domenica 14 luglio 2013

«I piani alti del Viminale e anche i funzionari di rango della Farnesina furono coinvolti nella procedura, durata appena due giorni, (...) Come è possibile che lo stesso Alfano e la titolare degli Esteri Emma Bonino non siano stati tempestivamente informati?
La ricostruzione effettuata in queste ore certifica che quantomeno dal 31 maggio, quindi poche ore dopo il decollo del jet privato, i due ministri sono perfettamente informati di quanto accaduto.
Ma è davvero così? Possibile che il prefetto Procaccini non abbia ritenuto di dover relazionare ad Alfano il motivo della visita dell'ambasciatore kazako, visto che l'istanza iniziale sollecitava un incontro proprio con il ministro? E come mai il prefetto Valeri, dopo aver attivato la questura e di fatto concesso il via libera all'intervento sollecitato a livello diplomatico, decise di non parlarne con il prefetto Alessandro Marangoni, all'epoca capo della polizia reggente? Perché non lo fece il suo vice Cirillo? Ed è credibile che non ci fu alcun contatto successivo con la Farnesina?»
Corriere 14.7.13
L'indagine di Pansa dimostra anche il coinvolgimento di funzionari di rango della Farnesina
Lo staff di Alfano sapeva
Così arrivò il via libera al blitz
Il ruolo del capo gabinetto del Viminale e dei vertici della Polizia
di Fiorenza Sarzanini

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Repubblica 14.7.13
Caso Shalabayeva, Bonino:
"Abbiamo fatto una figuraccia ma dimettermi non servirebbe"
Intervista al ministro degli Esteri: "Farò di tutto per i diritti della kazaka"
di Francesco Bei


«SONO ben consapevole della gravità di questa vicenda e della pessima figurafatta dall’Italia».
«ENON a caso dalla notte del 31 maggio, da quando ne sono venuta a conoscenza, quasi non mi sono occupata d’altro. Tutto quello che posso fare io lo farò. Qualcuno dovrà pagare, dovrà dire davanti all’opinione pubblica: si sono stato io». Se c’è qualcuno a cui la “rendition” della signora Alma Shalabayeva brucia sulla pelle è Emma Bonino. Considerata in patria e all’estero una paladina di diritti civili, si può immaginare cosa abbia pensato in questo periodo nel far parte di un governo a cui è stato caricato sulle spalle un caso infamante come questo. A via di Torre Argentina, sede del partito radicale, i dissidenti kazaki come Ablyazov sono di casa, partecipano alle riunioni. Anche per questo, per la sua storia personale e politica, è proprio sul ministro degli Esteri che oggi la luce dei riflettori si fa più intensa. Cosa non ha fatto e cosa avrebbe potuto fare? E soprattutto cosa farà ora? Sospetta complicità politiche, favori fatti «all’amico» di Berlusconi, Nursultan Nazarbayev?
Anzitutto Bonino non ha pensato di dimettersi per quello che è successo. Ti dimetti o minacci di dimetterti se serve a evitare che accada qualcosa. «Ma il 31 maggio, quando ho saputo di questa storia, quella poveretta era già in Kazakhstan, non sarebbe servito a nulla un gesto politico di quel tipo. Ho cercato invece di essere utile a lei. Abbiamo incontrato due volte il team di avvocati, abbiamo verificato con il nostro console ad Almaty che stesse bene, che potesse uscire di casa, l’abbiamo invitata al consolato per farle firmare il ricorso contro l’estradizione ed esercitare così il diritto alla difesa internazionale. Mi sono subito fatta mandare il dossier, ho convocato il capo della Polizia alla Farinformazionenesina». È tanto, è poco? «È quello che al momento si poteva fare». Insomma, come nel caso dei marò in India, il governo italiano sembra preferire la strada del dialogo e della moral suasion piuttosto che le maniere forti. Anche perché «giuridicamente — ammette sconsolata — abbiamo le mani legate. E comunque, nonostante tutto, stiamo cercando di vedere se c’è qualche spiraglio anche minimo, qualcosa a cui appigliarsi». Se «giuridicamente» nulla si può fare contro la giustizia di uno stato sovrano, politicamente si può fare molto con un regime che ha stretti rapporti di amicizia e di affari con l’Italia. «Ma di queste cose certo non vengo a parlare con i giornalisti».
Riavvolgiamo il nastro. Mentre Shalabayeva viene prelevata con la forza, mandata al Cie come una clandestina e rispedita in patria con modalità da film di 007, in quei tre giorni terribili, il governo italiano e la Bonino in particolare cosa sanno e cosa fanno? Formalmente nulla. «Io di questo pasticcio nonso davvero niente, so invece quello che è successo dopo il 31 maggio, quando vengo informata di quello che è successo e avverto il presidente del Consiglio e i ministri». Letta, Bonino e Alfano si trovano insieme sul palco della festa della Repubblica, il 2 giugno. Il ministro degli Esteri si avvicina al premier e ad Alfano, li prende in disparte e spiega chi sia Shalabayeva, cosa le è accaduto, e quanto grande sarà lo scandalo che sta per abbattersi sull’Italia. «Dovete capire cosa è successo, informatevi», insiste. Entrambi le sembrano cadere dalle nuvole. «Molte cose non hanno funzionato è ovvio - riflette ora il ministro degli Esteri - e non sto assolvendo nessuno. Resto però convinta che, a livello politico, i ministri non fossero informati, il che è ancora peggio per certi aspetti. Non c’è traccia di un coinvolgimento del livello “politico” in questa storia. Evidentemente la pressione da parte del Kazakhstan è stata fortissima, ma si è scaricata ai livelli più bassi ». Come sia stato possibile che questa non sia arrivata a livello più alto è proprio l’oggetto dell’indagine affidata al capo della Polizia per scoprire i responsabili. Bonino azzarda un’ipotesi: «Può darsi che abbiano approfittato del vuoto di potere al vertice degli apparati prima del 31 maggio». Il 31 maggio il consiglio dei ministri nomina il nuovo capo della Polizia, che tuttavia prenderà possesso dell’ufficio soltanto il giorno successivo. Quando ormai la signora Ablyazov è atterrata nel suo paese. Chi ha voluto portare a termine la “rendition” aveva fretta di farlo prima che arrivasse Pansa al Viminale? E quale è stato il ruolo del ministro dell’Interno? Bonino lo descrive «furibondo » per la vicenda, in questo modo avallando l’ipotesi che Alfano ne fosse all’oscuro. Ma chiaramente anche lei è consapevole della voce che gira nelle redazioni di tutto il mondo e a cui ilFinancial Times ha dato corpo pubblicando una fotografia di Berlusconi e Nazarbayev amichevolmente vicini. La voce, per dirla brutalmente, di un favore chiesto dal Cavaliere ad Alfano per compiacereil potente dittatore della steppa asiatica, seduto su miliardi di dollari di gas e petrolio. E tuttavia il ministro degli Esteri non dà credito a un’ipotesi del genere: «Per quanto riguarda il livello di governo, i ministri, una cosa così non sta in piedi. Berlusconi e l’amicizia con Nazarbayev? Se è per questo sono uscite di recente anche foto di Nazarbayev con Cameron e con Barroso...il Kazakistan è un paese che suscita un certo appetito da parte di tutti. Se invece qualcuno, a livelli più bassi, ha voluto fare favori questo lo scoprirà l’inchiesta interna».
Infine e soprattutto. Ma come è stato possibile che il governo sia stato cieco e sordo? «Io non ne sapevo niente, Alfano nemmeno. Del resto anche quattro magistrati, mica uno, hanno convalidato quegli atti di espulsione!».

Repubblica 14.7.13
La politica “A mia insaputa”
“A mia insaputa”. Avanti un altro. Con Alfano torna l’intelligenza del farsi fessi per farci fessi che fu inaugurata da Scajola
Anche il ministro degli Esteri Emma Bonino, la cui figura fiera e febbrile è legata alla tutela dei diritti, dei dissidenti, dei perseguitati, degli ultimi…, ecco persino la leader radicale, la donna faber, la donna sapiens, è riuscita a non sapere
di Francesco Merlo


“A MIA insaputa”. Avanti un altro. Con Alfano torna l’intelligenza del farsi fessi per farci fessi che fu inaugurata da Scajola.
A sua insaputa, infatti, il ministro dell’Interno, che è il delfino di Berlusconi, vale a dire dell’amico per la pelle del dittatore del Kazakistan, il famigerato Nazarbayev, ha consegnato una madre e una bimba, moglie e figlia del dissidente Muhktar Ablyazov, al satrapo centro-asiatico. Angelino Alfano esibisce meno sfrontatezza comica di Scajola ma certamente più goffaggine politica nel riprodurre la stessa linea di difesa minchioneggiante: «non sapevo nulla», «il mio capo di gabinetto mi ha cercato ma ero alla Camera (a litigare con Brunetta) e non mi ha trovato », «sono stato informato a cose fatte dal ministro degli Esteri».
C’era comunque un cinismo che sconfinava con l’ironia nella scelta disperata di Scajola che, beneficiario di una casa con vista sul Colosseo, disse che gliel’avevano regalata appunto a sua insaputa, per sempre rinnovando il frasario della ribalderia politica italiana. È invece drammatico il ministro che ha destinato, a sua insaputa, la signora Alma alla privazione della libertà personale e a processi penali senza garanzie, e la piccola Alua, sempre a sua insaputa, all’orfanatrofio.
“A mia insaputa” è una sindrome così contagiosa che anche il ministro degli Esteri Emma Bonino, la cui figura fiera e febbrile è legata alla tutela dei diritti, dei dissidenti, dei perseguitati, degli ultimi…, ecco persino la leader radicale, la donna faber, la donna sapiens, è riuscita a non sapere. E però non è dignitoso e non è accet-tabile che i diplomatici del Kazakistan, i quali hanno messo a disposizione l’aereo che ha sequestrato la donna e la bambina, abbiano trattato e concordato tutto e solo con la polizia e non anche con la diplomazia e con la politica italiane da cui traggono legittimazione e con cui hanno consuetudine, colleganza, amicizia. Dicono alla Farnesina: «Non potevamo fare nessun collegamento tra questa signora indicata con il suo nome da ragazza e di cui ci veniva solo chiesto se godesse o meno di copertura diplomatica, e la moglie di Ablyazov».
Ma così è anche peggio, visto che l’espulsione è stata velocissima, efficientissima, impiegando più di trenta poliziotti, con un aereo subito pronto. Bisognava fare un’indagine accurata prima di consegnare una donna e una bambina a un dittatore, prima di «deportarle » scrivono i giornali inglesi.
Qui in gioco non c’è l’onestà personale e la rettitudine morale di Emma Bonino che non c’è neppure bisogno di garantire personalmente, ma c’è il rifugio nella strategia dell’“a mia insaputa”, come via di fuga dalla battaglia. Non è vero che è meglio rischiare di fare la figura dei fessi che non hanno capito e ai quali l’hanno fatta sotto il naso, invece di impegnarsi in una denunzia che potrebbe rivelarsi politicamente mortale. È vero il contrario: è sempre meglio ammettere che la politica è stata umiliata e bastonata, ma in piena coscienza. È meglio confessare che i diritti sono stati venduti a interessi economici ma comunque e sempre dentro una politica consapevole. È meglio essere protagonista che fantasma della storia.
D’altra parte c’è la solita Italia dell’otto settembre nel ritiro a cose fatte del decreto di espulsione, nella trasformazione badogliana del volenteroso carceriere in severo censore. Lo stesso governo che, a sua insaputa, ha consegnato la moglie e la figlia del dissidente al despota di Astana, adesso condanna, si scandalizza, non permetterà... Ma bisogna pur dire al presidente Letta che il farsi paladino dei diritti umani subito dopo aver pestato a sangue il cognato della signora e averle dato della «puttana russa» non solo non corregge l’errore ma ne esalta la violenza.
È appunto questa la furbizia dell’“a mia insaputa”: meglio esporsi allo scherno pur di non affrontare la responsabilità, meglio offrirsi all’imbarazzo e alla risatina come quella che cercava Scajola quando decise di farsi citrullo e inventò l’antropologia dei politici “a mia insaputa”. È questo il loro destino, questa la loro ultima spiaggia: provocare una soffocata ilarità pur di evitare l’indignazione, pur di non fare autocritica e pagare di persona.
Serve anche, la strategia dell’“a mia insaputa”, a non far scoppiare, come dovrebbe, lo scandalo internazionale, coinvolgendo l’Europa e, se del caso, le Nazioni Unite e ricordando a tutti che la legge italiana prevede la tutela dei rifugiati politici. Le operazioni di polizia illegali sono tipiche dei Paesi che non hanno sovranità e dei Paesi dove regna l’arbitrio. E va bene che gli italiani non conoscono la geografia e nessuno si impietosisce per il destino di due anime esotiche, per giunta non legate alla dissidenza culturale come potevano essere Sacharov o Brodskij, o come la premio Nobel birmana Aung San Suu Kyi, e mai ci saranno Inti Illimani che canteranno per Alma e per Ula. Ma dal punto di vista del diritto è come se, all’epoca, la moglie e la figlia di un dissidente cileno fossero state consegnate a Pinochet. Con in più il sospetto, certo non provabile, che lo scandalo sia legato agli interessi di Berlusconi, il quale da ieri è in Russia, nel cuore della Gasprom appunto, dall’amico Putin che con il Kazakistan è uno dei motori della politica energetica dell’Oriente.
Anche l’Eni, a cui la vulgata attribuisce più forza del ministero degli Esteri, è ovviamente amico del Kazakistan e si capisce che le ragioni economiche potrebbero davvero avere giocato un ruolo non solo nella gestione dello scandalo ma anche nella scelta della soluzione scajoliana di “a mia insaputa”.
Il solo innocente qui è il capo della polizia perché davvero non poteva sapere: quel giorno, infatti, il nuovo capo non si era ancora insediato, e il vecchio non c’era più. E però anche in questa vacatio si intravede la furbizia degli strateghi dell’“a mia insaputa”, perché nell’interregno è più facile non sapere ed è più semplice dribblare i controlli di legittimità.
Come si vede, erano tempi ingenui di pionieri quelli di Scajola. Solo adesso, con il debutto nello spionaggio internazionale, “a mia insaputa” è diventata una branca collaudata e matura della scienza politica italiana. Sotto a chi tocca, dunque.

«il premier Letta e i suoi ineffabili ministri Alfano, Bonino e Cancellieri stanno cercando solo i due o tre Capozzella di turno da incolpare: “Nessuno ci ha informato”»
il Fatto 14.7.13
La tragedia e la farsa
di Antonio Padellaro


Nell’estate del ’77, dopo la ridicola fuga in una valigia del criminale nazista Kappler dall’ospedale romano del Celio, il governo dell’epoca cercò di addossare la colpa a tal capitano Capozzella, prima delle inevitabili dimissioni dell’allora ministro della Difesa Lattanzio. Fu così che il carabiniere, in ragione anche di un cognome appropriato agli eventi, divenne sinonimo di scaricabarile all’italiana, di politici vili e inetti, di stracci fatti volare per coprire le loro eccellenze. Oggi, mentre solo grazie ai giornali cominciano a emergere circostanze e particolari dello scandalo infamante che ha portato le autorità italiane a consegnare nella mani del dittatore del Kazakistan, Nazarbayev, moglie e figlia (di sei anni) del principale oppositore del regime (dove secondo Amnesty tortura e maltrattamenti sono di casa), si capisce solo che il premier Letta e i suoi ineffabili ministri Alfano, Bonino e Cancellieri stanno cercando solo i due o tre Capozzella di turno da incolpare: “Nessuno ci ha informato”. I dirigenti della Polizia avranno modo di spiegare le sconcertanti modalità di un’espulsione avvenuta con uno spiegamento di forze (50 uomini armati fino ai denti) come per Riina e Provenzano.
Una domanda ai solerti funzionari, però, sorge spontanea: una volta entrati nella villetta di Casal Palocco e constatata l’identità dei feroci criminali da catturare, una donna e una bimba terrorizzate, non gli è saltato in mente che qualcosa non tornava? Un controllo, una telefonata a qualche superiore gallonato per chiedere: che cazzo stiamo facendo, era troppo complicato? Perché a questo punto sorge il dubbio che tutta la vicenda, da molti interpretata in chiave complottista come un favore fatto all’amico personale di Berlusconi e al partner d’affari dell’Eni, nasconda una buona dose di ottusità e cialtroneria. Insomma, più che James Bond, una gag dell’ispettore Clouseau, anche se non c’è niente da ridere. Forse neanche gli sceneggiatori di Peter Sellers avrebbero saputo creare una battuta come quella escogitata dai cervelli di Palazzo Chigi a proposito di Alma Shalabayeva: “Espulsione revocata, ora può tornare”. Naturalmente gli sgherri kazaki non aspettano altro che liberarla con tante scuse.
Pensavamo di aver toccato il fondo della credibilità internazionale con la pagliacciata dei due marò trattenuti in Italia malgrado la parola d’onore data al governo indiano e poi rispediti a Delhi. Ma ora è molto, molto peggio.

Corriere 14.7.13
L'immagine nazionale
La nostra vocazione a finire nei pasticci
di Sergio Romano

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Repubblica 14.7.13
Vertici al Viminale e relazioni sul tavolo: ecco perché gli uomini del ministro sapevano
Per un mese e mezzo ignorato il dossier sulla notte del blitz
Davvero il ministro dell'Interno Angelino Alfano nulla ha saputo del destino di Alma Shalabayeva e della figlia Alua se non a cose fatte?
È credibile che l'autorità politica sia stata tagliata fuori dai tecnici che maneggiarono la vicenda tra il 28 e il 31 maggio?
di Carlo Bonini

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L’Huffington Post 14.7.13
Felice Casson: "L'ombra di Silvio Berlusconi sul caso Shalabayeva. Indaghi Enrico Letta ed esautori Angelino Alfano"

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il Fatto 14.7.13
Governo, scaricabarile kazako
“La vita di Alma nelle loro mani”
Pansa consegnerà fra 48 ore al vicepremier la relazione che scagiona lo stesso numero due del governo e tiene a galla le larghe intese. E la Farnesina si auto-assolve
di Giampiero Calapà


Affidato al capo della Polizia il dossier per coprire Alfano. Un fax avvertì la Farnesina sulla richiesta di espulsione: “Non sapevamo che fosse la moglie del dissidente”. Ora pagheranno i pesci piccoli L’avvocato: “In patria possono arrestarla da un momento all’altro”

L’uomo che non sapeva niente – nella spy story che riguarda Mukhtar Ablyazov e il “sequestro” da Casal Palocco con tanto di espulsione della moglie Alma e della figlia Alua, 6 anni – sarebbe il ministro dell’Interno Angelino Alfano. E rimarrà al suo posto nonostante le responsabilità politiche imposte dalla carica, perché sarà “scagionato” dalla relazione che il capo della Polizia Alessandro Pansa consegnerà nelle sue stesse mani fra due giorni. Non è stato informato del sì al blitz della notte del 28 maggio e del-l’espulsione con partenza da Ciampino il 1° giugno. E, come lui, non sapeva nulla il ministro degli Esteri Emma Bonino, da sempre paladina radicale dei diritti degli ultimi dissidenti nei luoghi più remoti del pianeta, che si “auto-scagiona” con lanci di agenzie dettati da “fonti della Farnesina”: “La Farnesina si è subito attivata per aiutare la signora Alma Shalabayeva, una volta appreso del provvedimento di rimpatrio forzato in Kazakistan disposto nei suoi confronti e di cui non era stata messa a conoscenza”. La Farnesina, questa la posizione ufficiale, non sapeva neppure che Alma, la donna prelevata a Casal Palocco con la bambina di sei anni, fosse la moglie di Ablyazov, tanto da inviare un fax alla Questura di Roma, firmato dall’addetto Daniele Sfregola, per precisare che “la signora non gode di alcuna immunità”. E sempre le stesse fonti della Farnesina si giustificano così: “Il ministero degli Esteri non ha alcun accesso a nessun tipo di database dei cittadini stranieri in Italia. Non potevamo fare nessun collegamento tra questa signora, indicata con il suo nome da ragazza e di cui ci veniva solo chiesto se godesse o meno di copertura diplomatica, e la moglie di Ablyazov”. Nessuno sapeva, in questa fiera dello scaricabarile, ad eccezione del ministro della giustizia Anna Maria Cancellieri, che il 5 giugno scorso, cortocircuito governativo ancora non chiarito, poteva tranquillamente dichiarare di aver, invece, saputo: “Le procedure sono state perfette, tutto in regola e secondo la legge. Mi sono informata subito della questione e tutto si è svolto secondo le regole”.
PASSAGGIO dimenticato, cancellato, eliminato da Palazzo Chigi nei giorni seguenti. Perché dell’espulsione dall’Italia di Alma e della figlia di sei anni, prelevate nottetempo nella villa di Casal Palocco da cinquanta agenti armati – della mobile e della Digos – come neppure Bernardo Provenzano o Totò Riina, non sapeva nulla nemmeno Palazzo Chigi. Tanto che il premier Enrico Letta due giorni fa ha firmato questa nota spedita alla stampa: “È grave la mancata informativa al governo sull’intera vicenda, che comunque presentava sin dall’inizio elementi e caratteri non ordinari”. Letta, incontrando i suoi ministri venerdì, ha invocato “trasparenza assoluta, se ne esce solo così”, aggiungendo: “Ora qualcuno deve pagare, se è vero che Angelino non sapeva qualcuno della struttura pagherà”. Pronti. Il prefetto Alessandro Pansa, attuale capo della Polizia, consegnerà fra 48 ore ad Alfano una dettagliata relazione sui fatti accaduti tra il 28 e il 31 maggio, giorno in cui proprio Pansa s’insedia ai vertici della pubblica sicurezza. L’istruttoria di Pansa, alla fine della fiera, risparmierà i rimpalli di responsabilità tra ministeri che hanno segnato questi giorni, presentando il conto, salato, a quel “qualcuno” di cui il premier Letta vuole la testa. Unico indiziato possibile il dirigente del dipartimento ministeriale, attualmente sotto inchiesta interna che, non avvisando Alfano, questo sarà il passaggio fondamentale della relazione di Pansa, ha avallato il blitz richiesto e sollecitato dai kazaki (in visita al Viminale il 28 giugno dopo analoga sortita nell’ufficio di Renato Cortese, capo della mobile della Questura di Roma) nella villa di Casal Palocco. È lui, il dirigente del Viminale ancora anonimo, il colpevole sacrificato in nome della ragion di Stato e delle larghe intese che non prevedono altro vicepremier al di fuori di Angelino Alfano.
LA SUA COLPA? Sarà scritto nero su bianco. Aver sottovalutato la situazione ritenendola routine, ottenendo la convalida degli atti a posteriori dal pm Eugenio Abbamonte e dal procuratore capo Giuseppe Pignatone. Aver dato il via libera al-l’operazione senza digitare su Google “Ablyazov”, cosa che gli avrebbe permesso di apprendere come l’ex ministro kazako, oltre che truffatore internazionale, sia considerato dalla stampa mondiale anche dissidente politico che si oppone al tiranno kazako Nazarbayev. Si è fidato soltanto dei kazaki, appunto, confortato dai rapporti dell’Interpol: bollino rosso sul nome di Ablyazov, neppure una riga sullo status di rifugiato politico ottenuto a Londra, ma riferimenti alla condanna a 22 mesi per oltraggio alla corte (ha dissimulato alle autorità inglesi la sua reale consistenza patrimoniale), oltre a risultare un nemico dichiarato di Astana per aver “depredato” miliardi di dollari alle banche kazake. A fronte di tutto questo, spiegherà la relazione di Pansa, forse per sciatteria, forse perché dalla morte di Antonio Manganelli la Polizia era rimasta senza capo – pur se con un reggente in sella, Alessandro Marangoni – il “colpevole”, il pesce piccolo che sarà punito, ha ritenuto di mettere i sigilli dello Stato italiano sull’operazione senza dover avvisare l’autorità politica. Uno scenario difficile da credere, ma che sarà venduto in pasto all’opinione pubblica per permettere al governo delle larghe intese di tirare a campare oltre il periodo balneare, sentenza della Cassazione su Silvio Berlusconi permettendo.


