venerdì 4 gennaio 2013

l’Unità 4.1.12
Monti al Pd: Silenziare la Sinistra
La risposta del segretario: «Rispetti il nostro partito»
Bersani: «Non chiudo la bocca a nessuno. I difetti del Pd li scopre oggi?»
Camusso: «Dal premier critiche e poche proposte» Vendola: «Berlusconiano»
di Simone Collini


Ribadisco il rispetto ma chiedo il rispetto. Per tutto il Pd». A Pier Luigi Bersani non è per niente piaciuto il consiglio che dalle telecamere di Unomattina gli ha inviato Mario Monti, quello cioè di avere il coraggio di «tagliare le ali estreme», quello di «silenziare» Stefano Fassina. E la risposta che dà a distanza al presidente del Consiglio è questa. «Siamo un partito liberale che non chiuderà la bocca mai a nessuno, che troverà sempre una sintesi e credo che il coraggio che mi si chiede l’ho dimostrato. Il coraggio non è quello di chiudere la bocca alla gente, ma di lasciarla parlare, partecipare e trovare una sintesi. Questa è la mia idea». Nel commentare le uscite del premier con i suoi è anche più duro, ma in pubblico il leader del Pd prova a rispondere giocando sul tasto dell’ironia: «Tutti i difetti del Pd si scoprono oggi? Per un lungo anno non si sono visti?», col sorriso a mezza bocca. E l’occupazione degli spazi televisivi da parte del premier? «Non sto lì a bilanciare i minuti, non mi impressiona un minuto in più o in meno in televisione», risponde a chi gli rivolge la domanda quando esce dal ristorante in cui ha pranzato insieme a Matteo Renzi. «Io dico una cosa e ci credo aggiunge rivolgendosi a giornalisti e telecamere che davanti se volete togliermi dei minuti, dateli alla Siria. Ci sono 60mila morti e non se ne sta occupando nessuno. Cerchiamo di guardare un po’ fuori, di allargare lo sguardo».
Se Bersani evita di attaccare frontalmente Monti nonostante le «critiche ingiuste» che gli bruciano, nonostante l’attacco personale sferrato a uno come Fassina che ha dimostrato alle primarie del 30 dicembre di essere tra gli esponenti del Pd più apprezzati, è perché sa che non gli conviene. Per più motivi. Il primo: il Pd è stabilmente il partito che gode di maggiori consensi, quello che ha già la vittoria in tasca alla Camera e che comunque è il solo da cui non si può prescindere per governare l’Italia. Il secondo motivo riguarda il post voto: quale che sia il risultato elettorale, Bersani vuole proporre al fronte moderato di collaborare, in quella che dovrà essere una legislatura costituente e durante la quale il Paese dovrà affrontare sfide molto ardue.
GLI INTERESSI DEL PAESE
Il 2013 sarà un anno molto difficile per l’economia italiana, bisognerà approvare manovre dure, e nessuno può permettersi di andare avanti con la «sbornia dell’autosufficienza», è il ragionamento che Bersani fa con i suoi. «Posso capire la competizione, ma un canale di dialogo va lasciato aperto è il suo sfogo dopo aver saputo delle parole pronunciate da Monti e comunque se questo non verrà fatto da loro, io continuerò a muovermi su questa strada, non intendo chiudere a ogni possibilità di collaborazione».
Non sarà però facile mantenere questo profilo per i prossimi cinquanta giorni, se Monti dovesse continuare ad attaccare il Pd, il suo alleato nella coalizione progressista Nichi Vendola, un sindacato come la Cgil. Le risposte a brutto muso a Monti non tardano ad arrivare sia da parte del leader di Sel che da parte del segretario Susanna Camusso. «Chi ha deciso di candidarsi dovrebbe discutere dei suoi programmi invece di criticare gli altri, sembra invece che abbia poche proposte e molte critiche», dice il leader del sindacato di Corso d’Italia. «Il governo tecnico ha scelto l’inasprimento della tassazione sui lavoratori e sui pensionati, basti pensare a come ha utilizzato l’Iva o all’Imu. La disoccupazione cresce a livelli tali che c’è solo buio, non luce. Ci vorrebbe qualche coerenza tra le cose praticate e quelle che oggi si raccontano. Abbiamo sempre detto che non si esce dalla crisi se non si riparte dal lavoro. Bisogna selezionare un intervento pubblico per far ripartire il lavoro. Il welfare non è un costo da tagliare, ma come una risorsa che crea lavoro».
Molto duro è anche il commento di Vendola, per il quale in quanto a occupazione degli spazi televisivi «Monti è il virtuoso discepolo di Berlusconi» e sta dimostrando un atteggiamento «arrogante» che va respinto. «C’è qualcuno talmente in alto, di élite, di etnia speciale, che pensa che la democrazia sia un imbarazzante fardello nella corsa alla conquista del potere e che probabilmente fa fatica a capire quanto la democrazia sia davvero importante».

il Fatto 4.1.12
L’ex segretario Cgil Sergio Cofferati
“Il premier è ostile, ma non può zittire nessuno”
di Salvatore Cannavò


Sono esterrefatto”. Sergio Cofferati, ex segretario della Cgil e oggi parlamentare europeo del Pd, commenta così la richiesta fatta da Monti al Pd di “silenziare” le posizioni di Stefano Fassina e della Cgil. “Non mi sarei mai aspettato una sortita del genere. Un conto è chiedere di non tener conto di alcune posizioni, cosa di per sé già sbagliata e negativa, un altro chiedere di silenziare che vuol dire non far parlare. Sono esterrefatto”.
Perché fa così paura la Cgil? Il sindacato non si è mai tirato indietro da scelte difficili.
Devo dire che è difficile comprendere la ragione di una ostilità così profonda. La Cgil nella sua storia ha ricoperto diverse funzioni e ruoli, dal piano Di Vittorio alla lotta contro il terrorismo fino alla politica dei redditi all’inizio degli anni ’90. Se non ci fosse stata la Cgil non saremmo mai entrati nell’euro. Non ricordarsene è un’omissione incomprensibile. La riforma delle pensioni è stata fatta nel 1995 con un contributo decisivo della Cgil.
Monti fonda le proprie posizioni sul “bene” dell’Europa.
Al momento di entrare nell’euro, su posizioni antieuropeiste c’erano Berlusconi e Romiti, non la Cgil. Se siamo in Europa è grazie anche al sindacato e la Cgil, a differenza di molti altri soggetti, non è mai stata antieuropeista. In tutta la sua storia.
Ma come si spiega queste posizioni?
Mi pare molto strumentale, si usa la Cgil per cercare di condizionare il Pd.
E il Pd è condizionabile?
Non credo proprio. La cinghia di trasmissione tra sindacato e partito non esiste più.
Eppure Bersani oscilla tra due posizioni: ha intenzione di candidare Guglielmo Epifani ma intanto candida Carlo Dell’Aringa. Che giudizio dà su quest’ultimo?
Carlo Dell’Aringa l’ho conosciuto negli anni ’70 quando io ero segretario dei chimici Cgil e lui collaborava con l’allora Federchimica. Me lo ricordo come una persona molto competente e per niente “moderato”, nel senso negativo del termine. Non rappresenta un orientamento di politica economica conservatore, tutt’altro. Io l’ho conosciuto come un innovatore.
Lo vedrebbe bene come ministro del Lavoro?
Secondo me è una persona che ha ottime competenze.
Quindi lo vedrebbe bene?
Penso che se il centrosinistra vincerà le elezioni di possibili ministri ne avrà diversi, per fortuna, anche con sensibilità diverse.
Sul piano dei contenuti, quale sarebbe l’agenda di un governo progressista?
Al primo posto c’è lo sviluppo. Per questa servono molte risorse e le risorse vanno cercate in due direzioni. In Europa con gli “eurobond” e con una tassa sulle transazioni finanziarie. In Italia tassando la ricchezza e destinando a investimenti – in infrastrutture e sapere – la lotta all’evasione. Lo sviluppo deve produrre ricchezza che va ridistribuita in una lotta netta alla povertà.
Al secondo posto?
Poi c’è il lavoro. Occorre rimettere mano alla riforma Fornero prosciugando il vastissimo numero dei contratti atipici e quindi prosciugando la precarietà. Al terzo posto vedo i diritti, del lavoro e di cittadinanza.
Va ritoccata la riforma delle pensioni?
La riforma ha tre problemi: il primo è quello degli esodati. Il secondo è dato dalla parificazione dell’età tra donne e uomini che non tiene conto delle condizioni di vita delle donne che, dunque, vanno compensate. Il terzo è l’indicizzazione delle pensioni che va recuperata.
È compatibile oggi un’agenda di centrosinistra con l’agenda di Monti?
Il programma di Bersani, desumibile dal documento di Italia Bene Comune, la base programmatica delle primarie, segna una distanza evidentissima con la cosiddetta Agenda Monti. Le differenze sono ben chiare.

La Stampa 4.1.13
I veti e le ipoteche
di Federico Geremicca

Era inevitabile che dovesse finire così. E il peggio - forse - deve ancora venire, visto che Monti e Bersani hanno ormai individuato, l’uno nell’altro, il principale ostacolo lungo la via che porta a Palazzo Chigi. Ieri è stato il professore ad aprire le ostilità, e il canovaccio della polemica sembra già scritto.
Argomenti e contestazioni non appaiono - purtroppo - particolarmente nuovi: infatti riguardano la capacità del Pd e del suo alleato principale (Vendola) di procedere sulla via delle riforme necessarie al Paese. Si immaginava una campagna elettorale centrata su programmi e proposte: l’aria che tira, invece, sembra preparare una Grande Guerra a colpi di propaganda.
Quel che è nuovo, però, sono il tono e la durezza delle repliche fatte giungere (Bersani in testa) dal quartiere generale del Pd all’indirizzo di Monti. Valga per tutti il commento di Anna Finocchiaro, capo dei senatori Pd e politico solitamente accorto nei toni: «Durante l’esperienza del suo governo, Monti ha avuto modo di verificare in Parlamento l’affidabilità e la lealtà del Pd nei confronti del suo esecutivo. E Monti - ha spiegato Finocchiaro - sa bene, a proposito di innovazione e riformismo, quale sia stato il nostro contributo. Cercare oggi di mettere sullo stesso piano Pd e Pdl, per fini di propaganda, accusarci di conservatorismo al fine di fare di tutta l’erba un fascio, non fa onore alla sincerità e al realismo di Monti».
E per la prima volta anche Pier Luigi Bersani è parso seriamente infastidito dall’invito rivoltogli da Monti ad aver coraggio e a mettere da un canto posizioni come quelle frequentemente espresse da personalità del centrosinistra come Susanna Camusso, Nichi Vendola e Stefano Fassina. «Tutti i difetti del Pd si scoprono oggi? Per un lungo anno non si sono visti? - ha chiesto polemicamente il leader dei democratici -. Io ribadisco rispetto, ma chiedo rispetto: per tutto il Pd. Siamo un partito liberale, che non chiuderà mai la bocca a nessuno e troverà sempre una sintesi». E a proposito del coraggio chiestogli dal Professore, Bersani è stato netto: «Il coraggio che mi si chiede credo di averlo dimostrato: e il coraggio non sta nel chiudere la bocca alla gente ma nel lasciarla parlare, partecipare e poi trovare una sintesi».
Pier Luigi Bersani ha risposto alla polemica di Monti - sviluppata di buon mattino su Rai1 - solo nel primo pomeriggio, dopo il lungo pranzo che lo ha visto per quasi due ore faccia a faccia con Matteo Renzi, il suo più insidioso sfidante alle primarie di un mese fa. Duro sul merito delle contestazioni fattegli dal premier, ha invece glissato sulla forte polemica che si andava sviluppando a proposito delle apparizioni tv del premier: «Io non sto lì a contare e a bilanciare i minuti delle presenze in tv... Anzi, dico una cosa e ci credo: se volete togliermi dei minuti, dateli alla Siria. Ci sono 60 mila morti e non se ne sta occupando nessuno. Insomma, cerchiamo di guardare un po’ fuori, di allargare lo sguardo... ».
Il clima si va dunque surriscaldando e per adesso a farla da protagonisti sono appunto Monti e Bersani: con Berlusconi che pare faticare molto a prendere il centro della scena. Del resto, la polemica del presidente del Consiglio pare indirizzarsi soprattutto verso l’alleanza Pd-Sel, giudicata evidentemente - la più insidiosa, e in grado di vincere le elezioni ottenendo la maggioranza sia alla Camera sia al Senato (il che sbarrerebbe del tutto la strada di un ritorno di Monti a Palazzo Chigi). Di qui, forse, l’insistere su filoni polemici non molto dissimili da quelli spesso usati da Silvio Berlusconi: l’impossibilità per il Pd di riformare davvero il Paese in ragione delle «ipoteche a sinistra» costituite dal rapporto con Vendola, oltre che con la Cgil di Susanna Camusso e la Fiom.
«In verità - ha spiegato il segretario Cgil - chi ha deciso di candidarsi dovrebbe discutere dei suoi programmi, invece di criticare gli altri. Il governo tecnico ha scelto l’inasprimento della tassazione sui lavoratori, basti pensare a come ha utilizzato l’Iva o all’Imu. La disoccupazione cresce a livelli tali che c’è solo buio, non luce: ci vorrebbe qualche coerenza tra le cose praticate e quelle che oggi si raccontano... ».
Dunque, le liste non sono ancora definite, la campagna elettorale non è ancora (ufficialmente) iniziata ma i toni sono già quasi da ultima spiaggia. Pacatezza e polemica sui fatti vanno sparendo per lasciar spazio a un clima da vigilia di rissa. Non è una novità. Ma che a gettar benzina sul fuoco stavolta sia «Monti il tecnico», sorprende. E in qualche modo, perfino scoraggia...

l’Unità 4.1.12
«Conservatore a chi?»
La solita ossessione anti-Cgil
Il Professore dimentica che il sindacato ha più volte salvato il Paese
E che l’allarme sul «declino» fu lanciato dalla Cgil, non certo dalla Bocconi
di Rinaldo Gianola


