancora i cartelli in mano che dicevano “Delhi, capitale dello stupro”, “Ergastolo ai violentatori”.
«Vogliamo dare una scossa alla gente di Delhi — ci dice una ragazza di nome Jyoti, che ha issato durante la manifestazione un manichino con un cappio al collo per il capo della sicurezza dello Stato — Se ne stanno tutti nel chiuso delle loro case, negli uffici, nelle macchine, ma devono capire a che tipo di sofferenza vanno incontro ogni giorno le donne di questa città e dell’India».
Allarmata dalla piega che hanno preso gli eventi, e da una manifestazione che ha raggiunto anche la sua residenza privata, la leader del Congresso Sonia Gandhi ha ricevuto con suo figlio Rahul una delegazione di studenti ed è andata a trovare la ragazza, ricoverata ancora in gravissime condizioni, e ha rilasciato dichiarazioni di fuoco contro il fenomeno dilagante delle violenze a sfondo sessuale. «È imperativo che la polizia venga sensibilizzata sul pericolo che corrono le nostre figlie, sorelle e madri», ha detto in una lettera alla governatrice del suo stesso partito, anche lei ritratta nei cortei con un cappio al collo.
Il premier Manmohan Singh ha affidato l’ordine di rafforzare la sicurezza al ministro degli Interni nella speranza che la situazione non sfugga di mano alla polizia, accusata di negligenza per non aver raccolto subito la richiesta di soccorso della coppia. I sei colpevoli sono stati nel frattempo arrestati, e sono trapelati i dettagli raccapriccianti dello stupro di massa. I violentatori giravano ubriachi a bordo di un autobus privato usato lungo le linee pubbliche sovraccariche, e quando la coppia dopo il cinema è salita sul mezzo, il ragazzo è stato picchiato con sbarre d’acciaio e legato per assistere alla violenza contro la sua amica, durato ore nel pieno traffico della metropoli. Quando si è liberato, ha chiesto aiuto a una pattuglia di poliziotti che, a quanto pare, non si sono mossi dal loro posto.
Sull’onda della sollevazione popolare, gli uomini di servizio nella zona e il loro comandante, sono stati rimossi, ma le manifestazioni sono continuate, sebbene relegate a Jantar Mandar. L’annuncio che il governo creerà una commissione d’inchiesta per fare
chiarezza sull’ultimo stupro ha rallentato la tensione. Il ministro delle Finanze P. Chidambaram, durante una conferenza stampa in diretta tv, ha spiegato che l’indagine vuole «verificare eventuali mancanze da parte della polizia, di autorità o di persone che hanno permesso che avvenisse il fatto e di accertare le loro responsabilità ». La commissione, guidata da una ex giudice, dovrà presentare le sue conclusioni entro tre mesi.
Una risposta immediata anche al Partito di opposizione del Bjp che aveva sollevato il caso in Parlamento chiedendo una sessione speciale sulle violenze sessuali. L’opposizione ne aveva approfittato per mettere sotto accusa l’intero apparato di sicurezza non solo nella capitale, ma anche nelle altre città dove il fenomeno è ugualmente drammatico, come a Mumbai, e nelle aree rurali dove la piaga «è endemica». Pochi giorni prima del caso di Delhi, una bambina di 10 anni era stata violentata da una gang di ragazzi nel Bihar e abbandonata morta in un canale. Un altro dei tanti delitti orribili che in India, fino a qualche giorno fa, non facevano nemmeno notizia.

il Fatto 27.12.12
Ultimo volo della morte nella memoria dell’Argentina
Il processo finale raccontato da chi scoprì la pratica del regime
di Horacio Verbitsky