il Fatto 14.7.13
La donna racconta
“I sequestratori sembravano mafiosi e mi dicevano: sei una puttana russa”
“Puttana russa, e poi mi hanno portato via”
Il diario della moglie del dissidente: Alma racconta i tre giorni del blitz alla sua espulsione, tra innterrogatori, la cella al Cie e il rimpatrio
di Alma Shalabayeva


È avvenuto tutto nella notte tra il 28 e il 29 maggio. A mezzanotte. Fui svegliata da un forte rumore. C’era gente che bussava alle finestre e alle porte. Mia sorella, mio cognato e io ci precipitammo verso la porta d’ingresso. Eravamo spaventati. Quando aprii la porta tentai di chiedere in inglese chi fossero. Mi diedero una spinta e circa 30-35 persone entrarono in casa. Un’altra ventina rimase fuori. Erano vestiti di nero e armati. Del gruppo faceva parte una donna di circa trent’anni che non mi perse mai di vista. Tra loro parlavano in italiano. Mentre ce ne stavamo nell’ingresso paralizzati dalla paura cominciarono a perquisire la casa. Capii dopo che cercavano mio marito Mukhtar Ablyazov. In quel preciso momento ebbi la certezza che ci avrebbero ucciso. Il capo del gruppo mi chiese chi ero. Non volevo fornire il vero nome mio e di mia figlia. Risposi: “sono russa”. “Puttana russa”, mi disse uno di loro. Un italiano con una grossa catena al collo e l’aspetto da mafioso cominciò a urlare indicando la pistola. Ci chiesero i documenti. Mostrai il passaporto della Repubblica Centrafricana. Era un passaporto diplomatico. Mi mostrarono diverse foto tra cui quella di mio marito. Mi chiesero se lo conoscevo. Risposi di no. Poi nel computer che avevamo in casa trovarono la foto di mio marito e mia figlia. Alla fine mi dissero di vestirmi e seguirli. Trascinarono fuori me e mio cognato Bolat. Ci condussero in una stazione di polizia al centro di Roma. Ci costrinsero a firmare un documento in italiano. Poi ci portarono all’ufficio immigrazione. Alle 6 del mattino ci portarono in un altro posto nella zona sud-orientale di Roma. Dopo ore di attesa mi chiesero, in un inglese approssimativo, chi ero, cosa facevo in Italia e perché avevo un passaporto falso. Risposi: “telefonate all’ambasciata della Repubblica Centrafricana: vi confermeranno che il passaporto non è falso”. Alle 21 e 30 dopo oltre 15 ore i nervi mi cedettero. Ammisi che ero del Kazakistan e che ero la moglie del capo dell’opposizione. Mi trasferirono in un centro di detenzione a Ponte Galeria. Mi rinchiusero in una cella con altre tre donne. Avevo paura. Una compagna di cella mi aiutò a fare il letto. Non ricordo quando mi addormentai.
30 maggio 2013. Il risveglio a Ponte Galeria
Al risveglio volevo chiamare mia sorella, ma non avevo il cellulare. Me lo prestò una detenuta. Chiamai mia sorella ma nessuno rispose. Temevo che avessero preso mia figlia. Intorno alle 10 mi portarono in una stanza dove un italiano che parlava russo mi disse di essere l’avvocato di quella prigione. Gli raccontai tutto quello che era accaduto. Mi rispose che potevano trattenermi al massimo 48 ore. Finalmente con il telefono di una detenuta riuscii a parlare con mia sorella che disse che gli avvocati si stavano dando da fare. Ero confusa dalla paura. Più tardi mi fecero parlare con una persona dell’ambasciata del Kazakistan. Mi disse di chiamarsi Arman e di essere il console. Mi disse che secondo le leggi del Kazakhstan non potevo avere la doppia cittadinanza. Capii che non mi avrebbe aiutato.
31 maggio 2013. Il rimpatrio ad Astana
La mattina del 31 maggio mi condussero in una stanza dove trovai un uomo e una donna. Da un porticina laterale entrarono tre miei avvocati. La donna negò di essere in possesso del mio passaporto. I miei avvocati andarono su tutte le furie ribadendo che il passaporto mi era stato tolto durante l’operazione che aveva portato al mio arresto. Dopo un’ora mi riportarono in cella. Poco dopo una dona di nome Laura, che avevo già visto all’Ufficio immigrazione, mi chiese di chiamare mia sorella per dirle di affidare mia figlia ai suoi uomini. Mi rifiutai. Era presente anche l’italiano che parlava russo. Laura mi disse che per legge non potevo telefonare al mio avvocato. Mi costrinsero a parlare con mia sorella, che mi disse che volevano portare via la bambina. “Mai senza gli avvocati”, urlai. Mia sorella singhiozzava. Poi all’improvviso mi dissero che dovevo essere trasferita altrove. Mi fecero salire su un minibus verso Ciampino. All’aeroporto riabbracciai mia figlia. Quando capii che volevano rimpatriarmi in Kazakistan risposi furibonda: “chiedo asilo politico in Italia”. Alle 18 Laura entrò nella stanza, afferrò mia figlia, la prese in braccio e la portò via. Le corsi dietro urlando. Salì su un minibus e la seguii. Ripetei che volevo l’asilo politico. “È troppo tardi. È tutto già deciso”, mi rispose Laura. Il minibus si fermò improvvisamente. Si avvicinarono due persone del Kazakhstan. Mi dissero che dovevo lasciare la bambina a un ucraino che lavorava per noi. Dissi che preferivo portare mia figlia con me. Ci fecero salire su un aereo senza documenti né passaporto. Era un aereo privato e molto lussuoso. Dopo sei ore di volo atterrammo ad Astana.
Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

il Fatto 14.7.13
“Basta un’udienza per la galera”
L’avvocato della Shabalayeva teme per le accuse di corruzione
di Chiara Paolin


Ieri il governo kazako ha deciso di dare un segnale all’Italia: voi dite che la Shalabayeva può tornare a spiegarvi per filo e per segno quali sono i documenti con cui può validamente restare in Europa? Peccato sia indagata con l’accusa di aver corrotto un funzionario pur di ottenere due passaporti per lei e il marito. In ogni caso, le autorità di Roma possono stare tranquille: la signora non è agli arresti domiciliari, solo obbligata a mantenere la residenza in casa dei genitori, ad Almaty.
Federico Olivo, uno dei legali della donna, risponde così: “Siamo molto preoccupati. La nostra cliente è stata indagata il giorno 30 maggio, cioè poche ore dopo il blitz. Per chi non lo sapesse, in Kazakistan basta una singola udienza per finire in carcere. Ed è quello che rischia ora la signora Shalabayeva”.
Amnesty International ha più volte raccontato qualsi siano le condizioni dei carcerati in Kazakistan. E nel 2004 ha fatto di tutto per convincere l’Europa e gli Usa a chiedere il rilascio di Mukthar Ablyazov. Il portavoce italiano Riccardo Noury lancia un appello: “L’Italia ha compiuto un atto contrario al diritto internazionale, peraltro con procedura sommaria e persino sconosciuta alle nostre autorità politiche. La revoca di quell'atto non esonera il nostro Paese dal continuare a garantire l’incolumità della donna e della bambina”. “L’unica soluzione è quella diplomatica - continua Olivo -. Da un punto di vista tecnico la questione è ingestibile, il governo kazako non può tenere in particolare considerazione una revoca di espulsione fatta dall’Italia. Ma se il nostro paese, la comunità internazionale e la pressione delle associazioni umanitarie lavorassero insieme, il caso potrebbe trovare nuove strade.
L’ATTENZIONE DEI MEDIA è tutto. Se si spengono i riflettori, il presidente Nazarbaev può trattare l’affare Ablyazov come preferisce. E allora chi vuole sapere che fine farà Alma Shalabayeva deve sperare in Emma Bonino. L’unica, nel governo, a dire che l’Italia ha fatto “una figura misera”. Ma non basta. Il ministro degli Esterivuole cambiare ruolo nella vicenda kazaka. Per questo bisogna spiegare a tutti che il famoso fax con cui la questura chiedeva alla Farnesina se la cittadina della Repubblica Centrafricana Alma Ayan fosse titolare di copertura diplomatica, era un tranello: non si parlava di Shalabayeva in quel fax, nè di Ablyazov.
Impossibile capire che la persona portata al Cie di Ponte Galeria fosse la moglie di un dissidente, titolare di due passaporti kazaki e di due permessi di soggiorno rilasciati da Gran Bretagna e Lettonia, nobilissima area Schengen. La Farnesina ha dato la sua risposta all’ufficio immigrazione senza sapere che così l’iter dell’espulsione sarebbe andato liscio verso la pista di decollo a Ciampino. Ma quando gli avvocati della Shalabayeva si sono visti volare via la cliente, è alla Farnesina che hanno bussato chiedendo aiuto: per impugnare l’espulsione serviva una firma della signora, nel frattempo depositata ad Almaty. Lì un uomo del consolato italiano ha raccolto quella firma, il mandato indispensabile per proprorre il caso al tribunale del riesame. Con l’esito finale ormai noto: la revoca dell’espulsione.

il Fatto 14.7.13
Fava (Copasir) chiede le dimissioni del delfino di B.


“NON VORREMO che lo scaricabarile in corso nel governo servisse a mettere in secondo piano l’incolumità e il rientro in Italia della signora Shalabayeva e di sua figlia. La priorità adesso è rimediare agli errori imperdonabili del Viminale”. Lo afferma Claudio Fava (Sel), componente del Copasir. ”Restiamo in attesa – aggiunge – di un gesto di opportunità e di responsabilità del ministro Alfano: in assenza d’un suo passo indietro, resta ferma l’intenzione di presentare e discutere in tempi rapidi la nostra mozione di sfiducia nei confronti del ministro dell’Interno”. Chiede chiarimenti anche Felice Casson (Pd): “Il collegamento fatto dalla stampa tra il perseguitato Ablyazov, il dittatore kazako e la sua amicizia con l’ex premier Berlusconi getta un’ombra più pesante: va chiarita fino in fondo. Farò un’interrogazione per capire dal premier cosa intende fare, come intende muoversi”. Per Casson infatti, non è “sufficiente affidare l’indagine interna al ministro Alfano. Non lo può fare il ministro dell’Interno che è sotto accusa nella stessa vicenda”.

il Fatto 14.7.13
Aziende e interessi economici italiani in Kazakistan


53 LE AZIENDE italiane in Kazakistan, non solo Eni e Impregilo. Secondo le stime dell’Istituto nazionale commercio estero le più numerose sono quelle di petrolio e gas, a seguire le costruzioni, concentrate tra Almaty e Astana. Nello specifico: la Agip, con tre sedi, la Renco e la Saipem; per quanto riguarda le costruzioni nel settore petrolifero e gas Bonatti, Igs, Kcoi, Rosetti Kazakistan; per la manutenzione degli impianti Kios Cjsc; nelle costruzioni di oleodotti e gasdotti la Sicim spa e la Ersai Caspian Contractor, italiana per metà; la Jsc Jv Byelkamit, azienda di metalmeccanica e costruzioni che si occupa di strutture per petrolio e gas, impegnata nel settore chimico, nucleare, dell’energia, nelle costruzioni civili e nell’industria alimentare, italiana al 6%; per le costruzioni la Todini generali e la romana Impresa.

il Fatto 14.7.13
Caccia all’uomo, ma Ablyazov ha fatto perdere ogni traccia


MUKHTAR ABLYAZOV arrivato a Londra nel 2009, ottiene lo status di rifugiato politico dal governo inglese nel 2011. Da qualche mese si è reso indisponibile e non si sa dove di trovi fisicamente il dissidente kazako. L’ex banchiere cinquantenne parla esclusivamente attraverso i suoi legali, mentre ancora non è stato stabilito che fine faranno le sue proprietà, fra cui una lussuosa residenza da nove camere da letto in una zona a nord di Londra nota come “la strada dei miliardari”, e ancora una proprietà di campagna nel Surrey da 40 acri con campi da polo e laghetti, secondo quanto segnalano alcuni media.
Nei giorni scorsi il Financial Times riferiva che le proprietà inglesi di Ablyazov potrebbero comparire nelle attese decisioni rispetto alle richieste avanzate dai creditori di Bta, la banca di cui Ablyazov è stato presidente e che è al centro di un complicato caso giudiziario. Su Ablyazov pende infatti un mandato di cattura internazionale emesso dal Kazakistan per una presunta sottrazione di 4,6 milioni di euro dalla banca. Il mistero di dove si trovi l’ex oligarca ai ferri corti con il presidente Nursultan Nezarbayev nasce tra l’altro dalle aule di tribunale, dove non si è presentato in occasione di udienze proprio relative al caso Bta all’inizio del 2012. Secondo alcune indicazioni, è a quel punto che Ablyazov avrebbe lasciato il Regno Unito, perché rischiava una sentenza di 22 mesi di detenzione. Risulta inoltre che l’ex banchiere sia determinato a ricorrere alla Corte europea dei diritti umani sostenendo che gli è stato negato il diritto a un giusto processo in Inghilterra.
Ma più in generale la storia di Ablyazov, di formazione fisico nucleare, parte dai tempi d’oro in cui venne individuato da Nazarbayev tra coloro, giovani e brillanti, che avrebbero potuto contribuire alla modernizzazione del Kazakhstan. Alla fine degli anni ‘90 fu nominato ministro dell’Energia, ma durante il suo mandato fu arrestato per corruzione. Il presidente kazako gli accordò tuttavia la grazia a condizione che da quel momento in poi si tenesse lontano dalla politica. Nel 2003 fu nominato presidente della Bta, per alcuni anni andò avanti rigogliosa. Tuttavia la crisi finanziaria con origine negli Stati Uniti ebbe conseguenze ovunque. Nel 2009 Ablyazov fu rimosso dalla presidenza e fuggì a Londra accusando le autorità locali di espropriazione. Nel 2011 ottenne l’asilo dalle autorità britanniche. Ma i suoi contatti con l’opposizione in Kazakhstan sembra abbiano provocato la collera di Astana. E la fuga dell’uomo.

Non potremo mai dimenticare che l’Unità, oggi caratterizzata dalla direzione di Claudio Sardo, ha vergognosamente a lungo tentato di occultare l’affaire, che ora fortunatamente è esploso nonostante loro, praticamente ancora fino a ieri, quando già La Stampa e Il Fatto lo denunciavano almeno da una settimana. La prima denuncia della stampa infatti fu del 5 luglio: vedi la nostra rassegna qui di seguito
l’Unità 14.7.13
Il giallo dell’espulsione revocata
Sul caso kazako ancora tensioni tra i ministri
Alma e la figlia ostaggi nel regno dei diritti negati
Il Kazakistan fa sapere che la moglie del dissidente espulsa dall’Italia «non è agli arresti domiciliari»
Ma farla uscire dal suo Paese non sarà facile
Nervosismo alla Farnesina
di Umberto De Giovannangeli

Non è in arresto, ma di fatto è in ostaggio. Consegnata a un regime per il quale la libertà è un optional è la caccia al dissidente la norma. Alma Shalabayeva «non è in prigione o agli arresti domiciliari», ma ha obbligo di residenza ad Almaty perché «sotto inchiesta sul rilascio del passaporto per il marito e i familiari in cambio di tangenti».
BRACCIO DI FERRO
La precisazione, sulle condizioni della moglie del dissidente kazako Muhktar Ablyazov, espulsa dall'Italia il 31 maggio, arriva dal portavoce del ministero degli Esteri kazako. «Tutti i diritti e le libertà della signora aggiunge il rappresentante di Astana come previsto
dalla legislazione kazaka e dalla legge internazionale, sono pienamente rispettati e garantiti dalle forze dell'ordine del Paese».
Una precisazione dovuta dopo il dietrofront della Farnesina che, una volta appreso del provvedimento di rimpatrio forzato in Kazakistan disposto nei confronti di madre e figlia e di cui non era stata messa a conoscenza, si è subito attivata per aiutarle. In particolare, le fonti sottolineano che il console italiano in Kazakistan si è recato nella casa di Alma Shalabayeva per raccogliere la sua firma in calce al ricorso contro il provvedimento di espulsione dell’Italia (provvedimento ora revocato dal governo italiano). Inoltre, «abbiamo preso contatti con le autorità kazake sollecitandole a rispettare tutte le prerogative e i diritti della signora», aggiungono le fonti. «Le autorità kazake ci hanno dato in proposito il loro impegno anche in forma scritta». Quanto all’espulsione, un comunicato del ministero degli Esteri kazako è lapidario: «Si tratta di un affare interno all’Italia».
STRADA IN SALITA
Ma il nervosismo alla Farnesina cresce col passare delle ore e delle difficoltà per riportare in Italia Alma e sua figlia Alua, di 6 anni. Relativamente alla dinamica del rimpatrio fonti ministeriali spiegano che con il fax del 29 maggio scorso inviato dalla Farnesina all’ufficio immigrazione della Questura di Roma si rispondeva alla richiesta avanzata dalla Questura su una eventuale copertura diplomatica di Alma Shalabayeva. La donna era indicata con il nome da ragazza e non era in alcun modo collegabile al marito, che gode di status di rifugiato nel Regno Unito. «Non potevamo fare sottolineano fonti del ministero nessun collegamento tra questa signora, indicata con il suo nome da ragazza e di cui ci veniva solo chiesto se godesse o meno di copertura diplomatica, e la moglie di Ablyazov». Come se non bastasse, c’è chi sostiene, in ambito Onu, che l'Italia abbia violato il Testo Unico Immigrazione secondo cui nessuno può essere in nessun caso rimandato verso uno Stato in cui rischia di subire persecuzioni».
LA DENUNCIA DI AMNESTY
In un nuovo rapporto pubblicato nei giorni scorsi, Amnesty International ha accusato il presidente del Kazakistan, Nursultan Nazarbaev, di ingannare la comunità internazionale con promesse non mantenute di sradicare la tortura e indagare sull'uso della forza letale da parte della polizia. Il rapporto, intitolato Vecchie abitudini: l'uso regolare della tortura e dei maltrattamenti in Kazakhistan, denuncia come le forze di sicurezza agiscano con impunità e come la tortura nei centri di detenzione sia la norma. Il documento di Amnesty International prende le mosse dalla repressione delle proteste di Zhanaozen, nel dicembre 2011, quando almeno 15 persone furono uccise e oltre 100 gravemente ferite dalle forze di sicurezza. Decine di persone vennero arrestate, imprigionate in celle sotterranee e sovraffollate delle stazioni di polizia e torturate.
«Non solo la tortura e i maltrattamenti sono radicati, ma questi non si limitano alle aggressioni fisiche da parte degli agenti delle forze di sicurezza. Le condizioni di prigionia sono crudeli, disumane e degradanti, i prigionieri vengono puniti con lunghi periodi di isolamento, in violazione degli standard internazionali», denuncia Nicola Duckworth, direttrice delle Ricerche di Amnesty International. Quattro anni fa, il Relatore speciale dell'Onu sulla tortura, in visita ad Astana, ha sostenuto di «aver raccolto molte denunce credibili di percosse con mani e pugni, bottiglie di plastica riempite di sabbia e manganelli in uso alla polizia e di calci, asfissia con sacchetti di plastica e maschere antigas, utilizzate per ottenere confessioni dai sospettati. In diversi casi, tali affermazioni sono state avvalorate da referti di medicina legale».
Il Kazakistan, rilancia Human Rigts Watch, «un partner rischioso, con un governo che intimidisce, maltratta, e arresta lavoratori che si battono per i propri diritti».
Il padre-padrone del Kazakistan, Nursultan Nazarbayev, 72 anni, è dal 1990 presidente della ricca repubblica asiatica ex Urss. Il clan Nazarbayev ha un patrimonio stimato in quasi 22,9 miliardi di euro, in buona parte venuti dal petrolio. E lo sfruttamento dell’«oro nero» è una carta di credito che Nazarbayev fa valere nelle sue relazioni internazionali. Per ottenere buoni favori. Anche se ciò significa calpestare i diritti di una donna e della sua bambina.

