giovedì 3 gennaio 2013

l’Unità 3.1.13
Stefano Fassina: «La sua lista sembra il Rotary. Così dimentica i più deboli»
«Sinistra-destra esistono: noi stiamo con i lavoratori Monti con le grande imprese e con le banche»
Il responsabile economico Pd additato dal premier come conservatore:
«Gli iper garantiti non sono certo i lavoratori»
di Simone Collini


«Sarebbe interessante capire chi sono i lavoratori iperprotetti», dice Stefano Fassina, accusato da Mario Monti di essere un conservatore. Il responsabile Economia del Pd, primo a Roma alle primarie per i parlamentari con quasi 12 mila voti, snocciola cifre (dall’ammontare degli stipendi medi alle ore sempre più alte di cassa integrazione), ricorda che c’è stato «un minimo di correzione contro i licenziamenti illegittimi», e poi dice: «Gli ipergarantiti sono altri, cioè quel 10% di italiani che ha nelle mani il 50% della ricchezza».
Se lo aspettava un simile attacco da parte di Monti?
«Veramente mi aspettavo altro». Cioè?
«Pensavo che, dopo il confronto della primavera scorsa sul mercato del lavoro, Monti recuperasse un deficit di conoscenza delle condizioni reali dei lavoratori italiani. E invece vedo che insiste sulla svalutazione del lavoro come mezzo per recuperare competitività. Propone, in linea con i conservatori, un europeismo mercantilista che oltre a soffocare l’economia reale fa aumentare ovunque il debito pubblico, in una spirale deflattiva che alimenta i populismi, veri avversari di tutti gli europeisti».
Non crede sia vero, come dice Monti, che servono riforme per dare “più fiato” all’economia italiana?
«Guardi, il tratto distintivo del pensiero unico è che si debba insistere sulle regole del mercato del lavoro per competere. Bisogna invece puntare, come segnala l’agenda progressista, sulla correzione della politica economica prevalente nell’area euro per sostenere lo sviluppo, perché senza sviluppo nessuna modifica alle regole del mercato del lavoro può portare a maggiore e migliore occupazione».
Lei parla di conservatori e progressisti. Monti invece sostiene che la distinzione tra destra e sinistra è senza significato. «Non sono d’accordo. Uno dei compiti fondamentali che dobbiamo svolgere in Italia è proprio quello di europeizzare il sistema politico. Sinistra e destra esistono ed esisteranno sempre, come sono sempre esistiti i tentativi di far passare la rappresentazione degli interessi dei più forti come l’interesse generale. Il presidente Monti legittimamente sta con Marchionne, Montezemolo, Passera, cioè grande impresa e grandi banche. Noi stiamo con i giovani precari, con i lavoratori, con gli artigiani, i commercianti e i pensionati in difficoltà». Che continueranno ad essere in difficoltà se non aumenta la ricchezza da redistribuire, non crede?
«Da trent’anni si predica che viene prima la crescita e poi la redistribuzione, che vengono attuati interventi per premiare i più forti, con la favola che maggiore diseguaglianza porta maggiore crescita. Ma abbiamo visto nel 2008 come è andata a finire: soffocamento delle classi medie, concentrazione della ricchezza e del potere nelle mani di pochi sempre più ricchi. Lo avevano già capito i liberali illuminati come Keynes che, senza decenti condizioni del lavoro e senza redistribuzione del reddito, il meccanismo di accumulazione del capitalismo si inceppa. Chi oggi continua a insistere sulla svalutazione del lavoro come soluzione della crisi aggrava le condizioni generali dell’economia e della finanza pubblica».
Secondo lei, la lista Monti va in questa direzione?
«La lista Monti, visto anche il livello di reddito di coloro che ne faranno parte, sembra tanto la lista del Rotary club. È davvero difficile comprendere come l’aristocrazia economica e finanziaria italiana possa rappresentare chi vive con mille euro al mese».
Il presidente del Consiglio dice che occorre “ridurre le tasse sul lavoro e parallelamente ridurre la spesa”: questo almeno lo condivide?
«La pressione fiscale è troppo elevata e va ridotta, sì. Ma dobbiamo farlo recuperando risorse dall’evasione e redistribuendo il carico dai redditi da lavoro e impresa ai grandi patrimoni. La spesa primaria corrente italiana è la più bassa dell’area euro. Insistere, come propone Monti, su ulteriori tagli vuol dire colpire le condizioni di vita di chi è più in difficoltà e penalizzare le classi medie. Monti, Montezemolo, Passera e Marchionne mandano i loro figli alle scuole private, si rivolgono alla sanità privata, si coprono dai rischi attraverso assicurazioni private. Noi vogliamo adeguare il welfare alle sfide di oggi e valorizzare nel quadro di responsabilità pubbliche le preziose forze dell’impresa sociale secondo i principi della sussidiarietà».
A sentirla sembra abbia ragione Casini a dire che la sfida è tra Monti e Bersani. «No, perché la linea di frattura fondamentale oggi è tra europeisti e populisti. Il nostro vero avversario sono i populismi vecchi e nuovi, Grillo, il Berlusconi spompato, il leghismo spaesato. L’europeismo mercantilista di Monti e il nostro europeismo progressista rappresentano interessi diversi, è vero, ma possono cooperare per sconfiggere i populisti e costruire una più forte integrazione politica nell’area euro».
Lo dice lei che è stato appena attaccato da Monti?
«La competizione elettorale comporta inevitabilmente, soprattutto da parte di chi sembra ispirato da una visione integralista, a momenti di attrito. Dopodiché la comune vocazione europeista aiuterà a trovare i punti di convergenza». E la comune volontà di esprimere la premiership?
«Saranno gli elettori a scegliere chi deve essere alla guida del governo».

Corriere 3.1.13
Così il Pd si sposta ancora più a Sinistra
di Antonio Polito


Pier Luigi Bersani non è mai stato così saldamente al comando del Pd, ma il Pd non è mai stato così a sinistra. Questo è il bilancio del terzo round delle primarie che ha scelto i candidati a un seggio in parlamento. L'esito ha premiato con nettezza i più radicali sui temi sociali (Fassina a Roma e Damiano a Torino in particolare) e i più attivi sul territorio (spesso giovani e sconosciuti). Il responso sull'identità del partito forgiato da Bersani è dunque chiaro: quello che era un «amalgama mal riuscito» di diverse tendenze (così lo definì D'Alema) è diventato una forza di sinistra.
Il Pd è diventato una forza più omogenea perché ormai liberatasi dalle contaminazioni liberal-riformiste del tempo di Veltroni, con i «popolari» ridotti a una testimonianza, e dunque pronta ad aderire senza più titubanze al Partito socialista europeo. La «Ditta», come Bersani ha sempre chiamato il suo partito (anche quelli precedenti), è stata molto rinnovata; ma è anche tornata ad essere robusta e disciplinata.
Il simbolo di questa vera e propria mutazione genetica sta nel successo dei cosiddetti «giovani turchi», il gruppetto di trenta-quarantenni che in questi anni sono stati l'ala marciante della corrente del segretario, combattendo le battaglie che lui non poteva combattere in prima persona. Innanzitutto per liberarsi degli «elefanti», i vecchi capi corrente il cui potere è stato praticamente spazzato via dalle primarie. In secondo luogo per marcare un'identità più radicale: sono stati loro ad attaccare Renzi come cavallo di Troia della destra, e a guidare la fronda interna antimontiana (anche se poi hanno votato tutti i provvedimenti del governo).
Questo sviluppo da un lato rafforza il segretario. Si calcola che tra «giovani turchi» e «vecchi turchi» di più tradizionale osservanza bersaniana, i sostenitori del leader saranno almeno il 60% dei nuovi gruppi parlamentari. Il resto sarà diviso tra i renziani rimasti orfani di Renzi, le varie parrocchie dei «popolari», gli sparsi reduci di Veltroni (se Bersani ne salverà qualcuno nel listino). Però questi giovani che arriveranno in parlamento sull'onda di migliaia di voti delle sezioni e non per grazia ricevuta dal segretario, saranno anche molto più indipendenti, e liberi di combattere le loro battaglie politiche. Il Pd nella prossima legislatura avrà dunque una forte corrente di sinistra guidata dagli Orfini, dai Fassina, dagli Orlando, dai Damiano. Ognuno di loro dovrà lealtà al suo elettorato (Cgil compresa) prima ancora che al suo leader. È il bello della democrazia, ma la democrazia ha le sue complicazioni.
La «gens nova» del Pd può infatti rendere ancor più difficile di quanto già non lo sia diventata un'alleanza postelettorale con l'area Monti. Finora Bersani ha sempre presentato il suo disegno politico come un classico gioco in due tempi; prima rimetto insieme tutta la sinistra (cioè evito di avere concorrenti alla mia sinistra) e poi la porto all'incontro con i moderati. Ma se e quando proporrà questa alleanza (cosa che sarà addirittura necessaria nel caso che al Senato la sinistra non sia autosufficiente) non dovrà più convincere solo una settantina di recalcitranti deputati vendoliani, ma anche una settantina di deputati del suo partito che hanno raccolto voti su una linea di forte ostilità, talvolta persino sprezzante, all'area e all'agenda Monti. D'altra parte Vendola e Fassina sono considerati da Monti medesimo proprio quei prototipi di «conservatori» contro i quali è salito in politica. Ce li vedete insieme dopo il voto?
Bersani tenterà probabilmente ora una correzione inserendo nel suo «listino» personalità più riformiste: ieri per esempio ha scelto Carlo Dell'Aringa, un giuslavorista amico di Biagi al quale il Pd preferì Elsa Fornero al momento della composizione del governo Monti, tant'erano mal visti in Cgil gli amici di Biagi e tanto forte fu il veto (di Orfini per l'appunto) contro Ichino. Ma gli equilibri politici nei gruppi non saranno fatti dagli «indipendenti» nominati dal segretario, bensì dagli eletti e dalle loro correnti.

il Fatto 3.1.13
Intervista a Felice Casson
“Gli impresentabili vanno cacciati fuori dalle liste”
di Alessandro Ferrucci


Ma lei è proprio sicuro di quello che mi sta dicendo? ” Sì, senatore Casson, basta scorrere la lista dei partecipanti alle primarie, e a Taranto c’è anche Ludovico Vico, l’esponente del Pd intercettato nel-l’inchiesta Ilva, mentre diceva: “Ora, a questo punto… lì alla Camera dobbiamo fargli uscire il sangue a Della Seta (ambientalista, ex presidente di Legambiente, uno dei pochi ad opporsi ai disastri della fabbrica) ”. La stessa persona che ha proposto la modifica dell’art. 674 del c. p., “il getto pericoloso di cose”, in modo da derubricare la pena a semplice sanzione amministrativa. Depenalizzare, insomma, l’unico articolo del codice penale per il quale l’Il-va veniva puntualmente condannata. “(Silenzio) Ah, allora è molto grave. E, lo ammetto, sono sorpreso”.
Bene, quindi?
Credo che il Pd dovrebbe discutere la vicenda.
In che modo?
Premesso, come partito abbiamo istituito un codice etico inedito, dove chi è condannato anche solo in primo grado non può essere candidato.
In questo caso non c’è ancora alcuna condanna.
Ma un’inchiesta molto grave.
Infatti sono stupito. E credo che dovremmo applicare la “terza via”.
Tradotto?
Vede, c’è una giustizia ordinaria e, come le ho detto, un regolamento di partito. Oltre a ciò dovremmo analizzare i casi specifici per rendere ottimo ciò che di buono abbiamo realizzato con le primarie.
Lei è membro della commissione etica del Pd. Sta dicendo che alcune situazioni dovrebbero essere riviste.
Sì, le intercettazioni che hanno coinvolto a Taranto Ludo-vico Vico sono impressionanti.
Il voto è fra quasi due mesi, avete il tempo per studiare la composizione delle liste.
Infatti questo fine settimana ci saranno le direzioni regionali, poi quelle nazionali. Nel primo o secondo appuntamento certe situazioni delicate e particolari andranno risolte. Però dobbiamo stare attenti...
A cosa, in particolare?
Vede, quando si giudicano fatti e persone, è necessario allontanare la discrezionalità, altrimenti si rischia l’abuso in un senso o in un altro .
Oltre a quello di Vico ci sono altri casi, come Crisafulli in Sicilia. O Luongo in Basilicata.
Ribadisco, dobbiamo studiare le vicende.
Avete tempo almeno fino all’8 gennaio. E poi che farete?
Sarebbe utile chiedere a certi soggetti un passo indietro o di lato. Ma, non posso nasconderlo, siamo sulle sabbie mobili.
Addirittura.
Certo, ma dobbiamo farlo. Anche perché nella maggior parte dei casi, come in Veneto, sono state rispettate tutte le indicazioni del partito.
Molti dei nomi incasellati tra gli “impresentabili” sono stati candidati al sud.
Guardi, il problema non è la Sicilia, la Calabria o la Campania. Tutte le situazioni sono legate al potere. Ed è il potere che corrompe.

La Stampa 3.1.13
Campagna acquisti Pd. Arruolato Dell’Aringa
L’economista della Cattolica risposta di Bersani all’uscita di Ichino
di Flavia Amabile


Il Pd taglia il traguardo del ricambio. Si possono discutere i criteri scelti, alcune esclusioni eccellenti- o comunque di rango - ma dalle consultazioni sono emersi molti nomi nuovi di giovani e di donne, molte delle quali tra i trenta e i quarant’anni. Sono una quarantina le candidate ad essere risultate prime nelle preferenze nelle rispettive province, più di un terzo del totale. A loro vanno aggiunte quelle che invece hanno ottenuto un secondo posto così rilevante da rendere quasi sicuro il seggio in Parlamento. Alla fine, insomma, come già nelle politiche di cinque anni fa, il Pd assicura che almeno il 30% degli eletti nelle sue liste sarà donna. Per questo motivo il regolamento delle primarie ha cercato di prevedere un’alternanza uomo-donna e, se vi fossero squilibri, il partito promette che le direzioni regionali interverranno nelle riunioni convocate tra domani e dopodomani. L’ultima parola spetterà alla direzione nazionale dell’8 gennaio.
A questo punto, quindi, il partito è impegnato nel completamento dell’elenco dei candidati. Saranno circa 950 i nomi che saranno messi in lista tra Camera e Senato, in nove casi su dieci si tratta di persone scelte durante le primarie del 29 e 30 dicembre ma solo un quarto di loro avrà un posto blindato in lista. Gli altri dovranno tentare l’impossibile per essere eletti.
Restano ancora da scegliere circa 90 candidati, tutti con l’elezione assicurata. Sono i vertici del partito a decidere in queste ore chi saranno. Ieri si è saputo che nel gruppo degli eccellenti ci sarà anche l’economista Carlo Dell’Aringa che, con il suo curriculum di accademico e profondo esperto dei temi del lavoro, rappresenta la risposta all’uscita dal partito di Piero Ichino, che a Bersani e al Pd ha preferito le liste del premier uscente Mario Monti. «Sono molto contento di accettare la candidatura del Pd ha commentato ieri lui, dopo l’ufficializzazione della notizia - Condivido in tutto l’idea del segretario Bersani di costituire una solida maggioranza, dialogante con le forze moderate di centro, necessaria per coniugare il necessario rigore del bilancio pubblico con una politica che vada maggiormente incontro alle esigenze delle famiglie, del lavoro e delle imprese». Dell’Aringa ha studiato Scienze Politiche all’università Cattolica di Milano e ha conseguito il D. Phil in economia all’università di Oxford. Dal 1980 è professore di Economia Politica all’Università Cattolica. Collabora con enti come l’Arel e il Cnel.
Nei giorni scorsi erano filtrati altri nomi di peso, come quello di Maria Chiara Carrozza, rettore più giovane d’Italia. Nei prossimi giorni si saprà qualcosa di più sui posti ancora vacanti che, con tutta probabilità, verranno occupati da persone interne al Pd che non hanno partecipato alle primarie.
Ma ci saranno anche 47 capilista, alcuni scelti tra i più votati alle primarie, altri dai vertici del Pd. E, quindi, in totale, saranno circa 120 i candidati che otterranno un posto in lista senza essersi sottoposti alle primarie. E altri 200 posti almeno andranno divisi fra i vincitori delle primarie. Ma è un numero destinato a crescere perché si basa sul numero attuale di seggi in Parlamento, cifra che il Pd conta di veder aumentare.

Corriere 3.1.13
E Bersani «chiama» l'economista che non piace alla Cgil
Per Dell'Aringa l'ipotesi ministero del Welfare
di Roberto Bagnoli


ROMA — L'economista e grande esperto di lavoro Carlo Dell'Aringa si candiderà con il Pd. La notizia non è da poco nei giorni in cui si apprende che il giuslavorista ex Cgil e senatore pd Pietro Ichino passa armi e bagagli nelle truppe montiane, usando il veicolo Italia Futura di Luca Cordero di Montezemolo. Dell'Aringa, 73 anni e docente di Economia politica alla Cattolica di Milano, è stato a un passo l'anno scorso da diventare ministro del Welfare del governo di Mario Monti. La vulgata narra che la candidatura cadde per un veto del segretario della Cgil Susanna Camusso. Troppo vicino alla Cisl e uno dei protagonisti del Libro bianco di Marco Biagi. Così arrivò Elsa Fornero.
E ora la sua «salita» nel campo della politica può far immaginare per il professore gradito agli imprenditori il ruolo di ministro del Lavoro nel caso il Pd vada al governo. Una scelta strategica per il Partito democratico accusato di muoversi troppo a trazione vendoliana e sotto le pressioni del sindacato, come dimostra la candidatura dell'ex segretario Cgil Guglielmo Epifani e lo spazio sempre maggiore dato all'ex ministro ed ex Cgil Cesare Damiano.
«La presenza del professor Dell'Aringa renderà più forte il nostro impegno sui grandi temi sociali e del lavoro, voglio ringraziarlo davvero per la sua disponibilità». Queste le parole spese ieri dal segretario pd, Pier Luigi Bersani, alle quali si aggiungono quelle del vice Enrico Letta vero spin doctor della scelta di puntare su Dell'Aringa. «Lo schema politico è chiaro: l'avversario da battere è il populismo di Grillo e Berlusconi — ha commentato ieri Letta intervenendo a Rainews24 —. Con Monti sarà una competizione leale, il nostro obiettivo è creare lavoro e crescita, anche per questo abbiamo candidato il professor Carlo Dell'Aringa che sarà la nostra punta di diamante su questi temi».
Il professore della Cattolica non è infatti un giuslavorista ma un economista del lavoro, laureatosi a Largo Gemelli in Scienze Politiche nel 1962 e con un dottorato in Economia politica a Oxford. Grande amico e collega dell'ex ministro del Lavoro Tiziano Treu (al terzo mandato in Parlamento e quindi in uscita) col quale ha scritto diversi libri per il Mulino — l'ultimo nel 2012 «Giovani senza futuro?» — Dell'Aringa ha fama di riformista e innovatore. Ha sempre criticato gli atteggiamenti massimalisti della Fiom ma non ha esitato a schierarsi contro la Fiat nella sua decisione di uscire da Confindustria e nella vicenda dei 19 lavoratori espulsi da Pomigliano. Collaboratore da molti anni de Il Sole 24 Ore, Dell'Aringa ha fatto parte anche di numerosi comitati scientifici confindustriali. Conosce bene dunque la realtà delle imprese private e di quelle pubbliche essendo stato presidente dell'Aran, l'Agenzia per la rappresentanza delle pubbliche amministrazioni. L'ex responsabile delle relazioni sindacali di Viale Astronomia Giorgio Usai spende per il professore parole nette: «Ha sempre avuto idee moderne, tra i primi a sostenere la contrattazione decentrata, competente e preparatissimo è sempre stato un punto di riferimento al di sopra delle parti».
Nel tribolato iter della riforma delle pensioni, del nuovo welfare e della revisione del mercato del lavoro voluti dalla Fornero, Dell'Aringa ha sempre indicato i difetti di ciò che veniva deciso, ma senza eccedere nei toni. Così come ha criticato la riforma della produttività imposta alle parti sociali dal governo Monti spiegando «che non basta la flessibilità degli orari per fare gli investimenti». Per lui occorre una «politica industriale che sappia aiutare le piccole imprese ad aggregarsi per affrontare le sfide dei mercati globalizzati». La stessa teoria della Camusso, di gran parte del Pd e anche della Confindustria di Giorgio Squinzi, che pure ha condiviso l'accordo sulla produttività. «Sono molto contento di accettare la candidatura del Pd — ha detto Dell'Aringa — condivido in tutto l'idea di Bersani di dialogare con le forze moderate di centro, necessaria per coniugare il rigore dei conti con le esigenze delle famiglie, del lavoro e delle imprese». Più difficile per lui, forse, sarà dialogare con Fassina e Vendola.

