domenica 30 dicembre 2012

l’Unità 30.12.12
Intervista al segretario Pd: «No ai leader solitari. Alleati di chi combatte destra e populismi»
Bersani: Monti dica con chi sta
L’Italia può cambiare. Le primarie hanno rotto l’inerzia della politica
Anche i diritti civili sono una leva dello sviluppo
«Noi, gli alleati dell’economia reale»
intervista di Claudio Sardo


«Non siamo ancora fuori dalla crisi. Chi lo dice non racconta la verità al Paese. Ma il cambiamento è possibile: e sono convinto che le prossime elezioni daranno impulso alle speranze degli italiani e a un più forte senso civico, che del cambiamento è il carburante necessario». Pier Luigi Bersani si gode in famiglia, nella casa di Piacenza, gli ultimi giorni di riposo prima della dura campagna elettorale.
Il Pd è la lepre, lui è il favorito delle elezioni: la scaramanzia consiglierebbe di tacere. Ma non si può perché competitori e avversari compresi gli ultimi arrivati, Monti e Ingroia fanno la corsa sul segretario del Pd. E perché il vantaggio acquisito non può essere custodito in un forziere, va rimesso in gioco davanti agli elettori: «Abbiamo conquistato questa centralità conviene Bersani per il coraggio mostrato, dopo la caduta di Berlusconi, nel porre gli interessi del Paese davanti a quelli di partito. E, poi, per la volontà di riaprire con le primarie i canali ostruiti della partecipazione democratica. Abbiamo rischiato l’osso del collo. Ma abbiamo cambiato l’inerzia della politica, accendendo una luce nello scenario di rassegnazione in cui ci aveva fatto sprofondare Berlusconi.
«Ora dobbiamo proseguire dice ancora il segretario del Pd. Con umiltà e tenacia. Le primarie di questi due giorni sono un’altra grande prova di democrazia e di cambiamento: con i fatti, e non solo con le parole, ci stiamo ribellando alle regole assurde del Porcellum. Ma dobbiamo anche continuare ad affrontare dal basso i problemi e le possibili soluzioni. Non si governa senza popolo. Non si cambia senza popolo. La via elitaria è un’illusione».
Alla luce di quanto è accaduto, rifarebbe ciò che ha fatto nel 2012?
«Rifarei tutto. La destra aveva portato l’Italia sull’orlo del precipizio. Avevamo detto che il populismo avrebbe prodotto disastri, sociali e istituzionali. Ma purtroppo la parabola populista si conclude sempre, amaramente, oltre il punto-limite: dovevamo affrontare una drammatica emergenza interna ed esterna, e non potevamo che farlo così. Il governo Monti ha restituito al Paese la credibilità necessaria per evitare la catastrofe: ma non è stato solo merito di Monti, è stata un’opera collettiva. Del salvataggio del Paese il Pd è diventato un caposaldo: e questo ha mostrato agli italiani la nostra visione e la nostra funzione nazionale».
Sta dicendo che la risalita del Pd è cominciata qui?
«Voglio dire che la centralità del Pd si compone oggi di diversi elementi, uno dei quali è la sua dimensione di partito nazionale. Siamo la forza politica in grado di garantire maggiormente il legame tra il Nord e il Sud del Paese, tra i diversi ceti sociali, tra l’Italia e l’Europa. E abbiamo dimostrato che, quando c’è bisogno, sappiamo porre gli interessi dell’Italia davanti ai nostri».
Ha detto che questo è solo uno dei fattori che hanno consentito al Pd di crescere e conquistare un primato, almeno nei sondaggi. Quali sono gli altri? «Principalmente due. Nonostante il diffuso sfavore verso la politica, i cittadini hanno visto e toccato con mano che siamo un partito nuovo, capace di rinnovarci e di metterci al servizio di istanze civiche. Il populismo ha fallito perché
la politica legata a leader personali è destinata inesorabilmente alla sconfitta. Non fa crescere il Paese. I cittadini hanno compreso che nella sfida del Pd c’è uno spazio, un canale nuovo di partecipazione. L’altro fattore positivo per il Pd è stato, e continua ad essere, il nostro collegamento con i progressisti europei e il contributo originale che il Pd porta in questa alleanza internazionale: l’uscita dalla crisi, il cambiamento delle politiche economiche e sociali, la crescente domanda di equità e di uguaglianza, potranno trovare risposta solo in una dimensione internazionale. E tutti sanno che il Pd in quella dimensione c’è, è credibile, ha alleati importanti, e può oggi dare più di altri una mano all’Italia per tornare a crescere».
Ha detto che rifarebbe il governo Monti. Ma dica la verità: si aspettava che Monti sarebbe diventato un leader politico e che avrebbe guidato il Centro in competizione con il Pd?
«Non mi aspettavo questa sua scelta. Quando nacque il governo di emergenza, mi sembrava chiaro che avrebbe mantenuto una neutralità alle successive elezioni. Ma prendo atto della decisione del presidente del Consiglio. Non verrà meno il mio rispetto personale, né la cordialità dei rapporti maturati in questi mesi. Dal momento che si è fatto parte politica, però, intendo porgli questioni politiche».
Quali questioni pone a Monti?
«Anzitutto una questione di fondo. L’esito dei governi Berlusconi è stato negativo sul piano economico e sociale, sul piano culturale e politico, e ha pure indebolito le risorse civiche indispensabili alla ricostruzione. Il populismo italiano ha avuto tratti in comune con quelli europei, ma anche caratteri originali. Su quali forze far leva per il rinnovamento? Noi l’abbiamo detto con chiarezza da tempo. Il Pd riorganizza il campo dei progressisti, aprendosi a nuove forze, e assumendo la moralità e il lavoro come le pietre angolari del programma di riscossa nazionale. Ma, a fronte di un’impresa così grande e di un passaggio storico per l’Europa, è aperto a una collaborazione con tutti coloro che sono disposti a rompere con il populismo e con la destra. Cosa hanno da dire Monti e il Centro? Sono anche loro alternativi al populismo e alla destra? Sono pronti a collaborare con noi per un cambiamento nel segno di un nuovo sviluppo e di una maggiore uguaglianza sociale?». Monti lascia intendere che con Bersani è disposto a dialogare, ma non vede un terreno d’intesa con Vendola e la Cgil.
«Questi discorsi me li aspetto da Berlusconi e dalla Lega, non da Monti. Questa è propaganda. Non abbiamo costruito l’alleanza di centrosinistra in una stanza chiusa. L’abbiamo fatto in mezzo al nostro popolo, con le primarie, con una partecipazione che voleva anche essere una sfida, una reazione al degrado della politica elitaria e personalistica. Quando gli vengono fatte domande di questo tipo, Vendola giustamente risponde: Bersani ha vinto le primarie. Che sono state il suggello di un impegno reciproco, di un progetto trasparente. La mia domanda resta intatta: tocca al Centro dire ora che strada vuole prendere».
Da quelle parti si parla di Agenda Monti e si misurano le differenze sulle famose 25 cartelle. Non teme che la borghesia italiana e gli imprenditori possano, come in altre stagioni, giocare contro il centrosinistra e il suo eventuale governo?
«Penso che molte cose siano cambiate in questi anni. Il fallimento di Berlusconi è di fronte alla borghesia italiana, anche a quella che aveva puntato sulla deregulation della destra e che aveva chiuso l’occhio sulla caduta della legalità. Le imprese hanno vissuto sulla propria pelle la catastrofe politica e la caduta di competitività. Ma non c’è solo questo. Tanti imprenditori hanno capito che la stessa filosofia dell’emergenza, quella che inevitabilmente ha presieduto la stagione dei tecnici, è insufficiente per far risalire l’Italia. Ci vuole una scossa, un’iniezione di fiducia, una spinta che può venire anzitutto dai progressisti europei e dall’America democratica. I soggetti dell’economia reale oggi guardano a noi con speranza, ovviamente anche ponendoci domande esigenti».
Riuscirà il centrosinistra rispondere positivamente? In Francia c’è una ribellione dei ceto più alti alle politiche di Hollande.
«Possiamo rispondere positivamente perché siamo persone serie, non vendiamo demagogia, e sappiamo che ogni politica di crescita deve partire dalla verità sulla nostra condizione. Il cammino è difficile ma il cambiamento possibile. Per conquistarlo l’equità è necessaria. Una maggiore uguaglianza è vettore di sviluppo: mente chi sostiene il contrario. Chi ha di più, deve dare di più. Ma ciò può avvenire solo se la moralità pubblica e la legalità tornano ad essere il nostro habitat. Anche i diritti sono condizione di fiducia, di speranza collettiva: la lotta alle mafie, la cittadinanza per i bambini nati in Italia, i diritti delle coppie omosessuali, i diritti dei lavoratori, la parità effettiva riconosciuta alle donne...»
Lei ripete: moralità e lavoro. Ma è plausibile un piano per il lavoro, cioè un rilancio vero dell’occupazione, o è soltanto un auspicio legato a dinamiche di mercato che la politica non controlla più?
«Il lavoro è la parola che riassume il progetto necessario del futuro governo. Non è un auspicio. È un patto con le forze dell’economia reale. Che nel nostro Paese, per fortuna, ci sono e chiedono finalmente una politica che sappia occuparsi di loro. In questi anni si è smarrito il ruolo del pubblico nel sostegno all’economia reale. Si può, si deve puntare sulla qualità dell’innovazione, sulla green economy, sulle medie imprese che hanno una proiezione internazionale. Si devono usare gli strumenti fiscali e le leve della ricerca per aiutare chi crea lavoro e chi scommette su prodotti nuovi, a più elevato valore. Si deve potenziare la scuola e si devono usare politiche pubbliche per le infrastrutture, comprese quelle tecnologiche. Occorre tornare a valorizzare l’abitare. Avremo la campagna elettorale per chiarire ogni punto. Voglio dire però, a chi usa ancora troppa ideologia, che la coesione sociale è anch’essa un fattore di sviluppo».
Sta parlando della concertazione, accantonata da Monti?
«Il tema non è se e come uscire dalla concertazione. La questione è più concreta: se, ad esempio, bisogna spostare una parte della contrattazione a livello aziendale, per legarla ai risultati d’impresa, allora è necessario anche fissare regole certe sulla rappresentanza dei lavoratori. Non siamo la Germania, dove i sindacati sono nei consigli di amministrazione delle grandi imprese, ma senza regole sulla rappresentanza, non ci sarà una vera, efficace contrattazione in azienda».
La competizione con il nuovo Centro è cominciata.
«Noi siamo alternativi alla destra e ai populismi. Con chi condivide questa scelta di fondo, siamo pronti a discutere. Ma nello spirito del dialogo e del confronto, voglio dire a Monti che ci sono anche questioni di metodo da affrontare. La prima riguarda il rigore istituzionale. Ho preso atto del suo rapido passaggio da una condizione super partes ad una scelta di campo esplicita, in concorrenza con noi. Ma una cosa voglio dirla: non si utilizzino figure istituzionali per ruoli di partito. Che Enrico Bondi, chiamato dal governo come consulente per la Spending review, venga ora usato per scrutinare le candidature nella lista Monti mi pare una sgrammaticatura istituzionale piuttosto seria, e non accettabile. Il Pd ha dimostrato la sua coerenza quando ha detto: non candideremo ministri di questo governo, essendo chiaro che chi ha operato bene potrà sempre essere utile al Paese».
Ci sono altre domande a Monti?
«Cos’è nuovo e cos’è vecchio per il polo che sta nascendo al Centro? Dà l’impressione di sfidare gli altri sull’innovazione, ma chiedo: non rischia di riprodurre lo schema vecchio del partito costruito attorno a un nome e di una rappresentanza parlamentare di nominati? Con tutto il rispetto per i singoli, penso che questa procedura sia una causa non secondaria della crisi italiana. Il populismo si combatte con il coraggio di ricostruire canali democratici, con la fiducia verso la società organizzata, verso il civismo dei corpi intermedi. Da qui un’altra domanda amichevole a Monti: si vuole superare il bipolarismo? Se no, da che parte ci si mette? Il suo progetto di lungo periodo è formare una forza legata al Ppe, dunque potenzialmente antagonista ai progressisti? E se è così cosa dice del fatto che nel Ppe, accanto alla signora Merkel, c’è il populista Orban? Senza dimenticare Berlusconi...»
Il sostegno delle gerarchie cattoliche al progetto di Monti cambiano qualcosa nel rapporto tra il Pd e i credenti?
«Da laico adulto sono convinto che la Chiesa ha il diritto-dovere di esprimere i propri giudizi sulla società nella quale vive e testimonia la fede. Sinceramente sono rimasto colpito dall’esposizione di questi ultimi giorni delle gerarchie nella quotidianità della vicenda politica. In ogni caso, non cambia nulla nell’identità del Pd come partito di credenti e non credenti che si battono per un cambiamento nel sogno della solidarietà e dell’equità sociale. Del resto, anche sui temi eticamente sensibili, abbiamo prodotto dopo un anno di lavoro un documento che tiene insieme i diritti civili con la ricerca di un umanesimo condiviso. E vedo che per ora nel documento di Monti non c’è neppure una parola. Forse è più difficile tenere insieme Riccardi e Montezemolo che non Bersani e Vendola».
C’è anche un nuovo sfidante. Il quarto, o quinto, polo di Antonio Ingroia. Che si è candidato premier polemizzando con Bersani perché si è rifiutato di rispondergli al telefono.
«Io non ho rifiutato nulla. Sono abituato a dialogare con chi vuole davvero dialogare con me. Non è così quando le chiamate pubbliche sono fatte solo per marcare un posizionamento o per fare della propaganda. La proposta dei progressisti è nata in un confronto popolare, non ad un tavolo di oligarchi, ed è stata confermata alle primarie. Da qui si parte e non torniamo indietro. E nessuno si azzardi a dire che la nostra voglia di combattere la mafia ha qualche riserva. La scelta compiuta da Pietro Grasso e le parole nette che ha pronunciato, comprese quelle sulle dimissioni dalla magistratura, sono un segno inequivocabile della nostra determinazione e anche del nostro rispetto per le istituzioni».
Alternativi a Berlusconi e alla destra. Non teme che Monti proverà a rubare al Pd la scena come antagonista del Cavaliere?
«Nessun cittadino italiano dubita del fatto che ogni prospettiva di cambiamento, dopo il fallimento di Berlusconi, ha nel Pd la forza decisiva. Il problema semmai è quanto Berlusconi riuscirà ancora a condizionare l’evoluzione politica. Oggi la destra si trova nelle retrovie culturali e politiche, dopo la sconfitta dei suoi governi e dopo il blocco operato da Berlusconi su ogni ipotesi di rinnovamento interno. Il cambiamento di domani non potrà che vedere la destra fuori da responsabilità di governo. Speriamo che altre forze liberali e democratiche sappiano invece assumersi un impegno di tipo costituente, in nome del bene comune degli italiani».

l’Unità 30.12.12
Bersani twitta slogan e simbolo
Partita la campagna del Pd per le politiche 2013 con manifesti e web
Niente nome sul logo
di V. L.


ROMA «L’Italia giusta», è lo slogan che Pier Luigi Bersani ha scelto per la campagna elettorale del Pd per le elezioni politiche del 2013. Il candidato premier per il centrosinistra l’ha già lanciato su Twitter: «#L’Italiagiusta, l’Italia che bisogna costruire cui gli italiani hanno diritto». Un link rimanda alla visione del manifesto con il suo primo piano e l’invito a votare Pd il 24 e 25 febbraio.
Il leader Pd ci mette la faccia, come si dice, sui manifesti, mentre sul simbolo a fondo rosso non è scritto il suo nome, segno della contrarietà verso i partiti «personali», ma solo un «Vota» con il logo del Partito democratico. Piccolo piccolo, in basso a sinistra, c’è il nome Bersani 2013.
Fondo grigio sfumato, un primo piano con taglio quasi cinematografico all’insegna di una rassicurante e affidabile serietà. Accanto lo slogan «L’Italia giusta», in bianco, declinato sugli aspetti fondamentali della vita pubblica e quindi sul programma di governo del centrosinistra, insomma sull’agenda Bersani: pensare a un Paese «dove il futuro si prepara a scuola» e in cui il «lavoro costruisce la vita», ma anche dove «nessuno resta indietro» perché vengono assicurati diritti e pari opportunità per tutti. Infine, in tempi di populismi vari, «la politica dice la verità».
Insomma, l’intenzione di Bersani e degli strateghi del Pd è quella di comunicare agli elettori gli obiettivi che deve avere un grande partito popolare che si candida a governare il Paese in un momento difficile e complesso come questo, ovvero «rimediare» a tutto ciò che è «poco giusto» in Italia nel presente, e fare «tutto ciò che è giusto per il futuro».
La campagna elettorale del Partito democratico inizia oggi, ultimo giorno delle primarie per scegliere i parlamentari. Nella prima fase saranno affissi i manifesti sui muri delle città di tutta Italia, mentre una grande diffusione avverrà sul web in tutte le ramificazioni dei social network, da Facebook a Twitter ai blog. Un impegno «straordinario», dicono dalla segreteria del partito, di moltissimi «volontari digitali» del Pd che, dall’immateriale Rete, organizzeranno in modo capillare la campagna sul territorio, seggio per seggio.

l’Unità 30.12.12
Bene le primarie
Oggi ai seggi in altre undici regioni, si vota fino alle 21
Forse sarà raggiunto il milione di partecipanti
Cinquantamila volontari hanno reso possibile la consultazione popolare
di Virginia lori


ROMA Ultimo giorno di primarie per scegliere i candidati di Pd e Sel in Parlamento: oltre 1500 i papabili, tanti esordienti e parecchi big con il fiato sospeso perché, almeno nel Pd, chi esce sconfitto dai gazebo non sarà ripescato nella lista dei garantiti. Anche oggi si vota, come ieri, dalle 8 alle 21 ma stavolta tocca a Veneto, Trentino, Friuli Venezia giulia, Emilia Romagna, Toscana, Marche, Lazio, Puglia, Basilicata, Sicilia e Sardegna. Il candidato premier del centrosinistra, Pier Luigi Bersani, voterà alle 11 a Piacenza presso il seggio di via XXIV maggio. A rendere possibile anche stavolta le consultazioni per il popolo del centrosinistra sono oltre 50mila volontari. Alta l’affluenza, forse un milione il totale.
Ieri si è votato in Piemonte, Liguria, Lombardia, alto Adige, Umbria, Abruzzo, Molise, Campania e Calabria, anche se bisognerà aspettare qualche giorno per sapere chi finirà in lista in posizione elegibbile e chi resterà fuori. Per ora non si fanno stime ufficiali sul numero dei partecipanti, ma dal Nazareno, Stefano Di Traglia, a metà pomeriggio posta su Facebook: «Mancano poche ore alla chiusura dei seggi in questa prima giornata di primarie per la scelta dei candidati del Pd alle prossime elezioni. Grazie a tutti i volontari che si confermano impagabili. L’affluenza è ottima, molto meglio del previsto. Ora aspettiamo i dati di domani ma potremmo avvicinarci a numeri impensabili fino a ieri». Impensabili considerando le festività natalizie e la campagna elettorale lampo, tanto che ieri mattina a Bologna i 14 candidati hanno brindato dicendo tuttavia che «i numeri non potranno essere quelli dell’altra volta». «Spero che molti nostri iscritti ed elettori partecipino alle primarie», auspica Matteo Renzi. Qualche dato sull’affluenza alle 18 di ieri in alcune città: a Torino e provincia erano oltre 15mila, circa il 18% sul totale dei votanti al ballottaggio Renzi-Bersani del 2 dicembre (26mila in tutta la Regione), mentre a Milano erano, sulla base di rilevazioni su alcuni seggi, circa 25mila elettori (80mila in Lombardia). A Napoli affluenza bassa durante tutto il giorno, Soccavo e Fuorigrotta le zone della città in cui si è votato di più, al contrario che al Vomero ( 70mila in tutta la Campania). In Abruzzo 20 mila, in Molise 2700, e in Liguria 22mila mentre in Calabria affluenza alta: oltre 54mila su un totale di 105mila. . «Se proseguiamo così dice Maurizio Migliavacca, coordinatore amministrativo Pd domani possiamo arrivare a un risultato straordinario».
«Le primarie di Sel stanno andando in linea con le nostre aspettative», fa sapere il responsabile comunicazione di Sel Gennaro Migliore. Già superare un milione di elettori tra ieri e oggi sarebbe un successo, soprattutto se si considerano i (forse) 35mila elettori delle parlamentarie di Beppe Grillo.
Con la consultazione di ieri ed oggi saranno scelti dagli elettori circa il 90% dei parlamentari Pd, gli altri saranno indicati dalla segreteria e faranno parte di listini bloccati, previsti dal Porcellum. Per ora di certo c’è il nome del Procuratore Antimafia, Piero Grasso, oltre a quelli di Roberto Speranza, Miguel Gotor e Alessandra Moretti (dello staff di Bersani), di Simone bonafé, Roberto Reggi e Giuliano Da Empoli (staff di Matteo Renzi). Tra i probabili figurano il politologo Carlo Galli, Ermete Realacci, Paolo Gentiloni, Joesefa Idem, Massimo D’Antoni, Paolo Guerrieri, Emilio Barucci. Tra i capolista Cesare Damiano, Stefano Fassina, Barbara Pollastrini, Enrico Letta, Dario Franceschini, Franco Marini, Beppe Fioroni.
A Milano, Pippo Civati sfida i parlamentari uscenti Barbara Pollastrini, Emanuele Fiano e Emilio Quartani; in Puglia, il fratello del sindaco di Bari Alessandro Emiliano e quattro consiglieri regionali sfidano i deputati uscenti Francesco Boccia, Dario Ginefra e Gero Grassi. In casa Sel, oltre a Vendola, nel listino bloccato 13 sono dirigenti del partito (tra cui Francesco Forgione, Celeste Costantino, Gennaro Migliore, Claudio Fava, Grazia Francescato) e 9 gli esterni: il giornalista Roberto Natale, la portavoce dell’Unhcr Laura Boldrini, Giorgio Airaudo (Fiom), l’operaio Fiom Giovanni Barozzino, il portavoce della campagna Sbilanciamoci Giulio Marcon, la giornalista Ida Dominijanni, l’eurodeputata verde Monica Frassoni.

il Fatto 30.12.12
Un milione di voti per i parlamentari democratici
di Vincenzo Iurillo e Thomas Mackinson


IERI HANNO VOTATO IL 30% DEGLI AVENTI DIRITTO, OGGI GAZEBO APERTI IN ALTRE REGIONI. RISULTATI ATTESI IL 2. LA POSIZIONE IN LISTA È UN’INCOGNITA

