sabato 5 gennaio 2013

Repubblica 5.1.13
L’intervista
Matteo Orfini: “Noi vincitori? Le primarie le ha vinte il Pd, ma è un bene che sia stato premiato chi ha condotto battaglie ideali”
“I giovani turchi non sono troppo a sinistra anche Napolitano parla di questione sociale”
di G. C.


ROMA — «Tutti si lamentano perché abbiamo vinto troppo, alimentando così l’idea che abbiamo vinto». Matteo Orfini, responsabile Cultura del Pd è uno dei “giovani turchi”, i trenta/quarantenni bersaniani, che si sono ben piazzati alle parlamentarie. Con Stefano Fassina copre l’ala sinistra dei Democratici. È passato dalle bordate sugli ex ministri del centrosinistra («Non andrebbero ripresentati in un futuro governo»), alla richiesta che “i garantiti del listino” siano solo personalità della società civile.
Orfini, voi “giovani turchi” vi ritenete i vincitori nel partito?
«Con le primarie ha vinto il Pd, che è uscito più forte e convincente. Ha vinto Bersani. Però sono contento che il risultato delle primarie abbia premiato molte persone che hanno fatto alcune battaglie ideali».
Lei e Fassina siete la “gauche” del Pd?
«Non credo di essere troppo a sinistra. Ma in un momento in cui la crisi economica provoca sofferenza sociale, come ha detto il presidente Napolitano dobbiamo mettere al centro la questione sociale e recuperare parole come eguaglianza, giustizia sociale. Non significa spostarsi a sinistra ma mettersi al centro dei problemi del paese».
La sfida con Monti rende più rischioso giocare solo nell’area sinistra?
«La questione è come si trasmette l’idea di cambiamento al paese. Monti si racconta come un innovatore, ma misuriamo concretamente quello che è successo. Dopo avere annunciato di volere avvicinare i cittadini alla politica, e di volere valorizzare le donne, si è chiuso in una stanza con cinque uomini. Ha costruito a tavolino 3 liste, piene di nomi che conosceremo. Dubito che saranno innovative. Il Pd negli stessi giorni ha fatto scegliere a oltre un milione di persone i propri candidati. Chi è più innovativo?».
Il Pd dovrà dialogare con i centristi?
«Il nostro obiettivo primario è unire i progressisti e poi aprire un dialogo con i moderati, che però dovrebbero essere tali. Non c’è nulla di liberale o moderato nell’invitare
a silenziare chi non la pensa come Monti. E trovo curioso che si metta in discussione la capacità e l’affidabilità del centrosinistra, quando si sceglie come compagno di viaggio Casini, che ha governato con Fiorito e Scopelliti».
Tuttavia per raddrizzare la barra e battere Monti, Bersani chiede soccorso a Renzi?
«Renzi è un protagonista della vita del Pd. La notizia che abbia accettato di impegnarsi è ottima. Però non si tratta di correggere la rotta, ma di assumere l’Agenda Bersani».
Ci sono anche i montiani del Pd?
«Prima di tutto i cosiddetti montiani del Pd dovrebbero dire una parola di sostegno verso i loro compagni di partito attaccati strumentalmente da Monti».
Orfini, lei è per la discontinuità con il governo Monti?
«Il rigore non è sinonimo di risanamento. E nell’Agenda Monti innovazione, ricerca, università, cultura non ci sono: non ci sono state in questo anno, né ci sono ora nelle proposte elettorali».
Il “listino dei garantiti” compenserà le correnti che dalle primarie per i parlamentari non sono uscite granché bene?
«Abbiamo chiesto che nel listino ci siano personalità della società civile e pochissime personalità politiche che avrebbero tutte dovuto misurarsi con le primarie. Il “listino”, o per meglio dire la “quota nazionale”, non può essere trattato in una discussione tra correnti. Ovvio che il pluralismo politico va garantito».
(g.c.)

l’Unità 5.1.13
Fabrizio Barca: «Sinistra e destra esistono. Chi lo nega non vuole cambiare»
«È ora di ricostruire partiti veri»
«Nel Paese c’è una forte domanda di partecipazione», dice il ministro della Coesione territoriale a l’Unità. «Lo si è visto alle primarie, ma anche con la richiesta a Monti di entrare in politica e con il voto a Grillo. Il punto è che non basta fare delle liste: bisogna costruire partiti veri»
di Bianca Di Giovanni


ROMA Fabrizio Barca continua alacremente la sua attività di ministro della coesione territoriale, anche nell’infuriare della campagna elettorale, dopo i concitati appuntamenti dei vari round delle primarie del Pd e di Sel. Eppure forse nessun ministro attuale ama la politica come lui. In fatto di partiti, schieramenti, scenari ha le idee acute come lame di coltello. Sentite: «Sinistra e destra non esistono? La differenza è viva e vegeta. Chi la nega non vuole cambiare le cose». Lui per ora sta cercando di cambiare tutto in fatto di progetti finanziati dall’Ue, o di ricostruzione dell’Aquila. Quando parla con l’Unità è appena uscito da un incontro con i commissari del concorso che hanno selezionato i 300 giovani funzionari pubblici (su 16mila domande) che si occuperanno del cratere abruzzese. «Ce la faremo a chiudere a gennaio assicura Così faremo il record del concorso più veloce della storia».
Oggi la politica è tornata in primo piano. C’è stato un errore di valutazione quando si è asserita la superiorità della tecnica?
«L’errore sta nel dissociare le due parole. Non c’è un tecnico impegnato a governare che non sia anche politico. Sicuramente quello che oggi emerge è che nel paese c’è una forte domanda di partecipazione, che si è espressa in diversi modi: nelle primarie, nella richiesta a Monti di entrare in politica, e anche nel voto per il movimento Cinque Stelle».
Il ruolo dei partiti esce rafforzato. Anche qui sbagliava chi li dava per morti. «Emerge un bisogno di partiti, ma si capirà solo nei prossimi mesi se i partiti sapranno rispondere a questa richiesta. Non bastano questi segnali per decretarne la rinascita. I partiti sono organismi complessi, hanno bisogno di capillarità sul territorio, di luoghi di confronto. La forza dei partiti nei confronti di altri corpi intermedi, come i sindacati, le associazioni, i gruppi religiosi, sta nel fatto che questi sono particolari, mentre i partiti sono generali. Il loro meglio lo danno quando dal confronto di interessi particolari emerge l’interesse generale, il loro peggio quando rappresentano una sommatoria di interessi particolari. Finora abbiamo visto il peggio, ora speriamo di vedere il meglio».
Non le pare che i partiti stiano diventando troppi?
«Molte sono solo liste, si vedrà dopo se diventeranno partiti. A quel punto non potranno che ridursi. La lista può servire in fase elettorale, ma quando si passa alla fase deliberativa e a quella di governo serve un vero partito».
Non teme il proliferare di partiti personali, come ha segnalato Bersani?
«Anche qui si tratta di liste, che per loro caratteristica in questa fase storica si aggregano attorno a una persona. Ma questo organismo in realtà non è ancora un organismo politico strutturato, direi quasi che è un non-partito».
L’offerta politica di oggi è multipolare. Il bipolarismo è tramontato?
«Anche qui dobbiamo ancora aspettare per dirlo. È possibile che dietro questa pluralità di liste ci sia un riassetto partitico. Per ora siamo a livello dell’aspirazione, ma siamo lontani dalla configurazione di un nuovo scenario. Se il bipolarismo sia morto o no lo sapremo verso fine anno. Allora potremo vedere quale di queste liste sarà in grado di trasformarsi in un’organizzazione permanente. Un’altra possibilità è che si creino diversi raggruppamenti parlamentari e non partiti. In questo caso lo scenario non sarà certo mutato: di nuovi gruppi parlamentari ne abbiamo visti a iosa».
Per lei cosa vuol dire tagliare le estreme, come chiede Monti?
«Non farei molta filosofia su affermazioni come questa. È chiaro che chi si presenta per il centro invita a eliminare gli estremi. È campagna elettorale».
Qualcuno ha paragonato la coppia Bersani-Vendola a quella Prodi-Bertinotti. Che ne dice?
«Dico che Prodi e Bertinotti non ci azzeccano proprio niente con Bersani e Vendola. Tra i primi due c’è almeno un’affinità territoriale nelle loro origini, e tra i secondi ci sono esperienze politiche diversissime. E poi Vendola amministra da anni una Regione del sud, Bertinotti ha fatto tutt’altro».
È chiaro che il parallelismo era un’evocazione dell’ingovernabilità di una coalizione di questo tipo.
«Evocazione infondata e evidentemente anche qui si tratta di propaganda». I mercati sembrano reagire bene, nonostante il confronto politico molto duro. «Gli investitori internazionali sono abituati a confronti feroci: in Inghilterra e Stati Uniti ce ne sono di molto più duri del nostro».
C’è chi dice che esiste una sola agenda per l’Italia, chiunque vinca.
«Non è così. La verità è che le formazioni politiche non si confrontano sulle agende, ma sulla radicalità qui ci vuole e la ragionevolezza che mostrano di avere riguardo alla creazione di sviluppo. Ovvero radicalità nello spiazzare le classi dirigenti poco innovative e nel modernizzare la macchina dello Stato».
Un’altra vulgata è il superamento di destra e sinistra. È d’accordo?
«Chi dice che non c’è differenza tra le due parti, o racconta un mondo monistico in cui esiste una sola soluzione ai problemi, in verità non vuole cambiare le cose e vuole favorire solo una parte, con il convincimento di possedere una soluzione tanto superiore alle altre da voler abolire il pluralismo. In verità il bene comune si raggiunge soltanto con il pluralismo, e come dice Amartya Sen, anche con un confronto acceso. Non esistono cose che vanno bene per tutti, ma cose che vanno più bene di altre. Dare più peso all’inclusione sociale piuttosto che alla crescita, o meglio pensare che non c’è crescita senza inclusione è di sinistra. Credere che il servizio sanitario debba essere universale, dunque anche per i ricchi che riescono ad avere pressione e quindi a migliorarlo, è di sinistra. L’idea invece che la sanità pubblica debba essere riservata ai poveri e che i ricchi pagano, mostra un’idea di Stato pauperistico, e non di Stato strumento per riequilibrare gli squilibri sociali».
Lei non ha ancora sciolto la riserva sul suo futuro politico, pur credendo molto nella politica.
«Oggi voglio fare solo il ministro. Annunciare altri impegni mi avrebbe impedito di far bene il mio lavoro».

l’Unità 5.1.13
Bersani e le liste Pd: mia l’ultima parola
Il segretario punta a un voto all’unanimità ma nelle Regioni non tutti i dubbi sono superati
Realacci l’unico «renziano» capolista
di Simone Collini


Il confronto, quello tra le diverse anime del partito ma soprattutto quello tra Roma e i vertici regionali, andrà avanti ancora per quarantott’ore perché non tutti i pezzi del puzzle sono andati a posto e perché le tensioni rimangono alte. E Pier Luigi Bersani, che viene via via aggiornato dei progressi ma anche dei nodi ancora da sciogliere, ha fatto sapere a chi sta portando avanti le trattative che l’ultima parola sulle liste elettorali sarà comunque la sua.
Il leader del Pd vuole che alla direzione di martedì venga dato il via libera alle candidature del suo partito con un voto all’unanimità, per poi fare subito una prima iniziativa elettorale da una posizione di forza (difficilmente infatti le altre liste saranno già pronte). Ma sa anche che sarà inevitabile arrivare a quell’appuntamento con una discreta percentuale di scontenti. Mettere in chiaro, all’apertura dei lavori, che la decisione finale è stato lui a prenderla è il solo modo che ha per raggiungere l’obiettivo. È rischioso, perché si espone all’eventualità di incassare comunque dei voti contrari, ma Bersani ha detto a chi lo ha sconsigliato di seguire questa strategia che vale quello che valeva per le primarie, bisogna mettersi in gioco.
Il problema è soprattutto la distribuzione del centinaio di nomi del listino da inserire tra i 900 di chi ha partecipato alle primarie di fine dicembre. I segretari regionali sono rimasti due giorni a Roma per discutere con il vicesegretario Enrico Letta e il coordinatore della segreteria Maurizio Migliavacca, per spiegare che non si può mettere a rischio l’elezione di chi ha avuto anche dei buoni risultati ai gazebo per far posto a chi non si è confrontato con il consenso degli elettori o a chi con quel territorio non ha nulla a che fare. L’intesa andrà trovata entro lunedì.
Bersani sarà candidato capolista nel Lazio 1 (Roma e provincia) e in due regioni fondamentali per la partita del Senato come la Lombardia e la Sicilia. È però proprio da quest’ultima regione che arriva una forte protesta. I vertici del Pd siciliano hanno infatti chiesto di dimezzare il numero dei candidati scelti da Roma, da 11 a 6, e hanno espresso forti perplessità sulla lista del governatore Rosario Crocetta capeggiata da Beppe Lumia, da collegare al Senato a quella del Pd. Anche nel Lazio 2, dove si ipotizza la deputata uscente Donatella Ferranti come capolista, davanti al segretario regionale Enrico Gasbarra, i problemi non mancano. I nomi del listino da inserire tra i candidati parlamentari sono 13. Come capolista al Senato si fa il nome di Pietro Grasso, che però potrebbe correre nella stessa posizione anche in Lombardia. Dove, candidato alla Camera, correrà Massimo Mucchetti.
L’unico capolista inserito nel listino per richiesta di Matteo Renzi dovrebbe essere Ermete Realacci, in Umbria. Nel  fronte renziano si è anche aperta una discussione sui 17 nomi da candidare nella quota extra-primarie. Alle riunioni del comitato elettorale, che dopo l’incontro di ieri è stato riconvocato per lunedì per chiudere la pratica, partecipa come rappresentante del fronte che alle primarie ha sostenuto il sindaco di Firenze Graziano Delrio. Il presidente dell’Anci, che sta portando avanti la trattativa con Vasco Errani (fronte pro-Bersani) non condivide però l’idea di Renzi di puntare a portare in Parlamento i fedelissimi, perché la precedenza va data alle competenze. Dovrebbero essere inseriti in posizioni di sicura eleggibilità persone vicine al sindaco come Simona Bonafè, Giuliano Da Empoli, Francesco Bonifazi, Maria Elena Boschi e, tra i parlamentari uscenti oltre a Realacci, Roberto Della Seta e Paolo Gentiloni.
In queste ore appare invece a rischio la candidatura di Roberto Reggi, che alle primarie ha portato avanti più duramente di tutti la battaglia contro le regole. Finora da tutte le regioni a cui è stata chiesta la disponibilità a metterlo in lista è arrivato un no grazie. Ci sono due giorni per trovare la soluzione.
Un’altra candidatura che sembra non ci sarà è quella del senatore uscente Stefano Ceccanti, mentre per Palazzo Madama saranno confermati Giorgio Tonini, Nicola Latorre, Luigi Zanda, Ignazio Marino. A Montecitorio saranno riconfermati il “modem” Walter Verini e gli “areadem” Paolo Giacomelli, Gianclaudio Bressa, Marina Sereni. Saranno in lista i membri della segreteria e, per il fronte-Bersani, gli storici Miguel Gotor e Carlo Galli, Guglielmo Epifani.
Capilista nel Veneto saranno Enrico Letta e Laura Puppato, in Emilia Romagna Dario Franceschini e Josefa Idem, in Sardegna il segretario regionale Silvio Lai, in Calabria Rosy Bindi. Franco Marini dovrebbe guidare la lista in Abruzzo, Anna Finocchiaro in Puglia, dove il Pd potrebbe candidare anche il docente di sociologia Franco Cassano. Nelle liste Pd ci sarà anche il segretario di Confcommercio Luigi Taranto.