Buenos Aires Molti di coloro che assassinarono con gli orrendi voli della morte prigionieri indifesi, non riescono a non trattenersi dal raccontare ciò che fecero, alcuni per vantarsene e altri per alleggerire il peso che grava sulla coscienza. Inoltre le indagini su questo metodo - che la Chiesa Cattolica defin una forma cristiana di morte per il fatto che i prigionieri venivano prima drogati e non soffrivano - non sono state svolte dalla giustizia, ma dal giornalismo. Da un mese 6 membri degli equipaggi dei voli della morte vengono giudicati a Buenos Aires assieme a 68 membri della Marina militare, della Guardia costiera e della Polizia. Il 28 novembre è iniziato il mega-processo per i reati commessi in uno dei più infami lager della dittatura civile-militare, la Scuola dei sottufficiali del Genio dell’Esercito, nota come Esma (Escuela de mecánica de la Armada). Il processo, che durerà diversi anni, vede sul banco degli imputati 68 membri della Marina militare accusati di privazione illegittima della libertà, torture e assassinio di 789 vittime. Nel corso del processo i 3 giudici che compongono la Corte ascolteranno quasi mille testimoni. L’anno scorso altri 16 responsabili erano già stati condannati a pene variabili dai 18 anni all’ergastolo per i reati commessi da membri dell’Esma. Questa è la prima volta che alla sbarra si trovano 6 dei membri degli equipaggi di alcuni dei voli della morte durante i quali i prigionieri venivano gettati nel Rio de la Plata o in mare. Due dei 4 giornalisti che indagarono su tali fatti furono internati nell’Esma e uno vi morì.
Ho pubblicato il primo scritto su questo argomento clandestinamente alla fine del 1976. Lo scritto, intitolato Storia della sporca guerra in Argentina, comincia con l’apparizione dei cadaveri gettati nel fiume e non parla di aerei, ma di navi. Nel 1977 Rodolfo J. Walsh approfondì l’argomento con la sua Lettera aperta alla giunta militare inviata per posta nel giorno in cui ci fu il primo anniversario del golpe militare e poche ore prima di essere arrestato. I testimoni dicono che sia arrivato morto all’Esma. Nella lettera, giudicata da Gabriel García Márquez magistrale esempio di giornalismo, Walsh precisò che si trattava di voli e indicò anche alcune delle basi utilizzate. Walsh oltre che importante giornalista fu anche un brillante narratore. Il suo racconto Quella donna (nel quale fa parlare il colonnello che sequestrò il cadavere di Evita), fu votato come il miglior mai scritto in Argentina, dopo Borges e Cortázar. Nel 1995 ho pubblicato il libro, Il volo, con la confessione del capitano della Marina, Adolfo Scilingo, il primo a riconoscere di aver assassinato in questa maniera 30 persone in due voli. Scilingo riparò in Spagna dove fu fatto arrestare dal giudice Baltasar Garzón e nel 2007 fu condannato all’ergastolo dall’Audiencia Nacional. Si trova in carcere anche l’avvocato Gonzalo Torres de Tolosa, che Scilingo indicò come civile, parente di uno dei comandanti delle forze navali, che si faceva passare per membro della Marina al solo scopo di partecipare alle torture e ai voli.
Il pilota che si vantava di aver partecipato ai voli
L’anno dopo la condanna di Scilingo a Madrid, il figlio di un sottufficiale della Marina militare che aveva letto il libro mi fornì il nome di un pilota della compagnia Aerolineas Argentinas che con i colleghi all’aeroporto si vantava di aver preso parte ai voli della morte. Dal momento che stavo lavorando ad altre cose, passai l’informazione a uno dei giovani giornalisti più promettenti, Diego Martínez, che rintracciò l’uomo, Ricardo Ormello, e ricostruì la sua storia. Intervistò numerosi ex colleghi di Ormello delle Aerolineas Argentinas i quali testimoniarono fornendo informazioni sostanzialmente identiche a quelle già fornite da Scilingo. I detenuti arrivavano all’aeroporto come in stato di ubriachezza, ma comunque in grado di camminare e di salire sull’aereo. A bordo si somministrava loro un’iniezione di Pentothal (che i i membri della Marina avevano ribattezzato “pentonavale”) e “quando ci avvertivano cominciavamo a trascinarli e li gettavamo dal portello”. Queste testimonianze furono confermate dinanzi all’autorità giudiziaria. Martínez scoprì anche il luogo nel quale si trovavano diversi aerei impiegati 30 anni prima per commettere questi crimini. Miriam Lewin, che fu arrestata e torturata all’Esma quando era poco più che adolescente, oggi è una popolare giornalista radiotelevisiva. Miriam trovò negli Stati Uniti un altro degli aerei e riuscì a entrare in possesso di una copia della “storia tecnica dei voli” con i particolari di ogni volo: orario, luogodipartenza, destinazione, durata e nome del comandante. Il programma che realizzò è stato presentato un anno fa al festival della rivista Internazionale a Ferrara. Intervenne poi la magistratura e, su richiesta del pubblico ministero, la Guardia Costiera consegnò 2.758 piani di volo registrati tra il 1976 e il 1978. Un minuzioso studio di questi piani, portato avanti contemporaneamente da Miriam Lewin e dalla magistratura, permise di individuare 11 voli che coincidevano con la descrizione di Scilingo. Uno di questi era partito da Buenos Aires il 14 dicembre del 1977 alle 21 e 30, aveva volato per 3 ore e 10 minuti senza passeggeri ed era arrivato al punto di partenza. È il solo volo il cui obiettivo dichiarato era la “navigazione aerea notturna”. Il caso vuole che quel giorno, due ore prima del decollo dell’aereo, due suore francesi detenute nell’edificio dell’Esma furono fotografate nei sotterra-nei dove si eseguiva la tortura vicino a una falsa bandiera dei Montoneros allo scopo di mettere su una falsa pista l’indagine sul sequestro che creava imbarazzo al governo francese e al Vaticano. Secondo i superstiti, quella fu l’ultima volta che le suore furono viste nel luogo di prigionia. Il corpo di una delle suore e quelli di due delle fondatrici del movimento delle Madri di Plaza de Mayo, furono identificati dagli antropologi forensi nel 2004: erano state sepolte come “ignote” ma le correnti restituirono i loro resti su una spiaggia dell’Atlantico nel dicembre del 1977. La perizia forense dice che le ferite sono compatibili con quelle che ci si procurerebbe cadendo in acqua da una notevole altezza. I membri dell’equipaggio di questo volo lasciarono la Guardia Costiera e si fecero assumere come piloti dalle Aerolineas Argentinas. Riuscii a entrare in possesso dei fascicoli e il cerchio si chiuse. Nel 2011 furono arrestati anche i piloti Enrique José de Saint Georges, Mario Daniel Arru e Alejandro Domingo D’Agostino. Prima ancora che per l’intervento della giustizia si arriva alla verità grazie all’incontinenza verbale dei boia e alle inchieste giornalistiche. Gli altri due piloti attualmente sotto processo furono anch’essi vittime del proprio narcisismo. Uno di loro viveva in Olanda dove faceva il pilota per la compagnia Transavia. Durante una discussione sul viceministro del governo militare, Jorge Zorreguieta, la cui figlia, Maxima, si era sposata con il principe ereditario olandese, il pilota argentino che viveva in Olanda dal 1988, parlando dopo pranzo in occasione di uno scalo a Bali con alcuni colleghi olandesi, raccontò quello che aveva fatto. Quando uno di loro lo commiserò, l’argentino giustificò i crimini dicendo: “Voi non capite. Era una guerra contro i terroristi di sinistra che non meritavano sorte diversa”. “Perché i corpi non furono restituiti alle Madri di Plaza de Mayo che li reclamavano? ”, chiese con insistenza un altro olandese. “Dovevano aver saputo che i loro figli erano terroristi. Avremmo dovuto ucciderli tutti”, disse. “È un modo disumano di ammazzare la gente”. “Erano drogati”. Il pilota argentino arrivò a descrivere come erano andate le cose. Secondo altri commensali il pilota argentino allungò il braccio destro e poi lo piegò di lato. La storia giunse alle orecchie di un’esule argentina in Olanda che nel 2008 parlò con Diego Martínez e con me. All’epoca sapeva solo che il nome dell’ufficiale di marina era Poch. Però nella Marina militare argentina c’erano sette ufficiali con questo nome. Comunicammo tutti i nomi e furono individuati Julio Andres Poch, sposato con l’olandese Elsa Margarita Nyborg Andersen, che viveva nella cittadina di Zuidschermer. Nel mio ufficio di Bue-nos Aires ricevetti una delegazione di agenti di polizia e magistrati olandesi che volevano altre informazioni su Poch. Successivamente un magistrato argentino si recò in Olanda e riuscì a farsi rilasciare una dichiarazione confidenziale da quanti avevano assistito alla confessione di Poch. L’Argentina chiese l’estradizione di Poch, ma per l’Olanda era difficile concederla in quanto aveva doppia nazionalità. La soluzione consisteva nell’arrestarlo in un altro paese. Nel 2009, Poch fu arrestato a Valencia quando atterrò per quello che sarebbe stato il suo ultimo volo prima di dimettersi. Quando l’Argentina chiese l’estradizione alla Spagna, i due piloti olandesi confermarono la conversazione con Poch e successivamente arrivò anche la testimonianza di un terzo pilota. Successivamente il pilota olandese disse che un figlio di Poch, che come il padre faceva il pilota per la Transavia, gli aveva chiesto di dichiarare che suo padre aveva parlato in maniera generica di quanto avevano fatto gli ufficiali della marina e che la sua non era stata una confessione personale, ma l’olandese aveva opposto un diniego e aveva raccontato la verità su come si erano svolti i fatti.
Le vite tranquille dei colpevoli coperti dalle Forze armate
L’ultimo dei piloti sotto processo è Emil Sisul Hess, suo vero nome sebbene sembri un nome di fantasia. Nel 1991 andò in pensione come pilota della Marina e divenne gestore di un complesso turistico a Villa La Angostura, un luogo tra i più belli del mondo con laghi e montagne nel sud dell’Argentina. Prima Diego Martínez e poi un magistrato parlarono con quanti lo avevano sentito raccontare “con tono divertito di come le persone chiedevano pietà e pregavano” prima di essere gettate nel Rio de la Plata. Un altro teste dichiarò che Hess “parlava con rabbia e risentimento. Aveva bisogno di parlare. Era un uomo molto tormentato”. Quando questo teste gli chiese se provava pena per queste persone, Hess replicò che non avevano sofferto perché erano sotto l’effetto di sedativi, quasi la stessa frase utilizzata dalla gerarchia ecclesiastica per giustificare la mostruosità delle azioni dei capi e dei colleghi di Scilingo. “Cadevano come formichine”, si vantò Hess. I membri della marina responsabili dell’assassinio di Walsh, delle suore francesi e delle Madri di Plaza de Mayo furono condannati al termine del processo del 2011.
I giudizi iniziarono nel 1984, ma dopo la condanna dei membri della prima giunta militare, tra cui il generale Jorge Videla e l’ammiraglio Emilio Massera, furono interrotti a seguito di una serie di leggi e decreti di indulto tra il 1986 e il 1990. Proseguirono solo i processi per il rapimento di neonati, reato questo che non fu mai condonato. Grazie alla confessione di Scilingo ebbero inizio in tutto il paese i cosiddetti “giudizi per la verità”. Nel 1998, all’avvicinarsi del cinquantenario della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, l’arresto a Londra del dittatore cileno Augusto Pinochet servì da stimolo ai magistrati argentini che presero la medesima iniziativa nei confronti di Videla, Massera e una cinquantina di persone che avevano sottratto i figli ai detenuti-desaparecidos. Il Centro Studi Giuridici e Sociali, l’organismo a tutela dei diritti dell’uomo che presiedo dal 2000, chiese l’abrogazione delle leggi del puntofinal e della obedienciadebida e le leggi furono abrogate all’avvicinarsi del 25° anniversario del golpe militare. Nestor Kirchner fu il primo presidente che invece di opporsi alla richiesta di processare i colpevoli, la appoggiò e nel 2005 la Corte Suprema ratificò l’incostituzionalità di tutti i provvedimenti di legge che avevano consentito ai colpevoli di farla franca. Da allora nel corso dei processi avviati in tutto il paese sono stati già condannati 300 autori dei crimini dello Stato terrorista. Ci sono state 24 assoluzioni, a riprova del fatto che nei tribunali si osservano la presunzione di innocenza e le norme del giusto processo.
Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