Mi scusi, ma lei che ha fatto?”. La domanda è spiazzante, la location, una specie di centro multi-uso, che nelle indicazioni è uno studio dentistico, pure. Aperitivo elettorale a via Tagliamento, Roma, per Matteo Orfini, giovane turco, classe 1974, responsabile Cultura e Informazione del Pd, carriera politica di lungo corso. “Ho fatto il segretario di sezione da giovanissimo, tanto per cominciare. Poi, sono archeologo”, risponde, largo sorriso, e senza scomporsi, Matteo Orfini, completo scuro, cravatta rossa e parlantina veloce. Orfini è uno di quelli che avrebbero avuto un posto nel listino bloccato, ma che ha deciso di andarselo a guadagnare. Come Stefano Fassina, sempre a Roma, o Andrea Orlando, a La Spezia. “Che differenza c’è con una campagna elettorale con le preferenze? Beh, lì puoi prendere potenzialmente i voti di tutti, qui hai un elettorato bloccato. Per cui, vai un po’ a tentoni, speri di incontrare le persone giuste”. Tanto più, che “gli elenchi dei votanti, io non ce li ho”. Ammessi al voto nelle cosiddette “primarie di Capodanno” gli elettori delle consultazioni del 25 novembre più gli iscritti al Pd nel 2011. E visto che la congiuntura politica lo ha portato a questo, Orfini è in ballo e balla. Venerdì fino a tarda notte una specie di festa con altri “giovani turchi” in una birreria romana. Nel Lazio, come in Veneto, Trentino, Friuli, Emilia. Romagna, Toscana, Marche, Lazio, Puglia, Basilicata, Sicilia Sardegna si vota oggi per i parlamentari di Pd e Sel. E dunque, Orfini ieri ha fatto volantinaggio ai mercati di Subaugusta e di Balduina, poi Magliana e Ostia. Per guadagnare un posto sicuro in lista servono 2500-2700 voti a Roma. 900 candidati nel Pd per 923 posti in lista, a cui però vanno aggiunti i 139 del listino bloccato, tutti blindatissimi. E visto che i parlamentari democratici saranno circa 400, a restare fuori saranno parecchi. Ieri, gli organizzatori, che temevano il flop, cantano vittoria. “Affluenza ottima, meglio del previsto”, in un Tweet di Di Traglia. In serata il 30% nelle Regioni dove si votava ieri (Pie-monte, Liguria, Lombardia, Alto Adige, Umbria, Abruzzo, Campania, Calabria, Molise). Stasera si aspettano dunque, 1 milione di votanti in tutto. Il clima nel complesso sotto-tono. In Lombardia i cittadini sono stati chiamati ai seggi del centrosinistra quattro volte in poco più di un mese. A fine giornata il Pd parla di “scommessa vinta”, comunicando un’affluenza di circa 80mila persone. Ma c’è chi sostiene esattamente il contrario come Pippo Civati, candidato a Monza: “Hanno toppato la data a vantaggio di chi è molto noto e chi ha un forte ascendente sull’organizzazione del partito, non era questo lo spirito delle primarie”. Nelle 50 sezioni milanesi regna un mix di delusione e di orgoglio. Del resto ci sono più posti in lista che candidati, 145 contro 102 e quindi di primarie di “scorrimento” si parla, dove il gioco era piazzarsi nella parte alta della graduatoria. Solo a tarda notte si saprà chi ha avuto la meglio. In corsa a Bergamo c’è pure Giorgio Gori. Qualche polemica nei seggi di Sel: un militante, ad esempio, è riuscito a votare 3 volte in 3 seggi senza avere i requisiti.
A NAPOLI a mezzogiorno e un quarto nella Casa del Popolo di Ponticelli, 58 anni di storia ‘rossa’ del quartiere ultraproletario di Napoli, non c’è nessuno in fila a votare per le parlamentarie del Pd. Quattro ore dopo l’apertura del seggio arrivano in 43 su una platea di 374 aventi diritto. “In questo quartiere i nostri parlamentari di riferimento di una volta erano Napolitano e Chiaromonte” spiega un militante di lungo corso. Ieri c’erano loro, oggi bisogna scegliere tra vari signori delle preferenze con esperienze in Regione e al Comune. Sono all’altezza di quei predecessori? “Perché – risponde – la società attuale è all’altezza di quella di 40 anni fa”? Un signore in cravatta aggiunge: “Queste primarie sono una falsa democrazia, scegliamo tra nomi imposti dal partito”. E allora perché è venuto a votare? “C’è un candidato che mi piace”.
NELLA ZONA Mercato, alle spalle dell’ospedale Loreto Mare, il seggio si trova tra i bassi, nella sede di un’associazione del terzo settore, la ‘Salaam House’. Alle pareti una bandiera della pace e quadretti di Topolino. Alle 13.30 hanno votato in 68 per le primarie Pd e solo 2 per le primarie Sel su una platea di 280 circa. Però i capilista li sceglie Bersani. “Secondo me anche Grasso dovrebbe passare attraverso le primarie per vedere se realmente è gradito alla base democratica”, si lascia scappare uno del seggio. A Napoli ispira maggiore simpatia il magistrato anticamorra Raffaele Cantone, sul quale si sta intensificando il pressing da Roma. “Cantone in lista? Sarebbe fantastico” sintetizza una volontaria del polo oncologico-pediatrico Pausilipon, che ha appena votato nel seggio ‘borghese’ di via Posillipo 317. Sono le 15 e hanno votato in circa 360 su una platea di 1160 nel seggio ricavato nell’androne di un palazzo signorile con vista spettacolare sul mare e sul Vesuvio, dove però non c’è neanche il bagno. In serata in Campania sono 30mila.
Se il voto è durato 2 giorni per lo spoglio complessivo si deve aspettare il 2 gennaio. E per capire chi sarà effettivamente in lista si arriva a metà mese.



l’Unità 30.12.12
Ora la vera sfida è sulle idee
di Mario Tronti


Adesso la partita si fa interessante. Vale la pena di giocarla: ciascuno mettendo in gioco se stesso, sul piano strettamente elettorale, su quello generalmente politico, su quello specificamente culturale. Un tempo veramente si chiude. Malgrado il Cavaliere sia in campo, il suo cavallo è con tutta evidenza azzoppato.
Altri protagonisti occupano la scena. Se servono per buttare alle spalle, insieme, berlusconismo e antiberlusconismo, ben vengano. A me piace l’espressione «salire in politica». Dell’invito a considerare la politica un livello alto dell’agire umano, c’è oggi urgente necessità. Se n’è accorto perfino, pro domo sua, il Vaticano. Ma c’è un’altra espressione felice del Monti politique d’abord, che è stata meno commentata: «non ci si aggrega intorno alle persone, ma intorno alle idee». Bene, viene da rispondere. Solo che andrebbe rilevata la patente contraddizione con l’eventuale suo nome sulle liste elettorali. No, professore, non si può così nobilmente salire in politica e poi così banalmente scendere in campo.
E tuttavia l’attuale forza tranquilla Pd-Sel non solo non ha da preoccuparsi, ha, direi, da rallegrarsi. Se il confronto politico fa un salto di livello, la politica può riprendere quota. Il discorso pubblico ha bisogno di un ritorno alla crescita, equa e sostenibile, almeno quanto il meccanismo economico. I problemi premono. E le soluzioni ai problemi non coincidono. Ci sono ricette diverse per uscire sia dalla crisi economica che dalla crisi politica. Misurarsi sui contenuti delle proposte di cambiamento è la vera novità da introdurre e che finalmente si può introdurre. Vecchia musica invece praticamente la colonna sonora che ha accompagnato il film della seconda Repubblica, e il racconto ideologico del trentennio neoliberista è ripetere che gli innovatori stanno nel centro-destra e i conservatori nel centro-sinistra. I tecnici competenti non ci vengano a dire sottovoce le stesse cose che i politici improvvisatori gridavano sui tetti. Così, non ci intendiamo. E un’intesa sul metodo del discorso è la premessa per un confronto sul contenuto. La vera Agenda Monti che conosciamo è quella di un anno di governo. Quella che leggiamo sul web non è proprio la stessa cosa, anche perché somiglia molto a un programma elettorale. Non c’è difficoltà a discuterne. L’incontro d’anime Monti-Ichino è un passaggio di illuminante chiarezza. Andiamo verso una disposizione degli schieramenti, verrebbe da dire, politicamente corretta, con le persone giuste al posto giusto.
Un provvisorio schema tripolare è l’unico che può mandare in soffitta il cattivo bipolarismo della seconda Repubblica. Una destra populista e lideristica, un robusto centro dei moderni moderati, una solida forza democratico-riformista. Queste due ultime formazioni hanno un transitorio compito comune: quello di asciugare, fino a renderle marginali, le pulsioni antipolitiche, che vivono e vegetano, prima che nella testa del ceto politico, nella pancia del Paese reale. Ci vuole, in una legislatura saggiamente costituente, un’educazione civica alla buona politica, fatta non di prediche morali, ma di esemplarità viventi, nei comportamenti, negli atti, nei pensieri, delle persone. Questo sfondo strategico potrebbe giustificare, al di sopra delle contingenti scelte di governo, una, appunto, transitoria intesa. Compromesso e conflitto, a differenza di quanto comunemente si pensa, non sono del tutto alternativi. Possono convivere nel tempo, e nel tempo disporsi in sequenza. Forse oggi comincia a diventare possibile quello che per un troppo lungo periodo, qui da noi, è apparso solo necessario: una competizione «europea» tra lo schieramento dei popolari e lo schieramento dei democratici. Nessuna paura. Anzi, l’accettazione di una sfida. Un soggetto politico mostra al mondo la sua maturità quando sa disporsi come forza di governo e come risorsa di sistema.
Non sto scantonando dai problemi più urgenti. Il prossimo governo, politico, sarà obbligato a mettere al centro la questione sociale, che vuol dire un programma di giusta riconsiderazione della distribuzione tra redditi e tra poteri. Qui si segnerà la discontinuità con la compagine dei professori e delle professoresse. La crisi economico-finanziaria ha, per suo conto, fatto vedere il problema. Anche se la sua presenza è di più lunga durata, come ha bene e più volte argomentato Alfredo Reichlin. E qui, il riformismo è di centro-sinistra e il conservatorismo di centro-destra.
Ma, se mi è permesso, vorrei, con un passo a lato, consigliare, mentre si pensa al governo, di pensare al partito. Una cosa si è capita, dall’esperienza di questi anni e decenni: per un governo più forte ci vuole un partito più grande. Molta della debolezza dei passati governi di centro-sinistra stava nel fatto che una vasta coalizione non aveva dietro un grande partito. Adesso le condizioni sono diverse. Ma vanno consolidate. È da imparare la guida che spinge contemporaneamente, alternativamente, sui due pedali, governo e partito, per tenere sotto controllo velocità e sicurezza del percorso. C’è un ritardo. Sarebbe stato opportuno arrivare al governo, avendo già risolta l’unità della sinistra dentro il Pd. Ci sarebbero state meno difficoltà per le alleanze, prossime, agitate oggi in modo insidioso, da chi ha interesse a indebolire il partito di maggioranza relativa, avvicinandolo al liberismo, allontanandolo dal riformismo.
Le primarie sono uno strumento richiesto dalle contingenze e opportunamente accolte: per il candidato premier, dal residuo di un bipolarismo personalizzato; per i candidati al Parlamento, dalla permanenza del Porcellum. Due cose che vanno presto cancellate. Ma non si presuma di supplire in permanenza con questo solo strumento alla forma organizzata della politica. Occorre che il partito si rilegittimi non ho difficoltà a usare l’espressione come moderno Principe. Al tempo della politica personalizzata, il partito è la persona collettiva che decide: in grado di selezionare, attraverso il consenso attivo dei militanti e degli iscritti, i suoi gruppi dirigenti, comprese rappresentanza parlamentare e leadership nazionale; in grado di ascoltare il Paese, ma anche di parlare al Paese, non inseguendo l’opinione, ma orientandola, con un progetto di trasformazione delle cose, mobilitante, affascinante, che se dovessi definirlo in due parole, sceglierei: realistico e visionario. E capace di farsi riconoscere questa autorità autonoma, di parola e di azione, a livello di popolo.

Corriere 30.12.12
A lezione dal compagno Ratzinger
Contro il «bipolarismo etico» torna l'idea di una convergenza tra cattolici e sinistra Barcellona, Sorbi, Tronti e Vacca sul terreno scivoloso dei «valori non negoziabili»
di Antonio Carioti


In Italia le discussioni sui temi etici si sono sviluppate in prevalenza lungo il crinale della contrapposizione tra laici e cattolici. Divorzio, aborto, procreazione assistita, trattamento dell'embrione, riconoscimento delle coppie di fatto (specie se omosessuali), testamento biologico: su ciascuno di questi argomenti le posizioni della gerarchia ecclesiastica hanno fatto da discriminante principale, benché non tutti i fedeli si siano adeguati alle sue direttive, che peraltro hanno spesso riscosso anche il consenso di non credenti.
Sarebbe fuorviante ricondurre il fenomeno a una dialettica tra fede e secolarismo, se non altro perché a tal proposito le confessioni cristiane riformate, tipo i valdesi, divergono nettamente dalla Chiesa di Roma. Semmai, come emerge dal recente libro di Giovanni Fornero e Maurizio Mori Laici e cattolici in bioetica: storia e teoria di un confronto (Le Lettere), si tratta di un conflitto tra diverse concezioni dell'uomo. Una, in sintonia con il magistero ecclesiastico, afferma la sacralità e indisponibilità della vita biologica, oltre che il primato assoluto della famiglia tradizionale. L'altra privilegia l'autonomia dell'individuo in materia di procreazione, comportamenti sessuali, situazioni di fine vita.
La convinzione che tale «bipolarismo etico» abbia effetti negativi è alla base dell'appello «per una nuova alleanza tra credenti e non credenti» lanciato nell'ottobre del 2011 da quattro studiosi provenienti da sinistra: il giurista Pietro Barcellona, ex deputato del Pci; l'ex dirigente di Lotta continua, oggi docente all'Università Europea dei Legionari di Cristo, Paolo Sorbi; il padre dell'operaismo italiano Mario Tronti, che presiede il Centro per la riforma dello Stato fondato da Pietro Ingrao; il presidente della Fondazione Istituto Gramsci Giuseppe Vacca.
Il documento operava un'esplicita apertura verso Benedetto XVI, tanto che si è parlato ironicamente di «marxisti ratzingeriani». In effetti i quattro autori, oltre a denunciare la «manipolazione della vita» come «la radice più profonda della crisi della democrazia», additavano in due motivi ricorrenti del magistero pontificio, cioè il rifiuto del «relativismo etico» e il concetto di «valori non negoziabili», un terreno d'incontro propizio per «la costruzione di un umanesimo condiviso». Se si aggiunge un accenno, non limpidissimo, alla tutela «della persona umana fin dal concepimento», ce n'era abbastanza per configurare un distacco dalle idee prevalse nel Pd sui temi etici, nonostante il richiamo ad alcune generiche affermazioni di Pier Luigi Bersani, in fatto di confronto con la Chiesa, che non avrebbero sfigurato in bocca a Palmiro Togliatti mezzo secolo fa.
Oggi quel testo viene riproposto nel volume Emergenza antropologica (Guerini e Associati), insieme a interventi di altri autori, con una premessa in cui Barcellona, Sorbi, Tronti e Vacca si sforzano di definire meglio il loro pensiero, anche in rapporto alle critiche ricevute. Ad esempio specificano che considerare la vita come un valore in sé non preclude, a loro modo di vedere, «la libertà femminile nel caso di interruzione della gravidanza, o la libertà delle donne e degli uomini di far valere le loro scelte sul modo di accompagnare il finire della vita».
Precisazioni utili, ma ardue da conciliare con i richiami all'insegnamento di Benedetto XVI: se si reputa la tutela dell'embrione un «valore non negoziabile», quindi in nessun caso sacrificabile, non c'è modo di giustificare la legge 194 sull'aborto, che andrebbe dunque profondamente modificata. Ma si ha l'impressione che i «marxisti ratzingeriani» abbiano evocato le formule papali facendo finta di non coglierne la portata, o meglio cercando di attenuarla surrettiziamente. Perciò individuano il comune nemico nel fantoccio polemico della «torsione nichilista dei processi di secolarizzazione», quando il vero bersaglio degli strali pontifici è piuttosto il principio dell'autodeterminazione individuale, cioè il pilastro della bioetica laica cui s'ispira la sinistra in tutta Europa.
Se il declino di una visione tradizionale della natura umana — cioè l'«emergenza antropologica» come la intende Ratzinger — è la minaccia da bloccare, gli avversari peggiori sono i socialisti francesi e spagnoli, i governanti olandesi, belgi e scandinavi, mentre un prezioso alleato può essere la destra evangelica americana. E qualche merito va riconosciuto pure a Silvio Berlusconi.
Sembra quasi che i quattro firmatari del documento vogliano promuovere una specificità italiana, che ci distingua dal resto dell'Occidente in virtù del ruolo particolare svolto dalla Chiesa. Usano perfino l'espressione «unità politica, etica e religiosa della nazione», che presa alla lettera avrebbe riflessi autoritari, ma va invece ricondotta all'afflato organicistico che ha sempre animato la ricerca di un incontro epocale tra masse progressiste e cattoliche. Il «bipolarismo etico» ha vari inconvenienti, ma un nuovo compromesso storico «marxista ratzingeriano» non pare un rimedio valido.

il Fatto 30.12.12
L'intervista. Vittorio Feltri
“La Chiesa lo ha mollato perché non può vincere”
di Tommaso Rodano


Non sono il direttore: non faccio i titoli e non rispondo della linea editoriale”. Vitto-rio Feltri si avvale della facoltà di non rispondere. Lo stesso Giornale che il giorno dopo la morte di Eluana Englaro titolava a tutta pagina “L’hanno ammazzata”, oggi apre a caratteri cubitali con “Hanno venduto il papa a Monti” (venerdì) e “Monti appalta l’Italia ai preti” (sabato). Ma la svolta “laicista”, insiste Feltri, non è farina del suo sacco. Lui scrive e basta.
Eppure il direttore di Avvenire Marco Tarquinio, nell’editoriale di ieri se l’è presa proprio con lei.
Non l’ho letto. Avvenire non è nella mia mazzetta. Ma ha citato il mio nome?
Sì.
La ringrazio per avermelo detto, se ci sono gli estremi si può fare anche una bella causa civile.
Tarquinio ha scritto che il suo pezzo è una “meschina e ridicola mascalzonata intellettuale”, che la penna di Feltri è “perennemente intinta di astio e pregiudizio verso i nuovi nemici” e che “ogni botte dà il vino che ha”.
Si vede che nella sua, di botte, c’è del vino che dà alla testa. Nel mio articolo non c’erano proprio i concetti che lei mi vuole accreditare. Vorrei ricordare a Tarquinio, ammesso che l’editoriale l’abbia scritto lui, che non sono dirigo il Giornalee il titolo non è mio. Mi stupisco che a un professionista di lungo corso sfuggano questi dettagli.
Con Avvenire lei non è fortunato. Non è che risponde a Tarquinio col metodo Boffo?
Si vede che non conosce la storia di Dino Boffo. A me risulta che abbia dato le dimissioni e il cardinal Bagnasco le abbia accettate.
Forse per la campagna pesantissima montata grazie al documento falso che avete pubblicato?
Ma la notizia era vera: parliamo di un signore che ha avuto una condanna per molestie.
Torniamo alla politica. Come spiega l’innamoramento della Chiesa per Monti?
È una legittima protezione dei propri interessi temporali. Il Vaticano ha sempre tentato di andare d’accordo con il potere politico italiano. Altrimenti non sarebbe riuscito a campare 2000 anni e passa, mi pare chiaro.
E Monti è davvero il loro cavallo vincente?
Non faccio il prete, per fortuna: faccio il giornalista. Però prendo atto che Berlusconi andava bene quando quando faceva sacralizzare l’embrione con la legge sulla procreazione assistita. Ai tempi era l’uomo della provvidenza. Si vede che la provvidenza ha un umore mutevole... Ma è legittimo, anche se non sono cattolico, né credente.
Il Vaticano abbandona Berlusconi. Tutta colpa del bunga-bunga?
Non saprei, non ho colloqui né con Bertone né con Bagnasco. Ma è evidente che ci sia un certo imbarazzo a sostenere Berlusconi in un momento così, tra la condanna del processo Media-set, il bunga bunga e i vari scandali sessuali. Probabilmente suscita qualche imbarazzo.
Prima su certi imbarazzi si riusciva a passare sopra...
Prima della lettera di Veronica Lario, Berlusconi era criticato per questioni politiche. Poi si è passati al vaglio dei suoi comportamenti personali.
Il vento è cambiato.
Certo, e lo capiscono anche i preti. E poi Monti è cattolico praticante e la domenica va a Messa. C’è sintonia.
Ma ora che l'ha mollato anche il Vaticano, quali sono le ambizioni del Cavaliere?
Non penso che possa vincere le elezioni. Non vuole cedere le armi e combatterà fino all’ultimo per affermare che il suo non è un partito fantasma. Può succedere di tutto e i sondaggi lo danno in risalita. Ma se proprio dovessi scommettere, lo farei sulla sua sconfitta.
Su Monti il Giornale è in piena campagna elettorale e i toni non promettono bene.
Non ricominciamo con la linea editoriale... Non ho niente di personale contro Monti: ci ha fatto fare un bel passo avanti, sì, ma verso il burrone. Magari all’estero ci rispettano di più e sotto il profilo dell’eleganza ne abbiamo guadagnato. Anche io ho quattro o cinque loden: sul loden sono d’accordo, sul Pil no.

il Fatto 30.12.12
Monti il pastore e i vecchi presepi
di Furio Colombo


Ritorna la speranza” (dice il manifesto di una nuova destra) e ha gli occhi di La Russa. La Russa infatti è di quelli, che pur di non andare con Berlusconi, hanno fondato un partito. Tanto non c'è bisogno di firme di cittadini per chi è già radicato alla Camera e vorrebbe sfuggire al portone chiuso. È un imbroglio. Perché lui sì e gli altri no, una democratica differenza di centinaia di migliaia di firme da raccogliere davvero da un capo all'altro della penisola se non sei già dentro? Intanto si ode uno scampanio vaticano che suona a raccolta per Mario Monti. Bisogna ammettere che la vicenda è strana. Se un uomo nuovo avanza con un suo programma (la mitica agenda), un suo lavoro già svolto (giudicatelo come volete, ma non è poco, in un anno) e vanta, con buone ragioni, il salvataggio del Paese dal baratro, e va e viene attraverso l'Europa tra un coro di applausi e di autorevolissimi apprezzamenti, c'è qualcuno che può spiegare la corsa dei cardinali a sostenerlo?
TRASFORMANO un dignitoso evento politico che poteva benissimo proseguire con il loden e senza la stola, in un teatro alla Jean Genet. D'accordo, Monti è cattolico. Ma anche John Kennedy lo era, e ha fatto tutto da solo (cercare i voti, impegnare la sua credibilità e poi governare). Qualcosa è successo, adesso, in Italia, in un momento difficile ma non così spaventoso come quando Berlusconi governava l'Italia, diffamandoci in Europa, si premiava da solo , non esitava a proclamare pubblicamente “esemplare eroe italiano” un pluriassassino di mafia, organizzava “cene eleganti” sempre meno nascoste, pagando personalmente le donne che lo intrattenevano (a proposito, che fine ha fatto il “rapito” ragionier Spinelli?) e solo la moglie, facendosi largo fra commentatori con cattedra e spazio adeguato sui grandi giornali, ha avuto il coraggio di denunciare l'indecenza, il ridicolo, il precario stato mentale del marito malato.
Dunque Monti, candidato rispettabile, noto e riconosciuto, in un Paese finora reso non rispettabile da diciotto anni di malavita al governo, è protagonista di un evento non chiaro: il nuovo leader si nega, fa l'Amleto, poi si concede, ma alla guida elettorale e politica di un segmento sproporzionatamente piccolo (nel senso dei numeri e nel senso della crescita possibile) di partiti e di potenziali elettori.
E MENTRE lo fa, i cardinali si sovrappongono l'uno all'altro per celebrarne virtù e qualità, una specie di imbarazzante canonizzazione in vita. Che Monti sia un'altra cosa, con un'altra agenda, molto più cara, di là dal Tevere, della riforma Fornero, per esempio le coppie di fatto, il pericolo gay (pericolo per la pace, secondo Papa Ratzinger, ricordate?) il rischio di un ritocco civile alla legge sulla procreazione assistita? Certo la domanda non è amichevole. Ma è inevitabile. E ci porta di fronte a una delle principali figure di questo presepe pirandelliano.
Invece dei pastori, dei santi e dei magi, ci sono figure altrettanto finte e simboliche, però parte di un puzzle che può cambiare tutti i significati. Tra i finti Magi di questo presepe c'è uno che non viene per portare doni ma per prenderne. Viene da un Paese chiamato “Conflitto di Interessi”. Ci dice una esploratrice di provata bravura, Milena Gabanelli (Corriere della Sera, 29 dicembre) che, sommando l'effetto di ogni annuncio di “discesa in campo” (cinque, diversi e non consecutivi, anzi deliberatamente tenuti in sospeso) i titoli Media-set (finora in costante declino) hanno avuto un balzo complessivo del 27 per cento. È un tesoretto per il quale vale la pena di forzare le porte degli studi di una decina di televisioni, una dopo l'altra, a un giorno o a un'ora di distanza, includendo tutta la Rai, e senza incontrare non dico il divieto del metronotte (che cosa ci fa quel signore truccato da varietà negli studi di un telegiornale?), ma almeno dei consiglieri di amministrazione Rai di nomina “società civile” il cui silenzio, invece, è stato educatissimo.
PER ESEMPIO come mai il buon zampognaro Bersani, che tutti hanno ammirato quando si è messo in fila con gli altri zampognari (uno rumorosissimo) per trovare il suo posto nella scena, non ha chiamato pastori e pecore a fare blocco davanti alla prepotenza di quello dei Magi che non dona niente e prende tutto e dopo avere distrutto e depredato mezzo presepe, vuole anche che lo mettano il più vicino possibile alla greppia?
Ma per il momento, nel finto presepe delle statuine che sono e non sono, vere e non vere (quella di Vendola, cercatore di pecorelle smarrite, sta un po’ nascosta dalla mole dello zampognaro Bersani, eppure è forse la ragione di tutto il trambusto sui valori cristiani) non tutti i significati e i ruoli sono chiari.
Per esempio la figura distinta del pastore col loden sembra la sola a sapere quale mano mette i pezzi del presepio e dove. Sa di poter annunciare che guiderà in modo del tutto nuovo e diverso. Venite. Non dice dove. E nel suo gregge non riesci a identificare – per ora – una pecora nuova, o, tranne lui, un pastore diverso.