La Stampa 5.1.13
Pd, bersaniani pigliatutto, rivolta liberal
Tensione nel Pd Il listino di Bersani colpisce i liberal
Alcuni degli esclusi potrebbero lasciare per Monti
Ai renziani riservata solo una quota del 10 per cento
di Fabio Martini


Il Pd si è messo così avanti col lavoro per le liste elettorali che ieri sera avevano un volto e un nome pressoché tutti i 400 onorevoli che si calcola siano destinati ad essere eletti nel prossimo Parlamento sotto le insegne democratiche. Grazie ad un metodo di selezione studiato da Pier Luigi Bersani da più di un anno, e grazie alle Primarie organizzate in pochi giorni e al lavoro del «tavolo» delle candidature guidato dai suoi uomini. Ieri sera si stimava che il 75-80% dei futuri parlamentari sarà formato da «bersaniani», il restante apparterrà alle altre componenti.
In altre parole, oltre ai 300 parlamentari (tutti quasi certi di essere eletti) selezionati attraverso le Primarie, altri cento saranno indicati dal listino dei cooptati, attraverso il quale ecco il punto non sarà garantito alcun riequilibrio a favore delle componenti diverse da quelle del segretario: i cosiddetti renziani finiranno per avere una quota del 10%, mentre a tutti gli altri (Veltroni-BindiFranceschini-Fioroni-Letta) non resterà che dividersi tra tutti una quota più o meno simile, qualcosa che potrebbe definirsi un diritto di tribuna. Complessivamente una sorta di monocolore del segretario, destinato tra l’altro a ridurre ai minimi termini la presenza dell’area Pd (Veltroni-Morando) che in questi mesi ha guardato con interesse alla esperienza del governo Monti.
Certo, mancano ancora tre giorni alla riunione della Direzione del Pd che formalizzerà le liste del partito, ma se non dovessero intervenire novità dell’ultima ora, la quasi assenza dell’area liberal Pd in Parlamento potrebbe determinare qualche smottamento, con la possibile uscita di alcuni degli esponenti di punta dell’area Veltroni-Morando e la loro adesione alla Lista Monti, ricongiungendosi con Pietro Ichino. Da questo punto di vista diventa cruciale un convegno organizzato dalla area Liberal di Enrico Morando: il 12 gennaio, ad Orvieto, sarà Mario Monti ad aprirne i lavori con una relazione sui populismi. E ferma restando la decisione di Morando di restare nel Pd (decisione comunicata di persona a Monti), resta da capire cosa decideranno di fare alcuni dei parlamentari di punta di quest’area: il costituzionalista Stefano Ceccanti (in testa a tutte le classifiche di produttività tra i senatori Pd), il professor Salvatore Vassallo, autore dello Statuto che regge il partito, parlamentari come Alessandro Maran.
Diverso l’atteggiamento di Bersani verso Renzi e, a sua volta, del sindaco di Firenze verso il leader del Pd. La lettura dei giornali di un «patto» tra i due non è contestata pubblicamente da Renzi, ma da Firenze trapela una versione meno «buonista»: il sindaco si è contentato di una quota minima di eletti, quasi tutti circoscritti in Toscana, per la semplice ragione che la sua previsione è opposta a quella di Bersani: il quadro complessivo non è destinato a reggere e dunque Renzi pensa di giocarsi il «secondo tempo» della sua partita quando la legislatura dovesse ingarbugliarsi. Si stanno definendo intanto i posti da capolista: nel Lazio le liste Pd dovrebbero essere guidate da Pier Luigi Bersani, che avrà la stessa postazione anche in due regioni-chiave per il Pd, Lombardia e Sicllia. La presidente Rosy Bindi sarà capolista in Calabria (dopo che lei stessa ha rinunciato a correre alle Primarie nella sua Toscana). Altri capolista: Enrico Letta in Veneto, Franceschini in Emilia Romagna, Andrea Orlando in Liguria, Cesare Damiano in Piemonte1, il renziano Ermete Realacci in Umbria, Beppe Fioroni preferirebbe essere secondo, e cedere il primo posto a una donna, nella circoscrizione Lazio2, mentre in Trentino la necessità elettorale di una intesa PdMonti proietta nel ruolo di capolista Giorgio Tonini. Per quanto riguarda l’ex Procuratore antimafia Pietro Grasso dovrebbe guidare le liste Pd nel Lazio, avendo escluso la Sicilia dove il magistrato ha svolto a lungo la sua attività.

La Stampa 5.1.13
Morando: “Capirei le defezioni se il partito facesse scelte punitive”
di Alessandro Barbara


Senatore Morando, ultimamente fra il Pd e Monti volano botte da orbi. Eppure il premier ha deciso di partecipare all’incontro di sabato prossimo a Orvieto di Libertà eguale, l’associazione dei liberal del partito che lei presiede. Affinità elettive? O si tratta del primo passo verso lidi centristi?
«Assolutamente no. L’invito al premier risale all’incontro di un anno fa, allora gli fu impossibile partecipare. Fui io stesso, che avevo auspicato la sua nomina a premier di un possibile governo tecnico, a chiedergli di venire».
Girano voci dell’imminente uscita dal partito di alcuni suoi colleghi di area riformista e veltroniana, esclusi dalle liste del Pd. Che ne pensa?
«Ad oggi mi risulta solo la defezione del mio amico Pietro Ichino. Penso le sue stesse cose in materia di welfare e mercato del lavoro, non condivido e glielo ho detto la decisione di lasciare il Pd. Io di certo non me ne andrò».
E in nome di cosa resta nel Pd? Non crede che le ragioni dell’area riformista siano state messe in un angolo?
«Le primarie fra Renzi e Bersani dimostrano che un partito plurale è più forte: prima di esse i sondaggi ci davano al 30%, ora siamo al 35%. Si combatte per le proprie ragioni dal di dentro».
Renzi alle primarie ha preso il 40% dei consensi, nelle liste le persone vicine alle vostre ragioni avranno al massimo il 10% dei posti. Non sembra che il pluralismo abbia avuto la meglio.
«I consensi a Renzi, che io ho sostenuto, significano che quelle ragioni stanno crescendo fra gli elettori. Ovviamente le liste del Pd devono essere coerenti con quei numeri. Fare il contrario sarebbe autolesionista. Sono convinto che Bersani saprà trovare una soluzione. Abbiamo tempo fino a martedì».
E se, come sembra probabile, le cose non cambieranno?
«Sarebbero numeri punitivi».
E se i suoi amici di area ne prendessero atto e transitassero verso le liste di Monti?
«Abbandonare la nave oggi sarebbe un errore. Ma li capirei».
Perché un errore? Non la mettono a disagio i toni di queste ore da parte di alcuni esponenti del suo partito? Fassina ha detto che la lista Monti sembra un Rotary, Monti gli ha replicato invitando Bersani a zittirlo.
«Non ho condiviso i toni, né dell’uno né dell’altro. Ma io resto convinto che fra noi del Pd e Monti c’è un fondamentale punto di convergenza: pur avendo chiari i limiti delle politiche europee, crediamo entrambi nell’Europa dell’unità fiscale, bancaria e politica, unico baluardo contro ogni populismo, di destra e sinistra».

Repubblica 5.1.13
Pd, battaglia sulle candidature rischia di restare fuori il braccio destro di Renzi
Reggi in bilico. Assalto al “listino Bersani”
di Giovanna Casadio


ROMA — Roberto Reggi, il coordinatore della sfida di Renzi per la premiership, rischia di restare fuori. Era dato per certo nel “listino” dei garantiti, tra i 17 nomi a disposizione del sindaco “rottamatore”. Alle nove di sera, Maurizio Migliavacca ammette che è “in forse”. Fuori è Stefano Ceccanti, costituzionalista, senatore. Lo chiama Walter Veltroni per annunciargli che le possibilità sono scarse, benché non sia stato ricandidato nessuno della commissione Affari costituzionali di Palazzo Madama, e lui rappresenterebbe la continuità. Sono ore i tensioni, trattative, ribellioni: nel Pd si fanno e si disfano le liste e gli elenchi dei capilista. Parte l’assalto al “listino”, che Bersani sta completando e dove ha reclutato anche il numero due di Confcommercio, Luigi Taranto e la filosofa Michela Marzano.
Ma le bordate si sprecano. In quasi tutte le regioni, il Pd riunisce le direzioni, che invitano a mettere in testa di lista i vincitori delle primarie per i parlamentari e a ridurre al minimo i paracadutati. In Sicilia è rivolta: stamani il segretario Giuseppe Lupo sarà a Roma. Per una volta all’unanimità, i democratici siciliani sono sul piede di guerra per gli undici catapultati da Roma. E soprattutto, Lupo contesta la scelta di dare a Giuseppe
Lumia, in lista con Crocetta, il ruolo di capolista al Senato. «Si sta lavorando alacremente, lunedì sera tutto sarà a posto», rassicura il vice segretario Enrico Letta. Letta è anche presidente del “comitatone” elettorale che si è riunito ieri mattina, ma si è concluso con un nulla di fatto. Aggiornato a lunedì. Minniti, Franceschini e Marino hanno chiesto un vertice politico. Alla fine si è deciso che ci sarebbero stati incontri faccia a faccia tra i leader e Bersani, con Migliavacca e Errani. Malumori circolano tra i renziani, soprattutto tra quelli come Andrea Sarubbi, Fausto Recchia che sembrano ormai esclusi, avrebbero dovuto essere nel “listino” non avendo corso alle primarie. Renzi non ha in realtà ancora dato formalmente i nomi dei suoi 17, ricorda che proprio Reggi aveva criticato il “listino”, però è convinto che l’ex sindaco di Piacenza tornare in gioco. Tra i nomi renziani, l’ambientalista Ermete Realacci e Ivan Scalfarotto dovrebbero essere testa di lista. Dei veltroniani, l’unico certo è Giorgio Tonini. Ma ce la farebbero anche i parlamentari uscenti Verini , Martella, Causi. Franceschini ha “blindato” Marina Sereni, Antonello Giacomelli, Francesca Pugliesi.
In Piemonte spunta a sorpresa una capolista che vedrebbe passare al secondo posto l’ex ministro del Lavoro, Cesare Damiano: è la presidente di Confindustria Piemonte Mariella Enoc. Non ha ancora sciolto la riserva. Bersani vuole dare l’immagine del Pd partito plurale, non scompensato a “gauche”, così dando maggiore efficacia alla sfida con Monti. In Puglia dovrebbe essere candidato l’intellettuale Franco Cassano; al Senato Anna Finocchiaro. Molti di quelli che hanno ottenuto ottimi piazzamenti alle primarie (Fassina nel Lazio; Boccia in Puglia) e che erano dati come capilista, sono in testa ma dietro personalità scelte dal segretario. Letta potrebbe guidare la lista democratica non in Veneto (dove Laura Puppato è candidata o al Senato o a Venezia per la Camera) bensì in Campania riequilibrando sul fronte moderato la candidatura dell’ex segretario Cgil, Epifani. Da sciogliere il caso di alcuni recuperi di bocciati alle primarie: la modenese Manuela Ghizzoni e il veneto Marco Stradiotto. I sindaci vicentini hanno rivolto un appello a Bersani per Stradiotto. La mappa-liste è un cantiere.

Corriere 5.1.13
Nencini: primarie delle idee socialiste


ROMA — Il Psi, terzo componente della coalizione di centrosinistra insieme con Partito democratico e Sel, dovrebbe annunciare oggi come si presenterà alle prossime Politiche. L'«auspicio» del segretario Riccardo Nencini è che per la Camera «la sinistra riformista stia insieme»: «Ne stiamo parlando ancora in queste ore con il Pd — spiega — e speriamo di raggiungere un accordo». Se sarà intesa, i candidati socialisti «si aggiungerebbero» a quelli del Pd, ma non si sa ancora come potrebbero essere rappresentati nel simbolo. Per quanto riguarda il Senato, invece, Nencini fa sapere che «ci sarà una lista socialista in molte regioni: per esempio in Campania; e forse nel Lazio». Sempre oggi, il Psi effettuerà anche le sue «primarie delle idee»: «Ci saranno in tutta Italia seicento punti, tra gazebo, circoli e sezioni, dove l'elettore potrà indicare quali sono le priorità di intervento che vuole affidarci in materia di economia, diritti civili, riforme, giovani, giustizia e beni comuni. È importante saperlo per poter legiferare, e anche perché in realtà finora nessuno si è occupato del programma». È stato stampato «un milione di schede — aggiunge Nencini — e saranno al lavoro quasi duemila volontari. Stimo che la partecipazione raggiungerà quota duecentomila. La stessa consultazione è online dall'ultimo dell'anno e ha prodotto 8.500 schede compilate».