l’Unità 27.12.12
Agostino uomo e santo
Il teologo che ha tentato di spiegare i misteri dell’esistere individuale e universale
Una nuova edizione delle sue «Confessioni»
Un testo prezioso in libreria per Bompiani Opera filosofica, teologica e insieme letteraria di inestimabile valore che ha formato la cultura del mondoL
di Luca Canali


È IN LIBRERIA, NELLA PRESTIGIOSA COLLANA «IL PENSIERO OCCIDENTALE», A CURA DEL PROFESSORE GIOVANNI REALE (PAGINE 1406, EURO 30,00, BOMPIANI) UN’OPERA FILOSOFICA, TEOLOGICA E INSIEME LETTERARIA DI INESTIMABILE VALORE. È un testo formidabile (cioè, in un certo senso, «temibile» per l’arduo contesto di tutte le problematiche in esso contenute), ma anche entusiasmante, cioè capace di offrire il piacere delle grandi opere d’arte che hanno formato la cultura del mondo: Le confessioni di Sant’Agostino, la cui vita complessa e persino travolgente è stata dapprima quella di un giovane uomo con le sue debolezze e i suoi peccati, ma anche di un santo che ha tentato di spiegare i grandi misteri dell’esistere individuale e universale, che dopo di lui e della sua straordinaria opera tuttavia sono riemersi e forse irrisolvibili, ma almeno lasciando qualche sbocco all’uomo per tentare di avvicinarsi alla loro soluzione, sia terrena che metafisica. Vita che è stata prima quella di tutti i viventi che nascono, crescono, fanno l’amore, anche rubacchiano qua e là (a lui piaceva rubare le pere cogliendole direttamente sugli alberi), poi, i migliori, si pentono e cercano il conforto religioso.
Agostino, durante una lunga ed appassionante vicenda intellettuale combatté per le sue idee religiose ed esistenziali, ora vincendo, ora cambiando idee, giungendo infine al neoplatonismo fondato sulla fede nel Dio buono e onnipotente con la mediazione di Cristo fra Lui e gli uomini. Durante il suo viaggio da Tagaste e Cartagine per giungere in Italia per recarsi prima a Roma, poi a Milano per incontrare il Vescovo Ambrogio, ad Ostia perdette la sua amatissima madre Monica, cristiana fervente che lo aveva indotto a ripudiare la sua concubina, che però gli aveva dato un figlio di nome Adeodato, affidandoglielo perché lei intendeva dedicarsi alla fede e alle buone opere con un grande equilibrio che portava dritto al rigorismo etico cristiano, e contro il tomismo che finirà poi per passare, secoli dopo, attraverso il razionalismo di Cartesio e la illuminata filosofia di Kant, contro l’idealismo di Hegel.
Sant’ Agostino non fu soltanto un teologo; ma anche un cultore appassionato della letteratura classica (Cicerone, Virgilio, Apuleio), nonchè pastore di anime una volta divenuto vescovo.
Giovanni Reale, grande studioso e docente di filosofia antica greco latina, da sessant’anni impegnato nell’approfondimento del pensiero agostiniano, offre ai lettori, in questa vigilia di Natale, questa grande opera, assistito dall’intero staff direttivo della Edizioni Bompiani, e dall’intera squadra di collaboratori della collana «Il Pensiero Occidentale», anteponendo alle Confessioni un breve discorso sui criteri che hanno guidato la propria nuova traduzione, interessante da leggere e da discutere; poi una monografia introduttiva estremamente pregnante e illuminante per la lettura diretta della prosa Agostiniana, di cui è opportuno a questo punto, cioè come condivisione del testo, mettere in rilievo le frasi capitali dell’intera trattazione, che costituiscono poi la conclusione dell’opera: sono quelle riguardanti il problema essenziale della creazione.
a) Tutte le cose create sono buone, se viste da Dio;
b) Ringraziamo Dio per la bontà delle cose che ha creato;
c) Il modo e il mezzo con i quali Dio ha creato cioè della Sua Parola;
d) Questo processo creativo in apparenza così semplice è invece vertiginosamente complesso e persino misterioso, prestandosi quindi ad una sua lettura metafisica di cui v’è già la premessa nei primi versetti della Bibbia.
Qui si ripostula quindi l’esistenza del mistero e di tutti i misteri che la mente umana, malgrado il rigore anche didattico del pensiero agostiniano (di cui questo recente volume ci offre una sintesi e una puntuale e mirabile «spiegazione») non riesce a risolvere. Mistero, che lascia spazio soltanto alla fede nel Creatore, e intrinseco all’esistenza del tutto e alla sorte dell’uomo, il quale pur se si giovi dell’aiuto potente di Sant’Agostino, resiste ostinato, a meno che non ci si illuda di trovare la luce nel pensiero razionalista ed evoluzionista o, anche avventurosamente materialista.
Che guida senza infingimenti nel regno del Weltscherz, dolore di cui è impastato il mondo umano, animale, vegetale e, si dice, anche minerale.