Corriere 3.1.13
Damiano: errori nelle riforme Fornero, le cambieremo
«Bisogna tutelare tutti gli esodati Per loro pensioni con le vecchie regole»
di Enrico Marro


ROMA — Mandare in pensione con le vecchie regole tutti gli esodati, anche se fossero altri 260 mila oltre i 130 mila già tutelati. Ripristinare da subito l'indicizzazione ai prezzi delle pensioni superiori a tre volte il minimo. Garantire le attuali durate dell'indennità di mobilità (massimo 48 mesi) finché il Paese non sarà uscito dalla crisi. Cancellare l'articolo 8 della legge Sacconi che consente agli accordi aziendali di derogare alle norme anche in materia di licenziamento. Queste le intenzioni di Cesare Damiano, Pd, ex Fiom-Cgil ma della minoranza riformista, che da ministro del Lavoro del governo Prodi smontò nel 2007 la riforma delle pensioni Maroni, sostituendo lo "scalone" con le più morbide "quote". Ora ha vinto le primarie a Torino e punta a tornare tra i protagonisti della prossima legislatura. Ma, pur censurando l'operato dell'attuale ministro Elsa Fornero, di cui è stato compagno di banco all'Istituto tecnico commerciale Luigi Einaudi di Torino, assicura: «Se torniamo al governo non butteremo le riforme Fornero nel cestino, ma le correggeremo perché contengono errori fondamentali».
Quali?
«L'abolizione delle pensioni d'anzianità e l'accorciamento della durata degli ammortizzatori sociali, decisi in una crisi economica grave e prolungata, ha prodotto una situazione strutturale in cui le persone finiscono per trovarsi senza lavoro e senza pensione, anche per 4-5 anni».
Gli esodati?
«Sì. Avevamo avvertito il governo, poi abbiamo dovuto rimediare in parte, ma se vinciamo le elezioni dobbiamo gradualmente fare in modo che nessuno resti senza reddito, consentendo a tutti, esodati, contributori volontari e le altre categorie interessate, di poter andare in pensione con le regole precedenti alla riforma Fornero».
Quanti sono oltre ai 130 mila cui questo è già stato concesso?
«L'Inps aveva stimato in 390 mila tutti i lavoratori interessati. In questo caso ne resterebbero 260 mila. Secondo altri sono meno. In ogni caso vanno tutelati».
Dove prenderete i soldi, se per salvaguardare 130 mila sono già stati stanziati 9 miliardi?
«I soldi li troveremo perché gli interventi saranno graduali».
Ma ce la farete, considerando che volete trovare risorse anche per ripristinare l'indicizzazione delle pensioni?
«Certo, il blocco della perequazione delle pensioni superiori a tre volte il minimo è già previsto che salti nel 2014, ma se andremo al governo dovremo intervenire già per quest'anno, aprendo subito un tavolo di concertazione con i sindacati dei pensionati».
A parte queste modifiche l'impianto della riforma, cioè le nuove età pensionabili, resterà?
«Per ora posso dire che questa riforma ha bisogno di correzioni profonde, a partire dalla questione degli esodati».
E l'altra riforma Fornero, quella del mercato del lavoro?
«Sulla flessibilità in uscita, dico subito che la soluzione trovata sull'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (licenziamenti, ndr) va bene e che quindi sono contrario al referendum promosso da Sel mentre sono favorevole a cancellare l'articolo 8 introdotto da Sacconi. Sulla flessibilità in entrata bisogna convocare un tavolo imprese-sindacati per trovare soluzioni idonee a rilanciare le assunzioni. Sugli ammortizzatori sociali, invece, bisogna intervenire subito, garantendo la copertura dell'indennità di mobilità fino a quando la crisi non sarà finita».
Il premier Mario Monti dice che voi, riferendosi a Fassina e Vendola in particolare, volete conservare un mondo del lavoro cristallizzato e iperprotetto, impedendo la modernizzazione del Paese.
«Forse è Monti che è arroccato. Non si può andare avanti solo guardando ai mercati finanziari trascurando la realtà del mondo del lavoro».
Col Pd si candida anche Carlo Dell'Aringa, portatore di una linea vicina alla Cisl e alla Confindustria, che la Cgil non volle come ministro del Lavoro del governo Monti. Una Cgil che potrebbe condizionare un eventuale governo Pd. Come farete, in ogni caso, a conciliare Dell'Aringa con la Cgil e con Vendola?
«Quella di Dell'Aringa è un'ottima candidatura: una persona di competenza, di prestigio e di grande equilibrio. Siamo un partito plurale e faremo sintesi tra posizioni diverse. Quando alla Cgil, basta con le favole metropolitane: è finito il tempo della cinghia di trasmissione. Ormai c'è indipendenza, anche se non indifferenza. E comunque il Pd guarda all'insieme del sindacato».

Repubblica 3.1.13
Il retroscena
L’ira dei democratici sul premier e salta l’incontro con Pierluigi
Il segretario: non voglio fare polemiche di questo tipo
di Carmelo Lopapa


ROMA — E adesso che il Professore prende le distanze anche dal Pd di Bersani, il tavolo rischia di saltare. Il gentlemen’s agreement che tacitamente i due avevano pattuito pare già archiviato. Il clima muta repentinamente, al punto che nel giro di poche ore dalla sortita radiofonica di Mario Monti, la segreteria del Nazareno manda in freezer l’incontro tra il presidente del Consiglio e il segretario democrat era stato messo in agenda. Non è il momento, più in là, forse.
Un faccia a faccia che nelle intenzioni dei due — nel solco della collaborazione che ha segnato questi tredici mesi di governo — avrebbe dovuto spianare la strada a una campagna elettorale all’insegna del reciproco «rispetto». Colpi di fioretto sì, necessari anche per soddisfare le aspettative dei reciproci elettorati. Ma senza oltrepassare un certo limite: questo nella carta delle buone intenzioni. Mario Monti invece alza il tiro, azzanna l’ala sinistra della coalizione, taccia di «conservazione». E lo stesso farà con molta probabilità nelle nuove apparizioni tv in programma oggi a Unomattina e forse domani a Sky e in altre ancora già pianificate. Pier Luigi Bersani non ha gradito affatto la svolta. Ha lasciato che altri esprimessero tutto il disappunto del partito mettendo in guardia il Professore dalla deriva del «populismo» e della «demagogia», neanche fosse Berlusconi. Il segretario non replica alle accuse. «Non mi metto a inseguire nessuno sulla polemica spicciola di tutti i giorni, nemmeno Monti — ragiona però coi suoi collaboratori — Io voglio fare un’altra campagna elettorale, senza insulti». Detto questo, anche per il Pd adesso lo scenario muta. E i colpi di fioretto lasceranno posto alla sciabola. Non fosse altro perché il «partito» del premier ormai «sale in campo» anche nel Lazio e in Lombardia, presentando propri candidati nelle due regioni chiave e rischia di complicare alquanto il cammino di Zingaretti e Ambrosoli. Da semplice competitor, «Con Monti per l’Italia » diventa avversario. Democratici poco inclini agli sconti, sebbene consapevoli del fatto che proprio da una buona affermazione della lista unica montiana al Senato nelle regioni strategiche — Lombardia in testa — e dalla conseguente erosione di consensi al Pdl, potrebbe derivare il definitivo successo dell’asse Pd-Sel a Palazzo Madama, la più delicata e incerta.
Monti torna a Roma e incontra Gianfranco Fini. Matura il via libera definitivo — nonostante le perplessità iniziali del Professore — alla lista Fli alla Camera. Ma col presidente della Camera il premier ha soprattutto affrontato la grana del giorno. Ovvero la probabile impossibilità di inserire il “timbro” Monti anche nelle liste Udc e Fli e nelle eventuali altre che si presenteranno alla Camera, come era previsto finora.
Il caso è stato sollevato dal pidiellino Peppino Calderisi, richiamando l’articolo 14 del testo unico in materia elettorale che obbligherebbe le liste collegate a utilizzare «contrassegni diversi, non confondibili». «Senza quel simbolo, per le nostre liste si crea un problema di riconoscibilità nell’apparentamento col leader», insorgono da Udc e Fli. Che a questo punto non escludono un veto alla corsa della «Lista civica per Monti » a Montecitorio: rischia di essere l’unica col marchio doc. Il premier si è riservato di decidere, dallo staff minimizzano: «Problema inesistente, il marchio ci sarà per tutti». Di certo, il leader non intende rinunciare a una sua lista civica e con lui la macchina già in corsa di “ItaliaFutura” (Montezemolo) che ne costituisce l’ossatura. Monti ha confidato invece tutte le sue perplessità su una lista di ex pidiellini, per il rischio di «disperdere le forze» soprattutto in vista della complicata raccolta delle firme.
Ad ogni modo, Franco Frattini, Mario Mauro e 11 deputati usciti dal Pdl, da Cazzola alla Bertolini a Stracquadanio, ufficializzeranno in questi giorni il movimento “Italia popolare per Monti” (o “Popolari per Monti”) con chiaro link al Ppe. Ma in assenza di una loro lista — fatta salva la blindatura degli stessi Frattini, Mauro e Mantovano in quella unitaria al Senato — resta il dilemma di dove candidare gli altri alla Camera. «Non siamo più di una decina e abbiamo consiglieri comunali che possono tornare molto utili per la raccolta delle firme» fa notare Cazzola. Fatto sta che la Lista civica montiana è aperta ai soli non po-litici, mentre Udc e Fli hanno già problemi coi loro concorrenti. Così, gli ex Pdl rischiano di fare la fine degli esodati.

Repubblica 3.1.13
Delrio: serve un’agenda che cambi la rotta del Paese, come la Dc negli anni Cinquanta
“Noi non abbiamo chiesto posti ma devono accettare le nostre proposte”
di Giovanna Casadio


ROMA Renzi ha avuto il 40% al ballottaggio con Bersani per la premiership del centrosinistra, ma alle parlamentarie i renziani non sono andati bene, sindaco Delrio?
«Giorgio Gori ha detto bene, dal suo punto di vista: Matteo Renzi non si è speso. Matteo non ha fatto il capocorrente, l’aveva promesso del resto e ha mantenuto la parola. Se avesse voluto fare pesare il suo 40% avrebbe dovuto chiedere a tavolino tanti posti protetti, invece no. Questo è uno stile nuovo».
Ma non rischiate, voi renziani, di essere emarginati?
«Se non ti concentri sui posti, ti concentri sui contenuti. Su questo vogliamo essere ascoltati».
Comincia un braccio di ferro?
«Alcune idee molto importanti, che sono state proposte-bandiera e che hanno trascinato l’entusiasmo attorno alla figura di Renzi, vanno assunte da Bersani come priorità dei primi sei mesi del governo di centrosinistra. Penso alla de-burocratizzazione, agli investimenti sulla ricerca e il talento dei giovani, all’innovazione tecnologica e della Pubblica amministrazione, all’utilizzo corretto dei fondi comunitari occasione persa per il Sud. Non è tanto importante che una corrente abbia un pezzo dei parlamentari, ma che nell’agenda ci siano quelle priorità che danno la cifra di un approccio diverso. La modifica della legge elettorale, ad esempio».
Questa dovrebbe essere consapevolezza di tutti i parlamentari, non solo dei renziani, non crede?
«Certo. La legge elettorale è pessima. La trasformazione di una delle due Camere nel Senato delle Regioni e la riduzione dei parlamentari, il taglio dei costi della politica e delle Province, sono riforme che un governo di centrosinistra deve fare subito. Perché deve avere la stessa ambizione della Dc al governo negli Anni Cinquanta, quando fece la
riforma agraria, fiscale, creò la Cassa per il Mezzogiorno. Vanno avviate cioè riforme che diano la rotta dello sviluppo del paese».
Un’agenda Bersani-Renzi?
«Diciamo un’agenda del centrosinistra».
Dove ci vuole più “renzismo”?
«Non tradurrei in renzismi e bersanismi. Ci vuole più freschezza e la rapidità delle decisioni. Forse perché sia Matteo che io facciamo i sindaci sappiamo che le decisioni vanno prese e vanno prese in fretta. Da oggi, non si gioca più per lo spettacolo, diciamo così, ma per vincere nelle urne e governare il paese».
Tuttavia, i renziani vorranno dei capilista?
«Siamo impegnati a fare vincere al Pd le elezioni. Segnaleremo gli uomini e le donne migliori, non solo quelli scelti con le primarie».
Lei sarà candidato nel “listino” dei garantiti?
«No, io sono con la mia città fino alla fine. Non sono alla ricerca di un mestiere. Quando finirò di fare il sindaco di Reggio Emilia, torno alla professione, che è la ricerca e l’insegnamento al Policlinico universitario».
Il Pd di Renzi avrebbe attratto di più i moderati? Sarebbe stato meno di sinistra?
«Per il sentire comune credo che le categorie di “destra e sinistra” sono in parte, anche se non del tutto, superate. I cittadini vogliono capire cosa un governo farà per il proprio figlio, per l’anziano non autosufficiente. E un sistema di protezione sociale efficace e la rete degli asilo nido non è sinistra o destra, lo fa anche la Merkel. Con questo linguaggio, si supera l’approccio “essere liberista/non essere liberista”. Aggiungo che i voti moderati, come quelli di sinistra, sono molto liberi».
Monti è un avversario pericoloso?
«Ho stima del premier, anche se ci ho litigato spesso come presidente dell’Anci, ha dato un grandissimo contributo alla rifondazione etica del paese, ce n’era bisogno. Gli inglesi uscirono dalla guerra grazie a Churchill ma alle prime elezioni scelsero Clement Attlee, un laburista. La ricostruzione richiede una sensibilità sociale più alta».

La Stampa 3.1.13
Diritti e libertà le questioni fuori “agenda”
di Vladimiro Zagrebelsky


Ha ragione monsignor Negri quando, nell’intervista di ieri a «La Stampa», protesta per la totale assenza dei temi etici nel programma di Monti. Gli si deve dar ragione, anche muovendo da posizioni che sono diverse, nel metodo innanzitutto e solo dopo in questo o quel contenuto. Il silenzio del documento che si è convenuto chiamare Agenda Monti poteva spiegarsi per la palese fretta con cui era stato confezionato e pubblicato.
Ma ora, con il testo di presentazione del suo «Movimento civico, popolare, responsabile» alla mancata menzione del tema si è sostituito il vuoto di contenuti e impegni. Vi si legge infatti che «laddove, su singole questioni di rilievo etico, si determinassero diversità di valutazione, ci si impegnerà a cercare insieme la soluzione più coerente con i valori della Costituzione, nella comune promozione della dignità della persona, ferma restando la libertà di coscienza». La guida della Costituzione e la difesa della dignità della persona sono certo sacrosante, ma non sono negate da nessuno di coloro che pur si combattono aspramente sulle singole soluzioni. In realtà si tratta di una formula levigata e sfuggente – capace di scontentare tutti e favorire la paralisi - per non prendere posizione sulle questioni aperte, che non vengono nominate, ma che tutti conosciamo: il fine vita e il valore della volontà del morente, il riconoscimento delle unioni familiari senza matrimonio, eterosessuali o omosessuali che siano, con la questione della procreazione e dell’adozione all’interno delle coppie omosessuali, l’accesso, infine, alle tecniche di riproduzione assistita, che ha anche qualche connessione con il tema precedente. Di altra natura è il riconoscimento della cittadinanza ai figli di migranti nati e cresciuti in Italia. Su di essa è ancora una volta tornato vivacemente il presidente Napolitano nel suo messaggio di fine anno. Si tratta di questione ormai matura, che riguarda la civiltà del Paese e persino l’interesse nazionale. Anche su di essa i documenti Monti tacciono, mentre si legge un impegno nel programma di Bersani, insieme a quello di riconoscere le coppie omosessuali, secondo un modello che però andrebbe chiarito. Nella Carta di intenti del partito di Bersani si legge che «su temi che riguardano la vita e morte delle persone, la politica deve coltivare il senso del proprio limite e il legislatore deve intervenire sempre sulla base di un principio di cautela e di laicità del diritto. Per evitare i guasti di un pericoloso “bipolarismo etico” che la destra ha perseguito in questi anni, è necessario assumere come riferimento i principi scolpiti nella prima parte della nostra Costituzione e, a partire da quelli, procedere alla ricerca di punti di equilibrio condivisi, fatte salve la libertà di coscienza e l’inviolabilità della persona nella sua dignità». Si tratta di una formula simile a quella preferita da Monti per il suo Movimento, ma contiene un’indicazione di metodo che potrebbe essere utilmente sviluppata: la ricerca di punti di equilibrio condivisi nella consapevolezza dei limiti in cui deve essere contenuta la legge. Riconoscere i limiti della legge nelle materie di cui trattiamo, deve però significare oggi, nell’Europa liberale, ammettere prima di tutto che in assenza di gravi motivi d’interesse pubblico deve prevalere la libertà dei singoli di vivere le proprie inclinazioni e risolvere i propri problemi, nelle forme che la società e la scienza odierna offrono. La legge serve eccezionalmente per vietare, non c’è bisogno della legge per permettere.
In Italia e anche altrove in Europa, i temi di cui discutiamo sono capaci di dividere la società. La divisione passa attraverso le soluzioni possibili alle singole questioni, ma prima di tutto si radica nelle opposte posizioni di chi pretende di imporre agli altri le proprie opzioni etiche e di chi invece difende e vive le proprie, rispettando e lasciando vivere quelle altrui. Il richiamo alla laicità dello Stato, che si legge in tutti i documenti, è privo di senso se non viene adottata la seconda, «non negoziabile» anche a costo di affrontare l’accusa di «relativismo». V’è però un modo per evitare lo scontro deleterio e abbandonare alle frange estreme il ricorso a drammatici, reciproci anatemi. Quando si esaminano i problemi nella loro concretezza vissuta, un terreno di incontro può essere trovato. Nessuno può monopolizzare la definizione dei valori in campo, così come nessuno può negarne il rilievo morale. Il punto di equilibrio, ferma la prevalenza della libertà e la provvisorietà di ogni soluzione legislativa, si cerca con il dialogo che parte dal confronto delle opinioni di chi vive i singoli problemi (gli ideologi di entrambi i campi spesso ne sono lontani), così da esporre e confrontare le ragioni degli uni e degli altri. Vi sono esempi di pratiche che precedono e preparano le deliberazioni pubbliche, che sono virtuose rispetto alla ricerca delle soluzioni utili e meno conflittuali e servono comunque a rendere chiari – e quindi più accettabili - i motivi della decisione finale. Dalla vicina Francia viene l’esempio di come le decisioni della Repubblica su temi delicati si possono preparare: autorevoli e riconosciute commissioni di indagine, che lavorano sul campo per la definizione dei confini dei problemi (nella loro frequenza, nelle loro varietà e intensità) e la ricerca di soluzioni pratiche, ora sulla questione del fine vita e sui matrimoni omosessuali e ieri sul divieto del velo islamico nelle scuole pubbliche. Metodo che potrebbe essere simile a quello del «dibattito pubblico» richiamato dalla Agenda Monti (ma solo per definire la strategia energetica nazionale) e che è l’opposto di quello dell’accordo cercato tra capipartito, vertici e gerarchie e poi imposto alla società.
Nei documenti di Monti si legge che occorre una profonda trasformazione dell’Italia, necessaria per la sua piena integrazione in Europa. Non si può non convenire. L’indicazione però non dovrebbe incidere solo nel campo economico. Essa vale in tutti i campi. Per quanto importanti e urgenti siano oggi i temi economici, l’Europa capace ancora di sollevare sentimenti di appartenenza e identità rispetto al resto del mondo è altra cosa. Senza più frontiere interne, con quotidiane esperienze di studio e lavoro in Europa, con legami personali e familiari che sorgono ignorando le (antiche) frontiere, l’armonizzazione dei diritti e delle libertà diventa un essenziale aspetto della «politica europea» di un governo.