l’Unità 14.7.13
Tensioni tra ministeri
Il caso investe in pieno Alfano
Rimpalli di responsabilità tra Viminale e Farnesina
Mozione di sfiducia Sel e M5S al ministro dell’Interno, possibili frizioni nella maggioranza
di Ninni Andriolo


Al Viminale qualcuno sapeva, ma il ministro dell’Interno no. Il blitz della squadra mobile e della Digos di Roma sarebbero avvenuti a sua insaputa. E, oltre ad Alfano, erano all’oscuro di tutto anche Letta, Bonino e Cancellieri. La condivisione di responsabilità che emerge dalla nota con la quale Palazzo Chigi comunica la ritardata marcia indietro sull’espulsione della moglie del dissidente kazako Ablyazov, lascia ombre su un caso che imbarazza il governo, fa emergere frizioni tra i ministeri e crea sbigottimento anche sul piano internazionale.
Possibile che funzionari di polizia «di sicura esperienza abbiano deciso di agire, esponendosi, senza informare le istanze superiori»? Interrogativi che giungono da ambienti vicini al Viminale, questi. Letta attende la relazione del Capo della polizia, che dovrebbe giungere sul suo tavolo nelle prossime ore, e promette «che verrà accertata fino in fondo ogni responsabilità».
Ma un po’ tutti ammettono che la vicenda è delicata, e rischia di creare nella maggioranza nuove tensioni anche per via delle mozioni di sfiducia nei confronti del ministro dell’Interno annunciate da Sel e M5S rispettivamente alla Camera e al Senato. «Se Alfano sapeva dovrà spiegare in nome e per conto di chi sono stati disposti l’arresto e la consegna della signora Shalabayeva alle autorità kazake sottolinea Claudio Fava, deputato di Sel, chiedendo ad Alfano le dimissioni Ancor peggio se nulla ha saputo: sarebbe la prova di una sua inaudita inadeguatezza politica».
«Il governo è in balia dei burocrati attacca il leghista Molteni Letta si dia una svegliata». Ma il Pdl fa quadrato intorno al suo segretario. Da Cicchitto a Bondi, da Quagliariello a Rotondi. «La sinistra di Vendola e il Movimento 5Stelle non strumentalizzino intima Schifani Alfano, Letta e gli altri ministri non hanno alcuna responsabilità né politica, né operativa. Lo dimostra l’esito dell’indagine interna subito disposta e che ha chiarito la vicenda».
INCOMUNICABILITÀ TRA MINISTERI
La storia, in realtà, è tutt’altro che chiara e per venirne a capo «straordinaria velocizzazione dell’espulsione» compresa Letta ha preso l’iniziativa e ha fatto sedere intorno allo stesso tavolo ministri che sull’affare Ablyazov continuavano a comunicare poco. Malgrado la vicenda fosse finita sulle prime pagine dei giornali esteri e fosse diventata oggetto di interrogazioni parlamentare in Italia. Ieri, tra l’altro, si è sviluppata una polemica poco sotterranea tra Farnesina e Viminale. Una sorta di scaricabarile. E se il Corriere della Sera come prova che gli Esteri erano a conoscenza dell’espulsione della Shalabayeva aveva pubblicato un fax spedito il 29 maggio alla Questura di Roma (che aveva chiesto a sua volta conferma dell’immunità diplomatica di Alma Shelabayeva), fonti della Farnesina facevano sapere che la donna non poteva essere riconoscibile come moglie del dissidente kazako perché indicata dalla polizia col nome da nubile. Solo una distrazione?
Dal ministero degli Esteri fanno anche sapere che l’Italia si è immediatamente attivata con il Kazakistan per aiutare Shalabayeva ottenendo dalle autorità locali l’«impegno scritto» a rispettare «le prerogative e i diritti della signora». Un gesto conseguente al vertice di Palazzo Chigi e alla revoca del provvedimento di espulsione.
Dopo lo sconcertante giallo dell’arresto e del rimpatrio non sarà facile riportare in Italia in tempi rapidi la moglie e la figlia di Ablyazov, ma il presidente del Consiglio chiede che sul soggiorno kazako di Shalabayeva l’Italia mantenga accesi i riflettori. Letta cerca di tenere il governo al riparo dalle tensioni, ma le ricadute politiche del caso investono frontalmente il vice premier Alfano. Il senatore Pd Felice Casson punta il dito sull’amicizia tra Berlusconi e il presidente del Kazakistan e invita Letta ad esautorare il titolare del Viminale. Mentre Anna Finocchiaro e Pierferdinando Casini si attendono in Senato «una precisa ricostruzione che permetta di acclarare le responsabilità» di «un episodio che ha contorni inquietanti». «La vicenda avvertono non potrà concludersi scaricando responsabilità di comodo sugli ultimi anelli della catena di comando». Ma Daniela Santanché lancia il suo «avviso ai naviganti»: «Non tirate troppo la corda perché si spezza, per la difesa di Alfano nel Pdl non ci sono falchi o colombe»

l’Unità 14.7.13
L’indagine: «Informati gli uffici del ministro e del capo della Ps
Entro martedì la «verità» affidata al capo della polizia Pansa
Una lista di falsi ed errori
Viminale, Prefettura, Farnesina, Interpol: tutti sapevano
di Claudia Fusani


Tre giorni per trovare i responsabili, ha promesso il premier Letta. Le 72 ore scadono tra lunedì e martedì e allora il capo della polizia Alessandro Pansa avrà l’ingrato compito di scaricare su qualcuno colpe che sono di più persone e a vari livelli, tecnici e politici. E in realtà già noti perchè sono già stati ricostruiti nei minimi dettagli i passaggi degli eventi accaduti a Roma tra il pomeriggio del 28 e le 17 del 31 maggio, quando Alma Shalabayeva e Alua, moglie e figlia di Muktar Ablyazov principale dissidente politico del regime di Nazarbayev, sono state chiuse sul jet privato a Ciampino con destinazione Astana. Le 72 ore che il premier ha preso serviranno quindi solo a cercare il colpevole meno scomodo, quello che provoca meno effetti collaterali. Perché «il gigantesco pasticcio», mette le mani avanti una fonte di palazzo Chigi, «sembra essere sprovvisto di una vera e unica cabina di regia». Ma anche «non sapere» e «non vigilare» in questi casi è una colpa.
VUOTO DI GOVERNANCE
L’indagine di Pansa deve tenere in conto due elementi di contesto. Il primo: proprio in quei giorni al Viminale c’è una grandissima fibrillazione perchè dopo tre mesi finalmente il Dipartimento della pubblica sicurezza riavrà il Capo della polizia. La battaglia per la successione dell’amatissimo Manganelli dura da un mese, il ministro Alfano vuole il prefetto Pecoraro, il premier Letta aveva indicato Gabrielli, il Quirinale scioglie l’empasse e indica Pansa. Tra il 28 e il 31, quindi, il facente funzioni da tre mesi il vicecapo Marangoni sa che non sarà il suo turno. Il secondo dato di contesto è che Alfano, che ha fatto di tutto pur di avere le chiavi dell’Interno, è uno e trino nel senso che è anche vicepremier e segretario del Pdl. Insomma, troppo indaffarato per occuparsi del Viminale.
INTERNI ED ESTERI INFORMATI
Le comunicazioni istituzionali e operative circa il caso Ablyazov iniziano il giorno 28 maggio. Sono tante e diffuse. Dalla questura di Roma arrivano fino alla Polaria e al ministero, alla segreteria del capo della polizia e all’ufficio di gabinetto del ministro. Non solo, coinvolgono anche il ministero degli Affari esteri che nega di conoscere la signora mentre è vero che la Farnesina le aveva negato il rango diplomatico di console onorario per il sud Italia richiesto dalla repubblica del Centroafrica, status dichiarato da Alma al momento dell’arresto la notte tra il 28 e il 29 maggio. Quel giorno alti funzionari dell’ambasciata kazaka a Roma si presentano direttamente in questura, al capo della Squadra mobile Renato Cortese (l’uomo che ha arrestato Provenzano) sventolando la segnalazione di un’agenzia investigativa privata, con contatti in Israele, in base alla quale Ablyazov vive a Roma in una villetta di Casal Palocco 3. Nessuno in questura sa chi sia questo signore di cui si richiede l’arresto con tanta insistenza. Cortese informa il questore Fulvio Della Rocca (anche lui stimatisismo investigatore). Si prende tempo. E informazioni. Ma la situazione viene accellerata: i diplomatici kazaki salgono infatti anche le scale del Viminale, fino alla segreteria del capo della polizia e del gabinetto del ministro, e si presentano anche all’Interpol a cui chiedono di far pressione sulla polizia italiana per l’arresto visto che su Ablyazov pende un mandato di cattura internazionale richiesto dal suo nemico storico, il presidente Nursultan Nazarbayev, che lo accusa di aver sottratto 15 miliardi di dollari.
BLITZ E PASSAPORTI
La notte tra il 28 e il 29 una quarantina di agenti della Mobile e della Digos fanno irruzione per l’arresto del latitante. Lo possono fare senza autorizzazione della magistratura. Ma Ablyazov non c’è. C’è il cognato Borat, la moglie, Alma, Alua e personale di servizio. Alma non dice chi è: esuli dal 2009, nel 2011 la famiglia Ablyazov lascia anche Londra (dove sono rifugiati politici) per motivi di sicurezza. Vanno in Francia, Svizzera e Lettonia dove ottiene un permesso di soggiorno (che scade in ottobre 2013 e fino ad allora valido nei paesi Schengen). A settembre 2012 arrivano a Roma. Agli agenti in borghese Alma mostra il documento della Lettonia e un passaporto della Repubblica del Centroafricana con il suo nome da ragazza, Alma Ayan. Gli agenti giudicano falsi entrambi e la portano via, in questura, all’Ufficio immigrazione e al Cie di Ponte Galeria. Il 29 e il 30 se ne vanno per gli accertamenti. E senza poter contattare gli avvocati. L’ufficio passaporti della Polaria conferma che i documenti sono falsi. Ma sbagliano. Perchè? Nel frattempo il 30 maggio anche la questura apprende dall’ambasciata kazaka che Alma Ayan è titolare di due regolari passaporti kazaki (che però non mostra e non dice di avere) ed è moglie del noto Ablyazov.
L’OK DELLA PREFETTURA
A questo punto è chiara l’identità della donna i cui avvocati sostengono che abbia più volte chiesto asilo in quei terribili tre giorni e la polizia dovrebbe capire che l’espulsione è un rischio considerato che il marito è il nemico numero 1 del presidente kazako. Invece nessuno dice nulla. Il giudice di pace la mattina del 31 giudica Alma clandestina e come tale da espellere. Gli uffici del prefetto Pecoraro, caro amico di Alfano, firmano in fretta e furia. La procura di Roma e il tribunale dei minori danno il nulla osta ma nulla sanno della reale identità della donna. Che alle 17 dello stesso giorno, invece di essere a colloquio con i legali come le era stato promesso, viene imbarcata con la figlia su un jet privato che da Ciampino la consegna a uno stato che non rispetta i diritti umani ma può esercitare enormi pressioni internazionali grazie alle ricchezze energetiche. Il cui leader Nazarbayev ha ottimi rapporti con Berlusconi.
Il 25 giugno il Tribunale del riesame dichiara validi il passaporto del Centroafrica e il permesso di soggiorno lettone. Due giorni fa, dopo le pressioni di media nazionali e internazionali, il governo ammette che l’espulsione è stata illegittima. Ma è troppo tardi.

l’Unità 14.7.13
Il senso dello Stato
di Roberto Andò


QUANDO GLI UOMINI DELLO STATO DICHIARANO DI NON SAPERE QUELLO che fanno, a quale superstite senso dello Stato ci si può ancora appellare? Il senso dello Stato è una nozione che in Italia, per varie ragioni, appare da tempo ridicola. Ma la questione del ridicolo in cui sembra essersi fissata l’immagine dello Stato italiano, non sembra dopotutto così trascurabile. Non mi sembra cioè per nulla tollerabile che ci si sia abituati al ridicolo e che l’abitudine ci disponga ormai a trattare lo Stato come una impareggiabile melma paludosa. Oltretutto si sa che il ridicolo, come la stupidità, è incontenibile, tende a superare se stesso, a porsi traguardi sempre più alti. Così, dopo la nipote di Mubarak, giunge a noi, nella purezza adamantina restituitaci dai vari relatori del caso, l'affaire Shalabayeva, il giallo kazako. Noi italiani abbiamo conosciuto il segreto, la dimensione vile e direi putrida di questo corollario del potere, in tutte le forme possibili. Ne conosciamo le declinazioni più fantasiose, le più azzardate morfologie. Il mammifero politico italiano ci ha abituato a un senso sconfinato, e ingordo, del segreto di Stato. Ma da qualche tempo si è affermata, tra i responsabili del governo, tra gli uomini di potere, la prassi di descriversi, rispetto agli eventi di cui sono indiscussi protagonisti, con la sottile vaghezza di chi non c’era, col privilegio dell’irresponsabilità. Irresponsabili in quanto assenti da se stessi, irresponsabili in quanto non del tutto in grado di affermare la consistenza del proprio potere, o del prestigio che vi è connesso. Io non sapevo, non ero informato, ho saputo solo dopo. Questa divisione sconcertante dell’io, o evanescenza del potere rispetto alla nozione più discreta della funzione che a esso è delegata, la responsabilità, già portata alla più estrema sperimentazione dal postulato di Scajola, in quell’ardita formulazione con cui egli seppe comprare un bene, la propria casa, senza esserne informato, è ormai ufficialmente divenuta la forma ordinaria dell’esercizio del potere in Italia.
La vigilanza che Roland Barthes indicava come il quid che renderà sempre distinguibile il confine tra l’essere di destra e l’essere di sinistra, qui, in Italia, non ha più alcun motivo d’essere. Come essere vigili nei confronti di chi non c’è, nei confronti di chi c’è ma non c’è? A meno di far ricorso a degli acchiappafantasmi, è una missione che appare impossibile. La scissione dell'io, la sinistra al governo, la sinistra come alternativa a questo governo, siamo immersi in questo scenario dove nulla è quello che dovrebbe essere, nulla ciò che appare. La democrazia e il governo, in Italia, si sono definitivamente tramutati in ilare e tragica seduta spiritica, i cui convitati, a sinistra, si cimentano nell’arduo compito di provare a esistere in contumacia, convocando di tanto in tanto la propria parte assente, nel tentativo di riannodare il filo ancora potente delle voci dei propri dei scomparsi.
La sinistra coinvolta in questo governo, questa sinistra destinata a un imbarazzo irresolubile, cerca di sintonizzarsi col messaggio emesso dalla propria voce nascosta, quello cui non riesce più a dare ascolto, quella voce le cui ultime, residue, dignità ha scelto di lasciare esposte al logorio, e con essa i pochi nomi spendibili, anch’essi lasciati, giorno per giorno, e con dovizia d’intenti, a un vano, vacuo, tiro al bersaglio.

La Stampa 14.7.13
Kazakhstan, il caso Ablyazov
Il regno del petrolio che fa gola a Roma
Dal trattato strategico del 1992, l’Italia è tra i principali partner commerciali ed economici di Astana
Il Paese è cresciuto negli ultimi 20 anni a un tasso dell’8%"
Sono 53 le imprese italiane che hanno stabilito una base fissa secondo le stime dell’Ice"
di Francesco Semprini


Ciò che impressiona osservando Astana sono le rigide geometrie che ne definiscono la toponomastica, sulla quale si erigono le stravaganti architetture di Norman Foster, Kisho Kurokawa e Manfredi Nicoletti. Geometrie imposte dal presidente Nursultan Nazarbaev quando ha trasferito la capitale del Paese dall’antica Almaty in quella che viene definita la cattedrale nel deserto d’inverno. Le stesse su cui il primo e unico capo di Stato dell’ex repubblica sovietica ha improntato la sua politica di sviluppo economico e commerciale, con un nucleo centrale costituito dalla risorse energetiche, uno esterno rappresentato da infrastrutture, tecnologia e know-how, ed una serie di attività che si sviluppano a raggiera. E con una scala di priorità ben definite in termini di partenariato, fatta di rapporti privilegiati «in cui è compresa l’Italia», ci spiega il vice primo ministro Kairat Kelimbetov.
Il Paese ha registrato negli ultimi vent’anni un tasso di crescita medio tra i più dinamici al mondo, circa l’8%, secondo soltanto alla Cina e al Qatar. A rendere attraente il Kazakhstan è la posizione strategica, l’ampiezza del territorio (il nono del Pianeta), e la grande ricchezza del sottosuolo. Occupa il 12 esimo posto al mondo per le riserve di petrolio e il 14 esimo per quelle di gas. Oltre alla stabilità politica, figlia - non pochi osservano - dei labili confini della democrazia locale.
Dal 1992 in poi i rapporti tra Italia e Kazakhstan si sono rafforzati progressivamente in particolare con il Trattato di partenariato strategico firmato in occasione della visita a Roma di Nazarbaev, nel novembre 2009. Del resto è nota la simpatia tra l’allora premier, Silvio Berlusconi, e il presidente kazako, sebbene le relazioni tra i due Paesi siano proseguite sul solco della cooperazione anche dopo, con Monti prima e Letta poi (almeno dai primi contatti), come tiene a sottolineare Kelimbetov in occasione dell’Astana Economic Forum. In base ai dati kazaki, l’Italia è il secondo Paese destinatario dell’export (petrolio in larghissima parte), con una quota del 18% sul suo interscambio totale, seconda solo alla Cina. I dati del ministero degli Esteri la confermano al secondo posto come Paese esportatore in Kazakhstan dopo la Germania - in ambito Ue, ed il sesto in assoluto, con oltre 900 milioni di euro nel 2012 (oltre il 70% di tutta l’Asia Centrale), ovvero cinque volte rispetto a dieci anni fa. Inoltre l’Unione doganale tra Russia, Bielorussia e Kazakhstan, offre all’Italia opportunità per 34 miliardi di euro. Il Paese ha svolto in Kazakhstan, negli anni immediatamente successivi alla sua indipendenza (1990), un ruolo da pioniere, prima di tutto con Eni. Il colosso degli idrocarburi è co-operatore del giacimento in produzione di Karachaganak, e partecipa al consorzio North Caspian Sea Psa per lo sviluppo del giacimento Kashagan.
«Il Kazakhstan è per noi un impegno prioritario di lungo termine, dal punto di vista degli investimenti e della produzione futura - spiega Claudio Descalzi, direttore generale del settore Esplorazioni e Produzione -. Come nostra tradizione, non ci limitiamo a sviluppare e commercializzare le risorse presenti nel Paese ma investiamo in progetti volti a favorire lo sviluppo sociale e industriale locale, iniziative che vanno al di là del nostro core business».
Dietro all’ Eni in Kazakhstan sono arrivate anche molte e piccole e medie imprese del settore «oil and gas», e in seguito, aziende del settore infrastrutturale o impegnate nelle costruzioni come Salini-Todini, Impregilo, Italcementi, Renco ed altre ancora. Sono 53 le società italiane con sede in Kazakhstan, secondo le stime 2013 dell’Ice, la maggior parte ad Almaty e Astana, oltre a un centinaio di joint-venture italokazake. Dal 2007 è attiva anche Unicredit che controlla la quinta banca del Paese.
«Ma non di sola energia e cemento sono fatti i nostri rapporti commerciali», spiega Kelimbetov, il quale annunciava a fine maggio il varo «di una serie di accordi nel settore tecnologico». Alcuni di questi rientrerebbero nel progetto di collaborazione «strategica» tra Milano Expo 2015 e Astana 2017 per lo scambio di knowhow italiano. Un ruolo assolutamente privilegiato quindi quello del «made in Italy» consolidato e ampliato, in ultima istanza, con una crescita di esportazioni nei settori abbigliamento, lusso e arredo, funzionali alle rigide geometrie estetiche di Nazarbaev.

La Stampa 14.7.13
Il presidente
Il “riformatore laico” che guida un Paese a conduzione familiare
di Anna Zafesova


A 72 anni Nursultan Nazarbaev è il leader più longevo al potere nell’ex Urss, in carica ininterrottamente dal 1989
È il primo e unico presidente di un Paese che prima di lui non esisteva
L’Enciclopedia Britannica lo definisce «riformatore», le Ong internazionali lo chiamano «satrapo», in patria porta il titolo ufficiale di Elbasy, leader della nazione, che gli da il diritto di farsi rieleggere presidente a oltranza e offre a tutta la sua famiglia l’immunità giudiziaria.
Passato indenne da primo segretario del partito comunista a primo e unico presidente di un Paese che in un certo senso gli appartiene.