Corriere 5.1.13
Ferrando: noi comunisti correremo in tutta Italia


MILANO — «Vogliamo una lista che attui un programma realmente rivoluzionario». Marco Ferrando, 58 anni, portavoce nazionale del Partito Comunista dei Lavoratori e referente italiano del Coordinamento per la Rifondazione della Quarta Internazionale, torna nuovamente in campo. E annuncia che lancerà alle Politiche la lista di Pcl, partito comunista dei lavoratori. «Ci presentiamo quasi ovunque nei collegi del Senato e in larga parte nei collegi della Camera». L'obiettivo? «Rappresentare una sinistra autonoma e anticapitalista. Perché non ne posso più di assistere a una sinistra che sceglie la subordinazione ai liberali (vedi Sel alleata del Pd). Oppure altre sinistre cosiddette radicali, penso a Diliberto e Ferrero, che si rifugiano sotto il colore arancione, facendosi guidare da magistrati come Ingroia, che sponsorizza programmi liberisti. O i grillini, che sono solo populismo». Ferrando, che non è nuovo alle posizioni scomode, spiega anche brevemente il suo programma: «Che mette in discussione l'organizzazione di una società guidata dalle banche. Siamo poi per l'abolizione della modifica dell'articolo 18 e della riforma Fornero. Ma quello che ci distingue è che noi rivendichiamo la nazionalizzazione delle maggiori aziende, sotto il controllo dei lavoratori. Parlo di Fiat, Alcoa e Ilva. Rivendichiamo la nazionalizzazione delle banche. E l'abolizione del concordato con il Vaticano. Naturalmente pensiamo che tutto questo possa essere realizzato solo da un governo di lavoratori. E lavoreremo per questo».

Corriere 5.1.13
L'amnistia nel simbolo di Pannella


ROMA — Sfondo giallo e blu, le dodici stelle dell'Europa, il simbolo della Pace e la Rosa dei radicali. E al centro tre parole: Amnistia, Giustizia e Libertà. Ecco il simbolo della lista di Marco Pannella per le politiche, presentata ieri su Twitter. Una lista «di scopo e di unità democratica riformatrice» a sostegno della madre di tutte le battaglie radicali, quella per la riforma del sistema carcerario e per l'amnistia. Che riceve consensi trasversali: hanno dato la disponibilità a candidarsi don Mazzi, don Gallo, Giorgio Albertazzi, Vittorio Feltri, Luigi Amicone, direttore del settimanale «Tempi». Intanto, dopo il presidente dei Verdi Angelo Bonelli, anche Fausto Bertinotti ha scritto a Napolitano per chiedere di nominare Pannella senatore a vita.

il Fatto 5.1.13
Al Colle. Bertinotti: Pannella senatore a vita


Con una lettera pubblicata ieri dall’Huffigton Post Fausto Bertinotti ha chiesto al Quirinale di nominare Marco Pannella senatore a vita: “Caro Presidente, (...) l’Italia ha perduto una personalità che l’ha interpretata nella sua anima più preziosa, scientifica, culturale e civile insieme, ha perso Rita Levi Montalcini. Era Senatrice della Repubblica, Senatrice a vita. Il nostro Senato ha, ora, un vuoto. Ella, nel suo ultimo, solenne discorso di fine anno agli italiani, ha parlato di una delle tragedie del nostro paese, quella delle carceri: la vita inumana dei carcerati e delle persone che ne hanno cura; lo stato di intollerabile illegalità che le avvolge. Non posso che fare fede all’autenticità della Sua denuncia (...). Signor Presidente, mi lasci dire che non c’è alcuna innocenza invocabile a questo proposito. Siamo tutti colpevoli. Tutti tranne qualcuno. Tra questi qualcuno c’è sicuramente Marco Pannella. Da tempo, Pannella mette in gioco il proprio corpo per salvare, con la vita delle persone in carcere, l’onore della Repubblica (...): nomini Marco Pannella Senatore a vita”.

La Stampa 5.1.13
Primarie tradite, rivolta contro Vendola
Renzo Ulivieri, prima escluso, poi reinserito in lista. I No Tav retrocessi. Polemiche sulla nipote di Ingrao
di Jacopo Iacoboni


Curto Vince le primarie piemontesi di Sel, ma in lista è solo terzo
Lumia Notabile Pd a Palermo, andrà a Roma con una lista Crocetta
Ulivieri Secondo alle primarie Sel, retrocesso, poi di nuovo secondo
Mattioli Ex sindaco di Avigliana, prima delle donne, solo quarta in lista
Molte proteste in Piemonte, in Emilia, in Toscana sui criteri di formazione delle liste Sel.
Gigi Meduri: «C’è lotta anche nel Pd, nessuno vuole esser superato dai paracadutati»
A Bologna protesta per la Boccia mandata da Roma: «Ignorata Amelia Frascaroli»
Ma anche nel Pd diversi territori a rischio polemica

«Le primarie sono come il bambino che si porta all’orecchio la conchiglia per ascoltare il rumore del mare: sono il rumore della vita», scriveva Nichi Vendola ne «La sfida di Nichi»; ma il bambino s’è preso l’otite.
Sarà sicuramente la difficoltà umana di accontentare tutti, ma è sorprendente che proprio Sel per ora, e sottolineate: per ora in qualche circostanza eclatante si faccia burla delle sue stesse primarie. C’è gente che le ha vinte e ora viene inserita in lista in posizioni minori, molto a rischio, preceduta da persone paracadutate, magari degnissime ma imposte dall’alto. Rischio analogo lo denuncia per il Pd una volpe come l’ex sottosegretario Gigi Meduri, «in questo momento c’è una lotta in tutte le regioni, nessuno vuole che quanti hanno fatto le primarie e le hanno vinte, siano superati nelle liste da chi è rimasto al balcone e non le ha fatte».
E allora, prendete il Piemonte, una regione storica della sinistra, dove la Fiom è forte (Vendola è tra i non molti politici che hanno continuato a battere i cancelli di Mirafiori), dove è sentitissima la questione della lotta alla Tav. Ecco, in Piemonte le primarie di Sel le hanno vinte Michele Curto e, tra le donne, Carla Mattioli, ex sindaco di Avigliana, il paese di Fassino: un battitore libero e un’ex democratica fieramente No Tav. Sono stati messi in cima alla lista? Neanche per sogno, gli hanno messo davanti Giorgio Airaudo (e ci sta) ma pure Celeste Costantino, segretaria provinciale di Palermo, non esattamente una candidatura del territorio, il che ha fatto arrabbiare parecchio. Ne è seguita una lettera amara della Mattioli al leader: «Nichi, vanifichi le primarie. Non è che non volete dar voce alla Valsusa? ».
Oppure guardate il balletto su Renzo Ulivieri, vincitore a Firenze, poi estromesso, poi rimesso in lista a sera... Il mister ex di Bologna e Toro secondo alle primarie di Sel, era stato inserito quarto al Senato, dietro l’ex consigliere comunale Pape Diaw, Ida Dominjanni (candidata anche in Calabria), Alessia Petraglia la vincitrice delle primarie. Il problema è che Sel in Toscana al Senato eleggerà al massimo due senatori. Ulivieri era stato segato. Poi ieri sera ha annunciato lui stesso che il partito resosi conto della figuraccia che avrebbe fatto lo aveva rimesso al secondo posto. Del resto uno che è stato comunista nel mondo del calcio la versione allegra di Schopenauer Bagnoli e a un certo punto a Bologna litigò nientemeno con Baggio, può ben litigare con Vendola senza spaventarsi granché.
In Emilia raccontano poi che i capilista saranno Francesco Ferrara, responsabile dell’organizzazione di Sel, e al Senato Maria Luisa Boccia, ex senatrice di Rifondazione, e nipote di Ingrao. In tanti protestano: «Era meglio Amelia Frascaroli». E non è che nel Pd sia tutto tranquillissimo, anche se le liste vengono definite proprio in questo fine settimana. A Palermo c’è polemica attorno alla figura di Beppe Lumia: grande elettore del neogovernatore Crocetta. Il quale farà una lista che sarà apparentata al Pd, e lo vuole candidato. Ira funesta dei dirigenti Pd locali che dicono a Bersani: «Non possiamo accettare che vengano eluse le primarie». E non vogliono undici candidati, al massimo sei, da Roma. A Caserta il paradosso è che, siccome hanno vinto le primarie tre donne e un uomo, per il regolamento sull’alternanza di genere (articolo 6 comma 4) la terza donna rischia di esser estromessa per far passare l’ex segretario provinciale Dario Abbate. Stesso problema a Bologna, dove Sandra Zampa, la portavoce di Prodi, doveva esser tolta a vantaggio di Paolo Bolognesi, presidente dell’associazione vittime della strage di Bologna. Ma ovviamente non si spingeranno a fare questo sgarbo al Professore, vero?

l’Unità 5.1.13
Arancioni. I professori «bocciano» Ingroia
«Il suo progetto è vecchio»
Dopo Revelli via anche anche Gallino e Viale
di Rachele Gonnelli


Con una lettera in prima pagina sul manifesto intitolata «Cambiare si deve ma ancora non si può» una pletora di “professori” hanno dato ieri il loro addio alla lista Rivoluzione civile capitanata da Antonio Ingroia, ancora in partenza dal Guatemala per far ritorno in Italia e accettare fattivamente la sua investitura come candidato-leader della coalizione arancione. Ingroia dovrebbe atterrare lunedì. Ma troverà ora la sua compagine desertificata. Prima si è tolto di mezzo il sociologo torinese Marco Revelli, che era stato incaricato insieme a Chiara Sasso e Livio Pepino di mediare tra i movimenti espressione dell’appello alla mobilitazione Cambiare Si Può e i partitini ex arcobaleno confluiti nella nuova lista, cioè Rifondazione, Pdci, Verdi e Idv. Revelli, rispettando l’esito del referendum telematico con circa 10 mila votanti tra i sottoscrittori dell’appello iniziale che a maggioranza ha deciso di continuare l’esperienza anche senza il passo indietro iniziale chiesto ai partitini e da essi rifiutato, si è sfilato dal tavolo ed è partito per la Spagna. Ora l’esodo è stato ben più massiccio. La lettera di commiato pubblicata dal manifesto è firmata da 27 nomi di personalità, e sono quelle che finora si sono spese di più per mettere in piedi il progetto arancione, da Luciano Gallino, primo firmatario dell’appello Cambiare Si Può, a Ugo Mattei, da Marco Rovelli a Guido Viale passando per Donatella Della Porta, Emilio Chiaberto, Laura Vigni, Attilio Wanderlingh. Niente fa pensare che altri, arrivati a questo punto, non siano disposti a seguirli.
C’è amarezza profonda nella lettera di Cambiare Non Si Può che ricostruisce le aspettative iniziali del progetto «un rinnovamento radicale nel metodo di selezione delle candidature fuori da prassi leaderistiche e verticistiche che rappresentassero una vera alternativa alla casta» e l’intoppo considerato uno snaturamento totale dell’impianto fondativo:
«Il percorso di formazione della lista Ingroia ripropone forme e modalità politiche vecchie, con i candidati più visibili per lo più maschi e calati dall’alto sulla base di accordi tra le segreterie dei quattro partiti». E aggiungono che alcuni di questi partiti fino al giorno prima avevano provato a far parte della coalizione di centrosinistra, che un politico «un capolista» da ministro ha sostenuto il programma Grandi opere, compreso la Tav e ha difeso l’operato delle forze dell’ordine che hanno compiuto i massacri del G8 di Genova, ostacolato «in ogni modo» la ricerca della verità in Parlamento. Difficile non riconoscere nell’identikit il nome di Antonio Di Pietro, che votò contro la commissione d’inchiesta sui fatti del luglio 2001. I firmatari ammettono che qualcuno di loro voterà lo stesso per Ingroia e compagni e auspicano che almeno alcune candidature vengano comunque scelte dalla cittadinanza attiva. Ma il progetto è morto o talmente cambiato da non meritare il loro appoggio. Not in my name, insomma.
Di fronte a tutto ciò disorienta il twitter postato ieri dal Guatemala dall’ex pm Ingroia che esulta «Bravo Milan e forza Boateng!». Quasi più dell’intervista in cui diceva di non temere di superare lo sbarramento perché «i sondaggi ci danno al 5 per cento».