Corriere 3.1.13
«L'allarme di Bagnasco e i tagli alla sanità»
Eminentissimo Cardinal Bagnasco,
di Melania Rizzoli

medico e deputato pdl

Eminentissimo Cardinal Bagnasco,
Lei ha ragione: la vita ha un costo. A volte elevatissimo. E che in tempi di crisi diventa spesso insopportabile. Il Suo allarme sulla motivazione economica di aborto ed eutanasia mi spinge a una riflessione. Nei giorni di festa della Natività abbiamo visto tutti con sgomento la foto della giovane madre che esce dal bagno di un McDonald's dopo aver abbandonato nel water suo figlio appena partorito, considerandolo probabilmente un costo da lei non sopportabile. Eppure quella ragazza non ha abortito, ha terminato la gravidanza, per poi disfarsi del bimbo in un bagno pubblico come fosse un peso eccessivo. Oggi molte donne preferiscono ricorrere alla Ru486, la pillola abortiva che la madre deve ingoiare da sola per provocare il distacco della placenta e la morte del suo feto. Lei si chiede «quale garanzia ci può essere se uno Stato non difende la vita più debole, quella che non ha neppure il volto e la voce per imporre se stessa ed il proprio diritto?». Le ricordo che nella depenalizzazione dell'aborto in Italia l'unico diritto riconosciuto legalmente è quello della madre incinta, che decide per sé e per suo figlio. In questa ultima legislatura sono state presentate in Parlamento diverse proposte di legge per garantire diritti e legalità agli embrioni soprannumerari, quelli che «avanzano» dalle fecondazioni assistite, e i cui diritti non sono certo maggiori di quelli di un feto già formato. Lei si chiede: «Quale garanzia ci può essere se uno Stato non rispetta quella vita che non ha più voce perché l'ha persa, in uno stato di incoscienza?» in riferimento ai noti casi di eutanasia nel nostro Paese. Il coma vegetativo è uno stato creato da noi medici rianimando pazienti appena morti o sul filo della morte e sui quali siamo in grado di riattivare tutte le funzioni vitali, tranne quella della coscienza. Moltissimi di loro si salvano. Nessuno di noi vorrebbe vivere in quello stato, ma una volta che li abbiamo riportati in vita, seppur incosciente, cosa fare? Sopprimerli perché non sono coscienti? O perché rappresentano un costo elevatissimo? Ebbene sì, un malato terminale di tumore costa molto meno di un malato in coma vegetativo che il cancro non ce l'ha e può vivere così oltre vent'anni. Eppure in questi mesi in Grecia sono irreperibili i chemioterapici per i tumori maligni, perché dato il loro prezzo elevato lo Stato in grave deficit non li acquista più, considerando i suoi malati oncologici cittadini «antieconomici». L'attuale governo italiano ha di recente nominato Enrico Bondi commissario straordinario alla sanità nel Lazio, con il compito di effettuare pesanti tagli lineari alla sanità per ridurne i costi, compresi quelli delle strutture private convenzionate e degli Istituti sanitari religiosi. Per i nostri medici ospedalieri sta diventando prioritario non più alleviare le sofferenze dei malati ma diminuire i costi della sanità secondo le indicazioni e le erogazioni di uno Stato che non taglia invece i suoi infiniti sprechi. Il paziente è valutato in base al costo sanitario della sua patologia ed ogni singolo medico attua ormai la cosiddetta medicina «difensiva» per proteggersi penalmente da eccessi di prestazioni. Occorrono fatti e non parole, occorre che uno Stato moderno ed efficiente garantisca concretamente l'assistenza sanitaria pubblica a tutti i suoi cittadini, assicurando a tutti una assistenza dignitosa e continuativa, riservando i tagli dei costi a quei settori che non incidono sulla vita umana nella sua fase più drammatica, quella della malattia e della sofferenza.

l’Unità 3.1.13
Shulamit Aloni: «Israele, un voto di resistenza contro una destra violenta»
Fondatrice di Peace Now, più volte ministra nei governi labouristi di Rabin e Perezt, icona della sinistra laica e pacifista israeliana
di Umberto De Giovannangeli


Una sinistra degna di questo nome non può pensare di difendere i diritti umani e sociali calpestati da una destra dai tratti razzisti chiudendo gli occhi di fronte allo scempio di diritti perpetrato contro i palestinesi. Non si può essere “democratici” a Tel Aviv e dittatori a Ramallah. Alla base della violenza che segna la vita sociale in Israele c’è la violenza trasformata in legge nei Territori occupati». A sostenerlo è Shulamit Aloni, fondatrice di «Peace Now», figura storica della sinistra laica e pacifista d’Israele, più volte ministra nei governi guidati da Yitzhak Rabin e Shimon Peres.
Tra venti giorni Israele va al voto. I sondaggi indicano uno spostamento a destra dell’elettorato.
«Ciò che mi angoscia e mi fa essere pessimista sul futuro del mio Paese e della sua tenuta democratica, è il carattere di questa destra, la sua ideologia ultranazionalista, una violenza verbale che spesso fa da apripista ad una violenza fisica contro chiunque venga considerato un “nemico”. È la destra che pensa di poter risolvere con la forza delle armi la questione palestinese, che non contempla nel suo vocabolario parole come dialogo, convivenza, rispetto dell’altro da sé. Una destra che alimenta l’estremismo dei coloni, la destra che giudica i suoi avversari dei traditori da neutralizzare. Dovrebbe essere chiara a tutti l’inconciliabilità tra democrazia e oppressione esercitata contro i palestinesi. I governanti d’Israele hanno solo un disegno in testa e lo perseguono con ogni loro atto: il disegno del Grande Israele. Ne faranno un ghetto atomico in guerra con il mondo».
A confrontarsi con questa destra è un Partito laburista che punta tutto sulla questione sociale mettendo tra parentesi il tema della pace con i palestinesi. «È una scissione che non mi convince, che reputo sbagliata. E non perché sottovaluti la devastazione sociale provocata dal governo delle destre. Per coglierne la portata basta parlare con un anziano o con una madre single o con un giovane condannato al precariato a vita...».
Ma allora cosa non la convince di questo approccio?
«Vede, da tempo sono fermamente convinta che solo riconoscendo ai palestinesi il loro diritto a vivere da donne e uomini liberi in uno Stato indipendente, integro territorialmente, solo così Israele potrà difendere il bene più prezioso: la sua democrazia. Perché dovrebbe essere chiara a tutti l’inconciliabilità tra democrazia e oppressione esercitata contro i palestinesi. Non c’è democrazia in uno Stato che impone a un altro popolo un regime di apartheid».
Non si sente sola in questa battaglia ideale?
«Per fortuna non lo sono, ma anche se lo fossi non smetterei di difendere quei valori, quei principi, quelle idee che hanno segnato la mia vita. Che mi hanno portato a combattere per difendere Israele, il suo diritto all’esistenza e la sua democrazia. Una democrazia oggi minacciata dall’interno».
Lei si è battuta per una sinistra che «avrebbe dovuto denunciare l’imbarbarimento della società, dicendo che democrazia e oppressione esercitata contro un altro popolo sono tra loro inconciliabili»...
«Una sinistra capace di esprimere un’alternativa di valori, di idee, di politica a questa destra che ha trasformato la nostra democrazia in una “etnocrazia” ebraica. Mi auguro che dalle urne esca un “voto di resistenza”. Sarebbe già qualcosa».

il Fatto 3.1.13
Monaci birmani, il braccio violento del buddismo
di Roberta Zunini


Risulta impossibile immaginare cittadini e, addiritttura, monaci di religione buddista impegnati a chiedere alle autorità di reprimere un gruppo etnico. O partecipare persino alla sua epurazione. Come sta succedendo in Birmania. In questi giorni circa 500 migranti appartenenti alla minoranza musulmana di etnia Rohingya - stabilita al confine con il Bangladesh, nella regione Rakhine - per sfuggire alle violenze sono entrati illegalmente in Malaysia, dopo 15 giorni di traversata in mare su zattere di fortuna. Gli scontri tra buddisti e la minoranza vanno avanti da giugno e hanno causato ufficialmente un centinaio di morti e circa 150mila sfollati. Molti sono stati confinati in campi recintati con filo spinato e sorvegliati. Altri costretti sulla spiaggia, per tetto solo una tenda. La religione buddista è percepita dagli occidentali come pacifista, tollerante e aperta al dialogo. In effetti - come per tutte le altre religioni - un discorso è la teoria, un altro la pratica. Soprattutto se i gruppi separatisti che professano una religione diversa da quella buddista sono violenti e con i loro attentati mettono in pericolo la vita dei cittadini. Non si può pretendere insomma che, poiché la religione di Stato in Thailandia è il buddismo, le autorità rinuncino a mandare l’esercito nel sud del Paese a combattere la guerriglia islamica secessionista che da anni compie attentati anche contro i civili. Dal punto di vista delle Istituzioni thailandesi si tratta di una reazione di difesa dell’integrità territoriale e della incolumità dei propri cittadini.
In Birmania però l’escalation di violenze nei confronti della minoranza etnica di fede musulmana che vive da più di due secoli nel Rakhine, non è una forma di autodifesa.
DA QUANDO al seguito degli inglesi, questi nomadi si stabilirono in parte in Bangladesh e in parte nell’attuale Birmania, qui non sono mai stati accettati e integrati. Nei loro confronti, ii birmani hanno da sempre avuto un atteggiamento razzista che non è paragonabile a quello esercitato contro gli altri gruppi etnici - sono più di 100 - che compongono la realtà demografica del Paese. Eppure alcune etnie, come i Karen e i Kachin, chiedono l’indipendenza o quanto meno l’autonomia di quello che considerano il proprio territorio. Dovrebbero pertanto essere considerati più pericolosi. Non che nei loro confronti vengano usati i guanti di velluto - proprio ieri l’aviazione birmana ha bombardato la zona a nord dove vivono i kachin - tuttavia verso di loro la discriminazione è peggiore perché subdola e motivata esclusivamente dall’appartenenza a una religione diversa da quella di Stato. I Roinghya infatti non vogliono staccarsi dalla ‘madrepatria’, anzi chiedono gli stessi diritti dei cittadini birmani. Lo Stato, ancora guidato dagli stessi militari della giunta che hanno dimesso le stellette e indossato abiti civili, invece non glieli vuole dare perché ciò irrita il clero buddista e la maggior parte della popolazione “che teme di venire fagocitata dall’islam perché i musulmani fanno molti più figli”, dice al Fatto uno dei pochi monaci che non la pensa in questo modo. I Rohingya devono chiedere il permesso per tutto, innanzitutto per sposarsi e per avere figli. Non appena accennano a rivendicare questi elementari diritti, si mette in moto il giro di vite. “Questa volta la scusa si è presentata nel giugno scorso quando una ragazza di etnia Rakhine è stata stuprata. Immediatamente la popolazione ha accusato alcuni membri della minoranza musulmana. Dopo poche ore un gruppo di persone ha appiccato il fuoco ad alcune abitazioni del ghetto Rohingya nella città di Sittwe - spiega ancora il monaco - che hanno reagito. Da allora la repressione è diventata sempre più brutale”. Tanto che quando il presidente americano Obama, appena rieletto andò a far visita ad Aung San Suu Kyi, chiese la fine della loro discriminazione. La premio Nobel, che si è sempre espressa a favore del dialogo con le minoranze etniche, anche quelle che chiedono l’indipendenza, non si è mai espressa chiaramente su questa questione.

Repubblica 3.1.13
La biblioteca parlamentare conserva un milione e trecentomila volumi
Il complesso di S. Maria sopra Minerva, restaurato, è poco conosciuto
L’Isola della Sapienza dove è custodita la memoria d’Italia
di Giovanni Valentini


C’è un’Isola della Sapienza nel cuore di Roma, il più grande centro storico del mondo, fra i palazzi del potere dove si svolge nel bene o nel male la vita politica nazionale. Il complesso ex domenicano di Santa Maria sopra Minerva, ora restaurato all’interno e all’esterno, ospita la Biblioteca della Camera dei Deputati (con ingresso da via del Seminario 76) collegata a quella del Senato, trasferita anch’essa nella stessa area dal 2003. Un prezioso deposito di storia, arte e cultura che contiene circa un milione e trecentomila volumi, a cominciare da quelli del Parlamento subalpino.
Articolata in 12 sale di consultazione, la monumentale Biblioteca viene frequentata da più di 50 mila ricercatori e studiosi all’anno. È aperta al pubblico, ma non è ancora conosciuta e visitata come meriterebbe. Adesso, completato il restauro delle facciate, l’Electa ha realizzato un volume illustrato per la Camera dei Deputati, a cura di Renata Cristina Mazzantini, di prossima uscita. E c’è da auspicare che, oltre a documentare le ricchezze di questo straordinario complesso architettonico, l’opera possa contribuire anche a custodire l’esperienza storica del Parlamento italiano, nell’incerta transizione dalla Seconda alla futura Terza Repubblica.
Il nome in latino di “Insula Sapientiae”, utilizzato più recentemente dalla Camera e dal Senato in diverse occasioni, deriva da una felice definizione di Franco Borsi, storico dell’arte, che aveva già coniato l’appellativo “Insula colta” per designare il complesso conventuale di Santa Maria sopra Minerva. Spiega la curatrice nella sua introduzione: “Il termine Insula richiama la morfologia del sito e la tipologia edilizia della sua architettura, mentre il genitivo Sapientiae fa riferimento alla continuità tra mondo pagano e mondo cristiano”. Ed è una continuità attuata sia nella basilica, attraverso la conversione mariana del mito di Minerva, sia nelle tre biblioteche pubbliche che ancora oggi preservano la natura sociale e culturale del luogo.
Le foto aree del centro di Roma mostrano che il perimetro dell’Insula è quadrangolare, piuttosto irregolare, definito su due lati da piazza della Minerva e da piazza San Macuto. Ed entrambe vi s’incastrano nettamente. I vertici del quadrilatero coincidono con alcune delle più suggestive piazze capitoline: quella della Rotonda e quella di Sant’Ignazio, collegate a nord dalla curva di via del Seminario; quelle del Collegio Romano e della Minerva, unite a sud dal tracciato sinuoso di via Santa Caterina da Siena. Ma le strade che delineano il perimetro dell’Insula sono talmente strette da non avere veri marciapiedi e dall’alto sembrano spazi scavati, quasi solchi, piuttosto che ambienti
costruiti.
Nel Seicento, l’Insula divenne la sede del Tribunale della Santa Inquisizione. Qui, in nome del conflitto tra fede e scienza, fu processato e messo in cella Galileo Galilei. E proprio in queste sale il matematico fu costretto a pronunciare la sua abiura sui moti del sole e della terra, prima di riconoscere il sistema planetario proposto dalle Sacre scritture.
Ma è senz’altro il patrimonio del Polo bibliotecario parlamentare la maggiore ricchezza di quest’Isola della Sapienza: quel milione e trecentomila volumi che racchiudono la storia istituzionale del nostro Paese. Dal nucleo originario del Parlamento subalpino fino ai documenti e agli atti dei giorni nostri. Nel secondo dopoguerra, la Biblioteca tende progressivamente a specializzarsi sugli studi di diritto, italiano e straniero; di scienza politica, di politica internazionale, di scienza dell’amministrazione e di storia contemporanea, con un’ampia copertura della saggistica in lingua straniera e un’attenzione particolare alle fonti statistiche, alle biografie e bibliografie. Attualmente acquisisce circa ottomila monografie all’anno, ha una collezione di duemila riviste correnti e circa 4.500 riviste ormai chiuse, a cui s’aggiungono più di tremila pubblicazioni periodiche di altra natura (annuari, annali, atti accademici, serie statistiche, atti parlamentari e collezioni legislative).
In uno degli edifici che formano il complesso, arricchito dagli affreschi della prima metà del Seicento di cui racconta nel libro il professor Claudio Strinati con l’abituale competenza, ha sede poi dal 1991 l’Archivio storico della Camera dei Deputati: dallo Statuto Albertino del 1848 alla Camera del Regno d’Italia, fondato nel 1861, fino alla Camera repubblicana. Un percorso istituzionale che si snoda nell’arco di oltre un secolo e mezzo, da Torino a Firenze e Roma. Tra le serie più importanti, la collezione di 30.767 fascicoli dei disegni di legge presentati dal maggio 1848 all’ottobre 1943.
A che cosa può servire ormai tutto questo materiale cartaceo nell’era di Internet e dell’editoria elettronica? In realtà, anche la raccolta dei fascicoli è già consultabile online, attraverso un inventario che consente di effettuare ricerche per chiavi di accesso. Ma, attraverso il servizio “Chiedi alla Biblioteca”, la Camera fornisce informazioni e assistenza nella ricerca bibliografica e legislativa agli organi istituzionali (dettagli sul sito: http//biblioteca. camera. it).
In tempi di “spending review”, una struttura del genere può anche apparire magari un lusso o uno spreco. Ma questa è, appunto, la memoria storica del nostro Parlamento. E un Paese senza memoria, rischia di diventare anche un Paese senza futuro.