Nel Kazakhstan, noto all’estero più che altro come patria di Borat (che ha proibito il film di Sasha BaronCohen), la famiglia del presidente – tre figlie, generi, nipoti, fratelli e cugini – possiede e/o dirige banche, tv, compagnie petrolifere. La figlia Dinara e il marito Timur Kulibayev sono entrambi miliardari (in dollari), la sorella Dariga è un po’ meno ricca (mezzo miliardo) ma molto più potente e si dice sostituirà il padre se nel 2016 non si ricandiderà per ricevere il solito 95% dei voti. Quanti soldi abbia il capofamiglia non è dato sapere, ma circolano voci su 11 miliardi di dollari su un suo conto privato in Svizzera, qualcuno dice dirottati da fondi pubblici, qualcuno formati dalle tangenti che le major petrolifere internazionali pagavano per avere le licenze. Il sospetto era venuto anche agli americani che indagavano sul «Kazakgate», che ha ispirato «Syriana» di George Clooney ma è finito in nulla di fatto.
I genitori di Nazarbaev erano contadini analfabeti, i figli frequentano il jet-set internazionale, yacht, diamanti, aerei privati, con Dariga che coltiva il suo hobby di soprano su palchi prestigiosi come il Bolshoi e la minore Alya che, dopo un matrimonio dinastico fallito con il figlio dell’ex presidente kirghiso Akaev (cacciato da una rivolta popolare), si è data al design di gioielli, che vende a non meno di 100 mila dollari a pezzo. Parabole possibili solo nei Paesi ex comunisti, ma che il giovane Nursultan certo non si immaginava quando aveva cominciato: scuola tecnica, operaio, dirigente del partito, fino a sfiorare la carica di primo ministro dell’Urss con Mikhail Gorbaciov che in questo kazako perfettamente assimilato ai russi, diplomatico, intelligente e pragmatico aveva visto il potenziale nuovo leader.
Dall’Urss che Nazarbaev aveva difeso fino all’ultimo ha ereditato un pezzo gigantesco e ricchissimo di materie prime e industrie, gestendolo con il solito misto di Europa e Asia: drastiche riforme di mercato, tassi di crescita a due cifre, accanto a un khanato familiare con elezioni sempre più farsesche. Un laico colto che scrive libri e invita Norman Foster a costruire la sua nuova capitale, ma anche un leader autoritario che censura, incarcera (gli oppositori aggiungono «uccide» ricordando la morte del loro leader Altynbek Sansyrbaev nel 2006). Piace a cinesi, russi e americani, guarda all’Europa, partecipa a vertici internazionali, mentre manda in esilio, anche i parenti come l’ex genero Rakhat Aliev accusato di sequestro e omicidio e fatto divorziare a sua insaputa, e ordina di sparare sugli operai in sciopero. A differenza dei colleghi dittatori asiatici non incoraggia monumenti a se stesso, pragmatico come sempre vorrebbe l’immortalità fisica, che più volte ha chiesto ai suoi scienziati di cercare. Forse perché in fondo non si fida a cedere il potere alle figlie.

il Fatto 14.7.13
Il rifugiato
Ablyazov, il banchiere che rischiava di far ombra al “padrone”
di Maurizio Molinari


In esilio L’oppositore ed ex banchiere Mukhtar Ablyazov è considerato dagli agenti di Nursultan Nazarbaev il più pericoloso degli avversari Vive come rifugiato a Londra e si sposta da clandestino in Europa

Mukhtar Ablyazov si sposta da clandestino nel cuore dell’Europa sognando di essere eletto presidente kazako ma intanto è inseguito da accuse di truffe miliardarie e dagli agenti di Nursultan Nazarbayev che lo considerano il più pericoloso degli avversari: la vita quotidiana dell’ex banchiere e maggiore oppositore di Astana riassume le faide di potere nel Kazakistan post-sovietico.
Nato nel villaggio di Galkino, nel sud, Ablyazov ha 28 anni quando l’Urss implode, si fa largo come imprenditore e Nazarbayev, leader dell’ex repubblica sovietica ora indipendente, lo vuole vicino fino a nominarlo capo della compagnia elettrica e quindi ministro di Energia, Industria e Commercio. È il 1998 e Ablyazov ha la responsabilità dei maggiori giacimenti di gas e petrolio dell’Asia Centrale. L’intesa con Nazarbayev lo porta alla guida della «Bank TuranAlem» (BTA) che viene privatizzata diventando l’interfaccia delle maggiori banche internazionali in gara per investire nelle ricchezze naturali. Se Nazarbaev è il leader politico assoluto, la stella di Ablyazov cresce sul fronte economico. Si parla di Mukhtar come del delfino, leader di una nuova generazione destinata a imporsi. Ecco perché i rapporti fra i due prima vacillano e poi si incrinano.
Il corto circuito arriva nel 2001 quando Ablyazov fonda «Scelta democratica del Kazakistan» assieme ad un gruppo politici e imprenditori coetanei che assomigliano ai nuovi oligarchi russi. E’ l’atto di nascita dell’opposizione. Intollerabile per Nazarbayev, che lavora ad una successione dinastica del potere, e Ablyazov finisce in galera per «abuso di potere» con una sentenza che lo trasforma nel nemico pubblico numero 1. Da questo momento, è il 2002, Nazarbayev bracca Ablyazov. Lo imprigiona e vuole tenerlo in cella 6 anni ma le proteste internazionali lo obbligano a liberarlo dopo 6 mesi.
Quando Mukhtar si rifugia a Mosca sfugge a ripetuti tentativi di assassinio mentre la sua banca viene accusata di aver fatto sparire una montagna di miliardi. Ablyazov perde il controllo della BTA e ripara a Londra, dove riceve asilo e va a vivere con moglie e figli in una villa con nove stanze sulla Bishop Avenue, la «strada dei miliardari». Ma Nazarbayev lo bracca anche qui, accusandolo davanti all’Alta Corte britannica di aver trasferito off-shore almeno 4 miliardi di dollari. Nazarbaev si sente tradito due volte dall’ex delfino - di 20 anni più giovane di lui - perché prima ha tentato di rovesciarlo e poi, dopo averlo graziato consentendogli di riparare a Mosca e Londra, ha continuato a finanziare l’opposizione. In effetti Ablyazov continua a battersi. Lo conferma nel 2011 quando giornali e tv a lui vicini Vzglyad, Golos Respubliki e K+ - danno grande risalto alla sanguinosa repressione degli scioperi petroliferi. Nazarbaev ne ordina la chiusura e la stessa sorte tocca ad «Algha», il partito d’opposizione filo-Mukhtar. La sfida fra i rivali è incessante. Ablyazov perde in giugno la battaglia davanti all’Alta Corte britannica - che ordina il sequestro dei suoi beni - e Nazarbayev assapora la possibilitè del colpo del ko perché l’avversario ora ha meno fondi, è più vulnerabile. Per questo Ablyazov sparpaglia la famiglia: moglie e bambina piccola in Italia, gli altri tre figli in Svizzera o forse altrove, lui in fuga senza fissa dimora. Con l’operazione top secret per catturarlo a Roma Nazarvayev vuole chiudere il match. Ma Ablyazov non c’è. E la sfida continua.

La Stampa 14.7.13
Yelemessov, l’ambasciatore che trattava soltanto con gli uomini del Viminale
di Maria Corbi


Da 20 anni in Italia L’ambasciatore kazako Andrian Yelemessov negli Anni 90 lavorava per una società di Reggio Emilia

Andrian Yelemessov, ossia l’ambasciatore del Kazakhstan in Italia, il grande tessitore del rimpatrio-pasticcio Ablyazov. «Procedure di rimpatrio corrette», dichiarava ieri. Questione di punti di vista. Certamente corrette per il suo, visto che dalle stanze dell’ambasciata sono partiti gli input ai troppo solerti funzionari di polizia che si sono incaricati di caricare madre, Alma Shalabayeva, e figlia (la piccola Alua, 6 anni) su un aereo kazako. Stanze tetre, quelle dell’ambasciata, in una villa sulla Cassia famosa per gli strani fenomeni che vi accadono. Villa Manzoni, detta anche villa del Diavolo, costruita sui resti di una necropoli etruscoromana, con la fama di ospitare fantasmi di tremila anni prima e di emanare influssi negativi. Nel 1960 Totò ci girò per tre giorni un film, «Noi duri», e il protagonista Fred Buscaglione pochi giorni dopo morì in un incidente d’auto. Anche per questo non è stato facile trovare qualcuno disposto ad abitarci. Fino ai kazaki. Yelemessov sembra starci benissimo con la mogie Aigul (che definisce la sua migliore amica) e i quattro figli sparpagliati tra le scuole internazionali vicine. Classe 1963, Andrian (in onore di un astronauta russo entrato in orbita il giorno della sua nascita), tiene molto ai rapporti sociali, soprattutto quelli con imprenditori e manager. Mentre amerebbe poco le visite alla Farnesina. Dal settembre 2012, data del suo insediamento, poche volte lo hanno visto, ancora meno lo hanno sentito, dato che non lascia il suo cellulare neanche ai funzionari competenti per quell’area. Si era prodigato per organizzare velocemente una visita del suo ministro degli Esteri a marzo, ma non è stato possibile causa mancanza di governo. Sembra che invece lo conoscano molto di più negli ambienti della polizia. E questo spiegherebbe l’autostrada di favore aperta per l’espulsione di moglie e figlia del dissidente Mukthar Ablyazov, uomo d’affari accusato di truffa, nemico giurato del presidentissimo, autocrate dell’ex repubblica sovietica ricca di petrolio, Nursultan Nazarbaev, 73 anni, ottimi rapporti con Berlusconi ma non solo. Molte le aziende italiane, a iniziare dall’Eni, che fanno affaroni con il Kazakhstan, dove l’aliquota dell’Iva è del 12 per cento e la pressione fiscale è del 29,6 per cento. Sarà per la sua capacità di connettere affari, sarà per qualche buon auspicio, nel 2008 l’ambasciatore viene nominato Cavaliere dell’Ordine Al Merito della Repubblica Italiana.
Parla bene l’italiano Yelemessov, visto che qualche anno fa, inizio Anni 90, dopo la laurea in Ingegneria, ha vissuto vicino a Reggio Emilia lavorando come responsabile di una società a capitale misto italiano e kazako, la Kazakh Ital Karakul, una delle prime joint venture kazake all’estero. Nei programmi avrebbe dovuto lavorare 2 milioni di pelli di Karakul e 500 mila pelli di pecora all’anno per l’industria della moda. Ma non ce ne sono tracce. Nel 2001 inizia la carriera diplomatica. Diventa console a Roma e poi, tornato al suo paese, responsabile del protocollo di stato di Nazarbayev. Nel 2012 è di nuovo a Roma dove ritrova vecchi amici. A dicembre in occasione del 21° anniversario dell’Indipendenza della Repubblica del Kazakhstan, invita a villa Manzoni, tra gli altri, i parlamentari Lamberto Dini, Riccardo Migliori, Tiziano Treu, Gian Guido Folloni, Vittorio Sgarbi. Riccardo Fogli intrattiene gli ospiti con «Storie di tutti i giorni». Il 10 luglio ha compiuto 50 anni. Ma il pasticcio Ablyazov gli ha rovinato la festa.

il Fatto 14.7.13
Incandidabilità o decadenza? Il Pd spera nella Cassazione
Nella Giunta delle elezioni del Senato i due provvedimenti potrebbero arrivare negli stessi giorni, ecco perché i Democratici confidano che la sentenza sui diritti tv Mediaset arrivi prima
di Eduardo Di Blasi


A Palazzo Madama in molti sperano che il 30 luglio la Cassazione tolga le castagne dal fuoco alla strana maggioranza che sostiene il governo Letta. In Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari del Senato ballano infatti i due provvedimenti “finali” su Silvio Berlusconi: l’ineleggibilità e l’eventuale decadenza in caso di condanna definitiva nel processo per i “diritti-tv Mediaset”.
ENTRAMBI i procedimenti arriveranno tra lo stop del parlamento per le ferie estive e la riapertura di fine agosto inizio settembre. Ecco perchè a Palazzo Madama, e in giunta delle elezioni più che altrove, il calendario diventa determinante. Vediamo perché.
Martedì la giunta senatoriale si riunirà per organizzare i propri lavori sul tema dell’incandidabilità. Già svolta la relazione introduttiva dal relatore Andrea Augello (Pdl), si dovrà imbastire il dibattito generale (che si stima prenderà una o al massimo due sedute) e la successiva fase istruttoria in cui si dovrà presentare la documentazione del caso. Visto il dibattito fin qui avviato, i testi da dover acquisire dovrebbe limitarsi alle sentenze sui diritti tv Mediaset e alla documentazione sull’atto concessorio attraverso cui Mediaset trasmette sul territorio nazionale. L’intero provvedimento sull’incandidabilità si basa infatti sulla seguente domanda: Silvio Berlusconi è referente economico di una società concessionaria di frequenze televisive (Mediaset)? Nelle precedenti legislature in cui il tema fu posto (XII, XIII, XIV e XV), qualunque fosse la maggioranza al governo, la risposta fu un “no”. Oggi, però, se Pd, Sel e Movimento 5 Stelle decidessero in senso opposto, il verdetto potrebbe mutare.
Silvio Berlusconi per ora non si muove. Non ha nemmeno presentato una memoria difensiva in Giunta, segno che non ha interesse ad allungare i tempi del dibattito. Se quindi il provvedimento dovesse andare con i ritmi con cui ha preso avvio, una decisione sulla sua incandidabilità dovrebbe arrivare in giunta alla fine di settembre o al massimo per la prima settimana di ottobre (poi toccherebbe al voto segreto dell’aula di Palazzo Madama).
E qui nascono i problemi. Il gruppo del Pd, infatti, che non è compatto nemmeno all’interno della compagine di Giunta, spera che la Cassazione possa invertire l’ordine dei lavori. Un’eventuale condanna che porti con sé la pena accessoria della interdizione dai pubblici uffici potrebbe infatti trascinare anche i lavori senatoriali.
Vediamo i tempi con cui maturerebbe il provvedimento di “decadenza”. Se la Cassazione arrivasse il 30 luglio, il presidente del Senato (che deve aspettare non la sentenza ma le sue motivazioni) dovrebbe ricevere l’incartamento da girare alla Giunta entro la fine di agosto. A quel punto l’organo di autogoverno di Palazzo Madama dovrà decidere se andare avanti con l’incandidabilità o dare avvio al provvedimento di decadenza di Silvio Berlusconi. La scelta è appannaggio del presidente Dario Stefano (Sel), ma la maggioranza potrebbe decidere di contestare la decisione e invertire il calendario proposto.
Si dovesse optare per inserire la decadenza, i tempi del provvedimento proseguirebbero così: se nessuno solleva il “fumus” accusando la magistratura intera nei tre gradi di giudizio di essersi accanita nei confronti del fondatore di Mediaset, per la presa d’atto del provvedimento occorrerebbe anche qui di un paio di settimane.
A METÀ SETTEMBRE, dunque, si potrebbe dover fare i conti con la decadenza di Berlusconi. Se la sentenza della Cassazione arrivasse però a metà settembre, quasi in coincidenza dunque con il rush finale sull’incandidabilità, le sue motivazioni sarebbero sul tavolo della Giunta una ventina di giorni dopo, quindi a inizio ottobre. Vale a dire proprio nel momento in cui si dovrà decidere per l’incandidabilità di Berlusconi. Proprio per questo, spiegano i ben informati, il Pd vorrebbe allungare di qualche settimana il dibattito, sperando che la Cassazione faccia presto il suo lavoro.
Sul tema esistono poi due variabili. La prima, Berlusconi assolto, metterebbe il Pd in seria difficoltà nel votare a stretto giro la sua incandidabilità. La seconda, Berlusconi che si dimette, da molti data per assai probabile, avrebbe esiti imprevedibili.

il Fatto 14.7.13
Marco Revelli: “Il Pd ha perso contatto con gli elettori e si aggrappa solo al potere"
Autoreferenzialità. L’amore per banche e poltrone
I Democratici si muovono “come se avessero perso il legame con la realtà”, spiega il politologo
intervista di Wanda Marra


Non mi aspettavo molto dal Pd, sono sempre stato molto critico. Ma sono davvero esterrefatto dal disordine mentale che sta rivelando. L'impressione è di un processo di decomposizione dell'orizzonte in cui si muove come se avesse perso completamente il legame con la realtà”. Marco Revelli, politologo, una delle voci più autorevoli della sinistra alternativa, autore di un libro da poco uscito “Finale di partito” ci va giù pesantissimo.
Professore, in che senso il Pd ha perso i legami con la realtà?
È come se non si rendesse conto dell'estrema gravità di tutta la vicenda che riguarda Berlusconi, condannato in primo grado a 7 anni per concussione e prostituzione minorile. E condannato in due gradi di giudizio per frode fiscale. Tutto ciò sembra scomparire nella valutazione del Pd. Non ha nessuna percezione della gravità dei messaggi che lancia.
Per esempio?
Accondiscendere alla sospensione dei lavori del Parlamento per lutto nei confronti dell’anticipo della sentenza della Cassazione su Berlusconi. E ho trovato devastante che Napolitano ricevesse B. il giorno dopo la sentenza Ruby. È una destabilizzazione catastrofica del senso morale.
Come si è potuti arrivare a questo?
A causa dell’irrimediabile separazione tra questo micro mondo e il mondo reale in cui vivono gli elettori. Le larghe intese sono state lo strappo finale. Ma uno strappo apparente: in realtà c’è una collusione che viene da lontano. Buona parte del ceto politico di quel partito ha già appaltato quel confine morale da tempo e forse viveva con imbarazzo il proprio dover essere contro. Forse fin dal ‘94, da quando scoprirono che quello che consideravano un outsider era un vincente. Il fatto che non sia stata fatta valere l’ineleggibilità di Berlusconi dimostra che nel sottofondo psichico degli ex comunisti, pentiti di essere stati tali, Berlusconi rappresentava il mondo così com'è e come dovrebbe accettare di essere.
A questo proposito è normale che nel Pantheon del Pd appaiano figure come Marchionne?
Nel Pd pirandellianamente ci possono stare tutti e quindi nessuno. Ci sta solo un ceto politico autoreferenziale e cinico di fondo che non crede in quasi nulla e cerca d'intercettare consensi senza riuscire più a distinguere il bene dal male anzi tendenzialmente scambiando il male con il bene.
E intanto si moltiplicano i banchieri, da Chiamparino a Cabras. Come si spiega anche l’interesse del Pd per le banche, e in generale, per le poltrone?
Un partito che perde l’orizzonte di valori e il rapporto col proprio elettorato vive di rapporti di potere. Questo è insieme il sintomo e la causa della sua crisi.
Di fronte a tutto questo non ci sono neanche grosse mobilitazioni di protesta dal basso. Come se lo spiega?
Lo attribuirei a due fenomeni. Da anni la politica in quel partito si è fatta dall'alto. E poi, è andata in crisi la forma partito. Quel modello organizzativo non garantisce più la “responsiveness”, la capacità di un gruppo di rappresentanti di percepire gli umori dei rappresentati o la possibilità di questi ultimi di influire sui rappresentanti.
Sulla scena politica si è affacciato prepotentemente un movimento. È andata meglio?
Il Movimento 5 stelle lo considero più un sintomo della crisi che non una soluzione. È stato uno straordinario veicolo del disgusto di massa nei confronti delle forme della politica. Ma non aveva le forme né culturali né organizzative per costruire un'alternativa a quella crisi.
Tornando al Pd, il congresso può cambiare qualcosa?
Figuriamoci.
Renzi?
Quasi certamente vincerà non perché abbia una risposta ai problemi, ma perché ha una diversa retorica. Ed è un outsider rispetto a un apparato odioso. Non porterà nessuna soluzione ai problemi dell’Italia, ma servirà a rinviare la dissoluzione di quel non partito.
Esiste una via d’uscita?
Certo. C’è un'Italia orfana di politica e tuttavia attiva. Quella di cui parla Settis nel libro Azione popolare: potrebbe rappresentare un'alternativa a questa dissoluzione se solo trovasse una grammatica dell'indignazione. Ovvero un modo di articolarla in discorso politico. Trentamila associazioni sono il reticolo vivacissimo di un'Italia umiliata da questa gente che non la vede nemmeno.

il Fatto 14.7.13
Pd, il partito fibrilla E si disintegra nel nulla
di Paolo Ojetti


La Fibrillazione. Fibrillare. Fibrillante. Ecco la nuova parola, il nuovo verbo dove nascondersi per non dare le notizie. Il partito di Epifani tracolla davanti a Berlusconi? Si disintegra su ineleggibilità e sulle serrate parlamentari pretese dai berluscones? Niente, basta dire che “è in fibrillazione”. Fibrilla oggi, fibrilla domani, il popolo dei teleutenti ci fa l’abitudine: e va bene, fibrillano sempre, amen. Se dovesse mai capitare un Pd che non fibrilla, allora sì che gli italiani tutti si preoccuperebbero. Una volta – soprattutto nel Tg1, ma non solo – c’era il “centro del dibattito”. Tutto finiva lì, il bene e il male, le rose e la cacca. Il “centro” del dibattito era una specie di frullatore: in ogni caso, ne usciva poltiglia. La fibrillazione ha il medesimo uso e crea ad arte una tremenda confusione. Chiedere per credere: “Lo sai, Giovanni è andato in fibrillazione”. “Perbacco, è iscritto al Pd? ”. Per bilanciare la fibrillazione, c’è il “confronto”. Questo è nel Pdl. C’è sempre un “confronto fra le due anime”, ma se si parla di “falchi e colombe”, ecco Lupi: “Non ci sono falchi e colombe, ma solo diverse visioni politiche”. Questa settimana è apparso spesso, ma almeno tutti lo conoscono e lo evitano. Per i consociati del Pd, il microfono dei tg va invece in bocca a qualche sconosciuto impavido: l’importante è che ci sia un renziano e uno qualsiasi.
LA FUGA dei telegiornali dalla realtà dolente della crisi (solo Sky ha avuto il coraggio di aprire con i cortei di Fabriano, un quarto stato alla disperazione), degli inciuci e dei sequestri internazionali a insaputa di Letta e dell’intero governo, Bonino compresa (il resto del mondo, tranne i kazachi, si sta scompisciando), è stata agevolata da una colossale bufala: i bimbi sono “piezz’e core” e, quindi, Enrico Letta nella parte di don Matteo è apparso per due giorni con il decretino in mano, con tutte le mezze buste nella parte di commosse mamme. Non è colpa di Letta, magari ci teneva, ma abbiamo il fondato sospetto che l’adorazione sia andata (come accadeva per Monti) al di là delle aspettative del nuovo beato. Il massimo del surreale si è verificato però ieri mattina. Il ministro del turismo, Massimo Bray, ha esposto a Rai Parlamento un programma molto meditato: detassare il settore, potenziare la visibilità del patrimonio artistico, rilanciare un “comparto che è il 10 per cento del Pil”. Sono iniziative quasi dadaiste, Bray pensa di governare a lungo. Ancora non lo hanno avvertito.