il Fatto 30.12.12
Berluscones smemorati
Alla destra contro i preti: ricordate Eluana Englaro
di Marco Politi


Alla fine, come spesso succede ai grandi amori, finisce a pesci in faccia. Vittorio Feltri, piccato perché il suo Cavaliere in queste elezioni non è più il beniamino della Chiesa, spara a zero sul Vaticano poiché i “porporati” hanno benedetto il partito di Monti. Di sicuro, scrive Feltri, “un miracolo il Professore l’ha già compiuto in articulo mortis… ha finanziato l'ospedale Gaslini di Genova (sta a cuore ad Angelo Bagnasco) e l’ospedale Bambin Gesù di Roma (sta a cuore a Tarcisio Bertone) ”. Titolo del Giornale: “Vendono il Papa a Monti per 17 milioni”.
Replica il direttore di Avvenire e sono, come si dice a Napoli, “paccheri alla cecata”! Schiaffoni a tutto spiano. Il Giornale, fedele alleato in tante battaglie (tranne la carognata contro Boffo), diventa contenitore di tutte le nequizie: “Menzogne e farneticazioni strillate a caratteri cubitali”. E nel bollare “quegli uomini che hanno un prezzo… e cercano di giustificarsi agli occhi del mondo (e forse anche ai propri) appiccicando cartellini di prezzo agli altri”, il direttore del quotidiano dei vescovi mena un fendente micidiale a Feltri: “Si è ridotto a fare l’appiccicatore di cartellini. Uno che, per conto terzi, misura con il suo cinico metro la vita degli altri”. Certo è difficile spostare di colpo i cannoni dopo che per un ventennio la carovana berlusconiana, di cui l’ex direttore del Giornale era un ardito, si sentiva sicura della benevolenza d’Oltretevere.
Così polemico con la Chiesa il gran Vittorio non era ai tempi della canea scatenata contro Beppino Englaro, perche rivendicava il diritto della figlia Eluana di spegnersi in pace. Allora faceva parte del gran partito che (9 febbraio 2009) urlava in parlamento “assassini, assassini” contro Englaro, contro i laici e i cattolici rispettosi del diritto di morire secondo natura e contro il presidente Napolitano, oppostosi al grottesco decreto-legge con cui Berlusconi voleva sovvertire la sentenza del tribunale, che autorizzava Englaro a interrompere l’accanimento sul corpo di Eluana. Allora Feltri (direttore di Libero) definiva la sentenza della magistratura un “nulla-osta alla morte” e in sintonia con l’Avvenire titolava in prima pagina “Eluana uccisa in fretta”, accusando Berlusconi di essersi mosso troppo tardi e riducendo tutta la drammatica vicenda a una contesa tra cattolici e laici.
Era in nutrita compagnia, d’altronde. Il senatore pdiellino Quagliarello sbraitava “Eluana è stata ammazzata”, il sempiterno fascista Gasparri sentenziava “in questa vicenda peseranno le firme messe e quelle non messe”, l’Avvenire proclamava “Eluana è stata uccisa” e Berlusconi lamentava che la “cultura della morte” avesse prevalso sulla vita. Di conserva la predica del teocon Ferrara sul Foglio: “La disabile uccisa a Udine”. Intanto, sempre su Libero, il pasdaran cattolico Socci si scagliava contro il padre di Eluana e aggrediva Napolitano accusandolo di aver “manifestato la sensibilità alla vita che può avere chi come lui viene dalla storia comunista, di dirigente del comunismo internazionale del Novecento”. Per capirsi: assassini e fautori dei Gulag gli uomini e le donne (maggioranza in Italia, si badi bene) che ritenevano giusto e legittimo l’operato di Beppino Englaro.
Feltri, oggi contestatore anti-Chiesa, non si stupisca però dei cambiamenti di fronte ecclesiastici. È storia. Si consoli, pensando che il filo-Vaticano Rutelli fu mollato a favore di Alemanno nelle elezioni comunali romane del 2008. Non serviva più.

il Fatto 30.12.12
La benedizione del Santo Padre
risponde Furio Colombo


CARO FURIO COLOMBO, a giudicare dalle parole dell'Osservatore Romano, giornale del Papa, il presidente Monti è "salito in politica" anche nel senso teologico della parola. Ci stanno dicendo che è "assunto" nel cielo della politica, che è cosa alta e nobile non come quella nuvolaglia della politica di prima. Il problema adesso è: chi, quanti saliranno al cielo con lui?
Mino

DAL PUNTO DI VISTA delle idee, tutto mi sembra legittimo. A Monti piace il Vaticano, e questo è naturale per un credente. Al Vaticano piace Monti e questa è una buona notizia, visto che il Vaticano, dagli anni Venti in avanti si è fatto piacere ben altra gente, e ha dato una mano fino a poco fa, in modo davvero caritatevole, a un pregiudicato malvisto in tutta Europa e con qualche problema anche in America (al punto da non poterci mettere piede). Dunque la notizia da un lato è normale, dall'altra è buona. Resta però atipica. Infatti raramente il Vaticano si sbilancia tanto da usare il suo giornale per un "endorsement" o atto preventivo di fiducia, come fanno i giornali americani con l'uno o l'altro candidato, prima delle elezioni. Il problema è che il Vaticano è uno Stato insediato in Italia, legato alla Repubblica italiana dal concordato e da un intrico di leggi, e di norme amministrative (si pensi alla questione dell'I-MU, una tassa largamente evasa dalla Chiesa con beneplacito dello Stato Italiano). Ma un simile, formale, solenne tipo di "endorsement ", viene da un giornale che è voce di governo straniero. E viene da un giornale che è voce della Chiesa e della religione cattolica, dunque un legame comune alla gran parte degli italiani. Sono due fatti non proprio a favore della coraggiosa iniziativa vaticana. "Coraggiosa" nel senso che ci vuole coraggio a non far caso ai due problemi appena notati. Ci rendiamo conto che anche alla Chiesa non sembra vero di potersi comportare come se Berlusconi non esistesse e non fosse mai esistito. Non rimprovereremo adesso a Chiesa e Vaticano di farlo così tardi e poco prima di una competizione elettorale in cui Berlusconi non conta niente. Ma è pur sempre presente. Meglio tardi che mai. Ma come si fa a essere d'accordo con l'idea di mettere le mani nelle elezioni degli altri in modo così vistoso, persino se il candidato in questione è una brava persona?

Repubblica 30.12.12
Per favore professore, non rifaccia la Dc
di Eugenio Scalfari


È CAMBIATO in appena una settimana. Domenica scorsa, davanti ad un’affollata platea della Federazione della stampa, Mario Monti aveva parlato da uomo di Stato tracciando le linee maestre d’un programma (o agenda che dir si voglia) per completare l’uscita dall’emergenza e proiettare il Paese verso il futuro dell’Italia e dell’Europa. Aveva ripetuto un punto di fondo che già conoscevo e avevo scritto riferendo una conversazione avuta con lui il giorno prima: «Dobbiamo riformare la pubblica amministrazione per adeguarla alla società globale e dobbiamo costruire lo Stato federale europeo. Si tratta di compiti estremamente impegnativi, pieni di futuro e di speranze e per condurli a termine è necessaria una grande alleanza di forze sociali e politiche che accettino questo programma».
E poi l’agenda delle cose concrete da fare: completare la legge contro la corruzione, portare avanti le liberalizzazioni, ripristinare il reato di falso in bilancio, varare una legge che risolva il conflitto d’interesse. E soprattutto, mantenere gli impegni assunti con l’Europa, stabilizzare il rigore dei conti pubblici e avviare la seconda parte di quegli impegni, la crescita economica, il lavoro, l’equità, il taglio delle spese correnti, l’alleggerimento delle imposte sul lavoro e sulle imprese, la produttività e la competitività, l’abolizione delle Province, il ruolo delle donne, il tasso demografico. «Fate più bambini» aveva concluso.
Quanto a lui, avrebbe atteso di vedere quali forze sociali e politiche avessero fatto propria la sua agenda.
Se gli avessero chiesto di dare il suo contributo alla realizzazione di quel programma, era pronto ad assumerne la responsabilità. Un bellissimo discorso, di chi opera nel presente guardando al futuro, all’insegna di uno slogan che era molto più di uno spot: il cambiamento contro la conservazione.
Ma appena due giorni dopo aveva già iniziato colloqui riservati con l’associazione di Montezemolo e con i centristi di Casini e di Fini, avendo come consiglieri i suoi ministri Riccardi e Passera; poi aveva incontrato il giuslavorista Ichino in rapido transito dal Pd alla montiana coalizione centrista; i dissidenti del Pdl guidati da Mauro, mentre cresceva il numero dei ministri del suo governo interessati a proseguire con lui l’esperienza iniziata un anno fa.
Intanto fioccavano gli “endorsement” da quasi tutte le cancellerie europee e americane ed uno decisivo da ogni punto di vista del Vaticano, proveniente dai cardinali Bertone e Bagnasco e dall’“Osservatore Romano”. La Chiesa, o almeno la sua gerarchia, lo vorrebbe alla guida dell’Italia per i prossimi cinque anni.
Quindi centrismo e una spolverata cattolica. Era salito in politica domenica ma già da martedì stava scendendo per mettersi alla testa di una parte. Si era alzato dalla panchina dove, secondo l’opinione del Capo dello Stato, avrebbe dovuto restare fino a dopo le elezioni, pronto a dare soltanto allora, a chi glielo chiedesse avendone acquisito il titolo elettorale, il contributo della sua competenza e della sua autorevolezza.
Invece non è stato così. Restano naturalmente da definire ancora parecchie questioni: «Per l’agenda Monti» oppure «Per Monti» o addirittura «Monti presidente »? Su questi punti si discute ancora ma si tratta di dettagli. Intanto il commissario Bondi che finora si era dedicato con efficacia alla revisione della “spending review” si sarebbe impegnato al controllo delle nuove candidature per quanto riguarda i redditi, il patrimonio e gli eventuali conflitti di interesse.
Con il fronte berlusconiano la rottura politica è stata completa e definitiva. Questo è un fatto certamente positivo. Bersani è definito invece affidabile ma la Camusso e Vendola sono considerati più o meno bolscevichi. Casini e Fini sono appendici interessanti ma
ovviamente subalterne, aderiscono ma è lui a dettare le condizioni. Benissimo il Vaticano purché senza ingerenze. Ovviamente. Del resto il Vaticano non ne ha mai fatte, neppure ai tempi di Fanfani, di Moro, di Andreotti. Ha sempre e soltanto suggerito su questioni concrete e specifiche. La prassi è sempre stata la buona accoglienza del suggerimento. Con Berlusconi poi non ci fu nemmeno bisogno di suggerire: lui giocava d’anticipo. Gli bastava un monosillabo o addirittura un mugolio, tradotto da Gianni Letta. Perciò adesso si sente tradito e forse tra poco si dichiarerà anticlericale.
Da venerdì scorso comunque Mario Monti è a capo della coalizione centrista. La panchina è vuota, perfino i palazzi del governo sono semivuoti, eppure nei 60 giorni che mancano alle elezioni ce ne sarebbero di cose da fare, di provvedimenti già approvati ma privi di regolamentazione, di pratiche da portare avanti, per quanto mi risulta in ufficio c’è rimasto soltanto Fabrizio Barca, ministro della Coesione territoriale. Lui ha idee di sinistra, quella buona per capirci, non quella di Ingroia dove si parla solo della rivoluzione guidata dalle Procure e dell’agenda di Marco Travaglio.
Perfino il commissario Bondi ha smesso di occuparsi di “spending review” per il nuovo compito sulla formazione delle liste. Lo fa nel tempo libero o in quello d’ufficio? Ecco una domanda alla quale si vorrebbe una risposta.
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Sono andato a controllare l’agenda Bersani. Sì, c’è anche un’agenda Bersani che senza strepito è da tempo disponibile a chi vuole conoscere i programmi dei partiti. Ce ne sono pochi in giro di partiti che non siano proprietà d’una sola persona. Anzi non ce ne è nessuno tranne il Pd. Dispiace, ma questa è la pura realtà.
L’agenda Bersani dice questo: 1. Mantenere gli impegni presi con l’Europa in tema di rigore dei conti pubblici e di pareggio del bilancio.
2. Tagliare la spesa corrente negli sprechi ma anche nelle destinazioni non prioritarie.
3. Destinare il denaro recuperato per diminuire il cuneo fiscale e le imposte sui lavoratori e sulle imprese.
4. Aumentare la lotta all’evasione e la tracciabilità
necessaria.
5 Completare la legge sulla corruzione (il testo è già stato presentato in Parlamento).
6. Ripristinare il falso in bilancio.
7. Varare una legge sui conflitti di interesse e sull’ineleggibilità.
8. Adempiere agli obblighi assunti con l’Europa anche per quanto riguarda equità, occupazione, sviluppo, ancora fermi al palo.
9. Destinare le risorse disponibili alla scuola e alla ricerca, come proposto dal bolscevico Nichi Vendola e già realizzato in Francia da Hollande (che però bolscevico non è).
10. Cambiare il welfare esistente e non più idoneo con un welfare moderno e comprensivo di salario sociale minimo per i disoccupati.
11. Tagliare drasticamente i costi della politica, le Province, la burocrazia delle Regioni, privilegiando i Comuni e avviando i lavori pubblici territoriali finanziandoli con i fondi derivanti dal ricavato dell’Imu.
12. Diminuire il numero dei parlamentari come si doveva fare in questa legislatura e non si fece per l’opposizione del Pdl.
13. Rifare la legge elettorale basandola su collegi uninominali a doppio turno.
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Tra l’agenda Bersani e quella Monti non vedo grandi differenze, anzi non ne vedo quasi nessuna salvo forse alcune diverse priorità e un diverso approccio alla ridistribuzione del reddito e alle regole d’ingresso e di permanenza nel lavoro dei precari. E salvo che l’agenda Bersani è stata formulata prima di quella Monti e in alcune parti avrebbe potuto utilizzarla anche l’attuale governo se avesse posto la fiducia su quei provvedimenti.
Conclusione: non esiste né un’agenda Bersani né un’agenda Monti. Esiste un’agenda Italia che dovrebbe essere valida per tutte le forze responsabili e democratiche. Non è certo l’agenda di Berlusconi, né di Grillo, né della Lega, né di Ingroia.
L’agenda Italia – è utile ricordarlo – è un tassello dell’agenda Europa ed è realizzabile soltanto nel quadro di un’Europa federata che tutti dobbiamo avere a cuore e costruire. Chi voterà l’agenda Italia può affidarne la guida a forze liberal-moderate o a forze liberal-socialiste.
Vinca il migliore ma nomini vicepresidente del Consiglio Roberto Benigni con delega alla Costituzione. Scrivetelo nelle vostre agende, sarebbe una magnifica innovazione.
Una nuova Democrazia cristiana no, per favore. Noi vecchi (parlo per la mia generazione) abbiamo già dato. Quanto ai giovani, non è più l’epoca delle Madonne pellegrine.
Post scriptum.
I professori Giavazzi e Alesina, delle cui conoscenze economiche ho una riluttante stima, hanno scritto venerdì scorso sul “Corriere della Sera” che il solo modo per tagliare quanto è necessario la spesa corrente dello Stato è il restringimento delle sfere di competenza dello Stato medesimo. Ordine pubblico, giustizia, Difesa, scuola (in parte), assistenza ai vecchi e agli ammalati poveri. Solo restringendo il perimetro pubblico e parapubblico diminuirà la spesa. L’obiettivo è 40 miliardi. Come reimpiegarli si vedrà dopo.
Queste proposte (ultrabocconiane) si dice siano ben viste anche da Mario Draghi. Io non ci credo ma non ho notizie in proposito.
Si tratta di vecchi temi del liberismo classico; del resto i proponenti lo sanno benissimo, sono esperti di storia economica. Si tratta di rimettere indietro le sfere dell’orologio risalendo all’epoca gloriosa di Cobden e della lega di Manchester, quando si abolì il dazio sul grano per favorire la nascita dell’industria tessile. Di mezzo ci sono stati quasi duecento anni di storia del capitalismo e della democrazia. Ma meritano comunque considerazione. Anche Berlusconi diceva e dice «Meno stato, più mercato». Poi ha fatto il contrario.
Ma venendo al serio: da trent’anni il grosso delle imprese italiane ha destinato i profitti o a dividendo per gli azionisti o per investimenti finanziari e speculativi. Pochissimo a investimenti nelle aziende per modernizzarne l’offerta e allargare la base occupazionale. Se si vuol restringere la base operativa dello Stato occorre come preliminare che gli imprenditori tornino ad investire nelle aziende, altrimenti non ci sarà più manifattura né nell’industria né in agricoltura. Torneremo ai pascoli. Credetemi, non è un obiettivo degno di due bocconiani.

l’Unità 30.12.12
Arriva Ingroia e attacca il Pd e Grasso
«Mi candido perché Bersani non mi ha risposto»
L’ex pm di Palermo si presenta con la lista «Rivoluzione civile»
Attacco a Grasso: «Lo volle Berlusconi»
di Maria Zegarelli


Ingroia scioglie la riserva e si candida premier della «lista Ingroia». Il pm tornato dal Guatemala parla di «rivoluzione civile» e attacca duramente il Pd e il procuratore antimafia Grasso accusato di essere stato «scelto da Berlusconi». Con lui anche Di Pietro, mentre Grillo risponde no. Intervista a Zedda, sindaco di Cagliari: scelte sbagliate.

ROMA Il quarto candidato premier alle elezioni politiche si chiama Antonio Ingroia, ex pm di Palermo, direttore di un’unità di investigazione per la lotta al narcotraffico su incarico dell’Onu in Guatemala dove è andato i primi di novembre e da cui ha preso l’aspettativa per la competizione elettorale. Ieri ha sciolto ogni riserva e ha presentato lista «Rivoluzione civile» e simbolo: il suo nome a caratteri cubitali, e in rosso le sagome dei manifestanti del «Quarto Stato» di Pellizza da Volpedo, sfondo arancione, richiamo al movimento da cui tutto è nato.
Una conferenza stampa di mezz’ora, bersagli preferiti il procuratore nazionale Antimafia Piero Grasso (che ha presentato le sue dimissioni dopo aver deciso di candidarsi con il Pd) e il Pd. Il primo: perché «scelto da Berlusconi in virtù di una legge con cui venne escluso Giancarlo Caselli» e perché nel maggio 2012 pensò di consegnare «un premio al governo Berlusconi per essersi distinto nella lotta alla mafia».
Il secondo, ossia il Pd, «per aver smarrito la sua coerenza», mentre Ingroia ritiene «di essere noi a rappresentare la coerenza con la storia della lotta alla mafia». Ce n’è anche e soprattutto per Pier Luigi Bersani: gli ha rivolto «un appello e ha risposto in modo un po’ stravangante, dicendo che non risponde ad appelli pubblici, ma mi auguro che Bersani sappia che l’avevo cercato personalmente, ma non ho ricevuto risposta, me ne farò una ragione. Evidentemente si sente un po’ il padreterno, Falcone e Borsellino quando li cercavo rispondevano subito». Aggiunge: «Avevo giudicato Bersani serio e credibile, lo ritengo tutt’ora, ma gli chiedo di uscire dalle contraddizioni della sua linea politica». Torna su quella telefonata senza risposta: «Il silenzio di Bersani è inequivoco. Noi candidiamo il figlio di Pio La Torre». Apre a Beppe Grillo, che però chiude, subito.
Racconta che da magistrato non avrebbe mai immaginato di doversi trovare su un podio, dietro un simbolo, «per continuare la mia battaglia per la giustizia e la legalità in un ruolo diverso», perché la Costituzione pensava di doverla servire «solo nelle aule di giustizia. Ma non siamo in un Paese normale e in una situazione normale». E dunque, «ci sto. Questa è la nostra rivoluzione, vogliamo la partecipazione dei cittadini. Antonio Ingroia dice di sé non si propone come salvatore della patria, ma solo un esempio come tanti cittadini che si mettono in gioco, assumendo rischi». Con lui in lista, probabilmente, ci saranno Salvatore Borsellino (fratello di Paolo); Flavio Lotti (responsabile della Tavola per la pace), Franco La Torre (figlio di Pio, dirigente Pci ucciso dalla mafia), Milly Moratti.
L’Idv, a cui è intestato il sito «Io ci sto» creato il 17 dicembre da Ingroia, farà un’unica lista con l’ex pm, come ha annunciato Antonio Di Pietro. Duro De Magistris verso il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia che aveva definito «appropriazione politicamente indebita» il movimento arancione. «Pisapia dice De Magistrisi ha deciso di sostenere Bersani, che è la continuità, mentre il movimento arancione è per il rinnovamento. Deve stare tranquillo non c’è una logica predatoria o padronale del movimento arancione». Prende le distanze da Ingroia anche Alba, di cui fanno parte Luciano Gallino, Marco Revelli, Paul Ginzsborg, mentre Libera fa sapere che Gabriella Stramaccioni è candidata a titolo personale. «Si entra in politica se si ha un'idea di paese, se si vuole essere utili alla collettività, se si vuole mettere a disposizione la propria esperienza. Iniziare come ha fatto Ingroia attaccando in modo scomposto un grande partito come il Pd, il suo segretario e il procuratore Grasso, è segno di debolezza culturale, ma anche il prodotto di anni in cui la politica è stata per molti solo uno strumento di affermazione personale», commenta invece la capogruppo Pd Anna Finocchiaro.

l’Unità 30.12.12
Massimo Zedda: «Scelta strumentale, gli arancioni erano un’altra cosa»
«Mi spiace che Ingroia usi legalità e difesa del lavoro contro il centrosinistra
È sbagliato dividere le forze, l’avversario è il centrodestra»
Intervista di Vladimiro Frulletti


«Chi sta sostenendo liste arancioni fuori e contro il centrosinistra sta sbagliando». Al sindaco di Cagliari, Massimo Zedda, non piace l’appropriazione indebita (come l’ha definita su l’Unità di ieri il suo collega di Milano Giuliano Pisapia) di quel movimento arancione che nel 2011 in tante città segnò la vittoria dei candidati del centrosinistra. Un’operazione a cui da ieri è ufficialmente a capo il pm Ingroia.
Sindaco cosa non la convince della scelta di Ingroia?
«I temi di Ingroia mi piacciono. La lotta per la legalità e la democrazia e contro la criminalità organizzata, la difesa del lavoro e della giustizia anche sociale mi piacciono, ma sono temi che sono patrimonio di tutto il centrosinistra. Mi spiace che sia proprio lui a usarli contro il centrosinistra. Sta sbagliando e con lui sbagliano quelli che sostengono liste arancioni fuori dal centrosinistra. Il rischio vero è riconsegnare il Paese a governi tecnici o a tecnici che abbiamo già conosciuto. L’avversario per me rimane sempre il centrodestra e le sue politiche liberiste fatte di privatizzazioni selvagge e smantellamento dello Stato. In questa fase sarebbe molto più opportuno non dividerci. Si è sempre troppo bravi a scontrarci fra di noi invece di unire le forze».
Di chi è la colpa?
«In questo caso è la loro. Ma non voglio caricarmi di ruoli che non ho, al più posso dire quel che avrei fatto io»
E che avrebbe fatto?
«Avrei tentato fino all’ultimo una ricomposizione. E se ci sono margini di ripensamento spero che vengano utilizzati».
Un appello rivolto a chi?
«A chi pensa di utilizzare le liste arancioni. In passato ne ho parlato più volte con De Magistris. L’idea, che poi era naufragata, era di una lista arancione sostenuta dai sindaci come me, Pisapia etc. per ri-coinvolgere quelli che erano stati eletti in quella fase definita “rivoluzione arancione”. Questa che vogliono fare però è tutta un’altra cosa che rischia di volersi appropriare di un patrimonio che era di tutto il centrosinistra. È l’unione che fa la forza mica le continue divisioni. In questa fase in cui le famiglie sono in grave difficoltà avrei preferito un messaggio di unità sui temi invece che di scontro e divisione sugli uomini».
Che rischio vede?
«Di allontanare quelli che avevamo avvicinato un anno e mezzo. E si allontaneranno soprattutto se la campagna elettorale verrà impostata contro il centrosinistra e non nei confronti degli avversari, del centrodestra e dei governi tecnici».
Intanto Monti è salito in politica.
«Si vede che una volta che si entra in certe stanze ci si prende gusto. Certo è meglio di Berlusconi, ma serietà e buona educazione non bastano se idee e progetti non sono condivisibili. E Monti non è distante dalla ricetta “meno regole e più mercato” che ci ha portato a questa situazione».
Nessuna intesa con Monti dopo il voto?
«Il centrosinistra deve pensare a vincere le elezioni, non immaginare se e con chi allearsi dopo».