Abituato per consuetudine professionale a dare lezioni e a formulare giudizi, il presidente del Consiglio Mario Monti, appena «salito» in politica, ha impiegato un attimo per individuare gli avversari. Gli attacchi alla Cgil, alla parte laburista del Pd, a Sel, testimoniano della lontananza del premier-professore dalle drammatiche questioni sociali, spesso aggravate dagli stessi interventi del governo, e del distacco, quasi del fastidio fisico, rispetto alla funzione ancora decisiva dei corpi intermedi di rappresentanza sociale che, nell’epoca di un neoliberismo dannoso e fallimentare di cui l’università Bocconi è una delle fucine ispiratrici, fanno da argine ai disastri del capitalismo manageriale e del mercato.
Monti esprime in questi giorni una formula e una cifra politica finora sconosciute, una vocazione alla polemica garbata nei toni ma feroce nei contenuti, che spazzano via le illusioni di chi poteva immaginare una campagna elettorale educata e rispettosa, almeno sobria. È un bene che Monti abbia svelato la sua comprensibile voglia di guadagnarsi uno spazio politico sul mercato elettorale, usando anche parole e definizioni non proprio condivisibili. Così non potrà sorprendersi se gli avversari politici vorranno usare le sue passate esperienze nei consigli di amministrazione della Fiat, delle Assicurazioni Generali, della Banca commerciale, le consulenze alla Goldman Sachs, la presenza alla Trilateral, dove non sempre dominavano galantuomini dalla moralità cristallina, per rintuzzare attacchi e polemiche.
L’accusa di Monti alla Cgil, il più grande sindacato italiano, di essere conservatore non sorprende se resta confinata nella polemica elettorale, ma appare ingiustificata e almeno discutibile se si parla un po’ di storia, se davvero si vogliono fare i conti con l’azione, le responsabilità della Cgil e del movimento sindacale italiano. Monti, nelle sue occupazioni televisive, non ricorda che nel 1992 e nel 1993 quando l’Italia era sull’orlo della bancarotta, la Cgil ci mise la faccia e si impegnò con i suoi iscritti per salvare la baracca. Se lo faccia raccontare dal professor Pietro Ichino, se non ci crede. I sindacalisti, compresi storici leader come Bruno Trentin che arrivò a dimettersi dopo aver firmato il patto col governo, misero in campo tutta la loro autorevolezza per convincere i lavoratori della necessità di pesanti sacrifici e nelle piazze italiane i sindacalisti conservatori si presero le bullonate in faccia. Non basta. Alla fine degli anni Novanta e all’inizio del nuovo secolo, in coincidenza con l’avvio della moneta unica europea, fu ancora la Cgil, con gli altri sindacati confederali naturalmente, a chiedere ai lavoratori e ai pensionati gli sforzi necessari per raggiungere l’obiettivo. Conservatori? Ma andiamo, di cosa sta parlando Monti? Quasi dieci anni fa, la Cgil, non certo la Bocconi, iniziò a denunciare il «declino» del Paese sulla base di analisi dell’evoluzione del nostro tessuto industriale, dello spostamento crescente di quote di ricchezza dai salari ai profitti, di riduzione degli investimenti industriali e delle scelte del nostro capitalismo di privilegiare la rendita e i settori «tariffati», come direbbe Bersani. La Cgil fece uno sciopero generale per richiamare l’attenzione del Paese su questa emergenza che oggi è chiara a tutti. È nata persino una lista elettorale di liberisti tutti d’un pezzo, ma snobbati dal premier, dal nome «Fermare il declino».
Poco più di un anno fa, quando Monti prese la guida del governo ponendo fine alla tragica stagione di Berlusconi al governo, Susanna Camusso fu tra le prime ad accogliere positivamente la svolta, invocando un cambiamento della politica economica, un piano per l’industria, per l’occupazione, scelte coerenti per fronteggiare una crisi tremenda. Monti ha teorizzato e praticato la fine della concertazione. Ha varato una riforma delle pensioni senza nemmeno informare i sindacati e creando il dramma degli esodati. Poi ha cercato di emarginare la Cgil, sul mercato del lavoro e sul patto per la produttività. Quando la Cgil chiedeva al governo di premere sulla Fiat affinché svelasse i suoi piani in Italia, Monti replicò che ogni azienda ha il diritto di investire dove ha più convenienza. Poi abbiamo assistito all’apparizione di Monti a Melfi, accanto a Sergio Marchionne. E, all’improvviso, tutto è diventato più chiaro.

l’Unità 4.1.12
Nella crisi c’è una destra e una sinistra
In Europa il 70% dei disoccupati lo è da oltre 12 mesi
Nei discorsi di Monti e Merkel nessun New Deal
di Laura Pennacchi


AGLI ESORDI DEL 2013, NEL CUORE DI UNA CRISI BEN LUNGI DALL’ESSERE TERMINATA, LA QUESTIONE DELLA OCCUPAZIONE-DISOCCUPAZIONE SI PRESENTA COME EMERGENZA ASSOLUTA. La Fed americana prevede per gli Stati Uniti il Paese dove pure, grazie alla contrastata ma certo straordinaria capacità di leadership di Obama, si sono adottate le più forti misure di stimolo fiscale dell’economia reale un tasso di disoccupazione ben al di sopra del livello di equilibrio perfino per l’ultimo trimestre del 2015, nove anni dopo l’inizio della Grande Recessione.
In conseguenza della nefasta ortodossia monetarista, restrittiva e deflazionista, imposta dalla Germania della Merkel, la situazione in Europa, e in Italia, appare ancora più drammatica: più della metà della disoccupazione mondiale imputabile alla crisi si concentra in Europa dove il 70% dei disoccupati lo è da oltre 12 mesi. I democratici americani descrivono quello che sta accadendo al lavoro con la metafora della job catastrophe, manifestando un senso del «tragico» che come dice Barbara Spinelli sembra del tutto mancare ai governanti europei «centristi moderati» come Mario Monti, non a caso convinti che la discriminante destra-sinistra sia logora e superata.
La job catastrophe è la linea di faglia su cui torna a passare la distinzione destra-sinistra, perché essa ci pone di fronte a una vera e propria rottura nelle traiettorie di sviluppo, di fronte alla quale perfino il Financial Times intitola una sua rubrica alla «crisi del capitalismo».
Ciò spiega perché sia così insistito da parte di Obama e dei democratici americani il richiamo al New Deal di Roosvelt e perché, al contrario, sia del tutto assente il riferimento a un New Deal europeo nei discorsi di Monti e della Merkel. È in gioco la discriminante destra-sinistra, sono in gioco obiettivi alternativi attribuiti all’economia e alla politica economica: per la sinistra democratica bisogna dare la priorità non alla potenza e alla forza, ma al benessere dei cittadini e alla qualità delle loro vite. In questo quadro la politica economica diventa tout court politica sociale e la politica sociale diventa tout court politica economica, entrambe finalizzate alla «piena e buona occupazione». Perché quando le parole chiave diventano scuole, asili, ospedali, ricerca, territori, ponti, strade, ferrovie, reti le parole che usa Obama la differenza tra politiche economiche e politiche sociali sfuma fino a scomparire. Il collante è la spinta all’attivazione di tutte le risorse inutilizzate: lavoro, capitale, infrastrutture, innovazione.
È l’estraneità a queste idee che spiega l’irrilevanza che hanno nei quadri concettuali dei «centristi moderati» europei come Mario Monti il welfare universalistico e pubblico e le questioni del lavoro, viste solo come stucchevole riproposizione della contrapposizione insider-outsider (quasi che la mancanza di lavoro degli outsider fosse colpa delle garanzie degli insider, e non delle carenze di domanda e della ristrutturazione in corso dal lato dell’offerta) e conseguente deregolamentazione e flessibilizzazione del mercato del lavoro.
Sarebbe sbagliato confondere il mercantilismo che guida la cancelliera Merkel con il neoliberismo, così come sarebbe improprio ridurre il liberalismo di Monti a variante neoliberista. Piuttosto l’una e l’altro sembrano ispirarsi all’«ordoliberalismo» variante di destra dell’«economia sociale di mercato» con una visione à la Hayek secondo cui l’imputata che spiazzerebbe l’investimento privato è sempre la spesa pubblica, specie sociale, ridurre la quale sarebbe il pre-requisito primario per liberare l’offerta, sollecitare la concorrenza e la competizione, stimolare l’investimento privato e così alla fine attivare magari dopo una ventina d’anni la crescita. Che si tratti di neoliberismo o di ordoliberalismo, un tratto comune è l’ispirazione, esplicita e implicita, a ridurre il ruolo dello Stato, ispirazione che contiene una intrinseca spinta alla privatizzazione di patrimoni e di funzioni della protezione sociale. Questa impostazione è largamente sottesa all’Agenda Monti, orientata a una supply side economics gravitante su liberalizzazioni, concorrenza, privatizzazioni. Per questa impostazione le divergenze di competitività vanno recuperate mediante «svalutazioni interne», affidate alla compressione dei salari derivante da ulteriori flessibilizzazioni del mercato del lavoro. Meritano ben poca attenzione i problemi della domanda, il mantenimento e la qualificazione del modello sociale europeo, il ruolo degli investimenti pubblici, le sofferenze occupazionali destinata a protrarsi nel temo.
Viceversa, spinti dal rovesciamento di paradigmi imposto dalla crisi, i veri «progressisti» ambiscono a costruire un nuovo modello di sviluppo: quando i consumi scendono ai livelli dei tempi di guerra e la disoccupazione di lunga durata supera le soglie raggiunte dopo il primo shock petrolifero degli anni 70, diventa chiaro quanto la crisi globale sia crisi strutturale di un intero modello economico-sociale che oggi deflagra, rendendo improcrastinabile l’avvio di un nuovo modello di sviluppo, a cui solo un big push finalizzato alla creazione di lavoro e veicolato da un rinnovato motore pubblico può dare vita.

l’Unità 4.1.12
«La ricostruzione sarà faticosa Pd e Monti costretti ad allearsi»
Il sociologo all’Università Cattolica di Milano:
«Per l’Italia ci vuole una legislatura costituente per riformare le istituzioni e rilanciare l’economia»
di Simone Collini


«Probabilmente Monti avrebbe fatto bene a non “salire” in politica. Il suo ruolo istituzionale e la sua terzietà lo sconsigliavano. Ma la discussione è superata e il dado è tratto. Di fronte alla mancanza di un federatore moderato, e alla minaccia populista, Monti ha deciso così...». Giudizio problematico, quello di Mauro Magatti, 52 anni sociologo di punta all’Università Cattolica di Milano ma netto su un punto: Monti è «l’apripista di una nuova forza, tipo partito popolare, e così va letta la sua scelta». Il che significa: alleanza col Pd in vista di un «governo costituente». E poi alternanza tra le due forze. Ma c’è dell’altro nelle idee dello studioso: la critica al capitalismo «tecno-nichilista» e alla finanza svincolata da valori e relazioni, oltre che da beni concreti. Due temi affrontati in saggi come La libertà immaginaria e La grande contrazione (Feltrinelli) e che tornano anche in questa intervista. Professor Magatti, che ruolo politico può giocare l’effetto Monti, da che cosa nasce e che fisionomia assume ai suoi occhi il suo «movimento»?
«Prima di tutto occorre non dimenticare il passato recente della seconda Repubblica e il suo collasso. Nonché la profonda crisi morale, politica e culturale, che vive il Paese tra le macerie del berlusconismo. L’effetto Monti è nato da tutto questo ed è un tentativo di spiantare del tutto la destra berlusconiana. Per assumerne la guida in una direzione moderata e compatibile con l’Europa, sia pur non nell’immediato. È un lavoro di ricostruzione politica di lunga lena».
Non scorge elementi di ambiguità culturale nell’operazione? Ad esempio nella formula né destra, né sinistra, né centro? «Monti cerca di sfuggire ad una qualificazione politica precisa per fare il pieno dei consensi in questa fase. È inevitabile, per poter ricondurre tutto il moderatismo e il riformismo moderato nell’alveo del Ppe. Certo c’è il rischio del coacervo delle liste, con l’uscita di Passera e il doppio schema al Senato e alla Camera. Ma la situazione è quella che è, e Monti ne ha preso atto».
Lei ha delineato una mission identitaria per la lista Monti. Ma nell’immediato, qual è la prospettiva?
«A mio giudizio ci vuole una legislatura costituente, una sorta di Grosse Koalition tra Pd e liste Monti, per riformare le istituzioni, rilanciare l’economia e riscrivere il bipolarismo. Inteso come alternanza di tipo europeo tra moderati e progressisti. In tal senso perciò, anche la campagna elettorale andrebbe modulata e moderata. Evitando toni ultimativi e di scontri che rendano impossibile questo obiettivo»
L’ultimo Monti però non pare tenero, vuole emendare la sinistra da Vendola, Fassina e... Camusso. Timori di insuccesso? «No, nessun timore di perdere. Ma un conto è fare il professore e il premier tecnico, altro fare una campagna elettorale. Forse c’è un deficit di esperienza, e anche Monti deve fare il suo noviziato. Ma nella sostanza non mi pare che egli sia tanto distante dall’idea di una Costituente col Pd».
Veniamo all’altra sponda. Come vede la posizione del Pd e di Bersani?
«Il Pd resta uno dei pochi punti di riferimento saldi nel Paese. E Bersani ha molti meriti a riguardo. Ha rinnovato a fondo il gruppo dirigente e gradualmente sta guadagnando un’identità forte al Pd. Un’identità popolare e di sinistra. Tuttavia non sottovaluterei la componente liberal, quella che si è espressa a favore di Renzi nelle primarie. Non va compressa né liquidata, ma messa a frutto, proprio per far dialogare meglio le anime giovani del Pd».
Torniamo a Monti. È un tecno-capitalista, persuaso del primato assoluto dell’impresa privata malgrado le disavventure della finanza?
«È un monetarista moderato, legato al ruolo dei parametri classici come regolatori dell’economia: bilanci, rigore, tassi di interesse, moneta, mercato come allocatore ottimale delle risorse. Una cultura molto diversa da quella di un Prodi, manchevole quindi di elementi chiave come il lavoro, i distretti produttivi, la cooperazione. Credo però che l’esperienza di governo, unita alla grande crisi del 2008, lo abbia convinto che le cose sono un po’ più complicate, e che l’economia abbia bisogno d’altro per funzionare. La sua agenda, e la sua austerità, necessarie nella prima fase, vanno emendate. Altrimenti, per dirla con Krugmann, diventano un diserbante che uccide il raccolto. Ovviamente le innovazioni vanno fatte sul piano europeo: Eurobond, ruolo della Banca centrale nell’assunzione del debito, neo-keynesismo applicato a nuovi settori. Il nuovo governo costituente dovrà dare una spinta decisiva in questa direzione. Assieme agli altri partner europei. E penso che oggi anche Monti se ne renda conto, malgrado provenga da un establishment economico che si è nutrito di illusioni, e che non è esente da responsabilità in questa crisi».
Che tipo di agenda economica occorre contrapporre alle dottrine fin qui invalse che ci hanno portato al tracollo? «Un’agenda fondata sulla produzione di valori e non sulla distruzione di valori, come con il capitalismo tecno-nichilista. Parlo di una vera e propria rivoluzione antropologica, opposta all’individualismo consumista e acquisitivo. Che ha generato l’illusione di un desiderio illimitato, incomprimibile e continuamente rinnovabile. Un’illusione potenziata dal ruolo della finanza e del credito al consumo. E ingigantita da titoli e derivati emessi sul debito: fino al collasso del 2008. Ci vogliono altri consumi e altre scale di valori: capitale umano e sociale prima di tutto. E dunque cura, relazioni, cultura, ambiente, formazione. Infrastrutture e innovazione ambientale. Il keynesismo del futuro, su scala europea, può rinascere di qui.