l’Unità 14.7.13
L’Enciclica e la critica dell’individualismo
di Mario Tronti


LA LETTURA POLITICA DI UN’ENCICLICA NON È OPPORTUNA. OPPORTUNE SONO ALTRE LETTURE: teologica, pastorale, ecclesiale. E, per rispetto, è bene lasciare queste letture a chi di dovere. E tuttavia un politico pensante sarebbe bene che dedicasse qualche ora del suo tempo ad attraversare questa sapienza mondana che viene da un altro mondo. C’è molto da imparare. Discorso religioso e discorso politico non si intrecciano soltanto fuori dell’Occidente secolarizzato. Stanno anche qui da noi, insieme, solo in modi diversi, per diverse ragioni, con diversa intensità. In Italia, poi, c’è una storia che pesa, antica e moderna, che impone larghi tratti di lingua comune. Il dibattito pubblico, dall’intreccio dei discorsi, ha tutto da guadagnare, per sollevare il suo livello, per corrispondere sempre più da vicino nella vita delle persone. Lumen fidei ci interroga. Disporsi all’ascolto è il primo passo. Impegnarsi nella risposta, è il secondo. Il terzo, fondamentale, è l’assunzione del problema. E il problema è il senso della fede in un mondo che, siccome non crede più nelle cose grandi, finisce per credere solo alle cose futili. È singolare questo testo. Le quattro mani, dei due Papi, si sentono. La vedo così: la speranza di Bergoglio viene ad aggiungersi alla disperazione di Ratzinger. L’incredulità sfocia nell’idolatria, «l’opposto della fede». E c’è idolatria secondo la definizione che Martin Buber riprende dal rabbino Koch «quando un volto si rivolge riverente a un volto che non è un volto». L’altra faccia dell’incredulità è l’indifferenza. Papa Francesco va a Lampedusa a denunciare quella «globalizzazione dell’indifferenza», dove «l’illusione del futile, del provvisorio» nasconde la tragedia del nostro tempo, che, tutte, sono a carico dei dannati della Terra.
Ma la mano di Papa Benedetto è dominante. Chi ha voluto l’Anno delle fede pensava già di concluderlo con questa riflessione a tutto campo. Dal giovane Nietzsche a Wittgenstein, tra Paolo e Agostino, lo spostamento è da fides et ratio a fides atque veritas. Credere non è il contrario di cercare, è la sua vera condizione. Bisogna sapere che cosa si cerca. La critica al relativismo viene presa da un’altra parte, da una orizzonte di fede, il solo in grado di dare luce. Chi crede, vede. E il vedere credendo è un cammino, una via, anzi un viaggio. Ecco però il punto essenziale: non in solitudine, ma in comunità. È impossibile credere da soli. E chi crede non è mai solo. Chi crede da solo si illude, e rimane vittima delle illusioni del mondo. Perché è «la crisi di verità», il contesto storico in cui viviamo, quello in cui ci fanno vivere. Qui è «il grande oblio nel mondo contemporaneo».
La critica dell’individualismo dominante nel tempo presente è il filo che lega il teologo Ratzinger al pastore Bergoglio. Diventa indifferente a chi dei due vada attribuita la frase: «La fede non è un fatto privato, una concezione individualistica, un’opinione soggettiva, ma nasce da un ascolto ed è destinata a pronunciarsi e a diventare annuncio». Fede e verità significa questo: il doppio senso in cui si può dire il detto di Isaia. Nella versione greca: se non credete, non comprenderete. Nella versione ebraica: se non credete, non resterete saldi. Comprendere, con la ragione, vuole dire stare saldi, nella fede. Allora la verità grande è «la verità che spiega l’insieme della vita personale e sociale».
Di qui, il bellissimo concetto di «esistenza credente». Io credo questo, oggi, l’unica figura di esistenza veramente libera. Perché il credere a niente porta al credere a tutto. E questa è l’oppressione moderna, la dittatura occidentale, garantita dai diritti, praticata dai comandi, visto che nessun’altra forma di convivenza è possibile, oltre a questa che ci è data. Se la fede è «toccare con il cuore», come dice Agostino, e come sta praticando Bergoglio, allora c’è da introdurre, nel mondo così com’è, la passione di un altro futuro, per le persone, per la società. Mi piacerebbe trovare in un documento congressuale l’audacia e la forza che trovo in una indicazione di questa Enciclica: «Trasformare il mondo, illuminare il tempo».

Corriere 14.7.13
Vent’anni dopo il rischio del «grande vuoto»
Nel ‘91-’93 il Pds non fu protagonista del crollo dei vecchi partiti ma solo l’indiretto beneficiario
di Giovanni Belardelli


Si tratti della Russia nel 1917, della Germania nel 1945 o, più modestamente, della nostra «Prima Repubblica» crollata vent’anni fa sotto i colpi delle inchieste giudiziarie, il modo in cui un assetto politico giunge al termine condiziona inevitabilmente i caratteri di ciò che lo sostituisce. Gran parte dell’odierna impotenza della politica italiana, gran parte dei limiti e dei vincoli che sull’attività di governo esercitano l’azione della burocrazia e delle infinite corporazioni italiane da un lato, gli interventi della magistratura dall’altro (dall’Ilva all’abolizione delle Province) rimanda appunto ai modi in cui crollò vent’anni fa il vecchio sistema dei partiti: non per un’azione che provenisse dai ranghi della stessa politica ma per la reazione della magistratura al verminaio di Tangentopoli. Una reazione che se non fu l’unica causa del crollo (si ricordino i referendum del ’91 e del ’93) fu però quella decisiva. Lo stesso Pd paga ancora oggi — con le convulsioni e i conflitti infiniti che lo attraversano — il fatto che a suo tempo il Pds non sia stato affatto il protagonista del crollo del vecchio sistema dei partiti, ma soltanto l’indiretto beneficiario dell’inchiesta di Mani Pulite.
Proprio per questo appare sorprendente che una parte dell’opinione pubblica di sinistra e dello stesso Pd coltivi esplicitamente o implicitamente la speranza di una eliminazione per via non politica dell’avversario Berlusconi, rappresentata dall’interdizione dai pubblici uffici grazie a una sentenza della Cassazione. Ove ciò avvenisse, infatti, il Pd non farebbe che sancire la propria debolezza politica, trovandosi, come già avvenne al Pds, nella posizione del «falso vincitore»; posizione appunto debolissima come sempre è quella di chi alla fine di una contesa rimane l’unico in campo, ma soltanto perché le circostanze esterne lo hanno liberato del competitore. La stessa capacità di leadership di Renzi ne verrebbe inevitabilmente minata, rendendo il sindaco di Firenze ostaggio delle oligarchie del suo partito. Soprattutto, la fine per via giudiziaria del ventennio berlusconiano lascerebbe in eredità al Paese una debolezza della politica e dell’azione di governo ancora maggiore di quella attuale, alterando più di quanto già non sia l’equilibrio tra politica e magistratura.
Il centrodestra attribuisce da sempre questa alterazione all’intervento di non meglio specificati «magistrati politicizzati», lasciando intendere di credere a qualche centrale più o meno segreta che ne dirigerebbe le mosse. In realtà, se l’equilibrio tra i due piatti di una bilancia si altera, questo può avvenire o perché il peso su un piatto aumenta o perché quello sull’altro diminuisce. Senza negare i possibili, e a volte probabili, sconfinamenti nell’azione svolta dalla magistratura a partire proprio dalle inchieste di Tangentopoli (e dall’incredibile frase «io quello lo sfascio» pronunciata dall’allora pm Di Pietro in riferimento a Berlusconi), è evidente però che lo squilibrio ha finito con l’essere accentuato dal progressivo ritrarsi della politica, dal fatto che gli esecutivi di destra come di sinistra si sono spesso mostrati incapaci di un’azione autonoma. In effetti la lunga transizione italiana difficilmente potrà terminare se la politica non ritroverà la capacità, smarrita da troppo tempo, di affermare le proprie ragioni e difendere i propri spazi.

Corriere 14.7.13
Nel Pd servono scelte radicali
Di mediocrità la politica può morire
di Virginio Rognoni


Caro direttore, il prossimo congresso del partito democratico è importante per molte ragioni. È il congresso del partito del presidente del Consiglio; il più forte pilastro che sostiene il Governo. Per l'eccezionalità dell'Esecutivo di Letta e della sua «strana maggioranza», il congresso è importante perché costituisce una prima, delicata verifica; perché si svolgerà nel pieno di una persistente crisi economica-finanziaria e, ancora, perché dovrà indicare lo scenario politico per il quale il partito intende lavorare una volta raggiunti gli obiettivi (di primaria importanza ma limitati) del Governo «di servizio». E, poi, come ragione finale, la controversa disputa sulla leadership di partito. Insomma, per il Pd il congresso è una tribuna di estrema rilevanza, quasi di ultima istanza: è veramente in gioco tutto il suo futuro e la sua credibilità. Un futuro che per di più interessa direttamente l'intero Paese.
L'offerta di una rappresentanza politica forte e credibile giova, infatti, alla vita complessiva della Repubblica perché sprona e sollecita una offerta di rappresentanza alternativa di pari serietà. La democrazia repubblicana vive di questa contrapposizione virtuosa; deperisce quando non c'è o è in affanno continuo.
La crisi che attraversiamo è così dura e ha radici così profonde che impone al congresso del Pd (come di qualsiasi altra formazione politica) una radicalità e una concretezza di riflessione e di intenti. C'è un bisogno diffuso di svolta e di cambiamento che richiede e impone questa radicalità. Senza di essa il tavolo non si rovescerà, i comportamenti politici continueranno a essere mediocri e il Paese, di prolungata mediocrità, può anche morire.
Oggi, con le spinte potenti provenienti dalle nuove tecnologie che hanno ampliato a dismisura il perimetro del sapere e di quanti sono in grado di accedervi, la democrazia sembra essere stretta in una tenaglia. Da una parte la finanza — da ancella dell'economia diventata padrona — ha trovato spazi di speculazione globale senza territorio e governo; dall'altra i vecchi territori degli interessi sovranazionali, nazionali e locali resistono ponendo nuove e inedite esigenze di governo. La democrazia, come noi l'abbiamo conosciuta, si trova dentro questa tenaglia; può essere schiacciata o compromessa se non viene ripensata. Anche una rigorosa «manutenzione» richiede, comunque, questo coraggioso ripensamento. La sfida a cui si trova di fronte il congresso del Pd è tutta qui: la crisi della convivenza democratica a tutti i livelli. È giusto che venga affrontata con assoluta serietà.
Solo a queste condizioni si può dibattere, tra l'altro, il tema spinosissimo, ma inevitabile, dei partiti, secondo il disegno costituzionale che li evoca (art. 49), e il loro rapporto con la cultura democratica del ceto politico che li governa. Qui mi pare stia il cuore di quella riforma della politica di cui tanto si parla. Certo, il «costo della politica»: ben vengano tutte le misure tecniche, pure importanti, che si richiedono e quanto ancora è necessario. Ma è di tutta evidenza che il problema è ben altro, più difficile e complesso. Per fortuna è sparita la voglia spensierata o anche sofferta di inventare, così, all'improvviso, un partito senza storia o con storia ad altri con presunzione rubata; un partito che nasce al mattino e muore alla sera. Per fortuna sembra declinare l'autentica ubriacatura a favore dei «movimenti», quali espressione di una parte o dell'altra di una «società civile» comunque virtuosa rispetto al mondo dei partiti. Questo dato culturale che sbiadisce la tendenza a una ostentata e ricercata «lontananza» dai partiti, quasi il rifiuto della idea stessa di partito, è un dato rilevante. Il Pd ha l'opportunità nel congresso di assumersi obbiettivamente una sorta di responsabilità nazionale, di svolgervi cioè un compito esemplare, che vale per tutti.
Con buona pace degli analisti «calligrafi», il Pd è un partito che viene da una storia importante, certamente soggettiva, di «parte» ma sempre storia forte che ha profondamente segnato quella più generale del Paese. Una storia che via via ha fatto percepire l'esistenza di un'area politico-culturale di centrosinistra che si è consolidata nella stagione della seconda Repubblica con l'esperienza dell'Ulivo. Il Pd ha certamente questo riferimento; che sia, poi, riuscito, sempre, con la sua politica e i suoi dirigenti, a rappresentare tutti i cittadini che a quella area e a quella storia pure si riferiscono è un altro discorso. Ma questa storia c'è ed è un bene prezioso come lo sarebbe la «storia» che esplicita e manifesta un'area di riferimento per un partito conservatore-moderato. Un'area che certamente c'è anche in Italia ma che per troppo tempo ormai è stata ed è oscurata e fuorviata dal partito «personale» di Berlusconi. Per sua fortuna il Pd non è un partito «personale» anche se la «personalizzazione» della politica — che è una delle cause e l'effetto, insieme, della crisi della politica — può manifestarsi in forme diverse, in un arcipelago, per esempio, di correnti «pesanti» o troppo agguerrite in un partito che personale non è. Il Pd e i suoi uomini devono stare attenti a questo fenomeno che è ben altro della libera competizione delle idee e delle proposte soprattutto in tempi di vigilia congressuale. Un fenomeno negativo che scoraggia, delude e allontana elettori che pur si conoscono nell'area culturale del centrosinistra e alla storia che le è collegata.
Ecco perché questa storia il Pd la deve tenere preziosa; è lì che vi sono memorie, tradizioni, interessi, aspettative, emozioni, lealtà, quel coacervo di insomma di cose che fanno speranza; è lì che stanno le ragioni ultime della delega al partito. Ed è un bene prezioso che non solo si spende fuori ma che opera anche all'interno del partito, come fattore di coesione fra le varie posizioni e rispettivi esponenti, indotti a tenere il confronto nei limiti di una ragionevole e saggia agibilità; indotti, cioè, ad essere politici seri per una politica seria. Un congresso che potesse registrare tutto questo non solo sarebbe utile per il partito che l'ha celebrato, ma esemplare per tutto il Paese. Sta qui l'accennata opportunità di una missione nazionale che obbiettivamente si presenta al Pd; se è così, non vada perduta.
Ex vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura

Repubblica 14.7.13
La grande confusione del partito democratico
di Eugenio Scalfari


SI SAPEVA da tempo, anzi da sempre, che una condanna definitiva di Silvio Berlusconi, quando fosse arrivata, avrebbe provocato un terremoto. Si sapeva e non stupiva nessuno: Forza Italia prima e il Pdl poi sono partiti acefali, anzi non sono partiti, sono elettori che hanno in comune alcune emotività come l’anticomunismo, l’odio per le tasse e l’ostilità verso lo Stato e sono anche “lobbies” portatrici d’interessi concreti da soddisfare rapidamente.
Questa massa notevole che a volte viene definita liberale, a volte moderata, a volte populista e antipolitica e spesso tutte queste cose insieme, viene gestita dai luogotenenti d’un capo-padrone con formidabili capacità di venditore, cioè di demagogo moderno, che è anche il proprietario di quella struttura poiché possiede gli strumenti di comunicazione necessari per tenerla insieme ed estenderla.
Perciò un’eventuale condanna che lo mettesse fuori dal gioco politico significherebbe il crollo dell’intera architettura. Questa essendo la situazione – finora editata a colpi di leggi “ad personam” concentrate soprattutto sui termini della prescrizione – è evidente che l’improvviso incombere d’una sentenza definitiva che potrebbe confermare la condanna inflitta in appello, crea il panico nel Pdl e una gran confusione nel Pd.
Il panico nel Pdl, come abbiamo già ricordato, è comprensibile; la confusione nelPd molto meno.
Essa è determinata dall’esistenza d’un governo di coalizione dettato dallo stato di necessità dovuto alla crisi economica che dura ormai da sei anni e dai risultati elettorali dello scorso febbraio che hanno trasformato il precedente bipolarismo in un tripolarismo non gestibile dal punto di vista parlamentare. Di qui il governo di necessità voluto dal presidente della Repubblica per mancanza di alternative e per la stessa ragione accettato dalle forze politiche della “strana maggioranza”.
Ho ricapitolato fin qui cose a tutti note ma spesso dimenticate o passate in sottordine rispetto a pulsioni emotive che sono spiegabili nei cittadini ma assai meno nei gruppi dirigenti dei partiti o meglio dell’unico partito esistente che è quello democratico. I 5Stelle sono un movimento che ha anch’esso un proprietariovenditore; Scelta civica è da tempo una scheggia irrilevante; del Pdl abbiamogià detto. Il Pd è dunque il solo partito attualmente esistente, alla cui sinistra c’è soltanto il massimalismo che ha sempre combattuto il riformismo nella storia d’Italia, favorendo oggettivamente le destre conservatrici.
Ebbene, il Pd si trova da tempo in una sorta di stato confusionale. Personalmente ho evitato finora di approfondire un tema sgradevole per chi, come me, vota per quel partito fin da quando nacque nella forma dell’Ulivo e poi nella forma attuale. Ma ora quell’approfondimento s’impone perché, se la confusione continuasse potrebbe seriamente compromettere l’interesse generale e lastessa democrazia già abbastanza fragile nel nostro Paese.
* * *
La causa primaria della confusione è del tutto evidente: nasce dal fatto che un’alleanza, sia pure di necessità, con l’avversario di sempre, guidato per di più da un demagogo indiziato di reati per fatti commessi prima e durante la sua ascesa politica, non è accettata da una parte notevole degli elettori democratici e da una parte assai “vociante” del gruppo dirigente del partito, ormai diviso anzi frantumato in correnti che sono diventate fazioni.
La differenza tra correnti e fazioni può sembrar sottile ma non lo è affatto. Le correnti sono modi d’interpretare la visione del bene comune propria di tutti i partiti, accantonandone alcuni aspetti e accentuandone altri. Le fazioni si dividono invece sul tema della conquista del potere; le modalità d’interpretazione del bene comune rappresentano per loro un dettaglio facilmente modificabile quando la modifica può essere utile all’obiettivo che si propongono.
Il grosso guaio del Pd attuale consiste dunque, secondo me, nel fatto che le correnti si sono trasformate in fazioni salvo naturalmente poche “anime belle” che ci sono dovunque e non hanno mai contato nulla.
Le fazioni utilizzano il mal di pancia causato dall’esistenza del governo di necessità, accettato da tutti (o quasi tutti) ma facile da usare come strumento di discordia in un partito il cui gruppo dirigente è ormai diviso su tutto.
Questa è la penosa e preoccupante situazione, confermata quasi ogni giorno da episodi che appaiono logicamente incomprensibili ma sono invececomprensibilissimi dal punto di vista dei contrapposti interessi che antepongono il “particulare” al generale interessedel Paese. * * * Ne segnalo due che sono i più recenti anelli d’una ormai lunga catena. Il primo è il clamore suscitato dalla sospensione dei lavori della Camera dalle ore 17 di mercoledì scorso per render possibile un’assemblea indetta dai parlamentari del Pdl, senatori compresi, per discutere i problemi derivanti da un’eventuale sentenza negativa della Cassazione. I falchi e le amazzoni di quel partito avevano chiesto la chiusura del Parlamento per tre giorni in segno di protesta contro la Cassazione per l’anticipo della sentenza Mediaset. Proposta ovviamente irricevibile. La sospensione di poche ore per render possibile la predetta riunione è decisione di tutt’altra natura che infatti è stata duramente contestata da amazzoni e falchi ma ancora di più dalle fazioni del Pd, da Renzi a Civati.
Non è mancata, specie a Renzi, l’occasione di ripetere il suo appoggio al governo Letta “purché faccia e non bivacchi”. Forse sarebbe venuto il momento che Renzi dicesse chiaramente che cosa significa per lui il “fare” di Letta. Deve minacciare la Merkel? Deve prospettare l’uscita dell’Italia dall’euro se l’Europa non ci consente di sfondare il pareggio del bilancio? O che cos’altro? Lo dica e ne prenderemo debita nota. Per quanto lo riguarda personalmente, Epifani ha già detto che le primarie per l’elezione del segretario saranno aperte e il congresso si farà entro l’anno. Allora decida. Il secondo episodio riguarda il disegno di legge sull’incompatibilità, presentato da un gruppo di deputati democratici tra i quali il capogruppo Luigi Zanda. Il testo dà un anno di tempo al concessionario di aziende che sia anche parlamentare; un anno per vendere la sua partecipazione a quelle aziende o lasciare la politica.
La proposta è stata bollata dal Pdl come l’ennesimo attacco contro Berlusconi, ma è stata bollata ancora di più dalle fazioni del Pd come un favore al proprio avversario. Anche Vendola non è mancato a questo appuntamento.
C’è da strofinarsi gli occhi quando si vedono cose del genere. La spiegazione sarebbe che con questa proposta si elimina l’ineleggibilità con l’incompatibilità. È vero ed è un passo avanti, non indietro. Ai fini specifici di Berlusconi è del tutto equivalente. E allora?
Per fortuna l’attuale segretario del Pd (che alcuni si ostinano a chiamare “reggente”) non soffre di questo costante mantra perché non appartiene né a correnti né a fazioni. Sa soltanto che il Pd deve sostenere il governo Letta se e fin quando esso non metta in discussione i valori democratici. Se questo accadesse, sarebbe lui a provocare la crisi e, personalmente, sono sicuro che lo farebbe.
Non spenderò parole sul caso riguardante il presidente della Repubblica e sollevato dal giornale “Libero” (e dal “Fatto”) sull’ipotesi di una “grazia” che Napolitano avrebbe pensato di concedere ad un Berlusconi condannato. Ipotesi non solo cervellotica ma avanzata per screditare e vilipendere il capo dello Stato. Questa è gente che gioca a palla con le istituzioni, anarcoidi di infima qualità. * * * Berlusconi si dice sereno e sicuro d’esser riconosciuto innocente dalla Cassazione e conferma il suo pieno appoggio al governo Letta ribadendo che comunque le sue vicende giudiziarie sono cosa diversa da quelle politiche. Riconosce che se fosse condannato la sua gente sarebbe presa da un’agitazione più che comprensibile, ma lui farebbe di tutto per calmarla.
Mi sembra difficile che le cose vadano in questo modo, ma credo che sarebbe saggio prender Berlusconi sul serio e attendere lo sviluppo dei fatti. Del resto l’ipotesi che la Cassazione non condivida in tutto o in parte le conclusioni della corte d’Appello non può in teoria essere esclusa, rientra nelle possibilità del libero convincimento del giudice che è uno dei cardini della giurisdizione. L’opinione pubblica può criticare una sentenza ritenuta tecnicamente sbagliata ma deve accettare il libero convincimento e prenderne atto, tanto più la sinistra democratica che ha fatto dell’indipendenza della magistratura uno dei cardini della sua visione politica.
Continuiamo dunque a difendere questo principio augurandoci che il libero convincimento della sezione feriale della Corte coincida con il nostro, che  non ha dubbi sulla colpevolezza dell’imputato.
Concludo questa nota con un plauso al disegno di legge approvato dal governo sulla parificazione dei figli naturali con quelli legittimi. È un passo avanti nel diritto e cancella una discriminazione non più compatibile con la concezione moderna dell’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge.
Ora ci attendiamo che il governo si allinei alle parole dette dal Papa a Lampedusa e intervenga sullo “ius soli” e sulle modalità di accoglienza degli immigrati. La Chiesa di Francesco è molto diversa da quella che finora abbiamo conosciuto. Questo è un discorso che merita di esser ripreso e approfondito con la dovuta ampiezza, come ci ripromettiamo di fare quanto prima.