La Stampa 27.12.12
Libia 1911, l’eroe-superspia vittima del fuoco amico
Uno studio di Nicola Labanca sulla guerra italiana per la “quarta sponda” rivela le micidiali rivalità interne
di Giorgio Boatti


Una delle prime trincee realizzate dal corpo di spedizione italiano in Libia, nel 1911. In basso una cartolina commemorativa del capitano Pietro Verri, brillante membro dell’Ufficio I del Regio Esercito, che venne mandato in prima linea contro la resistenza locale. La propaganda ne fece subito un eroe, tacitando i ragionevoli interrogativi sul motivo per cui una superspia come lui fosse stata esposta insensatamente al fuoco nemico
Libia: uno scacchiere complicato dove, come dimostra l’assassinio avvenuto lo scorso settembre dell’ambasciatore Usa Stevens e della sua scorta, anche veterani della diplomazia e dell’intelligence possono essere spiazzati brutalmente da scenari imprevisti. Del resto non è la prima volta che succedono cose simili. Nel 1911 anche l’Italia inciampa in qualcosa di analogo, quando sbarca sull’altra riva del Mediterraneo, per conquistare una Libia che ancora non si chiamava così.
Ora il nome del capitano Pietro Verri non dice niente ai più ma, nell’autunno del 1911, risuonò a lungo. La propaganda ne fece subito un eroe, tacitando ragionevoli interrogativi sul perché uno sperimentato veterano dello spionaggio come Verri fosse stato insensatamente esposto al fuoco nemico, fulminato da una fucilata mentre guidava una pattuglia di marinai contro soldati ottomani e guerriglieri libici.
Verri apparteneva all’Ufficio I del Regio Esercito. Vale a dire lo spionaggio militare. Aveva già operato brillantemente nell’intelligence: prima in Eritrea e poi in Cina, dopo la rivolta dei Boxer a Pechino. Con lo scoppiare della crisi libica era arrivato per tempo a Tripoli e, fingendo di essere un ispettore portuale, grazie alla conoscenza della lingua locale aveva allacciato contatti preziosi. Ma giunta la guerra erano scoppiate, come al solito, tutte le solite italiche rivalità. Tanto che, per fronteggiare la prime resistenze locali, la superspia Verri finisce in prima linea, accanto ai reparti della Regia Marina comandati dal capitano di vascello Umberto Cagni, famoso esploratore polare scagliato nel deserto libico.
Nel libro dello storico Nicola Labanca La guerra italiana per la Libia 1911-1931, da poco pubblicato dal Mulino (pp. 293, € 24), non ci si sofferma sul ruolo di Cagni, che in attesa del lento arrivo delle truppe di terra tiene Tripoli con i soli marinai, né sulla missione dello 007 italiano, nonostante che Verri venga immortalato da Gabriele d’Annunzio in una delle più famose Odi d’Oltremare («Chi balza con lo stuolo irto di ferri? / È Pietro Verri…»). Pura propaganda bellica, ma D’Annunzio, visto che i fratelli Albertini, proprietari del Corriere della Sera, gli versano la vertiginosa somma di mille lire a ode, ne sforna dieci in poche settimane (mille lire sono, in quegli anni, lo stipendio annuo di un maestro).
Nel saggio di Labanca non c’è spazio per questi dettagli, ma emerge un documentato e articolato affresco delle fasi diverse che la guerra italiana in Libia attraversa, dalla stagione giolittiana sino alla «normalizzazione» imposta da Mussolini. Una «pacificazione», quella voluta dal fascismo, all’insegna dell’impiego dei mezzi più drastici - deportazioni, campi di concentramento, fucilazioni sommarie - utilizzati dal generale Graziani per domare la resistenza locale. Quel Graziani a cui qualcuno ha eretto recentemente un discutibile monumento ad Affile, suo «buen retiro» dopo i massacri. Accanto a questi scorci, già ampiamente trattati negli studi coloniali di Angelo Del Boca, è particolarmente interessante, nel libro di Labanca, la ricostruzione dettagliata delle contrapposte dialettiche che anche dentro questa guerra, come in tutte le guerre, accendono il «fuoco amico». In questo «campo di battaglia» fra italiani si fronteggiano, all’insaputa dei cittadini e nel silenzio della stampa, leader politici e generali, agenzie informative e comandi vari: tutti apparentemente al servizio dello stesso Paese.
In quel 1911 Giolitti non si fida del suo ministro degli Esteri, Antonino di San Giuliano. Entrambi poi cercano di emarginare il generale Spingardi, che pure è il ministro della Guerra. Lo stato maggiore a sua volta, nel timore di ripetere lo scacco di Adua, impone una spedizione da 100 mila soldati ma, nella fretta, lascia sola la Marina nei primi passi della missione.
Le cose non cambiano neppure in seguito, quando - come ricostruisce con ampiezza Labanca -, occupato stabilmente il territorio, è sempre guerra di tutti contro tutti: soprattutto nel decidere quale politica seguire nel fronteggiare la crescente ribellione e la guerriglia. Sino ai siluramenti con cui Mussolini interviene a ripetizione nel ginepraio di una Libia dove la resistenza agli italiani si fa sempre più consistente.
La mischia per controllare quei territori affronta bufere micidiali, che si alzano non solo nel deserto, contro il nemico, ma all’interno degli apparati e delle catene di comando. Serve tempo - anni, a volte decenni - per rintracciare, grazie al lavoro dello storico, le piste dove cammina la verità.

Corriere 27.12.12
Razzi e sogni, la rincorsa allo spazio dai fuochi cinesi ai satelliti San Marco
Sei secoli d'immaginazione e scoperte, tra scienza e arte militare
di Sergio Romano