La Stampa: “La Regione Lazio distrugge i documenti
l’Unità 5.1.13
L’ultima di Polverini
14mila euro per 70 tritacarte
La governatrice del Lazio ha fatto approvare alla vigilia di Natale la spesa per distruggere documenti della Regione. E scoppia la bufera
di Marcella Ciarnelli


Non si sa mai. Quelli che verranno dopo di noi magari non sono discreti e decidono di andare a mettere il naso in carte e delibere di un passato recente. Per allontanare l’incubo, per non finire di nuovo nel tritacarne mediatico che ha fatto polpette della giunta Polverini, la presidenza della Regione Lazio ha deciso di autorizzare l’acquisto di settanta distruggi documenti.
Che nessuna delle stanze della giunta regionale ne resti privo. Questo lo slogan dell’Operazione tritacarte fatta in tempi e modi che neanche 007. Pur essendo in regime di ordinaria amministrazione la governatrice uscente Renata Polverini ha ritenuto fosse necessario includere nell’ambito dell’attività della presidenza questo urgente acquisto sulla base delle esigenze degli uffici, si legge nella determinazione numero A13230. Tanto urgente da essere stata approvata il 24 dicembre 2012, il giorno della vigilia di Natale con soli tre giorni di attesa dato che la proposta 27145 porta la data del 21 dicembre.
NON È QUESTIONE DI SPESA
Quando vuole come sa essere veloce la macchina lenta della burocrazia. E reperire subito i fondi dato che i soldi per comprare i settanta tritacarte sono stati subito trovati. Intendiamoci, la somma impegnata è ben diversa da quelle che hanno segnato l’attività degli esponenti regionali in questi anni. Niente a che vedere con la quantità di euro abbinabili all’immagine dei consiglieri Fiorito, passato alle cronache come Batman, o Maruccio. Qui si tratta di 14.144,90 Iva compresa, «da impegnare sul capitolo di spesa S23901 dell’esercizio 2012, che offre la necessaria disponibilità». Non è quindi questione di cifra, perché che Regione è una Regione che non può permettersi un investimento di questa entità per necessari supporti tecnici. Ma è la natura del supporto tecnico che sorprende e fa riflettere. E consente il sospetto che tre mesi non sono evidentemente bastati a fare piazza pulita di carte (Imbarazzanti?) con gli strumenti tecnici a disposizione, neanche a farli funzionare al limite delle potenzialità.
I commenti alla “determinazione” sono arrivati, ovvia, da quella che è ancora opposizione alla Pisana. Ha evocato «Tutti gli uomini del Presidente» il capogruppo Pd alla Regione Lazio, Esterino Montino, anche se nessun Robert Redford si aggira da quelle parti per un’operazione che «è l’esempio illuminante del modo di procedere di questa amministrazione». «Iniziano le pulizie di Pasqua dalla Polverini con qualche mese di anticipo» ha commentato Riccardo Agostini, membro della direzione romana del Partito Democratico anche se forze gli uomini della giunta hanno pensato con grande generosità a produrre coriandoli di Carnevale, festa arriva poco prima del voto. Marco Miccoli, segretario del Pd di Roma, parla di sorprendente delibera «tra il panettone e il torrone» in uno stile «che potremmo definire malfidato e truffaldino».
I PEZZETTI RICOMPOSTI
Non vorremmo dare un brutta notizia al Genio Guastatori della Regione. Ma poco prima della caduta del muro di Berlino i servizi segreti della Repubblica Democratica tedesca, la tragica Stasi, dettero l’ordine di distruggere in modo sistematico i documenti e i dossier. Furono messi insieme 16.000 pacchi in cui c’erano 600 milioni di pezzetti di carta frutto del lavoro di tritacarte che ad un certo punto andarono in tilt e furono sostituiti dalle mani degli agenti. Quei pezzi di carta erano troppi per riuscire a distruggerli. Ora sono in un archivio a Norimberga e, con un sistema informatico elaborato nel 2007, possono essere ricomposti. Certo se E-Puzzler fosse attivato sui documenti della Regione Lazio...A scanso di equivoci meglio comprare settanta distruggi documenti.

Repubblica 5.1.13
Il porcellum e il caos al Senato
di Gianluigi Pellegrino


Atteso che ciò che vale per Bersani non può non valere per gli altri candidati-premier e Monti tra questi, le cui coalizioni sono ben lontane dall’avere la maggioranza, non solo al Senato anche alla Camera. Inutile aggiungere che per Monti è la conseguenza elementare della scelta di salire o scendere in campo, perdendo così, consapevolmente e per sempre, ogni ruolo di super partes che gli era stato assegnato e riconosciuto.
L’uscita di Casini, se zoppica sul versante politico, allo stesso tempo fa leva su uno degli aspetti più assurdi della legge elettorale con la quale stiamo tornando a votare. Al Senato, infatti, il Porcellum si appresta a mostrarci il peggio di sé, perché verrà a sommarsi l’incomprensibilità di un premio di maggioranza su base regionale, con la possibilità di accedervi senza alcuna soglia minima di voti conquistati nella singola regione.
Già il primo punto grida da solo vendetta. I sistemi elettorali si muovono tra Scilla e Cariddi di rappresentanza e governabilità. La rappresentanza è ovviamente l’espressione più pura della democrazia elettiva che si esprime a mezzo del rapporto proporzionale tra voti e seggi. E però il sistema consente correzioni che, se da un lato tradiscono il criterio puramente democratico, dall’altro tendono a garantire la governabilità.
Per questo la correzione è ritenuta costituzionalmente compatibile, pur togliendo seggi a chi li avrebbe dovuti avere (secondo i voti raccolti) e assegnandoli a chi non li avrebbe meritati. Uno “scippo legale” volto ad agevolare la formazione di una maggioranza e un governo possibilmente stabile nell’arco della legislatura.
Ebbene, se questi pacifici princìpi sono chiari, si vede subito quanto assurda e inaccettabile è la previsione del Porcellum che al Senato compie quell’operazione in modo del tutto estemporaneo e su base regionale. Così la coalizione che, per ipotesi, vince alla Camera e anche complessivamente al Senato, si vede in alcune regioni scippati seggi che le spetterebbero sulla base dei voti raccolti in quella stessa regione e che, però, vengono assegnati quale premio di governabilità a chi però non deve governare alcunché, non avendo vinto né alla Camera, né complessivamente al Senato.
Ci saranno quindi molti candidati della coalizione vittoriosa, che si vedranno sottratto il seggio in favore di chi non doveva essere eletto; e ciò in ossequio a un premio di governabilità regalato a una formazione che nessun mandato a governare ha ricevuto perché complessivamente ha perso le elezioni. Così il bizantinismo in teoria maggioritario penalizza proprio la coalizione che ha vinto, indebolendo quella stessa governabilità in favore della quale la correzione dovrebbe operare. Questo è il capolavoro del Porcellum che Casini conosce bene, avendo decisivamente concorso alla sua approvazione.
Ma non basta; perché quest’anno a tale assurdità se ne aggiungerà un’altra dovuta alla iper-frammentazione del quadro politico. E così in regioni decisive come la Lombardia, al singolare premio che, come abbiamo visto, funziona al contrario, si accederà con appena il 28 o il 30% dei voti, per l’incostituzionale assenza nel Porcellum di una soglia, come puntualmente già segnalato dalla Consulta a un Parlamento che non ha voluto sentire. E così l’esito complessivo delle prossime elezioni rischia di dipendere esclusivamente dai decimali di punto tra Pd e Pdl in Lombardia (con entrambi gli schieramenti appena prossimi al 30% di voti in quella regione), dove sono in palio ben 47 seggi senatoriali con un premio di 26. Con l’ulteriore conseguenza che il secondo arrivato dovrà dividersi i resti con una pletora di partiti, partitini.
Ma allora, così come Bersani nelle scelte post elettorali dovrà indubbiamente tener conto se il premio a Montecitorio sarà derivato da un netta affermazione nel corpo elettorale o solo dalle lacune del Porcellum, allo stesso modo al Senato forze responsabili come quelle che Casini dice di rappresentare dovrebbero dare rilievo al dato effettivo dei voti complessivamente raccolti dalle diverse coalizioni, senza troppo speculare su un velenoso colpo di coda della legge-porcata. A meno che non sia proprio il caos ciò a cui si sta lavorando, come allarmante nemesi della stagione di responsabilità nazionale, che pure ogni giorno si rivendica di aver sostenuto. Non resta che augurarsi che la saggezza sia infine nell’elettorato una cui scelta netta e ampiamente maggioritaria, quale essa sia, è forse l’unica in grado di spazzare via i veleni della peggiore legge elettorale che le democrazie occidentali abbiano mai avuto.

Corriere 5.1.13
Le emergenze dimenticate
di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella


Mancano ancora i paragoni con Stalin e Goebbels, Hitler e Pol Pot. Ma siamo solo all'inizio. La campagna elettorale è lunga e da qui al 24 febbraio, avanti così, è probabile possa ulteriormente degenerare. Col recupero delle antiche e infamanti accuse scagliate addosso agli avversari oltre ogni soglia del buon senso e del ridicolo. Esattamente come nelle altre sfide degli ultimi decenni. Marcate tutte da un odio reciproco e calloso capace di abbuiare tutto il resto. O con me o contro di me: fine del dibattito.
Sinceramente: speravamo in qualcosa di diverso. E invece di nuovo e sempre le stesse parole, gli stessi slogan, le stesse battute, gli stessi ammiccamenti agli elettori... Un diluvio televisivo, radiofonico, twitterista che giorno dopo giorno, perfino a dispetto delle persone di buona volontà (e ce ne sono), sta mettendo ai margini tutti i grandi temi sui quali, per un anno, e solo a causa dei nuvoloni neri della crisi, dei timori per i verdetti borsistici, dello spavento per la crescente irritazione dei cittadini, pareva essersi finalmente concentrata la politica.
Ma certo, qua e là un accenno a questo o quel tema viene concesso. Ci mancherebbe. Il minimo del dovuto. Giusto l'indispensabile per rigettare l'accusa di un dibattito tutto autoreferenziale. Ma dov'è finita la centralità drammatica di alcune questioni determinanti per il futuro del Paese? Il tema che per uscire dalla crisi non basta il (necessario) buon senso ma servono come l'ossigeno la creatività, la fantasia, la combattività di tanti ragazzi e tante ragazze che invece si immalinconiscono bussando per anni alle porte dell'università, delle libere professioni, dell'impresa, della politica? Il tema di tagli profondi che non tocchino i servizi essenziali ma costringano l'obesa malabestia burocratica a dimagrire là dove deve dimagrire?
Il tema d'una radicale riforma della rappresentanza politica che spezzi finalmente quei rapporti clientelari usciti indenni o rafforzati perfino da passaggi positivi come le primarie? Delle Province e di una ridefinizione delle competenze che scarti i doppioni e snellisca la macchinosità di ogni scelta? Della guerra alla corruzione in un Paese slittato dal 33º al 72º posto nelle classifiche di Transparency? Della difesa del territorio e insieme del rilancio del turismo, che per il World Travel & Tourism Council rappresenta oggi solo il 3,3% del nostro Pil? Dove sono questi temi che dovrebbero togliere il sonno a chi si propone di guidare il Paese?
Lo ha denunciato lo stesso Napolitano. Ricordando nel suo messaggio i doveri intorno ai quali in troppi sembrano distratti. Far ripartire l'economia e l'occupazione, «cosa quest'ultima di cui perfino poco si parla nei confronti e negli impegni per il governo». Lottare contro la «spudorata» evasione fiscale e «il persistere di privilegi e abusi nella gestione dei ruoli politici e incarichi pubblici». Promuovere maggiore integrazione europea. Valorizzare il patrimonio culturale. Combattere le mafie. Restituire civiltà alle carceri. Riconoscere come cittadini quel mezzo milione di giovani extracomunitari nati in Italia che il rifiuto di metter mano alla legge sullo ius sanguinis rende stranieri nella terra che riconoscono come la loro patria.
Il capo dello Stato ha detto d'augurarsi che le questioni da lui toccate «trovino posto nella competizione elettorale». E già quelle parole «trovino posto» sono la denuncia amara di una campagna troppo concentrata su altro.

l’Unità 5.1.13
Fatah riconquista Gaza Voglia d’unità in Palestina
Mezzo milione di persone inneggiano all’unità nazionale
Il video messaggio di Abu Mazen
di Umberto De Giovannangeli


Cinque anni dopo, la «riconquista» della Striscia. In nome della «riconciliazione nazionale». Centinaia di migliaia di persone mezzo milione per gli organizzatori hanno partecipato ieri a Gaza alla prima manifestazione organizzata da Fatah da quando Hamas ha preso il controllo dell’enclave palestinese, nel giugno 2007.
Un imponente corteo ha concluso una settimana di celebrazioni per festeggiare il 48mo anniversario dell’inizio della lotta armata contro Israele da parte di Fatah, il partito creato nel 1959 da Yasser Arafat. Hamas ha autorizzato i festeggiamenti come segno di riconciliazione nei confronti della fazione rivale, guidata dal presidente dell’Anp, Abu Mazen. Al posto delle consuete bandiere verdi del Movimento di Resistenza Islamico, nell’intera enclave sono apparse quelle gialle di Fatah e il tricolore dell’Anp oltre a numerosi ritratti di Abu Mazen. «Questa folla costituisce un voto a favore dell' Autorità Palestinese, e dimostra che Fatah è ancora in prima linea», ha dichiarato uno dei rappresentanti locali del partito di Abu Mazen, Selim al-Zaraei. «La riuscita della manifestazione è un successo per Fatah, ma anche per Hamas», ha commentato Sami Abu Zouhri, portavoce ufficiale del movimento radicale.
RIPRENDE IL DIALOGO
«L’atmosfera positiva è un passo sulla via del ripristino dell’unità nazionale». Lo stallo nei colloqui di pace con il governo israeliano, e la solidarietà venuta ad Hamas anche dalla Cisgiordania, durante l’offensiva dello Stato ebraico in novembre, hanno contribuito a un riavvicinamento tra le due fazioni. Non a caso, dal Cairo fonti diplomatiche riservate hanno preannunciato che, entro due settimane, i mediatori dell’Egitto intendono invitare delegazioni di Hamas e Fatah per nuove trattative.
Alla folla di Gaza arriva il videomessaggio di Abu Mazen. Il presidente palestinese vede vicina la fine della divisione tra Fatah e Hamas dopo cinque anni. «Presto rinconquisteremo la nostra unità», scandisce Abu Mazen nel video registrato alla Muqata, il quartier generale dell’Anp a Ramallah, Cisgiordania. «La vittoria è vicina e noi ci incontreremo a Gaza nel prossimo futuro», aggiunge il presidente palestinese. «Gaza», ricorda, «fu il primo territorio palestinese ad essersi liberato dall’occupazione israeliana e dagli insediamenti e noi vogliamo la revoca del blocco, così può essere libera e unita al resto della nazione». «Non c’è alternativa all'unità nazionale», insiste Abu Mazen. E ancora: «Abbiamo celebrato una rivoluzione nata per arrivare alla vittoria. E ce la faremo, arriveremo alla vittoria. E Grazie a Dio saremo di nuovo uniti a Gaza, presto ci rincontreremo a Gaza».
IL MESSAGGIO DI HAMAS
Nabil Shaath, dirigente di primo piano di Fatah ed ex ministro degli Esteri dell’Anp, ha fatto sapere che il partito ha ricevuto un messaggio di congratulazioni dal premier di Hamas Ismail Haniyeh, che ha espresso la speranza che le due fazioni possano riconciliarsi e lavorare insieme come rappresentanti congiunti del popolo palestinese. «Questa festa sarà come una celebrazione di matrimonio per la Palestina, per Gerusalemme, i prigionieri, i rifugiati e tutti i palestinesi», rimarca Shaath.
La manifestazione a Gaza City è stata interrotta dagli organizzatori, che hanno cancellato circa metà degli interventi e performance musicali in programma, a seguito di alcuni scontri che hanno provocato 20 feriti. Il portavoce di Fatah, Fayez Abu Etta, ha motivato i feriti con il sovraffollamento all’evento, ma testimoni e funzionari del partito spiegano che in realtà si è trattato di una rissa fra sostenitori di Abu Mazen e altri dell’ex comandante della sicurezza di Fatah a Gaza, Mohammed Dahlan, espulso dal partito proprio a causa dei suoi contrasti con Abu Mazen.
Nella piazza stracolma di gente non molti si sono resi conto dei tafferugli, avvenuti a ridosso del palco. Ma gli organizzatori hanno comunque ritenuto necessario mettere fine anzitempo alla manifestazione ed hanno invitato la folla a defluire.
Negli ultimi tempi, soprattutto dopo gli scontri con Israele dello scorso novembre, i due gruppi si sono lentamente riavvicinati. Il mese scorso Fatah ha permesso ai sostenitori di Hamas di festeggiare l’anniversario della fondazione del movimento in Cisgiordania, e ieri Hamas ha fatto lo stesso.
In un discorso durante una visita a Gaza il mese scorso, il capo dell’ufficio politico di Hamas, Khaled Meshaal, aveva sostenuto che è urgente «la riconciliazione e l’unità nazionale dei capi palestinesi. La Palestina è per tutti noi, siamo alleati in questa nazione. Hamas non può farcela senza Fatah e Fatah non può farcela senza Hamas». Silenzio da Israele.