Corriere 30.12.12
Nell'antimafia tornano i veleni
Due schieramenti per le elezioni
di Goffredo Buccini


Il premio, ah, quel premio. Una vecchietta palermitana dalle idee confuse lo bloccò sdegnata davanti all'Albero Falcone: «Ma, dutturi Grasso, picchì ci dette 'stu premiu a Berlusconi?». Ora Pietro Grasso, già procuratore nazionale antimafia e futuribile ministro della Giustizia del Pd, sostiene in tv che non andò proprio così: che quei discoli della Zanzara, intervistandolo, gli misero un po' in bocca la frase.
Tuttavia, in questo clima selvaggio e ingenuamente schematico di «amici di Caselli» contro «amici di Violante», che poi si traduce in «amici di Ingroia» contro «amici di Grasso», e insomma in due idee concorrenziali di come condurre la lotta ai padrini, tutto fa brodo, anche la storia del (presunto?) premio antimafia da attribuire (nientemeno che) al Cavaliere. È un fiume carsico questa faccenda dell'antimafia buona e dell'antimafia cattiva, dai tempi di Falcone contro Cordova, Falcone contro Meli, i colleghi di Magistratura democratica contro Falcone, Falcone troppo vicino a Martelli, Orlando contro Falcone e le carte nei cassetti, con annessi corvi e talpe, interi giardini zoologici evocati nei retroscena dei giornali, dai tempi di Di Pisa e Sica, per dire, sino a quelli recentissimi di Messineo e dell'indagine sulla trattativa Stato-mafia: ogni tanto rispunta, questo fiume sotterraneo, nella narrazione politica italiana, anche se non si capisce chi sia abilitato ad attribuire patenti di qualità e perché. Nenni ammoniva: «Gareggiando a fare i puri, trovi sempre uno più puro che ti epura», ma non molti lo ricordano. Sicché ieri Antonio Ingroia — già procuratore aggiunto di Palermo, già «partigiano della Costituzione», già compagno di palco di Diliberto e fresco candidato alla premiership del Paese («Io ci sto») — ha rinfacciato al suo antico capo Pietro Grasso di «aver reso dichiarazioni pubbliche sconcertanti» (sul premio a Berlusconi, appunto, dando per scontato che Berlusconi sia da citare come il Babau, e che l'intera sua vicenda si possa ridurre a Mangano e Dell'Utri). E naturalmente il famigerato premio è un pretesto, si parla a nuora perché suocera intenda.
Qualcosa si capisce dalle esternazioni incrociate ieri mattina da Violante e Caselli, le due facce dei vecchi incubi andreottiani. L'ex presidente della Camera dava il suo imprimatur sul Corriere alla «scelta di Grasso», consigliando viceversa a Ingroia «di non scendere in campo» e anzi bacchettandolo «per qualche cedimento al protagonismo». Caselli, sul Fatto, metteva invece a confronto le «due diverse coerenze» dei colleghi in procinto di cimentarsi, a tutto vantaggio di Ingroia. Solo alla fine della prima colonna della sua (lunga) analisi si arrivava a quello che sembra il punto vero della contesa, l'esclusione («per decreto contra personam») di Caselli medesimo dalla corsa per la Procura nazionale antimafia, poi vinta proprio da Grasso, che nelle opinioni di certi colleghi passa da «normalizzatore», riparatore di rapporti con la politica, una figura retorica da contrapporre a quella del «partigiano permanente» Ingroia, caselliano doc.
Aldo Cazzullo ha colto, da piemontese, il senso di quello strappo sull'antimafia che già da tempo aveva contrapposto Caselli e Violante, e incrinato quel loro sodalizio nato nella Torino degli anni Settanta, città del Pci, della cultura azionista, delle fabbriche, del terrorismo rosso. Altri tempi, altre affinità elettive. La superprocura fu il terreno che costò a Falcone le amarezze più brucianti, sempre condite da ipocrisie avvolgenti: «Non c'è stato uomo in Italia che abbia accumulato più sconfitte di Giovanni», disse Ilda Boccassini a Peppe D'Avanzo nel 2002. «Eppure le cattedrali e i convegni, anno dopo anno, sono sempre affollati di 'amici' che magari, con Falcone vivo, sono stati i burattinai o i burattini di qualche indegna campagna di calunnie e insinuazioni».
Vent'anni dopo, poco sembra cambiato nei drammi e nelle miserie che si nascondono tra le pieghe della giustizia. Come una faglia che s'allunga per chilometri dal punto di frattura, ecco dunque discendere, dai dualismi veri o presunti Caselli-Violante, Ingroia-Grasso, divisioni e alleanze palermitane che, nel caso di magistrati in piena attività, sono desumibili da segnali più che da endorsement veri e propri. Sicché Roberto Scarpinato («non mi strapperà una parola sull'argomento») passa da gemello siamese di Ingroia, anche per aver scandalizzato assieme a lui vari ministri del governo Berlusconi con un «Programma per la lotta alla mafia» pubblicato anni fa su Micromega. E Giuseppe Pignatone da buon amico di Grasso, che sempre lo difese dagli attacchi dei colleghi in terra di Sicilia. Nei corridoi del palazzaccio palermitano, vecchi cronisti arruolano l'aggiunto Teresi e il pm Di Matteo tra gli ingroiani e giurano sulla fedeltà grassiana di Maurizio De Lucia, che ha seguito il suo procuratore da Palermo fino a Roma e alla superprocura. Rita Borsellino respinge cortesemente ogni casacca (ma la danno per vicina a Ingroia). Maria Falcone sostiene che «Piero farà molto bene, non vedo lo scandalo per le sue dichiarazioni su Berlusconi». Una certa misura di pragmatismo sembra essere entrata nella sinistra vendoliana che pure, se avesse potuto, avrebbe aperto la porta al movimento di Ingroia. Claudio Fava sbotta: «Ho bisogno di funzione politica, non solo di testimonianza. Voglio che il centrosinistra vinca le elezioni con Bersani. Se qualcuno vuole portare la propria virtù fuori da questo seminato, massimo rispetto ma... voto utile». La megghio parola è quella non detta, ripetono a Palermo. Prima o poi anche le due anime dell'antimafia, di lotta e di governo, lo capiranno e smetteranno di beccarsi, almeno in pubblico. Per Cosa Nostra sarà un momentaccio.

l’Unità 30.12.12
Costruiamo la «catena amici di Lampedusa»
di Livia Turco


LA SINDACA DI LAMPEDUSA GIUSI NICOLINI, HA PROPOSTO A NOI TUTTI, nel suo articolo di giovedì su questo giornale, una denuncia impietosa sulla situazione della sua isola che è ormai diventata «un fardello di dolore» per le tante persone che arrivano con i barconi dalle zone di guerra e di disperazione e vengono inghiottite dalle onde del mare. «Quanto deve essere grande il cimitero della nostra isola» si chiede accorata la sindaca. La sua è una dura denuncia sul silenzio che è calato sulla morte in mare dei migranti, sulla nostra assuefazione e sulle politiche sbagliate nei confronti dell’immigrazione attuate prima di tutto dall’Europa.
Una denuncia chi mi scuote, che voglio e dobbiamo raccogliere. Vorrei dire a Giusi Nicolini che di fronte a quel susseguirsi di morti c’è anche il silenzio di chi si sente impotente e non vuole lavarsi la coscienza con frasi di circostanza e sente che è più dignitoso il silenzio.
Ma il silenzio è sempre silenzio. Dunque bisogna trovare le parole giuste e compiere atti dignitosi e coerenti con il rispetto della dignità umana. Perché quei morti non sono solo di Lampedusa, sono di noi tutti. Sono convinta che il gesto più dignitoso sia quello della «condivisione». Condividere: essere con, dare una mano, guardare le cose con gli occhi degli altri. La condivisione è una pratica di vita ma anche un modo di essere cittadino ed è un alimento prezioso dell’etica pubblica. Per rompere il silenzio nei confronti di quelle morti dobbiamo esserci, condividere il dramma e il lutto con tutti i cittadini di Lampedusa. Non solo mandare un telegramma come ci chiede provocatoriamente la sindaca. Costruiamo la «catena degli amici di Lampedusa» che promuova una relazione costante con le istituzioni, le associazioni, i cittadini. Una catena di persone che condividano i problemi dell’isola, siano presenti nei momenti dell’emergenza, partecipino alla accoglienza, condividano fatiche e dolori. Condividano il bel progetto
proposto in questi giorni di costruire un luogo pubblico della memoria delle persone inghiottite dalle onde del mare. Ma, insieme all’accoglienza e al rispetto concreto della dignità umana ci vuole la politica. È necessaria una svolta politica nel governo dell’immigrazione e dell’asilo. A partire dall’Europa.
Il punto essenziale è una nuova politica europea e italiana verso il Mediterraneo e il nord Africa che non si limiti al contrasto della immigrazione clandestina ma promuova parternariati tra pari, parternariati di dignità che puntino a promuove lo sviluppo in loco, a combattere la povertà, a definire modalità nuove dell’ingresso regolare come l’immigrazione circolare, la mobilità all’interno dei Paesi dell’Unione europea, il sostegno ai migranti che vogliono tornare nel loro Paese per trasferire in esso l’esperienza maturata in Europa. Solo così, tra l’altro, si sostengono i contraddittori processi di democratizzazione avviati.
Un’occasione importante sarà il dibattito che si svolgerà in sede europea sul bilancio Ue per gli anni 2014-2020 che dovrà decidere sulle risorse da destinare ai vicini del Sud. Inoltre, sempre l’Europa deve concludere il progetto relativo alle regole comuni sull’asilo e l’Italia dovrà finalmente dotarsi di una legge organica sul diritto d’asilo.

il Fatto 30.12.12
Incostituzionale
La vergogna italiana si nasconde dentro una cella
di Silvia D’Onghia


DICHIARAZIONI, PROGETTI DI LEGGE, MA L’ESITO NON CAMBIA: IL CARCERE È LUOGO DI PERDIZIONE

Di anemia mediterranea si può morire. Se il livello della patologia è grave, infatti, occorrono trasfusioni continue, anche due al mese. Se sei malato di anemia mediterranea (Beta Talassemia) e per di più sei un carcerato, la tua storia è segnata. È il caso di M. C., un italiano di 43 anni recluso in un penitenziario romano, di fronte al quale il Dap alza le mani: come testimonia il nono rapporto sulle carceri dell’associazione Antigone, il Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria ha fatto sapere di non disporre di un “servizio ematologico in grado ai affrontare un caso del tipo e della gravità descritti”. Pace all’anima sua.
Il 2012 si chiude, guarda caso, senza che la classe politica sia riuscita a trovare una soluzione rapida e definitiva al sovraffollamento carcerario. Nulla hanno potuto la fame di Pannella o le visite della Severino nei penitenziari. Quando si parla di “emergenza”, gli addetti ai lavori sorridono: “Il numero dei detenuti al 31/12/2009 – si legge ancora nel rapporto “Senza dignità” –, subito prima della dichiarazione dello stato di emergenza, era di 64.791. Al 31/10/2012 la presenza era di 66.685 detenuti, 1.894 in più! Ma non dovevano diminuire? ”.
SOVRAFFOLLAMENTO. Le regioni che si distinguono – in negativo – per il numero dei detenuti sono la Liguria (176%), la Puglia (176%) e il Veneto (164%), ma l’istituto penitenziario in cui si sta peggio è quello di Mistretta, in provincia di Messina: a fronte di una capienza di 16 persone, ci vivono in 43.
STRANIERI e tossicodipendenti. Il 35,6% dei reclusi è di origine straniera (23.789 persone), la maggior parte di loro viene da Marocco, Romania e Tunisia. Nonostante sia stato modificato per decreto il reato di “mancata ottemperanza all’ordine del questore di allontanarsi dal territorio italiano” – dopo la bocciatura della Corte di Giustizia europea –, il numero degli stranieri nelle nostre carceri è rimasto sostanzialmente invariato rispetto al 2010. Non è dato sapere, da quando la sanità penitenziaria è passata dal ministero della Giustizia a quello della Salute, il numero preciso dei tossicodipendenti. Secondo l’indagine di Antigone, si aggira comunque intorno al 25%.
I REATI PIÙ DIFFUSI. Si va in carcere per aver commesso reati contro il patrimonio (furti, rapine, estorsioni) o per aver violato il Testo Unico sugli stupefacenti. Oltre il 40% dei reclusi, 26.804 persone, non sconta una condanna definitiva, ma è in custodia cautelare. La media dei Paesi europei, secondo i dati del Consiglio d’Europa, è del 28,5%. VITA E MORTE. Il dato è aggiornato dall’associazione Ristretti orizzonti al 28 dicembre 2012, quindi può essere che sia ulteriormente destinato a salire: i decessi in carcere sono stati, quest’anno, 154. Sicuramente meno rispetto ai 186 del 2011, ma ancora una vergogna senza scuse per il sistema penitenziario italiano. Delle 154 persone morte, almeno 60 si sono tolte la vita. Spesso non bastano gli psicofarmaci, distribuiti come caramelle per far fronte alle 20 ore (di media) trascorse all’interno di una cella chiusa e sovraffollata, a tenere a freno la depressione. Il 26% dei detenuti soffre di disturbi psichici e, se si pensa che quasi la metà della popolazione carceraria è sotto i 35 anni, questo dato diventa un grido di allarme. Di fronte al quale, però, nessuno fa nulla.
PIANO CARCERI? A guardare il sito, www.pianocarceri.it , sembra di star parlando di una verità inconfutabile. In realtà, di vero nel piano carceri ci sono soltanto i soldi, quelli erogati dallo Stato per costruire padiglioni e strutture che ancora, in tre anni, non hanno visto la luce. Il 22 dicembre sono stati pubblicati gli esiti di gara per l’ampliamento delle case di reclusione di Lecce, Parma e Milano Opera: dieci milioni a gara per le prime due, 22 per l’ultima. E, mentre si assottiglia la cifra destinata dai governi al Piano (dai 675 milioni di Berlusconi ai 447 di Monti), se anche le nuove celle venissero costruite, non si avrebbe il personale penitenziario sufficiente a coprire i turni. La polizia soffre già di una carenza di circa 4000 unità rispetto al necessario.
LE SOLUZIONI. “Amnistia”, gridano da tempo immemore i radicali. Un provvedimento che consentirebbe di far uscire un bel po’ di gente, ma non risolverebbe il problema all’origine. Solo mettendo mano alla Fini-Giovanardi sulle droghe e alla Bossi-Fini sull’immigrazione, le nostre carceri tornerebbero a respirare. E chissà, con l’occasione, si potrebbero anche inasprire le pene per i reati finanziari. Meno tossici, più colletti bianchi.

La Stampa 30.12.12
Dovrà risarcire 250.000 euro
Segretaria in nero Pannella condannato


ROMA Marco Pannella per anni ha pagato in nero la sua ex segretaria, non versandole i contributi assicurativi e previdenziali. Per questo la Corte d’Appello di Roma, al termine di una vicenda giudiziaria durata 19 anni, ha condannato l’ex leader dei Radicali a risarcire a Giuseppina Torielli, che oggi ha 81 anni, la somma di 250.000 euro.
La Torielli lavorò tra il 1982 e il 1994 (anno in cui venne licenziata in tronco) al Partito Radicale e al Gruppo Federalista Europeo occupandosi della posta personale di Pannella e della corrispondenza da lui tenuta con i detenuti in carcere. In quel periodo, però, denuncia la Torielli, veniva pagata come lavoratrice autonoma e spesso pagata in nero. Dopo il suo licenziamento, cominciò le pratiche per il riconoscimento del suo lavoro come dipendente.
L’avvocato di Pannella ha già dichiarato che l’ex leader dei Radicali non è in possesso della cifra richiesta e ha perciò chiesto di poter pagare la metà della somma a rate in cambio della rinuncia a un ricorso contro la sentenza d’Appello. La Torielli, però, non ha accettato, avviando le procedure per il pignoramento dei beni di Pannella.

Repubblica 30.12.12
La donna, 81 anni, ha vinto dopo due decenni la causa di lavoro con il leader
“La segretaria di Pannella pagata in nero” via al pignoramento di 250mila euro
di Maria Elena Vincenzi


ROMA — Mentre Marco Pannella lotta per i diritti dei detenuti, c’è qualcuno che combatte per vedere riconosciuti da lui i propri diritti di lavoratore. Il leader dei Radicali è stato condannato dalla Corte d’appello di Roma a pagare 250mila euro a una ex dipendente del gruppo, Giuseppina Torrielli.
Una storia che risale a molti anni fa. La donna ha lavorato per il partito radicale prima e per il gruppo federalista europeo poi dal 1982 all’aprile del 1994, quando è stata licenziata in tronco. Un addio così brusco da convincere l’impiegata a fare ricorso al giudice del lavoro: aveva un contratto da lavoratrice autonoma, ma di fatto lavorava come dipendente, e molto spesso («sempre», stando alla sua versione) veniva pagata in nero.
È iniziata così una vicenda giudiziaria lunghissima: sono quasi 19 anni che la signora Torrielli combatte per avere quello che crede le spetti. Un processo che ha visto come testimone della “ricorrente” anche l’onorevole Marco Mellini e in cui non mancano note di colore che farebbero sorridere se non avessero a che fare con una donna di 81 anni che ha lavorato una vita e che ora ha bisogno dell’aiuto dei suoi figli per arrivare alla fine del mese. Tra le carte del processo, infatti, c’è anche una lettera dei questori della Camera in cui, era il 2011 e la signora Torrielli cercava di notificare all’irreperibile leader dei radicali alcuni atti, questi spiegano di non poter ricevere la corrispondenza perché «per prassi consolidata la Camera non riceve notificazioni di atti giudiziari concernenti i singoli deputati essendo escluso che la sede della Camera possa essere considerato come luogo dell’“ufficio” del deputato». Disagi che hanno contribuito a dilatare i
tempi di un processo che ancora non è finito.
Intanto però, a marzo, i giudici del Lavoro hanno dato ragione alla donna: Pannella e solo lui (perché secondo i giudici pur non essendo formalmente presidente ha sempre guidato il partito) deve alla donna 71mila euro (con rivalutazione, interessi e risarcimento per l’omesso versamento dei contributi assicurativi e previdenziali si arriva a 250mila). Soldi che però, stando alla difesa del politico, lui non ha: per questo si è cercato un accordo, metà della cifra e a rate. «È un’opzione che io non posso accettare — spiega la Torrielli — ho 81 anni e mille euro di pensione dopo tanti anni di lavoro ». Per questo il suo avvocato ha avviato il pignoramento dei beni presso terzi.
Secca la risposta dei Radicali, per bocca dell’avvocato Giuseppe Rossodivita: «Non abbiamo ceduto alla minaccia di diffondere questa notizia. Stavamo cercando una soluzione transattiva che mettesse d’accordo tutti. A questo punto, però, loro faranno l’esecuzione della sentenza, noi aspettiamo l’esito del ricorso che abbiamo presentato in Cassazione ».

l’Unità 30.12.12
Morta per stupro
L’India piange lacrime di rabbia
La piazza chiede giustizia, il governo blinda la capitale
di Claudia Fusani