Repubblica 3.1.13
Agenda
Da visione del mondo a compito a casa, la politica ridotta ai minimi termini
di Carlo Galli


La politica è soprattutto fare, agire. Il conoscere (la teoria) è importante, il parlare e il convincere (la retorica) lo sono altrettanto, senza un rapporto con la morale la politica è monca; ma idee e visioni restano astratte, interessi e forze sociali restano opache, la morale resta un fatto interiore, se la politica non ha capacità operativa. Benché il rapporto tra il fare e le altre dimensioni sia instabile e mutevole, benché la politica si fondi più sul senso del possibile che su quello del necessario, più sulla parzialità che sulla totalità, benché, insomma, sia più un’arte che una scienza, da essa ci si attende un prodotto, un’opera.
Ma che fare? Se lo chiedeva Lenin, nel 1902, come se lo era chiesto, in carcere, Nikolaj Cernyševskij nel 1863. E in realtà la domanda chiave della politica è proprio questa: quali siano le cose da fare, e in quale rapporto stiano con le cose pensate (oltre, naturalmente, all’altra domanda, chi siano i soggetti che agiscono). In politica arrivare all’agenda — che in latino significa «le cose da fare, che devono essere fatte» — è indispensabile; tutto sta nel capire chi vi arriva, e per quale via.
La modernità ha dato una grande risposta: con la teoria, con la visione del mondo, con una grande narrazione dalla quale si deducono, o si chiarificano le cose da fare. Che di solito sono grandi cose: una rivoluzione (borghese o proletaria), un oltrepassamento del presente stato del mondo verso un assetto migliore. È la politica come sintesi di pensiero e azione, di lucidità e di speranza, a individuare le cose da fare. Che in questo contesto, però, non si chiamano “agenda” — non è possibile definire così gli immortali principi dell’Ottantanove, o il Sol dell’avvenire — quanto piuttosto “manifesti”, enunciazioni di principi, dichiarazioni di guerra al mondo intero. Le cose da fare, qui, sono la prassi che fa della storia il regno della libertà. Altro che agenda!
Ma le cose da fare possono avere anche un aspetto più prosaico; e ciò avviene quando la politica non mette più all’ordine del giorno l’“Uomo nuovo”, ma l’amministrazione; non più la rivoluzione ma le riforme. Quando cioè la politica si è assestata nelle istituzioni democratiche, e consiste nell’agire dei partiti e nei loro programmi. Il programma certamente contiene — lo dice anche la sua etimologia — un’apertura al futuro, e discende da una visione del mondo; ma la stempera e la rende, al contempo, concreta; ha infatti una dimensione analitica, minuziosa, operativa (ricordiamo il programma di Prodi nel 2006, di qualche centinaio di pagine) che all’occorrenza può essere riassunta in uno slogan; questo però non è un grido di battaglia ma un brand, un marchio che deve riuscire accattivante, vincente, nella gara elettorale. Il programma è meno impegnativo del manifesto o della dichiarazione, ma è pur sempre un atto apertamente politico, che nasce da una soggettività (il partito), da un modo specifico di interrogare il mondo, da una precisa impostazione del rapporto teoria-prassi.
Una potente semplificazione è intervenuta quando al programma è stato sostituito il contratto: Berlusconi, un politico- venditore dotato di molto denaro e di molta parlantina ha istituito, a suo tempo, un rapporto diretto (televisivo, in realtà) con i cittadini: chiedendo voti in cambio di benefici annunciati (mirabolanti, ma concreti, misurabili). La politica, qui, ha ancora una dimensione di soggettività, ma è una soggettività privata; quel contratto è il contrario del contratto sociale: è una personalizzazione che è anche una banalizzazione (oltre che un’illusione). La politica non è un’opera, ma un’operetta.
Ancora diversamente stanno le cose con l’agenda vera e propria, cioè con la forma con cui oggi da più parti (ha iniziato Monti, è venuto al seguito Grillo, altri lo faranno) si denota l’impegno pratico rivolto al futuro. E la diversità consiste nel fatto che le cose da fare, in questo caso, non sono presentate in forma soggettiva, cioè come frutto di una posizione politica, di un’interpretazione di parte; le cose da fare, qui, hanno un che di oggettivo, come se fossero dettate dalle cose stesse, come un Diktat dotato di un’intrinseca necessità: la mano che scrive sul taccuino le cose da fare è la mano delle cose stesse. In un’agenda c’è ben più imperiosità che in un manifesto o in un programma: c’è tutta l’ideologia della tecnica, dei tecnici che ignorano la parzialità della politica, che deducono meccanicamente le cose da fare dalle cose che sanno, senza riguardo alle circostanze e alla loro interpretazione, c’è l’ideologia che crede che la politica non produca opere, ma manufatti o equazioni. Ma c’è anche tutto il populismo di chi crede, o vuol far credere, che la politica è una cosa semplice, neutra, oggettiva. C’è, in realtà, il conservatorismo (anche se molti elaboratori di agende si dicono innovatori o rivoluzionari) di chi crede di sapere una volta per tutte quale sia il corso del mondo.
Non è questione di avere forti convinzioni; queste sono benvenute. Nel concetto di agenda c’è piuttosto l’idea che per determinare le cose da fare non si devono avere convinzioni; far politica con le agende significa voler ignorare la complessità della politica, la sua parzialità intrinseca. Significa, a ben guardare, collocarsi in una posizione tanto ideologica da non chiedersi nemmeno Che fare?
Non a caso, a differenza di Lenin — che pure di forti convinzioni ne aveva, fin troppe — chi fa politica con l’agenda quando scrive Cose da fare non si sogna nemmeno di mettere il punto interrogativo.

Repubblica 3.1.13
Il metodo socratico, l’umanesimo civico, la memoria poetica
Il grande critico spiega perché “gli esami non sono sentenze”
Carlo Ossola. L’arte del giudizio
“Cari allievi, ricordatevi sempre che la verità è nascosta nell’eresia”
di Franco Marcoaldi


Via via che procediamo in questa nostra esplorazione, scopriamo quanto ampio sia lo spettro delle possibili declinazioni della parola “giudizio”. Con il nostro interlocutore odierno, il professor Carlo Ossola, insigne critico letterario e docente al Collège de France — un signore che all’insegnamento ha dedicato larghissima parte della sua vita — discuteremo proprio del rapporto maestro-allievo. Ovvero: su quali basi il primo sceglie, elegge, promuove il secondo?
Vexata quaestio, oggi ulteriormente ingarbugliata, giacché la scuola non si presenta più come centro indiscusso della formazione e della conoscenza individuale. E l’insegnante, di conseguenza, assiste impotente all’evanescenza della propria autorità.
Professore, partirei da un’annotazione di carattere linguistico. Giudicare, in questo nostro caso, non significa emettere una sentenza. Il vocabolario del giudizio qui si apre piuttosto alla critica: il giudice si fa critico, esercita la facoltà di separare, scegliere, decidere.
«Aggiungerei un ulteriore elemento, che non si dà in altri settori in cui pure si esercitano il giudizio e la critica. In un’aula scolastica, l’insegnante non ha di fronte un libro chiuso, o un fatto compiuto e irrevocabile, ma un essere vivente in continua evoluzione. Quindi, prima ancora che emettere una valutazione, qui si tratta, socraticamente, di riuscire a far emergere le motivazioni dello studente, le ragioni per le quali sta seguendo un percorso. Il maestro è lì per individuare assieme allo studente i tanti crocevia, per aiutarlo a spianare la strada senza che si perda in inutili viottoli laterali. È un lavoro comune, insomma. Ed è giusto per questo che in quarant’anni di insegnamento ho sempre preferito la prova orale all’esame scritto. Perché non si tratta di perseguire un sistema oggettivo di incasellamento, ma di far emergere una personalità attraverso il dialogo».
Il maestro dovrebbe accendere una passione, risvegliare una mente.
«Per dirla con George Steiner: “Nessuna passione è spenta”. Se il corso universitario è stato ben condotto, se le proposte di lettura sono state interessanti, lo studente avrà avuto accesso a un ampio ventaglio di opzioni. E avrà potuto trasformare il probabile in possibile. Per me l’esame finale rappresenta esattamente questo: trasformare un probabile in possibile. Perché nella foresta dei testi, lo studente trovi il proprio itinerario».
Nei miei ricordi scolastici, il principale obiettivo era, al contrario, quello di ripetere ciò che aveva detto l’insegnante.
«Più l’insegnante è bravo, meno si presenta questo rischio. Il mio professore di greco del liceo diceva: primo, esaminare; secondo, sceverare; terzo, soltanto terzo, decidere.
E badi bene, era uno che veniva dalla guerra partigiana. Ancora oggi quei tre verbi in successione rappresentano la mia bussola di orientamento nel rapporto docente-discente. Mettendo al primo posto l’obbligo dell’analisi, “provando e riprovando”, dimostro sì di essere esigente nei confronti dell’allievo, ma metto in questione anche me stesso. Perché sono disponibile ad accogliere tutte le sue domande e tutte le sue contestazioni.
Nel senso più bello del termine: “Chiamati a testimoniare con”, come dice Michel de Certeau. Se io riesco a chiamare lo studente a testimoniare attraverso la propria voce, vuol dire che il soggetto di cui gli sto parlando sta diventando effettivamente suo. Non conosco modo migliore per recuperare la perduta autorità dell’insegnante».
Un insegnamento fondato sull’interrogazione e sul dubbio dovrebbe essere il miglior antidoto al dogmatismo.
«Quando ero studente universitario, seguivo i corsi di Raoul Manselli, storico del Medio Evo, che amava ripetere: ricordatevi che l’eresia rappresenta sovente la parte sconfitta della verità. Un’affermazione, per me, decisiva: si tratta non solo di sceverare il vero dal falso, ma di capire perché — nella storia — una certa posizione abbia vinto e un’altra perso. Non si deve offrire allo studente un blocco organico di verità, ma piuttosto lo si guida a procedere nel modo indicato da Einstein: siamo noi stessi parte del problema che stiamo affrontando. E nel trattarlo, ne usciamo modificati. Grazie anche alle risposte dello studente a cui ci rivolgiamo».
Il guaio è che secondo alcuni si è rotta la cinghia di trasmissione del sapere. E quanto interessava ai padri non interessa più ai figli. Su questo giornale ne ha scritto in modo dolente e puntuale lo scrittore e insegnante Marco Lodoli.
«Mi ricordo bene quell’articolo: un’analisi, dal punto di vista fattuale, difficilmente contestabile. Mi permetta tuttavia di parafrasare quel sonetto di Michelangelo che suggerisce: “Val meglio un lumino nella notte che una fiaccola di giorno”. Ecco, è da lì che bisogna ripartire. Siamo cresciuti in un contesto innestato sulla cultura umanistica: basti pensare al ruolo pubblico rivestito da figure come De Sanctis, Gobetti, Gramsci. E dagli stessi padri costituenti. Tutto questo oggi non c’è più. Ma perduta la sua centralità catalizzatrice, la cultura umanistica deve comunque rivendicare la sua funzione critica. A maggior ragione in una realtà sempre più segnata da scienze applicative e tecnologiche; una realtà in cui il problema principale sembra essere quello di allargare con nuove corsie le autostrade informatiche, mentre non si verifica se i Tir che vi sfrecciano sono pieni di contenuti, di versioni di mondi possibili, o vuoti o ingombri solo del loro “rumore”».
Ma come riuscire a farlo, se è vero, per dirla ancora con Steiner, che viviamo nella civiltà del “dopo-parola”?
«Bisogna partire dalle nostre specifiche responsabilità. Nel percorso scolastico siamo passati da una cultura del debito, fondata sull’idea che siamo sempre inadempienti rispetto al compito che ci eravamo dati, a una cultura del credito: i ragazzi acquistano crediti e noi li eroghiamo. Peccato che si tratti di crediti ipotetici, fittizi, che non vengono mai riscossi, finendo per alimentare nello studente un senso di frustrazione, di inganno, di irrealtà. La scuola in generale, e l’università in particolare, non è stata abbastanza severa con se stessa. Non esigente con sé e con gli studenti, ha indotto un lassismo di cui ora paga le conseguenze. L’orizzonte dell’insegnamento universitario è rimasto schiacciato sul presente, limitandosi a offrire descrizioni, comunicazioni, piuttosto che a porre domande di fondo. Quando invece sarebbe più che mai necessario pronunciare parole che si protendano “a nord del futuro”, come diceva Paul Celan. Perché non basta descrivere il mondo, bisogna anche saperlo varcare. Secondo elemento. Nella civiltà dei flussi, si corrono gravi rischi di rottura del pack su cui riversiamo la piena del dire. Ma il primo compito dell’insegnante non è proprio quello di circoscrivere la frase, di studiare i passi, di ristabilire sintassi e gerarchie di senso? Oggi più che mai c’è bisogno di limpidezza e sobrietà nella prosa, mentre troppo spesso, anche all’interno dell’accademia, prevalgono inutili espressionismi e compiacimenti di un dire senza oggetto».
L’altra grande e terribile novità dei nostri tempi è la progressiva scomparsa dell’uso della memoria. Imparare a memoria non è più un esercizio richiesto.
«Ho iniziato la mia carriera a Ginevra, quando era ancora vivissima l’eredità di Jean Piaget, che aveva molto scommesso sui primi anni di vita, quelli dell’infanzia. Bisognerebbe strapagare i maestri, diceva, perché è lì, all’asilo e durante la scuola elementare, che si gioca l’essenziale della partita. Aveva ragione. Non esercitando la memoria, buttiamo via un dono prezioso. Non è soltanto lacuna dell’oggi, legata all’avvento del digitale: già nel ’68, sciaguratamente, si combatteva il presupposto uso “autoritario” della memoria. Credo che oggi questa sia, in assoluto, la sfida più importante dell’insegnamento: bisogna riattivare quell’esercizio, arrestare l’irresistibile processo di delega mentale rappresentato dal mondo delle risorse Web. Come farlo? Scovando dei testi talmente belli, talmente pieni di domande decisive, da costringere lo studente a mandarli a memoria. In tal senso la poesia ha un grande compito, perché un verso non lo si può storpiare. C’è una bella differenza tra il sentenziare: “Stiamo come le foglie d’autunno sugli alberi” e l’indugiare sospeso “Si sta come / d’autunno / sugli alberi le foglie”».
Professore, non è che stiamo un po’ fantasticando? Sta franando tutto, e noi pensiamo che si possa ripartire da un verso di Ungaretti?
«Si ricorda Fahrenheit 451 di Bradbury- Truffaut? Noi oggi siamo come quei rifugiati ai quali è stato dato il compito di ripetere il verso appreso a memoria, uno per uno, in modo che la piccola comunità sopravvissuta possa alla fine ricostruire per intero il poemetto andato distrutto. Credo che sia proprio questa coscienza della fine, a darci la forza per combattere la nostra battaglia. Certo, potremmo anche uscirne sconfitti. Ma non bisogna mai negoziare troppo con il presente».

Repubblica 3.1.13
I nuovi dibattiti della medicina
Il saggio “Les frontières de la mort” della storica Laura Bossi
di Benedetta Craveri


Per molti secoli la grande paura del mondo cristiano era stata quella di morire senza avere avuto il tempo di pentirsi dei propri peccati e di riconciliarsi con Dio. Condizione essenziale per entrare nel regno dei cieli, la “buona morte”, appariva ai credenti come il momento più importante della vita. Ma nel corso del Settecento, via via che la fede nella ragione e nella scienza erano andate stemperando l’angoscia religiosa, una antica paura di carattere non già spirituale ma fisico – quella della morte apparente – era tornata ad abitare l’immaginario collettivo. I progressi della medicina, come la presa d’atto di una vita “organica”, o vegetativa, distinta da una vita “animale” di relazione, non diversamente dai primi esperimenti di rianimazione, riportarono, infatti, all’attualità il timore di potere, in caso di un errore, finire sepolti vivi. Una angoscia che – dal romanzo gotico ai racconti di Edgar Allan Poe – , la letteratura ci ha trasmesso e che la moderna scienza medica avrebbe dovuto rendere da tempo del tutto obsoleta.
Non è interamente di questo avviso Laura Bossi, neurologa e storica delle scienze che vive e lavora a Parigi ed ha al suo attivo numerosi ed importanti studi, di cui ricordiamo Storia naturale dell’anima (Baldini e Castoldi 2005), indagine di lungo raggio sul processo di disintegrazione progressiva, ad opera di biologi, neurologi e scienziati, di quell’idea di unità di anima e corpo che per almeno due millenni ha costituito il tratto distintivo dell’essere umano. Come annuncia fin dal titolo il suo ultimo saggio, Les frontières de la mort (Manuel Payot), Laura Bossi attira la nostra attenzione sulla necessità di prendere atto che esiste più di una linea di demarcazione tra la vita e la morte e che questa pluralità di confini ci confronta oggi con interrogativi terribilmente inquietanti.
Fino a metà del secolo scorso era stato l’arresto cardiaco a annunciare la morte, ma da quando con le tecniche di rianimazione, è diventato uno stato reversibile, è emerso che è possibile mantenere in vita, in modo artificiale, dei pazienti che sono invece considerati morti dal punto di vista cerebrale. Ma il problema che solleva qui Laura Bossi è un altro: è quello del trapianto degli organi che «oggi ha introdotto dei nuovi criteri in questo campo».
Quali sono questi nuovi criteri?
«Per permettere i trapianti di organi, occorre prelevare degli organi ancora vivi da un donatore in cui il processo della morte sia sufficientemente avanzato per permettere la dichiarazione della morte legale. La cosiddetta “morte cerebrale”, o “morte encefalica”, introdotta alla fine degli anni ’60 da ricercatori francesi e americani e poi incorporata a partire degli anni ’80 nella legislazione di quasi tutti i paesi, ha servito lo scopo pragmatico di permettere i trapianti da donatori morenti, ormai giudicati al di là di ogni possibilità di salvezza, mantenendo la “finzione” giuridica di un dono da cadavere. La maggior parte dei prelievi di organi sono oggi effettuati da pazienti in stato di morte cerebrale».
Quali sono le sue riserve a riguardo?
«Il concetto di morte cerebrale si fonda sull’idea che in questi pazienti il processo della morte, ormai irreversibile nel cervello, pur coinvolgendo il paziente in quanto organismo non ha ancora pienamente coinvolto gli altri organi. Ma l’idea che il cervello sia il supremo “integratore dell’organismo”, e che tutto il resto del corpo sia un insieme di “pezzi di ricambio” è stata contestata da filosofi come Hans Jonas, o in Italia Giorgio Agamben».
Lei spiega che la disparità nei vari paesi dei criteri diagnostici relativi alla morte cerebrali fa sì che un paziente può essere considerato morto in un paese e vivo in un altro e per questo il President’s Council for Bioethics degli Stati Uniti ha proposto nel 2008 di sopprimere il termine «ambiguo» di morte encefalica, e di parlare di «arresto cerebrale» o «total brain failure». È una proposta condivisa?
«Solo in parte. Medici e filosofi di ispirazione utilitarista, come Robert Tuog a Harvard, o Peter Singer a Princeton propongono di riconoscere che i pazienti in stato di morte cerebrale non sono morti ma morenti, e di rinunciare al principio che impone di prelevare solo da cadavere. Secondo questi autori, sarebbe moralmente lecito prelevare da morenti, in condizioni controllate e con il consenso del paziente precedentemente espresso (direttiva anticipata, ndr).
Ma la morte cerebrale è solo uno dei punti controversi. Lo scopo del mio lavoro è mostrare che le nuove frontiere della medicina ci mettono di fronte a dilemmi etici e filosofici nuovi».