La Stampa 5.1.13
Al-Fatah ritorna in piazza a Gaza “Siamo un milione”
Dopo sei anni Hamas autorizza il raduno
di Aldo Baquis


La piazza di al-Saraya a Gaza gialla delle bandiere di Fatah sventolate dai sostenitori di Abu Mazen nel 48° anniversario della nascita partito

Dopo sei anni di repressione severa da parte di Hamas, al-Fatah è stato ieri finalmente autorizzato dai dirigenti di Gaza a tornare in piazza per celebrare il 48° anniversario della sua propria fondazione e ha subito mobilitato quasi metà della popolazione della Striscia. «Eravamo un milione», ha esclamato un suo dirigente. Stime più prudenti confermano comunque la cifra di mezzo milione di persone stipate nella centrale piazza alSaraya e nelle strade vicine. Per non perdere l’evento, molti avevano trascorso la nottata all’addiaccio, parcheggiando le automobili nelle vicinanze. Sapendo che le strade erano ingorgate, in migliaia sono giunti da Rafah a Gaza via mare.
L’entusiasmo era alle stelle: i vessilli gialli di al-Fatah – a lungo proibiti da Hamas – erano ovunque, anche sotto forma di palloncini e di bandierine per bambini. Fra le ragazze spopolava una «keffya»-foulard a sfondo giallo: antitesi del verde di Hamas. «Sono scesi in strada non solo i sostenitori di al-Fatah, ma anche quanti per un verso o per un altro sono scontenti di Hamas», ha commentato un analista locale.
Festa grande, ma non completa. Malgrado il clima di prudente riconciliazione fra Hamas ed al-Fatah seguito alla operazione israeliana a Gaza e al riconoscimento della Palestina all’Onu di due mesi fa, Abu Mazen non se l’è sentita ancora di raggiungere la Striscia di Gaza, da dove manca da quando fu espulso nel 2007. Il presidente ha trasmesso alla folla un discorso dal proprio ufficio di Ramallah. Il tono era comunque di carattere conciliatorio verso le altre fazioni palestinesi. Fra gli esponenti caduti per la causa nazionale ha menzionato così non solo Abu Jihad (al-Fatah), ma anche Ahmed Yassin e Abdel Aziz Rantisi: due dei fondatori di Hamas, teorici della lotta armata contro Israele. «La vittoria è vicina – ha promesso Abu Mazen – presto ci incontreremo».
Nel clima di pacificazione nazionale, si sono avute altre gentilezze reciproche: la tv di Hamas, cosa del tutto inedita, ha trasmesso il discorso di Abu Mazen, mentre al-Fatah ha caldamente ringraziato la polizia di Hamas per aver mantenuto l’ordine pubblico durante la manifestazione.

Repubblica 5.1.13
Il regime stravolge un editoriale del Southern Weekly sulle riforme e nel web esplode la rabbia dei cronisti
“Basta censura sulla stampa in Cina” La rivolta dei giornalisti contro il Partito
di Renata Pisu


ANNO nuovo, vecchia censura, hanno scritto i blogger cinesi, non appena si è diffusa la notizia dell’intervento della censura che ha distorto completamente il senso del tradizionale editoriale di auguri di Capodanno del settimanale della
ricca provincia del Guandong, il Southern Weekly.
Considerato il fatto che la Cina si è data da poco un nuovo vertice di dirigenti che avrebbero dovuto mostrarsi al passo con i tempi, nell’articolo di apertura del settimanale si invocavano le tanto attese riforme politiche. E invece, sorpresa, l’editoriale, all’insaputa della redazione, non è stato semplicemente censurato modificando qualche termine poco gradito, ma è stato totalmente stravolto: tanto per fare un esempio là, dove nella versione originale si diceva che il sogno cinese è quello di un sistema costituzionale, si leggeva che il sogno cinese era ormai realizzato grazie ai nuovi leader comunisti del Paese.
Furiosi per questo intervento, sessanta giornalisti del Southern Weekly sono passati immediatamente all’attacco firmando un’aperta protesta, fatto questo di per sé eccezionale visto che modifiche di censura sono in genere accettate previa consultazione tra giornalisti e censori. Ma questa volta i censori hanno agito da soli. Contro il responsabile provinciale dell’Ufficio di Propaganda del partito, Tuo Zhen, sono insorti subito dopo anche trentacinque ex giornalisti dello stesso settimanale i quali hanno rincarato la dose chiedendo le sue immediate dimissioni. «Se la stampa perde credibilità e seguito, come pensano i dirigenti del partito di convincere la gente circa le loro giuste intenzioni? » scrivono gli ex giornalisti nella loro lettera di denuncia di un fatto che, sostengono, non ha precedenti nemmeno nelle ore più buie.
Così, negli ultimi tre giorni, la questione di un editoriale in cui si chiedevano riforme politiche trasformato in una sperticata lode al sempre glorioso grande Partito, ha sollevato una bufera di commenti e di proteste in tutti i media cinesi, così come sul web. Secondo il giornale Global Times direttamente controllato dal Partito, i giornalisti del Southern Weekly sarebbero troppo “romantici”. nel senso che non si rendono conto delle condizioni reali del Paese, e questa azzardata definizione ha scatenato i più salaci commenti dei blogger la cui libertà di espressione è stata di recente, ancora una volta, limitata da misure che ora in Cina vengono definite “anticostituzionali”. Ma i giochi di parole e di doppi sensi sulla Costituzione — i cinesi si riferiscono a quella del 1982 che garantiva l’avvento dello stato di diritto e che era il tema dell’editoriale censurato del Southern Weekly — si sprecano. I romantici si dichiarano tutti “costituzionalisti”, gli innamorati reclamano lo stato di diritto, lo stravolgimento di significati si allarga a macchia d’olio impegnando moltissimi cinesi a sbizzarrirsi in quello che è ormai diventato il loro gioco preferito per parlare di argomenti che il Potere considera “sensibili”. Tuttavia, anche se il controllo politico sui media si è andato rallentando negli ultimi tempi e la stampa e la Tv possono occuparsi di scandali sessuali e indulgere nel gossip più becero, vi sono argomenti che continuano a essere considerati troppo “sensibili”. Sulla scia dell’intervento di censura nei confronti del Southern Weekly, è stato bloccato anche il sito web del giornale Yahuang Chunqiu senza che venisse data alcuna motivazione. Anche quel sito si era occupato di recente delle promesse non mantenute della Costituzione, a quanto pare la questione più “sensibile” oggi in Cina

Repubblica 5.1.13
L’attacco di Péter Esterhàzy censurato dalla radiuo ungherese


BUDAPEST — Ennesimo episodio di autoritarismo nel mondo la cultura ungherese. Dopo le minacce subite dal Nobel Imre Kertész costretto a chiedere asilo all’estero, stavolta a farne le spese è stato lo scrittore magiaro Péter Esterházy, una delle voci più significative della narrativa europea. L’intervento dello scrittore nel corso del programma tenuto abitualmente su Kossuth, una rete radiofonica statale, è stato tagliato dalla registrazione a causa di un paio di frasi critiche nei confronti del governo di Viktor Orbán, già nel mirino dell’Unione Europea per il progressivo spostamento a destra delle sue posizioni. «L’ultima volta che mi accadde di essere censurato», ha dichiarato l’autore di Harmonia Caelestis (edito da Feltrinelli in Italia), «fu nel 1981», quando l’Ungheria si trovava sotto il regime sovietico.

Corriere 5.1.13
Democrazia e donne. Venti giorni di cortei sorprendono l'India
Il Paese in marcia per reclamarne i diritti
di Danilo Taino


Le ultime parole di Amanat, prima di morire a 23 anni, sono state per la madre. «Mi dispiace, mamma». Ha chiesto scusa. Per essere stata violentata, picchiata, gettata per strada come uno straccio usato da una gang di sei uomini. È questo il punto che rende ancora più drammatica la fine di questa studentessa di New Delhi, la capitale della grande India: la cultura dello stupro come normalità dei rapporti, l'abuso percepito come legittimo dagli uomini che lo perpetrano e dalle donne che lo subiscono, la discriminazione contro il sesso femminile che prende la forma di aborti selettivi, educazione negata, vite da schiave. Questa è l'India: una donna violentata ogni 22 minuti. Ma l'India è anche il contrario di questo: oggi è soprattutto il contrario di questo.
Le manifestazioni che si susseguono dal 16 dicembre, la notte della violenza contro Amanat (è uno pseudonimo), sono diventate ogni giorno più massicce e numerose, fino a toccare tutte le maggiori città del Paese. E hanno preso la forma di un vero movimento che ha sorpreso le autorità, la polizia che verso i reati sessuali è spesso tollerante, i politici che della violenza sulle donne non si sono mai occupati. Una mobilitazione come quella delle ultime settimane non sorprende solo e tanto per le dimensioni: i grandi numeri sono la realtà dell'India. È che di solito le masse si muovono per conflitti tra comunità, per partecipare ai rally politici dove vengono regalati sari e riso, per motivi religiosi. La novità straordinaria, questa volta, è stata la nascita spontanea di un movimento con obiettivi di avanzamento civile.
Con toni forti come la richiesta della pena di morte per gli stupratori. Ma con contenuti ancora più forti che chiedono nuove norme a protezione delle donne, che pretendono campagne di educazione fin dalle scuole primarie, che esigono di avere una voce nell'elaborazione di nuove politiche per dare una prospettiva diversa alle donne indiane.
È un movimento che ha sorpreso perché ha rivelato che in India esiste ancora una società civile capace di mobilitarsi per grandi battaglie. Che avverte il governo, tutta la politica, le élite e anche buona parte dei maschi del Paese che i giorni dell'impegno civile non sono finiti 65 anni fa con le marce del Mahatma Gandhi. Ieri, il capo di un movimento nazionalista hindu ha sostenuto che le violenze contro le donne non avvengono nei villaggi ma solo nelle grandi città, corrotte dai valori occidentali. Non solo è ovviamente falso. È soprattutto vero il contrario: questo movimento è forse il primo di una società civile che nasce proprio dall'India che cambia e può farlo solo assieme alle sue donne. Ai milioni di Amanat che chiedono perdono ma non hanno colpe.