Razzi e missili sono da più di settant'anni l'inevitabile ingrediente di tutte le maggiori crisi politiche e militari del pianeta. Le V2 di Wernher von Braun, lanciate su Londra da basi tedesche, dettero alla Germania, per alcune settimane del 1944, l'illusione della vittoria. La peggiore crisi della Guerra fredda scoppiò quando l'Unione sovietica installò basi missilistiche nell'isola di Cuba, a 90 miglia dalle coste della Florida. Il momento di maggiore tensione nei rapporti fra i due blocchi è quello del giorno in cui i satelliti spia degli Stati Uniti, alla fine degli anni Settanta, scoprirono che i sovietici stavano installando missili di media gittata con testate nucleari nei territori occidentali dell'Urss. Le più folte e turbolente manifestazioni pacifiste in Europa occidentale furono quelle provocate dall'installazione di missili Cruise e Pershing in alcuni Paesi della Nato durante gli anni 80. Il primo segnale di distensione fra l'Urss di Michail Gorbaciov e l'America di Ronald Reagan fu l'accordo che i due uomini di Stato raggiunsero nel 1987 per l'eliminazione dei missili intermedi dal teatro strategico europeo. I trattati più difficili, prima e dopo il crollo dell'Urss, furono quelli che dovevano regolare gli arsenali missilistici delle due potenze mondiali. Su scala più modesta non vi è stata crisi israelo-palestinese, negli ultimi anni, che non sia cominciata con il lancio di razzi Fajir fabbricati in Iran contro il territorio dello Stato ebraico. Più recentemente abbiamo assistito al primo impiego di missili in una guerra civile: gli Scud di fabbricazione sovietica con cui Bashar al Assad cerca di stroncare le forze dell'insurrezione siriana.
Eppure queste micidiali armi belliche hanno antenati «giocosi» (i fuochi d'artificio) e hanno aperto la strada ad applicazioni scientifiche che hanno considerevolmente allargato, soprattutto negli scorsi decenni, le frontiere del sapere. Gioco, guerra e scienza appartengono quindi a una stessa storia di feste, battaglie e audaci sperimentazioni. In questa lunga vicenda esiste un capitolo italiano raccontato da uno dei migliori giornalisti scientifici, Giovanni Caprara, in Storia italiana dello spazio (Bompiani).
I razzi nascono in Cina, madre dei fuochi d'artificio, ma arrivano rapidamente in Italia dove vengono presto utilizzati per rallegrare il popolo nei giorni di festa e colpire il nemico nei giorni di guerra. Fra Settecento e Ottocento non vi è potenza militare, piccola o grande (anche il Regno di Sardegna e il Regno delle Due Sicilie), che non abbia un corpo di «razzieri» o non studi l'uso di piccoli missili sul campo di battaglia. Ma i progressi dell'astronomia, nel frattempo, accendono sogni e speranze. Molti poeti avevano indirizzato i loro versi alla luna e Cyrano de Bergerac aveva scritto un viaggio in prima persona dans la lune et dans le soleil, apparso postumo nel 1657. Ma non appena Giovanni Virginio Schiaparelli, astronomo dell'Osservatorio di Brera, scoprì i canali di Marte, la scena, come ricorda Caprara, si riempì rapidamente di scienziati dilettanti, visionari, studiosi incompresi e autori di teorie ardite sempre a caccia di fantasiosi brevetti. La letteratura, nel frattempo, da Verne a H.G. Wells, precedeva gli scienziati mentre il cinema, non appena inventato, permetteva a George Meliès di raccontare sullo schermo un «Voyage dans la lune» che fu proiettato per la prima volta a Parigi nel 1902. Agli inizi del Novecento il pianeta terra era molto più vicino alla luna, scientificamente e psicologicamente, di quanto fosse mai stato nel corso della storia umana.
La Grande guerra, lo sviluppo dell'industria e i progressi della chimica nel fondamentale settore dei carburanti ebbero l'effetto di aguzzare gli ingegni e stimolare le ricerche. Molti dei personaggi evocati da Caprara sono industriali geniali come Enrico Forlanini ed Ettore Ricci, o scienziati in uniforme come Giulio Costanzi, Giorgio Cicogna e soprattutto Gaetano Arturo Crocco, fondatore dell'Istituto centrale aeronautico e autore del piano per la costruzione di Guidonia, la «città del volo». Ma vi furono anche ingegneri come Luigi Gussalli, chimici come Francesco Giordani, astronomi, piloti. La sconfitta nella Seconda guerra mondiale non ha chiuso il capitolo spaziale della storia italiana. Anzi, per almeno una generazione, come appare dalle pagine di Caprara, sembrò che l'Italia e la classe dirigente avessero nel campo delle grandi ricerche scientifiche (l'atomo, lo spazio, la chimica, l'aeronautica) le ambizioni dei decenni precedenti. L'opera di Crocco, in particolare, fu continuata dal figlio Luigi e da uno dei suoi allievi più dotati, Antonio Ferri. Ma l'astronautica, nel frattempo, stava diventando, soprattutto dopo il lancio dello Sputnik sovietico, una costosa questione di potere, una partita che richiedeva colossali investimenti e in cui la posta in gioco era l'egemonia mondiale. Gli spazi, per le potenze minori, si sarebbero considerevolmente ristretti. L'Europa reagì creando istituzioni unitarie a cui l'Italia partecipò con quote inferiori a quelle degli altri maggiori Paesi europei, ma finanziariamente consistenti. Si formò così una galassia di sigle: l'Eldo (European Launcher Development Organisation), l'Esro (European Space Research Organisation), l'Estec (European Space Research and Technology Centre), l'Eslar (European Space Laboratory for Advanced Research Institute) e infine l' Esa (European Space Agency), inaugurata nel 1975.
Il lettore troverà nel libro di Caprara una cronaca molto documentata delle imprese scientifiche realizzate da queste istituzioni e in particolare dall'Italia. Ma la scienza e l'industria italiane, pur partecipando alle iniziative europee, non hanno mai smesso di coltivare nel frattempo i rapporti con gli Stati Uniti e la Nasa. Luigi Broglio, creatore del progetto San Marco per il lancio di satelliti da una piattaforma costruita nel Kenya, ha tratto grandi soddisfazioni, per sé e l'Italia, dalla collaborazione con l'America. Il primo astronauta italiano, Franco Malerba, è partito da Cape Canaveral il 13 luglio 1992 a bordo della navetta Atlantis. Il satellite a filo Tethered è stato realizzato con strumenti costruiti da Alena Spazio e dalle Officine Galileo. È accaduto per le ricerche spaziali ciò che accadeva contemporaneamente per l'aeronautica. Costretta a scegliere fra progetti europei e collaborazione americana, l'Italia, in parecchie circostanze, ha scelto l'America. La scelta rispondeva probabilmente agli interessi economici del Paese, ma non era necessariamente conforme all'europeismo professato dai suoi governi.
Il libro di Caprara si conclude con una promettente pagina europea e italiana. Mentre la presidenza Obama ha considerevolmente ridimensionato i suoi programmi, l'Agenzia spaziale europea ha lanciato dalla base di Kourou, nella Guiana francese, il 23 marzo 2012, un Automated Transfer Vehicle. Si chiama Edoardo Amaldi, dal nome del grande fisico che ha dato un contributo fondamentale alla formulazione di una politica spaziale europea.