IL LIBRO “Les Frontières de la mort” (Payot) è l’ultimo saggio di Laura Bossi

mercoledì 2 gennaio 2013

l’Unità 2.1.1
Rivoluzione Pd, tutti i voti delle primarie
Giovani e donne al comando
Le primarie cambiano anche gli equilibri interni del partito
Bersani «felice» dei risultati: ci saranno gruppi parlamentari fortemente rinnovati
d S.C.


Dopo le primarie di sabato e domenica c’è un altro Pd. Sono cambiati gli equilibri interni, è cambiato lo stesso profilo del partito. Come candidati alla Camera e al Senato ci saranno molti giovani dirigenti locali, molte donne. «La ruota girerà», aveva promesso Pier Luigi Bersani, e il giro stavolta è stato forte. Dopo che più di un milione di elettori è andato ai gazebo per votare, delle vecchie correnti è rimasto più che altro il nome. E altri nomi invece si impongono. Come quello dei cosiddetti giovani turchi, i trenta-quarantenni che nei mesi scorsi hanno dato vita a «Rifare l’Italia»: almeno una cinquantina di loro sarà in lista in posizioni di elezione certa. Tra i quaranta e i cinquanta, considerando quelli che hanno avuto buoni risultati alle primarie e quelli che saranno nel cosiddetto listino, saranno i renziani.
Dopo queste primarie diversi parlamentari uscenti anche di un certo calibro, come Sergio D’Antoni, Achille Passoni, Salvatore Vassallo, Paolo Nerozzi, Manuela Ghizzoni, Mariangela Bastico, Vincenzo Vita e altri o sono già fuori dai giochi o devono aspettare di vedere quanti del cosiddetto listino verranno candidati in posizione più alta della loro per sapere se potranno poi avere qualche chance di venire eletti alle politiche.
Le direzioni regionali convocate per il 4 e 5 dovranno infatti sciogliere alcuni nodi e redigere le liste, ma sarà poi la direzione nazionale convocata per l’8 a dover approvare le liste elettorali in versione definitiva. Liste cioè che saranno composte dai migliori
piazzati alle primarie di sabato e domenica più le personalità scelte tra il mondo delle professioni e tra il gruppo dirigente del Pd. Ai nomi di Piero Grasso e Massimo Mucchetti si è aggiunto ieri quello di Maria Chiara Carrozza, rettore della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa. Altri ne arriveranno. Ora però l’attenzione è tutta per i vincitori delle primarie.
Hanno fatto il pieno di preferenze Stefano Fassina a Roma e Anna Finocchiaro a Taranto. Ottimi risultati anche per Rosy Bindi a Reggio Calabria, Barbara Pollastrini a Milano, Cesare Damiano a Torino. Primo a Monza Pippo Civati. In Puglia risultato record per Michele Bordo.
In Toscana trionfa Elisa Simoni (fronte pro-Bersani), davanti al vicesindaco di Firenze Dario Nardella (fronte pro-Renzi). Tra i renziani ottengono un buon risultato Davide Faraone (Palermo) e Matteo Richetti (Emilia Romagna) mentre è uscito sconfitto dalla competizione Giorgio Gori (Bergamo). In Sardegna sono due donne sindaco, Romina Mura e Giovanna Sanna le due candidate che avranno i primi posti per le liste del Pd alla Camera e al Senato. E molte altre donne, anche under 30, hanno ottenuto ottimi risultati o sono arrivate prime. Come la campionessa olimpica Josefa Idem, arrivata in testa a Ravenna. Il più votato in Italia il messinese Fracantonio Genovese, con quasi 20 mila preferenze.
Bersani si dice «felice» per come sono andate queste primarie: «Emerge il successo di giovani e donne». Ora dovrà chiudere la partita resistendo a molto pressioni interne per il listino. Il leader del Pd vuole candidare storici e politologi come Miguel Gotor, Carlo Galli, Alberto Melloni, ex sindacalisti come Guglielmo Epifani (probabile capolista in Umbria), segretari regionali come Enrico Gasbarra (probabile capolista nel Lazio) Franco Marini (si parla di lui come capolista in Abruzzo). Ma è in corso un confronto per far entrare anche i principali collaboratori di Renzi (a cominciare da Roberto Reggi) e, per precise quote, esponenti delle componenti ormai per così dire tradizionali (da Ignazio Marino a Marina Sereni, da Beppe Fioroni a Walter Verini).
Oggi, una volta che dalle federazioni locali saranno stati inviati a Roma tutti i dati definitivi delle primarie, la discussione entrerà nel vivo. La direzione nazionale è fissata per l’8 ma questa è una decisione presa quando dal Viminale veniva indicata come il 17 febbraio la data più probabile del voto. Con lo slittamento al 24 febbraio potrebbe esserci un rinvio anche per la direzione che dovrà dare il via libera definitivo alle liste elettorali.
I nodi da sciogliere non mancano, anche a livello locale. Dovrebbe essere rispettata l’alternanza di genere nelle liste, un fatto giudicato generalmente positivo perché permetterebbe di creare dei gruppi parlamentari del Pd composti per almeno il 40% da deputate e senatrici. Addirittura in alcuni casi l’alternanza sembra poter penalizzare proprio le candidate.
È successo a Bologna, dove Sandra Zampa ha preso più voti di Paolo Bolognesi, che però potrebbe essere favorito se la composizione della lista seguisse il criterio dell’alternanza di genere: se il capolista fosse uomo, tra i sette eleggibili figurerebbe cioè il presidente dell’associazione vittime della strage del 2 agosto 1980, e non la portavoce di Prodi. Si sta studiando una soluzione sia a livello regionale che nazionale. Una delle ipotesi è candidare come capolista una donna.
Dopo queste primarie si è aperto invece un caso in Umbria. Lamberto Bottini si è dimesso da segretario regionale del Pd all’indomani delle primarie, dopo essere arrivato sesto su sette candidati.
Al Pd nazionale spiegano che nessuno tra coloro che sono usciti sconfitti alle primarie verrà ripescato nel listino e candidato.

Tutti i risultati qui

l’Unità 2.1.1
Matteo Orfini: «Accadono cose turche alle primarie... Il Pd agisce, gli altri predicano»
«È stato premiato chi ha avuto il coraggio di sfidare il pensiero dominante
I maggiori collaboratori di Renzi hanno preferito i posti nella lista protetta»
di Simone Collini


«Son successe cose turche», ironizzava a caldo la sera del voto. Matteo Orfini ha corso alle primarie per i candidati parlamentari Pd di Roma e ha preso 4992 preferenze. Come lui, hanno ottenuto un buon risultato molti altri cosiddetti «giovani turchi».
Che Pd esce da queste primarie?
«Intanto, un Pd più forte. La scelta coraggiosa delle primarie è stata apprezzata dal nostro elettorato. Oltre un milione di persone che votano il 30 dicembre è un dato straordinario. E ora si vede ancora di più la differenza tra il Pd e gli altri, che magari si presentano come il massimo della democrazia e poi cacciano chi è in disaccordo. O, come ha fatto Monti, dicono in conferenza stampa di voler valorizzare le donne e poi si chiudono in una stanza con quattro uomini per decidere le liste. E poi da queste primarie esce un Pd diverso rispetto a quattro anni fa».
Perché dopo queste primarie saranno in lista molti giovani e molte donne?
«Per questo, perché aiuta a far vedere dov’è l’innovazione e dove invece permangono le vecchie pratiche e i vecchi modelli, ma non solo. La differenza è anche di tipo politico. Alcune battaglie che erano partite da posizioni minoritarie si sono affermate nel nostro elettorato perché abbiamo avuto la forza di parlare alla società. Con Stefano Fassina, Andrea Orlando e tanti altri abbiamo sfidato il pensiero dominante, combattuto partite difficili e vinto in collegi che dovevano essere inarrivabili».
I giovani turchi fanno battaglie nei convegni, è la critica mossa dal fronte pro-Renzi.
«Ecco, allora queste primarie sono la dimostrazione che le battaglie le abbiamo fatte nella società, non nella dialettica di partito, e le abbiamo vinte».
I candidati renziani, a partire da Giorgio Gori, non hanno ottenuto nel complesso un buon risultato: lei come se lo spiega? «Quello che ha indebolito molti esponenti che hanno sostenuto Renzi è il fatto che i suoi principali collaboratori non si sono voluti misurare con le primarie e hanno preferito prenotare un posto nella lista protetta».
Giudica un errore mettere al riparo dalle primarie una quota di candidature?
Io avevo chiesto che non vi fossero potici in quella lista. Ora spero che i nomi vengano scelti per aumentare ancora di più la capacità del Pd di parlare al più vasto elettorato».
Questo cosiddetto listino è stato pensato per garantire nei gruppi parlamentari una quota di competenze, è stato detto.
«Le primarie hanno dimostrato che competenze e consenso non sono alternativi. I nostri elettori sono attenti, le competenze le premiano, non le puniscono, come evidenzia anche il dato straordinario di Fassina a Roma. Il Pd deve avere fiducia nei suoi elettori».
C’è chi sostiene che dopo queste primarie il Pd è più spostato a sinistra.
«Nessuno spostamento a sinistra, il Pd si è messo al centro dell’agenda politica del Paese proponendo una prospettiva chiara, senza inseguire subalternamente Monti o altri. Dopodiché, è ora di recuperare la bellezza della parola sinistra, da sola, senza aggettivi, che parla a tutta la società, soprattutto ora che il tema dell’Italia è trovare una soluzione alla crisi e recuperare un’idea di giustizia sociale».
Cosa ne pensa della “salita in politica” di Monti?
«Che nasca una forza liberale non berlusconiana è un fatto positivo. Monti ha fatto l’errore di decidere di guidarla. Aveva una straordinaria forza, che gli derivava dall’essere super partes. Si è trasformato nel capo di una piccola coalizione e ha rinunciato a svolgere una funzione più generale, di cui c’era bisogno nel Paese. Comunque ora è ancora più chiaro che la posizione più credibile è quella del Pd. Servono elementi di discontinuità, il rigore non ha prodotto risanamento. Bisogna fare di più per favorire la crescita, a cominciare dalla lotta alle disuguaglianze, che sono diseconomiche. Lo riconoscono tutti a parte Monti».

l’Unità 2.1.1
È stata una rivoluzione
Da oggi senza le donne non si governa
di Sara Ventroni


Abbiamo detto addio al 2012 con la matita indelebile in una mano e il prosecco nell’altra. È l’ebbrezza del voto. Non sarà facile aspettare un mese e mezzo prima di poter tornare alle urne. In mancanza di una riforma della legge elettorale, il voto è l’unica arma in grado di disinnescare i poteri maligni del Porcellum. Stavolta il responso delle primarie di Capodanno parla chiaro: dove pensiamo di andare senza le donne?
Occorre essere onesti, però. Nell’esodo incerto e faticoso dalla seconda alla terza Repubblica non si aprirà il mar Rosso. Non ci sarà alcun miracolo. Nessuno scenderà dal monte con le tavole della legge. Non ci saranno profeti, e non basterà un’agenda nuova di zecca a convertire gli adoratori dei vitelli d’oro.
In questo passaggio si naviga a vista, senza avanguardie. Nessuno può rimanere indietro. Nessuno può andare a rimorchio. Per diradare la nebbia ci vuole prudenza e una vista acuminata. In anni di discredito violento verso la cosa pubblica, non servono a nulla gli incantesimi dei ciarlatani, i sermoni dei sacerdoti togati o la magnificenza discreta dei re taumaturghi. È tutto gattopardismo buono solo a lasciare le cose come stanno. Ne abbiamo abbastanza degli eroi solitari.
In questi vent’anni le abbiamo tentate tutte, e troveremo il modo anche di pensare alle nostre colpe, e ci siamo ritrovati con un pugno di mosche; in questo ventennio siamo regrediti al balbettio democratico: un senso di inferiorità dei cittadini che adesso, meglio tardi che mai, scoprono che il potere, da sempre, è nelle loro mani.
I padri e le madri della patria e i figli e i nipoti, se verranno picchiettano il dito sull’orologio: o ora o mai più. Dobbiamo esserci tutti, se non ora quando? Ci salverà solo una forza calma e diffusa, una sapienza elementare, attenta a che nessuno si perda per strada. Serve una fiducia incrollabile, perché tutti e ciascuno siamo indispensabili. Il popolo da mettere in salvo siamo noi. E non ci si salva per interposta persona. Non si avanza chiedendo a qualcuno di cammiare al posto nostro.
Ma anche la retorica lascia il tempo che trova. Nemmeno le primarie ci salveranno, sia chiaro. Sarebbe un errore credere nell’epica del gazebo come centro di gravità permanente. Le primarie sono state la cura e il sintomo: la cura per ridare dignità e credibilità a una liturgia politica imbalsamata in riti premoderni, da oligarchie guitte o azzimate; il sintomo di un bisogno più vasto e profondo di tornare a credere che il governo di un Paese ci riguarda tutti, che la politica non è uno sporco affare da uomini, non è salvacondotto personale, non è proprietà privata.
Allora che i vincitori delle prossime elezioni ne tengano conto, in commissione elettorale e nella composizione del governo. Le primarie di dicembre sono state l’ultimo atto di fede. Un milione di elettori, e migliaia di volontari, hanno detto: noi ci siamo, e voi? Non vogliamo sostare un giorno di più nella terra di nessuno. Non vogliamo rimanere intrappolati nell’evo dei populismi e dei cantastorie itineranti.
Le primarie non saranno belle, ma per ora sono il bene. E da oggi senza le donne non si governa. Il responso è inappellabile. Ma c’è voluto del tempo per capirlo. C’è voluto un movimento di pensiero, largo e popolare, esploso il 13 febbraio 2011, per liberarci dagli ultimi singhiozzi di perbenismo e dalle filosofie caritatevoli: le donne non vogliono essere protette. Le donne non sono in via di estinzione. Le donne non sono migliori degli uomini. Le donne non sono le vestali del focolare. Le donne non sono vittime sacrificali. Le donne non sono esemplari da proteggere in cattività, magari dentro liste bloccate. Le donne non vogliono la carità.
Le donne sono semplicemente la metà del Paese. Gli elettori hanno dimostrato di essere molto più emancipati dei proclami di galateo, delle buone intenzioni degli apparati e dei vecchi calcoli di listino. Il senso comune dei cittadini è due passi avanti. Ora non possiamo più tornare indietro.

Corriere 2.1.13
Le primarie incoronano la sinistra del Pd
di R. R.


Da Fassina a Damiano, successo dei «laburisti» contrari all'agenda Monti. Male i renziani
ROMA — I risultati ufficiali delle primarie che hanno avuto luogo lo scorso weekend per scegliere i prossimi candidati parlamentari del Pd saranno, con tutta probabilità, resi noti oggi. Però nel partito si fanno già i bilanci del peso conquistato dalle diverse correnti.
Certo, tra chi ha avuto sufficienti consensi per partecipare alle Politiche di febbraio, ci sono tanti nomi nuovi che anche lo staff del Pd nazionale fa fatica a collocare. Ma nessuno discute sul fatto che — non a sorpresa — la maggioranza di Pier Luigi Bersani abbia avuto la meglio, uscendo sostanzialmente rafforzata dalla consultazione. Così come viene dato per acquisito che l'ex principale rivale del segretario, il rottamatore Matteo Renzi, non è riuscito a conquistare molti posti nelle future liste: persino nella sua Toscana sfiora appena un quasi-pareggio, e a Roma si salvano in extremis Roberto Giachetti e Lorenza Bonaccorsi. In Veneto poi, dove è stata eliminata la veterana Maria Pia Garavaglia e resta in bilico la bindiana di ferro Margherita Miotto, la corsa è finita 12 a 2 a favore dei bersaniani.
Ciò che invece potrebbe comportare una variazione degli equilibri interni è il «raccolto» fatto dalla sinistra pd, che trasforma Roma e Torino nelle nuove roccaforti di opposizione all'agenda Monti. Nella capitale infatti stravince Stefano Fassina: il responsabile Economia e lavoro del Partito democratico ha accentrato su di sé 11.762 preferenze, il che equivale a oltre un quarto dei votanti. E, con oltre la metà dei suoi voti, lo segue Ileana Argentin: «Lo straordinario consenso intorno alla mia candidatura — dichiara — è un importante riconoscimento che non sarebbe stato possibile senza un popolo, il nostro, che orgogliosamente rivendica i valori e la cultura di sinistra». Per quanto riguarda il capoluogo piemontese, il vincitore è Cesare Damiano: le sue radici affondano nella Cgil e nella Fiom, è stato ministro del Lavoro con Romano Prodi e oggi è deputato uscente.
Anche se viene ormai dato per certo che Guglielmo Epifani farà parte del centinaio di candidati scelti da Bersani, che non hanno dovuto affrontare le primarie, Damiano è l'unico di provenienza Cgil ad avere riportato una forte affermazione: persino Paolo Nerozzi, parlamentare uscente e forte dell'endorsement della Cgil, è stato silurato a Bologna. Che ha lasciato lontano dagli scranni anche l'ex veltroniano e poi montiano Salvatore Vassallo. Mentre, per restare nell'ambito sindacale, l'ex leader della Cisl e deputato uscente Sergio D'Antoni ha incassato la bocciatura dell'elettorato siciliano e viene considerato altamente improbabile un suo eventuale recupero.
Alla crescita della sinistra corrisponde — anche se non in misura proporzionale — un calo dell'area di Dario Franceschini, componente e sostegno della maggioranza bersaniana ma con connotazione ex ppi. Alcuni dei suoi imputano la cosa alle divisioni interne che hanno prodotto troppe candidature e al successo dei tanti nuovi giovani e donne che si sono presentati, facendo così salire il quorum. Fatto sta che, pur avendo incassato buone posizioni in diverse città compresa Milano con Franco Mirabelli ed Emanuele Fiano, a Roma nessuno dei tre possibili candidati di quest'area ce l'ha fatta a entrare in lista. E farà una gran fatica a rientrare in Parlamento anche la senatrice uscente Vittoria Franco.
Tra promossi e trombati, l'esito delle primarie viene comunque generalmente accolto senza contestazioni. Fa eccezione la Sicilia, dove la parlamentare uscente e a rischio esclusione Alessandra Siragusa ha presentato ricorso al partito; e dove l'ex presidente dell'Antimafia regionale Lillo Speziale ha segnalato anomalie ai carabinieri durante il riconteggio delle schede.
Fra le curiosità, infine, a Pesaro è sì passato il segretario provinciale (e bersaniano) Marco Marchetti, ma è rimasto fuori Oriano Giovannelli, che è stato il tesoriere del Comitato Bersani delle primarie di novembre per la scelta del candidato di centrosinistra alla presidenza del Consiglio. A Cesena, invece, ha stravinto il più giovane candidato pd d'Italia: Enzo Lattuca, che compirà 25 anni il mese prossimo.