Repubblica 14.7.13
Vendola: “Tornino al programma di cambiamento e cerchino una maggioranza alternativa”
“I Democratici così si suicidano ma Beppe ha aiutato Berlusconi”
intervista di Giovanna Casadio


ROMA — «Il Pd così compie un suicidio perfetto...». Nichi Vendola, il leader di Sel, avverte i Democratici.
Vendola, anche lei pensa che il Pd si stia muovendo per salvare Berlusconi, come accusa Grillo?
«Intanto metterei Grillo tra coloro che hanno salvato Berlusconi. Per capire ciò che francamente è incomprensibile, partirei dal governo Letta, che ha poche idee ma confuse. Non per colpa di Enrico Letta, ma per la natura di questa scellerata coalizione, che non consente di estrarre una sola idea chiara e forte di cambiamento. Impossibile mettere insieme ciò che insieme non può stare. Ecco allora la tecnica della dilazione dell’esecutivo, del rinvio continuo delle scelte. In più ora c’è un’ombra morale per il caso kazako».
E il Pd cosa dovrebbe fare?
«Il Pd sta in una maggioranza dove non dovrebbe e non potrebbe stare. Ha atteggiamenti autolesionistici, come il voto di mercoledì sullo stop ai lavori parlamentari».
Meglio tuttavia un governoche nessun governo?
«No. È un argomento usato e abusato al tempo del governo Monti e del tutto inutilizzabile. Come può essere meglio un governo che falsifica la democrazia, al netto dei pregi dei singoli ministri? Un governo così è come un treno che corre verso il vuoto».
Ma una crisi di governo non sarebbe un danno maggiore delle larghe intese?
«Penso due cose: che Alfano dovrebbe dimettersi per il caso kazako; che siamo allo stallo, all’inconcludenza del governo.
Voltiamo pagina e il Pd torni al programma di “Italia bene comune”. Lo porti in Parlamento per chiedere a tutte le forze che sono state elette nel nome del cambiamento se non ci sia la possibilità di uscire da questa palude. Altrimenti si va al voto».
Una maggioranza alternativa è possibile?
«Dal punto dei vista dei numeri è possibile. Chi dovesse per calcolo politico impedirla ne risponderebbe al paese. Ma la situazione di incertezza è tale che bisogna oggi aprire il fronte della riforma elettorale. Il Parlamento sia costretto subito, subito ripeto, a cancellare il Porcellum, questa specie di ricatto permanente, il frutto più maturo e velenoso del berlusconismo, ripristinando il Mattarellum».
La sentenza Mediaset è la vera spada di Damocle sulla situazione politica italiana?
«C’è una schizofrenia: per irregolarità fiscali sono state ottenute le dimissioni di Josefa Idem agran voce dal Pdl, il cui leader è condannato a una pena severa per evasione fiscale. Ma che paese è questo? Lo dico a coloro che suonano le trombette della responsabilità nazionale e della nostra immagine nel mondo. Come si fa a sventolare il Tricolore all’estero quando il Berlusconi del burlesque, delle amicizie pericolose e delle condanne multiple è uno dei dominus di questa inguardabile maggioranza».
Si accorderebbe con Renzi, se fosse il nuovo segretario del Pd?
«Sel non è una corrente del Pd. Lunedì ci confrontiamo in un seminario con Barca, Camusso, Landini, Rodotà sulla sinistra. Di Renzi sono stato competitor alle primarie dello scorso autunno, penso sia un valore aggiunto per il centrosinistra per la sua comunicazione fresca, innovativa, empatica. Però Renzi, come troppi a sinistra, subisce il fascino del liberismo, ma è il problema di tutta la sinistra in Europa. Per me interlocutore è Renzi o Barca o Cuperlo... sono preziosi a patto che il Pd trovi la bussola e smetta di essere prigioniero dell’ambiguità di una scelta».

Corriere 14.7.13
Addii, liti e tormenti Le (larghe) divisioni dei saggi
Onida: abnorme lo stop delle Camere, ma non lascio
di Tommaso Labate


ROMA — Prima Lorenza Carlassare ha lasciato la commissione protestando contro la sospensione dei lavori del Parlamento votata l’altro giorno da Pd e Pdl. Poi, e siamo a ieri, Nadia Urbinati ha confessato la sua intenzione di seguire la sua collega a ruota «se il Pd dovesse salvare Berlusconi». Se le colpe dei padri non devono ricadere sui figli, lo stesso non si può dire delle possibili colpe della maggioranza delle larghe intese. Che si sono già abbattute sui «saggi» che stanno collaborando col governo sulle riforme.
Ma c’è chi si ribella. «Così no, eh? », dice il saggio Francesco D’Onofrio. Che come un fiume di parole in piena, inarrestabile come l’eurostar che lo sta accompagnando a Lecce («La tomba di famiglia si trova lì. E io vado a parlare un po’ con i miei defunti genitori»), annuncia: «Se le autorevoli colleghe Carlassare e Urbinati avessero manifestato un dissenso di tipo personale, se avessero avuto il mal di testa o l’influenza, sarebbe stato un conto. Ma visto che le ragioni delle loro proteste sono di ordine costituzionale, io chiedo che alla nostra riunione di lunedì», e cioè di domani, «questo tema venga affrontato in un dibattito tra di noi».
Un dibattito al quale si è gia virtualmente aggiunto un altro autorevole Saggio, Valerio Onida. «Trovo anch’io mostruoso – nel senso etimologico di “mostro”, di cosa ”singolarmente strana e anormale che sembra fuori delle leggi della natura”, abnorme, orrenda, orribile – che un gruppo parlamentare chieda e ottenga (seppure in misura ridotta) una sospensione dei lavori parlamentari», è la sua premessa. Anche perché, aggiunge, «la discussione di un processo penale per fatti non “politici” imputati al capo del partito di riferimento, conseguente al ricorso da lui presentato e diretto a ottenere il riconoscimento della sua non colpevolezza, è stato fissato rapidamente, in tempo utile per evitare la tagliola (anch’essa “mostruosa”) della prescrizione». Detto questo, per l’ex presidente della Consulta non bisogna abbandonare la commissione. Ma, al contrario, serve rimanere tra i Saggi. Per discutere, ovviamente. «Troverei ancor più “mostruoso” che un processo potesse avere un esito diverso – in un senso o nel senso opposto – da quello che legalmente e processualmente deve avere, sol perché il partito di cui l’imputato è a capo attribuisca ad esso un significato “politico” decisivo ai fini delle vicende politico-parlamentari e del governo».
Per la Carlassarre, invece, è già tutto bell’e discusso. «L’altro giorno ho acceso la televisione. Ho sentito la notizia del Pd che aveva concesso al Pdl in rivolta la sospensione dei lavori parlamentari e, di getto, ho scritto la mia lettera di dimissioni». Poi, aggiunge con voce ferma e gentile la costituzionalista veneta, «io parlo per me e rispondo dei miei gesti. Di quello che fanno i colleghi non mi occupo» .
Ricapitolando. Carlassare ha lasciato i Saggi dopo la sospensione dei lavori parlamentari dell’altro giorno. Urbinati «molla tutto» se «il Pd salva Berlusconi». Onida considera la sospensione dei lavori mostruosa ma non lascia e apre il dibattito sulle mostruosità che potrebbero derivare dalla sentenza della Cassazione. E questo, invece, è D’Onofrio: «Noi siamo consulenti del governo. Se il governo si comportasse in maniera incostituzionale, lascerei i Saggi pure io. Ma che c’entra l’esecutivo con cui collaboriamo con quello che è successo l’altro giorno in Parlamento? ». Dibattito aperto. «Diciamo che, rispetto alla giornata tumultuosa dell’altro giorno, Pdl e Pd potrebbero essersi comportati secondo un sano fair play oppure no». E la sua risposta?: «Ripeto. Possono averlo fatto oppure no. Che se ne discuta tutti insieme lunedì».

il Fatto 14.7.13
Ci spiegano il futuro bombardandoci di numeri
di Furio Colombo


Non so se vi siete accorti che stiamo vivendo in un mondo di numeri e rating che si può descrivere solo a confronto con altri numeri, che sono di volta in volta giusti o sbagliati, campati in aria o fondati e non diventano mai parola. Se diventano parola, è una maledizione perché le parole ti inchiodano a un dettaglio (per esempio la sentenza di Berlusconi) che non ha alcun senso nella vita di tutti noi, tranne l’interessato e due o trecento deputati e senatori che bloccano tutti i lavori parlamentari con la stessa disperazione con cui gli operai senza più cassa integrazione occupano le autostrade. Ma se torna un momento di tregua e si riprendono i lavori che dovrebbero portare alla nostra salvezza, l’intero paesaggio del nostro presente e del nostro futuro, si rappresenta esclusivamente con numeri. Per esempio i cittadini vengono avvisati che dobbiamo abbattere un muro di 400 miliardi di euro di debito pubblico. Ci vorrà il consolidamento o le rate? Per esempio, coloro che hanno ancora un lavoro (ma col cuore in gola, in attesa delle prossime mosse o decisioni non tanto dei padroni, quanto di altri poteri non bene identificati) e coloro che non lo hanno più (e non hanno mai capito perché, visto che il settore di appartenenza non era in crisi) apprendono che il debito ha raggiunto quasi il 130 per cento del Prodotto interno lordo.
CHE COSA vorrà dire, tranne paura? Quasi subito una voceautorevole ci dice nei diversi telegiornali, a distanza di pochi giorni, che il Pil è calato ancora, di solito sotto la rubrica “brutte notizie per la nostra economia”, che segue un commento politico che ci fa notare che “il governo è sulla strada giusta” (seguono numeri). A volte la lista di numeri precipita su di noi: quanti negozi hanno chiuso, quanti ristoranti sono appena falliti, quante piccole imprese sono in bancarotta. E poi i confronti. I lavoratori sono calati di due volte rispetto al 2005, ma di quasi quattro rispetto agli anni Novanta. Abbastanza spesso ci buttano addosso i numeri di ore della cassa integrazione, e non sei sicuro se sono milioni di ore o milioni di milioni di ore e tenti di immaginare vaste pianure gremite di uomini e donne in piedi e in attesa che attendono di tornare a un lavoro che torna solo se scattano certi numeri che però sono al di là di un precipizio di cui ogni giorno ti misurano il fondo, sempre più grande. Certo, vi sono commenti verbali che seguono gli elenchi di numeri. Vengono dalla stessa fonte, il governo o le imprese, e si dividono i due parti. Gli ottimisti ti dicono che quei numeri portano bene; i pessimisti che il peggio deve ancora venire. Nessuno di loro tenta di agganciare le parole ai numeri. Perciò ti rendi conto che il commento a parole non ha relazioni precise con l'annuncio dei numeri, e ti mette sull'avviso il fatto che di tanto in tanto un pessimista passa fra gli ottimisti e il contrario. Per avere un’idea dello strano momento che stiamo vivendo, immaginate di conversare con un architetto che vi parla della casa che costruirà, esclusivamente in termini di misura e peso dei materiali e delle formule di equilibrio e resistenza della struttura di cui siete in attesa, ma senza mai svelarvi un abbozzo di immagine della costruzione che si sta discutendo. Questo vi mette in una condizione totalmente passiva. Continuerete a versare anticipi per qualcosa che non potete né descrivere né pensare. Se i versamenti richiesti sono pesanti, il fardello è aggravato dalla mancanza di sogno. Aspettate e pagate ma non sapete per che cosa. È la nostra condizione. Stiamo vivendo senza una narrazione del presente e senza una narrazione di ciò che verrà o potrebbe venire. Forse era ciò che, in un tempo remoto, si chiamava ideologia. Il mondo non solo non veniva tradotto in cifre come unico modo di narrarlo. Ma le cifre venivano evitate se disturbavano il realismo vivido del racconto. Persino il più pragmatico mondo anglosassone ha imparato, dopo l’esperienza del tracollo del mondo conservatore, fondato (e affondato) sui numeri, a costruirne uno, detto “progressista”, che comincia con la narrazione della speranza, si evolve con l’immagine di una attesa di benessere riconosciuta come legittima, e si realizza, nonostante le immense difficoltà, perché sforzo e sacrificio non appaiono la punizione per gravi errori (che i cittadini non hanno mai commesso), ma come i versamenti di rate per la mia vita, la mia casa, la mia famiglia, il mio lavoro, un po’ della mia felicità. Così come siamo governati adesso (almeno da tre governi successivi), i cittadini vengono isolati in campi di attesa e di paura da cui possono essere chiamati a dare di più ma non a fare di più.
GLI OCCUPANTI, rappresentati, come ho detto, da diversi governi, ma ciascuno in marcia nella stessa direzione (togliere) si distinguono o nella disputa fra una tassa e un’altra tassa (che i cittadini dovranno comunque pagare). O fra coloro che invece sostengono che il disastro è molto, molto più in grande, anzi totale. Parlano di esasperazione, di bastoni, di armi. E sembrano in cerca dei responsabili e del come punirli (purtroppo indicano “tutti” come colpevoli, e con ciò li rendono inafferrabili, perché “tutti” sono troppi). Purtroppo non ci hanno ancora detto come salvarci, eccetto compiere il gesto, difficile da interpretare, di togliersi la giacca in pubblico. Di tanto in tanto, come in tutti i momenti di follia della Storia, scoppia un carnevale in cui una parte di governo, deputati e popolo, ripetono il loro giuramento di fedeltà a un loro capo che sta forse per subire una inaccettabile condanna. Questioni private. Niente a che fare col dramma. A un certo punto si placano, tornano e di nuovo si uniscono a tutti gli altri nel descriverti la vita e il futuro con numeri, percentuali, aggiunte e sottrazioni di zeri, elenchi di punti perduti, di cedimenti allarmanti, di quote di mercato perdute, di eventi accaduti frattanto nel mondo, ed espressi esclusivamente con numeri e percentuali di numeri. Nessuna visione affiora (case, ospedali, bambini, scuole, come e dove può venire il lavoro) e per questo, se non sei tra coloro che elencano numeri e frazioni di numeri, non puoi nemmeno sognare.

il Fatto 14.7.13
Il governo gioca a Risiko con gli F-35 ma la vera partita è sulla nostra pelle
di Silvia Truzzi


C’È LA CRISI, e allora che facciamo? Compriamo cacciabombardieri. Ovvio, no? Anche a voi sarà capitato che qualche amico disoccupato vi abbia esternato le sue preoccupazioni. Tipo: “Speriamo che comprino subito una flotta di aerei da guerra”. Domani in un Senato esautorato (si veda l’ultimo Consiglio superiore di Difesa), si torna a discutere del fondamentale acquisto di 90 (novanta!) F-35 che ci costeranno la modica cifra di circa 100 (cento!) milioni l’uno. Intanto sui social network (e ovunque in Rete) è in corso una rivolta di cittadini contrari allo shopping militare, per diversi ordini di ragioni. Alcune riguardano l’opportunità di comprare aerei da guerra in un paese che “ripudia la guerra”, altre l’opportunità di buttare miliardi in un momento in cui le imprese chiudono, la disoccupazione continua a crescere e si tagliano scuola e sanità. Alcuni costituzionalisti spiegano che ci sono forti dubbi di legittimità sulla destinazione dei fondi per gli F-35, quando appunto vengono tagliati i finanziamenti a servizi che garantiscono diritti fondamentali. Ma anche senza dotti giuristi, basta il buon senso: questi cacciabombardieri non li vuole nessuno. Politici a parte. Nel programma elettorale del Partito democratico si poteva leggere: “Il Pd condivide la preoccupazione dell’opinione pubblica sulle spese per gli armamenti. Fermo restando che le esigenze di difesa e di sicurezza dello Stato si sono radicalmente modificate, ma restano, bisogna assolutamente rivedere il nostro impegno per gli F-35. La nostra priorità in questo momento è il lavoro”.
POI, a causa della cosiddetta pacificazione nazionale (le parole sono importanti) le priorità sono cambiate. Del pacchetto “larghe intese” fanno parte anche i cacciabombardieri e quindi il governissimo intende confermare l’acquisto. Tra i Democratici, però, qualche voce contraria si leva. Alcuni deputati del Pd hanno firmato la mozione di Sel (sottoscritta anche da M5s) che chiede il ritiro dell’Italia dal programma. Ma sono pochissimi. Per esempio il presidente della commissione Bilancio Francesco Boccia, fedelissimo di Letta jr, ha scritto su Twitter: “In sostanza non si tratta di fare guerre, con gli elicotteri si spengono incendi, trasportano malati, salvano vite umane #F35”. Salvo, dopo essere stato subissato di sfottò, dare la colpa di aver confuso elicotteri da pace con aerei da guerra a uno stagista (mossa elegante). Comunque Boccia si dice favorevole: perché gli F-35 “creano posti di lavoro e danno valore all’eccellenza tecnologica”. Da segnalare anche il ministro della Difesa, il montiano Mario Mauro, innamorato di un calembour che è un terribile ossimoro: “Per amare la pace, armare la pace”. Al di là della questione “guerra e pace”, resta il fatto che mancano i posti letto negli ospedali e tante scuole italiane sono pericolose e fatiscenti (sono solo alcuni esempi). Le petizioni, le manifestazioni con cui i cittadini si fanno sentire non vengono considerate. E nemmeno viene rispettata la loro volontà elettorale, se dopo il voto vengono ribaltati programmi e alleanze: una vera “democrazia matura”. Sembra una partita a Risiko, ma queste armi non sono carriarmati di plastica. E in gioco c’è la qualità della nostra vita, in ogni senso.

l’Unità 14.7.13
Sullo «ius soli» Boldrini rilancia
La presidente della Camera a Lamezia Terme: «Chi nasce in Italia è italiano»
La destra si scatena
di Franca Stella


LAMEZIA TERME «Il nostro Paese sta cambiando. È stato Napolitano stesso a richiamare un cambiamento per la cittadinanza nei confronti dei bambini figli di extracomunitari dicendo: “Negarla è un'autentica follia”. Stiamo parlando di ragazzi che conosciamo benissimo, che sono nati e cresciuti da noi, il paese dei loro genitori a volte non lo hanno mai visto». Lo ha detto la presidente della Camera Laura Boldrini presso il parco Peppino Impastato di Lamezia Terme, in provincia di Catanzaro, in occasione della cerimonia di conferimento della cittadinanza onoraria a 400 bambini stranieri nati in Italia e residenti presso il comune calabrese.
«Alla Camera ha detto il Presidente sono state presentate già ben 17 proposte di legge che puntano a modificare le regole attuali sull’acquisizione della cittadinanza italiana. Sono tutti provvedimenti all’esame della Commissione Affari Costituzionali e il fatto che siano così tante è segno di come il tema sia sentito in Italia. E non più rimandabile». «La maggior parte di queste proposte ha aggiunto va proprio nel senso dello ius soli: ovvero la possibilità ottenere la cittadinanza per nascita. Altre parlano di una sorta di iure culturae, ovvero della possibilità di diventare cittadino italiano qualora si sia fatto un percorso scolastico nel nostro Paese. A Montecitorio c’è anche un gruppo bipartisan di parlamentari, un intergruppo, che sta lavorando su questo tema, proprio al fine di arrivare ad una proposta unitaria. È presieduto dall’on. Chaouki che è un giovane esponente Pd di origine marocchina, ma cittadino e ora parlamentare italiano».
Le parole di Boldrini sono state criticate da Maurizio Gasparri. «Non dovrebbe sfuggire alla presidente della Camera la terzietà del ruolo che ricopre», ha dichiarato il vice presidente del Senato. «Eppure riprende Gasparri la sua è un'entrata a gamba tesa in un tema delicatissimo, come quello del diritto di cittadinanza. Affermare con determinazione che vorrebbe la concessione automatica, quindi lo ius soli, è grave proprio in funzione del suo ruolo, essendo tra l'altro un tema già all'attenzione del Parlamento, oggetto di diverse proposte».
«Il vicepresidente del Senato Gasparri che non perde occasione, pur ricoprendo cariche istituzionali, di esprimere il suo parere politico sulle vicende giudiziarie di Berlusconi, sul comportamento degli alleati nella compagine di governo ha detto il deputato del Pd Emanuele Fiano considera invece inaccettabile che la presidente della Camera Boldrini esprima un'opinione circa il tema della cittadinanza nel nostro Paese». Il deputato Pd rileva che «la presidente della Camera non ha fatto altro che riprendere un auspicio del Presidente della Repubblica, ma la verità è che ogni qualvolta il tema della cittadinanza viene toccato, sia dalla presidente Boldrini come dal ministro Cecile Kyenge, questo scatena negli esponenti di centrodestra i peggiori istinti di contrapposizione frontale ed ideologica».