Repubblica 27.12.12
La resistenza del libro che profuma di carta
di Oliver Sacks


È APPENA uscito un mio libro, ma non riesco a leggerlo perché, come milioni di persone, ho dei disturbi alla vista. Devo usare una lente di ingrandimento ed è una procedura lenta e macchinosa, perché il campo visivo è ristretto e non posso vedere una riga intera in un colpo solo, per non parlare di un intero capoverso. Quello di cui avrei davvero bisogno è un’edizione a grandi caratteri, che possa leggere (a letto o in bagno, che è dove leggo di solito) come qualsiasi altro libro. Alcuni dei miei libri precedenti sono disponibili in questo formato, e mi è preziosissimo quando devo fare una lettura pubblica. Ora mi dicono che una versione stampata a grandi caratteri non è «necessaria»: ci sono i libri elettronici, che ti consentono di ingrandire a piacimento la dimensione dei caratteri.
Ma io non voglio un Kindle, o un Nook, o un iPad, tutta roba che potrebbe cadermi in bagno o rompersi, e ha comandi che per vederli mi servirebbe la lente di ingrandimento. Voglio un libro vero, fatto di carta stampata: un libro che abbia un peso, che odori di libro, come sono stati i libri negli ultimi cinque secoli e mezzo.
Voglio un libro che possa infilarmi in tasca o tenere insieme ai suoi confratelli sugli scaffali della mia libreria, riscoprendolo per caso perché mi ci cade l’occhio sopra.
Quando ero ragazzo, alcuni dei miei parenti anziani, e anche un cugino giovane che vedeva male, usavano le lenti di ingrandimento per leggere. L’introduzione di libri a grandi caratteri, negli anni Sessanta, fu una manna dal cielo per loro e per tutti i lettori ipovedenti. Spuntarono fuori case editrici specializzate in edizioni a grandi caratteri per biblioteche, scuole e singoli lettori, e nelle librerie o nelle biblioteche trovavi sempre qualche libro del genere.
Nel gennaio del 2006, quando cominciai ad avere problemi alla vista, mi chiedevo come avrei fatto. C’erano gli audiolibri – qualcuno ne avevo registrato io stesso – ma io sono essenzialmente un lettore, non un ascoltatore. Sono un lettore incallito da quando ho memoria: spesso conservo nella mia mente quasi automaticamente numeri di pagina o l’aspetto dei capoversi e delle pagine, e sono in grado di trovare all’istante un certo passaggio in quasi tutti i miei libri. Io voglio libri che mi appartengano, libri la cui impaginazione intima mi diventi cara e familiare. Il mio cervello è tarato sulla lettura e quello che mi serve sono sicuramente i libri a grandi caratteri.
Ma oggi trovare testi di qualità in questo formato in una libreria è un’impresa. L’ho scoperto di recente quando sono andato da Strand, la libreria newyorchese famosa per i suoi chilometri di scaffali, dove mi rifornisco da mezzo secolo. Avevano una sezione (piccola) dedicata ai libri a grandi caratteri, ma era occupata prevalentemente da manuali e romanzi spazzatura. Nessuna raccolta di poesie, nessuna opera teatrale, nessuna biografia, nessun saggio scientifico. Niente Dickens, niente Jane Austen, nessuno dei classici; niente Bellows, niente Roth, niente Sontag. Sono uscito frustrato, e furioso: gli editori pensano forse che chi ha disturbi alla vista abbia anche disturbi al cervello?
Leggere è un compito enormemente complesso, che richiede l’intervento di varie parti del cervello, ma non è un’abilità che gli esseri umani hanno acquisito attraverso l’evoluzione (a differenza del parlare, che è in buona parte una capacità innata). Leggere è uno sviluppo relativamente recente, che risale forse a cinquemila anni fa ed è regolato da una minuscola area della corteccia visiva del cervello. Quella che oggi chiamiamo «area per la forma visiva delle parole» fa parte di una regione corticale che si è evoluta per riconoscere forme elementari in natura, ma che può essere riadattata al riconoscimento di lettere o parole. Questa forma elementare, o riconoscimento di lettere, è solo il primo passo.
Da questa area per la forma visiva delle parole bisogna creare connessioni bidirezionali a molte altre parti del cervello (tra cui quelle che sovrintendono alla grammatica, ai ricordi, alle associazioni e alle sensazioni) perché le lettere e le parole acquisiscano i loro significati specifici per noi. Ognuno di noi forma percorsi neurali unici associati alla lettura, e ognuno di noi apporta all’atto del leggere una combinazione unica non solo di ricordi ed esperienze, ma anche di modalità sensoriali. Alcune persone magari «sentono» i suoni delle parole mentre leggono (a me succede, ma solo quando leggo per piacere, non quando leggo per informazione); altri magari le visualizzano, consapevolmente o meno. Qualcuno può avere una percezione acuta dei ritmi acustici o dell’enfasi di una frase; altri sono più sensibili all’aspetto o alla forma.
Nel mio libro L’occhio della mente descrivo due pazienti, entrambi scrittori di talento, che avevano perduto la capacità di leggere a causa di un danno cerebrale all’area per la forma visiva delle parole, che è collocata vicino alla parte posteriore del lato sinistro del cervello (i pazienti affetti da questo tipo di alessia sono in grado di scrivere, ma non riescono a leggere quello che hanno scritto). Uno di loro, nonostante fosse un editore e amasse la carta stampata, per «leggere» si convertì seduta stante agli audiolibri, e invece di scrivere i suoi libri cominciò a dettarli. La transizione avvenne senza intoppi, apparentemente in modo quasi naturale. L’altro, un giallista, era troppo abituato a leggere e scrivere per rinunciarvi. Continuò a scrivere i suoi libri e trovò, o escogitò, un nuovo e straordinario modo di «leggere»: la sua lingua cominciava a copiare le parole di fronte a lui, disegnandole sull’interno dei denti; in pratica leggeva scrivendo con la sua lingua, sfruttando le aree motoria e tattile della sua corteccia. Anche in questo caso la transizione sembrò avvenire in modo naturale. Il cervello di ognuno dei due, usando i propri punti di forza e le proprie esperienze specifiche, trovò la soluzione giusta, l’adattamento migliore alla perdita subita.
Per qualcuno che è nato cieco, senza nessun tipo di immagini visive, la lettura è essenzialmente un’esperienza tattile, attraverso i caratteri in rilievo dell’alfabeto Braille. I libri in Braille, come i libri a grandi caratteri, ora sono meno numerosi e meno facili da trovare, perché la gente si rivolge agli audiolibri, meno costosi e di più facile reperimento, o ai programmi vocali dei computer. Ma c’è una differenza fondamentale fra leggere e farsi leggere. Quando una persona legge attivamente, sia che usi gli occhi sia che usi le dita, è libera di saltare avanti o indietro, di rileggere, di fermarsi a riflettere o lasciar divagare la mente a metà di una frase: si legge con i propri tempi. Farsi leggere, ascoltare un audiolibro, è un’esperienza più passiva, soggetta ai capricci della voce di un’altra persona e che segue prevalentemente i tempi del narratore.
Se nel corso della nostra vita ci troviamo costretti ad apprendere nuovi modi di leggere, magari perché abbiamo sviluppato problemi alla vista, ognuno di noi deve adattarsi a suo modo: qualcuno si converte all’ascolto, altri continuano a leggere finché possono; qualcuno ingrandisce i caratteri sul lettore di e-book, altri i caratteri sul computer. Io non ho mai adottato nessuna di queste tecnologie: almeno per il momento rimango fedele alla buona vecchia lente d’ingrandimento (ne ho una dozzina, di forme e gradazioni differenti).
Gli scritti dovrebbero essere accessibili nel maggior numero di formati possibili: George Bernard Shaw chiamava i libri la memoria della razza. Non dobbiamo consentire la scomparsa di nessuna forma di libro, perché siamo tutti individui, con esigenze e preferenze fortemente individualizzate: preferenze radicate nei nostri cervelli a ogni livello, con i nostri modelli neurali e le nostre reti neurali individuali che creano un dialogo profondamente personale fra autore e lettore.
(Traduzione di Fabio Galimberti)