l’Unità 4.1.12
Beppe Fioroni
«Difendo Fassina, con lui sappiamo trovare la sintesi»
L’esponente cattolico del Pd: «Caro Mario, noi non silenziamo nessuno, ci confrontiamo
e dialoghiamo. Nessuno ha la verità in tasca...»
intervista di Federica Fantozzi


Caro Mario stai tranquillo, a Fassina ci penso io. Non silenziandolo, ma «facendo la sintesi di tutte le anime del Pd, compresa la nostra dei cattolici democratici». È questo il messaggio che Beppe Fioroni manda al premier «per rasserenarlo». E avvisa: «Niente risse tra centro e Pd, dopo il voto saremo chiamati a collaborare per il bene del Paese».
Il premier suggerisce a Bersani di «tagliare le ali estreme» del Pd e di «silenziare» Fassina. Richiesta accoglibile? «Io tranquillizzerei Monti. Può stare sereno: per trovare la sintesi di un progetto politico giusta e utile al Paese bastiamo noi».
Noi chi?
«Noi moderati del Pd, noi cattolici democratici».
Insomma, a Fassina ci penserete voi. In che modo?
«Troveremo la sintesi in una costruzione dialettica e approfondita con lui. Del resto, un grande partito ha bisogno di confronto, dialettica e sintesi
perché rappresenta la complessità della società italiana».
Quindi, pecca di presunzione il premier a dire che Cgil, Fiom, e Vendola sono i conservatori mentre lui è dalla parte delle riforme?
«Ridurre tutto al pensiero unico silenziando o tagliando è qualcosa di troppo semplicistico che non aiuta a costruire il progetto in grado di portare l’Italia fuori dal guado».
Invece il Pd, secondo lei, può farcela?
«La grande capacità del Pd sarà proprio di tenere insieme la forza di cambiamento e lo spaccato di una società sempre più plurale e complessa. Ricordiamoci sempre che la politica è dialogo, ascolto, sintesi e andare avanti insieme».
Lo dice a cattolico da cattolico?
«No, lo dico da politico. Nessuno ha la ricetta né la verità in tasca. L’Italia si salva insieme. Senza cercare scorciatoie poco produttive».
Lei nel Pd rappresenta l’area Popolare, centrista, cattolico-democratica, di origine non diessina. Ecco, le sembra, come a Monti ed altri, che il partito rischi una deriva di “ultra-sinistra” nelle ricette economiche e nell’asse con Sel?
«No. Basta guardare i risultati delle primarie per verificare la pluralità di presenze e l’articolazione dei consensi intorno alle varie anime che arricchiscono il partito. Compresa la nostra».
L’anno nuovo è iniziato in campagna elettorale. Dove nessuno fa sconti. È scattato anche il duello mediatico tra Professore e Cavaliere. Questa asprezza di toni che rischi comporta? «L’Italia ha bisogno di pochi scontri e molti confronti. Questa volta scegliere parlamentari e governanti sarà decisivo per il futuro del Paese. Deve essere una campagna elettorale delle idee e dei progetti. Non servono risse né schiamazzi. E in video, né monologhi né comizi».
A chi si riferisce?
«La situazione è così grave che le forze in campo e mi riferisco in particolare alla coalizione del centrosinistra e al centro montiano che si sono caratterizzati per la responsabilità del governo devono lavorare per far capire agli elettori le loro prospettive». Secondo lei, le punzecchiature e i distinguo di questi giorni non pregiudicheranno future alleanze tra Pd e centro? «Entrambi i poli devono avvertire la necessità, per il cambiamento che l’Italia si troverà di fronte, di lavorare insieme. A questo saremo chiamati». Quindi è meglio non trascendere? «Esatto. Perché dopo il voto dovremo collaborare. Il nuovo spartiacque, il “vallum italianum”, è tra chi dice no a populismo, demagogia e anti-europeismo. E noi siamo dalla stessa parte». Berlusconi ha chiesto le dimissioni di Monti da premier e persino da senatore a vita perché non sarebbe più super partes. Secondo lei, come sta gestendo il premier questo delicato passaggio da capo di governo tecnico a candidato politico?
«Provo imbarazzo a commentare Berlusconi che un giorno vuole mandare Monti a casa, dopo tre ore lo vorrebbe candidare, dopo quattro ci ripensa ancora... Sono fasi ciclotimiche».
Al di là del Cavaliere, che ne pensa?
«So che Monti ha la saggezza e la serietà necessarie per saper rispettare correttamente il ruolo istituzionale e quello di leader politico».

l’Unità 4.1.12
Se i cattolici sono in tutti i partiti
Importanti le parole di Fisichella e Bagnasco
Il cristiano sta anzitutto con gli ultimi e con i poveri
di Emma Fattorini


È DAVVERO IMPORTANTE, COME HA DICHIARATO MONSIGNOR RINO FISICHELLA NELL’INTERVISTA ALLA STAMPA DI IERI, che cresca il coinvolgimento dei cattolici in tutti gli schieramenti e che questo significhi un loro maggiore senso di responsabilità e di coinvolgimento civile e politico. È un dato di fatto: i cattolici sono da tempo presenti in tutti i partiti. Ed è interesse di tutti, per il bene dell’Italia e non di meno per la Chiesa stessa che ci stiano sempre di più non a fini egoistici, a tutela della loro «parte». Mai come oggi è importante che imparino a essere lievito, a essere sale che non perde sapore, a mantenere salda la loro «identità d’ispirazione» pur nella laicità più matura. Consapevoli della responsabilità verso un interesse generale e nazionale, come testimonianza della loro stessa appartenenza di fede, mai bandiera rivendicativa per lucrare interessi propri, individualmente o di gruppo.
La formazione di una classe politica cattolica è ancora molto indietro. E infatti, la così diffusa presenza di tanti cattolici nei vari partiti non cancella, ma quasi mette ancora più in luce quella sorta di estraneità tra loro e i partiti, che monsignor Giuseppe Betori ha evocato con molta efficacia durante le recenti feste natalizie. Estraneità che allude a un’ancora acerba rielaborazione di possibili culture politiche cattoliche ma che può spingere a trovare, nei fatti, nelle concrete esperienze esistenziali e sociali, terreni di intesa tra le proprie convinzioni profonde e il piano della politica.
Quando monsignor Angelo Bagnasco denuncia (anche) le condizioni materiali tra le cause dell’aborto e dell’eutanasia sollecita, infatti, la politica, con spirito collaborativo e per nulla divisivo, a ridurre il più possibile quelle povertà, solitudini e abbandoni, nella loro materialità concreta. Un metodo nuovo, umanamente partecipe, che non giudica dall’alto. Perché solo la concretezza delle singole, irrepetibili esistenze soggettive può favorire una battaglia sui valori altrimenti sempre perdente quando è fatta in nome di principi disincarnati.
Se i cattolici, dunque, non hanno ancora elaborato una cultura politica all’altezza delle necessità attuali, e sono ancora storditi dalla e nella politica sono però presentissimi nella vita sociale, nei corpi intermedi, e soprattutto affianco «ai poveri e i deboli». Ed è lì che devono stare. Credo sia con questo spirito che tanti, tantissimi credenti stiano a sinistra.
Ecco, i cattolici si potranno dividere su come sia più efficace stare vicino agli ultimi, su quali ricette economiche e politiche siano più funzionali per aiutare concretamente i poveri. Su quali siano le riforme, o le solidarietà più efficaci. Ma non hanno dubbi su quale sia la loro testimonianza evangelica nel mondo: stare con gli ultimi e con i poveri, con spirito di servizio verso il bene comune.

il Fatto 4.1.13
Credenti divisi
Monti e l’irreversibile diaspora del voto cattolico
di Marco Politi


Non sarà Mario Monti il federatore del voto cattolico in Italia. Nonostante l’entusiastico appoggio dell’Osservatore Romano, che lo ha presentato quasi fosse l’unico esponente di un senso “più alto e nobile della politica”. Alla benedizione della Segreteria di Stato vaticana ha fatto seguito una frenata delle gerarchie ecclesiastiche italiane. Più prudente e sensibile alla realtà pastorale del Paese, il presidente della Cei cardinale Bagnasco ha elogiato le qualità di Monti, stando attento a sottolineare che “ognuno può avere opinioni diverse”. I cardinali Scola e Ruini hanno taciuto – e questo negli ambienti ecclesiastici vale spesso più di una parola esplicita – consapevoli del rischio di schierare la Chiesa con una parte limitata dell’offerta politica.
Mons. Domenico Sigalini, assistente dell’Azione cattolica e responsabile Cei della commissione per il Laicato, è stato ancora più netto in un’intervista a La Stampa. Fermo restando il giudizio positivo sulla novità dell’impegno diretto di Monti, il presule ha rimarcato che ormai i “credenti non si riconoscono in un’unica leadership e non ha senso evocare l’epoca lontana dell’unità politica dei cattolici”. Poi, con una punta critica, Sigalini ha soggiunto: “Occorre vigilare che dietro l’apparente novità non si ricostituiscano nefaste logiche di potere o si nascondano interessi di parte”.
Ultimo segnale, forte e chiaro, il comunicato con cui Comunione e liberazione – vuoi per la strategia di “purificazione” auspicata dal leader don Julian Carron vuoi per il desiderio di mantenere le mani libere – ha dichiarato che il movimento non intende identificarsi con uno schieramento partitico e mantiene una “irrevocabile distanza critica” (citazione di Giussani) tra la testimonianza religiosa ciellina e l’impegno politico dei singoli militanti specie di fronte alle “iniziative politiche e proposte” delle prossime settimane.
D’altronde gli ultras integralisti del Pdl – Sacconi, Quagliariello e Roccella – hanno scelto di restare nel partito di Berlusconi e così sarà per una quota di elettorato cattolico di destra. Né cambieranno opinione i cattolici nordisti più attaccati alla Lega. Né lo faranno i cattolici progressisti, che hanno aiutato a vincere Pisapia a Milano, Crocetta in Sicilia o a suo tempo Vendola in Puglia.
LA “DIASPORA cattolica”, cioè il pluralismo di voto dei credenti, è ormai irreversibile. Nell’ultimo decennio la gerarchia ecclesiastica è riuscita a unificare l’associazionismo cattolico soltanto in negativo. Prendendo letteralmente per la collottola associazioni e movimenti e obbligandoli (senza mai consentire un dibattito aperto sulle scelte concrete tra gli aderenti) a schierarsi contro il referendum sulla procreazione assistita e il tentativo di Prodi di legiferare sulle coppie di fatto.
Ma in negativo non si governa. Sul piano programmatico i convegni dell’associazionismo bianco di Todi 1 e Todi 2 non hanno prodotto né una robusta agenda unitaria né un soggetto politico definito. È un dato oggettivo. L’improvviso tandem tra Riccardi e Montezemolo non ha prodotto a sua volta un programma, in cui spiccasse la tempra del cattolicesimo sociale, e ben presto si è notato che agiva da capofila il presidente della Ferrari con le sue idee liberiste. Sicché alla fine ha vinto la strategia dell’Udc di Casini, tesa a coprire la debolezza programmatica dei centristi e dei “popolari” all’italiana con il nome di Monti, affidando a lui e disperatamente a lui la scrittura di un programma.
Ma va riconosciuto onestamente – senza negare quanto di positivo il premier ha fatto nell’ultimo anno – che la sua agenda è abissalmente lontana dall’afflato programmatico del Partito popolare di Sturzo o della Dc di De Gasperi e ancor più dalla forte tensione umana dell’attuale dottrina sociale della Chiesa.
Sono fatti. Ed è anche un fatto cruciale, che vale più di mille analisi, l’abbraccio di Melfi tra Monti e il manager-padrone della Fiat. Marchionne è l’uomo che ha fatto uscire Fiat da Federmeccanica e Confindustria, ha respinto regole comuni per il settore Auto, ha cancellato il contratto dei metalmeccanici e scardinato il contratto nazionale, è l’uomo che ha attaccato rabbiosamente la Consob quando la commissione lo ha richiamato al rispetto delle regole di informazione sulla bolla-balla di Fabbrica Italia. È l’uomo, infine, che (contro ogni principio liberale di rappresentanza) ha escluso dall’agibilità in azienda i sindacati, che non firmano il contratto come vuole lui.
Non è l’imprenditore moderno, è il boss della deregulation. Che c’azzecca con un Monti corrivo con Marchionne un credente, che si ispira alla sensibilità delle encicliche sociali di Benedetto XVI e Wojtyla?

il Fatto 4.1.13
Antiriciclaggio, stop al bancomat e il Vaticano spedisce gli assegni
Bankitalia nega al Vaticano il permesso di operare con la Deutsche Bank
di Marco Lillo