La Stampa TuttoLibri 5.1.13
Luciana Castellina
“Dalla politica alla luna ora vivo con Stendhal”
In Russia, scoprendo la “generazione P” (Pepsi­Cola), che dalla droga alla malavita non s’è fatta mancare nulla
di Mirella Serri


«La mia strada verso la cultura non è stata lastricata di libri, nel dopoguerra dipingevo»

Stendhal «Lucien Leuwen» Garzanti pp. XXVIII-702 € 12,32
Emmanuel Carrère «Limonov» Adelphi pp. 356, € 19

Cappottone e sciarpa sono già in valigia, il colbacco Luciana Castellina progetta di acquistarlo in loco, anche se poi scoprirà che attualmente al Circolo Polare Artico è più facile trovare un panama che non un copricapo di tal fatta: la bellissima fondatrice del «Manifesto» è partita in treno per il suo transito più lungo, la Siberia, con libri e bagagli, l’amato tablet e tanti e-book. Quest’avventura in Russia dove per la prima volta era stata nel 1957 («allora non mi capacitavo che Mosca fosse così diversa dal resto del mondo. Poi capii. Non c’era nemmeno un cartellone pubblicitario») la Castellina l’ha descritta nel suo ultimo, delizioso libretto, Siberiana : «E’ la stata la curiosità a spingermi verso questi spazi veramente immensi… Anche se la mia permanenza è stata breve ho cercato di capire quella che Viktor Pelevin chiama la “generazione P” (ovvero PepsiCola) che, dall’alcolismo alla droga, al rapporto con la malavita, in quanto a trasgressioni non si è fatta mancare niente. I ragazzi di San Pietroburgo di Sergej Bolmat mi ha illuminato sull’inclinazione per la violenza fine a se stessa e Zachar Prilepin, con Patologie, mi ha fatto scoprire l’impatto della guerra in Cecenia. Quando sono rientrata a Roma, ho preso in mano la bellissima biografia di Emmanuel Carrère dedicata a Limonov, idolo dell’underground sovietico, clochard e capo carismatico di un partito di giovani barbudos y desperados. Per questo viaggio ho voluto anche ripercorrere le tappe della rivoluzione d’ottobre: mi ha aiutato la Storia della rivoluzione russa 1917-1921 di William Henry Chamberlin, un vecchio volume di mio padre». Era ricca la biblioteca di fami­ glia? «Dipende da quale famiglia. Io di papà ne ho avuti due, quello naturale e il secondo marito di mia madre. Con entrambi ho avuto un ottimo rapporto: il primo non era dedito alla lettura e il secondo era un bibliofilo che si faceva consegnare a casa casse di tomi freschi di stampa. Però la mia strada verso la cultura non è stata lastricata di libri».
Di cosa allora? «Nel dopoguerra dipingevo e la mia fonte intellettuale erano le mostre che mi facevano scoprire Picasso, il surrealismo, la Scuola romana e, sempre tramite le esposizioni d’arte, l’antifascismo e la Resistenza. Frequentavo il famoso Tasso, avevo come compagni Citto Maselli, Sandro Curzi, Lietta Tornabuoni. Erano colti, intelligenti, comunisti, dirigevano il circolo del Liceo classico: timidissima decisi di fare il mio esordio con una conferenza sul cubismo e me la cavai in maniera egregia. Per fare propaganda imparavo a memoria slogan oscuri di cui capivo a malapena il significato».
Quali? «Si iniziò la campagna per la riforma scolastica e gridavamo ai quattro venti che “bisognava liberare la scuola dai canoni crociani”. Che voleva dire? Quella oscura dizione mi risuona ancora nelle orecchie… Poi però lessi il libro di Nello Rosselli su Carlo Pisacane e capii che si poteva fare la storia del Risorgimento senza essere seguaci di don Benedetto». Il cinema? Non è stato un altro ca­posaldo della sua formazione? «Da ragazza, a Verona, frequentavo il Cineguf dove proiettavano anche film piuttosto belli e non allineati con il regime; nel dopoguerra passai ai Cineclub. Ad aprirmi gli occhi su quella che doveva essere la vocazione più moderna degli artisti fu Toti Scialoja sulla rivista Mercurio di Alba de Céspedes in cui teorizzava l’impegno e l’arruolamento in politica degli intellettuali. Mentre a introdurmi alla cultura degli Stati Uniti, Americana , fu la bellissima antologia di autori d’oltreoceano di Vittorini». Quando andò a dirigere la rivi­ sta «Nuova generazione» a lei passò il testimone, ovvero il compito di stimolare i ventenni comunisti alla lettura. «La mia vita si complicò: frequenti erano gli scontri con Mario Alicata che, per esempio, detestava gli articoli di Alberto Asor Rosa che io pubblicavo volentieri. Non apprezzò nemmeno il battage in favore di Pasolini e dei suoi Ragazzi di Vita ». Finalmente arrivarono gli anni Sessanta. «Finalmente. Un decennio sorprendente. Si potevano incontrare personaggi del calibro di Andrè Gorz e Perry Anderson della New Left Review, gli autori prediletti dal movimento studentesco, Marcuse e Chomsky. Con la fine di questo decennio dorato mi immersi in una dura corvéé».
Cosa accadde? «Con la nascita del giornale Il Manifesto era tutta una corsa contro il tempo, il quotidiano doveva chiudere alle 17, veniva caricato su un pulmino scassato e portato a Milano per essere distribuito nel Nord. In quegli anni era difficile dedicarsi ai libri. Frequentavo le periferie, le borgate, i cancelli di Mirafiori. Prima ancora quando avevo incontrato Alfredo Reichlin, il mio futuro marito, mi era sembrato che lui appartenesse a un universo a me sconosciuto. Era un giornalista dell’Unità e aveva occasione di frequentare ambienti culturali a cui io non avevo tempo di dedicarmi». Piazza del Popolo, il bar Rosati, le soste notturne di scrittori, re­ gisti, pittori, da Moravia a Felli­ ni a Schifano, era la fucina del­ l’intellighentia italiana. Parteci­pava? «Macché. Io mi occupavo di sindacato. Loro erano veramente la luna. Adesso sono sbarcata anch’io su quel pianeta e mi godo, direbbe Proust, il tempo ritrovato, mi dedico, incredibile ma vero, alla passione d’amore, da Lucien Leuwen di Stendhal ad Anna Karenina . Ho cominciato a leggere su questo argomento per una conferenza e non ho più smesso» .

Repubblica 5.1.13
Quella guerra vita dall’industria americana
“Freedom’s Forge” è un saggio sul ruolo cruciale degli imprenditori nel 1945
di Lucio Villari


La caduta degli dèi della grande industria bellica tedesca cominciò pochi giorni prima del suicidio di Hitler. Era l’aprile del 1945 e la figura più emblematica di quel mondo di dèi e della potenza militare e industriale della Germania, Alfried Krupp, fu arrestato mentre giocava a carte nella sua Villa Hugel, vicino a Essen. Due ufficiali americani su una jeep, percorso il lungo viale, si fecero annunciare dal maggiordomo. Krupp apparve sulle scale «con un cappello alla Anthony Eden e un abito da passeggio di ottimo taglio», ma i due ufficiali non si fecero impressionare. Uno dei due americani, il capitano Benjamin Westerveld raccontò poi al SundayExpress: «Lo presi per la collottola e lo ficcai nella jeep».
Forse l’arresto fu meno rude, ma Krupp sarà processato a Norimberga tra l’agosto del 1947 e il luglio 1948 insieme con altri undici dirigenti della sua industria nella stessa aula dove si era svolto nel 1946 il processo ai gerarchi nazisti. Alla Krupp furono attribuiti delitti contro la pace, delitti di guerra e contro l’umanità, il saccheggio dei paesi occupati e l’impiego di manodopera coatta, la partecipazione a un piano comune, con il regime e con le altre industrie, per commettere tali delitti. Nella requisitoria finale il generale Telford Taylor concludeva così: «La tradizione della Krupp e il comportamento sociale e politico che rappresentava si attagliava perfettamente al clima morale del Terzo Reich». In poche parole era detto tutto. Krupp fu condannato a dodici anni di reclusione.
Ben altro il clima morale e altri i comportamenti sociali e politici dei capitani d’industria che negli Stati Uniti affrontarono la forza e l’organizzazione bellica tedesca costruendo in appena due anni un potenziale economico, tecnico, finanziario, umano di tali proporzioni da salvare i paesi che in Europa resistevano all’apparato militare tedesco che aveva raggiunto il massimo della perfezione. Forse non è retorico ricordare che gli aerei, le navi, i carri armati, le armi di ogni tipo che gli Stati Uniti produssero e rovesciarono sui fronti di battaglia dell’Europa, dell’Africa e dell’Asia avevano una intenzione ideologica e un senso reale: la libertà. Tranne che nell’oggetto finale, la bomba atomica, che conteneva messaggi politici già modificati.
Tra il 1940 e il 1945, le officine, gli altiforni, le miniere, le sorgenti di energia, le industrie di ogni genere e istituti di ricerca di fisica e matematica e di nuove materie prime, con stuoli di ingegneri, tecnici, manager, economisti (compresi tutti i premi Nobel disponibili), e la mobilitazione di donne (nell’industria bellica ne furono impiegate circa 5 milioni), di artisti del cinema e del teatro, di scrittori, musicisti, giornalisti furono la parte attiva e viva di una coscienza nazionale.
Gli anni decisivi per la costruzione delle basi di tutto il sistema furono il 1942-43 e vi fu un costo notevole di vite umane tra i lavoratori americani. Forse è difficile avere dati di tutti gli anni di guerra, ma soltanto in quel biennio il numero di uomini e donne, morti o feriti per incidenti sul lavoro o per malattie varie e stress fu superiore ai caduti e feriti in guerra in rapporto venti a uno. Erano lavoratori che impiegavano le loro risorse intellettuali e fisiche con determinazione e impegno anche, pensiamo, per dimenticare il tempo della grande depressione del 1929.
Fu questa la differenza essenziale tra i due contrapposti arsenali bellici. E dei suoi contrappunti sociali, culturali e di psicologia di massa riferiti agli Stati Uniti parla la recente ricerca dello storico americano Arthur Herman, Freedom’s Forge, Random House. Il libro ha il sottotitolo “How American Business produced Victory in World War II”. E infatti il Business degli armamenti americani fu impersonato da due uomini il cui nome non è passato alla storia come quello dei Krupp o Thyssen in Germania né di altre figure-simbolo del capitalismo industriale e finanziario americano (come Ford, Rockefeller, Morgan, eccetera) ma che va ricordato perché alla loro capacità di pianificazione e di organizzazione si deve la straordinaria e veloce trasformazione di una grande economia di pace, ancora sofferente per le conseguenze della crisi del 1929, in una potente macchina bellica. Furono il magnate dell’automobile William Knudsen e l’armatore navale Henry J.Kaiser. Il primo era un immigrato danese, presidente della General Motors fino al 1940 quando Roosevelt lo chiamò a dirigere la produzione industriale per l’esercito degli Stati Uniti. Sono belle le pagine dedicate da Herman all’incontro di Knudsen con Roosevelt alla Casa Bianca. Si chiarisce in quel colloquio il principio nuovo di una “democrazia capitalistica”, di un’economia come parte essenziale e solidale di una società autenticamente libera e ispirata alla giustizia sociale.
Henry Kaiser fu la chiave di volta delle costruzioni navali e del trasferimento di milioni di soldati e di mezzi dagli Stati Uniti in tutti gli altri continenti sia con le potenti navi da guerra sia con le famose navi Liberty, compresi gli sbarchi cruenti in Africa del Nord, Sicilia, Normandia, Baltico, isole del Pacifico occupate dai giapponesi. Questi due grandi manager produssero i due terzi di tutto l’equipaggiamento militare alleato impegnato nella guerra.
Herman ricostruisce minuziosamente la storia di questi due terzi, dell’impegno di milioni di civili americani, dell’apporto potente degli operai, dei sindacati e di tutti gli organismi produttivi necessari alla costruzione del rooseveltiano “arsenale della democrazia”. Qualche cifra può darne l’idea: 86 mila carri armati, mezzo milione di jeeps, 2 milioni e mezzo di carri ferroviari, 286 mila aerei, 8800 navi da guerra e 5600 navi mercantili, 434 milioni di tonnellate di acciaio, 2 milioni e seicentomila cannoni e fucili, miliardi di proiettili per concludere con armi decisive come le fortezze volanti B29 fino alla bomba atomica. Queste e altre cifre attraversano il groviglio per nulla inestricabile della storia americana tra il 1940 e il 1945, fatta non solo di febbrile attività industriale ma di passione, di intelligenza creativa, del sentimento condiviso di combattere per ideali che congiungevano le sorti, le tradizioni, i progetti futuri degli Stati Uniti con il destino e la sopravvivenza nella libertà e nella democrazia del resto del mondo, a cominciare dalla comune Madre,l’Europa.
L’Italia - che dichiarò guerra agli Stati Uniti pochi giorni dopo Pearl Harbor – è citata nel volume, soltanto per ricordare che nel 1943 la sola «Ford Motor Company would produce more war material than the entire economy of Mussolini’s Italy».

Repubblica 5.1.13
Francesco Saverio Borrelli
“Non esistono i sacerdoti della Legge ogni sentenza ha bisogno di sentimento”
L’ex magistrato spiega come non ci siano mai applicazioni asettiche e meccaniche del diritto
Perché ognuno porta con sé il proprio bagaglio culturale, morale e cognitivo
intervista di Franco Marcoaldi