Repubblica 27.12.12
Freud ce l’aveva già detto: chi reprime le pulsioni negative prima o poi si ammala
di Vanna Vannuccini


Freud ce l’aveva già detto: chi reprime le pulsioni negative prima o poi si ammala. E ormai la teoria è entrata nella psicologia spicciola. Ma la prova scientifica mancava, e l’hanno trovata gli psicologi dell’Università di Jena. Hanno raccolto sistematicamente tutti i dati a disposizione nel mondo su malattie cardiache, disturbi circolatori, diabete, e asma e li hanno confrontati con le tendenze dei pazienti alla rimozione. Il risultato: anche se capita a tutti ogni tanto di reprimere i cattivi sentimenti, coloro che per educazione e carattere rimuovono ogni emozione negativa sono in serio pericolo. C’è infatti una connessione diretta tra un carattere chiuso, che tiene tutto dentro, e la sua salute fisica e mentale. Spagnoli e italiani, per esempio, vivono due anni più a lungo dei nordici (ma qui forse affiora la nostalgia tedesca per il Sud). In particolare sono colpiti gli inglesi le cui relazioni sociali si limitano come sappiamo a scambi sul tempo che fa. L’alta pressione sanguigna, che è causa di malattie coronarie, nefriti e problemi alla vista, è una conseguenza assicurata. Per fortuna non ci sono prove sufficienti che anche il cancro lo sia: “La cosiddetta personalità tendente al cancro non esiste” assicurano i ricercatori, ed è già un sollievo. Ma si consolino i repressi: proprio loro, in quanto più disciplinati, “sono capaci di cambiare stile di vita e combattere più efficacemente la malattia”.

Repubblica 27.12.12
Diritto e castigo
Un saggio raccoglie diversi interventi sul rapporto tra gli scrittori e l’idea di giustizia vista attraverso la letteratura
Quando il romanzo detta legge
Viaggio nella colpa da Kafka a Camus
di Roberto Esposito


Cosa può mai congiungere il diritto alla letteratura? Un solco profondo sembra separare la fluidità senza confini della scrittura letteraria e la rigidità di un ordine giuridico volto a discriminare la condotta lecita da quella illecita. Eppure proprio questo impossibile rapporto è oggetto di inesauribile interrogazione. Se fin dalla metà del Novecento è attivo in America un Law and Literature Movement, anche in Italia si vanno aprendo cantieri di ricerca sulla relazione tra la sfera del diritto e i territori della letteratura, del cinema, della comunicazione mediatica. Un’ampia, raccolta di studi in argomento è adesso contenuta nel volume, curato per Vita e Pensiero da Gabrio Forti, Claudia Mazzucato e Arianna Visconti con il titolo Giustizia e letteratura I.
Il libro – che nasce da una serie di seminari interdisciplinari tenuti da giuristi e critici letterari nella Cattolica di Milano – scorre lungo due assi tematici originati dalla stessa esigenza di fondo. Da un lato esso ripercorre con puntualità gli innumerevoli temi che il diritto ha offerto alla letteratura, come anche al teatro e al cinema. Dall’altro ricerca quella consapevolezza supplementare, quel sovrappiù di senso, che la pratica letteraria può fornire, dal proprio punto di vista, all’universo giuridico.
Se si rileggono con questo sguardo i grandi testi rivolti alla questione della legge, si ha l’impressione che essi siano in grado di rivelare qualcosa del diritto che questo, dall’interno del proprio linguaggio, non arriva ad afferrare – l’ombra che circonda la sua luce o il punto scuro in cui essa rischia di spegnersi. Non solo per difetto, ma talvolta anche per eccesso. Non solo, intendo, quando il diritto sbaglia, ma anche quando, dal proprio angolo di visuale, ha ragione. Se opere come Il Mercante di Venezia e Otellodi Shakespeare rivelano il pregiudizio razziale, rispettivamente nei confronti di un ebreo e di un nero, che sottende il giudizio di condanna, i romanzi di Defoe, da Lady Roxana a Moll Flanders, mostrano, dietro il delitto, una condizione di estremo bisogno che in qualche modo ne eccede la rilevanza penale, aprendo uno squarcio nel formalismo della legge.
Delitto e castigo di Dostoevskij, poi, attraverso la vicenda tormentata di Raskol’nicov, spinge la domanda sulla colpa ai suoi estremi confini – in quella zona indistinta dove bene e male, orrore e compassione, s’intrecciano in una vertiginosa spirale.
Ciò che la letteratura insegna, rispetto all’assetto astrattamente codificato del diritto, è che nell’esperienza vissuta non esistono leggi generali, perché i casi della vita sono sempre singolari e irripetibili. Perciò le condanne, come le assoluzioni, risultano inevitabilmente imperfette, visto che in qualche modo siamo tutti colpevoli, ma anche, da un altro punto di vista, tutti innocenti. I decreti di colpevolezza assoluta appaiono inadeguati per una duplice ragione indagata dalle opere di Proust, Musil e Hofmannsthal. Intanto perché le situazioni individuali vanno sempre calate in quel caleidoscopio sociale che condiziona i nostri atti non meno della nostra volontà. E
poi perché l’idea stessa di libero arbitrio, su cui poggia l’intero edificio del diritto penale, presuppone una compattezza dell’identità personale che di fatto non esiste. La coscienza individuale è in realtà sottoposta ad una metamorfosi che finisce per destituire di senso le categorie giuridiche di imputazione e di responsabilità. Come imputare una data azione ad un uomo che ormai è diverso da quello che l’ha commessa? Ma a questa prima decostruzione del diritto se ne aggiunge una seconda, ancora più radicale, che riguarda non più i suoi limiti, ma la sua essenza. Non solo il sistema normativo non riesce a incasellare nelle proprie griglie una realtà umana in linea di principio sfuggente ad un ordine prefissato, ma, tutt’altro che situarsi al polo opposto della violenza criminale confina ambiguamente con essa. I romanzi
Il giudice e il suo boia, Il sospetto, Giustizia di Friedrich Dürrenmatt ne forniscono la rappresentazione più tesa. In essi coloro che vogliono affermare la giustizia lo fanno usando i medesimi metodi criminali che intendono punire. Ma se il desiderio di giustizia si trasforma in sete di vendetta, il giudice diventa giustiziere e questi cacciatore di prede.
Siamo al punto in cui la giustizia distributiva – che attribuisce a ciascuno la sua pena – diviene volontà di infliggere il male, rendendo intercambiabili colpevole e vittima.
L’autore – al quale forse il volume non dà sufficiente rilievo – in cui il contatto tra giustizia e violenza si fa compiuta sovrapposizione è Kafka. Non soltanto perché i suoi protagonisti – a partire da quello del Processo – sono catturati nelle procedure della legge come mosche in un bicchiere, ma perché la pena è presupposta alla colpa che dovrebbe punire. Nel suo mondo a rovescio non è più la colpa a determinare la pena, ma questa a produrre quella. Per penetrare a fondo nella sua metafisica della legge, bisogna integrare alla comparazione letteraria quella filosofica. A stringere in un nodo irresolubile diritto e violenza è stato soprattutto Benjamin. Non soltanto, per lui, il diritto è sempre istituito da una violenza originaria, ma la violenza è lo strumento attraverso il quale l’ordine giuridico si perpetua, condannando la vita ad una eterna colpevolezza. È questa la funzione che il nomos eredita dal mondo demonico che lo precede – schiacciare la vita sulla nuda parete del destino. Quando René Girard vede nel diritto una razionalizzazione della vendetta, porta alle sue conseguenze questa linea di discorso: come ci narra Lo straniero di Camus, la società, per proteggersi dal conflitto che l’attraversa, ha bisogno di concentrare la violenza su una vittima scelta a caso. Le immagini kafkiane della giustizia bendata – non perché imparziale, ma perché colpisce alla cieca le sue vittime – e della macchina che incide la norma trasgredita sulla carne del colpevole, nascono da questo orizzonte. Ancora oggi film come Pulp Fiction di Tarantino o Dogville di Lars von Trier riproducono in forme e con moduli narrativi diversi il medesimo motivo di una giustizia pienamente identificata con il crimine che combatte.
Ciò non vuol dire che la relazione tra diritto e scrittura s’incanali necessariamente in questa direzione mortifera. Anzi a prevalere, negli autori del libro, è un’ispirazione costruttiva, volta a sottolineare i valori affermativi di una norma giuridica capace di conformarsi alla grana molteplice della vita. Benedetta Tobagi, in un intervento di particolare intensità, invita a guardare il male impresso negli occhi della vittima, senza distogliere lo sguardo dalla sofferenza: diventare testimoni del dolore, narrandone i percorsi, può favorire un’umanizzazione del diritto. La testimonianza letteraria ci aiuta a capire che la verità giudiziaria non è l’unica possibile.
Che essa va collocata in un mondo di relazioni in cui le azioni degli uomini siano restituite alla loro complessità. Dal punto di vista della comunità siamo legati da una legge più profonda di quella giuridica – che la integra senza identificarsi con essa. Anche su questa consapevolezza poggia il ponte invisibile che congiunge le sponde opposte della letteratura e della legge.