il Fatto 14.7.13
L’avvocato Giulia Bongiorno
“Basta impunità: ergastolo a chi uccide una donna”
di Elisabetta Reguitti


Sette anni dopo lo stupro di una 15enne avvenuto a Montalto di Castro (Viterbo), per gli otto violentatori il tribunale ha stabilito l’assegnazione ai servizi sociali. Il processo verrà quindi estinto.
Avvocato Giulia Bongiorno, cosa ne pensa?
Un esito dalla doppia inutilità. Da una parte la sanzione non serve, perché oggi quelle persone non sono più adolescenti da poter reinserire. Dall’altra la sentenza è il paradosso di una violenza rimasta impunita. Sette anni per un processo è il fallimento dello Stato. Quei soggetti oggi sono adulti, ma beneficiano del trattamento previsto dal procedimento minorile finalizzato alla rieducazione.
Nel 2012 ha proposto una legge che prevede l’ergastolo per chi uccide una donna e il reato di induzione al matrimonio mediante coercizione. A che punto siamo?
A niente di fatto, nessuno ha ritenuto di portarla avanti.
A cosa serve una pena severa come il carcere a vita quando la vittima è già morta?
L’omicidio di una donna viene consumato sulla base della convinzione della sua inferiorità rispetto all’uomo. La pena massima può essere un deterrente. Gli uomini violenti devono sapere che non rimarranno impuniti. Certo che se la politica non ritiene una priorità la violenza di genere...
Dovrebbe rientrare in politica così potrebbe tornare a occuparsene lei...
Non si può escludere nulla, anche se non voglio più ripetere l’esperienza di politico stile Buffon.
Cosa c’entra Buffon?
Paravo colpi come un portiere o lavoravo per leggi ad personam anziché per cose importanti come contrastare la violenza.
Tutti hanno applaudito la ratifica della convenzione di Istanbul che prevede le tre “P”: prevenire, proteggere e, solo in ultima istanza, punire. Che fine hanno fatto i piani d’azione nazionale contro gli abusi di genere?
Fino a che l’Italia si barcamenerà con provvedimenti tampone non si contrasterà mai niente. Servono strategie mirate e un approccio culturale diverso. L’aggressione contro una donna non è un fatto privato, ma una questione sociale. La violenza di genere non è il raptus di un pazzo.
L’introduzione del reato di stalking che effetti ha portato? Gli uomini denunciati si incattiviscono e magari le vittime ritirano le denunce…
È un’interpretazione sbagliata. La violenza si combatte denunciando e rompendo il silenzio. Il reato di stalking consente ai pm di attuare interventi tempestivi. L’ammonimento da parte del questore e l’allontanamento dai luoghi che frequenta la donna sono provvedimenti che hanno permesso di intervenire in tempi brevi.
Intanto però la frase più frequente quando muore ammazzata una donna è: “Lo aveva già denunciato”.
Questo è un altro discorso. Serve una continua formazione delle forze dell’ordine e dei magistrati. Le donne, spesso considerate isteriche quando si rivolgono ai tutori della legge, ancora oggi vengono invitate a tornare a casa, a fare pace con il marito o compagno violento. Non se ne può più di questa concezione/convinzione che le donne valgono meno. Fossi il ministro dell’istruzione introdurrei la legge francese, che prevede giochi uguali per bambini e bambine.
Con quale conseguenza?
Che il ferro da stiro non sarebbe solo una cosa da femmine. Bisogna iniziare presto a insegnare il rispetto nei riguardi delle donne.
Chi denuncia a volte subisce anche la violenza psicologica di dover ripetere e dunque rivivere quei momenti. Perché non valorizzare l’incidente probatorio e riservare alle donne le stesse tutele dei testimoni di giustizia?
Reputo fondamentali le procedure in cui vengono ripetute le accuse, perché la denuncia di per sé non è una prova. Certo, vanno valorizzati gli strumenti che preservano la vittima, come le audizioni protette o audiovisive.

l’Unità 14.7.13
Severino, Berardinelli e la filosofia senza forchetta
di Massimo Adinolfi


«SE SEI APPASSIONATO DI ESSERE, POSA LA FORCHETTA E PENSA L’ESSERE, SE CI RIESCI. TI DO TRE MINUTI». UNA BELLA SFIDA, NON C’È DUBBIO, DIFFICILE DA VINCERE anche mantenendo la forchetta in mano. Ma ha ragione Alfonso Berardinelli: dopo tre minuti così, con la forchetta sul bordo del piatto o in bilico tra il pollice e l’indice, non ti viene in mente nulla e allora finisce che devi dar ragione a Hegel: questo essere puro, privo di ogni determinazione, equivale a nulla.
Ma c’è un ma. Anzi due. Il primo è che, per l’appunto, una sfida simile si trova niente di meno che all’inizio della Scienza della Logica di Hegel, e però l’intenzione di Hegel non era certamente quella di lasciar perdere l’essere e passare direttamente alla forchetta, o al pranzo. Anzi, immergersi in quell’etere puro è per Hegel l’inizio essenziale del filosofare, e non è un inizio che ci si possa semplicemente lasciare indietro, come una sfida ormai passata e vinta. L’essere però sta senz’altro insieme con la sua determinazione: con la forchetta o con quello che è. Siccome il critico considera questa un’obiezione decisiva nei confronti del pensiero di Emanuele Severino (oltre che dell’«orco della selva nera», ossia di Martin Heidegger), vale la pena fargli osservare, in secondo luogo, che se c’è una cosa che si trova ripetuta fino alla nausea negli scritti di Severino è che proprio questo non si può fare: separare l’essere e la determinazione, e pensare che da una parte se ne stia l’essere puro, e dall’altra stiano invece le determinazioni, gli enti finiti, il molteplice dell’esperienza. L’obiezione di Berardinelli, dunque, non è un’obiezione.
Berardinelli assicura di capirne di filosofia, di leggerla, e a volte di indignarsi persino per quello che legge. Capirà dunque se gli si fa osservare che anche l’etichetta di pensatore metafisico che affibbia a Severino è male attribuita, se non altro perché metafisico è proprio quel pensiero che mette da una parte l’essere puro (oppure santo, o eterno, o divino) e da un’altra parte tutto il resto (e con il resto noi altri, poveri mortali). Cosa che Severino non intende affatto fare, anche se Berardinelli ritiene il contrario. Dopodiché Severino afferma che non solo l’essere puro, ma la totalità dell’essere, e dunque tutti gli essenti, sono eterni, e che il divenire, che pensa contraddittoriamente l’ente come un’oscillazione fra l’essere e il nulla, fra il non più e il non ancora, è follia. Siccome però questa tesi suona alle orecchie di Berardinelli come uno sproposito, crede che la si possa e la si debba liquidare senza perderci troppo tempo su. E siccome si presta anche alla caricatura, Berardinelli non manca di farla, stupendosi che ci sia in giro gente che pubblica i libri di Severino, e altri che li studiano. Ora, può darsi che abbia ragione. Ma a parte la singolarità dei suoi continui ritorni sull’argomento (due volte nell’ultimo mese, senza stare a contare gli interventi precedenti), vale la pena almeno osservare che non erano meno incredibili le idee platoniche, piazzate in un invisibile iperuranio, oppure, che so, il dubbio iperbolico di Descartes e la rivoluzione copernicana di Kant.
Certo, non è presentando la storia del pensiero occidentale come un seguito più o meno assurdo di spacconerie che si rende più plausibile l’opera di Severino, e la filosofia in genere. Ma non si tratta qui di imbastire una difesa d’ufficio delle tesi del pensatore bresciano, e nemmeno di entrare nel merito di esse (salva comunque l’esigenza di evitarne palesi contraffazioni), quanto piuttosto di formulare una domanda che va ben oltre l’atteggiamento liquidatorio di Berardinelli. Domanda suona così: esiste una tradizione filosofica italiana? C’è un tratto, in essa, che vale la pena prolungare ancora oggi? In tempi nei quali, ai fini di una valutazione accademica, pare valga di più la pubblicazione di un saggetto su una qualunque rivista inglese che non una robusta edizione presso Einaudi, o presso Laterza, non è una domanda trascurabile. E il caso di Severino fornisce se non altro un accenno di risposta, indipendentemente dalla sua reale o presunta grandezza. Perché quel tratto esiste, e sta proprio nella «debolezza» metafisica del pensiero italiano. Nel fatto cioè che non si trovano nella sua tradizione sistemi di pensiero paragonabili a quelli allestiti da altri pensatori moderni, francesi o tedeschi, e in grado di influire sulla costituzione culturale della nostra nazione. Ora, è chiaro che proprio la distruzione della metafisica la caratteristica di fondo del pensiero contemporaneo trasforma almeno potenzialmente quella debolezza in una forza inusitata, a patto però di non intendere la ricerca di aderenza agli essenti, al reale, per una piatta conformità ad esso. La grande vena storicista del Novecento italiano andrebbe indagata e ripresa secondo questa intenzione. Che non implica affatto una secca rinuncia alla speculazione filosofica, alla radicalità di pensiero. Berardinelli probabilmente crede che basti gettarsi alle spalle una certa tradizione (quella metafisica, appunto) per mettersi al riparo dai suoi effetti o dai suoi ritorni. Chi fa filosofia, la legge e si indigna anche per una maniera così sbrigativa di fare i conti con essa, teme invece che proprio la diserzione dal filosofico ci abbia consegnato un tempo privo di prospettiva, privo di accenti critici, ricco di esperimenti della forchetta e povero di veri pensieri.

La Stampa 14.7.13
Nadine Gordimer “Questo Sudafrica tradisce Mandela”
La scrittrice amica dell’ex presidente: è vero, siamo liberi ma in questo Paese manca la giustizia e domina la corruzione
di Paolo Mastrolilli e Lorenzo Simoncelli


C’è stata la liberazione, ma la giustizia manca ancora e la corruzione è alla base della nostra cultura Per battere il rischio dell’instabilità sociale, il Paese deve riformare il sistema dell’istruzione

Quando Mandela venne liberato Nadine Gordimer fu una delle prime persone che volle vedere È a casa sua che si riunivano gli esponenti dell’African National Congress che avevano bisogno di un rifugio sicuro

“Madiba è riuscito a essere un nazionalista nero, senza mai smettere di essere un umanista. Pochi perseguitati politici sanno tendere la mano all’oppressore che gli teneva lo scarpone sul collo. Lui è stato una garanzia per tutti
Per combattere il rischio dell’instabilità sociale, che già esiste il Paese deve riformare il sistema dell’istruzione: succede ancora che nelle township e nelle zone rurali non arrivano neanche i testi scolastici per poter studiare
L’Anc non onora il suo leader storico Tutta questa adulazione è comprensibile, ma non è quello che Mandela avrebbe voluto Il modo migliore di onorarlo sarebbe con la giustizia e il rispetto della Costituzione"

Il Nobel per la Letteratura nel 1991 Nadine Gordimer è nata a Johannesburg il 20 novembre 1923 Scrittrice di romanzi e saggi ha ricevuto molti premi fino al Nobel nel 1991 Il suo impegno sociale si è distinto nei movimenti anti-apartheid La fine dell’apartheid Mandela e Gordimer cantano l’inno nazionale di liberazione nel 1993 al Gandhi Memorial di Johannesburg Le lotte Gordimer ha iniziato la sua lotta contro la discriminazione razziale già negli anni dell’Università. Ora avverte: «Le diseguaglianze sociali sono una bomba a orologeria»
Nadine Gordimer prende il tè del pomeriggio senza latte, ma si concede biscotti al ginger molto saporiti. Per camminare usa il bastone e ha la faccia ammaccata, a causa di una frenata brusca della sua auto, ma lo spirito è quello vivace di sempre.
Nella casa coloniale di Johannesburg dove vive, disegnata dallo stesso architetto che progettò gli Union Buildings di Pretoria, si respira la travagliata storia del Sudafrica. Non solo perché tra queste mura, davanti al caminetto del soggiorno, hanno preso forma le novelle che hanno fatto conoscere al mondo le complesse dinamiche del suo Paese, ma anche perché qui si è costruito il Sudafrica del post apartheid. «Dopo la liberazione di Madiba (così i sudafricani chiamano Mandela) - ricorda - offrii la mia casa agli esponenti dell’African National Congress e del Partito Nazionale, che avevano bisogno di un rifugio sicuro, lontano da occhi indiscreti, dove negoziare il futuro del Paese. Ora però questo futuro è a rischio, e il nostro sogno rischia di svanire».
Sui divani dove siamo seduti si incontrarono i protagonisti della transizione democratica, F.W. De Klerk e Nelson Mandela, amico della scrittrice sudafricana dai tempi del processo di Rivonia. Tre premi Nobel, due per la Pace e uno per la Letteratura, nella stessa casa e allo stesso momento. Una situazione difficile da immaginare in qualsiasi altro luogo del mondo, ma che ascoltando i racconti della Gordimer assume i contorni di una semplice conversazione tra amici di lunga data: «Io stavo al piano superiore, indaffarata con i protagonisti dei miei romanzi, mentre al piano inferiore si discuteva di come tenere insieme il Paese che usciva dagli anni terribili dell’apartheid. Un regime - non dimentichiamolo mai - che durò così a lungo grazie ai finanziamenti e le armi inviate dall’Europa».
Quando incontrò per la prima volta Nelson Mandela?
«Lo conobbi grazie ad Anthony Sampson, un giornalista inglese che aveva fondato Drum, la prima pubblicazione realizzata dai neri di Johannesburg. Lui conosceva Mandela e il giorno della sentenza al processo di Rivonia, insieme al mio grande amico e avvocato di Madiba George Bizos, mi invitarono ad andare con loro».
Come fu quella prima visita?
«Durante un’interruzione del processo, Bizos mi chiamò e mi chiese di tenergli la borsa, fingendo di essere la sua segretaria. Così, grazie a questo stratagemma, riuscii a scendere nella cella dove c’erano Mandela e altri esponenti dell’Anc. I loro volti erano l’immagine del coraggio e della determinazione. La pena di morte era ancora in vigore, ed erano consapevoli che ci sarebbero state poche probabilità di evitarla, ma credevano alla loro causa come si crede ad una religione. Gli parlai pochi istanti, prima di tornare tra il pubblico ad ascoltare la sentenza, che condannò lui e i suoi compagni al carcere duro di Robben Island».
Avete avuto altri contatti durante i lunghi anni di prigionia?
«Era quasi impossibile. Però attraverso Bizos riuscivamo ad avere qualche informazione. Nonostante la sua lontananza, lo spirito di Madiba era sempre con noi».
È vero che Mandela lesse una delle sue novelle, «Burger’s Daughter», mentre era detenuto a Robben Island?
«Non so come sia riuscito ad averla, ma era bravissimo ad ottenere giornali e libri di contrabbando. Quel romanzo raccontava la storia di una famiglia in cui la politica veniva prima di tutto. Ricevetti una sua lettera piena di elogi, in cui scriveva che bisognava raccontare quelle cose. Fu una soddisfazione indescrivibile. Conservo ancora la lettera, al piano di sopra, ma è privata e non la mostro a nessuno».
Nel 1990, subito dopo la liberazione, Mandela la incontrò.
«Chiese di vedermi pochi giorni dopo. Per me fu bellissimo. Una grande emozione, dopo lunghi anni di attesa. Mi disse: adesso siamo pronti per costruire un nuovo Sudafrica. Poi gli assegnarono il Nobel, e mi invitò ad andare con lui a Oslo nella delegazione ufficiale: fu meraviglioso vederlo ricevere quel premio».
Quando è stato il vostro ultimo incontro?
«Quasi un anno fa. Bizos andava spesso a trovarlo nella sua casa di Houghton, fuori Johannesburg, e quella mattina decise di portare anche me, pensando che gli avrebbe fatto piacere. Era ora di colazione, che per Madiba significava le undici. Ci sedemmo in sala da pranzo, con lui a capotavola. Dopo una breve chiacchierata ci spostammo in salotto, dove Nelson ha una speciale poltrona, visti i problemi di deambulazione. Chiedeva a George notizie sui loro amici di lunga data, molti dei quali non ci sono più. Io ero seduta al suo fianco, ma era evidente come già allora la sua mente fosse altrove. Spesso non era presente. Credo non sia a conoscenza di ciò che gli gravita attorno, è come se fosse rimasto nel passato».
La figlia Makaziwe ha fatto causa proprio a Bizos, per togliergli la gestione del patrimonio del padre. Cosa pensa delle lotte interne alla famiglia per l’eredità?
«Una cosa orribile, disdicevole. Quello che sta succedendo è molto inappropriato, soprattutto perché Mandela non ha mai lottato per cose materiali. Quando ho saputo delle accuse contro George sono rimasta scioccata e meravigliata, perché è una persona onesta di cui Nelson si fidava molto. È davvero triste».
Il 2014 sarà un anno importante per il Sudafrica: ci saranno le elezioni, e si celebreranno anche i vent’anni dalle prime votazioni democratiche. L’Anc ha raggiunto i suoi obiettivi?
«No. Allora eravamo troppo indaffarati ad eliminare il regime dell’apartheid, e pensavamo che una volta liberi tutto sarebbe stato facile. Eravamo ingenui e non ci concentrammo sul futuro, sui problemi in arrivo, e su come ricostruire il Paese».
Gli insegnamenti di Mandela sono stati seguiti?
«Mi pare ovvio di no. La liberazione c’è stata, ma la giustizia manca ancora. Oggi vige una cultura incentrata sulla corruzione, di cui sono responsabili anche l’Anc e lo stesso presidente Jacob Zuma. Basti pensare alle accuse nei suoi confronti relative ad una mazzetta presa su un accordo commerciale per l’acquisto di armi: ha detto che si sarebbe sottoposto al giudizio della legge, ma il processo non è mai cominciato. Oppure lo scandalo di Nkandla, la sua residenza: Mandela vive in una casa bella, ma normale, che gli è stata regalata; Zuma si è costruito una cittadella, con i soldi pubblici. Questo fenomeno però va capito, senza giustificarlo».
In che senso?
«È un’eredità del colonialismo. Per secoli i neri non hanno avuto nulla: da quando hanno ottenuto la libertà e il potere politico vogliono tutto, ed in parte è comprensibile. Ma Zuma non ha seguito gli insegnamenti di Mandela ed è un pessimo esempio per i suoi ministri e per il popolo sudafricano».
Dunque l’Anc non ha onorato il suo leader storico?
«Tutta questa adulazione è comprensibile, ma non è quello che Madiba avrebbe voluto. Il modo migliore per onorarlo sarebbe attraverso la giustizia e il rispetto della Costituzione. Lui vorrebbe vedere questo Paese cambiare e diventare libero davvero».
Qual è l’eredità principale lasciata da Mandela?
«La sua umanità. È riuscito ad essere un nazionalista nero, senza mai smettere di essere un umanista. Pochi perseguitati politici sanno tendere la mano all’oppressore che gli teneva lo scarpone sul collo, ma lui è stato una garanzia per tutti».
Alle prossime elezioni ci saranno nuovi partiti come Agang, fondato dalla compagna di Steve Biko Mamphela Aletta Ramphele. Non crede ci sia la possibilità per un ribaltone politico?
«Temo di no. L’Anc sta perdendo molta credibilità, ma purtroppo gli altri partiti sono troppo piccoli e non riescono a trovare un’alleanza. Forse con uno scarto minore, ma Zuma vincerà di nuovo. Almeno credo».
Esistono timori che nel momento in cui Mandela non ci sarà più, il Sudafrica precipiterà nell’instabilità sociale. Cosa ne pensa?
«Certo, ma questo potrebbe capitare anche se Madiba vivesse per sempre. C’è già instabilità, basti pensare alle industrie minerarie e agli scioperi dei lavoratori, che chiedono una vita migliore e salari più appropriati. Poi la disoccupazione giovanile, in particolare tra la popolazione nera, è una vera bomba sociale. Tutto questo provoca risentimento, e il risentimento genera la violenza».
Cosa bisognerebbe fare per affrontare i problemi più gravi?
«Per cambiare queste dinamiche serve riformare il sistema dell’istruzione. Nelle scuole delle township e delle zone rurali non arrivano neanche i testi scolastici. In realtà l’educazione per la popolazione nera non è cambiata dai tempi dell’apartheid. Abbiamo persone intelligenti, ma quando si arriva a certi livelli servono conoscenze appropriate, che oggi ancora mancano».
Il presidente americano Obama, che ha da poco visitato il Paese, ha proposto una partnership economica per rilanciare il Sudafrica. È la strada giusta da seguire?
«Sono solo parole. Cosa propone, in concreto? Prendere soldi in prestito? Alzare le tasse? Alla fine anche gli americani sfruttano le nostre miniere e non danno un vero aiuto concreto alla nostra economia».
Cosa può evitare che il sogno della vostra vita, una volta sparito Mandela, vada in frantumi?
«La nostra determinazione a resistere. È difficile per tutti, anche per i giornalisti, che continuano ad essere minacciati da leggi sulla censura simili o peggiori di quelle dell’apartheid. Io vedo e temo i problemi che abbiamo davanti, ma non sono disperata. Non lo sono per una ragione molto concreta: se la nostra gente è riuscita a superare la terribile prova dell’apartheid, possiamo vincere qualunque avversità».