Armati di candele, pennarelli e cartelli hanno marciato sull’India in un silenzio che spacca le orecchie e le coscienze. Davanti a un governo incapace e sordo e a una polizia che ieri ha avuto l’ordine di non usare gas, bastoni e idranti. Hanno marciato uniti, da New Delhi a Bangalore, da Kolkota a Mumbay fino a Chennai e poi urlato tutti insieme: «La tua battaglia è ora la battaglia dell’India», «Vogliamo giustizia e la vogliamo subito». Decine di migliaia di ragazze e ragazzi mescolati in una sfida che sanno essere non di genere ma di civiltà e democrazia; donne e uomini, a volte in file separate, ma fianco a fianco: sono loro la nuova borghesia (300 milioni su una popolazione di un miliardo e 200 mila) cresciuta in vent’anni di straordinario progresso economico, sono loro che ieri sera hanno risposto all’appello. Una veglia oceanica e pacifica che continuerà fino funerali della studentessa di 23 anni stuprata da una branco di sei ragazzi la sera del 16 dicembre e morta in un ospedale specializzato di Singapore dove era stata trasportata mercoledì nell’estremo tentativo di salvarla. La storia di Nirbhaya così la chiamano i giornali è già un pezzo di storia di questo paese. «La tua morte scuote le nostre coscienze», «India, ultima chiamata», «Se non ci svegliamo ora non lo facciamo più», hanno scritto i ragazzi sui cartelli.
«VERGOGNA NAZIONALE»
Se non ora, quando? Quando dire basta a una «vergogna nazionale» con numeri da brivido? Eccoli: 24 mila casi di stupro denunciati nel 2011 (dieci volte di più rispetto al 1971), di cui 568 solo a Delhi; una donna uccisa ogni ora per impossessarsi della sua dote (dati Ufficio Nazionale Indiano); negli ultimi trent’anni, 12 milioni di bambine sottoposte ad aborto selettivo per evitare la nascita di femmine; il 10,6% delle vittime di stupro con meno di 14 anni; il 94% di chi subisce violenza conosce il suo carnefice. E poi la cronaca degli ultimi tre giorni: una ragazza stuprata tre giorni fa proprio a Delhi; un’altra che s’è tolta la vita in Punjab perché quando è andata a denunciare la violenza la polizia le ha consigliato di sposare chi aveva abusato di lei. Le veglie indiane dicono basta a tutto questo.
«Light a candle in her memory», accendi una candela per ricordarla, è stato fin da ieri mattina il passaparola sui social network, megafoni e anche registi della protesta. Distese di candele poco dopo il tramonto nelle grandi città simbolo della nuova India, al parco Jantar Mantar di New Delhi, al Freedom Park di Bangalore, alla Juhu Beach di Mumbay e al memoriale di Gandhi a Lucknow, capitale di Uttar Pradesh. Il governo di Sonia Gandhi, capo del partito del Congresso che ha la maggioranza in parlamento, ha avuto paura. Tanta. Paura nelle scorse settimane quando ha represso le manifestazioni pacifiche all’India Gate, il distretto politico della capitale, che invece andavano ascoltate. Paura ieri mattina quando è partita la chiamata sui social network e sulle tv all news. Ha vietato i prati e i viali intorno a India Gate (in serata aperti di nuovo). Ha chiuso molte stazioni della metropolitana. Ha sbagliato di nuovo. E sembrano arrivare troppo tardi le parole di Sonia: «Vi assicuro che abbiamo sentito la vostra voce. Questa morte non sarà vana. La figlia dell’India avrà giustizia». In queste due settimane lei, il primo ministro Singh e la maggior parte del parlamento sono rimasti passivi, incapaci pare di comunicare con la parte più giovane del paese dove vivono 800 milioni di under 30, pronti solo ad ordinare alla polizia di caricare i manifestanti che avevano bloccato la capitale. Quando ieri Shiela Diksheet, capo del governo di Dehli, parlamentare e nota attivista femminista, è andata tra i manifestanti a Jantar Mantar per mettersi dalla parte delle ragioni della protesta, è stata cacciata: «Giù le mani da questa figlia dell’India. No a speculazioni politiche su questa morte».
Il paese che per primo nel 1966 ha mandato al potere una donna che si chiamava Indira Gandhi, si scopre essere il meno sicuro per le donne e tra i più misogini. «Vogliamo camminare nelle strade senza dover abbassare lo sguardo» dicono le ragazze con le candele accese. «Vogliamo pene più severe e tribunali speciali per questo tipo di reati». Adesso il governo parla di commissioni d’inchiesta, di pubblicare online le liste degli violentatori già noti, di usare poliziotte per i reati dove le vittime sono donne e bambine. Il 2 gennaio la polizia presenterà un atto di accusa lungo mille pagine contro i sei arrestati, ora accusati di omicidio. Rischiano la pena di morte. Sono originari di uno slum, il Ravi Dass Camp, a sud di Delhi. La gente ora grida «hang them», impiccateli. È una rabbia che non si può fermare. Un fallimento prima di tutto politico.

l’Unità 30.12.12
«Visitate gli anziani»: in Cina è un obbligo di legge
di Roberto Arduini


«Vai a far visita al nonno!». In Cina questa frase non sarà più soltanto un impegno morale, ma un vero e proprio ordine rivolto a tutti. Dal 1° luglio 2013 per i giovani cinesi sarà, infatti, obbligatorio fare «visite frequenti» agli anziani della propria famiglia. Il Congresso nazionale del popolo cinese ha appena approvato una norma, all’interno di una serie di misure per la Protezione dei diritti e degli interessi degli anziani. «I componenti della famiglia che vivono lontano dagli anziani dovranno visitarli spesso», recita la normativa. Inoltre, «i datori di lavoro dovranno concedere il tempo per tali visite», secondo quanto nota il canale televisivo Channel News Asia. La norma non specifica quali siano le pene previste per i trasgressori, né quale frequenza si intenda con «spesso», ma prevede che, qualora i diritti o gli interessi degli anziani vengano violati, questi o altri in loro vece possano chiedere l’aiuto alle autorità o presentare denuncia.
La norma bizzarra rispecchia l’esigenza di un Paese-continente come la Cina di far fronte a una società sempre più vecchia, dopo 30 anni di politica del figlio unico. Gli effetti di questa legge si intrecciano ora con le difficoltà economiche legate soprattutto alla pesante inflazione (spinta da un incredibile aumento dei prezzi dei beni di prima necessità come il cibo), con il costo della vita in crescita e la difficoltà, per gli alti costi, di trovare abitazioni, che rende i giovani sempre più impegnati e gli anziani sempre più soli e poveri con notevoli problemi legati anche alla mancanza di un sistema sociale adeguato.
Alla fine del 2011 in Cina c’erano più di 184 milioni di persone sopra i 60 anni di età, circa il 13,7 per cento della popolazione e nel 2013 dovrebbero superare i 200 milioni, stando alle cifre diffuse dall’agenzia di stampa ufficiale Xinhua. Secondo l’Onu, entro il 2050 circa il 30 per cento dei cinesi sarà oltre i 60 anni (contro il 20% della media mondiale e il 10 per cento della Cina del 2000).

Corriere La Lettura 30.12.12
I taikonauti alla conquista della Luna
di Giovanni Caprara


Archiviate le conquiste del 2012 (Curiosity batte tutti), la Cina si prepara per una nuova esplorazione selenica e l'India debutterà su Marte. Ma la Nasa non demorde
N ella lunga storia dell'esplorazione planetaria che ormai ha superato il mezzo secolo, il 2012 ha segnato un record con lo sbarco su Marte di Curiosity. È un rover grande come un Suv, concepito per essere un laboratorio chimico robotizzato capace di viaggiare per chilometri e per anni sul Pianeta rosso, lavorando notte e giorno perché alimentato da un generatore nucleare, raccogliendo campioni e analizzandoli. Il suo obiettivo è la caccia a molecole organiche (con carbonio), primo mattone della vita anche se non sufficiente. Nei prossimi mesi del 2013 da Curiosity si aspetta proprio questa scoperta che sembrava già raggiunta nelle scorse settimane: ma si trattava solo di indizi che potrebbero essere smentiti. Quando le troverà, il sogno di un Marte «vivo», magari in epoche remote, avrà compiuto un passo avanti.
Mentre ciò accadeva, intorno a Saturno la sonda Cassini della Nasa continuava a indagare il pianeta inanellato, Venus Express dell'Esa europea esplorava i misteri di Venere, New Horizon (Nasa) volava verso i confini del sistema solare per arrivare nei pressi di Plutone nel 2015 e il robot planetario Rosetta (Esa) si avvicinava alla cometa Churymov-Gerasimenko sulla quale sbarcherà nel 2014.
Ma il 2013 ci porterà altre novità per affrontare enigmi cosmici ancora irrisolti. La Nasa spedirà intorno alla Luna la sonda Ladee per misurare bene l'esilissima e quasi impercettibile atmosfera che avvolge il nostro satellite naturale. Nella stessa direzione l'India manderà la sua seconda sonda Chandrayaan-2 che invece scruterà soprattutto i minerali della superficie. Ma sarà soprattutto la Cina a sorprendere perché tra i crateri selenici farà sbarcare la sonda automatica Chang'e-3 dalla quale scenderà un piccolo rover per indagare l'ambiente circostante. Così Pechino affronta la sua seconda tappa dell'esplorazione selenica che ha per meta ultima l'arrivo dei taikonauti (da taikong che nel linguaggio mandarino significa spazio) dopo il 2020. E se l'America non darà il via a una missione umana verso gli asteroidi come si ipotizza da quando il presidente Obama è alla Casa Bianca, senza però concretizzarla, potrebbe accadere che proprio i taikonauti sarebbero i primi ad andare oltre l'orbita della stazione spaziale.
Torneranno a fare notizia, però, nuove spedizioni verso il Pianeta rosso, il più ricercato dalle agenzie spaziali. Nel 2013 anche New Delhi entrerà nel ristretto club marziano con la sonda Mangalyaan-1. E la Nasa lancerà la sonda Maven per cercare di capire con precisione come mai l'atmosfera del più fantascientifico dei pianeti sia volata via nel cosmo nel trascorrere dei millenni.

l’Unità 30.12.12
Israele senza centro, le destre puntano a prendere tutto
Al voto anticipato tra tre settimane, i sondaggi premiano le posizioni più oltranziste
di Umberto De Giovannangeli


Aggressiva sul piano politico come su quello ideologico. Cavalca l’insicurezza di un Paese che vive in trincea mostrando i muscoli, convinta che il futuro di «Eretz Israel» sia legato innanzitutto alla sua potenza militare. A tre settimane dal voto, la destra israeliana va all’attacco, forte di sondaggi che la candidano a guidare il Paese anche in un futuro che si fa presente. Destra e ultradestra insieme per un «Israele forte». Likud e Israel Beitenu hanno aperto a Gerusalemme la campagna elettorale congiunta. Insieme intendono compattare una maggioranza che escluda il ricorso a grandi coalizioni. L’alleanza elettorale è stata lanciata a Gerusalemme, dal premier uscente Benjamin Netanyahu, grande favorito nei sondaggi: «Lo Stato d’Israele ha di fronte delle sfide enormi, ho il dovere di dirvi come stanno le cose: l’Iran sta avanzando con il suo programma nucleare, Hezbollah e Hamas si stanno armando. L’Islam radicale sta crescendo nella regione e sta facendo crollare un regime dopo l’altro». Netanyahu prova ancora una volta a vincere giocando la carta di un Paese accerchiato.
ALL’ATTACCO
A tre settimane dalle elezioni politiche del 22 gennaio la campagna della destra israeliana inasprisce i toni imponendo un’agenda elettorale con forti accenti ideologici. Netanyahu sostiene con forza la colonizzazione dei territori palestinesi con l’espansione degli insediamenti ebraici. Secondo i detrattori un abile stratagemma per distrarre l’opinione pubblica dalla crisi economica che attraversa il Paese.
A tutta destra. E se è possibile una destra più a destra, ancora meglio. Si guadagnano punti nei sondaggi. Un esempio? Naftali Bennett, leader del partito di ultradestra «Jewish Home Party». Una settimana fa, l’ex membro delle truppe d’assalto d’elite «Sayeret Matkal» a un certo punto ha detto la sua sugl’insediamenti ebraici in Cisgiordania. «Se mi dovessero ordinare di evacuarli, fosse soltanto uno e piccolo, ecco avrei molti problemi: di certo non obbedirei agli ordini, la mia coscienza me lo impedirebbe». Parole infuocate, stigmatizzate dallo stesso Netanyahu e dai vertici di Tshal. Ma i sondaggi hanno premiato Bennett, astro nascente della destra israeliana. Stando agli ultimi rilevamenti del Dialog Institute se si votasse in questi giorni, dopo la corazzata Likud-Israel Beitenu (i partiti del premier e dell’ex ministro degli Esteri, Avigdor Lieberman) che otterrebbe 35 seggi, il secondo partito sarebbe il «Labour Party» di Shelly Yechimovich con 17 seggi. Subito dopo, ecco proprio «Jewish Home Party» di Naftali Bennett con 13 parlamentari. Tanti quanti ne prenderebbero gli ultrareligiosi dello Shas che, però, vantano una guida spirituale ascoltata dagli ebrei e un bel po’ d’esperienza politica. Una settimana fa, la formazione di Bennett non andava nei sondaggi più ottimisti oltre i 10 seggi. Dieci seggi, stavolta, andrebbero a Kadima, il partito fondato dall’ex premier Ariel Sharon, attualmente la realtà con più parlamentari nella legislatura uscente.
Una destra più decisa si è affermata anche all’interno dello stesso partito di governo, il Likud, che di recente ha votato per stabilire l’ordine dei candidati sulla lista delle politiche. Ferma restando la leadership dell’attuale premier, nei primi venti posti, quelli cioè che certamente entreranno a far parte della nuova Knesset, si trovano numerosi esponenti dell’ala ultra nazionalista del partito, come Danny Danon e Moshe Feiglin, e in ben sei dei primi dieci nomi della lista si trovano personalità che in passato si sono schierate contro il processo di pace israelo-palestinese e a favore della politica coloniale in Cisgiordania. Un risultato che ha allarmato la stampa locale. Yediot Ahronot ha ad esempio ricordato come Feiglin guidò una serie di manifestazioni popolari contro il premier laburista Yitzhak Rabin solo alcune settimane prima della sua uccisione.
Il dato politico più rilevante è che in Israele il «Biberman» (Netanyahu-Lieberman) arranca, ma ad avvantaggiarsene è la destra più radicale. Verso la quale Ari Shavit, tra i più autorevoli politologi israeliani ed editorialista di Haaretz, usa parole di fuoco: «Una parte considerevole delle forze politiche in ascesa dice Shavit a l’Unità è di tipo barbaro. Non rispettano i diritti umani e non si piegano di fronte alla legge. Non dimostrano alcuna lealtà alla democrazia e alcuni addirittura negano il progresso». Quanto al rapporto con i palestinesi, due terzi degli israeliani che votano per partiti di destra si oppongono alla nascita di uno Stato palestinese smilitarizzato in Cisgiordania, secondo un sondaggio pubblicato nei giorni dal quotidiano Maariv. Secondo lo studio, il 66% delle persone interpellate si oppone alla creazione di un tale Stato; l'11% si dice invece favorevole. (1 segue)

Corriere 30.12.12
Nuove ombre sul passato nazista dei Wiener
di M. Per.


In Germania come in Austria, fare musica durante il Terzo Reich imponeva una serie di compromessi di varia entità (gli antinazisti dovevano emigrare, come fece Erich Kleiber). Chi sceglieva di restare poteva farlo con equilibrismi di vario genere (come Wilhelm Furtwängler, il sommo direttore dei Berliner Philharmoniker), iscrivendosi al partito nazista sostanzialmente per motivi di carriera (come, si è detto in questi anni, fece Herbert von Karajan), oppure sposando in pieno la causa hitleriana.
E' un fatto storico del quale, ovviamente, i Berliner o i Wiener di oggi non hanno colpa: quello che colpisce però è la riluttanza, ogni volta che escono nuove illazioni, a fare definitivamente chiarezza sui comportamenti — istituzionali e personali — negli anni dal 1933 al 1945 delle grandi orchestre tedesche e austriache e dei loro musicisti.
Gli ultimi casi, emersi nelle settimane scorse: prima quello di uno storico che sostiene che Karajan prese la tessera del partito nazista già nel '33 a Salisburgo, e non più tardi, in Germania, come si era sempre pensato. Poi, quello di pochi giorni fa, ancora più inquietante: i Wiener Philharmoniker sono stati accusati non soltanto di aver aderito in massa al partito ma di aver premiato nel 1966, più di vent'anni dopo la fine della guerra, con un duplicato della medaglia a lui già conferita dai Wiener nel 1942, il criminale di guerra Baldur von Schirach. L'ex capo della gioventù hitleriana e governatore del Reich a Vienna condannato a vent'anni di reclusione durante il processo di Norimberga (morì poi nel 1974).
Harald Walser, politico dei Verdi austriaci, ha pubblicato un duro articolo su Die Presse chiedendo al presidente dei Wiener di fare chiarezza: «Nascondere i fatti e riscrivere la storia non è accettabile».

La Stampa 30.12.12
La morte della morte
di Marco Neirotti


Più di cento donne ammazzate in un anno, spesso dopo lungo stalking. Uomini inseguiti e massacrati per uno sberleffo, un insulto, una prepotenza alla guida o per uno stupido furto. Gli assassini d’impeto o covati fanno vittime quanto e più del crimine organizzato. Dietro a tutto ciò - salva la fantasia di un parroco che riesce a immaginare provocanti le vittime stremate da una persecuzione - c’è un senso della morte sfumato dalla sacralità alla banalità, dalla scelta estrema al facile colpo di spugna che spazza via disegni o scritte su una lavagna che non si è capaci di sopportare.
Sono fondamentali le considerazioni sul massacro di donne - talora amate in modo malato e ossessivo - ma non si deve trascurare l’origine più profonda del gesto omicida in generale in questa epoca: lo svuotamento dell’idea di morte, strumento risolutivo con impressionante leggerezza di qualunque fatica metta a repentaglio l’egoistica quiete, più che un’improbabile serenità, del vivere. La morte è per molti orfana della sacralità che emanava, del mistero che la contornava e ne accentuava la percezione. Vediamo uccidere e poi costituirsi senza pensiero di pena per la vittima (talora è rancore, lacrime che gridano: ecco dove mi hai portato), senza pentimento né tormento, indifferenza per il carcere, spossatezza dopo l’annientamento dell’ossessione. È successo tutto come se fosse stata la lettura di un libro fino al capitolo che mette paura e orrore, mette alla prova la capacità di reggere e misurarsi: allora, anziché passare oltre, scivolare a un altro capitolo, si butta, si calpesta, si brucia l’intero libro.
Se qualcosa è rimasto immutato nell’uccidere quel qualcosa sta di casa nel crimine organizzato, dove l’assassinio è strumento di lavoro, mezzo per garantirsi il predominio, punire tradimenti o sgarri. Una cosa soltanto è cambiata, si è «affinata», quando alla regola che rispettava donne e bambini si è sostituita una logica appresa dal terrorismo: tremate tutti, non ci fermiamo di fronte a nulla, nulla ci fa paura. In realtà una paura forte la provano: paura della cultura della legalità e della cultura in genere, da qui l’odio per i Luigi Ciotti, i Roberto Saviano.
La cultura è sparita dalla morte nel quotidiano, maneggiata come straccio sulla lavagna, gesto del bimbo che si copre gli occhi «e non esiste più il pericolo», dito ansioso sul telecomando per mutare il film spiacevole dentro cui si vive, come Peter Sellers in «Oltre il giardino». L’omicidio ha sostituito con agghiacciante naturalezza la spallata, la scazzottata di un tempo. Lo sciagurato che si sentiva deriso al bar per le intemperanze della moglie ristabiliva l’onore di lei e la dignità propria riempiendo di botte l’incauto davanti a tutti. Oggi tace, va a casa, prende la pistola, torna con quel «telecomando» in tasca, e spara: con l’uomo che offendeva il proiettile cancella magicamente anche le corna. Il problema non c’è più. Ne verrà un altro, d’accordo, con processo, carcere, ma è un libro nuovo, intonso, senza gravami assillanti.
Fragili personalità sono sempre meno attrezzate ad affrontare avversità, accettare sconfitte: ciò che un tempo era delusione, amarezza, oggi è ira e rancore, se sto male la colpa non può che essere degli altri. Mia moglie non mi vuole più perché bevo e sono violento, ma è colpa sua se bevo e sono violento, la odio ma è mia, quindi cancello tutto, la pistola come il tasto reset. In questa lievità dell’ammazzare giocano spesso un ruolo alcol, anfetamine, cocaina, con i cervelli sfrangiati dalla polvere e consegnati alla perdita di controllo e all’onnipotenza.
Alla morte senza sentimento ci si è abituati perché è ovunque senza orpelli né timidezze, è nel film d’azione o nel thriller, è nel continuo rimestare la cronaca nella tv d’intrattenimento, è spettacolo del pomeriggio tra un monologo di leader di partito e lo sguardo azzurro di zio Misseri, è nella sbrigativa criminologia da teleschermo e nella passione morbosa per gli «scavi» dei medici legali. È una sfilata di routine su YouTube, dove si può ammirare un pestaggio o la spinta che lancia una vita sui binari della metro. La morte ha perso rispetto a ogni livello, anche nelle più alte istituzioni. Di fronte al corpo di Eluana Englaro, ridotto a un interminabile inverno dal coma vegetativo, di fronte a una morte scontata per anni, non un ciarlone da bar ma l’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi non riuscì a trovare altro aggancio alla vita se non quello sessuale: «Mi dicono i medici che può perfino restare incinta».
La società è spaccata in due. Di qua la vulnerabilità di anziani e malati e di quanti - medici, paramedici, volontari, parenti, sacerdoti - hanno a che fare giorno su giorno con il transito alla morte, dove ogni addio è unico, carico di dolori e fatiche, speranze e pace. Di là gli altri, per i quali reale e virtuale sono amalgamati, dove l’assassinio guardato e riguardato in Internet è insieme cronaca e spettacolo, sorpresa e routine, emozione e assuefazione. Nelle case contadine russe, racconta la letteratura, i bambini giocavano nell’unico stanzone, dove la mamma cucinava, e ogni tanto andavano al centro di esso per dare una carezza al nonno che stava passando a miglior vita. Non era assuefazione, era «conoscenza» che accendeva rispetto.
Sempre meno si apprende il senso della vita e della morte - e del passaggio dall’una all’altra - dal dialogo con narrativa, musica, arte oltre che dai lutti. La morte della Morte sta avvenendo per inedia: prosciugata di cultura, mistero e significati.