Repubblica 2.1.13
Primarie, la carica dei “giovani turchi” in cinquanta pronti per il Parlamento
Il Pd candida Carrozza, rettore della Sant’Anna a Pisa


ROMA — Non bastassero le primarie, a fare incetta di donne e giovani, il Pd annuncia un nuovo candidato della società civile: è Maria Chiara Carrozza, rettore della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, che promette subito: «Ho accettato la proposta di Pier Luigi Bersani per impegnarmi su temi che conosco bene: istruzione, ricerca, lavoro e innovazione in un momento cruciale per lo sviluppo dell’Italia all’interno dell'Unione Europea».
Così, dopo l’affannosa due giorni del 29 e 30 dicembre, con migliaia di volontari mobilitati sul territorio e battaglie anche aspre tra i vari pretendenti al Parlamento, i democratici continuano a definire il loro profilo: dopo il procuratore antimafia Piero Grasso e il giornalista esperto di materie economiche Massimo Mucchetti, arriva una candidatura che parla di cultura e ricerca.
Davanti alla sfida dei rottamatori, del resto, Bersani lo aveva promesso: il rinnovamento lo garantirò io. Il tabellino degli ultimi promossi vede Matteo Orfini, responsabile cultura e “giovane turco” della segreteria (la stessa corrente del trionfatore
romano Stefano Fassina), i deputati uscenti Marianna Madia, Roberto Morassut e Ileana Argentin, i renziani Roberto Giachetti e Lorenza Bonaccorsi, anche loro a Roma, e - a Caserta - un’altra onorevole, Pina Picierno. Tra gli sconfitti, si parla ora di Paolo Bolognesi (il presidente dell’associazione dei familiari delle vittime della strage di Bologna) che ha avuto meno voti della portavoce di Romano
Prodi Sandra Zampa, arrivata sesta. All’inizio sembrava che la formazione delle liste con l’alternanza uomo-donna potesse nuocerle a favore di Bolognesi, ma pare che alla fine non sarà così. Sonoramente bocciato a Bari Alessandro Emiliano, il fratello del sindaco Michele, arrivato dodicesimo. Vincente con risultato bulgaro, invece, a Messina, il deputato uscente Francantonio Genovese, con il record di 20mila preferenze su 25mila.
Il punto ora è proprio questo: con tutte queste persone che sono andate sul territorio a chiedere i voti, come farà il partito a garantire posti sicuri in lista a chi non lo ha fatto? I trenta-quarantenni sono agguerriti: va bene Grasso, Mucchetti, la società civile, ma perché chi ha raccolto qualche migliaio di voti dovrebbe farsi sopravanzare da quei
parlamentari - e sono tanti - che hanno scelto di non fare le primarie? E che contano di essere messi nel “listino” del segretario? La discussione partirà oggi e si protrarrà certamente fino alla direzione dell’8 gennaio, quando sarà il momento di scegliere. Chi ha rinunciato alle rendite di posizione per giocarsi la partita, non intende fare sconti.
Del resto, già si dibatte su quanti parlamentari avranno i “giovani turchi” (ben più di 50, mormora piano la parte più a sinistra del Pd) e quanti ne avranno i renziani (che contano su 15 posti bloccati nel listino e sulla buona performance di alcuni di loro sul territorio, come Davide Faraone, risultato vincente a Palermo). E quindi, Marini, Concia, Boccuzzi, Giacomelli, Casson, La Torre, Sereni potranno essere candidati in posizioni migliori di chi sul territorio ha raggiunto qualche migliaio di voti, senza però sfondare? Per Bersani sarà un’altra grana da risolvere, ma - dalla segreteria in giù - nessuno mette in discussione l’esperimento delle primarie: «È una rivoluzione. Ci porterà fortuna».
(a.cuz.)

il Fatto 2.1.13
Giovani e volti nuovi, l’altra faccia del Pd
di Wanda Marra


Il cambiamento non è ‘tutti a casa’, ma che la partita sia contendibile. E stavolta in buona parte lo è stata”. A scriverlo sul suo blog è Pippo Civati, consigliere regionale, 37 anni, che in Lombardia ha stravinto. Per lui una vittoria che vale doppio: quella per le primarie parlamentari è stata in primis una sua battaglia. E anche se era stato tra i primi a mettere l’accento sulla sua realizzazione un po’ dubbia (a cominciare dalla data), alla fine i gazebo porteranno in Parlamento anche molti giovani e molti outsider. Se oggi ci saranno i risaultati definitivi, per un quadro completo del posizionamento in lista dei vincitori bisognerà aspettare ancora qualche giorno. Molti volti nuovi però escono con affermazioni indiscutibili. Per cominciare, in Emilia-Romagna tra i più votati troviamo a Modena il renziano Matteo Richetti, presidente dimissionario dell'Assemblea legislativa, con oltre 9.400 preferenze, l'oro olimpico a Sydney 2000 Josefa Idem ed Enzo Lattuca segretario democratico di Cesena che compirà 25 anni a febbraio. I renziani ad entrare in Parlamento, tra vincitori dei gazebo e listino bloccato, dovrebbero essere una sessantina.
Se è per la Toscana, la più votata in assoluto è Elisa Simoni, attuale assessore al lavoro della Provincia di Firenze, che ha ottenuto 10.535 voti. Per quanto riguarda Firenze, dietro Simoni si sono piazzati Dario Nardella e Rosa Maria Di Giorgi, rispettivamente vicesindaco e assessore alla pubblica istruzione a Palazzo Vecchio, entrambi molto vicini al sindaco rottamatore. Caterina Cappelli, 25 anni, bersaniana, la seconda candidata più giovane d’Italia, è arrivata subito dietro al sindaco di Vinci, e renziano, David Parrini nelle primarie della federazione di Empoli. In Lombardia, nel complesso, sono i trenta-quarantenni a vincere le primarie: Veronica Tentori, ventisettenne, a Lecco; Alan Ferrari a Pavia e Chiara Braga a Como (sotto i quaranta entrambi).
Al sud sono molte le donne che si conquistano - anche inaspettatamente - un posto in Parlamento: Angelica Saggese, 40 anni, segretario generale del Comune di Salerno (e vicina a Enrico Letta) con 8200 voti è la seconda eletta nel collegio di Salerno. A trionfare a Palermo, dove esce un big come Sergio D’Antoni, è Magda Culotta, 26 anni, sindaco di Pollina. Passa anche Davide Faraone, uno dei renziani delle prima ora. La giovane altamurana Cecilia Ventricelli, 26 anni, candidata dei Giovani democratici è la prima nella provincia di Bari con 3612 voti.
E ancora. Nelle Marche, c'è stata l’affermazione di una studentessa di Urbino, Lara Ricciatti. Era a Nazareth Francesca Bonomo, 28 anni, quando ha saputo di essere arrivata seconda solo a Cesare Damiano a Torino. Candidata dei Giovani Democratici, animatrice parrocchiale, è consigliera comunale di Barbania, nel Canavese. E poi c’è Donatella Albano, 55 anni, che vince a Imperia e arriverà in Parlamento dopo aver denunciato le infiltrazioni mafiose nell’area di Bordighera in cui era consigliere comunale.
Ma i gazebo premiano anche alcuni giovani dirigenti del Pd, che hanno scelto di correre, anche se avevano un posto certo nel listino delsegretario: Stefano Fassina è primo a Roma con 11.762 voti, città che premia anche Matteo Or-fini, con 4992. Andrea Orlando è il primo a La Spezia. Superano la prova dei gazebo anche due che fuorono tra le capoliste scelte da Veltroni: Marianna Madia a Roma prende 4967 voti e Pina Picierno 5197 a Caserta. E Francesco Boccia, giovane economista vicino a Letta vince nettamente a Barletta-Andria-Trani. Dentro a Roma anche Roberto Giachetti. Come molti mostri sacri: a cominciare dalle derogate Anna Finocchiaro e Rosy Bindi, per arrivare a Cesare Damiano e Barbara Pollastrini.

il Fatto 2.1.13
Gli impresentabili
Indagati e clientelisti fra i re delle preferenze
di Alessandro Ferrucci


C’è chi può vantare un’indagine per concorso esterno in associazione mafiosa. Chi una serie lunga e articolata di conflitti di interesse. Chi è entrato dentro un’inchiesta su personaggi vicini all’ ‘Ndrangheta. Chi, per carità, ha solo un cognome importante da parte di padre o di marito. Ma lo fa pesare. Nord, centro e sud, lo stile non ha regione. Questo nucleo di selezionati speciali ha vinto le primarie del 29 e 30 dicembre, quindi un biglietto, una chance verso il prossimo Parlamento sotto l’egida del Partito democratico. Sorridono, si fanno intervistare, la “legittimazione è arrivata dalla base”, dicono, “premiato il lavoro sul territorio”, ribadiscono. Così Vladimiro Crisafulli, 6.348 preferenze, è il re di Enna, già deputato e senatore, l’uomo di cui il Pd non può fare a meno. Eppure nel 2004 i pm di Caltanissetta scrivono: “È dimostrata da parte di Crisafulli la disponibilità a mantenere rapporti con il Bevilacqua, accettando il dialogo sulle proposte politiche dello stesso, ascoltando la sua istanza e rispondendo alle domande sulle possibili iniziative politico-amministrative, in particolare in materia di finanziamenti e appalti”.
INCISO: il soggetto con il quale l’esponete democratico interloquisce, è Raffaele Bevilacqua, boss del clan mafioso di Enna e Barrafranca, in contatto con l’allora superlatitante Bernardo Provenzano. Sia ben chiaro, c’è l’archiviazione, ma solo perché quel colloquio non portò ad alcun favore a Cosa nostra, con i soggetti collusi arrestati “troppo presto”. Resta ancora un rinvio a giudizio per abuso d’ufficio: il ras di Enna, secondo l’accusa, si sarebbe fatto pavimentare a spese della Provincia una strada che porta direttamente alla sua villa.
Altro campo, altra matrice, altra storia, per Nicodemo Oliverio, mister 8.245 preferenze a Crotone. Su di lui pende dal 2009 un’imputazione di bancarotta fraudolenta, documentale e patrimoniale, secondo le accuse del gup del Tribunale di Roma. La questione è l’inchiesta sulla cessione di Palazzo Sturzo dalla Ser Immobiliare per tre miliardi e mezzo di lire, immobile poi venduto dal Ppi nel 2007 per ben 52 milioni di euro. Oliverio era il tesoriere ex Ppi e Margherita. Secondo l’accusa “il bene immobiliare con un valore catastale di oltre 20 miliardi di vecchie lire e un valore di mercato oscillante tra i 60 e i 100 miliardi” attraverso la donazione al Ppi, soggetto controllante la stessa società Ser poi fallita “arrecò un danno patrimoniale ai creditori”.
ANGOLO conflitto di interessi, tocca a Francantonio Genovese, quasi 20mila preferenze. Come sindaco di Messina (2005) era anche azionista e dirigente della società di traghetti, Caronte, che guarda caso opera sullo Stretto. E poi c’è tutta la sua famiglia allargata (come racconta Marco Travaglio in prima pagina) in alcune società di formazione-lavoro finanziate dalla Regione. Sempre Sicilia, troviamo Antonio Papania (6.165 preferenze). Il suo feudo elettorale è Alcamo, paese definito il “regno del lavoro interinale”. Il 24 gennaio del 2002 ha patteggiato davanti al gip di Palermo una pena di 2 anni e 20 giorni di reclusione per abuso d’ufficio.
Saliamo a Milano. Ancora incerta la situazione per Bruna Brembilla (1.893 voti), entro venerdì i risultati definitivi. Influente membro del Pd lombardo, ex assessore provinciale (fino al 2009) nella giunta guidata dal Filippo Penati, si parla di rapporti con personaggi vicini alla ’ndrangheta. Tanto che nel 2008 il suo nome finisce sul registro degli indagati (archiviazione). L’ex assessore ne esce pulita, eppure nella rete delle intercettazioni restano parole che la pongono al centro di un intreccio tra politica, impresa e ambienti mafiosi. Capitolo “parenti famosi”. In Calabria troviamo Enza Bruno Bossio, oltre 10 mila preferenze, moglie di Nicola Adamo, ex assessore, già deputato, considerato l’uomo macchina per i democratici di Cosenza, e non solo, gravido di vicende giudiziarie. I coniugi sono stati uniti anche da un avviso di garanzia nell’inchiesta Why Not, per i reati di truffa, abuso d’ufficio e associazione a delinquere per ipotetici finanziamenti “pilotati” che hanno interessato aziende amministrate dalla moglie. Anche in questo caso tutto archiviato. Ma non basta: a ottobre del 2012, nell’inchiesta sull’eolico, ad Adamo viene contestata l’associazione a delinquere, la corruzione, l’abuso d’ufficio, falso ideologico, violenza privata e violazioni delle norme sull’edilizia.
Infine complimenti a Daniela Cardinale 3488 voti, classe 1982, figlia di Salvatore, ex Ccd, Udeur, Ppi. Ex ministro. Nella scorsa legislatura il padre le ha lasciato il seggio, dopo la benedizione di Veltroni. Ora la famiglia lo ha confermato.

La Stampa 2.1.13
Dopo le primarie battaglia nel Pd sui posti in lista
Ricorsi in Sicilia ed Emilia, dubbi sui seggi garantiti
di P. Bar.


Archiviate con successo le primarie di fine anno, un milione e 200 mila i votanti ed un forte rinnovamento delle candidature con tanti giovani e soprattutto tante donne premiate a scapito di molti deputati uscenti, la questione liste in casa Pd entra subito nel vivo. E si annuncia battaglia. Oggi verranno resi noti i dati ufficiali delle «parlamentarie» definite da Bersani un’esperienza «che non ha precedenti nella storia politica europea», e già domani si inizierà a ragionare in concreto sulle «squadre» da schierare regione per regione. Sempre tra domani e dopodomani le varie direzioni regionali del Pd si riuniranno per mettere a punto le loro richieste: il Piemonte ha già rotto gli indugi chiedendo esplicitamente a Roma di ridurre da 10 a 8 i posti riservati al partito nazionale nel listino regionale. Altre federazioni si apprestano a fare altrettanto. Così come sarà battaglia sui capilista: nomi catapultati da fuori o candidati espressione del territorio? La scelta finale sarà fatta solo la prossima settimana: la direzione nazionale chiamata a varare le liste per le politiche del 24-25 febbraio, salvo slittamenti, è infatti convocata per il giorno 8. Bersani ha già fatto sapere di voler riservare al partito nazionale il 10% dei posti totali, all’incirca una novantina, più una trentina di nomi per i capilista. In tutto quindi circa 120 posti sicuri che dovranno essere divisi tra la componente bersaniana, destinata pare ad arrivare a decidere il 70% di questi nomi, e le altre sottocorrenti.
Grane in vista a Roma insomma, ma grane anche a livello locale. A Bologna la portavoce di Prodi, Sandra Zampa, rischia di non essere rieletta perchè in nome dell’alternanza uomo-donna pur avendo preso più voti dovrebbe cedere il passo al presidente dell’associazione vittime 2 agosto Paolo Bolognesi che ne ha presi molti meno. A Palermo, invece, un’altra parlamentare uscente, Alessandra Siragusa giunta quinta e quindi a rischio riconferma ha presentato ricorso. A Caltanissetta invece domenica notte sono dovuti intervenire i carabinieri per dirimere una questione di riconteggio delle schede che penalizzava Lillo Speziale, ex presidente dell’antimafia regionale, a vantaggio della figlia dell’ex ministro Salvatore Cardinale, Daniela.
Intanto, per quanto «lusingato», il fondatore di Eataly Oscar Farinetti, dopo le voci dei giorni scorsi, fa sapere di non essere interessato ad una eventuale candidatura.
il Fatto 2.1.13
Il messaggio a Napolitano
I nuovi italiani del rapper Amir
di Carlo Di Foggia


Ci sta Tania, ci sta Amir, c’è Simone. Vogliamo i nostri diritti non chiediamo un favore”. Il volto è il suo ma le storie (migliaia) di cui parla sono le loro: gli italiani di seconda generazione. Ragazzi e ragazze, figli di immigrati ma nati e cresciuti nel nostro Paese. Italiani di fatto, stranieri per la legge. Almeno fino ai 18 anni, poi una complessa procedura burocratica stabilirà se potranno essere cittadini a tutti gli effetti. Lui, Amir, rapper nato a Roma da madre italiana e padre egiziano, pochi giorni fa ha lanciato il suo messaggio al capo dello Stato. E lo ha fatto nel modo in cui gli riesce meglio, in rime. “Ho chiesto al Presidente della Repubblica di parlare, durante il suo discorso di fine anno, di questa generazione che si sente italiana ma che rischia di rimanere straniera per sempre”, ci spiega. Il videappello #caropresidente ha fatto il giro della rete, e sortito il suo effetto: “Già un anno fa - si è chiesto Napolitano durante il suo discorso - avevamo 420 mila minori extracomunitari nati nel nostro Paese: è concepibile che, dopo essere cresciuti ed essersi formati qui, restino stranieri in Italia?”.
Com’è nata l’idea del videappello?
Attraverso il sito di petizioni online Change.org  . Loro mi hanno chiesto di lanciare un messaggio e io l’ho fatto nel modo che conosco meglio, il rap. La petizione è andata benissimo e l’abbiamo fatta arrivare al capo dello Stato. Dal Quirinale ci hanno comunicato che il Presidente l’ha vista.
Obiettivo raggiunto?
Sì, ma questo è solo un punto di partenza, Napolitano è sempre stato sensibile al tema dei ragazzi nati in Italia da genitori stranieri. Non è la prima volta che lancia un appello.
Questa volta però lo ha fatto in un messaggio a reti unificate.
È il riconoscimento di una situazione paradossale, che ormai non può più essere ignorata dall’opinione pubblica. Parliamo di mezzo milione di persone, una cifra enorme. Spesso però il problema finisce per essere affrontato in maniera sbagliata.
Quale?
Si finisce sempre per parlare di immigrazione e razzismo. E il problema si perde tra le polemiche politiche. Ma qui l’immigrazione c’entra poco. Questi ragazzi non sono immigrati nati in Italia, sono italiani a tutti gli effetti. Moti di loro hanno pochi legami con i paesi d’origine dei genitori, spesso non ci sono neppure mai stati. Mio padre è egiziano, ma io in Egitto ci sono stato una volta sola. Non mi definirei neanche “italo-egiziano”, semplicemente italiano. Si tratta di riconoscere legalmente una condizione di fatto, che nella vita quotidiana è ormai accettata da tutti.
È solo un problema legislativo?
Direi soprattutto culturale: è sbagliato affrontare la questione solo dal punto di vista dell’accoglienza verso gli immigrati. Questi ragazzi non vengono discriminati dai loro coetani ma dallo Stato.
In che senso?
Persone nate e cresciute qui che arrivano ai 18 anni con il permesso di soggiorno. E il peggio arriva dopo: una lunga e frustrante trafila burocratica, con il rischio addirittura di finire espulsi. Ma questi ragazzi si sentirebbero più stranieri nei paesi d’origine dei loro genitori. Grazie a mia madre ho la cittadinanza italiana ma ho tantissimi amici che vivono in questa sorta di limbo e mi raccontano storie incredibili. Un’amica si è vista respingere la richiesta per “problemi di reddito familiare”, e quindi dovrà andare avanti con un “permesso di soggiorno a lungo termine”. Una follia.
Perchè la politica non affronta  questo problema?
Sinceramente, è una cosa che non mi spiego. Napolitano lancia appelli al mondo politico che finiscono puntualmente nel vuoto. Non è cambiato niente neanche con il Governo dei tecnici. Tutti fanno a gara a condividerne le parole ma poi non se ne fa nulla. Ma ormai il problema non si può più ignorare.
Eppure c’è chi, come Grillo, dice che questo non è un tema prioritario.
Oltre 500 mila persone non sono una priorità?
La Lega è pronta “a fare le barricate”.
Non sanno di cosa parlano. É un atteggiamento dettato semplicemente dall’ignoranza.