La banca del Vaticano è ormai all’angolo. Dopo aver perso la possibilità di negoziare gli assegni in Italia, dopo la chiusura dell’unico conto operativo alla Jp Morgan di Milano, dal primo gennaio non può nemmeno incassare i pagamenti elettronici tramite Pos all’interno delle mura leonine. Alla farmacia e ai musei accettano solo il bancomat dello IOR, quello che si annuncia con la scritta in latino “Inserito scidulam”, mostrata in un servizio di Report. Altro che “problema tecnico” come ieri minimizzava la Sala Stampa della Santa Sede. Lo stop alle carte di credito e ai bancomat per pagare i farmaci e i biglietti è stato imposto dalla Banca d’Italia in conseguenza di un provvedimento che risale al 6 dicembre scorso: la negazione dell’autorizzazione a Deutsche Bank Italia del permesso ad operare con il Pos in Vaticano.
LA MOTIVAZIONE è chiara: il Vaticano continua ad applicare una legislazione bancaria a maglie larghe che non prevede un sistema di vigilanza degno dei parametri internazionali degli organismi antiriciclaggio. Il bando della moneta elettronica italiana è solo l’ultimo di una serie di provvedimenti che stanno restringendo sempre più l’operatività del Vaticano e dell’Istituto per le Opere di Religione. Ormai da tempo le banche italiane, a causa del pressing di Bankitalia, rifiutano di negoziare gli assegni bancari dello IOR. Il Vaticano è costretto così a spedirli fisicamente in Germania dove le autorità tedesche consentono alla casa madre della Deutsche Bank quello che non sarebbe permesso alla sua filiale di Roma. Ora tocca al Pos. La vigilanza della Banca d’Italia già nel 2010 aveva contestato a Deutsche Bank Italia di permettere a uno Stato extracomunitario, quale il Vaticano, di usare i terminali installati nelle mura leonine senza l’autorizzazione prevista dal Testo Unico Bancario. A quel punto Deutsche Bank aveva presentato un’istanza di autorizzazione che somigliava a un condono. Ma a dicembre invece è arrivato il no della vigilanza di Bankitalia.
La banca cara al Papa tedesco e al suo amico, oggi consigliere forte dello IOR e in passato amministratore di Deutsche Bank, Ronaldo Herman Schmitz, ha dovuto cessare le attività in Vaticano dal 31 dicembre.
Ormai sono davvero poche le strade del Signore per far girare la vil pecunia. Una via per fare circolare i contanti fuori dalla Città del Vaticano è quella dei conti delle congregazioni, degli istituti e degli enti che dispongono di rapporti bancari in Italia e all’estero. I soldi partono mediante bonifico dal conto italiano a quello tedesco di uno di questi enti e poi - sempre con bonifico - tornano al conto IOR di Deutsche Bank Italia. Talvolta i movimenti sono effettuati con gli assegni circolari intestati a terzi su dispozione dello IOR da una delle poche banche che ancora permettono questa operazione, come la Banca del Fucino.
INSOMMA SONO lontani i tempi in cui lo IOR faceva girare decine di milioni sui conti italiani senza comunicare a nessuno il reale intestatario dei fondi. Il braccio di ferro con l’Autorità di vigilanza bancaria e la magistratura italiana è in corso da quasi tre anni. A settembre del 2010 la Procura di Roma ha sequestrato 23 milioni di euro sul conto IOR del Credito Artigiano contestando la violazione degli obblighi di comunicazione in materia di antiriciclaggio. I due schieramenti che si combattono da allora sono divisi dal fronte della trasparenza ma non rispecchiano i confini tra i due Stati. I pm romani Nello Rossi e Stefano Fava dal 2010 indagano l’allora presidente Ettore Gotti Tedeschi, e il direttore generale Paolo Cipriani. Dopo l’interrogatorio dai pm, i due manager Ior però scelgono strade diverse: Gotti si spende, con l’appoggio del cardinale Attilio Nicora, per convincere il Papa a intraprendere la strada della trasparenza. Il 30 dicembre del 2010 con la legge 127, Benedetto XVI emana tramite motu proprio le disposizioni per avvicinare il Vaticano alle normative internazionali e istituisce l’Autorità antiriciclaggio interna, l’AIF, guidata da Attilio Nicora. L’AIF dovrebbe dialogare con l’omologo ufficio italiano, l’UIF, diretto dall’ex dirigente di Banca d’Italia, Giovanni Castaldi. Per qualche mese le cose sembrano funzionare. La procura revoca il sequestro sui 23 milioni ma presto arrivano le prime impuntature. Il Segretario di Stato Tarcisio Bertone, consigliato dall’avvocato Michele Briamonte, partner dello studio Grande Stevens, impone all’AIF e allo IOR di non comunicare nulla sui movimenti precedenti all’aprile 2011, data di entrata in vigore della legge. A febbraio del 2012 arriva la retromarcia: una nuova legge revoca i poteri all’AIF e rimette il pallino nelle mani della Segreteria di Stato. Il Cardinale Nicora è sconfitto e poco dopo, il 24 maggio scorso, salta anche il presidente dello IOR Ettore Gotti Tedeschi.
A luglio l’organismo antiriciclaggio Moneyval dovrebbe decidere se mettere il Vaticano nella lista nera degli Stati canaglia. I pronostici sono negativi. Teoricamente gli ispettori di Moneyval prima di decidere dovrebbero ascoltare la posizione della delegazione dell’UIF della Banca d’Italia. Invece l’UIf non prende la parola per controbattere alla versione della delegazione spedita a Strasburgo dal Segretario di Stato Tarcisio Bertone. Il Ministro dell’economia Vittorio Grilli, notoriamente molto vicino al Vaticano, chiede ai rappresentanti UIF di non prendere la parola. Il direttore dell’organismo antiriciclaggio, Giovanni Castaldi, ritira la delegazione dell’UIF e il Vaticano ottiene una mezza bocciatura che però, date le condizioni iniziali, suona come una promozione. E così si arriva all’epilogo del 2013: nel giorno in cui i bancomat del Vaticano si fermano per mancato rispetto delle regole di Bankitalia, il direttore del-l’UIF, Giovanni Castaldi, lascia il suo incarico. Per mano di Bankitalia. Il Governatore Ignazio Visco e il direttorio dell’istituto non lo hanno confermato al termine del suo mandato quinquennale. Amen.

Corriere 4.1.13
I segreti del patto tra Bersani e Renzi
Un patto all'americana tra il leader e il rottamatore
L'obiettivo di Bersani: arginare il «montismo» con Renzi
di Francesco Verderami


L'intesa tra Bersani e Renzi non è (solo) un'operazione di immagine e di potere, e non è (solo) una mossa mediatica in vista della campagna elettorale. Da ieri il Pd ha cambiato pelle, è diventato — per usare le parole del sindaco di Firenze — «un partito all'americana», dove «il timone è nelle mani di Pier Luigi, mentre io darò una mano». È il suggello della sfida alle primarie, un punto di partenza e anche di arrivo, perché chi è uscito sconfitto dalla sfida per la premiership accetta di collaborare con il candidato per Palazzo Chigi.
Ma al tempo stesso il patto pone fine «alle vecchie saghe», alla stagione dei complotti che hanno dilaniato in passato il centrosinistra. «Mettermi contro Bersani sarebbe ridicolo», spiega Renzi. E non è (solo) per una questione di «credibilità e di lealtà» che si pone al fianco del segretario. C'è una evidente convergenza di interessi tra i due, tra chi cioè si gioca le proprie carte nei prossimi mesi e chi mira ad avere le stesse chance nei prossimi anni.
Perciò Bersani ha invitato l'altro ieri a colazione il «rottamatore», che si è detto pronto a pagare il conto, «a patto che tu mi spieghi la metafora del tacchino sopra il tetto», pronunciata dal segretario del Pd durante il confronto in tv per le primarie. Davvero Renzi stenta a comprendere «il bersanese», tanto che più volte — durante la conversazione — ha dovuto interrompere l'interlocutore: «Aspetta Pier Luigi, scusami. Questa non l'ho capita».
Epperò su un punto i due si sono subito intesi, quando il leader dei democratici ha chiesto al sindaco di Firenze di mobilitarsi: «Lo devi fare nell'interesse della ditta». La parola «ditta» ha sempre fatto storcere il naso a Renzi, e non solo per una questione semantica. Tuttavia il messaggio era comprensibile. A Bersani serve «un argine al montismo» — così ha detto — in campagna elettorale, e l'ex sfidante — che alle primarie ha incarnato la novità — è attrezzato alla guerra di frontiera: «Matteo, fatti sentire sui temi dell'innovazione».
Renzi ha accettato, andrà in tv e nelle piazze, pronto a riproporre alcuni punti del programma con cui lanciò la sfida per palazzo Chigi al segretario: «Anche perché certe cose che Monti ha inserito nel suo documento, le ha riprese dal mio. E non erano di Ichino...». Il passaggio del giuslavorista democratico nelle file del premier uscente è stato al centro di commenti poco lusinghieri durante il pranzo, ed è proprio a Ichino che Renzi avrebbe più tardi indirizzato pubblicamente una frecciata, sostenendo che «c'è troppa gente abituata a scappare con il pallone quando perde. Io no».
Ma quando il professore se n'è andato con il Professore, Bersani ha intuito il progetto politico e mediatico che si celava dietro l'operazione, il tentativo di relegarlo nel recinto di un vetero-laburismo condannato all'attrazione fatale con la sinistra estrema, l'idea di dare in Italia e all'estero l'immagine di una coalizione e di un candidato premier «unfit» per palazzo Chigi. Il «rottamatore» serve proprio a rompere quello schema, e lui sa che la sua funzione sarà quella di «strappare voti nel campo avverso», cercando di drenarli «a Monti e a Berlusconi»: «Perché così si vince».
Con Renzi in campo il segretario del Pd lancia un messaggio al premier che mira a «silenziare le estreme», prefigurando quasi una spaccatura del fronte democratico dopo le elezioni. Con il patto di ieri, invece, un partito «all'americana» è un partito che non si rompe, è un modo — secondo Bersani — per far capire che «non c'è e non ci sarà nessuna ipotesi di scissione nel nostro schieramento, tantomeno nel nostro partito». Una tesi ribadita dal sindaco di Firenze, che giura di non volere incarichi nè di fare il capocorrente, e che tuttavia ha garantito sulla lealtà dei suoi parlamentari: «Saranno più bersaniani di Bersani».
Certo, se da una parte l'intesa di ieri consente di consolidare quel patrimonio accumulato con le primarie, dall'altra c'è il rischio che i messaggi renziani finiscano per alimentare tensioni con l'ala «sinistra» del Pd. «Ma io non silenzierò nessuno», avvisa Bersani. Che rivolgendosi a Monti, aggiunge: «A un leader non spetta tacitare, tocca svolgere un ruolo di sintesi». C'è dunque un motivo se ieri il leader del Pd era soddisfatto, se l'accordo sui numeri con Renzi è stato raggiunto in poco tempo. Il segretario inserirà una ventina di candidati nel listino, che si aggiungeranno agli altri cinquanta usciti vincenti dalle recenti parlamentarie.
E discutendo di liste a tavola i due erano convinti che «sul piano del rinnovamento daremo lezioni a tutti»: «Quando saranno note le liste collegate a Monti, si vedrà quali sono le più nuove tra le loro e le nostre». Il patto di ieri chiude il cerchio nei Democratici e dà il via alla campagna elettorale, durante la quale Bersani vestirà i panni del pompiere: non vuole giochi pirotecnici nè intende andare allo scontro diretto con il Professore, «a meno che non sia lui a trascinarmi». Lascerà a suoi il compito di lavorarlo ai fianchi, com'è accaduto anche ieri, con il governatore della Toscana Rossi che ha spiegato come il premier uscente «rischi di trasformarsi in un politico mediocre».
Il segretario-candidato agirà invece «solo di rimessa». Tanto ha capito chi sia stato a suggerire a Monti di aprire un fronte offensivo con il Pd: «È farina del sacco di Casini». E sorride ricordando l'ammonimento del leader Udc, secondo cui «Pierluigi» non andrà a palazzo Chigi se non riuscirà ad avere la maggioranza anche al Senato: «Questo è la solita, vecchia teoria politica di Pier Ferdinando. Comanda chi ha meno voti...».
Non c'è dubbio che alle prossime elezioni sia in gioco il bipolarismo, che Bersani vuole «salvaguardare». Perciò incalzerà il Professore quotidianamente, invitandolo a spiegare con chi si schiererà «in Italia e in Europa», e chiedendo «rispetto» per il Pd, «perché non può scoprire oggi i nostri difetti dopo essere stato appoggiato per un anno a palazzo Chigi». Comunque non intende pregiudicare «gli eventuali rapporti futuri», ha spiegato ai suoi, come a segnare il destino di Monti e della sua avventura.
Certo, avrebbe preferito che il Professore rimanesse super partes, e con Renzi si è soffermato sulla scelta del premier di entrare in campo: avesse federato l'intero centrodestra sarebbe stato assai insidioso, mettendosi a capeggiare l'area centrista sarà funzionale al Pd. In ogni caso entrambi hanno convenuto che «sta dilapidando un patrimonio».
Ma è soprattutto del Pd che i due ex sfidanti hanno parlato. Ed è un segno dei tempi se un emiliano e un toscano hanno cambiato il volto di un partito a tra(di)zione post-comunista, dove era sempre toccato ai romani la cabina di comando. Resta il problema di Renzi, che spesso fatica a capire il «bersanese». La storia del «tacchino sul tetto», per esempio: il segretario del Pd ha ammesso di aver sbagliato a citare la metafora, «perché non mi volevo riferire a un tacchino ma a un piccione». «Si vabbè, Pier Luigi. Ma che vuol dire?».

il Fatto 4.1.13
Il Pd e gli impresentabili “Va tutto bene”. “No, fuori”
Orlando: “Dovevano valutarli i territori. Civati: “Intervenire”
di Wanda Marra