Corriere 30.12.12
Le religioni che sfidano il conformismo sui gay
di Ernesto Galli della Loggia


Nel XVIII secolo, nella sua battaglia contro le religioni ufficiali, equiparate senza tanti complimenti ad altrettante superstizioni, l'illuminismo francese, destinato a far scuola in tutta l'Europa continentale, non se la prese certo solo con il cattolicesimo. Anzi. L'ebraismo, per esempio, fu un suo bersaglio forse ancora più consueto: basti pensare alle tante pagine di Voltaire piene zeppe di contumelie contro la religione mosaica.
Poi però tra '700 e '800 le cose cambiarono rapidamente. Soprattutto perché cambiò l'ebraismo. Accadde infatti che nell'Europa (soprattutto occidentale) un gran numero di ebrei cominciasse a inoltrarsi su un percorso di radicale emancipazione-secolarizzazione che li portò ad integrarsi in pieno con le élites laico-liberali sulla via di prendere dovunque il potere: della religione dei padri conservando al massimo qualche vestigia rituale. Da allora la critica antireligiosa d'ascendenza illuministica cominciò a prendere di mira, in ambito occidentale, pressoché esclusivamente il cattolicesimo, quasi che esso fosse la sola religione rimasta sulla faccia della terra. Una tendenza andata sempre più affermandosi, specie in Italia, e molto spesso — bisogna dirlo — con il tacito assenso di molta intellighenzia d'origine ebraica, più o meno concorde nell'avvalorare implicitamente l'idea — bizzarrissima ma molto «politicamente corretta» — che in fin dei conti l'ebraismo non sia neppure una religione. Ovvero lo sia, ma così diversa da tutte le altre, così diversa, alla fine da non esserlo!
Specie in Italia, ho scritto. E infatti quando da noi si parla di temi che in qualche modo coinvolgono la fede religiosa l'ebraismo tenda a non avervi e/o prendervi alcuna parte. E quindi a non essere mai menzionato. Basta porre mente a tutta la discussione sulla liceità dell'ingegneria genetica, dell'eutanasia o del matrimonio tra omosessuali. Dibattendosi di queste cose è come se l'ebraismo fosse disceso nelle catacombe tanto la sua voce è tenue o assente. Con il risultato che la voce della Chiesa cattolica, invece, è facilmente presentata come la sola che in nome di una visione religiosa arcaica sia impegnata a difendere posizioni che la vulgata democratica qualifica come «reazionarie».
A ricordarci che le cose invece non stanno affatto così, e che proprio sui temi che citavo prima sono viceversa assai profondi i legami teologici e dottrinari tra l'ebraismo e il cattolicesimo (e il cristianesimo in generale, direi) soccorre un recente importante documento di un'autorità dell'ebraismo europeo quale il Gran Rabbino di Francia Gilles Bernheim, dal titolo «Matrimonio omosessuale, omoparentalità e adozione».
Bernheim inizia con il punto decisivo, e cioè contestando che tali temi abbiano come vera posta in gioco un problema di eguaglianza dei diritti. In gioco invece, scrive, è «il rischio irreversibile di una confusione delle genealogie, degli statuti e delle identità, a scapito dell'interesse generale e a vantaggio di quello di un'infima minoranza». In un modo che a me sembra condivisibile anche dal punto di vista di un non credente egli smonta uno ad uno gli argomenti abitualmente usati a favore del matrimonio omosessuale: dall'esigenza della protezione giuridica del potenziale congiunto, all'importanza del volersi bene («non si può riconoscere il diritto al matrimonio a tutti coloro che si amano per il solo fatto che si amano»: per esempio a una donna che ami due uomini); alle ragioni affettive che giustificherebbero l'adozione di un bambino da parte di una coppia omosessuale. «Tutto l'affetto del mondo non basta a produrre le strutture psichiche basilari che rispondono al bisogno del bambino di sapere da dove egli viene. Il bambino non si costruisce che differenziandosi, e ciò suppone innanzi tutto che sappia a chi rassomiglia. Egli ha bisogno di sapere di essere il frutto dell'amore e dell'unione di un uomo, suo padre, e di una donna, sua madre, in virtù della differenza sessuale dei suoi genitori». Ancora: «il padre e la madre indicano al bambino la sua genealogia. Il bambino ha bisogno di una genealogia chiara e coerente per posizionarsi come individuo. Da sempre, e per sempre, ciò che costituisce l'umano è una parola in un corpo sessuato e in una genealogia».
Bernheim non solo prende di petto il proposito caro a molti militanti omosessuali di sostituire al concetto sessuato di «genitori» quello asessuato e vacuo di «genitorialità» e di «omoparentalità», ma sostiene che non può parlarsi in alcun modo di un diritto ad avere un figlio: «la sofferenza di una coppia infertile non è una ragione sufficiente per ottenere il diritto all'adozione. Il bambino, sottolinea, non è un oggetto ma un soggetto di diritto. Parlare di diritto a un figlio implica una strumentalizzazione inaccettabile».
Naturalmente le pagine più dense del documento sono quelle in cui opponendosi all'idea sempre più diffusa che il sesso, lungi dall'essere un dato naturale, rappresenti una costruzione culturale, il Gran Rabbino, forte del racconto della Genesi, afferma viceversa «la complementarietà uomo-donna come un principio strutturante del giudaismo» corrispondendo essa al piano più intimo della creazione. «La dualità dei sessi — egli scrive — appartiene alla costruzione antropologica dell'umanità» ed è voluta da Dio anche come «un segno della nostra finitezza». Nessun individuo può pretendere di essere autosufficiente, di rappresentare tutto l'umano, dal momento che con ogni evidenza «un essere sessuato non è la totalità della specie».
Il lettore avrà notato la forte somiglianza di molte delle cose dette da Bernheim con quelle sostenute dal magistero cattolico (non a caso di recente Benedetto XVI ha citato calorosamente il documento del Gran Rabbino francese). In realtà le voci congiunte dell'ebraismo e del cattolicesimo, nel momento in cui evocano ciò che è effettivamente in gioco in questo caso — vale a dire le basi stesse della società in cui vogliamo vivere, l'esistenza ontologica di due sessi distinti, l'alleanza dell'uomo e della donna nell'istituzione chiamata a regolare la successione delle generazioni, nonché il rischio di cancellare in modo irreversibile tale successione — nel momento in cui fanno ciò, sembrano confermare quanto sostenuto a suo tempo da Jurgen Habermas circa l'importanza che ha e deve avere il punto di vista della religione nel discorso pubblico delle nostre società. Tale punto di vista, infatti, è spesso prezioso per comprendere — da parte di tutti, credenti e non credenti, di ogni persona libera — ciò che queste società hanno oggi il potere di fare. E dunque, per misurare la rottura che le loro decisioni possono rappresentare rispetto alle radici più profonde e vitali della nostra antropologia e della nostra cultura.
Ma dal Gran Rabbino Bernheim viene anche un'altra lezione. E cioè quanto è importante che la discussione pubblica sia condotta con coraggio, sfidando il conformismo che spesso anima l'intellettualità convenzionale e il mondo dei media. Quanto è importante che personalità autorevoli (per esempio gli psicanalisti) non abbiano paura di far sentire la loro opinione: anche quando questa non è conforme a quello che appare il mainstream delle idee dominanti. È una lezione particolarmente essenziale per l'Italia. Dove è sempre così raro ascoltare voci fuori dal coro e provenienti da bocche insospettate, dove è sempre così forte la tentazione di aver ragione appiccicando etichette a chi dissente invece di discuterne gli argomenti, dove sono sempre pronti a scattare spietatamente i riflessi condizionati delle appartenenze. Dove — in specie quando si tratta di certe questioni — non manca di farsi puntualmente sentire il pregiudizio che tende a fare del cattolicesimo la testa di turco più adatta per essere additato alla pubblica esecrazione dalle vestali dell'illuminismo e per vedersi piovere addosso tutti i colpi (e tutte le presunte colpe) del caso.

Corriere 30.12.12
E’ Nietzsche il filosofo più twittato grazie agli aforismi da 140 caratteri

di Paolo Lepri

Secondo quanto immagina lo scrittore cileno Roberto Ampuero, Pablo Neruda era incerto se fossero le poesie o i figli, «l'inchiostro o il sangue», a potergli dare l'immortalità. Non aveva previsto che l'arrivo di Twitter avrebbe risolto il problema, costruendo un tavolino a tre gambe virtuale grazie al quale i morti continuano a vivere. Certo, non è un fenomeno nuovo, per chi segue la rete, che i grandi del passato ci distribuiscano dall'aldilà pillole di sapere in 140 caratteri. Ma è abbastanza curioso, come ha notato per prima Deutsche Welle, che il filosofo tedesco Friedrich Nietzsche sia una presenza costante nel panorama giornaliero dei cinguettii. Sono almeno una trentina gli account dai quali l'autore di Così parlò Zarathustra si affaccia nella nostra vita, perché, bene o male, Twitter si è preso una parte cospicua del tempo con il quale tentiamo di venire a patti quotidianamente. Nietzsche batte mostri sacri come Kant e Hegel o predecessori eloquenti come Schopenhauer. Ci bombarda di parole, in varie lingue. È inarrestabile. Qual è la ragione di questa sovraesposizione? Una è molto semplice. Gli aforismi di Nietzsche sembrano fatti apposta per essere twittati. La loro forza e la loro limpidezza non vengono messe in discussione da questo tipo di lettura. «L'uomo di conoscenza deve essere in grado non solo di amare i suoi nemici ma di odiare i suoi amici», ci suggerisce ieri il filosofo dall'account «NietzscheQuotes», seguito da 192.374 persone.
È questo sembra essere, a occhio, uno dei più affidabili. Altrimenti si incontra di tutto, e Nietzsche viene tirato da ogni parte, soprattutto per qualsiasi delirio ispirato al nuovo totem del «politicamente scorretto». Questo è l'altro motivo del suo successo. Per fortuna, poche tracce di espliciti accostamenti acrobatici al pensiero autoritario del Novecento. Ci mancherebbe anche questo. Come ha giustamente scritto Claudio Magris «Nietzsche è stato a suo tempo letto e celebrato quale profeta del nazismo, cosa che fraintende radicalmente il suo pensiero». Ma in quello stesso articolo aggiungeva: «È meglio non leggere, piuttosto che leggere male».

Corriere La Lettura 30.12.,12
Inseguendo la natalità
La pressione demografica resta la sfida decisiva
Ma Latouche, teorico della decrescita, la ignora
di Sandro Modeo


Nel film del 1973 Soylent Green, di Richard Fleischer (2022: i sopravvissuti) si prefigura una New York sovrappopolata e iperinquinata, dove le masse vengono nutrite con un plancton di soia-lenticchie (ricavato, come scoprirà il detective Charlton Heston, dal trattamento di cadaveri) e incentivate all'eutanasia (come quella, struggente, di un Edward G. Robinson al suo ultimo ruolo).
Ispirato sia al romanzo Largo! Largo! del grande Harry Harrison (scomparso quest'anno), sia al famoso rapporto del Mit sui «limiti dello sviluppo» (uscito nel 1972 e commissionato dal Club di Roma di Aurelio Peccei, manager di Fiat e Olivetti), il film è uno dei primi richiami all'incidenza demografica sugli scenari presenti e incombenti, a dimostrazione di come la miglior fantascienza sia sempre sensibile a dati e problemi reali. Una sensibilità assente, al contrario, in tanti «analisti» carismatici come Serge Latouche, che nel suo ultimo libro sulla spremitura del pianeta (Limite, Bollati Boringhieri, pp. 113, 9) riesce a eludere totalmente — pur citando il rapporto del Mit — la «questione demografica». Con poche eccezioni — come i refrain di Giovanni Sartori —, nessuno allarga il campo visivo dalle «crisi» attuali, economiche, sociali e ambientali, all'impatto della popolazione mondiale: allargamento che invece aiuterebbe a decifrare le cause rimosse e profonde di tante emergenze, materiali e psicologiche.
Basterebbe, per aprire il grandangolo, scorrere i dati dell'ormai classica Storia minima della popolazione mondiale di Massimo Livi Bacci (Il Mulino), da cui emerge un costante trend ascendente, nonostante i contraccolpi di guerre e shock climatici o immunitari (come la Morte Nera medievale o le ecatombi degli indigeni americani a contatto con i colonizzatori europei): un milione di abitanti nel Paleolitico, 10 nel Neolitico, 100 nell'età del bronzo, 250 allo scoccare dell'era cristiana, 750 all'inizio della rivoluzione industriale, 2 miliardi alla fine della Prima guerra mondiale, più di 7 oggi, con proiezione credibile a 10 per la fine del secolo. In percentuale, un incremento annuo dello 0,1 per mille abitanti dal Paleolitico al Neolitico, dello 0,4 dal Neolitico all'età cristiana, dello 0,6 nei 17 secoli precedenti le macchine a vapore, del 6 per mille fino al 1950 e addirittura del 18 dal 1950 a oggi.
Per essere compresa, questa spinta va inquadrata in un'ottica biologico-evoluzionistica, tra limiti/vincoli intrinseci di dimensione biologica e tempi di riproduzione degli organismi (che spiegano perché gli Homo sapiens siano meno degli insetti, e gli insetti meno dei batteri) e condizionamenti ambientali quali appunto il clima, la coabitazione-competizione del nostro genoma con quello dei microbi, le risorse disponibili. Decisiva, in questa dialettica incessante tra biologia e ambiente, è la « risposta» scientifico-tecnologica e bio-medica. Lo vediamo bene, per esempio, nella madre di tutte le transizioni, quella Neolitica di 10 mila anni fa, quando un aumento di popolazione (e di densità) sollecita i cacciatori-raccoglitori ad affinare tecniche già conosciute per approdare all'agricoltura e all'allevamento, ampliando «artificialmente» il ventaglio alimentare e intensificando i raccolti con aratri e traino animale.
Ma lo vediamo bene anche oggi, in una fase che forse non è il semplice prolungamento della transizione industriale, ma un'ulteriore transizione in sé. Da un lato, è evidente come proprio la tecnoscienza e la medicina possano rispondere a crisi di produzione agro-alimentare (con gli Ogm), al bisogno di nuove soluzioni energetiche in rapporto al riscaldamento globale, (con tecnologie sempre più sofisticate) o alle nuove emergenze epidemiologiche (antibiotici di nuova generazione contro batteri più plastici e aggressivi). Dall'altro, i dati impressionanti non solo sulla crescita demografica, ma soprattutto sulla concentrazione urbana (arrivata nel 2010 al 50,5%, il famoso «sorpasso» sulle campagne), spiegano tante accelerazioni-metamorfosi come l'«informatizzazione» postindustriale. Per inciso, la densità urbana — insieme al mismatch, cioè alla «dissonanza» che si crea tra comportamenti adattativi acquisiti al tempo della caccia/raccolta e i contesti attuali — spiega problemi e patologie in modo più profondo, svelandone la genesi remota. Come un'alimentazione ipercalorica (necessaria in un contesto di fuga e predazione) diventa, in una società sazia e sedentaria, fonte potenziale di diabete/infarto, così un cervello «tarato» per interagire in comunità di 100-150 individui, gerarchiche ma molto solidali, ha difficoltà in folte comunità claustrofobiche e alienanti, all'origine sia di disagi lievi come l'impossibilità di gestire troppe amicizie su Facebook, sia di varie psicopatologie ansioso-depressive.
In questo «respiro», la risposta scientifico-tecnica cade però in una circolarità ambivalente: risolvendo «colli di bottiglia» della pressione demografica, getta nello stesso tempo (in un feedback o retroazione) le premesse per un'ulteriore crescita di popolazione (come nella rivoluzione industriale), dovendo poi risolvere altri «colli di bottiglia» che ha contribuito, con le migliori intenzioni, a creare. Caso da manuale — oltre all'emergenza climatica — l'allungamento delle aspettative di vita, che si sta traducendo in molte aree nel rilancio della natalità (Francia e Cina) per proteggere l'identità nazionale dai flussi migratori, pagare le pensioni e coprire costi sanitari di vecchiaie prolungate e spesso invalidanti.
Se è quindi fuori discussione la necessità di includere nella pianificazione del futuro la «questione demografica», bisogna dirsi, con brutale realismo, che ci sono poche vie di intervento, a volte — come dimostra Livi Bacci — controintuitive. Il controllo volontario delle nascite (che resta il timone operativo, ma deve scontrarsi con attriti ideologico-religiosi trasversali) può essere infatti perseguito, specie nei Paesi in via di sviluppo, soprattutto diminuendo la mortalità infantile, cioè spingendo a una riproduzione «di economia» anziché «di dispendio» (a non fare tanti figli per aumentarne la possibilità di sopravvivenza). Oppure, diffondendo istruzione e consapevolezza, più importanti della ricchezza (lo accertano molti dati) nell'esercizio di un contenimento demografico civilizzato (non più legato a pratiche come l'aborto selettivo sulle femmine). Anche se non bisogna mai dimenticare come l'«inerzia» ascendente del trend su cui si cerca di operare coincida con la spinta stessa del vivente, guidata da un determinismo che condiziona — come una forza tenace e invisibile, poco meno tirannica della gravità — ogni forma di «volontà» e di «scelta».
La partita è aperta, e il passaggio per il nuovo «collo di bottiglia» strettissimo, con la sola certezza che esitare aprirà scenari simili a quelli del romanzo di Harrison o del film di Fleischer.

Corriere La Lettura 30.12.12
Ho vinto, ma ho fallito. La medicina, la religione, le donne
Parla Umberto Veronesi «L'immortalità? Una catastrofe. Solo le idee non muoiono»
di Luigi Ripamonti


«S ono felice di invecchiare. Ho sempre temuto che con la vecchiaia sarebbero arrivati il deperimento fisico e quello intellettuale e invece ho scoperto che la mente può rimanere giovane, capace di creatività, innovazione e critica. E se la mente è giovane si rimane giovani. La morte si avvicina, certo, ma la morte è un dovere — biologico e antropologico — se non ci fosse, non ci sarebbero le nuove generazioni. Con la morte ho un buon rapporto. L'immortalità su questa Terra sarebbe una catastrofe».
Parola di Umberto Veronesi, monumento della medicina italiana, ma, aspetto di lui meno conosciuto, filosofo e profondo conoscitore della storia delle religioni. «Le dieci principali le conosco tutte molto bene, ho imparato il Corano quasi a memoria, ho letto i testi buddhisti e tutta la letteratura induista, ho approfondito confucianesimo, taoismo e anche religioni più antiche e abbandonate. Ovviamente sono partito dal cristianesimo, che appartiene alla nostra tradizione. Io vengo da una educazione profondamente religiosa. Per i primi dieci anni della mia vita ho recitato il rosario tutte le sere, ho fatto il chierichetto, sono andato a messa regolarmente. Ma quando ho voluto estendere le mie conoscenze e leggere accuratamente i libri sacri, ho cominciato a essere tormentato dai dubbi. Ho trovato i racconti dell'Antico Testamento brutali, violenti, pieni di tradimenti e violenze. L'insegnamento di Gesù mi ha sempre affascinato, invece, perché predica tolleranza, perdono e amore. Poi però nelle lettere di Paolo ho trovato asserzioni con le quali non ho potuto trovarmi d'accordo e quindi ho iniziato la mia ricerca studiando le altre confessioni. Alla fine del mio percorso ho concluso che non Dio ha creato l'uomo, ma l'uomo ha creato Dio, un trascendente cui riferirsi nei casi di difficoltà. Il risultato è che Dio è uscito lentamente dal mio orizzonte e ho sviluppato una filosofia che ha come base il rapporto fra gli uomini oppure fra gli uomini e la natura e che si basa su tre grandi principi: libertà, tolleranza, solidarietà».
Echi di Rivoluzione francese, professore.
«Quella è la partenza, ma ho aggiunto un quarto valore negli ultimi anni, ed è la pace universale, che è quasi implicita nei primi tre valori, ma che credo fermamente vada riaffermata costantemente come un assoluto».
Questo spiega la sua iniziativa «Science for Peace». Iniziativa ambiziosa, specie per un uomo già impegnato a sconfiggere il male fisico ogni giorno in ospedale.
«Il male è il male, in ogni sua espressione. Io ho passato la mia vita a combatterlo, specie dopo averlo vissuto personalmente in guerra. Dopo le atrocità incomprensibili che ho visto, ho deciso di fare il medico per specializzarmi in psichiatria, volevo capire dove si annidava nella mente umana tanta capacità di male gratuito, per contribuire a estirparlo. Ma frequentando i reparti di medicina scoprii un male ancora maggiore, che era il cancro, e decisi di battermi contro di esso. Nel dopoguerra l'Istituto dei tumori di Milano era un lazzaretto. Mi colpirono non solo il dolore, ma anche la rassegnazione e il fatalismo fra i malati e anche fra i medici. Questa malattia era una maledizione di cui non si vedeva la soluzione. Da allora tutta la mia vita è stata dedicata a questa lotta, nessuna domenica e nessun sabato esclusi... Un impegno gigantesco, senza requie, non volevo rassegnarmi».
E ha vinto.
«No, non ho vinto. Mi dicono spesso che sono un uomo di successo ma non è vero; ho fallito, perché avevo promesso a me stesso che sarei morto dopo aver visto il cancro sconfitto, e questo non succederà. Però posso dire che una battaglia importante l'ho vinta, ed è quella di convincere i miei colleghi a cambiare strategia contro i tumori».
Se si riferisce all'introduzione della quadrantectomia (l'asportazione solo di una parte del seno colpito dal cancro invece che di tutta la mammella) si tratta di una tecnica rivoluzionaria, ma riguarda solo un tipo di tumore.
«Nient'affatto. La sua importanza consiste invece nel cambiamento che ha impresso nella filosofia di trattamento di tutti i tumori. Prima della sua introduzione la regola, per tutti i tipi di cancro, era di praticare la massima asportazione possibile e somministrare la massima dose di radioterapia e di farmaci, quindi di applicare il "massimo trattamento tollerabile". Io invece mi convinsi che l'approccio dovesse rovesciarsi e che la regola dovesse diventare il "minimo trattamento efficace", cioè la minima asportazione e la minima dose di radioterapia e farmaci, per evitare che il paziente, anche quando aiutato a guarire, dovesse patire sofferenze o menomazioni a causa delle cure. Il successo della quadrantectomia aprì davvero una rivoluzione che poi si è estesa in tutti i settori dell'oncologia. Oggi si tende a evitare la deviazione dell'intestino nel tumore del colon, si cerca di conservare la voce nel tumore alla laringe, di non effettuare più l'asportazione degli arti e quindi di conservare l'integrità corporea. È cambiato il paradigma, la filosofia».
Perché proprio il tumore al seno per cominciare?
«La violenza, la brutalità sulle donne mi hanno sempre colpito in modo particolare, anche quando esercitata dalla medicina. Ho sempre avuto una spiccata sensibilità per l'universo femminile, forse perché ho perso mio padre da bambino e ho idealizzato mia madre, che mi ha fatto anche da padre e mi ha nutrito di tutti i valori che hanno formato la mia vita. Probabilmente è proprio per questo che ogni forma di violenza sulle donne è sempre stata per me ancora meno tollerabile. E la violazione del seno è particolarmente simbolica perché si tratta di una parte del corpo importantissima. Basta riflettere sul fatto che è l'organo dell'allattamento, quindi fondamentale per la continuità della specie, e in quest'ottica è anche un'importante attrattiva sessuale. È quindi importantissimo per l'identità, il benessere e anche l'integrità psicologica della donna. Riuscire a preservarlo il più possibile non solo ha rivoluzionato la filosofia della chirurgia oncologica in senso lato, ma ha anche incoraggiato le donne a fare diagnosi precoce attraverso la mammografia. Prima, con la prospettiva di perderlo per un tumore, le donne andavano convinte a esaminarsi il seno periodicamente con la mammografia, ora protestano se non hanno modo di farlo».
La passione per le donne ha alimentato parecchi pettegolezzi su di lei, che passa per un Don Giovanni.
«Per carità Don Giovanni mai, Casanova se proprio dev'essere. Don Giovanni umiliava le donne, Casanova cercava di amarle tutte, di dare a ciascuna qualcosa di sé. Comunque sono solo dicerie. È vero che ho avuto molte donne prima del matrimonio, alcune avventure dopo e un figlio fuori del matrimonio. Ma anche in questo caso ho avuto prova della grandezza delle donne, perché mia moglie ama questo mio figlio come gli altri avuti da lei, e ha buoni rapporti con sua madre. Le donne sono capaci di "amore insensato", di amare oltre ogni ragionevolezza, cosa che gli uomini raramente sanno fare».
Quindi il male è più maschile.
«Il male è folle ma anche banale, come diceva Hannah Arendt, ma non è genetico, come pensava Freud. Non è nel Dna dell'uomo».
Affermazione coraggiosa.
«Il Dna ci impartisce due comandi assoluti, intorno ai quali ruota tutta la nostra vita: il primo è l'istinto di sopravvivenza, che ci induce a fare qualsiasi cosa per sopravvivere, compreso mangiare anche gli animali; il secondo è procreare per dare continuità alla specie. E questo vale per noi come per qualsiasi essere vivente. Ma se il primo comando contiene un germe di violenza è altrettanto vero che l'imperativo di garantire sopravvivenza alla specie lo tempera e lo trasforma in un imperativo non solo a procreare ma anche a mantenere le condizioni perché i propri discendenti possano essere nella migliore situazione per vivere e per procreare a loro volta. È per questo che costruiamo villaggi, città e nazioni, che cerchiamo di progredire nel benessere. E questo compito, quello di garantire la sopravvivenza della specie, comprende anche quello di non uccidere, di non esercitare violenza. Il Dna quindi contiene in sé anche un messaggio di fraternità».
Dna anche come viatico per un'eternità laica?
«No, se si intende continuità attraverso il Dna in senso materialistico. È vero che qualcosa dei nostri geni rimarrà per sempre finché continueranno le generazioni, e questo è affascinante, ma dal punto di vista individuale è poco rilevante. Quello che veramente può rimanere di noi come persone dipende dalle nostre idee, dal contributo che il nostro pensiero può dare al mondo».
Prima la Rivoluzione francese, adesso Hegel?
«Piuttosto Socrate. Nel Fedone, ai suoi allievi che lo invitano a non bere la cicuta o a berla lentamente per procrastinare la morte, il filosofo oppone un rifiuto, spiegando che comunque la morte non impedirà alla sua anima di sopravvivere. E per Socrate — condannato per empietà, cioè con l'accusa di non credere negli dei — l'anima, termine che in greco viene reso in questo caso con psyché, cioè psiche, è rappresentata dalle sue idee, che sono immortali, e infatti sono arrivate sino a noi. Questa è l'immortalità per come la vedo io; quanto maggiore è il contributo di innovazione che portiamo con le nostre idee, tanto più il nostro pensiero sopravviverà».