La Stampa 2.1.13
Il presidente dei vescovi italiani
“Aborto ed eutanasia per motivi economici”
Il cardinale Bagnasco: proposte come scelte umanitarie solo a parole
di Giacomo Galeazzi


La crisi minaccia la vita dal concepimento al suo termine naturale: ci sono anche motivi economici dietro l’eutanasia e l’aborto.
Il presidente della Cei, Angelo Bagnasco apre il 2013 declinando per l’Italia i «principi non negoziabili» di Benedetto XVI. E così la predicazione papale si fa un appello bioetico rivolto alla politica nel momento in cui i partiti definiscono i loro programmi in vista delle elezioni. Eutanasia ed aborto vengono spesso proposti e sostenuti da alcuni facendo leva su «motivi umanitari», ma in realtà vengono incoraggiati «a volte, per motivi economici». Commentando a Genova nella chiesa dell’Annunziata il messaggio del Pontefice per la giornata della pace, il leader dei vescovi si è rivolto alle istituzioni. Una serie di domande. «Quale garanzia ci può essere se uno Stato non rispetta, non promuove, non accoglie, non difende la vita, soprattutto la più fragile e debole, anche quella vita che non ha neppure il volto, neppure la voce per imporre sé stessa e il proprio diritto, oppure se quella vita non ha più la voce perché l’ha persa, in uno stato di incoscienza, di infermità mentale? ». Il cardinale non cita mai direttamente i termini eutanasia e aborto ma, sottolinea, «é evidente a chi pensiamo». Quali garanzie, si interroga il porporato, «se la comunità, non è in grado di accogliere, non vuole accogliere, per motivi anche i più umanitari a parole, in realtà temo, a volte, per motivi economici»? E quali garanzie «se non è in grado di accogliere la vita nella fase più ultima? ».
Quindi, «parliamo spesso degli ultimi, ma gli ultimi degli ultimi sono coloro che non possono opporre agli altri neppure la presenza, neppure un volto, tanto meno la voce». Inoltre, «una società siffatta che garanzie potrà dare di difendere, accogliere, sostenere, promuovere, anche con grandi sacrifici tutte le altre fragilità della vita umana? ». Perciò, «se il cuore della società non è abbastanza grande e sensibile da commuoversi di fronte a queste situazioni ultime della fragilità umana, e non le accoglie perché dice di dover pensare alle altre fragilità, c’é un circolo che non si può spezzare».
Il porporato riserva un passaggio anche alla crisi economica, per ribadire che dalla recessione si esce uniti perché «chi si illude di farcela da solo nel proprio piccolo orto fallisce inevitabilmente». E avverte: «Nessuno si scoraggi, la chiesa si fa sempre vicina in tutti i modi, nelle parrocchie, nei centri di ascolto, con le mense, i dormitori». Per la Chiesa «é un dovere, non è un titolo di privilegio o di particolare merito». C’è bisogno di «riconciliazione nei rapporti, nelle famiglie, nei gruppi, nella società», puntualizza al termine della cerimonia. Ai cronisti che gli chiedono se ci sia bisogno di pace anche in politica, il cardinale risponde che per ottenere la pace è sufficiente «pensare al bene comune, pensare al bene generale secondo le responsabilità di ciascuno». Basta questo, assicura, e «la pace è già fatta». E la difesa della vita e della famiglia non può restare ai margini della vita pubblica.

Repubblica 2.1.13
Israele, la rivolta dei diplomatici “Sbagliato avviare nuove colonie”
Gli ambasciatori contro Netanyahu. La replica: “Dimettetevi”
Si chiama Gatekeepers, il docu-film appena uscito in Israele, in lizza per l’Oscar
Sei interviste agli ex capi dello Shin Bet
“Vinciamo tutte le battaglie, ma stiamo perdendo la guerra”, spiega una delle spie in pensione
L’unica soluzione? Il dialogo
di Francesco Mimmo


GERUSALEMME — Frustrati e sconcertati dalla strategia del proprio governo. Incapaci di spiegare alle cancellerie di mezzo mondo la politica estera di Israele. Così si sentono gli ambasciatori dello Stato ebraico che hanno dato vita a un’inedita e clamorosa protesta. Un vero e proprio sfogo, durante la consueta conferenza annuale, domenica a Gerusalemme, che ha preso di mira direttamente il governo Netanyahu e la sua scelta
di avviare nuovi insediamenti nei Territori all’indomani della decisione dell’Onu di riconoscere la Palestina come Stato osservatore.
Alla conferenza era il momento del generale Yaakov Amidror, ex capo dell’intelligence militare, ora alla guida del Comitato di sicurezza nazionale ed ascoltato consigliere del premier Benjamin Netanyahu. Dalla platea ha preso la parola l’ambasciatore all’Onu, Ron Prosor, decano della diplomazia israeliana, per chiedere: «Ma qual è la logica dietro la scelta di Israele di avviare nuovi insediamenti un giorno dopo che l’Onu ha votato a favore della Palestina come Stato osservatore?». Ancora prima
che arrivasse la risposta, dai 150 ambasciatori si è levato un applauso che ha rivelato tutti i loro dubbi. Il generale non l’ha presa bene. Lo dimostra la durezza della replica. «Signori, vi ricordo che siete dei servitori dello Stato d’Israele – ha replicato stizzito – se non vi piace la politica del governo potete dimettervi, oppure scendere in politica. Non credo proprio che al Foreign Office a Londra o al Dipartimento di Stato a Washington qualcuno abbia mai applaudito a una critica nei confronti della politica estera dei propri governi ». Il vicedirettore generale del Ministero degli Esteri ha cercato di metterci una pezza: «Nessuna critica – ha spiegato Ran Curiel citato dal quotidiano Yedioth Ahronoth
– ma la questione ci preoccupa. Non abbiamo gli strumenti per spiegare la politica estera di questo governo». Ma ormai il danno era fatto e la questione messa in piazza.
Il ministero degli Esteri aveva ufficialmente sconsigliato di prendere misure immediate al voto dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite del 29 novembre. Un suggerimento che il governo israeliano non ha accolto, suscitando la condanna di molti governi che hanno immediatamente convocato gli ambasciatori per chiedere spiegazioni. Spiegazioni, ora si sa, che gli ambasciatori di Israele, imbarazzati, non hanno saputo dare.
La protesta dei diplomatici arriva in un momento difficile per il governo Netanyahu. Il 22 gennaio si vota. Il Likud, il partito del premier, nei sondaggi sta perdendo terreno. Il nervosismo è palpabile: il direttore dell’istituto nazionale di statistica è stato licenziato in tronco con una mail dopo aver diffuso dati economici negativi che indicano come Israele stia scivolando verso la recessione. La politica estera è stata al centro di uno scontro tra Netanyahu e il presidente Peres che lo ha duramente attaccato
invitandolo a riprendere il dialogo con l’Anp di Abu Mazen. E in Cisgiordania è tornata a salire la tensione: cinquanta arresti in un mese per sassaiole e molotov contro la guardia di frontiera. Ieri nuovi scontri, nel villaggio di Tamoun, con trenta palestinesi e tre militari feriti, in seguito all’arresto di un membro della Jihad. Uno delle dozzine di episodi di quella che la stampa ha già nominato una nuova »intifada nascosta».

l’Unità 2.1.1
Israele, la sinistra punta sul sociale e trascura la pace
A tre settimane dal voto la metamorfosi del Labour e della sua leader,
Shelly Yachimovich: più attenzione agli indignados che ai palestinesi
di Umberto De Giovannangeli


Punta sugli «indignados» e mette tra parentesi la pace con i palestinesi. Prova a cambiare l’agenda delle priorità la sicurezza sociale piuttosto che quella militare ma intanto consuma rotture eccellenti al proprio interno. È la sinistra israeliana a venti giorni da voto. Riflettori puntati soprattutto sul Partito laburista e la sua leader, Shelly Yachimovich, giornalista televisiva di successo, la seconda donna a prendere la guida laburista dopo Golda Meir. A tenere ancora banco, come paradigma di una sinistra lacerata,è il «caso Peretz».
LACERATI
Amir Peretz, numero tre alle primarie dei laburisti, ed ex leader del Labour, aveva minacciato la stabilità del partito qualora Shelly Yachimovich avesse deciso di unirsi ad un eventuale governo di destra guidato dal Likud-Beitenu. Aveva inoltre invitato la dirigenza a prestare maggiore attenzione ai temi politici ed economici. La notizia è stato commentata con toni aspri dalla leader Yachimovitch «Si tratta di un ennesimo complotto politico. La politica ha toccato nuovamente il fondo». Ha poi lanciato un accorato appello ai suoi elettori: «Non vi arrendete all’opportunismo, alle cospirazioni, ai complotti, agli istinti e ai giochi di sedia in cui non vi è alcun valore. Non vi arrendete, perché non deve essere così. Cittadini d'Israele, meritate di più, meritate persone con il fuoco negli occhi, pronti ad assumersi la responsabilità delle vostre vite, di servirvi e di guidarvi».
Apriti cielo. In risposta al j’accuse della leader infuriata, Peretz annuncia il suo passaggio alla nuova formazione dell’ex ministra degli Esteri, Tzipi Livni (Ha-Tnu'a, «Il movimento»). Ma le lacerazioni interne dei laburisti non si sono limitate al passaggio di Peretz. Furioso è anche Yariv Oppenheimer, direttore generale di Peace Now. Oppenheimer, approfittando dell’addio di Peretz, aveva chiesto di avanzare di tre posti nella lista dei candidati ai «posti reali» (così da essere eletto sicuramente alla Knesset) perché aveva gareggiato in una lista nazionale e non limitata a determinati distretti. La sua proposta è stata bocciata dalla dirigenza del partito scatenando così le sue ire. «Ladri di giorno e di notte. Questa è la politica di Shelly Yachimovich» è stata la sua reazione.
Riflette Gideon Levi, firma di punta di Haaretz: «Oggi i laburisti sono diventati un partito di centro, un altro partito di centro come voleva chi lo dirige. Tuttavia Ha-Tnu'a di Livni non è diventato un partito di sinistra perciò la scelta di Peretz è inutile e dannosa. Ha azzerato ogni possibilità di costituire un partito moderato di sinistra. Meretz (sinistra sionista(ndr) dovrebbe rafforzarsi da questa operazione, mentre i laburisti dovrebbero indebolirsi. Ma più di ogni altra cosa, i laburisti sono diventati il partito assolutistico di Yachimovich, nel bene ma soprattutto nel male».
A chi la attacca da sinistra, la leader laburista non porge l’altra guancia. E in una recente intervista a l’Unità aveva rilanciato così: «In Israele esiste una grande questione sociale che la sinistra deve saper affrontare e risolvere puntando su un mercato che va regolato e indirizzato alla costruzione di opportunità di lavoro. Equità, solidarietà, giustizia sociale sono i pilastri di una politica che ridia speranza e ossigeno ad un Paese che la destra sta trasformando in una giungla sfrenata. La destra sta distruggendo lo Stato sociale. Noi dobbiamo impedirglielo». Ed ancora: «Oggi la gente ha compreso che la sicurezza contro una minaccia esterna non è più sufficiente, perché è necessario anche rendere più sicura la nostra vita quotidiana, avere un tetto sulle nostre teste e cibo sulle nostre tavole, e una buona istruzione per i nostri figli e sicurezza nelle nostre strade. È questa idea di sicurezza sociale che la destra ha pesantemente incrinato. La sinistra deve costruire su questo una forte, credibile alternativa, chiamando i partiti di centro ad un fronte comune... La scelta in queste elezioni sarà tra uno Stato radicale isolato e uno Stato sionista sano». Sul vago, troppo, resta il processo di pace. Nel suo libro «Us», Yachimovich nomina a malapena i palestinesi. Gli ultimi sondaggi danno al Labour 17 seggi, al Meretz (sinistra laica) 4 seggi. Ma la leader del Labour non demorde. «Sono convinta dice che giustizia sociale e pace siano due facce della stessa medaglia: quella di un Paese che vuole investire nel futuro e non chiede altro che di essere un Paese normale, non più in trincea ma profondamente integrato in un Medio Oriente che le primavere arabe, nel bene o nel male, hanno comunque ridisegnato». Sia il Labour che il Meretz (il cui astro l’astro nascente è Michal Rozin, l’attivista che combatte gli stupri), puntano su diritti sociali e civili. Ma in un Paese in trincea può non bastare.
(2 segue)

il Fatto 2.1.13
Giornata mondiale della pace
Oltre 350 conflitti: i signori della guerra brindano
di Roberta Zunini


Dal 1967, il 1 gennaio è la Giornata Mondiale della Pace. Ma l’armonia e il dialogo si allontanano di anno in anno. Le ragioni sono essenzialmente tre: la corsa all’accaparramento delle risorse del pianeta, l’industria bellica, che rappresenta tuttora la voce principale dell’economia delle grandi potenze e, infine, il loro tentativo di mantenere inalterate le aree di influenza per continuare a esercitare il potere.
È difficile crederci, ma nel preciso istante in cui leggete, nel mondo sono in corso ben 388 conflitti. Dal 2010 alla fine del 2012, il numero totale di conflitti nel mondo è passato da 370 a 388. “Sono aumentate soprattutto le guerre: dai 6 casi del 2010 ai 20 di oggi”. Lo ha spiegato dettagliatamente Paolo Beccegato, responsabile Area internazionale Caritas italiana. “Oggi 145 nazioni nel mondo devono condividere le proprie risorse idriche con altri Paesi. Un fatto che negli ultimi 50 anni ha prodotto 37 conflitti. Oltre 50 Paesi – ha specificato Beccegato – nei prossimi anni potrebbero entrare in dispute violente per le falde acquifere”. Ulteriore fattore scatenante il prezzo reale del cibo, sostanzialmente raddoppiato negli ultimi 5 anni, e quello del petrolio. Più di un miliardo di bambini e adolescenti, secondo l’Unicef vive in scenari di guerra; circa 18 milioni sono costretti ogni anno a spostarsi a causa dei conflitti armati. Tra il 13% ed il 25% dei minori coinvolti dalle guerre soffre di stress post-traumatico (dati Oms).Eppure secondo il IV Rapporto sui conflitti dimenticati, appena pubblicato dalla Caritas italiana, il 46% degli italiani non ricorda, per esempio, che in Afghanistan si combatte ancora mentre solo il 10% sa che prosegue la guerra in Siria.
MEDIO ORIENTE . Dopo ventidue mesi di guerra civile con più di 40mila morti ufficiali, in Siria anche il primo giorno dell’anno ci sono state vittime tra i civili in varie zone del Paese. Come ha ribadito la Russia, unico alleato extra area del regime siriano, il presidente Assad non ha alcuna intenzione di rinunciare al potere.
In Yemen dopo la sanguinosa rivoluzione che ha portato alle dimissioni del presidente dittatore Saleh, prosegue il conflitto tra gruppi di integralisti islamici vicini ad Al Qaeda e l’esercito regolare.
ASIA Un continente vastissimo percorso da decine di conflitti interni, a partire da quelli in Afghanistan e Pakistan dove si scontrano talebani ed esercito regolare. Ancora ieri un’autobomba nella megalopoli pakistana di Karachi ha provocato morti e feriti. In Iraq non si vede nemmeno l’ombra della pace. Le violenze tra sciiti e sunniti si declina tra autobombe, attacchi kamikaze e strumentalizzazione del potere giudiziario da parte del governo. Nella zona caucasica ci sono Paesi come il Daghestan e l’Inguscezia dove la guerriglia separatista, viene combattuta dai governi filo russi con il pretesto del terrorismo di matrice islmica. Andando invece verso oriente, in India, sulla dorsale est agiscono gruppi maoisti che chiedono protezione per le etnie locali, le cui terre, unica fonte di sostentamento, sono state espropriate è Cina assistiamo alla repressione da parte del governo centrale dei tibetani e degli uiguri (regione dello Xjinjian) che cercano di godere di un’autonomia genuina che invece continua a rimanere sulla carta.
AFRICA Sono tanti i Paesi in cui intere generazioni non hanno mai vissuto senza il terrore della guerra, delle mutilazioni, stupri e rapimenti. In Congo nella zona orientale dei grandi laghi, nel Kivu, ricchissima di minerali indispensabili per la costruzione di coputer e smarphone, migliaia di donne e bambini sono stati uccisi, molti altri stuprati e poi ingaggiati come soldati. Oggi la maggior parte dei civili vive in campi profughi improvvisati, insicuri e malsani, a causa degli scontri ciclici tra gruppi di miliziani, come l’M23, finanziati dai Paesi confinanti per impossessarsi delle risorse. Mali la zona nord, dopo il golpe di un anno fa, la zona nord è sotto il controllo degli integralisti islamici. La popolazione sta vivendo una crisi umanitaria gravissima che potrebbe portare al dispiegamento di truppe della regione sotto il controllo dell’Onu. La pace rimane una chimera anche per la repubblica Centrafricana, il Sudan, la Somalia. Sta diventando una ferale guerra civile, quella che si sta consumando nel nord della Nigeria dove i massacri di cristiani da parte dei terroristi islamici della setta Boko Haram sta diventando sempre più sanguinaria: nell’ultimo giorno del 2012 sono stati sgozzati nel sonno 16 fedeli cattolici.