Se c'è qualche caso eclatante la direzione nazionale dell'8 dovrà esaminarlo”. Pippo Civati, che a Monza è arrivato primo, sottolinea che il tema “impresentabili” nelle liste del Pd c'è e va affrontato. Tra l'altro, la sede e l'occasione ci sono. Da qui a lunedì nel Pd fervono le trattative per la composizione delle liste, che dovranno essere frutto di un gioco di incastro tra i vincitori dei gazebo e i nomi bloccati, scelti dal segretario (e frutto delle mediazioni tra le correnti). Quale sede migliore per prendere posizione sulla candidatura di Francantonio Genovese, recordman di preferenze a Messina, e pieno di conflitti d'interessi o Vladimiro Crisafulli, ras delle tessere, oltre a vari imputati e inquisiti? Il Pd ha una Commissione di Garanzia e un Codice etico, ma in realtà la questione delle candidature per i gazebo è stata gestita dagli organismi provinciali. Maglie da cui evidentemente è passato un po’ di tutto. E ora tra i Democratici si respirano disagio e polemica, a dover gestire il risultato di decisioni prese a livello locale, che mettono in ombra tutto il partito. Diceva ieri al Fatto quotidiano Felice Casson, che in Veneto dai gazebo è stato eletto, che bisognerebbe chiedere agli impresentabili di fare un passo indietro. Il Pd accoglierà l’invito? Andrea Orlando, responsabile Giustizia (e in lizza per un posto di capolista in Liguria, dopo aver vinto le primarie a La Spezia), argomenta: “Noi abbiamo un codice etico particolarmente restrittivo , che va al di là della legge. E infatti dice che non possono essere candidabili i rinviati a giudizio e i condannati per alcuni tipi di reato”. Quindi, formalmente, non ci sarebbe un problema regolamentare per il Pd. Il patteggiamento, per dire, è ammesso per alcuni reati. Ma la questione politica è spinosa, tanto per usare un eufemismo. “Stava ai territori locali fare una valutazione politica delle candidature, mettere i cittadini nella condizione di scegliere informandoli il più possibile”. In realtà nel Codice al di là della lettera si parla anche di stili di comportamento e di responsabilità etiche.
Posizione netta quella di Orfini, anche lui della segreteria democratica, nonché vincitore delle primarie a Roma: “Siamo un partito garantista. Non è che se uno riceve un avviso di garanzia è incandidabile”. Nessun problema con logiche clientelari che, notoriamente, portano voti? “Le primarie sono così: vince chi i voti ce li ha. D’altra parte, è lo stesso problema che si ha con le preferenze”. Walter Verini, uno dei pochi veltroniani che dovrebbe entrare nel listino blindato palesemente è a disagio. E la prende alla larga: “L’etica politica è la precondizione prima di ogni programma di alleanza”. Lui era nella Commissione che ha redatto il Codice etico: “Sono sicuro che se si sono registrati casi incompatibili il Pd saprà intervenire”. Luciano Violante, ex magistrato, che pure fece parte della Commissione, fa sapere che il suo lavoro è finito quando quel codice è stato fatto. E poi commenta: “Ci sono molti giornalisti imputati che continuano a fare il loro lavoro tranquillamente”. Già. Ma non per corruzione, bancarotta, abuso, favoreggiamento e così via.

La Stampa 4.1.13
I prof contro “l’inganno” di Ingroia
Da Revelli a Ginsborg, gli intellettuali del “quarto polo”: ha stravolto il nostro progetto, ce ne andiamo
di Giuseppe Salvaggiulo


Appena accettato l’incarico per l’Onu in Guatemala ha chiesto l’aspettativa per correre alle elezioni politiche sollevando molte polemiche

«Ci hanno scippato il progetto», «Non siamo fessi», «Peggio del peggio», «Vergogna» e così via. Alcuni vogliono gridarla, altri suggeriscono di attenuarla per ragioni di opportunità, ma sono dettagli: i professori del «quarto polo» democratico sprizzano rabbia verso Antonio Ingroia e hanno deciso di scaricarlo, più o meno pubblicamente. Lo accusano di averli illusi e «fregati», cavalcando il progetto e poi curvandolo in una riedizione dell’alleanza arcobaleno del 2008, con un leader imposto, la supremazia dei partiti e le candidature blindate dei segretari al posto dei movimenti, della democrazia partecipata, della lotta per i beni comuni.
Riassunto delle puntate precedenti: nel marzo 2012 un gruppo di intellettuali (tra cui lo storico Paul Ginsborg, il politologo Marco Revelli, il sociologo Luciano Gallino, l’economista Tonino Perna, i giuristi Stefano Rodotà, Ugo Mattei, Alberto Lucarelli, l’ex magistrato Livio Pepino) lancia il manifesto per «un nuovo soggetto politico» alternativo ai capipopolo decrepiti, ai tecnici gelidi e ai partiti morenti. Dodici promotori, millecinquecento firme in pochi giorni, assemblee in tutta Italia, decine di migliaia di partecipanti. In autunno secondo manifesto, «Cambiare si può», in vista delle elezioni. Il colore è arancione, lo stesso scelto da Luigi De Magistris per il suo nascituro movimento. I due progetti viaggiano vicini ma paralleli, finché non irrompe sulla scena Ingroia. All’inizio di dicembre, i professori in un’assemblea a Roma mettono sul tavolo programma e metodo: via i vecchi partiti, niente segretari in lista, spazio ai movimenti e leadership aperta. Nel frattempo Ingroia torna dal Guatemala. Il 21 con De Magistris a Roma lancia la sua candidatura. Il giorno dopo si presenta all’assemblea decisiva convocata dai prof, parla come leader di tutti e se ne va.
I prof s’illudono che le loro condizioni siano state accettate («Siamo stati ingenui», ammetterà Pepino). L’alleanza pare fatta: Revelli e Pepino vengono delegati dai movimenti a definire programma, liste, organizzazione in una trattativa con Ingroia e De Magistris. L’appuntamento è per il 28 dicembre a Roma. Pepino e Revelli partono da Torino e arrivano nella capitale. I due ex pm non solo non li ricevono, ma si negano per tutto il giorno, suscitando l’indignazione dei convitati per la «grande maleducazione». L’incontro avviene l’indomani in una stanza dell’hotel Nazionale, dove Ingroia ha convocato i giornalisti per presentare il simbolo «Rivoluzione civile» con il suo nome a caratteri cubitali. Dunque a cose fatte i prof scoprono che il progetto è definito, i segretari dei partiti aderenti (Rifondazione, Comunisti italiani, Verdi e Idv) ne sono magna pars e diventeranno capilista (o come massima concessione secondi dietro Ingroia), mentre ai movimenti saranno riservati pochi posti in funzione di complemento. Tra le due delegazioni cala il gelo.
Tra i promotori del manifesto, due terzi non ci stanno più. La votazione on line tra i 13 mila sottoscrittori del manifesto da cui tutto era nato premia la linea pro Ingroia, ma i prof sospettano che il risultato sia frutto di massicce adesioni di «truppe cammellate» di Rifondazione. I movimenti (acqua, teatri occupati, No Tav) si defilano. I prof temono di fare la foglia di fico di una mini-alleanza di mini-partiti per scavalcare lo sbarramento elettorale.
Il giurista Mattei è il più duro sull’operazione Ingroia, che definisce «il peggior candidato possibile» contestando la scomparsa della battaglia sui beni comuni in nome di una piattaforma giustizialista. Revelli e Pepino si ritirano dal ruolo di mediatori: «La nostra idea non si è realizzata». Pepino aggiunge che «forse» voterà Ingroia «come male minore» ma «non è la mia lista». Ginsborg dice che potrebbe votarla «ma non mi riconosco più in quel progetto e non è la cosa per cui mi sono battuto in questi mesi». Carlo Freccero ha abbandonato «schifato», raccontano, dopo l’intervento di Ingroia in assemblea. L’ex magistrato Giovanni Palombarini, l’economista Guido Viale, lo scrittore Massimo Carlotto, il cantautore Gianmaria Testa, l’attrice Sabina Guzzanti, l’ex calciatore Paolo Sollier, il guru dell’acqua pubblica Riccardo Petrella, il sindacalista Fiom Giorgio Cremaschi: tutti scaricano Ingroia. Nel frattempo si fanno avanti altri mediatori per negoziare come rappresentanti della società civile con Ingroia e i partiti, ma poi si scopre che uno è di Rifondazione e ne nasce un’altra polemica. Anche i nuovi mediatori si dimettono. «Dalla tragedia alla farsa», chiosa Mattei. Il quarto polo nasce zoppo. "Posti sicuri ai segretari di Rifondazione Idv, Verdi e Comunisti italiani"

l’Unità 4.1.12
Arancioni, anche Bertinotti ha già smesso di crederci
L’ex presidente della Camera definisce un’«occasione mancata» la lista di Ingroia che appena due settimane fa salutava con favore
di Marcella Ciarnelli


Dal saluto motivato «ad una lista alternativa a Monti e al centrosinistra» all’amara considerazione che quella messa in campo da Antonio Ingroia è «un’occasione mancata». In poco meno di due settimane Fausto Bertinotti, presidente della Camera anni fa e ora alla guida della Fondazione «Cercare ancora», ha affidato al sito dell’Huffington Post le sue considerazioni sulla situazione politica, sulle prospettive del Paese, a partire dalla proposta politica dell’ex pm di Palermo candidato a Palazzo Chigi da una eterogenea coalizione che vuole fare la «Rivoluzione civile». E si propone come rappresentante della sinistra doc, convinta che la dichiarata indisponibilità al dialogo e l’autoreferenzialità, possano condurre il Paese fuori da una crisi drammatica, non solo economica, e da cui ogni forza politica che qualcosa ha contato, poco o tanto, non può dirsi estranea scaricando su altri le responsabilità. La «lista di alternativa» che sarebbe stato per Bertinotti «un bel segno e meriterebbe un incoraggiamento», allora non è quella di Ingroia. Così pare.
«E poi dicono che uno diventa pessimista», ha scritto Bertinotti che ricorda come «all’avvicinarsi delle elezioni, l’idea per la sinistra radicale di saltare un giro era apparsa un po’ provocatoria anche a chi l’aveva formulata. Tant’è che è stata messa da parte, appena s’è affacciata la possibilità di attraversare queste brutte elezioni con un’innovazione promettente a sinistra fuori dal recinto e con la volontà di respirare l'aria del conflitto». Ma la coalizione in cui si ritrovano quel che è rimasto dell’Idv, il movimento arancione e pezzi della cosiddetta società civile non è bastata a colmare questa necessità.
La speranza «è già andata perduta, costringendo, di fatto, all’abbandono l’area che più aveva investito sull’innovazione di metodo». E se «non aver trasformato il fallimento in un ulteriore lacerante conflitto a sinistra è una buona cosa», non si cancella così «la delusione per un’ennesima occasione perduta».
L’amara riflessione continua. Gli obbiettivi su cui punta sono distanti tra
loro. Per certi versi opposti. «Senza una radicale discontinuità col passato, il morto mangia il vivo. La discontinuità è necessaria non solo per ricostruire il rapporto perduto tra la politica e l'esistenza ma anche per poter recuperare il meglio della storia del movimento operaio. Vale per la grande politica, ma, dobbiamo constatarlo, vale anche per le elezioni» ha scritto Bertinotti, richiamando la sua esperienza fallimentare con l'Arcobaleno «che pure, allora, mi era sembrato essere realisticamente l’unica possibilità di aggregazione a sinistra. Il realismo non è più una virtù. La discontinuità è una precondizione per la riuscita dell’impresa. La discontinuità prima, rispetto alla presentazione alle elezioni, è l’assunzione della più rigorosa pratica democratica: una testa un voto, su tutto, dal programma alle candidature. Democrazia e trasparenza. Senza eccezioni. Se si accetta l'eccezione, chi la determina è il sovrano. Il sovrano partitico (oggi, non ieri) è, a sinistra, mortifero. Come quello del leader assoluto». Il segretario Pd Bersani «ha condotto con intelligenza e sapienza tattica il Pd ad esserne il perno riconosciuto». E Monti «punta a costruire l’altra componente, quella borghese» in modo spregiudicato, con l’appoggio del Vaticano. Entrambi guardano all’Europa. Se questa è la situazione, allora «la delusione non deve distrarre le forze» che combattono su altri fronti. «Se istanze di movimento, le faranno vivere in forma originale, indipendentemente dal voto, anche nella campagna elettorale, con mobilitazioni dirette per la democrazia, per il lavoro (per esempio sulla proposta Gallino per l’occupazione), per la cittadinanza, per l’ambiente e la salute, allora il tempo di una campagna elettorale, che si annuncia pessima, non sarà tempo perso». E «l’occasione mancata»?

Leggi anche qui

L’Huffington Post 4.1.13
Fausto Bertinotti invia una lettera a Giorgio Napolitano:

"Faccia Marco Pannella senatore a vita"
qui

il Fatto 4.1.12
Sel: Renzo Ulivieri: “Ho vinto, mi fanno fuori”
Secondo ai gazebo in Toscana, ma in posizione ineleggibile
di Alessandro Ferrucci e Tommaso Rodano


Renzo Ulivieri è stato uno dei trionfatori delle primarie di Sinistra Ecologia e Libertà: quasi 2.200 preferenze ottenute e secondo posto nella rossa Toscana. Un successo che però non basterà a portarlo in Parlamento. Il partito di Vendola infatti lo ha piazzato in quarta posizione nella lista regionale toscana per il Senato. Davanti a lui, oltre ad Alessia Petraglia (l’unica ad aver raccolto più preferenze nel suo collegio) ci sono due “nominati” del listino: il senegalese Pape Diew e la giornalista Ida Dominjanni. Per entrare a palazzo Madama a Ulivieri servirà un’impresa praticamente impossibile. “Assolutamente impossibile – corregge lui – non c’è alcun dubbio: non sarò eletto”. Ma l’ex allenatore non ha nessuna voglia di fare polemica con il suo partito: “Oggi sono arrabbiato solo per le parole di Mario Monti. Credo che nemmeno Mussolini avesse mai usato il termine “silenziare” . Verso Sel, invece, nessuna recriminazione: “Le persone scelte prima di me sono validissime. Siamo un partito serio”.
NONOSTANTE i toni concilianti di Ulivieri, sulle primarie si è aperto il fuoco incrociato di una miriade di ricorsi, proteste e polemiche scoppiate a livello locale . Specie in Campania, dove l’elenco delle anomalie è lungo e dettagliato. A Portici, San Giorgio e Cremano e Procida si è registrato un anomalo “boom” di affluenza: a novembre tra Portici e San Giorgio, popolose città del napoletano, in circa 1300 votarono Nichi Vendola, ma ben 2300 hanno poi partecipato alle parlamentarie del partito guidato dal Governatore della Puglia. E in un seggio di San Giorgio hanno ritrovato 187 schede fotocopiate, estranee al pacchetto di schede assegnate. “Per questo dico che qualcosa non torna” denuncia Giampaolo Lambiase, dirigente campano e nazionale di Sel. Cosa in particolare? “In questa regione, Vendola, aveva raccolto circa novemila voti. Nelle parlamentarie, le preferenze si sono moltiplicate, tanto da superare quelli del Pd. Non mi sembra normale”. Entriamo nello specifico. “Sono stati conteggiati molti più voti, questa è la realtà”. Un esempio? “In una sezione hanno votato 700 persone, in dodici ore. Ecco, è impossibile, nel caso sarebbero state segnalate file su file, questione di tempi pratici. Invece niente”. Il caso più clamoroso è quello di Pagani, città di 30mila abitanti, dove il numero dei voti è stato addirittura superiore a quello delle schede elettorali a disposizione delle sezioni di Sel: risultano espresse 694 preferenze su 500 schede (e alle primarie del centrosinistra Vendola aveva ottenuto poco più di 200 voti). Il voto di Pagani è l’unico che è stato annullato. Ma le liste di Sel ormai sono fatte.