Corriere 30.12.12
La filosofia è inutile perciò serve ancora
Marx si sbagliava: avremo sempre bisogno di concetti non finalizzati a obiettivi pratici
di Umberto Curi


«Quella cosa con la quale o senza la quale il mondo resta tale e quale». Non è un indovinello, né ancor meno un infantile scioglilingua. Resa facilmente orecchiabile dall'impiego della rima baciata, questa massima compendia un giudizio largamente condiviso per quanto riguarda la filosofia. Potrà anche apparire solenne e profonda nella magniloquenza delle sue espressioni. Potrà magari anche intimidire i più sprovveduti, tenuti in soggezione dall'ermetismo di un linguaggio talmente oscuro da risultare perfino impenetrabile. Resta tuttavia il fatto incontestabile che la filosofia non incide minimamente nella vita di tutti i giorni, né tanto meno nei grandi avvenimenti della storia, al punto da poter affermare che — con essa o senza di essa — il mondo resta «tale e quale». In una fase storica, quale è quella attuale, nella quale è imperativo individuare strumenti che consentano di rilanciare la produzione, riattivare il circuito dei consumi, reagire ai morsi della recessione, è forse inevitabile che la filosofia appaia come un inconcludente girare a vuoto, un lusso che non possiamo più permetterci.
Che la filosofia non serva a nulla non è un'affermazione nuova. Lo riconosce apertamente già Aristotele, anticipando l'obiezione del suo interlocutore. Al quale egli tuttavia ribatte che la filosofia è la più nobile delle scienze non malgrado, ma proprio perché «non serve a nulla», ossia perché non ha quel vincolo di «servitù» che altrimenti la renderebbe subordinata, e dunque inferiore rispetto ad altre. Ciò che potrebbe sembrare un limite, si rivela dunque come un elemento di superiorità: la filosofia non è serva, ma padrona — in quanto tale superiore ad ogni altra scienza e dunque degna di essere coltivata per se stessa. D'altra parte, la contestazione della sostanziale «inutilità» della filosofia era destinata a riproporsi più volte dopo Aristotele, fino a trovare la sua espressione forse più compiuta in Marx. Nell'undicesima delle Glosse a Feuerbach, si ritrova l'atto di accusa più esplicito e per certi aspetti definitivo, nei confronti della filosofia. «I filosofi — scrive infatti Marx — si sono finora limitati a interpretare il mondo. Si tratta ora di cambiarlo». L'alternativa non potrebbe essere più netta. Da un lato, un'attitudine contemplativa, di mera registrazione della realtà, implicitamente colpevole di accettarne senza battere ciglio iniquità, squilibri e contraddizioni. Dall'altro lato, una perentoria esigenza di trasformazione, che non può essere consegnata al lavoro di semplice, quanto inerte, interpretazione, ma deve concretizzarsi nella capacità di cambiare il mondo.
Il trionfo delle scienze, lungo il corso del XX secolo, doveva poi infliggere il colpo di grazia a un sapere filosofico sempre più condannato all'ineffettualità. Per dirla in termini rozzi, ma non poi così lontani dal sentire comune, mentre con le poche pagine del saggio di Einstein sulla relatività speciale si è andati sulla luna, con le centinaia di pagine di Essere e tempo di Heidegger non si può andare da nessuna parte. Il verdetto, insomma, è già scritto: soprattutto se non si accontenta di funzionare come analisi del linguaggio e riflessione sui metodi e i contenuti delle scienze, vale a dire se non accetta di essere inghiottita in un ambito saldamente presidiato dalle scienze, la filosofia non ha più alcuna ragion d'essere, condannata dalla sua stessa pretesa di sublime inutilità.
All'esecuzione della pena capitale, invocata a gran voce da numerosi esponenti del pensiero contemporaneo, la filosofia può sottrarsi ove si percorrano due strade. La prima è quella descritta nel celebre saggio Che cos'è la filosofia? da Gilles Deleuze e Félix Guattari. Secondo questa impostazione, è necessaria una riformulazione radicale dello stesso concetto di filosofia, che non può più essere intesa — come è invece accaduto lungo l'intera tradizione culturale dell'Occidente — come contemplazione, come comunicazione o come riflessione, secondo definizioni che non colgono la specificità della filosofia. Viceversa, se la filosofia è concepita come attività di creazione concettuale, perde ogni senso la questione sempre discussa relativa alla sua utilità o lo stesso annuncio, spesso ripetuto, della sua morte, del suo superamento: «quando è il caso e il momento di creare dei concetti, l'operazione che ne consegue si chiamerà sempre filosofia, anche se le si desse un altro nome».
Ma vi può essere anche una seconda strada, per certi aspetti complementare, e comunque non alternativa, rispetto a quella appena citata. L'accusa di inutilità accompagna la filosofia fin dalle sue origini. Si ricorda, ad esempio, che già il protofilosofo Talete, per allontanare da sé questo biasimo, ricorse ad un astuto espediente. Avendo previsto in base a calcoli astronomici un'abbondante raccolta di olive, ancora in pieno inverno, pur disponendo di poco denaro, si accaparrò tutti i frantoi di Mileto e di Chio per una cifra irrisoria, dal momento che non ve n'era alcuna richiesta. Quando giunse il tempo della raccolta, poiché in tanti cercavano urgentemente tutti i frantoi disponibili, egli li affittò al prezzo che volle imporre, dimostrando così che, se volessero, i filosofi potrebbero facilmente arricchirsi. È rimasto celebre, inoltre, il brano in cui Seneca sottolinea che l'utilità della filosofia «non consiste nelle parole, ma nei fatti... Educa e forma l'animo, regola la vita, governa le azioni, mostra ciò che si deve e non si deve fare, siede al timone e dirige la rotta attraverso i pericoli di un mare agitato». Senza dimenticare l'orgogliosa rivendicazione di Spinoza, secondo il quale la filosofia non è un rimedio alla debolezza, ma un'espressione di potenza.
Alla luce di queste considerazioni, forse la strada migliore da percorrere consiste nel «prendere sul serio» e condurre alle sue conseguenze più rigorose la tesi dell'inutilità della filosofia. È vero, la filosofia non è «utile», perché essa non si realizza nel consumo. Al contrario, in un mondo dominato in maniera pressoché esclusiva dalla ricerca di cose utili, la filosofia trova la sua specifica individuazione nel non essere soggetta al dispotismo dell'uso, alla tirannide dei consumi. È un bene prezioso, proprio perché raro, perché non si lascia catturare dalle regole inflessibili del mercato. E torna in mente un passaggio del dialogo platonico intitolato Teeteto. Il filosofo può avere l'aria del buono a nulla quando gli tocchino uffici servili, come mettere insieme un bagaglio per il viaggio o preparare buone vivande o raffinati discorsi. Ma egli è anche colui che può «gettarsi indietro su la destra il mantello, come si addice a persona libera».

Corriere La Lettura 30.12.12
Scacco matto in sei mosse: così l'Occidente conquistò il mondo
Docente di Harvard, consulente di Romney e grande divulgatore, Niall Ferguson racconta l'ascesa e il declino della nostra civiltà
di Marco Gervasoni


Chi pensa che lo storico debba rinserrarsi nella torre d'avorio degli archivi e delle biblioteche guarderà con sufficienza a figure come Niall Ferguson. Certo, è uno storico accademico, che prima di insegnare ad Harvard è stato docente a Oxford, dove si è formato. Ma è anche molto altro: autore e presentatore di fortunati documentari televisivi, editorialista di «Newsweek» e della rete economica Bloomberg Tv, consulente di imprese e da ultimo anche consigliere di Mitt Romney durante la campagna elettorale. Senza che ciò gli abbia impedito di pubblicare una messe di lavori storici impressionante per i suoi 48 anni, e tutti premiati da tirature più che generose.
I puristi della «scienza storica» (ammesso esista ancora) farebbero però male a non leggere i suoi libri. Che sono quelli di uno storico di razza, ben documentati, alimentati da riflessioni e persino da raffinate ansie metodologiche, che Ferguson dispensa nel mezzo di una narrazione sempre brillante e vivace, capace il più delle volte di far entrare il lettore in empatia con le complesse vicende del passato. In una bibliografia che spazia dalla Prima guerra mondiale alla «storia finanziaria del mondo», dalle vicende dall'impero britannico a quelle dei banchieri tedeschi di fine Ottocento, è ben presente una domanda centrale: come la civiltà occidentale ha finito per esercitare, a partire dall'età moderna, la sua egemonia sul mondo? Tema classico, certo, ma che a partire dall'esplosione della globalizzazione, si intreccia con un altro quesito, sempre presente nello storico scozzese: l'Occidente è destinato a declinare?
La globalizzazione, cominciata secondo Ferguson (e secondo molti altri) non negli anni Novanta del secolo scorso ma nel XVI secolo, è il vero suo rovello; e del resto, nel suo percorso professionale, Ferguson incarna appieno il ruolo sociale dello storico nell'età della piena globalizzazione. Proprio il trionfo della civiltà occidentale è al centro della sua ultima ricerca, Occidente. Ascesa e crisi di una civiltà (Mondadori), nata prima come fortunato documentario televisivo e poi riscritta dall'autore in forma di saggio storico.
Per Ferguson, cultore della virtual history o «storia controfattuale», il dominio dell'Occidente sul mondo non è stato un esito né scontato né necessario: poteva andare diversamente, e un insieme di processi, alcuni legati anche al caso, hanno portato a quell'esito. E tuttavia, per Ferguson sei sono i fattori che spiegano l'egemonia della civiltà occidentale, le «killer applications», come le chiama con linguaggio informatico: la competizione, la scienza, la proprietà privata, la medicina, i consumi, l'etica del lavoro. A ognuna è dedicato un capitolo del libro, in cui lo storico argomenta la sua tesi con uno sguardo globale, che dall'Europa spazia alla Cina al Giappone, dal continente americano a quello africano, con una ricchezza di riferimenti e con un dipanarsi di «microstorie», come scrive l'autore, che si intrecciano tra loro.
L'effetto è coinvolgente, lo stile ricco ma mai ridondante, il ritmo incalzante. Se i due capitoli più riusciti, sulla competizione e sulla società dei consumi, sono dei piccoli capolavori, non sempre però egli persuade. Il tema è capitale, le questioni complesse, ma Ferguson non è Max Weber; il suo gusto per la narrazione lo conduce spesso a divagazioni che portano il lettore fuori strada e in ogni caso non rafforzano le sue tesi. Storico economico di formazione, egli si muove più a suo agio in questo ambito, mentre sembra cadere nella banalità, se non negli stereotipi, di fronte alle questioni politiche e di storia internazionale. Né la sua bibliografia sembra qui aggiornatissima: non troviamo citati storici come Serge Gruzisnki o come John H. Elliott, autori nell'ultimo decennio di opere innovative e imprescindibili sulla lunga globalizzazione cominciata nel XVI secolo.
Soprattutto non persuadono le conclusioni in cui Ferguson sostiene la tesi dell'attuale declino dell'Occidente in ragione delle crisi fiscali degli Stati, per poi subito dopo del resto smentirsi. Si sente qui, più che nei capitoli centrali, il peso delle scelte politiche di Ferguson, che l'hanno condotto anche ad una pubblica polemica con il premio Nobel Paul Krugman proprio sul debito pubblico americano (e Krugman ci è sembrato più convincente). Meglio allora limitarsi al Ferguson storico e calarsi il cappello di fronte alle sua innegabili doti di narratore delle vicende passate.

Corriere La Lettura 30.12.12
Montessori, il metodo della gioia
In Germania 1.140 scuole In Italia soltanto 136
di Carlo Vulpio


Fino all'entrata in vigore dell'euro in Italia, nel 2002, era ancora possibile vederla raffigurata sulle banconote da mille lire e leggerne il nome: Maria Montessori. Non tutti sapevano chi fosse quella signora dai capelli bianchi raccolti in una crocchia dietro la nuca, che sulle mille lire aveva preso il posto di Giuseppe Verdi e di Marco Polo. Anzi, diciamo pure che la stragrande maggioranza degli italiani non ha mai saputo esattamente chi fosse e ancora oggi non sa esattamente chi sia Maria Montessori. Ma almeno, con quelle mille lire ancora circolanti — ne vennero stampate, dal 1990 al 1998, per una somma complessiva di due miliardi e centosessantamila lire —, in tanti avevano occasione di chiedersi chi fosse e cosa avesse fatto quella donna (l'unica, gli altri sono tutti uomini) per meritare di essere effigiata sulla banconota più usata quotidianamente dagli italiani. Quelli che se lo chiedevano, mentre se lo chiedevano, potevano cominciare a darsi una risposta semplicemente guardando il retro della banconota, che ritraeva due bambini che studiavano. In quelle mille lire, chiunque poteva comprendere, visivamente e immediatamente, l'importanza del trinomio Montessori-bambini-scuola e cogliere il grande valore di una persona, una storia, un messaggio, poi scientificamente riconosciuto come un «metodo», che ha precorso i tempi e ha cambiato il mondo più di Giuseppe Verdi e di Marco Polo messi assieme.
Sono passati dieci anni. Abbiamo gli euro (cioè, li ha chi li ha), ma non abbiamo più Maria Montessori, nemmeno in filigrana. Eppure lei — medico, scienziata, pedagogista, intellettuale —, conosciuta e venerata in tutto il mondo per il suo insegnamento, oggi è più viva che mai, eccetto che nel suo Paese, l'Italia. E da quel 6 gennaio 1907, quando a Roma, nel quartiere San Lorenzo, in via dei Marsi 58, come lei stessa scrive, «si inaugurò la prima scuola di piccoli bambini da tre a sei anni e sentii la indefinibile impressione che un'opera grandiosa sarebbe nata», è sempre presente tutte le volte che si affronti concretamente (e non attraverso retoriche petizioni di principio che, come vedremo, sono quanto di più lontano dal «metodo Montessori») la «questione sociale dell'infanzia». Espressione da lei coniata per indicare i diritti (negati) e lo sviluppo (ostacolato) della personalità e delle abilità dei bambini («L'infanzia è un disturbo costante per l'adulto, la sua situazione è simile a quella d'un uomo privo di diritti civili e d'un ambiente proprio») trent'anni prima che l'Onu adottasse la Dichiarazione dei diritti del bambino (1959) e sessant'anni prima che approvasse la Convenzione sui diritti dell'infanzia (1989, ratificata dall'Italia nel 1991).
La «questione» posta dalla Montessori, che fu anche la prima donna italiana a laurearsi in Medicina — nel 1896, a ventisei anni, vincendo mille pregiudizi e mille resistenze burocratiche —, doveva (deve) essere affrontata soprattutto attraverso la scuola. Una scuola a misura di bambino e in particolare dei bambini fra i tre e i dodici anni, che sono — sostiene sempre la signora Montessori — il vero oro di una comunità, il suo futuro, il suo senso. Mentre la scuola pubblica e privata, allora come oggi, salvo eccezioni d'élite, per i bambini italiani è soprattutto, nonostante gli sforzi e le buone intenzioni per lo più individuali, carcere, confino, esilio. I termini sono della Montessori (Il segreto dell'infanzia, Garzanti). E si attagliano perfettamente alle scuole dell'Italia contemporanea, luoghi stretti e affollati in cui i bambini sono «vittime della fatica scolastica, esposti a un tormento obbligatorio... animi contratti, intelligenze stanche, petti stretti e spalle ricurve, per la necessità di piegarsi per lunghe ore sui banchi a leggere e a scrivere, con la colonna vertebrale piegata a causa di quella posizione forzata» e, possiamo tranquillamente aggiungere, del peso assurdo di quegli zaini imbottiti di libri, quaderni e altro «materiale scolastico» che sono costretti a trasportare prima e dopo cinque lunghissime ore di detenzione.
Con la Casa dei Bambini inaugurata quel 6 gennaio 1907 a Roma (e il 18 ottobre 1908 a Milano, nel quartiere operaio dell'Umanitaria) cominciò una vera rivoluzione.
«Tutti gli intervenuti all'inaugurazione — scrive la grande pedagogista — rimasero meravigliati, dicendo tra sé: ma perché la Montessori esagera tanto l'importanza di un asilo per i poveri?». Invece, per quanto quella prima scuola «riuniva i figli piccoli degli operai in un casamento popolare», non era un asilo per poveri, anzi non era nemmeno una «vera opera sociale» con scopi di assistenza e beneficenza, ma «una istituzione privata fondata da una società edilizia, la quale doveva far ricavare il mantenimento della scuola come spesa indiretta di manutenzione dei locali».
In altri termini — come ricorda Paola Trabalzini, curatrice per l'Opera Nazionale Montessori di una edizione critica de Il metodo della pedagogia scientifica —, i proprietari di quei locali, gli azionisti dell'Istituto Romano dei Beni Stabili, li ristrutturarono per evitare che finissero in malora dopo la grande febbre edilizia degli anni Ottanta del 1800 e li riqualificarono, facendone delle «case moderne», areate, pulite, luminose e dotate di tutti i comfort, dal bagno all'ascensore, affinché fossero «non più unicamente il ricovero dei membri della famiglia, ma il luogo per vivere i legami famigliari in modo più intimo e solidale, più raccolto e partecipato». L'ambiente ideale per la Casa dei Bambini pensata dalla Montessori.
«La presenza della scuola nel casamento come proprietà collettiva, dato che essa era guadagnata dai genitori tenendo pulito lo stabile — nota Trabalzini —, realizzava il principio pedagogico della continuità educativa tra scuola e famiglia, consentendo nel medesimo tempo di educare gli adulti attraverso i bambini».
Fu subito un grande successo. Anche sulla stampa internazionale. «Vennero da Paesi lontani — scrive la Montessori —, specialmente dall'America (negli Stati Uniti oggi operano circa cinquemila scuole montessoriane, ndr) per constatare questi fatti sorprendenti e l'ultimo libro inglese che parlò di questi bambini s'intitolava New Children». La Montessori, la donna che aveva fatto parlare di sé per le sue battaglie a favore del voto femminile, la madre di un figlio illegittimo che non aveva arretrato di un passo per tenerlo con sé, accudirlo ed educarlo contro la morale dominante, era pronta a prendersi le sue rivincite. Nel 1909, con la pubblicazione de Il metodo della pedagogia scientifica applicato all'educazione infantile nelle Case dei Bambini, sovvertì i luoghi comuni, rivoluzionò il sapere seduto su se stesso e dimostrò come grazie al suo sistema di educazione «i bambini erano sani come se avessero fatto cure di sole e di aria, poiché se cause psichiche deprimenti possono avere una influenza sul metabolismo abbassandone la vitalità, può anche avvenire il contrario: cioè le cause psichiche esaltanti possono riattivare il metabolismo e tutte le funzioni fisiche».
Il «metodo» partiva da una considerazione semplice, ma frutto di lunghe osservazioni ed elaborazioni scientifiche: bisognava innanzi tutto suscitare nei bambini gioia ed entusiasmo per il lavoro e avere la massima fiducia nell'interesse spontaneo del bambino, «nel suo impulso naturale ad agire e a conoscere»; e poi bisognava far stare assieme i bambini per fasce di età — dai 3 ai 6 e dai 6 ai 12 anni —, introdurre la prassi del pasto comune, del gioco del silenzio, arredare gli ambienti con mobilio proporzionato ai bambini e non funzionale alle esigenze degli adulti; abolire la cattedra dell'insegnante, i sillabari, i programmi e gli esami, i castighi, i giocattoli e le golosità; puntare sul lavoro individuale per ottenere spontaneamente dal bambino la ripetizione dell'esercizio, il controllo dell'errore, l'ordine nell'ambiente e le buone maniere nei contatti sociali, la pulizia accurata della persona e l'educazione dei sensi; esercitare la scrittura isolata dalla lettura, la scrittura precedente la lettura e le letture senza libri; favorire la libera scelta di ognuno e al tempo stesso perseguire la disciplina nella libera attività. Un bambino non più represso, dunque (ciò che meritò alla Montessori il plauso di Sigmund Freud), ma anche un insegnante nuovo, «il maestro passivo, che toglie l'ostacolo della propria autorità, affinché si faccia attivo il bambino, e che deve ispirarsi ai sentimenti di San Giovanni Battista: "Conviene ch'egli cresca e che io diminuisca"».
Era ben consapevole, Maria Montessori, che tutto questo «quando non sembrasse utopia, sarebbe apparso una esagerazione». Ma tirò dritto. Case dei Bambini e corsi di formazione per insegnanti montessoriani si moltiplicarono in tutto il mondo, in Germania, Olanda, Gran Bretagna, Francia, Romania, Scozia, Irlanda, Islanda, Stati Uniti, Canada, Messico e persino in India, in Giappone e in Nuova Zelanda. E arrivarono anche l'interesse e l'ammirazione, ricambiata, di Benito Mussolini, al quale si deve la trasformazione in ente morale dell'Opera Nazionale Montessori, di cui lo stesso duce fu presidente onorario e il filosofo Giovanni Gentile, allora ministro della Pubblica istruzione, presidente. Con Mussolini (che era stato maestro di scuola) e il fascismo, la Montessori — che era cattolica, progressista e liberale, ma non ligia alla Chiesa né ai movimenti di sinistra — ebbe un vero e proprio idillio che durò dieci anni, dal 1924 al 1934. Poi, scrive Giuliana Marazzi (Montessori e Mussolini: la collaborazione e la rottura, in «Dimensioni e problemi della ricerca storica», rivista dell'Università La Sapienza di Roma), «la politica scolastica e culturale del Regime cambiò, allontanandosi sempre di più dal progetto gentiliano, e il nuovo orientamento fu caratterizzato dalla limitazione delle libertà e delle autonomie, da un controllo più capillare e sistematico, fino all'introduzione del giuramento di fedeltà al regime imposto ai docenti universitari e la tessera obbligatoria per i dipendenti pubblici, compresi gli insegnanti». I quali ultimi, estremo paradosso per una pedagogia fondata sulla formazione rigorosa del personale docente e sulla libertà, dovevano essere scelti dal Regime e non più dall'Opera Montessori. In Germania andò anche peggio, i libri della Montessori finirono al rogo. La scienziata — apprezzata e difesa oltre che da Freud, anche da Guglielmo Marconi, Jean Piaget e Rabindranath Tagore —, abbandonò l'Italia, ma non il progetto a cui aveva dedicato la vita e che continuò a espandersi anche dopo la sua morte, avvenuta il 6 maggio 1952 a Noordwijk, in Olanda. Le sue parole, oggi, e specialmente in Italia, dovrebbero scuoterci: «Quando una società scialacquatrice ha necessità estrema di denaro, lo sottrae anche alle scuole. Questo è uno dei più iniqui delitti dell'umanità e il più assurdo dei suoi errori».