La Stampa 2.1.13
Le stime del Financial Times sulla produzione di vetture nel 2013
Auto, la Cina sorpasserà l’Europa
Pechino conta di lanciare 19,6 milioni di veicoli


La Cina punta davvero a fare il grande balzo nel 2013 e a superare per la prima volta l’Europa nella produzione di auto. Pechino conta di lanciare quest’anno sul mercato circa 19,6 milioni di veicoli rispetto ai 18,3 milioni che saranno realizzati nel Vecchio Continente. Le stime sono state elaborate dal Financial Times sulla base delle previsioni fatte dai tre consulenti Ihs, Lmc Auto e PwC insieme con le banche d’affari Ubs e Credit Suisse. La crescita della Cina appare sorprendente se si pensa che le proiezioni includono non solo l’area euro ma anche altri Paesi europei come Russia e Turchia. Nel 2012, secondo le previsioni dell’industria dell’auto, l’Europa ha prodotto 18,9 milioni di veicoli contro i 17,8 milioni creati dai cinesi.
Secondo le stime degli esperti, quest’anno ci sarà una lieve ripresa dell’industria dell’auto a livello mondiale. Le attese indicano una produzione in rialzo del 2,2% contro un +4,9% del 2012. A livello planetario le vendite sono valutate in 1.300 miliardi di dollari. Sempre secondo questi dati, l’Europa rappresenterà quest’anno più di un quinto della produzione mondiale, un calo drastico del 35% rispetto al record segnato nel 2001. Mentre ancora negli anni ’70 quasi un’automobile su due usciva da una fabbrica europea.
Mentre la produzione in Cina quest’anno sarà circa di dieci volte superiore a quella del 2000, quando la sua quota di mercato era solo del3,5%. Nel 2013 tale quota dovrebbe raggiungere il 23,8%. Secondo Scott Corwin, analista del settore automotive dello studio di consulenza Booz & Co, a la crescita della produzioni di vetture quest’anno sarà sostenuta soprattutto da Stati Uniti e ovviamente dalla Cina.

Repubblica 2.1.13
Un’orchestra tutta Rom in tour per sconfiggere il razzismo
Sul podio il maestro Sahiti, profugo dal Kosovo
di Andrea Tarquini


BERLINO Sono tutti bravi, strappano sempre grandi applausi e standing ovation. E sono tutti Rom. «Suoniamo soprattutto per mostrare che non è vero che se sei un Rom sei un criminale», è il loro motto. Girano di continuo l’Europa in tournée, sfidando anche pericoli in situazioni come quella ungherese, dove gli ultrà di destra e le loro milizie tipo Magyar Garda hanno le violenze razziste anti-Rom come attività quotidiana. Di orchestre sinfoniche ce ne sono tante ma questa è la storia di un’orchestra unica al mondo. Si chiama Frankfurter Philharmonische Verein der Sinti und Roma. Esiste da dieci anni, fondata dal musicista rom nato in Kossovo Riccardo Sahiti, oggi cinquantunenne. A Francoforte, nella metropoli finanziaria della democrazia tedesca, ha base sicura ma viaggia di continuo per portare in musica il suo messaggio antirazzista.
«L’idea mi venne perché all’inizio, io fuggito dal Kosovo in guerra e con una robusta formazione musicale sulle spalle, avevo difficoltà a farmi accettare nelle orchestre», ha spiegato Riccardo Sahiti alla Sueddeutsche Zeitung, l’autorevole quotidiano liberal di Monaco che all’orchestra sinfonica rom ha dedicato un reportage a tutta pagina. «Ho cercato e contattato colleghi ovunque, sapevo che musicisti sinti o rom erano attivi in orchestre importanti, dalla Wiener Staatsoper, all’Orchestra sinfonica della MDR (la tv pubblica dell’est tedesco) a Lipsia, all’orchestra nazionale romena».
Così nacque il progetto, nel novembre 2002 a Francoforte. Adesso a Praga hanno appena incassato il tutto esaurito suonando, tra l’altro, il Requiem per Auschwitz, composto da Roger Moreno, sinto di origine svizzera. «Nel maggio scorso», narra Moreno, «lo abbiamo eseguito ad Amsterdam e la regina Beatrice ci ha poi invitati a un caffè a palazzo reale per dare l’esempio contro i razzisti».
Non è facile farsi avanti, neanche nell’arte, se appartieni a una minoranza mal vista un po’ ovunque. Sahiti è di buona famiglia, i genitori spesero tutto per il suo talento musicale, gli regalarono un pianoforte, riuscirono a mandarlo a studiare a Belgrado e poi a Mosca. Poi vennero le guerre volute dal dittatore serbo Slobodan Milosevic, i massacri etnici e gli stupri etnici di massa della sua soldataglia, asili e ospedali bombardati dai suoi Mig. Sahiti fuggì, appunto. E nel 2002, appena costituita, l’orchestra sinfonica Rom tenne proprio a Francoforte, gran pienone, il suo primo concerto.
«Aver creato l’orchestra vuol dire non perdersi di vista» spiega il violinista Johann Spiegelberg. «Ognuno di noi o quasi ha nella memoria brutte esperienze. Io una volta ero in una grossa città dell’est tedesco, alla fine d’un concerto, ancora in
frac, arrivai a una pompa di benzina per fare il pieno con la mia vecchia Mercedes. Due giovinastri mi si sono avvicinati, mi hanno detto “eccolo là, il kanak (termine razzista per straniero usato dai neonazisti ma anche da gente comune nell’ex Ddr, dove tre generazioni vissero prima sotto Hitler poi sotto lo stalinismo, senza cultura democratica e quasi senza ribellarsi fino all’ultimo al contrario di polacchi o cecoslovacchi o ungheresi, ndr).
Ecco un altro kanak, bè kanak che ne dici, è sempre comodo per voi vivere bene qui a spese nostre e a casa nostra, no?”. Io non mi lasciai provocare».
«Ogni tournée è come un’allegra gita scolastica, eppure ce la mettiamo tutta». Musica sinfonica, classica, non folklore. E naturalmente anche musiche di opere ispirate al mondo Rom, da Carmenal Gobbo di Notre-Dame.
«Quella per noi è una nostra eredità culturale da tramandare». Il rischio, dice Jitkà Jurkovà, attivista dei gruppi antirazzisti cèchi che li aiuta a organizzare concerti, è che vengano visti come spettacolo esotico, e che il messaggio politico non sia capito appieno. Ma è un rischio che per il maestro Sahiti e i suoi orchestrali val la pena correre. Tanto da suonare il Requiem per Auschwitz anche in Germania.

Corriere 2.1.13
Freud e il senso della divisione tra i ruoli
«Ai bambini servono entrambe le figure»
di Silvia Vegetti Finzi


Da tempo la psicoanalisi ha perso la capacità di sollecitare la riflessione collettiva sulle strutture profonde che reggono l'identità individuale e sociale e ciò proprio nel momento in cui si delineano radicali trasformazioni. A rompere questo silenzio giunge quanto mai opportuno l'invito che Ernesto Galli della Loggia rivolge agli psicoanalisti perché non temano di far sentire la loro opinione, anche quando non è conforme al «mainstream delle idee dominanti».
Ormai le psicoanalisi sono tante e non parlano «con voce sola» ma, come storica e teorica del campo psicoanalitico, farò riferimento a Freud, che non credo abbia esaurito il suo compito di fondatore e di maestro. Poiché da oltre un secolo i suoi eredi raccolgono e interpretano, attraverso la pratica dell'ascolto e della cura, i vissuti consapevoli e inconsapevoli della nostra società, mi sembra doveroso interrogare un sapere che si fonda sull'Edipo, così come è stato tramandato dalla tragedia di Sofocle. L'Edipo, che Freud definisce «architrave dell'inconscio», è il triangolo che connette padre, madre e figlio. Entro le sue coordinate si svolgono i rapporti inconsci erotici e aggressivi, animati dall'onnipotenza Principio di piacere, «voglio tutto subito», che coinvolgono i suoi vertici. Per ogni nuovo nato il primo oggetto d'amore è la madre ma si tratta di un possesso sbarrato dal divieto dell'incesto, la Legge non scritta di ogni società. Questa impossibilità è strutturante in quanto mette ognuno di fronte alla sua insufficienza (si desidera solo ciò che non si ha) e alla correlata impossibilità di colmare la mancanza originaria. Il figlio che vuole la madre tutta per sé innesca automaticamente una rivalità nei confronti del padre, che pure ama e dal quale desidera essere amato. La contesa, che si svolge nell'immaginario, termina per due motivi: per il timore della castrazione, la minaccia di perdere il simbolo dell'Io, e per l'obiettivo riconoscimento della insuperabile superiorità paterna. Non potendo competere col padre, il bambino s'identifica con lui e sceglie come oggetto d'amore, non già la madre, ma la donna che le succederà. Attraverso questo gioco delle parti, il figlio rinuncia all'onnipotenza infantile, prende il posto che gli compete nella geometria della famiglia, assume una identità maschile e si orienta ad amare, a suo tempo, una partner femminile. Tralascio qui il percorso delle bambine, troppo complesso per ridurlo a mera specularità. Ma già quello maschile è sufficiente a mostrare come l'identità sessuale si affermi, non in astratto, ma attraverso una «messa in situazione» dei ruoli e delle funzioni che impegna tanto la psiche quanto il corpo dei suoi attori. Se, come sostiene Merleau Ponty, «noi non abbiamo un corpo ma siamo il nostro corpo», non è irrilevante che esso sia maschile o femminile e che il figlio di una coppia omosessuale non possa confrontarsi, nella definizione di sé, con il problema della differenza sessuale. La psicoanalisi non è una morale e non formula né comandamenti né anatemi ma, in quanto assume una logica non individuale ma relazionale, mi sembra particolarmente idonea a dar voce a chi, non essendo ancora nato, potrà fruire soltanto dei diritti che noi vorremo concedergli.
Tra questi, credo, quello di crescere per quanto le circostanze della vita lo consentiranno, con una mamma e un papà.

l’Unità 2.1.1
Volete cambiare il mondo? Pensatelo!
di Bruno Gravagnuolo


LA FILOSOFIA È SEMPRE STATA INUTILE PERÒ SERVE ANCORA È la riflessione di fine d’anno del filosofo Umberto Curi, su La Lettura del Corsera. Un po’ banale e intrisa di abbagli. A cominciare dal presunto «fatto incontestabile», rilevato da Curi, che la filosofia non inciderebbe «minimamente nella vita di tutti i giorni né tantomeno nei grandi avvenimenti della storia». Ma è l’esatto contrario! Sarebbero concepibili l’Occidente, la scienza, la tecnica, il Cristianesimo, la società civile e quant’altro, senza Platone e Aristotele? E senza il millenario lavorìo della filosofia? E Hobbes, Locke, Smith, Hume, Rousseau, Kant, Hegel, Marx, davvero furono granelli ininfluenti, da poter affermare che, con essi o senza di essi, il mondo restava «tale e quale»? Suvvia, è ridicolo pensarlo.
Così come è banale affermare che Marx si rifiutasse di interpretare il mondo, e invitasse gli uomini solo a trasformarlo. L’«Undicesima glossa a Feuerbach» infatti, era un grido di battaglia politico, redatto con Engels nel 1845. Non già l’atto di morte della filosofia. Tant’è che sia Marx che Engles, continuarono a studiarlo, e a interpretarlo il mondo. Con il Capitale e la Concezione materialistica della storia. Facendo filosofia. Sotto forma di una critica dell’economia politica, inseparabile da una ben precisa antropologia filosofica, nonché dalla critica dell’alienazione (filosofica e non). O in forma di riflessioni astratte sulla conoscenza degli enti, applicate poi ai rapporti di produzione. Persino in forma di filosofia positivista della storia (Engels). E duellando con altre idee filosofiche: utilitariste, post-hegeliane, liberali. Il che incise innegabilmente nella storia. Quanto all’oggi, è riduttivo dire che la filosofia «serve» solo a sottrarsi al consumismo, come fa Curi. Perché proprio la scienza moderna Einstein leggeva Hume e Kant! e il mondo globale, rilanciano in grande il senso della filosofia. Che, diceva Hegel, è sempre «cura del sapere attraverso il pensiero». Rivoluzione nel mondo del simbolico. Che capovolge il mondo reale.

Repubblica 2.1.13
Il cervello di Einstein? Piccolo, ma pieno di curve
di Elena Dusi


Da sessant’anni, esperti di tutto il mondo analizzano l’encefalo del genio ridotto a frammenti dopo la sua morte Ora uno studio rivela che l’organo, più leggero della media, era però ricchissimo di solchi e dunque assai esteso.
MA COSA aveva Einstein sotto ai capelli? Nel suo cervello, sopravvissuto alla cremazione e alla dispersione delle ceneri, da quasi sessant’anni i neuroscienziati inseguono la scintilla del genio. Nella speranza che riveli i suoi segreti, l’organo del pensiero più sublime della specie umana è stato espiantato, fotografato, immerso in formalina, tagliato in 240 blocchi.
Blocchi a loro volta affettati in circa duemila sottilissime sezioni, trasformate in altrettanti vetrini, spedite ai principali luminari in una ventina di nazioni del mondo e oggi, alla fine, per lo più disperse.
Ma non importa. Basta un indizio tratto da quel che resta del cervello di Einstein per annunciare una scoperta. Ecco allora che Dean Falk, antropologa dell’università della Florida, ha ripescato quattordici foto dell’organo ancora intero, appena prelevato nel giorno della morte, il 18 aprile 1955. Da quelle immagini ingiallite, scattate in tutta fretta nella morgue dell’ospedale di Princeton da un patologo (Thomas Harvey) privo di un’esplicita autorizzazione all’espianto, la Falk ha annunciato di aver espunto i lineamenti del genio. I risultati, pubblicati su Brain, indicano che il segreto di Einstein era «la complessità del tracciato delle circonvoluzioni di alcune aree della corteccia prefrontale, della corteccia visiva e dei lobi parietali».
La corteccia cerebrale, l’area più evoluta del cervello umano, è associata al ragionamento astratto. Maggiori sono le circonvoluzioni e i solchi, più ampia è la superficie di questa sottile sezione composta da soli sei strati di neuroni. Per l’antropologa americana non è dunque una sorpresa che in meandri così profondi e allungati sia stata concepita la curvatura della trama di spazio e tempo nell’universo, culmine di un ragionamento iniziato quando lo scienziato aveva 16 anni e provava a immaginare se stesso all’inseguimento di un raggio di luce.
Osservando un frammento di corteccia cerebrale del genio, d’altra parte, già nel 1999 la neuroscienziata della McGill University Sandra Witelson aveva commentato: «È sorprendentemente paffuto». E non è un caso neanche che sulla corteccia si sia puntato in passato per magnificare un altro cervello illustre, quello di Lenin, tagliato in oltre duemila fette ma almeno conservato al completo dal 1924 nel Brain Institute di Mosca. Di lui si disse che era l’unico uomo con la corteccia composta da sette strati di neuroni, ma l’affermazione resta confinata all’ambito della propaganda. L’analisi della
materia grigia del padre della rivoluzione russa fu affidata all’allora pioniere della neurologia tedesca, Oskar Vogt. Il quale concluse che Lenin era «un atleta del pensiero associativo ». Ma qualche anno più tardi non disdegnò di lavorare sotto al regime nazista.
A differenza di Lenin, sempre ben preservato, frammenti di Einstein restarono dal ’55 al ’78 a casa di Harvey, in due barattoli che originariamente contenevano sidro, all’interno di uno scatolone di cartone. Sopravvissero ai divorzi del medico, ai suoi licenziamenti e ai traslochi (uno dei quali raccontato nel libro A spasso con Mr. Albert. Attraverso l’America con il cervello di Einstein).
Pur essendo più piccolo della media (1.250 grammi contro i 1.300-1.400 degli uomini) secondo la Falk il cervello del padre della relatività mostra anche il “bernoccolo” della musica: un rigonfiamento della corteccia motoria che controlla la mano sinistra sviluppato suonando il violino fin dall’infanzia. E le connessioni che portano ai muscoli del viso e della lingua sembrano più fitte del normale, a spiegare forse la mimica (e la famosa linguaccia) dell’uomo che Time elesse personalità del secolo.
La maggior parte dei colleghi ha accolto lo studio della Falk con scetticismo, sottolineando che il cervello è uno degli organi più variabili e che non è l’architettura dei neuroni a descrivere la fiammella dell’intelligenza di un uomo. Sarebbe anche vano dibattere se Ivan Turgenev, con oltre due chili di materia grigia, fosse più dotato di un Anatole France che a malapena raggiungeva un chilo, molto meno della media delle donne. Ma chi ne abbia voglia oggi può cimentarsi in prima persona nello studio del cervello di Einstein. I frammenti recuperati sono stati digitalizzati e trasformati in una app per l’ipad. Al programma manca solo la linguaccia con cui il genio avrebbe accolto la notizia.

La Stampa TuttoScienze 2.1.13
Il fascino della Terra di notte, super­foto della Nasa
di Francesco Rigatelli


Ricordano un po’ la sigla del telegiornale o certi film fantascientifici. Eppure queste fotogra­ fie sono vere. Si tratta di una serie di scatti dal sa­ tellite «Suomi» della Nasa che, uniti, compongono l’immagine del globo terrestre di notte. Da 824 km d’altezza brillano le capitali dell’Occidente e le nuove metropoli asiatiche. Luminosissima è l’Ita­ lia, circondata da mari bui. Spenti il Sud America, l’Africa, la Russia, gran parte dell’Australia: conta l’economia, ma anche la geografia. E il mondo ve­ ro è il contrario del libro di Jonathan Safran Foer «Ogni cosa è illuminata». Al di là della bellezza del progresso, di «com’è bella la città, di com’è gran­ de la città… piena di luce…», secondo la canzone di Gaber, da queste foto si intuisce anche l’inqui­ namento, oltre che l’importanza del Sole per illu­ minare egualmente ogni luogo e delle risorse energetiche per garantire la vita al buio e al fred­ do. Insomma, quanti significati in pochi scatti. Ep­ pure per prenderli ci sono volute 312 orbite satelli­ tari intorno alla Terra e per salvarli 2,5 tera di spa­ zio libero sul disco. E grazie al sensore «Infrared vi­ sible imaging radiometer suite» le foto sono tra le più dettagliate di sempre. Probabilmente si so­ vrapporranno nella memoria collettiva a quelle scattate 40 anni fa dall’Apollo 17 che, per dire, era­ no lo sfondo dei primi iPhone. Da allora la tecnolo­ gia ha fatto tanti passi avanti che non solo è stato possibile scattare foto come queste, ma si è arriva­ ti a un tale livello di definizione che durante l’ura­ gano «Sandy» si potevano vedere i quartieri di New York in blackout. E questo genere di immagi­ ni sono utili, oltre che per valutare la distribuzione della popolazione, l’attività economica e l’urba­ nizzazione, anche per trovare i luoghi più bui per l’osservazione astronomica, per raccogliere dati sull’inquinamento luminoso, nonché in medicina per aiutare gli epidemiologi a determinare se esi­ sta un collegamento tra chiarore, oscurità e malat­ tie. L’ipotesi, in questo caso, è che la luce faciliti l’interruzione del ciclo del sonno, aumentando lo stress del nostro organismo.