La Stampa 4.1.13
Immigrati, serve una legge più amichevole
di Ugo De Siervo


Anche il recente censimento conferma quanto era già chiaro sulla base delle tante ricerche sulla realtà dell’immigrazione nel nostro Paese: ormai essa si è profondamente trasformata, sia in termini quantitativi che in termini sociali, da quando si è presa consapevolezza che il nostro Paese era divenuto un Paese di immigrazione.
Se poco più di trent’anni fa un primo tentativo di quantificazione determinava la presenza di un numero di immigrati fra trecento e quattrocentomila, nel 1988 ci poteva riferire a circa un milione, nel 2004 si dava atto che i permessi di soggiorno erano oltre due milioni e trecentomila, mentre da alcuni anni ci si riferisce alla presenza di circa cinque milioni di immigrati regolari, malgrado tutti i pesanti effetti prodotti dalla crisi economica. E tutto ciò ovviamente oltre il grande pianeta degli immigrati in situazione irregolare, in grande prevalenza originato dall’ impropria utilizzazione dei flussi turistici, piuttosto che tramite i tragici afflussi irregolari tramite il Mediterraneo.
Contemporaneamente è mutata la provenienza degli immigrati, se attualmente gli immigrati provenienti da Paesi dell’Europa centro-orientale, ivi compresi anche Paesi aderenti all’Unione europea (da soli i romeni sono poco meno di un milione) superano il numero degli immigrati da tutti i Paesi africani e ancora più nettamente quello degli immigrati da tutti i paesi asiatici.
Ma ancora più significativo è rilevare la sostanziale stabilizzazione sul territorio e nell’attività professionale di parti significative degli immigrati, malgrado tutte le notorie difficoltà in fasi di crisi economica, mentre chiaramente distinte sono le aliquote degli immigrati temporanei, se non stagionali. Ed a tutto ciò corrisponde evidentemente il fatto che gli immigrati svolgono in modo tendenzialmente stabile tutta una serie di lavori e di attività in alcuni settori, nei quali si registra una forte carenza di attività professionale da parte dei cittadini italiani (come ben noto, non solo nel settore dei servizi, ma in alcuni ambiti delle attività di tipo agricolo, industriale o nel settore edile).
Ma allora si comprende come mai l’immigrazione debba essere affrontata, alla luce dei valori personalistici che caratterizzano la nostra Costituzione, come una grande questione nazionale che contribuisce a ridurre i problemi prodotti dalla accentuata denatalità del nostro Paese, con un anomalo suo notevole invecchiamento, e dalla stessa «fuga» di molti italiani da varie attività lavorative, tuttora importanti.
Una piena consapevolezza è tanto più necessaria in quanto finora sono state assai carenti le politiche nazionali di accompagnamento del fenomeno migratorio, mentre addirittura non sono mancati strumentali allarmismi (per di più venati da gravi discriminazioni di tipo razzista) e legislazioni fortemente ostili. E’ evidente che grandi e rapidi fenomeni del genere, non adeguatamente supportati, producono anche fenomeni di degrado sociale: al di là di giusti interventi a tutela della legalità, gli italiani dovrebbero però essere ben consapevoli, sulla base della storia delle nostre emigrazioni, delle enormi fatiche e delle grandi difficoltà connesse all’inserimento in società diverse di soggetti provenienti da situazioni di sottosviluppo e di pauperismo.
Ormai il problema che si pone in modo impellente è quello della sistematica rivisitazione sia della legislazione sull’ingresso nel Paese che della legislazione sulla cittadinanza. Da una parte si è constatato che in realtà sono differenziate le categorie di immigrati e molteplici le normative internazionali o sovrannazionali da rispettare; dall’altra si continua a dover prendere atto della larga inefficacia di tante procedure di contenimento e di rifiuto degli immigrati irregolari. Ma poi appare ormai evidente quanto sia arrivata fuori tempo la riforma della legislazione sulla cittadinanza in senso largamente favorevole ai meri discendenti degli emigrati italiani (a prescindere da ogni loro attuale legame sostanziale con l’Italia) ed il riconoscimento dei diritti elettorali politici ai cittadini residenti all’estero, mentre la legislazione sull’attribuzione della cittadinanza agli immigrati appare molto restrittiva ed affidata a inidonee e lente procedure burocratiche (d’altronde i modestissimi dati quantitativi relativi alle nuove cittadinanze di questo tipo ne sono una prova del tutto evidente). Ma il perdurare di linee del genere non può che incrementare la dannosa, se non molto pericolosa, formazione nella nostra società di vastissime sacche di persone prive dei pieni diritti civili e politici e quindi neppure integralmente vincolabili ai doveri di solidarietà sociale e politica.
Né l’uscita da tutto ciò può essere garantita dalla sola (seppur ovvia) previsione del riconoscimento della cittadinanza ai giovani nati in Italia da genitori stranieri e che qui si sono formati: se è giusto ricordare il dato assai significativo degli oltre settecentomila figli di immigrati che frequentano i vari gradi scolastici, occorrerebbe farsi carico pure della condizione sociale e dello stato giuridico dei genitori di questi ragazzi. Ciò che quindi appare ineludibile è la previsione di un vero e proprio diritto a conseguire, senza inutili burocratismi, la cittadinanza a chiunque sia regolarmente presente in Italia da un periodo determinato, senza che abbia posto in essere comportamenti gravemente illeciti.
In altri termini, mi sembra che non basti neppure un atteggiamento più aperto verso politiche di integrazione, ma sia necessario passare ad una legislazione più amichevole verso le diverse categorie dei migranti e che apra prospettive di stabile inserimento nel nostro contesto nazionale agli immigrati che qui si sono utilmente stabilizzati.

Corriere 4.1.13
Il giallo degli 800mila immigrati spariti con il censimento
Erano nell'anagrafe, non si sa dove siano
di Alessandra Coppola


Ottocentomila immigrati. Spariti. All'anagrafe i residenti in Italia sono 4,8 milioni, il recente censimento ne ha contati solo 4. Alcuni lasciano il Paese perché licenziati e cercano fortuna altrove; ci sono mogli e figli che tornano in patria per la crisi; altri tengono la residenza per riprovarci in tempi migliori.
Dove son finiti tutti? Milano si ferma a un milione e duecentomila abitanti, Napoli resta sotto la soglia delle sette cifre (962 mila), a Genova oltre ventimila mancano all'appello. A fare i conti sull'Italia intera, tra le rilevazioni del censimento (59,4 milioni) e i dati dell'anagrafe (61,2), c'è una metropoli fantasma: 1.815.742 persone che risultavano nelle liste dei Comuni, ma che poi nelle verifiche dell'Istat sono scomparse.
Una parte del mistero è già risolta dai numeri: per la maggior parte i missing hanno passaporto straniero. Gli immigrati residenti sono 4,8 milioni, quelli censiti solo 4.029.145. Anche in questo caso, però, sorge il dubbio: dove sono gli altri 800 mila?
Innanzitutto, «le cifre che mancano vanno spalmate fino al censimento precedente, del 2001 — avverte il professor Gian Carlo Blangiardo, demografo alla Bicocca e alla Fondazione Ismu — dunque in 10 anni». Un lungo periodo in cui l'Italia, così com'è collocata, al centro del Mediterraneo, ha fatto da approdo, ma anche da ponte: molti stranieri sono arrivati, tanti altri sono andati via. Qualcuno per tornare in patria, qualcun altro per raggiungere Paesi più a Nord. Soprattutto negli ultimi anni, effetto della crisi, tanto che per il 2011 l'ultimo Rapporto Ismu segnala per la prima volta «crescita zero»: il saldo tra ingressi e uscite è quasi nullo.
Dunque, una parte degli 800 mila è andata via e non ha avvertito l'anagrafe (non è richiesto). Lavoratori licenziati che tentano la fortuna altrove. Mogli e figli arrivati con il ricongiungimento e poi, peggiorate le condizioni economiche, rimandati indietro. Neocomunitari, romeni per esempio, che sono tornati a casa, ma hanno mantenuto la residenza in una città italiana, con l'idea magari di rientrare in stagioni migliori (senza perdere la residenza continuativa che serve, tra l'altro, nelle richieste di cittadinanza). «Difficile quantificare con chiarezza — spiega ancora Blangiardo —, l'errore dell'anagrafe si è accumulato negli anni e non si può dire quanti e quando sono andati via».
È possibile, però, ipotizzare che una quota di migranti sia sfuggita alla verifica? E che quindi alcuni di questi «fantasmi» siano in realtà ancora in Italia?
Lo indica anche il responsabile del Servizio censimento della popolazione dell'Istat, Giuseppe Sindoni: «Il 40 per cento degli irreperibili è straniero». Un milione su 2,3 milioni di persone che non risultavano ai rilevatori. Una parte è stata recuperata: 190 mila. Si torna alla cifra di 800 mila scomparsi, sfuggiti. Perché censire i migranti è oggettivamente più complicato, ammette Sindoni: la lingua, la mobilità, la diffidenza.
«È evidente che i numeri non tornano — osserva il demografo della Sapienza, Antonio Golini —, ma le difficoltà di contare esattamente in un territorio come l'Italia, 8 mila Comuni dalla Val d'Aosta alla Sicilia, sono immense. Quest'anno erano disponibili elenchi di strade per consentire un lavoro più mirato. Ma basta andare nelle periferie romane o torinesi per capire quante persone possano sfuggire. Italiane come straniere». Al punto che potrebbe essere l'ultima rilevazione di questo tipo: per il futuro si pensa di «incrociare tutti i database esistenti, dall'Inps alle utenze telefoniche, e fare indagini a campione», come già accade in Francia o negli Usa.
È un problema soprattutto delle grandi città, sottolinea il demografo dell'Università di Padova, Gianpiero Dalla Zuanna: «Nei piccoli comuni le differenze tra anagrafe e censimento sono minime. Perché il controllo è più forte». Altra faccenda Milano o Roma, «quando bisogna verificare la presenza di centinaia di migliaia di persone». Uno non risponde al citofono, l'altro non compila il questionario, l'altro ancora dimentica di rimandarlo indietro. «Anche nei rilevamenti del passato c'era chi mancava all'appello. Ma le discrepanze erano minori, perché minore era la mobilità». Oggi invece ci si sposta di continuo, i migranti più degli altri: «Cambiano residenza e non lo dicono». Il censimento non li registra, l'anagrafe — che ha tempo fino alla fine del 2013 per adeguarsi ai dati Istat — li cancella. E sono definitivamente scomparsi.

Corriere 4.1.13
Con il razzismo non si gioca più: il gesto di Boateng apre una strada
di Pierluigi Battista


Finalmente, grazie a Boateng, una risposta adeguata ai dementi che intonano cori razzisti negli stadi. Ma sia soltanto un buon inizio: da adesso in poi, al primo buu contro il «negro», tutti fuori del campo. Sempre. Insieme. Anche nelle partite ufficiali.
Il sindaco di Busto Arsizio dice che la reazione di Boateng è stata sproporzionata. Crede in questo modo di dire qualcosa di «popolare» nella sua città, di difendere la sua comunità messa sotto accusa dai media forestieri? Ha sbagliato. Se non ci fosse stata quella reazione sacrosanta, giusta, proporzionatissima alla gravità delle offese subite, quella manifestazione di energumeni sarebbe stata l'ennesima pagliacciata razzista passata sotto silenzio. Ora basta, con buona pace del sindaco giustificazionista di Busto Arsizio. Ora al primo fischio con cui dileggiare il nero in campo, anche in una partita in cui i tre punti contano molto, dall'altoparlante va diffuso il seguente messaggio: «Alla prossima i giocatori se ne vanno, e la squadra dai cui spalti vengono fuori queste schifezze perde la partita a tavolino». Ora i giocatori della squadra eventualmente penalizzata non dovranno protestare e dovranno uscire insieme a chi è stato brutalmente offeso. Ora al primo coro antisemita, i giocatori delle due squadre alzano i tacchetti e si dirigono negli spogliatoi.
Il gesto di Boateng apre una strada, finalmente. Ma bisogna essere intransigenti anche nelle partite non amichevoli. È dura, per chi tifa una squadra che sarà penalizzata per colpa di un (purtroppo folto) manipolo di scemi razzisti che berciano insulti contro il giocatore di colore? Certo, è dura. Ma è un male necessario. E utile, perché dopo un po' ci si attiverà per impedire ai cavernicoli di mettere piede in uno stadio e accomodarsi in curva srotolando striscioni disgustosi di matrice razzista. Il gesto di Boateng deve essere una prima volta e non solo un caso isolato. E non dovrà esserci partita in cui un coro e un fischio sui «negri» possa restare impunito. Vedremo, se i razzisti troveranno ancora indulgenza. E sindaci che fanno dichiarazioni improvvide solo per difendere il buon nome di una città (che non c'entra niente, e i razzisti sono dappertutto). Grazie Boateng.