Tra le molteplici accezioni della parola “giudizio”, una crea particolare allarme: quando viene associata alle aule di tribunale. È allora che “l’arte di giudicare” diventa più delicata che mai. Se per dibattere tale questione ho scelto come interlocutore Francesco Saverio Borrelli, non è tanto per i suoi trascorsi in qualità di capo del pool Mani Pulite, quanto per la grande perspicacia, giuridica e non solo, e per una capacità di ascolto che si va facendo sempre più preziosa. Conversando con lui, qualche mese fa, vengo a sapere il titolo (bellissimo) della sua tesi di laurea, “Sentimento e sentenza”, che nella giustapposizione di due termini almeno in apparenza antitetici, ci offre il giusto avvio per intavolare questa nostra discussione. Il cui cuore sintetizzerei così: il giudice è soltanto un sacerdote passivo della Legge o quando emette una sentenza ci mette inevitabilmente del suo?
«Dire che la sentenza dei giudici è un’esecuzione asettica e meccanica non ha nessun senso. Dire che è frutto di un processo creativo, è altrettanto sciocco e pericoloso: la scuola del diritto libero è fiorita non a caso ai tempi di Hitler. La mia tesi intendeva sollevare questo problema e cercare un punto di equilibrio ragionevole, secondo un’angolazione che allora non era di moda. Mi rendo conto che può risultare un tantino provocatorio l’accostamento dei due termini, “sentimento” e “sentenza”, che, pur provenendo da una origine linguistica comune, il verbo sentire, nell’uso indicano due referenti divaricati: il primo, connotato da un’aura emotiva, intuitiva, irrazionale o pre-razionale; il secondo, connotato da severità, rigore logico, autorevolezza o autorità».
Relatore della tesi era Piero Calamandrei.
«Sì, fu lui, ex costituente e professore di procedura civile, a propormi quel binomio, con un’intenzione particolare: indagare sulla percezione istintiva giusto/ingiusto, ragione/torto, con cui viene recepita l’esposizione di una vicenda controversa, ancor prima di averla sottoposta ad analisi con gli strumenti del caso. Così impostato, il tema mi sembrava richiamare questioni tipiche del giusnaturalismo. Ma io preferii svicolare da quella traccia e puntare sulla critica dell’insegnamento tradizionale, permeato di un certo bigottismo montesquieano e illuministico, secondo cui la sentenza sarebbe assimilabile al sillogismo categorico degli Analitici Primi di Aristotele: premessa maggiore (la norma di legge), premessa minore (il fatto), conclusione (applicazione della norma al fatto)».
Insomma: esiste una norma, esiste una procedura mentale millenaria e consolidata… Si fa convergere l’una sull’altra e il gioco è fatto.
«Per smontare questo insegnamento tradizionale, che immiseriva in una sorta di operazione aritmetica l’attività del giudice, dovetti partire da una nozione di sentimento comprensiva di tutto ciò che è il sentire del giudice, in quanto tale, e prima ancora in quanto uomo provvisto di una propria formazione mentale, di un proprio bagaglio culturale, di una propria esperienza di vita e di un insieme di filtri cognitivi e morali più o meno congruenti con il clima storico-ideologico nel quale vive. Tutti fattori che non possono non condizionare la sua lettura della legge, la percezione del fatto e delle fonti testimoniali».
Se ho ben capito, ogni giudizio va storicizzato. E in qualche misura, addirittura personalizzato.
«Non foss’altro perché il linguaggio della legge, delle leggi, rimanda all’universo linguistico extragiuridico circostante.
Ne discende che lo schema sillogistico esposto in precedenza non regge, se non come scheletro di un’operatività mentale in realtà molto più complessa, che vede il giudice-interprete mettere in causa tutto se stesso e tutta la propria cultura, giuridica e profana, per stabilire il contatto tra una fattispecie concreta e una fattispecie astratta su cui commisurarla».
I maligni, a questo punto, parlerebbero del rischio di politicizzazione della giustizia.
«Quanto ho detto serve semmai a prendere consapevolezza che l’individuo-interprete non può essere trasceso, che il fare giustizia rientra inevitabilmente nella dimensione del policy making.
Ma l’onestà intellettuale e la fedeltà al mandato vietano al giudice di enfatizzare questa inevitabilità e di stravolgere l’interpretazione, strumentalizzandola a finalità di deliberato indirizzo politico. Riconoscere una dimensione intrinsecamente politica al provvedimento del giudice, non significa affatto che il giudice sia autorizzato a proiettare la propria ideologia nella decisione che deve prendere».
Nel film di Sidney Lumet, Il verdetto, l’avvocato (Paul Newman) rivolge alla giuria una domanda: come si fa ad emettere un verdetto imparziale senza che l’imparzialità si trasformi in indifferenza? È una domanda abituale per un giudice?
«Il lavoro del giudice, a tratti, può diventare tormentoso. Perché bisogna imparare a leggere, prima che nella legge, dentro se stessi. E chiedersi perché ci si sta orientando in un determinato modo. Dunque bisogna fare pulizia di tutti quegli elementi che potrebbero risultare distorsivi nella decisione che si va assumendo. A volte si ha la sensazione di procedere lungo un sentiero in cresta, dove si rischia a ogni passo di scivolare da una parte o dall’altra, verso il pigro burocratismo o verso una creatività sleale. Ma tutto questo riguarda poi soltanto i magistrati? O non è croce e delizia di tutti i lavori in cui si devono formulare giudizi?».
La mia domanda può essere anche rovesciata: come evitare che la presenza del sentimento tracimi nella sentenza, e dunque la sentenza si trasformi in vendetta?
«Questo è un punto molto delicato. Perché il rischio di un coinvolgimento emotivo a favore delle parti lese, o negativo verso l’imputato, può effettivamente trovare acquietamento nella sdegnata applicazione della punizione, nell’esclusione temporanea o perenne del reo dalla trama della società, insomma nell’esercizio della vendetta che la collettività vuole quando invoca giustizia e che l’ordinamento esegue incarcerando il colpevole».
Simone Weil sosteneva che abbiamo perso la nozione di castigo. «Non sappiamo più che esso consiste nel fornire del bene. Per noi si limita a infliggere del male ».
«Il carcere è la punizione per antonomasia. Perché la punizione, perché il carcere? Per ristabilire l’ordine violato, risponde la scuola classica. Per difendere la collettività, risponde la scuola positiva. Per prevenire, con la privazione della libertà, la violazione dell’ordine. Per rieducare il condannato, soggiunge la Costituzione. Tolta la teoria classica, che copre con un simbolismo di maniera l’istanza vendicativa, senza spiegare come possa l’inflizione di una sofferenza compensare idealmente il male perpetrato, e concesso il debito spazio al precetto costituzionale della rieducazione del condannato, ciascuna delle altre risposte dà solo parziale soddisfazione all’interrogativo. Per certo nessuna può essere assolutizzata, nemmeno quella basata sulla teoria della controspinta del grande Gian Domenico Romagnosi. L’autore del delitto, prima di risolversi a farlo, compirebbe una sorta di calcolo mentale, valutando i pro e i contro della sua azione alla luce della pena comminata. Ma è una teoria irrealistica se riferita a certe forme particolarmente gravi e cruente di delinquenza (delitti d’impeto, passionali, legati alla marginalità sociale), mentre può funzionare come efficace dissuasore in caso di devianze minori. Solo che a quel punto la pesantezza della sanzione dovrebbe essere inversamente proporzionale alla gravità dell’infrazione, il che è francamente inaccettabile».
E dunque?
«Dunque il sistema punitivo andrebbe ripensato ab imis con un più puntuale adattamento delle possibili reazioni dell’ordinamento alle varie forme di criminalità. Se occorre, anche sfidando l’opinione pubblica e le aspettative popolari di cosiddetta giustizia. Adattare le modalità della difesa sociale alla sensibilità umana propria di una civiltà avanzata, non significa aprire i cancelli delle carceri a tutti i condannati e dare via libera alla criminalità. Semmai significa disegnarle e dimensionarle e applicarle tenendo presenti le finalità a cui è ragionevole mirare. Significa, per le istituzioni, prendersi cura del soggetto deviante non meno che della collettività che ha subito l’offesa».

Repubblica 5.1.13
L’overdose tecnologica che ci cambia il cervello
di Maurizio Ferraris


OGGI la differenza culturale sopravvive nelle prese elettriche delle diverse zone del mondo, che ci costringono a munirci di curiosi adattatori prima di partire. Una volta superato questo ostacolo e ricaricato il nostro computer o tablet o telefonino, ci troviamo di fronte al più grande standard che mai l’umanità abbia conosciuto, ossia il web, l’anti-Babele per eccellenza.
PRIMA di preoccuparci della minaccia di un pensiero unico dovremmo considerare che con la standardizzazione del web abbiamo a che fare con una delle più grandi realizzazioni dell’umanità, in cui convergono due aspetti.
Il primo è che il pensiero ha al proprio interno un principio di universalizzazione, visto che l’uomo è un animale sociale, anche se non necessariamente socievole.
Dopotutto non è un caso se “idiota” indica originariamente chi vive per conto suo. Il secondo è che, tra tutti i sistemi di universalizzazione, il più potente è proprio quello che ci viene dalla tecnica. E che la tecnica delle tecniche, quella che non per caso trionfa nel web, è la scrittura, che intrattiene un legame particolarissimo con il pensiero, a cui fornisce non solo sostanza ma forma.
Quando si dice che un pensiero è “lineare” gli si fa un complimento, quando si dice che è “tortuoso” lo si critica. Bene, la “linearità” allude
proprio al modo in cui si organizza la scrittura. In Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola (un libro di 30 anni fa, tradotto dal Mulino) Walter J. Ong ha mostrato che la
scrittura rende il pensiero più astratto, più analitico, meno ridondante. E Rousseau diceva che prima dell’invenzione della scrittura il tempo passava ma l’umanità restava bambina. Senza scrittura, banalmente, non ci sarebbe scienza, e ogni generazione dovrebbe più o meno inventare le stesse cose.
Ci sono dei rischi? Indubbiamente sì. Ma sono gli stessi che si paventano a ogni svolta tecnologica. Se davvero la tv avesse avuto gli effetti nefasti che gli attribuivano gli
educatori degli anni ‘60 (a partire dalla minaccia di un immane analfabetismo di ritorno), il fatto che qualcuno in questo momento stia leggendo questo giornale avrebbe del miracoloso. E buona parte delle accuse che vengono rivolte alle tecnologie informatiche, dal depotenziamento della memoria alla perdita dell’interiorità, sono identiche alle accuse che il faraone Thamus rivolge contro la scrittura nel
Fedro di Platone. Ce l’abbiamo fatta allora, ce la faremo anche adesso.

Repubblica 5.1.13
La prova divina
La matematica ci riprova “Ecco perché Dio esiste”
di Piergiorgio Odifreddi


Un manoscritto di settanta pagine fatto da Harvey Friedman perfeziona l’opera di Gödel sul tema Ed entra in lizza per i grandi premi in questo campo

«DIO esiste, perché la matematica non è contraddittoria. E il diavolo esiste, perché non possiamo dimostrarlo», diceva il grande matematico André Weil. Ora un manoscritto di 70 pagine, datato 25 dicembre 2012 e intitolato Una dimostrazione divina della consistenza della matematica, prova una delle ossessioni della storia della logica.
Mostra infatti nei dettagli come, partendo dall’ipotesi dell’esistenza di Dio, si può dimostrare che la matematica non è contraddittoria. Forse, dunque, Dio c’è, ma il diavolo no. L’autore del manoscritto è Harvey Friedman, uno dei logici matematici più famosi, originali e prolifici. Da enfant prodige prese un dottorato in matematica al Massachusetts Institute of Technology all’età di soli diciott’anni. Dopo essere stato immediatamente assunto dall’Università di Stanford, entrò nel Guinness dei Primati come il più giovane professore universitario della storia. In seguito ha insegnato matematica, filosofia e musica, essendo un ottimo pianista. Ed è andato a un soffio dal vincere nel 1986 la medaglia Fields: un onore che, finora, non ha arriso a nessun logico matematico, e che quell’anno andò per uno scherzo del destino al suo quasi omonimo Michael Freedman.
Non si tratta, dunque, di un crackpot, come molti svitati che provano a combinare fra loro teologia e matematica. E non era un crackpot neppure Kurt Gödel, il logico più famoso del Novecento, autore nel 1931 di un teorema sull’impossibilità di dimostrare la consistenza di un sistema matematico all’interno del sistema stesso: teorema che diede appunto a Weil lo spunto per la seconda parte del suo aforisma. E fu lo stesso Gödel a dimostrare nel 1941, e in una forma rimaneggiata nel 1970, un teorema sull’esistenza di Dio, che ha ora dato lo spunto alla dimostrazione di consistenza di Friedman relativa alla prima parte dell’aforisma.
Per capire di cosa stiamo parlando, dobbiamo fare un passo indietro di qualche anno: approssimativamente, un migliaio, e per la precisione, 935. Fu infatti nel 1077 che Anselmo d’Aosta inventò la cosiddetta “dimostrazione ontologica” dell’esistenza di Dio, che nella versione di Cartesio nel Discorso sul metodo, del 1637, si riduce al seguente giochetto. Definiamo Dio come l’essere perfettissimo, alla maniera del Catechismo. Poiché l’esistenza è una perfezione, Dio avrà pure quella. Dunque, esiste.
Nel breve saggio del 1676 Sull’esistenza dell’essere perfettissimo, Leibniz obiettò che Anselmo e Cartesio se l’erano cavata un po’ troppo a buon mercato. Prima di poter dedurre l’esistenza di qualcosa da un ragionamento, infatti, bisogna almeno dimostrare che quel qualcosa è possibile. Nel caso di Dio, definito come essere perfettissimo, bisogna dunque dimostrare che è possibile che qualcuno abbia tutte le perfezioni. E la dimostrazione che Leibniz propose è che, essendo le perfezioni compatibili due a due, allora si possono considerare una dietro l’altra, dimostrando alla fine la compatibilità di tutte.
Quando Gödel vide questa supposta dimostrazione, gli si drizzarono i capelli. In matematica e in logica, infatti, non basta che certe proprietà siano compatibili fra loro due a due, affinché lo siano tutte insieme! Ad esempio, ci sono numeri maggiori di qualunque coppia di interi, ma questo non significa affatto che ci siano numeri maggiori di tutti gli interi.
Gödel decise di vedere se si poteva in qualche modo rimediare all’errore di Leibniz. Sostituì anzitutto le imprecise “perfezioni” di Cartesio con precise “proprietà positive”, definite in analogia con la positività dei numeri, appunto. In particolare, postulò che le proprietà positive avessero le caratteristiche logiche corrispondenti a questi ovvi fatti aritmetici: primo, il prodotto di due numeri positivi è positivo; secondo, lo zero non è un numero positivo; terzo, dato un numero diverso da zero, o lui o il suo opposto sono positivi; e quarto, un numero maggiore di un numero positivo è anch’esso positivo. Insiemi di proprietà aventi queste caratteristiche sono ben noti in logica e in matematica, e si chiamano “ultrafiltri”.
Gödel definì Dio come un “essere positivissimo”, cioè avente tutte le proprietà positive. E dimostrò facilmente che, nel caso di un universo finito, Dio esiste e ha esattamente tutte e sole le proprietà positive. Il caso di un universo infinito è più complicato, ma Gödel dimostrò che anche in quel caso Dio esiste, purché si faccia un’ipotesi aggiuntiva: che “essere Dio” sia anch’essa una proprietà positiva.
L’ipotesi è controversa, naturalmente, visto che un seguace della teologia negativa, o un ateo, potrebbero pensare esattamente il contrario. Ma, soprattutto, l’ipotesi aggiuntiva rende banale la dimostrazione, perché equivale a dire che le proprietà positive sono appunto tutte compatibili fra loro: dunque, è solo un modo mascherato di postulare che l’essere perfettissimo esiste.
Fin qui Gödel, di cui si possono trovare l’articolo originale, e una serie di spiegazioni e commenti, nel libretto La prova matematica dell’esistenza di Dio curato da Gabriele Lolli e me, pubblicato dalla Bollati Boringhieri nel 2006. Di qui in poi Friedman, che come egli stesso ricorda nell’introduzione del suo lavoro, in quello stesso 2006 partecipò, nel centenario della nascita di Gödel, al grande convegno di Vienna Orizzonti della verità,
sponsorizzato tra gli altri dalla Fondazione Templeton: la stessa che assegna ogni anno l’omonimo premio per «il progresso verso la ricerca o la scoperta di realtà spirituali ».
A quel convegno Peter Hajek ed io tenemmo due conferenze sulla dimostrazione di Gödel dell’esistenza di Dio, e Friedman ricorda di «aver trovato particolarmente sorprendente l’uso delle proprietà positive», sia per le implicazioni etiche della parola “positivo”, che per la connessione matematica con gli ultrafiltri. Questi ultimi, infatti, se hanno certe particolari proprietà (ad esempio, se sono “numerabilmente completi”), permettono dimostrazioni di consistenza di sistemi formali anche molto forti, come quelli usati normalmente nella teoria degli insiemi (ad esempio, il sistema ZFC di Zermelo e Fraenkel, con l’assioma di scelta).
Il problema era che l’ultrafiltro usato da Gödel, come si è detto, è banale. Si trattava dunque di trovarne uno che fosse teologicamente rilevante come quello, ma allo stesso tempo matematicamente non banale, in modo da permettere una dimostrazione di consistenza. Il modo per farlo (che è troppo complesso per essere riassunto qui) venne a Friedman al congresso di Heidelberg su Il dialogo tra scienza e religione: passato e futuro dello scorso ottobre, in onore del centenario della nascita di John Templeton.
Con il suo risultato, egli diventa ora un naturale candidato per il premio Templeton, che è per statuto più ricco del premio Nobel: un milione e centomila sterline! La cosa non cambierà molto il suo conto in banca, visto che suo padre morendo lasciò dieci milioni di dollari a ciascuno dei tre fratelli. Ma poiché Friedman ha tenuto per trentacinque anni una cattedra nell’Ohio, quando poteva averne dovunque, perché gli offriva la possibilità di essere il matematico più pagato d’America, si può forse pensare che la sua ricerca abbia comprensibilmente avuto anche qualche motivazione terrena, oltre ovviamente a quelle celesti.