Repubblica 27.12.12
Quel manuale per veri fratelli
Un libro sulle dinamiche del rapporto. Tra rivalità e inseparabilità
di Massimo Ammaniti

La rivalità, l’odio ma anche l’inseparabilità hanno caratterizzato i rapporti fra fratelli fin dall’inizio della storia umana, influenzando inevitabilmente lo sviluppo e il funzionamento mentale di ogni uomo, sia sul piano conscio che su quello inconscio. Probabilmente per esorcizzare gli impulsi fratricidi, la comunità umana ha amplificato la storia dell’uccisione di Abele da parte del fratello Caino, un tabù fondante che avrebbe dovuto interdire gli impulsi violenti, pericolosi per la sopravvivenza della famiglia e della stessa organizzazione sociale. Nel film di Visconti Rocco e i suoi fratelli dei primi anni ’60 la rivalità e l’odio fra fratelli esplodono nel passaggio conflittuale dal mondo contadino a quello della metropoli industrializzata, mettendo in crisi l’autorità paterna che aveva garantito fino ad allora la coesistenza fra fratelli e le loro pulsioni negative.
Nonostante siano passati molti millenni dalle storie bibliche le dinamiche fra fratelli sono ancora oggi di grande attualità, ma sono anche ricche di implicazioni soprattutto per la teoria psicoanalitica, che spesso è stata restrittivamente identificata con le dinamiche edipiche fra figli e genitori. Giunge a proposito il libro dello psicoterapeuta napoletano Massimiliano Sommantico su il Fraterno (sottotitolo “Teoria, Clinica ed Esplorazioni Culturali”) che fa riferimento alle dinamiche fraterne nella vita di Freud, di Melanie Klein e di Lacan e nei contributi teorici degli esponenti del movimento psicoanalitico.
Sigmund Freud, da primogenito, si era preso cura dei numerosi fratelli e sorelle, che avevano suscitato spesso in lui preoccupazioni ed apprensioni. Ma l’evento che più aveva lasciato dei segni nella sua mente era la morte del fratellino Julius quando il piccolo Sigmund aveva un anno, come successivamente ricordò in una lettera al suo collega Fliess: “devo... aver accolto mio fratello di un anno più giovane (morto a pochi mesi) con desideri cattivi e reale gelosia infantile; la sua morte ha lasciato in me il germe di un rimorso”.
Lo scenario fraterno è ormai delineato e si amplierà nell’Interpretazione dei sogni quando Freud fa riferimento al suo amore infantile per il nipote, nonostante i continui litigi fra loro. In un saggio successivo e piuttosto controverso, Totem e tabù, Freud ipotizzò che nella storia umana la primitiva ostilità fra fratelli si sarebbe indirizzata contro il padre, che un “clan fraterno” avrebbe bandito il fratricidio e riaffermato il valore della solidarietà, con un passaggio dalla naturalità del potere paterno al mondo della cultura e della collaborazione.
Ma a livello inconscio continuerebbe a permanere l’odio e la violenza primitiva, come scrive Melanie Klein nel suo saggio Tendenze criminali nei bambini normali, secondo cui i piccoli albergherebbero nella loro mente fantasie violente di “mutilazione e di squartamento” verso i bambini che si trovano nel grembo della madre. Lo scenario fosco e apocalittico dipinto dalla Klein è tuttavia mitigato da altri studiosi come Winnicott che mitiga l’ostilità, la gelosia e il desiderio nei bambini di sopprimere il fratellino.
Negli ultimi capitoli del libro la prospettiva sul fraterno si allarga anche al cinema e alla letteratura che hanno trattato questo tema sempre in modo appassionante, basti pensare al bellissimo libro di Robert Stevenson - Il Master di Ballantrae - che racconta l’odio, la rivalità e la diversità fra i due fratelli che dopo essersi detestati tutta la vita riposano uno accanto all’altro nel momento della morte.
Va detto però che oggi i bambini sono perlopiù figli unici - dato il drastico calo della natalità - e il mondo dei fratelli, come è stato vissuto in passato, rischia di diventare una paleoantropologia. Le conseguenze che questo cambiamento può avere sullo sviluppo del bambino apre un nuovo capitolo che merita di essere esplorato.