l’Unità 4.1.13
Peres, l’anti-Netanyahu garante della democrazia
Non sarà in lizza nelle elezioni ma l’ultraottuagenario Capo dello Stato è la sola figura in grado di contrastare i falchi
di Umberto De Giovannangeli


Bacchetta Netanyahu. Copre il vuoto di una sinistra senza memoria. Offre una patente di affidabilità ad Abu Maze. Arriva sino al punto di non considerare una minaccia alla sicurezza d’Israele pensare, a certe condizioni, di coinvolgere Hamas in un negoziato di pace. Chi a Tel Aviv è addentro alle cose italiane, accosta la sua figura, e il ruolo svolto, a quello di Giorgio Napolitano. L’Israele che guarda al futuro guarda con speranza a un signore ultraottantenne: Shimon Peres. Il suo nome non figura nelle liste dei partiti che si affrontano alle elezioni del 22 gennaio. Tuttavia, il Capo dello Stato e premio Nobel per la Pace è sempre più presente nell’agone politico israeliano. Facendo da contraltare a una destra «muscolare».
BRACCIO DI FERRO
Trenta dicembre. Botta e risposta tra Peres e il partito Likud del primo ministro Benjamin Netanyhau, sulla questione palestinese. Nel corso di un incontro con ambasciatori e diplomatici internazionali, Peres definisce l’omologo palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) un partner affidabile per i colloqui di pace. Quindi ha affermato che la diplomazia israeliana dovrebbe passare da «un approccio aggressivo a un approccio moderato di dialogo». Dura le reazione del Likud che in una nota definisce il presidente israeliano «non informato» e accusa Abu Mazen di essere una figura che respinge la pace.
Non basta. Passa un giorno, e arriva un’altra bordata del Capo dello Stato al Primo ministro. Peres non è contrario a un dialogo con Hamas, al potere a Gaza, a condizione che il movimento integralista palestinese interrompa le violenze e riconosca lo Stato di Israele. Ad annunciarlo è lo stesso presidente israeliano. «Non c'è niente di negativo a parlare con Hamas a condizione di ottenere una risposta», dichiara Peres al ricevimento con i capi delle chiese cristiane a Gerusalemme in occasione del nuovo anno. Riflette in proposito Sergio Minerbi, diplomatico di lungo corso israeliano, oltre che tra gli storici più autorevoli dello Stato ebraico: «A venti giorni dalle elezioni legislative e all’indomani di un sabato durante il quale un gruppo di giovani guidati dal loro rabbino hanno occupato l’insediamento illegale di Maoz Zion, mentre la destra sembrava avere il vento in poppa, Peres ha dunque preso posizione . Egli ha lanciato un appello per giungere subito a un accordo di pace che faccia sorgere lo Stato palestinese accanto a Israele. Ha affermato che “lo Stato binazionale mette in pericolo il sionismo, l’ebraismo e la democrazia”. Secondo Peres bisogna cambiare radicalmente l’attitudine a risolvere i problemi con la forza, e adottare invece un atteggiamento moderato, intavolando trattative di pace». «Coloro che ritenevano che queste elezioni fossero già decise in anticipo, prevedendo la vittoria della destra, dovranno ripensarci», conclude Minerbi.
Non solo pace. Dicembre 2011. Sono di «vergogna» i sentimenti che Shimon Peres afferma di provare di fronte a tutta una serie di leggi (di sapore liberticida secondo i detrattori) che la destra israeliana sta promuovendo in Parlamento. Da quella che impone limiti ferrei ai finanziamenti stranieri alle organizzazioni non governative (ong) attive per la pace e i diritti umani, a quella che minaccia di strangolare i media non allineati con risarcimenti stellari per i presunti casi di diffamazione dei potenti. Peres denuncia senza giri di parole quella che a suo parere rischia di essere «una marcia verso la follia» e uno sfregio ai valori democratici. Fissare tetti draconiani alle donazioni di Stati stranieri alle associazioni umanitarie israeliane, ad esempio, significa metterle in ginocchio e lasciare il controllo sui diritti umani in Israele solo a gruppi con base all’estero, osserva il presidente. Una cosa «insensata», aggiunge polemico, tanto più se si tiene conto che un uomo d’affari straniero – un magnate ebreo Usa che sostiene organizzazioni non governative d’estrema destra legate al movimento dei coloni – può al contrario «costruire un edificio nel rione (arabo di Gerusalemme est) di Sheikh Jarrah senza essere tassato».
«Non c’è democrazia senza tolleranza, né senza un margine di generosità», concludeva Peres, ammonendo che «non si può separare l’ebraismo dalla democrazia» e auspicando che le leggi più controverse «non trovino alla fine la maggioranza alla Knesset» per il semplice fatto che «esse non aiutano la democrazia israeliana». L’ottantanovenne presidente è il membro della classe dirigente più amato su un elenco di sedici personalità importanti dalla popolazione secondo un sondaggio del quotidiano Haaretz. È, infatti, apprezzato dal 72 per cento degli intervistati, mentre solo il 20 per cento lo critica. Fra la popolazione araba dello Stato ebraico l’apprezzamento sale al 78 per cento. Il sondaggio era dell’Aprile 2011. Venti mesi dopo, il credito popolare, e internazionale di «Shimon il sognatore» non è diminuito. Semmai, si è rafforzato. E chiunque vincerà le elezioni dovrà tenerne conto. (3 fine)

La Stampa 4.1.13
“Mio padre, una spia della Stasi”
La storia di Thomas Raufeisen, dall’infanzia dorata nella Germania Ovest all’inferno (e al carcere) della Ddr
di Tonia Mastrobuoni


Quel 22 gennaio del 1979 a Hannover faceva un freddo insopportabile. Ma per cinque lunghi anni Thomas avrebbe ricordato quel giorno con nostalgia. Aveva sedici anni e di ritorno dalla scuola scoprì che il padre non era andato al lavoro. Il nonno sta male, gli spiegò la madre, «dobbiamo andare a trovarlo». Nel pomeriggio la famiglia Raufeisen partì in direzione Mar Baltico, in piena Germania Est. Per procurarsi i lasciapassare per Usedom, dove il nonno viveva recluso come milioni di tedeschi dalla parte sbagliata del Muro, sarebbero dovuti passare per Berlino. Ma per Thomas, il fratello Michael e i genitori, quella tappa berlinese segnò l’inizio di una tragedia.
Dopo una serie di circostanze strane, tra cui l’incontro del padre con tre uomini a una stazione di servizio che procurarono alla famiglia un appartamento per la notte, Thomas andò a dormire con un senso di inquietudine. Che l’indomani si trasformò in orrore. Armin Raufeisen convocò i figli in una stanza assieme a un uomo che da lì a poco si sarebbe rivelato un agente della Stasi. «Mio padre – racconta Thomas – ci spiegò che il nonno non stava affatto male: eravamo fuggiti da Hannover perché lui temeva di essere arrestato. “Sono un agente della Stasi”, ci rivelò».
Pochi giorni prima era fuggito dalla Ddr un ufficiale del servizio segreto con una lista delle spie infiltrate in Occidente, compreso Armin Raufeisen. «Ci disse che non dovevamo preoccuparci: tempo una settimana e saremmo tornati a casa. A quel punto, però, l’uomo della Stasi lo interruppe bruscamente: “Scordatevi di tornare in Occidente e di rivedere Hannover: siete fuggiti da lì, e vi stanno cercando per arrestarvi. Abituatevi all’idea che resterete qui, nella Ddr. Per sempre».
A Thomas, che ha raccontato la sua storia in un libro, Il giorno che nostro padre ci rivelò di essere una spia della Ddr (Claudiana 2012), crollò il mondo addosso. «Piansi come un disperato. Mio fratello Michael aveva 18 anni e una fidanzata a Hannover. Cominciò a urlare come un pazzo, corse fuori minacciando di buttarsi sotto il tram. Lo salvò mia madre». Il primo shock «che distrusse in un solo colpo la fiducia e il rispetto che avevo per mio padre», fu la scoperta che quell’uomo mite che mostrava simpatie molto tiepide per la politica e che ogni mattina si recava puntuale alla fabbrica di PreussenElectra dove faceva il geofisico, conducesse una doppia vita. Che fosse una spia di quel servizio segreto che in Germania Ovest evocava solo leggende terrorizzanti. Che fosse un fervente comunista che dagli Anni 50 rubava alla sua azienda tecnologie occidentali sulla lavorazione del petrolio per girarle al regime totalitario di Ulbricht e Honecker. «Si definiva “ambasciatore della pace”. Per me il fatto che fosse una spia della Stasi non aveva nulla di avventuroso, mi faceva schifo».
Il secondo shock «fu il furto della mia vita. Conoscevamo la triste, grigia Germania Est, avevamo parenti lì, ed eravamo felicissimi di vivere in Occidente. Mio padre ci aveva anche portati in Italia, avevo visto il Vesuvio, l’Etna, insomma io amavo la mia vita». La famiglia si trasferì dopo sei mesi in un appartamento al centro di Berlino. I primi tempi nella scuola furono un incubo: Thomas non si fidava di nessuno. Ma soprattutto, sapendo che la sua famiglia veniva dalla Germania Ovest, «erano gli altri a non fidarsi di noi, a sentire odore di Stasi. Del resto, chi poteva essere così pazzo da venire volontariamente nella Ddr? ».
Dopo poche settimane, il padre di Thomas si rese conto dell’errore commesso, dell’inferno inflitto alla famiglia. Al fratello Michael, all’epoca già maggiorenne, fu fortunatamente concesso di tornare a Hannover. «Noi no, noi fummo costretti a restare. Mio padre capì finalmente che la Germania Est era un regime totalitario», ricorda Thomas, non senza una vena di amarezza. Armin Raufeisen iniziò a organizzare il ritorno a Ovest. Prima per vie legali, inutilmente. Poi cominciò a pensare alla fuga. All’epoca, all’inizio degli Anni 80, quella famiglia divenne l’avanguardia di un’azione successivamente diffusissima: cercò riparo nell’ambasciata della Germania Ovest in Ungheria e chiese il lasciapassare per varcare la Cortina di ferro. Il primo tentativo fallì, i Raufeisen tornarono a Berlino, ma ricominciarono subito a pensare a un nuovo modo per lasciare la Ddr.
Un giorno il padre avvicinò addirittura un militare americano per offrire i suoi servigi alla Cia. «Sa, era pratico del mestiere ironizza Michael ma l’americano, purtroppo, non si mostrò interessato». La famiglia all’epoca era sorvegliata notte e giorno dalla Stasi, che ne aspettava il primo passo falso. Non tardò ad arrivare.
Un giorno, mentre stavano organizzando una nuova fuga attraverso l’Ungheria, sentirono suonare alla porta. Erano alcuni agenti della Stasi con un mandato di arresto per tutta la famiglia. Fu l’inizio di un secondo calvario, peggiore del primo, che al padre costò la vita.
«Nel 1981 fummo arrestati “per chiarimenti”, e portati a Hohenschönhausen, il carcere della Stasi. Io avevo 18 anni, fui isolato, vidi i miei genitori quattro volte in un anno. L’ufficiale che mi interrogò per tutta la prima notte mi disse subito che mi conveniva parlare: “Abbiamo tutto il tempo del mondo”. Mi si gelò il sangue nelle vene, intuì che mi avrebbero potuto lasciare in quel buco tutta la vita. Dopo molte ore di urla, intimidazioni, lusinghe e minacce, confessai che avrei voluto espatriare, ammisi la mia colpa, se così si può chiamare». Thomas pensava che sarebbe finita lì, invece lo lasciarono un anno intero in carcere. Poi processarono la famiglia: a lui diedero tre anni, alla madre sette, mentre al padre fu inflitto l’ergastolo. Armin Raufeisen morì in circostanze misteriose nel 1987. Thomas fu espulso dalla Ddr nel 1984. Oggi non ha nemici, dice, e ha perdonato suo padre da un pezzo. Ma disprezza chi rimpiange oggi quel regime, o peggio, «chi sarebbe disposto a rinunciare anche a un briciolo della libertà occidentale per un po’ di sicurezza sociale in più. Un pensiero criminale».

Corriere 4.1.13
Non c'è vera storia senza la filosofia
Perché Vico resta attuale, mentre ogni forma di conoscenza riconosce i propri limiti
di Emanuele Severino