Harvey Friedman è nato nel 1948; insegna logica matematica alla Ohio State University di Columbus, Ohio

Corriere 5.1.12
Sul lettino con lo smartphone L'app per ricordarsi i sogni
La (controversa) terapia 2.0: webcam e sedute a distanza
di Marta Serafini


«Dottore ho fatto un sogno. Me lo sono scritto sullo smartphone, aspetti che glielo leggo». Freud è morto molto tempo prima che Steve Jobs inventasse l'iPhone e probabilmente sarebbe inorridito davanti a una scena simile. Avrebbe cacciato un urlo, strappato il telefonino dalle mani dal paziente e lo avrebbe gettato dalla finestra imprecando contro la mela del peccato. Ma non c'è verso. La tecnologia sta contagiando anche la psicoanalisi: trovarsi sul lettino con il telefono in mano o con il terapeuta che prende appunti sul tablet non è più così insolito.
Basta un giro sull'app store per rendersene conto. Già, perché lì tra Angry Birds, le ricette di Nigella Lawson e l'ultima versione di WhatsApp si trovano anche applicazioni come Dreambord. Facilissima da usare, con tanto di time line e sveglia, che al mattino ci ricorda di prendere nota di quanto sognato durante la notte. Oppure Personality Test, con quiz e domande (in inglese) approfondite per carpire i segreti della nostra anima. E non manca l'audio libro in italiano sulla vita di Sigmund Freud messo proprio a fianco all'ebook dell'Interpretazione dei sogni scaricabile per 1.79 euro e al test di Rorschach in versione ironica da fare online.
Attenzione, però, la psicoanalisi ai tempi del web non è cosa semplice. In rete si trova davvero di tutto, dal forum più serio a quello aperto dall'ultimo cialtrone (vedi box). Ma se gli strumenti elettronici hanno mutato il nostro modo di relazionarci con il mondo esterno davvero stanno cambiando anche il nostro rapporto con il terapeuta? «Nel mio studio telefoni e tablet rimangono rigorosamente spenti», spiega la psicoanalista milanese Marina Valcarenghi. «Non prendo appunti su carta, figurati se uso un iPad». Il motivo? «Devo essere totalmente concentrata sul paziente, attenta anche alle sfumature dello sguardo e alle espressioni del viso. Scrivendo perderei delle possibilità interpretative. Casomai mi annoto qualcosa alla fine della seduta». Soprattutto se si tratta di sogni, non devono esserci interferenze esterne. «Anche il racconto del paziente deve essere spontaneo, non deve essere letto da uno schermo, altrimenti il tono della voce diventa monocorde e si perde lo sforzo del ricordo», spiega lo psicoterapeuta Fulvio Scaparro. Che avverte: «Durante le sedute vieto l'uso del telefonino. Piuttosto regalo al paziente un quadernetto su cui annotarsi i sogni ma non tanto perché io possa interpretarli quanto perché lui ci lavori su». Insomma, guardarsi in faccia è fondamentale per la terapia. E dalla presenza fisica non si prescinde. Con qualche concessione. «Alla base di tutto deve rimanere la relazione fra medico e paziente. Ma taccuini e block notes fanno parte del passato», avverte lo psichiatra Claudio Mencacci. «Anzi, gli strumenti tecnologici, come in tutte le professioni, ci aiutano a seguire più da vicino il paziente. Anche se siamo in ferie».
Insomma, ognuno si avvicina ai nuovi strumenti in modo differente, a seconda della terapia che propone. Se infatti gli psicoanalisti paiono più «ortodossi», loro stessi avvertono: «Per altre scuole e orientamenti più recenti, come quello comportamentista, computer e iPad possono essere utili». E non solo. «Ci sono terapie cognitive che si basano sull'uso del pc», sottolinea ancora Mencacci. Con la consapevolezza che una legge non c'è.
Diverso è poi il discorso sulle conversazioni via email. «Qui si apre un nuovo capitolo», spiega Valcarenghi. «Sempre più spesso comunichiamo con il paziente in modo virtuale, anche per evitare l'uso del telefono. In genere le usiamo solo per motivi pratici, per decidere l'ora della seduta. Ma di tanto in tanto capita che il paziente parli di sé. E allora bisogna capire come regolarsi. Anzi sarebbe necessario un vero e proprio decalogo». Non a caso, l'Ordine degli Psicologi della Lombardia, a seguito del notevole aumento di richieste sulle prestazioni psicologiche online, due anni fa ha dato vita a un gruppo di lavoro dal nome «Psicologia e nuove tecnologie», racconta il responsabile e coordinatore del gruppo Luca Mazzucchelli. «È una nuova frontiera, si parla addirittura dell'uso della webcam per le sedute e di colloqui a distanza». La tecnologia permette anche di risparmiare: «Alcuni strumenti facilitano i giovani psicologi che magari non hanno a disposizione risorse per l'affitto di uno studio. Ma bisogna sempre andarci con i piedi di piombo. Facendo grande attenzione alla tutela della privacy e ricordandosi che va valutato ogni singolo caso».
Già, perché altrimenti si rischia di fare arrabbiare davvero Freud. Anche se c'è da scommetterci: se il papà della psicanalisi e Steve Jobs si fossero incontrati probabilmente non si sarebbero amati, ma si sarebbero capiti al volo. E magari, alla fine, Freud un'occhiata all'iPhone gliel'avrebbe anche data.

Corriere 5.1.13
Librerie, lotta per sopravvivere
Milano: cassa integrazione alla Hoepli, traslochi, chiusure
di Armando Torno


L'area commerciale di Milano equivale a poco meno del 30 per cento del fatturato dell'editoria libraria italiana. Quanto sette, otto regioni del Centro-Sud unite; il Lazio è da escludere, perché Roma rappresenta un buon 20 per cento. Giuliano Vigini, mostrandoci questi dati, aggiunge che nel 2012 c'è stato un calo nazionale di oltre il 7 per cento. Al valzer delle cifre aggiungiamo che il centro di Milano, ovvero la parte antica compresa nella prima cerchia dei Navigli, vale più della metà del venduto della propria area. Oltre il 15 per cento del fatturato italiano. Se c'è crisi in questa zona, le conclusioni da trarre sono semplici: è un problema nazionale. Da diverso tempo le librerie del centro di Milano stanno vivendo con problemi senza precedenti. Chiudono più negozi che in tempo di guerra. Per la prima volta si sente parlare di cassa integrazione. Di riduzioni. Di situazioni e spese insostenibili. Cosa sta succedendo? Non è facile rispondere con una battuta, ma è possibile mettere in evidenza qualche fatto.
Diremo innanzitutto che la notizia di oggi riguarda la libreria Hoepli, sita nell'omonima via, operante nel capoluogo lombardo dal 1870. Da lunedì i dipendenti saranno messi in cassa integrazione per oltre tre mesi; o meglio, lavoreranno un giorno in meno ogni settimana. La Hoepli è tra le più grandi d'Europa, è un marchio editoriale divenuto celebre tra l'800 e il '900 per i «Manuali» e poi per i testi tecnici e scientifici; ha un sito di vendita online tra i più forti. Ma soprattutto è un grande spazio nel cuore di Milano dove si possono sfogliare, compulsare oltre che acquistare i libri. Era già una meta per scrittori e dandy della penna negli anni Venti e Trenta, quando vi giungeva con due o tre levrieri Guido Da Verona (e, varcata la soglia, li sguinzagliava) per chiedere notizie dei suoi successi. Cesarino Branduani, allora commesso, doveva accudire cani e scrittore.
Alla Hoepli si parla anche di accorpare, sistemare e probabilmente restringere taluni settori. Il seminterrato, dove c'è una riproduzione della Galleria de Cristoforis (il primo grande passaggio coperto realizzato in Italia) e dove si trovano i libri di saggistica, dovrebbe sparire. Tale settore è quasi una libreria a sé: diretto in modo eccellente da Patrizio Gandin, si dovrebbe trasferire al quarto piano. Insomma, cassa integrazione e ristrutturazione dello spazio, senza licenziamenti. Ma altrove si chiude. Ha abbassato le saracinesche la Libreria di Brera, tra le vie Mercato e delle Erbe. Passando davanti si legge il cartello: «Liquidazione per cessata attività». Un altro avverte che c'erano sconti dal 15 al 70 per cento. E anche la Rovello di antiquariato, cara a Umberto Eco e punto di riferimento per innumerevoli bibliofili, ha chiuso con la fine dell'anno scorso. Un cartoncino parla di inventario, ma i volumi sono già venduti. Venne fondata nel 1893.
Rischia la chiusura anche la libreria Pecorini di Foro Bonaparte, che è distributrice dei piccoli editori. Lalla, che l'ha ereditata dal padre, si sta battendo come un leone per trovare soluzioni e per affittarne delle parti per eventi o per tutto quello che possa impedirne la capitolazione. È in sofferenza da tempo, ma continua a essere un centro di ritrovo per chi ama i libri di studio e anche quelli di musica. I ragazzi del Conservatorio la stanno aiutando facendo qui la loro lista-nozze.
E ancora, sempre in centro a Milano: la libreria Utopia di via Moscova è prossima al trasloco per evitare problemi che non hanno bisogno di essere esposti; la Libreria del Mondo Offeso di via Garibaldi, aperta da poco, alla fine di gennaio si trasferirà in zona meno centrale per i medesimi motivi. La Milano Libri di via Verdi, accanto alla Scala, dopo la cassa integrazione tra l'ottobre e il novembre scorsi, ora sembra tranquilla. O almeno, non si parla di riapplicarla. È negozio storico: qui Giovanni Gandini inventò Linus e qui Allen Ginsberg firmò le prime copie italiane di Jukebox all'idrogeno.
Non è questa una semplice crisi, ma qualcosa di epocale. Romanzetti più o meno erotici, saggi senza sostanza e idee si possono vendere ovunque, insieme a benzina e biancheria intima. Ma le opere che conservano e trasmettono la cultura hanno bisogno di ben altro. Uccidendo i loro spazi, si colpisce a morte anima e spirito. O quanto di essi è rimasto.

il Fatto Lettere 5.1.13
Fecondazione in vitro, un tabù italiano


Quasi nessuno sa che eravamo al secondo posto nella classifica mondiale dei Paesi con i maggiori divieti in tema di fecondazione assistita, addirittura dietro il Costa Rica. Mentre nessuno sa che da più di un mese l'Italia si è guadagnata la vetta di quella graduatoria di cui avremmo ben poco da vantarci. Infatti, la Corte Interamericana dei diritti umani, grazie anche alle motivazioni del Partito radicale e dell'Associazione Luca Coscioni (costituitasi come "amicus curiae" nel procedimento giudiziario), ha cancellato con una sentenza il divieto di fecondazione in vitro vigente in Costa Rica. Cancellato proprio, quel divieto: non attenuato o emendato. E ancora più importante sarebbe conoscere i principi affermati nella sentenza del 28 novembre scorso: l’embrione non è persona; l’in-fertilità è una malattia; i diritti riproduttivi sono tra i diritti umani meritevoli di tutela. Per una volta, dalle nostre parti, la Chiesa e gli embrioni in attesa soltanto che venga garantito loro anche il diritto di voto possono guardare dall'alto in basso il resto del mondo, ormai pericolosamente invaso dai diritti a tutela di esseri umani nati e viventi.
Paolo Izzo