Repubblica 30.12.12
Ecco le formule della semplicità per spiegare la scienza a tutti
Così l’officina di Raffaello assomigliava ad Hollywood
Ecco come 5 grandi studiosi spiegano teorie e concetti
Divulgare la scienza, in un mondo dominato dalla tecnica, è uno dei temi culturali del futuro
di Ian Tucker


“Molte idee sono difficili anche per noi Per capirle facciamo domande idiote a persone intelligenti e le traduciamo per tutti” “Pochi accademici sanno comunicare l’essenza del loro pensiero. Per evitare l’esoterismo bisogna saper distillare gli elementi importanti”

Quali devono essere le qualità di un bravo divulgatore scientifico in un mondo dominato dalla tecnologia? Come si fa a spiegare cose complesse in modo semplice? Per saperlo abbiamo coinvolto, prima della cerimonia per l’assegnazione del Winton Prize, premio per il miglior libro scientifico dell’anno secondo la Royal Society di Londra, cinque dei sei finalisti: Steven Pinker, James Gleick, Brian Greene, Lone Frank e Joshua Foer, tra le maggiori autorità in questo campo.
Il tema è centrale, nella nostra società. Man mano che la scienza scopre sempre più cose sul nostro universo, le teorie e le scoperte diventano progressivamente più tecniche e infarcite di dati. Tanto più difficile e importante diventa quindi il compito di scienziati e divulgatori, che devono trasformare questo complesso lavoro in una prosa chiara e accessibile.
Perché è importante la divulgazione scientifica?
Joshua Foer:
Quando fu fondata la Royal Society, nel 1660, era ancora possibile per una persona istruita, un erudito, sapere qualcosa su tutti gli argomenti. Oggi non è possibile. Steven Pinker è un grande esperto di scienze cognitive, ma scommetto che non è in grado di spiegare come hanno scoperto il bosone di Higgs.
Brian Greene:
Me l’ha spiegato proprio poco fa e direi che se l’è cavata piuttosto bene.
JF:
Questo fa capire perché ci sia bisogno più che mai di persone brave a fare da interpreti. Quello che facciamo diventa sempre più importante perché la scienza diventa sempre più esoterica e servono persone che aiutino tutti a capirla.
Quando scrivete, qual è il livello di difficoltà che considerate accettabile per i vostri lettori?
Steven Pinker:
Prima di scrivere il mio primo libro di scienze cognitive una redattrice editoriale mi diede un consiglio. Mi disse che il problema che hanno molti scienziati e professori quando scrivono per il grande pubblico è che sono sussiegosi: danno per scontato che i lettori non siano troppo intelligenti, che il loro pubblico sia composto da camionisti, spennapolli e nonnine che lavorano a maglia, perciò scrivono come se si rivolgessero a un bambino piccolo, parlano con condiscendenza. Questa redattrice mi disse: «Devi partire dall’idea che i tuoi lettori sono intelligenti quanto te, curiosi quanto te, ma non sanno quello che sai tu e il tuo compito è dirgli quello che non sanno». Io sono favorevole a far fare un po’ di fatica al lettore, come io faccio la fatica di fornirgli tutto il materiale di cui ha bisogno per dare senso compiuto a un’idea.
Lone Frank:
Tantissimi ti dicono di non usare termini tecnici complicati, ma si può spiegare tutto alle persone se lo si fa scrivendo bene e usando parole semplici.
Vi è mai capitato di omettere qualcosa perché lo trovavate troppo difficile da spiegare?
BG:
Mai? Sempre. Sono d’accordo, in linea di principio, che tutto sia spiegabile, ma provate a spiegare le simmetrie nella geometria algebrica a un pubblico di non addetti ai lavori. Buona fortuna. Ci sono cose che sono davvero troppo difficili da comprendere se non si ha una formazione tecnica, ma l’abilità sta nel lasciare quel tanto che basta dell’essenza dell’argomento trattato da non svuotarlo del suo significato e rendergli giustizia.
JF:
Alla fin fine tutte le persone presenti in questa stanza per certi versi sono degli intrattenitori. Siamo in competizione con blog, videogiochi, film per catturare l’attenzione dei lettori. Io cerco di raccontare storie capaci di portare le persone dal posto A al posto B, non semplicemente nel senso di un tragitto narrativo, ma anche nel senso della comprensione dell’argomento. Farsi condurre in un viaggio del genere può rivelarsi straordinariamente gratificante.
James Gleick:
Non so se suonerà come una confessione o come una sbruffonata, ma spesso ci sono certi argomenti di cui scrivo che io stesso a stento riesco a capire. Scrivo libri su cose che mi interessano, racconto storie che considero importanti per la nostra cultura, e le cose scientifiche hanno sempre più peso.
L’informazione per certi versi non è un libro scientifico, ma scrivendolo ho dovuto barcamenarmi con cose parecchio tecniche. Perciò, per quanto mi riguarda, per capire queste cose spesso sono costretto a fare un sacco di domande idiote a persone intelligenti.
Nella mente della maggior parte delle persone, l’apprendimento è sinonimo di fatica. Vi capita di pensare che se non è difficile non è scienza?
SP:
Vi racconto un aneddoto che può far capire la differenza fra la mentalità dello scienziato e quella dello studioso di discipline umanistiche. Una volta andai a una conferenza a cui partecipavano scienziati e umanisti. Alla fine di una chiacchierata sull’analisi di un dipinto, l’oratore disse: «Bene, spero di aver reso più complicata la materia in oggetto sotto diversi aspetti». Mi venne da pensare che era questa la differenza fra uno scienziato e un critico, che lo scienziato avrebbe detto: «Spero di aver reso più semplice la materia in questione sotto diversi aspetti».
LF:
Tantissimi lettori di questi tempi si aspettano che tutto sia facile: non c’è nulla per cui siano disposti a faticare, e non accettano di leggere un libro se questo libro è appena un po’ difficile: lo buttano via e trovano qualcos’altro.
In questo momento sembra che ci sia un mini-boom dei libri scientifici. Cosa ne pensate?
BG:
Penso che ci siano sempre più persone desiderose di sapere veramente che cosa succede nel mondo della scienza.
SP:
Teniamo anche conto che noi persone istruite viviamo sempre di più in un mondo definito dalla scienza. La gente non crede che il mondo sia stato creato 5.000 anni fa, almeno non il tipo di persone che cerchiamo di convincere a comprare i nostri libri. Le persone istruite accettano il fatto che ci siamo evoluti dai primati, che la nostra vita mentale dipende dal funzionamento del nostro cervello, che siamo soggetti a illusioni, superstizioni e pregiudizi. Sono interrogativi esistenziali profondi, ed è la scienza a sollevare questi interrogativi e dar loro una risposta.
JG:
È chiaro che noi attribuiamo valore alla scienza, è chiaro che noi siamo consapevoli che è la scienza che spiega le domande a cui vogliamo assolutamente trovare una risposta. La cosa che più spaventa è che negli Stati Uniti (il Paese dove quattro di noi vivono) vediamo affermarsi la tendenza opposta: improvvisamente ho l’impressione che le persone siano sempre più ostili all’idea che sia la scienza quella a cui bisogna rivolgersi per trovare la risposta a queste domande.
SP:
Sì, probabilmente è vero che uno dei due grandi partiti politici in America si mostra fieramente ostile alla visione scientifica del mondo. Ma secondo me non è il modo migliore per vedere la faccenda, perché quando devono cercare un giacimento di petrolio queste persone fanno comunque affidamento sulle teorie sull’età della Terra che tutti consideriamo valide; quando si ammalano vanno dal dottore e si preoccupano dell’evoluzione della resistenza ai farmaci, proprio come facciamo noi. Non sono Amish, non è gente che ritorna a coltivare la terra. In un certo senso hanno già accettato il mondo della scienza, ci sono solo alcune questioni fortemente simboliche, che definiscono l’identità morale e politica di un individuo, su cui non sono disposti a discutere, e io penso che questo sia molto diverso dall’ignoranza scientifica. Uno studio fatto da un ex specializzando nel mio dipartimento, a Harvard, dimostrava che le persone che credono nella teoria dell’evoluzione non ne hanno una conoscenza migliore di quelle che la contestano. Non dobbiamo confondere la moralizzazione di un numero limitato di temi controversi con un’ostilità generale verso la visione scientifica del mondo.
La divulgazione utilizza spesso analogie. È meglio cavarsela con un’analogia comprensibile ma magari imperfetta o descrivere la faccenda nel dettaglio ma con il rischio di risultare incomprensibili?
SP:
L’analogia possiede una forza straordinaria. Si potrebbe dire che a parte il mondo fisico della caduta dei gravi la nostra comprensione delle cose passa sempre per l’analogia. Se guardate il linguaggio, in pratica è una metafora continua. Ma c’è una differenza fra la metafora letteraria e l’analogia scientifica, e sta nel fatto che in una metafora letteraria più collegamenti ci sono fra la figura retorica e la cosa concreta più la metafora è bella e ricca, mentre nell’analogia scientifica se ci sono troppi rimandi differenti al mondo reale vuol dire che è un’analogia infelice. Le analogie devono essere scelte e spiegate con cura. Bisogna mettere bene in evidenza al lettore, punto per punto, la corrispondenza fra la cosa concreta che si sta spiegando e l’analogia. Essere sballottati da un’analogia all’altra senza sapere quale è il punto, questo rende un’analogia fuorviante.
Ho letto da qualche parte che le analogie sono come soprabiti della misura sbagliata: le parti più importanti sono coperte, ma qualcosa può sporgere e intralciare il movimento.
JG:
Non sono d’accordo! Qualunque cosa può essere fatta male, ma sono anche convinto che l’analogia sia il modo in cui noi esseri umani impariamo ed esploriamo il nostro mondo. È vero, da un certo punto di vista, che un fisico vi dirà che il linguaggio della natura è la matematica, ma sono anche convinto che qualsiasi fisico, quando si crea la sua comprensione del mondo, pensa automaticamente mediante analogie. Qualunque modello scientifico o teorico è una sorta di analogia, il che è come dire che è imperfetto, fallace per definizione e come minimo incompleto. È un modello, non è il mondo in sé e per sé.
Gli autori scientifici sono reporter alle frontiere della conoscenza o dell’immaginazione?
LF:
Tantissime persone non si rendono conto che quello che fa la scienza influenza concretamente il loro modo di pensare. Pensano che la cultura nasca dalla filosofia, dalle opere teatrali e roba del genere, e che la scienza produca solo gadget. Io voglio cercare di far vedere come la conoscenza scientifica influenza la nostra cultura.
BG:
Penso che sia fondamentale che i bambini si rendano conto che la scienza implica la stessa creatività di qualunque altra disciplina definita creativa.
JG:
Penso che tutti noi che siamo seduti a questo tavolo non scriveremmo di scienza se condividessimo l’idea che il processo scientifico sia qualcosa di mnemonico e ripetitivo. Tutti e cinque abbiamo concentrato la nostra attenzione sull’immaginazione e la creatività, non solo come elementi occasionali accidentali del processo scientifico, ma come le cose che fanno funzionare questo processo, che lo rendono eccitante.
SP:
L’unico appunto che mi viene da fare a tutto questo è che nella scienza non basta essere immaginativi e creativi, bisogna anche dire cose esatte. Ci sono un mucchio di persone piene di immaginazione di cui la storia non ha conservato traccia, perché i loro bellissimi ed eleganti schemi non trovavano riscontro nella realtà.
Gli scienziati sono i peggiori nemici di se stessi quando si tratta di comunicare il proprio lavoro?
BG:
All’Università di Stony Brook c’è un nuovo istituto che nel programma di studi per gli specializzandi delle facoltà scientifiche prevede anche lezioni di comunicazione scientifica. A me sembra ragionevole pensare che se le persone riuscissero a comunicare meglio, anche tra scienziati e scienziati, più liberamente, in modo più chiaro, si metterebbero in moto più cose.
JF:
Quello che dovrebbe fare un libro o un articolo divulgativo è distillare, trovare gli elementi essenziali e comunicarli. Non è semplicemente un atto narrativo, è un atto del pensiero e richiede una chiarezza comunicativa da cui non solo gli scienziati, ma anche gli accademici in generale si sono allontanati: e il mio parere è che questo rende meno chiaro il loro pensiero.
(Traduzione di Fabio Galimberti) © /Guardian News & Media Ltd

Repubblica 30.12.12
Sguardo di un’analista sul cinema d’autore
di Luciana Sica


Fin dal tempo di Freud a Hollywood( scritto con Alvise Sapori, negli anni Ottanta), Simona Argentieri si è appassionata al territorio di confine tra psicoanalisi e cinema, quei due gemelli immaginari nati alla fine dell’Ottocento. Analista di fama, l’Argentieri – da “spettatrice professionista” – raccoglie in questo librino una serie di sue curiose recensioni di film: da Volver a Irina Palm, da Gomorra a Il nastrobianco, da Le vite degli altri a I segreti di Brokeback Mountain, da Bastardi senza gloria a The Tree of Life. Una scelta che lei stessa definisce “necessariamente limitata” e comunque con l’avvertenza di non aver mai utilizzato la strumentazione psicoanalitica per stendere sul divano i cineasti e i loro personaggi di fantasia. Non è questo che ha mai interessato l’Argentieri, piuttosto contraria a quella passione degli analisti per i film autoriali che oggi è parecchio alla moda, “applicazione” a volte cervellotica e tutt’altro che convincente della psicoanalisi... Freud non amava il cinema, ne diffidava profondamente, ma oggi si direbbe che un’ondata di suoi seguaci ne è sedotta piuttosto ingenuamente. Non è il caso però dell’Argentieri, che con la fabbrica dei sogni invita anche un po’ a giocare.©
DIETRO LO SCHERMO di Simona Argentieri espress edizioni, pagg. 126, euro 5,90

Repubblica 30.12.12
Come nasce l’intellettuale sanguinario
di Simonetta Fiori


È un viaggio impervio, a tratti disgustoso, che mette di fronte a verità sgradevoli. Un viaggio nella geografia dei cervelli di ottanta intellettuali sterminatori che rovescia il celebre assunto di Goya. Non sempre è il sonno della ragione a generare mostri. Il male può scaturire non solo dalla barbarie e dalla follia, ma anche dal lucido dispiegamento di un’intelligenza atroce. E se Le Benevole di Littell ce ne ha fornito una rappresentazione artistica, il saggio storico di Christian Ingrao è una documentata discesa negli inferi di un gruppo di maîtres à penser che scelse di aderire alle SS, al suo Servizio di sicurezza, per poi prendere parte alle campagne di sterminio; forse ancora più perturbante del romanzo perché storia vera, ricostruita sulle fonti.
«Erano belli, brillanti, intelligenti e colti», così comincia il racconto dell’orrore di
Croire et détruire. Les intellectuels dans la machine de guerre Ss (uscito da Fayard e appena tradotto per Einaudi da Mario Marchetti e Frédéric Ieva). È la storia di un’élite coltivata che non è quella dei grandi nomi del nazismo, ma fu egualmente responsabile delle violenze contro gli ebrei nell’Europa orientale. Economisti. Giuristi. Linguisti. Filosofi. Storici. Geografi. Una laurea nelle migliori università tedesche, buona media agli esami, in qualche caso una felice carriera accademica. Si resero colpevoli della morte di una moltitudine di uomini e donne, non solo nell’atto del decidere, talvolta sparando con mano nervosa sul bordo di una fossa o seduti al banchetto della vittoria invaso dagli odori dolciastri dei corpi massacrati. Quando affrontarono i processi, i più ricorsero a sapienti strategie di negazione o di depistaggio, altri tentarono di giustificarsi. Nessuno rinunciò al piglio professorale. Più da esperto, che da criminale sotto interrogatorio.
Il merito di Ingrao, che dirige a Parigi l’Institut d’Histoire du Temps Présent, è stato quello di esplorare le singole biografie dei savants carnefici, nati più o meno sul finire del primo decennio dello scorso secolo, e provenienti da Gottinga e Heidelberg, da Monaco e Lipsia, ma anche da Bonn, “fortezza intellettuale di frontiera”. Grande libertà e mobilità geografica segnano i loro percorsi universitari, sulle tracce dei maestri allora più influenti. Le discipline scelte – soprattutto economia e materie umanistiche, meno il diritto, almeno fino all’avvento del nazismo – si prestano a far da ponte tra sapere accademico e militanza ideologica. Ed è la storiografia il terreno più esposto all’uso politico, nel quale la cifra dominante almeno fino al 1933 non è ancora il determinismo razziale ma la totale adesione alla causa tedesca.
Se la formazione universitaria è un capitolo significativo di questa storia, la chiave che ci apre più porte sullo sterminio successivo va cercata nell’infanzia, che coincide per tutti con la Grande Guerra. Il libro esplora le ferite lasciate aperte dal conflitto, non solo in termini di sconfitta a cui porre riparo ma soprattutto sul piano simbolico, legate all’esperienza della fame, della perdita e del lutto (furono circa diciotto milioni i tedeschi toccati da morti in famiglia). Un trauma collettivo che grazie a uno straordinario dispiegamento pedagogico messo in campo dalla società e dallo Stato fu plasmato nella fortunata immagine di un accerchiamento di massa. La Germania costantemente minacciata dall’invasione del nemico. Angosce di tipo apocalittico furono interiorizzate dai futuri intellettuali delle SS, ritratti da Ingrao come figli di una guerra di cui rimarranno prigionieri, specie quando si trattò di continuarla sul fronte orientale, nelle campagne di Polonia e dell’Unione Sovietica. L’Est simboleggia uno spazio mitico, «una tabula rasa che la germanità potrà plasmare», ma soprattutto «un luogo dell’ansia» dove si intrecciano “vittoria” e “pericolo”. Ed è in nome di una retorica difensiva, assorbita sui banchi di scuola, che le élites intellettuali delle SS diedero vita alle peggiori carneficine. Dalla parola “securitaria” a quella “genocidaria” il passo fu molto breve. Quella virgola che separa il “credere” dal “distruggere”.

CREDERE, DISTRUGGERE di Christian Ingrao Einaudi trad. di F. Leva e M. Marchetti pagg. 408 euro 34

Repubblica 30.12.12
L’Hollywood di Raffaello
di John Berger e Katya Berger


Raffaello fu uno dei tre grandi maestri dell’Alto Rinascimento. Tuttavia, messa a confronto con quella degli altri due – Michelangelo e Leonardo Da Vinci –, la sua opera è stranamente elusiva. Gli esperti non riescono mai a decidere se la maggioranza dei suoi lavori sia di sua mano, di uno dei suoi assistenti, oppure dell’ampio “studio” di pittura che egli fondò per soddisfare le continue commesse che riceveva dal Vaticano.
Questo studio era diverso da quello dei pittori che lo avevano preceduto. Non era una bottega artigiana dove il maestro è affiancato da qualche assistente. Somigliava piuttosto a una Hollywood per la produzione di dipinti, affreschi e cartoni per arazzi. Una Hollywood plastica.
I suoi dipinti sono elusivi perché è impossibile riconoscere il suo “tocco”. Rivelano ben poco della propria fattura; sono semplicemente e incontestabilmente lì, con la loro limpida, inequivocabile atmosfera: un’atmosfera di ricchezza, grazia e gesti imperiosi.
Si ha quasi la bizzarra impressione che siano venuti alla luce bell’e pronti. La loro inventiva e originalità è, per l’epoca, impressionante, ma riguarda la loro ideazione più che l’esecuzione. È come se Raffaello avesse concepito un’intera comitiva di modelli – di grazia, devozione, maternità, pietà, ardimento – e li conservasse al buio in qualche imprevedibile deposito o magazzino della mente e poi, allorché lo invitavano a dipingere un determinato soggetto, aprisse il deposito, ne tirasse fuori uno o due bell’e pronti e li deponesse, li fissasse sulla tela.
Alcuni dei ritratti dipinti da Raffaello sono più caratterizzati. I suoi amici Baldassare Castiglione e Andrea Navagero sanno che la vita è crudele e lo guardano con tenerezza. In questi dipinti l’enigma del modello, lo sforzo di concentrazione da entrambe le parti, l’ammissione che la vita è crudele, la soddisfazione di un riconoscimento improvviso: tutto questo è dichiarato. Sono tra le immagini d’amicizia più sincere che esistano in pittura. Non dimentichiamo però che bisogna essere in due per fare un grande ritratto. È indispensabile una collaborazione stretta tra modello e artista mentre lottano per avvicinarsi l’uno all’altro.
Nei dipinti tematici di Raffaello non c’è segno di esitazione, lotta o difficoltà di avvicinamento. I modelli sono proprio lì. Si tratta solo di riconoscerli. Il tempo che li circonda è senza tempo. Entriamo nella loro “eternità”, per tutto il tempo che vogliamo.
La medesima atemporalità è inscritta nel corpo delle figure dipinte. Osservate i loro lineamenti, le mani, i corpi: qualunque età abbiano, in loro non c’è traccia del passare degli anni. Sono senza età.
Esenti dall’accanimento del tempo, lo sono anche dalla forza di gravità. Sono senza peso.
Le pieghe delle vesti, dipinte con meticolosità, cadono come dovrebbero; il ginocchio piegato di una figura genuflessa tocca il suolo come dovrebbe; saltando, un piede atterra proprio nel punto giusto. Eppure sono senza peso, perché non c’è compressione. Una Madonna in un campo è simile a una Madonna su una nuvola: sono entrambe leggere come palloncini a elio.
Non scalfite dal trascorrere del tempo, non appesantite da nulla, avvolte in abiti sontuosi e dai colori vivaci, fanno pensare a indossatrici in passerella.
In questo il contrasto tra Raffaello e Mantegna, suo immediato predecessore, è davvero impressionante, perché quest’ultimo insisteva sulla forza di gravità (il Cristo morto giace piatto e greve sul terreno) e su quel che il tempo fa ai volti e a ogni cosa viva.
Nelle opere sacre di Raffaello appena descritte c’è un’eccezione occasionale, ma ricorrente: a volte ci sono dettagli ravvicinati tratti dalla natura – piante, un ramo d’albero, del muschio su una roccia – in cui i segni dello sviluppo organico, della crescita e decomposizione, sono stati osservati e inclusi. Guardate, per esempio, alle tante versioni del suo San Giovanni nel deserto. L’influenza di Dürer – con il quale Raffaello era in corrispondenza – è palese in questi dettagli. Essi, tuttavia, suggeriscono anche che l’atemporalità delle figure dipinte non è qualcosa di intrinseco al modo in cui Raffaello e la sua bottega osservano tutto ciò che esiste, bensì una scelta ideologica che determina la maniera in cui presentano i loro protagonisti, le loro figure leggendarie, le loro star.
Il confronto forzato tra l’elaborato studio romano di Raffaello e Hollywood ci permette ora di venire a patti con qualcos’altro: la priorità di entrambe le “imprese” è produrre e offrire Glamour, che nell’Italia del sedicesimo secolo si chiamava Grazia. Snelli, per sempre giovani, con un sorriso invitante per ogni occasione.
L’assistente principale di Raffaello, e il suo preferito, era Giulio Romano. Dopo la morte precoce del maestro all’età di trentasette anni – la produttività dell’impresa è tale che si tende a dimenticare quanto sia stata breve la sua vita – Giulio Romano continuò a produrre una pletora di opere inconfondibilmente sue, tra cui gli affreschi di Palazzo Te a Mantova. Per temperamento Romano era assai diverso dal suo maestro. Raffaello era un uomo ambizioso, ma schivo. Si considerava un agente. Un agente del Vaticano e della fede cristiana. Un agente di genio. Romano, invece, era uno scaltro promotore di se stesso.
Con pochi tocchi trasformò la figura dipinta da Raffaello nel prototipo del kitsch del ventesimo secolo, nella modella dell’industria della moda. O, come Damien Hirst, produsse all’interno del Palazzo di Mantova una sensazionalistica installazione-horror per assicurarsi di essere ricordato in proprio.
A questo punto è necessario chiedersi in che misura il metodo produttivo di Raffaello e della sua impresa incidesse sul contenuto delle immagini prodotte, quanto influenzasse quel che avevano da dire sulla condizione umana.
Le figure, le Madonne, i martiri, i santi, i testimoni sono lì davanti a noi, e ci interpellano mostrandoci qualcosa di esemplare. Rappresentano l’Essere. Ci ricordano il nostro Essere. Tuttavia, poiché gli è stata risparmiata la prova del tempo, poiché esistono atemporalmente, non c’è spazio e neppure tempo per il concetto e l’energia del Divenire. E così escludono l’esperienza della durata, del desiderio, della resistenza. Negano che nella condizione umana il Divenire sia la parte fondamentale dell’Essere. Rappresentano una ricompensa data, ma non sanno nulla della speranza.
Potrebbe essere la ragione profonda per cui, nei secoli che seguirono il sacco di Roma del 1527, via via che l’Europa andava politicizzandosi, l’opera di Raffaello fu considerata sempre meno rilevante. Aveva il suo posto nella storia dell’arte e alcuni dei suoi dipinti divennero immagini- reliquiario comuni e popolari per la Chiesa e per i credenti, ma cessò di essere di stimolo o ispirazione per chi era interessato al futuro.
Eppure adesso, secondo il catalogo dell’importante mostra in corso al Louvre, l’interesse per Raffaello e la sua impresa è rinato: “è probabilmente più forte oggi di quanto sia stato negli ultimi due secoli”.
La ragione è chiara. L’Europa è sempre più disperatamente spoliticizzata. Un’era politica è finita. Quella che la sostituirà è ancora nascosta o rivoluzionaria. E così la falsa promessa di una “ricompensa data da qualche altra parte” riacquista il suo fascino spurio agli occhi di chi non ha più i mezzi per resistere.
(Traduzione di Maria Nadotti)