Oggi si tende a considerare la scienza moderna come la forma più alta di sapere. Ma la scienza stessa riconosce ormai il proprio carattere ipotetico. Anche le scienze storiche lo riconoscono. Anzi, a questa consapevolezza sono giunte prima delle scienze della natura e logico-matematiche. In modo indiretto Giambattista Vico, nel XVIII secolo, ha aperto la strada in questa direzione. «Ci è mancata sinora — scrive — una scienza la quale fosse, insieme, istoria e filosofia dell'umanità». Passa la vita a tracciare la configurazione di questa nuova scienza.
Al di fuori di essa, esiste una «istoria» senza filosofia, cioè, per lui, senza «verità»: una conoscenza storica che mostra sì un immenso cumulo di notizie, ma senza indicare alcuna Legge immutabile, «eterna» che dia loro un senso unitario, e quindi lasciandole allo stato di ipotesi. La «Scienza nuova» deve procedere pertanto «senza veruna ipotesi»: senza le «incertezze» e «dubbiezze» che competono alle scienze storiche sino a che rimangono separate dalla filosofia.
Ma il nostro tempo — e innanzitutto l'essenza (tendenzialmente nascosta) della filosofia del nostro tempo — esclude l'esistenza di una qualsiasi Legge immutabile ed eterna, sì che le scienze storiche si trovano oggi a conservare proprio quel carattere di «incertezza», «dubbiezza», ipoteticità che Vico aveva consapevolmente colto in esse in quanto separate dalla filosofia.
La Scienza nuova è ora ripubblicata da Bompiani nelle tre edizioni del 1725, 1730, 1744, a cura di Manuela Sanna e Vincenzo Vitiello, che inoltre premette al testo un saggio introduttivo di grande ampiezza e profondo impegno speculativo. Il testo è riproposto secondo l'edizione fattane dalla stessa Sanna, da Fulvio Tessitore e Fausto Nicolini, con alcuni restauri per le edizioni del '30 e del '44. Un'imponente operazione culturale.
Molto opportunamente, Vitiello inizia il suo saggio al pensiero di Vico mettendo in luce il carattere problematico della conoscenza storica e in generale della nostra memoria. Vico e tutte le successive riflessioni sulla conoscenza storica non mettono però in questione l'esistenza della storia. E nemmeno le scienze naturali mettono in questione l'esistenza della natura. Storia e natura sono cioè trattate come indubitabilmente esistenti: la loro esistenza è considerata una verità incontrovertibile. Ma a chi va affidato il compito di mostrare la verità non ipotetica dell'esistenza del mondo? Che esista il mondo è una conoscenza scientifica — quindi problematica —, oppure è una conoscenza innegabilmente vera, e quindi non scientifica? Né il «senso comune» può farsi avanti con la pretesa di saper lui rispondere: non può avere la pretesa di possedere una conoscenza superiore a quella della scienza.
Affermare che l'esistenza del mondo è una verità innegabile significa affidare alla filosofia il compito di mostrarlo. È sempre stato il suo compito metter tutto in questione e spingersi in vari modi fino al luogo che «non può» esser messo in questione. Da questo punto di vista, non mettendo in questione l'esistenza della storia, lasciandola cioè implicitamente valere come verità innegabile, Vico rimane indietro rispetto al compito essenziale della filosofia. Ma per altro verso egli coglie nel segno intuendo che la filosofia non può, a sua volta, chiudere gli occhi di fronte alla storia, alla natura, al mondo. Proviamo a chiarire quest'ultima affermazione.
Il «senso comune», in cui si trova ognuno di noi da quando nasce, non ha dubbi sull'esistenza del mondo e della ricchezza dei suoi contenuti: vi crede con tutte le sue forze. (Vi crede anche la scienza, anche quando essa si discosta dal senso comune). Ma, appunto, lo crede, ha fede nella sua esistenza, e non può fare a meno di crederlo — così come non può fare a meno di credere che il sole si muova da oriente a occidente anche se la scienza gli dice che è la terra a muoversi attorno al sole, che sta fermo rispetto ad essa.
Ma la fede non è la verità innegabile. La fede mette in manicomio o distrugge chi mostra di dissentire da essa; sebbene faccia questo quando il dissenziente ha meno forza del credente. Sennonché la verità non è una forza o violenza vincente. Quando la filosofia del nostro tempo lo sostiene, lo può sostenere sul fondamento di ciò che per essa è la verità innegabile: l'esistenza del divenire del mondo, cioè del divenire le cui forze sono capaci di travolgere e vincere ogni «verità» che pretenda imporsi su di esse e regolarle. Affermando che la verità innegabile è il divenire del mondo (implicante l'inesistenza di ogni eterno e di ogni immutabile al di sopra di sé), nemmeno la filosofia del nostro tempo lo afferma perché è riuscita a mettere in manicomio o a distruggere chi la pensa diversamente da essa.
In verità, il mondo non è il mondo (storia, natura, lo stesso altro dal mondo) quale appare all'interno della fede nella sua esistenza e nei suoi molteplici contenuti — ossia all'interno della non-verità. Tuttavia è necessario che nella verità appaia la non-verità: innanzitutto perché la verità è negazione della non-verità e per esserne la negazione è necessario che la veda. È necessario cioè che nella verità appaia la fede nel mondo, al cui interno si costituisce ogni altra fede (ad esempio la fede nella storia e nella natura, o la fede religiosa), ossia ogni altra non-verità, ogni altro errare. Ciò significa che, in verità, il mondo è la fede nel mondo e che la non verità della fede nel mondo appartiene necessariamente, come negata, al contenuto della verità.
Quando Vico pensa una «scienza la quale sia insieme istoria e filosofia dell'umanità», non scorge che l'esistenza della storia (e del mondo) è il contenuto di una fede, ma crede che nell'unione di storia e filosofia la storia sia illuminata dalla verità della filosofia e divenga essa stessa verità; e tuttavia egli intuisce che la verità è inseparabile dal proprio opposto, cioè dalla fede, dall'errore.
Quale volto deve avere la verità che si mette autenticamente in rapporto col proprio opposto? Nel capitolo conclusivo della sua introduzione, intitolato «Prospezioni vichiane», Vincenzo Vitiello scrive: «Al presente spetta la cura della "possibilità" del futuro, che non solo, in quanto futuro non è, ma neppure è necessario che sia». Sono d'accordo che questa sia una «prospezione vichiana», un proseguire cioè lungo il sentiero percorso da Vico. Ma aggiungo che questo sentiero è solo un tratto del grande Sentiero aperto dalla filosofia greca e in cui consiste la storia dell'Occidente: il Sentiero per il quale il divenire delle cose (di cui sopra si parlava) è il loro uscire dal nulla del futuro e ritornare nel nulla del passato. E Vitiello sa bene che, servendomi di un'espressione dell'antico Parmenide, lo chiamo «Sentiero della Notte» — dove la «Notte» è l'errare estremo. Quella «prospezione vichiana» raggiunge il proprio culmine e la propria estrema coerenza in ciò che prima ho chiamato essenza (tendenzialmente nascosta) della filosofia del nostro tempo, ossia nella distruzione di ogni Legge e di ogni Essere immutabile ed eterno. Da gran tempo vado mostrando la malattia mortale — l'essenziale non-verità del mondo — che sta al fondamento di quel Sentiero e che impedisce alla verità di essere l'autentica negazione dell'errore, cioè della malattia mortale che, appunto, fa dire a tutti gli abitatori del Pianeta che il futuro e il passato non sono e non è necessario che siano.
Ho detto che tutto questo vado mostrandolo «da gran tempo»? Mi son lasciato andare. Rispetto alla grandezza della posta in gioco quel tempo è minimo.

Repubblica 4.1.13
Donne e avventure, gli anni di Modigliani
Una biografia ricostruisce la sua vita tra leggende e vicende storiche
di Cesare De Seta


La biografia si direbbe un genere desueto, ma quando il soggetto è Amedeo Modigliani, nato a Livorno nel 1884 e morto a Parigi nel 1920, l’interesse cresce: non perché non esistano ricche note biografiche su questo artista, ma esse sono disseminate in centinaia di scritti. Il merito maggiore dell’inglese Meryle Secrest, Modigliani. L’uomo e il mito, è d’essersi tuffata con passione in un mare magnum d’informazioni vere, verosimili o del tutto inventate, e di averle ragionevolmente articolate in capitoli che partono dalla famiglia d’origine e dall’infanzia, e giungono alla prematura morte. Amedeo, per tutti Dedo, nasce in una famiglia ebrea sia per parte della madre Eugenia Garsin di Marsiglia, sia per parte del padre livornese. Entrambe le famiglie sono a metà Ottocento benestanti. I rovesci finanziari portano i Modigliani alla rovina, e quando nasce Dedo, quarto figlio, sono sul lastrico. La salute del ragazzo è assai gracile fin dall’infanzia: prima pleurite e tifo, poi tubercolosi di cui si ammala nel 1900. Giunto a Parigi nel 1906 le sue precarie abitazioni tra Monmartre e Montparnasse sono quasi sempre delle misere stamberghe, ma non dissimili da quelle che abitavano Picasso, Utrillo, Gris e tanti altri artisti in anni pieni di fervore creativo. Quantunque Modi viva a contatto di gomito con questi amici, dai quali è amato per il suo candore e per la sua cultura letteraria non superficiale, attraversa il fuoco dei fauves, la rivoluzione cubista e futurista senza farsene influenzare. Cézanne, con la solida geometria delle composizioni, è punto di riferimento rilevante. Ma disegna e dipinge i suoi ritratti memore delle radici italiane: quando si parla dei colli lunghi, dei volti affilati e dei corpi affusolati delle donne dipinte da Modi non bisogna dimenticare i senesi del Trecento e la scultura medievale di Tino di Camaino scoperti da adolescente.
Nel clima parigino l’amicizia con un altro deraciné come Constatin Brancusi, la scoperta nei musei etnologici delle maschere africane e della scultura arcaica greca al Louvre l’inducono a scolpire ieratiche cariatidi e teste: ma le polveri della pietra e del marmo non sono balsamo per i suoi polmoni. Vive precariamente, fondando sulle rimesse della madre e dello zio Amedeo, ma giunti i soldi li brucia con gli amici in memorabili bevute di vino, assenzio, hashish e altre droghe. Dedo è un giovane bello come un Antinoo dice Anselmo Bucci, Cocteau è rapito dalla sua aristocratica eleganza, Picasso ne ammira il talento, ricambiato, le donne lo idolatrano, e Modi passa da un letto all’altro con una gioviale spensieratezza. Pare che abbia avuto tre figli non riconosciuti, e siamo nell’area dell’illazione. Con lo scoppio della guerra, a cui l’autrice dedica belle pagine, Modigliani non partecipa al clima di eccitazione, perché è un pacifista come suo fratello maggiore Giuseppe Emanuele, socialista e deputato al parlamento: la politica poco l’interessa, ma i suoi sentimenti sono libertari e tutto il suo tempo lo dedica a disegnare cameriere, sartine, ragazze di bistrot. Nel 1910 arriva a Parigi in luna di miele Anna Achmatova, e malgrado le circostanze, è un colpo di fulmine: le fa molti ritratti quando la poetessa l’anno successivo torna a Parigi, andati distrutti nel corso della rivoluzione. Le fonti su queste vicende sono diverse e contraddittorie, Modi diventa lentamente maudit, ma la foto che lo raffigura nel 1916 mostra un bell’uomo, vestito elegantemente. Intorno a questi anni vive la lunga relazione con la scrittrice inglese Beatrice Hastings che lo ospita e lo accudisce. Le dipinge un enigmatico ritratto: il suo ritmo di lavoro è intenso: 7 ritratti nel 1914, 53 l’anno successivo, nel 1916 58 tra cui 6 nudi, in un crescendo spasmodico fino all’ultimo anno di vita, quando, benché gravemente ammalato, dipinge 54 tele. L’incontro e la storia d’amore con Jeanne Hébuterne, la nascita della bimba sono per Modi una gioia immensa: tema romanzesco. Una luce fu il successo personale nella mostra collettiva a Londra, ma la tisi aveva fatto il suo corso. La biografia si legge d’un fiato, malgrado molte digressioni e numerose “vongole” disseminate nel testo: ad esempio all’autrice qualcuno avrebbe dovuto ricordare che l’Unità d’Italia non si data 1870.

Repubblica 4.1.12
Leggere il futuro nel Dna
Ma conoscere il futuro rimane un’illusione
di Michela Marzano


Più il tempo passa, più ci si illude che la vita possa essere gestita come il budget di un’azienda, sulla base di un calcolo preventivo sui costi e i benefici delle azioni. Gestiamo tutto, o almeno crediamo di poterlo fare. Aggiustando meticolosamente quello che diciamo, pensiamo, facciamo, proviamo. Come se potessimo veracemente controllare qualunque cosa, inclusi gli affetti e la salute. E allora seguiamo i consigli degli esperti, per non correre il rischio di ammalarci. Evitiamo cibi salati, per non far aumentare la pressione; ingurgitiamo quantità industriali di vitamine e anti-ossidanti, moderiamo l’uso di alcol, facciamo ogni giorno dell’esercizio fisico. Ci spiegano — e hanno anche ragione — che prevenire è meglio che curare. E allora ce la mettiamo veramente tutta, anche semplicemente per non doverci poi sentire colpevoli se ci succede qualcosa. Perché allora non dovremmo poter ricorrere anche a tutti quei test genetici che sono oggi a nostra disposizione , se non nel settore pubblico, almeno nel privato?
Perché limitarsi ai soli test diagnostici, quando oggi esistono anche quelli predittivi che ci possono dire quante probabilità abbiamo di sviluppare o meno una determinata ma-lattia? Oggi possiamo. La genetica ha fatto passi da gigante. E allora tanto vale approfittarne. Per capire quello che ci aspetta, tirarne le dovute conseguenze, organizzarci. Senza che qualcun altro decida al posto nostro, visto che siamo tutti grandi e responsabili.
Peccato che, nella realtà, le cose non siano mai così semplici. Peccato che non tutto dipenda dalla genetica e che con la genetica, che pure può tanto, non si riesca ancora a curare ciò che si può in parte predire. Peccato soprattutto che il rischio, in quanto tale, non potrà mai essere controllato. Anche semplicemente perché il rischio è inerente alla condizione umana. E anche quando tutto sembra sotto controllo, c’è sempre qualcosa che se va per i fatti suoi. Più si cerca di controllare, più le cose sfuggono. Qualcosa accade senza che nessuno l’avesse predetto o previsto. Un incidente. Una guarigione. Un incontro.
Allora che cosa è meglio? Sapere che si ha una certa probabilità di sviluppare tra qualche anno una malattia grave e cominciare ad angosciarci oppure lasciar perdere e vivere nell’ignoranza ma forse anche nella serenità
dell’inconsapevolezza? Saperlo per cambiare stile di vita, prepararsi al peggio e fare la lista di tutto quello che si avrebbe voglia di fare oppure andare avanti come se niente fosse, tanto si può sempre avere un incidente e allora tutti i calcoli che si sono fatti se ne vanno a carte quarantotto? Ovviamente, la scelta spetta ai singoli individui. Non si può scegliere al posto degli altri, soprattutto quando si tratta della vita altrui. Ma forse sarebbe bene non dimenticare il posto che le probabilità e i rischi occupano — e occuperanno sempre — nell’esistenza umana.
Tutto o quasi, nella vita, dipende dalle probabilità. Probabilità di incontrare la persona giusta o sbagliata. Probabilità di fare o meno da grande il lavoro che si sognava. Probabilità di trovarsi al posto sbagliato nel momento sbagliato o a quello giusto nel momento giusto. Certo, ci sono anche le scelte che si fanno e lo sforzo individuale che si compie quando si vogliono ottenere determinati risultati. Ma è illusorio credere di poter sapere esattamente ciò che ci succederà nel futuro. Malgrado i tanti sforzi, resta sempre qualcosa che sfugge. Un tempo si sarebbe detto la provvidenza. Quel “se Dio vuole” che accompagnava quello che auspicavano i nostri nonni. Oggi ci possiamo accontentare dell’ignoto e del mistero. Che esistono e non si controllano. Nonostante tutto.