La Stampa 14.7.13
Le autoritè di Jiangmen, nel sud del Paese, rinunciano alla costruzione dell’impianto nucleare
Cina, la protesta ferma l’uranio
In centinaia hanno manifestato per giorni contro il progetto
di Ilaria Maria Sala


A volte le piazze riescono ad averla vinta, anche in luoghi come la Cina: all’ultimo momento, e dopo due giorni di manifestazioni, ieri mattina il governo di Jiangmen, nel Guangdong, Cina del Sud, ha annunciato infatti di voler sospendere il progetto di costruire una centrale nucleare alle soglie della città. Una città di 4.5 milioni di abitanti, assorbita dall’area urbana della vicina Guangzhou, e ad appena 100 chilometri da Hong Kong, che stava per essere la sede di una delle maggiori centrali nucleari cinesi – un progetto del valore di 6 miliardi di dollari Usa, esteso su 30 ettari, e che avrebbe dovuto servire per raffinare uranio.
Ma dopo due manifestazioni di protesta organizzate via Web, venerdì e sabato, le autorità locali hanno deciso di dichiarare che il progetto era sospeso. Una rara vittoria, dato che in Cina le proteste si concludono più spesso con l’arresto degli organizzatori che non con una risposta favorevole alle loro richieste. Secondo alcune statistiche, le manifestazioni in Cina – di varia entità - sono circa 500 al giorno, e stando alle recenti dichiarazioni delle autorità centrali, il maggior numero di queste è ormai rispetto a problemi legati all’inquinamento ambientale, uno dei temi più scottanti nel Paese dopo tre decadi di crescita economica mozzafiato.
Non per la prima volta, però, quando a mobilitarsi non sono operai, gruppi religiosi, studenti o dissidenti politici, bensì la classe media, ecco che le autorità si mostrano più disposte ad accogliere le richieste presentate: il successo delle manifestazioni di venerdì e sabato, infatti, ricordano simili successi nelle città di Xiamen, nel 2007, e di Dalian, nel 2011, quando progetti inquinanti furono bloccati dalla classe media urbana, che non voleva veder compromesso il suo tenore di vita e la sua salute, e che le case acquistate con tanti sacrifici perdessero di valore in modo improvviso.
Un altro caso si è avuto a Kunming nel mese di maggio: ma in quell’occasione le manifestazioni sembrano aver portato solo ad un temporaneo blocco delle opere di costruzione di un impianto petrolchimico. I residenti di Jiangmen, infatti, non sono ancora del tutto rassicurati: ieri, quando la polizia li convinceva a tornare a casa, molti si sono detti timorosi di una vittoria solo temporanea, e hanno promesso altre proteste in futuro.

La Stampa 14.7.13
Aborto, i Paesi in cerca di equilibrio
di Vladimiro Zagrebelsky


Il parlamento irlandese ha recentemente approvato una nuova legge in materia di aborto. La notizia ha dato occasione a commenti che hanno per un verso visto con favore il riconoscimento del «diritto all’aborto», oppure, in senso opposto, hanno deplorato un orientamento della Corte europea dei diritti dell’uomo, che sarebbe individualistico, a favore delle scelte della donna e irrispettoso dell’esigenza etica di proteggere la vita del feto. Né l’una né l’altra posizione trovano conferma nei fatti.
L’Irlanda, secondo la formula che si legge nella Costituzione, riconosce e protegge il diritto alla vita del non nato, insieme al rispetto dell’eguale diritto della madre. La norma costituzionale è stata interpretata nel senso che, quando una donna incinta ha necessità di un trattamento medico che può mettere a rischio il feto, occorre fare ogni sforzo per salvare madre e figlio. E’ questa la posizione espressa nel recente dibattito, dai vescovi cattolici irlandesi, nell’opporsi alla riforma. Nella pratica spesso era sacrificata la vita o la salute della donna. Fino al 1992, la legge irlandese proibiva anche l’attività d’informazione sulle possibilità che le donne irlandesi avevano di recarsi in un altro Stato per abortirvi legalmente. Dopo una sentenza della Corte europea dei diritti umani, che aveva trovato in quel divieto la violazione del diritto d’informare e di essere informati, la Costituzione era stata emendata nel senso di ammettere che la donna potesse recarsi all’estero per abortire e ottenere le informazioni utili a tale scopo. Così l’anno scorso circa 4000 donne dall’Irlanda si sono recate in Inghilterra per abortire. Fenomeno che si verifica anche altrove e per cercare soluzione ad altre esigenze, sempre in materie eticamente sensibili.
La nuova modifica della legislazione irlandese è conseguenza di un’altra sentenza della Corte europea del 2010. Una donna, malata di una forma di cancro, aveva motivo di temere che la gravidanza in corso potesse aggravare il suo stato di salute. In assenza di una procedura che le consentisse di ottenere una valutazione della situazione e far valere in Irlanda la necessità di proteggere la sua salute, aveva fatto ricorso alla Corte europea. La Corte, analogamente a quanto in precedenza affermato in un caso riguardante la Polonia, aveva ritenuto che l’assenza di un’efficace procedura di accertamento fosse incompatibile con la Convenzione europea dei diritti umani. Alla sentenza della Corte europea si è aggiunto pochi mesi orsono, suscitando forte dibattito, il tragico episodio della morte in un ospedale universitario irlandese di una donna incinta, cui venne negato l’aborto per il motivo che il feto era vivo.
Ed ecco allora che l’Irlanda, con la recente legge, ha introdotto nel suo sistema interno una procedura, che vede l’intervento di un collegio di medici che valutano il rischio per la vita della donna, con la possibilità di ricorsi contro la valutazione del collegio. La nuova legge, adottando una lettura della Costituzione diversa da quella sopra ricordata, ammette ora che sia possibile un trattamento medico anche quando questo procura l’aborto, se c’è un concreto rischio per la vita della donna e questo può essere rimosso solo con quell’intervento medico. La stessa possibilità è riconosciuta se viene certificato che c’è concreto rischio di suicidio della donna. Nessun altro caso è preso in considerazione: non la prospettiva di gravi malattie del nascituro, non il caso di gravidanza procurata da stupro, non problemi di carattere psicologico. In questo senso, rispetto a quanto avviene generalmente in Europa, si tratta di una legislazione estremamente restrittiva, simile solo a quella in vigore in Polonia e a Malta.
La Corte europea, in un’altra sentenza riguardante la legislazione irlandese, ha affermato che, in materia così delicata, legata come è a valutazioni di natura etica, gli Stati hanno un margine di apprezzamento nazionale che giustifica l’adozione di soluzioni diverse. Essa non ha mai affermato che esista un «diritto all’aborto», anzi ha negato che possa pretendersi una pura e semplice libertà di scelta da parte della donna. Secondo la Corte, la disciplina nazionale relativa all’aborto riguarda il diritto al rispetto della vita privata della donna, con la conseguenza che sono ammesse restrizioni al suo esercizio. Il diritto al rispetto della vita privata, infatti, non è un diritto assoluto, insuscettibile di limitazioni e regole. Del resto persino il diritto alla vita non è assoluto, come dimostra la previsione della legittima difesa o dello stato di necessità che rendono non punibile anche un omicidio. Ma, pur nel riconoscimento del margine di apprezzamento nazionale, ogni limitazione e regola deve essere proporzionata, ragionevole e controllabile. Da questo punto di vista, la legislazione italiana è stata giudicata equilibrata, poiché tiene conto delle varie esigenze che entrano in concorrenza. Ma, appunto, nemmeno la legge italiana prevede un «diritto all’aborto»; essa regola la difficile, drammatica contrapposizione tra la prosecuzione della gravidanza e la tutela della madre. In Europa non esiste un comune sentire, un consenso attorno alla questione della natura dell’embrione e del feto: se essi siano persona e a partire da quando, e quale peso debba attribuirsi alla loro protezione quando questa confligga con quella della madre. La Corte europea si è sempre ben guardata dall’adottare e imporre una propria posizione in materia, consapevole del fatto che le risposte puramente biologiche non sono sufficienti né risolutive, e che pesano invece le sensibilità sociali ed etiche, che – con o senza fondamento religioso – sono presenti in Europa. Non si tratta semplicemente di riconoscere in ogni società il diritto della maggioranza – spesso difficile da accertare – di far prevalere su tutti le sue preferenze. I diritti fondamentali spettano ai singoli, anche contro l’avviso della maggioranza (la donna morta in Irlanda era un’indiana hindu, estranea alla cultura sottostante la legislazione locale). Ma un equilibrio, provvisorio, rispettoso e non arrogante, in ogni società deve essere ricercato.

il Fatto 14.7.13
L’intervista: Susan Sarandon
“Femminismo? Basta, è una parola fuori moda”
di Elizabeth Day


Nel film “La frode” lei interpreta il ruolo della moglie di un finanziere multimilionario e si rivela più forte di carattere di quanto non appaia all’inizio del film. Un ruolo insolito per una attrice non protagonista. È stato per questo che ha accettato di fare il film?
Sicuramente. Mi piaceva lavorare con Richard Gere che conosco da una vita. E poi potevo indossare abiti bellissimi e si girava a New York. Insomma il tutto era molto attraente. In un rapporto molto lungo, come quello della coppia nel film – personalmente il mio record è di 23 anni – accade che si interagisca con l’altro secondo schemi ormai collaudati e nella convinzione di conoscere alla perfezione il proprio partner. Richard Gere aveva un’idea della moglie e quando la moglie prende in mano la situazione, lui è costretto a rivedere il suo modo di comportarsi. Certo anche lei ha dovuto accettare dei compromessi, ma è una donna intelligente. Quel personaggio mi è piaciuto molto.
Lei è nota perché interpreta sempre donne forti.
Si dà il caso però che io spesso non le consideri tali. Molte delle donne che ho interpretato hanno dovuto prendere decisioni difficili, ma mentre le interpretavo non avevo la sensazione di essere “forte”. So che molta gente pensa qualcosa del genere riguardo a Thelma & Louise. In quel caso più che di una donna forte si trattava di una donna sull’orlo di una crisi di nervi. Anche Suor Helen in Dead Man Walking (il film per il quale le fu assegnato l’Oscar nel 1996, ndt) all’inizio del film sembrava una persona tranquilla, poi gli eventi l’hanno gradualmente condotta a farsi coinvolgere sempre di più. Capisco però che a uno sguardo superficiale possano sembrare tutte donne forti.
Si definirebbe una femminista?
Preferisco definirmi umanista per non inimicarmi quanti pensano che le femministe siano un branco di streghe. Mi batto per la parità salariale, dei diritti, dell’istruzione e dell’assistenza sanitaria. Femminismo è una parola un tantino fuori moda. La si usa per lo più in senso spregiativo. Mia figlia (Eva Amurri, figlia del regista italiano Franco Amurri, ndt) che ha 28 anni, non si riconosce con il concetto di femminismo e non di meno è una donna che ha il pieno controllo sulla sua vita.
Lei si è sempre distinta per il suo attivismo e per il suo impegno politico. Alla consegna degli Oscar nel 1993 fece scalpore il suo discorso a favore dei profughi haitiani sieropositivi. Si è battuta contro la guerra in Iraq e ha sostenuto il movimento “O cc u py Wall Street”. Le capita mai di pensare che è stanca di impegnarsi?
Mi capita spesso di sentirmi stanca. Ma il problema è un altro: potrei vivere senza espormi in prima persona? C’è gente che si batte e che lo fa tra enormi difficoltà personali ed economiche. Io sono una dilettante e non mi sembra il caso di lamentarmi.
Lei è una di quelle attrici che la gente ha la sensazione di conoscere personalmente. Qualche tempo fa ha detto che quando si è lasciata con Tim Robbins, suo compagno per 23 anni, gli estranei la avvicinavano in strada e le confidavano la loro tristezza. Non c’era qualcosa di surreale in questa reazione?
In un certo senso tutto quello che riguarda la fama è surreale. È per questo che non mi prendo troppo sul serio e non prendo sul serio la popolarità. Credo che in una certa misura la gente mi conosca. Non ho mai fatto mistero di come la penso e non ho mai nascosto i miei sbagli. Quando Tim e io abbiamo deciso di separarci di comune accordo, inevitabilmente fummo sottoposti a una serie di pressioni da parte di familiari e amici intimi perché la gente tende ad affezionarsi all’immagine di quella che secondo loro è una coppia perfetta. Bisogna cercare di interporre un diaframma tra se stessi e queste richieste. D’altro canto spesso la gente mi ferma per la strada e mi dice “ti voglio bene”. È una manifestazione di affetto del tutto gratuita, che non mi sono guadagnata, ma è un bel modo per cominciare la giornata.
Ha mai avuto impressione che il nome Susan non sia del tutto intonato alla sua personalità?
Intende dire che è un nome noioso?
No, non noioso... ma molto dolce, quasi zuccheroso.
In un certo senso è un nome noioso e antiquato. Non è facile trovare una Susan che abbia meno di 35 anni. Forse dovrebbero prendere qualche Jessica e ribattezzarla Susan. In giro ci sono un mucchio di Jessica. Molte donne della mia età che si chiamavano Susan hanno cambiato il nome con nomi tipo Sigourney. A me non è mai venuto in mente di cambiare il nome. Nel 1967 sposando l’attore Chris Sarandon sono diventata Sarandon di cognome e non l’ho più abbandonato perché mi piaceva; credo principalmente per il fatto che i miei genitori non sono stati particolarmente incoraggianti quando ho detto che volevo fare l’attrice. Comunque ormai mi sembra tardi per mettermi a pensare se è il caso di cambiare nome, non le pare?
Lei è la prima di nove figli. Era quella capace, affidabile e assennata che pensava ai fratellini?
Esattamente e ho continuato a essere una figura materna per tutta la vita. Ci ho messo moltissimi anni per togliermi la cattiva abitudine di comportarmi da madre anche con i miei ragazzi, fidanzati e mariti. Anche sul set finisco sempre per essere quella che organizza le feste di compleanno, e risolve i problemi degli altri.
Corre voce che stia uscendo con un uomo di 33 anni. Ha veramente imparato a non fare la madre nei rapporti d’amore?
Una delle cose più importanti che una donna deve imparare è contare su se stessa e capire quali sono i propri limiti. Per educazione, da noi donne la società si aspetta che facciamo i figli, che non amiamo il potere fine a se stesso, che facciamo sentire gli altri a proprio agio e che completiamo le frasi iniziate da altri. Per una donna è sempre difficile affermarsi, e ancora più difficile è accettare che talvolta bisogna ferire i sentimenti degli altri. È inevitabile.
© The Guardian Traduzione di Carlo A. Biscotto

La Stampa 14.7.13
A Monaco i Picasso della collezione Nahmad


In occasione del quarantennale dalla morte di Pablo Picasso, deceduto l’8 aprile del 1973 a Mougins, sulla Costa Azzurra, Monaco, Antibes e Cannes dedicano numerose mostre al pittore spagnolo, ma la parte del leone la fa il principato con la leggendaria collezione Nahmad. Per la prima volta il pubblico potrà vedere le opere di Picasso della collezione della famiglia di mercanti d’arte di origini siriane. Quasi 100 delle 160 opere in mostra fino al 15 settembre al Forum Grimaldi provengono dalla collezione. A destra Femme couchée a la meche bionde

Corriere 14.7.13
I comunisti francesi nella Parigi occupata
risponde Sergio Romano


Scrivo a proposito di «Tedeschi a Parigi» (Corriere, 28 giugno). L'opinione generale in Francia è che i comunisti non ottennero il permesso di pubblicare l'Humanité. Ma è certo che, all'inizio dell'occupazione tedesca, abbiamo visto (ho visto) sui muri manifesti del Partito comunista francese che invitavano il lavoratore francese ad accogliere i soldati tedeschi «quali rappresentanti della seconda (noti: non l'altra!) patria del socialismo».
Maurice André

Caro André,
Le informazioni più interessanti su quell'episodio sono in un libro apparso presso le edizioni Self di Parigi nel 1948. Il titolo era Physiologie du Parti Communiste Français e l'autore si nascondeva sotto lo pseudonimo di A. Rossi. Rientrati rapidamente a Parigi dopo l'inizio dell'occupazione i dirigenti del Pcf, nel racconto di Rossi, presero immediatamente contatto con la Kommandatura tedesca e presentarono in bozza il numero che intendevano stampare. I censori della Wehrmacht non sollevarono obiezioni sui contenuti, ma chiesero la soppressione delle parole «Organo centrale del Partito comunista» e del simbolo – la falce e il martello – che decorava la testata. I comunisti rifiutarono sostenendo che quella era l'identità del giornale, e le autorità tedesche, a loro volta, dichiararono di non poter accettare parole e simboli che Mussolini e Franco avrebbero considerato incompatibili con la linea politica dei loro regimi. Vi fu per qualche mese, tuttavia, un tacito compromesso. La Kommandatura chiuse un occhio e permise di fatto la circolazione «clandestina» dell'Humanité, mentre la propaganda comunista si astenne da qualsiasi critica contro il regime d'occupazione.
Rossi osserva che ciascuna delle due parti, beninteso, sperava di usare l'altra per i propri fini. I tedeschi volevano servirsi di una organizzazione che aveva una forte influenza sulle masse francesi e disporre contemporaneamente di un'arma in più per tenere a bada il governo del maresciallo Pétain. I comunisti obbedivano agli ordini di Mosca, ancora legata a Berlino dal patto Molotov-Ribbentrop dell'agosto 1939, ed erano convinti che la collaborazione con la Germania in quel momento avrebbe creato le condizioni per una rapida conquista del potere. Rossi cita un «Manifesto al popolo di Francia», approvato dal Comitato centrale del partito e diffuso poche settimane dopo l'inizio dell'occupazione. La vittoria tedesca aveva già eliminato il regime capitalistico e borghese della III Repubblica; la collaborazione con l'occupante all'ombra del patto tedesco-sovietico avrebbe fatto il resto. In altre parole i comunisti francesi avevano adottato una tattica che riproduceva esplicitamente quella dei bolscevichi dopo il crollo dell'esercito imperiale e la pace di Brest Litovsk. Scoprirono il patriottismo soltanto dopo l'invasione tedesca dell'Urss nel giugno dell'anno seguente.
PS. Il misterioso A. Rossi è in realtà Angelo Tasca, socialista, comunista dal 1921, membro del Comitato esecutivo del Komintern, avversario di Stalin, espulso dal partito nel 1929, esule in Francia negli anni Trenta, nuovamente socialista nel 1936 e contrario alla politica di unità d'azione con il Pc. Fu anche, per la verità, capo di un Centro studi di Vichy durante il regime del maresciallo Pétain, ma dopo la guerra poté dimostrare che aveva collaborato contemporaneamente con una organizzazione belga della Resistenza. I suoi Archivi di Vichy sono stati pubblicati nel 1996 dalla Fondazione Feltrinelli.

Corriere Salute 14.7.13
Il distinto pediatra-poeta che ispirò la Beat Generation
di Alberto Paleari


Da scrittore, sono stato medico, e da medico sono stato scrittore. Quasi un'epigrafe, la dichiarazione in cui William Carlos Williams racchiuse il senso della propria vita. Williams seppe trovare tra le sue vocazioni la giusta compresenza, come nella poesia Complaint, che così si conclude: «Ecco una grande donna / che giace su un fianco nel letto. È malata / forse sta vomitando, / forse è in travaglio / per dare alla vita / un decimo figlio. / Le scosto dagli occhi i capelli / e osservo la sua pena / con compassione». E ancora: «L'ala nascosta / dell'ospedale / dove mai / nulla crescerà / là vi è cenere / e lo splendore / dei cocci d'una verde / bottiglia».
Alcune poesie le creava sui fogli per le prescrizioni mediche, altre le batteva a macchina nei pochi minuti tra una visita e l'altra: «Una frase mi si palesava per un istante, e la buttavo giù su qualunque pezzo di carta avessi sotto mano».
Anni dopo William Carlos Williams dirà: «La professione medica dà l'occasione di conoscere attraverso strade imprevedibili la vita, e questa conoscenza per lo scrittore è viva carne, i miei malati sono stati un nutrimento per la mia musa ... ero presente all'atto della nascita e a quello della morte... la medicina dà l'opportunità di capire cosa è la vita».
Fu anche medico condotto, alzandosi nel cuore della notte per accorrere presso chi che aveva invocato il suo aiuto.
Williams era nato nel 1883 nel New Jersey, a Rutheford («dove andavo a cacciare anatre e topi muschiati»), da padre di origine inglese e madre portoricana. Il padre gli leggeva Dante e Shakespeare, e lui, William Carlos, amava Dante e il romantico John Keats ma anche i versi "liberi" dello statunitense Walt Whitman, che sentiva come «una spinta verso la libertà».
Giovanissimo fu dominato dal terrore di non essere all'altezza delle aspettative dei genitori. Per un certo tempo fu in Europa a studiare. Al liceo iniziò a coltivare interesse per l'uso e le possibilità espressive della lingua. Studiò anche a New York poi si iscrisse all'Università della Pennsylvania. Nel 1906 si laureò in medicina, specializzandosi in pediatria. All'Università si era legato di fraterna amicizia con Ezra Pound, che lo introdurrà nel mondo dell'Imagismo, una corrente poetica tipicamente statunitense. Di quell'incontro Williams scrisse: «Fu per me uno spartiacque, una sorta di prima e dopo Cristo». Nel 1912 sposò Florence Herman, la Flossie delle sue poesie.
Ebbe inizio e si sviluppò una vita che scorreva su due binari. Quella di poeta — il primo libro, Poems, era uscito nel 1909 — e quella di medico, con l'internato al French Nursery & Child's Hospital di New York, poi con il ruolo di primario di pediatria e quindi di direttore dell'ospedale nella cittadina industriale di Paterson, nel New Jersey.
Qui assistette allo sciopero degli operai; vide le cariche della polizia e gli arresti in massa; vide l'esistenza nella fame di tante famiglie e fu dalla loro parte. I figli di quella gente lui li aiutava a venire al mondo.
Intanto i suoi interessi letterari si ampliavano: non solo poesia ma anche teatro, critica, racconti, romanzi, saggi e più tardi un'autobiografia. Al centro, l'amore per l'America (In the American Grain — Nelle vene dell'America — è del 1925) e la ricerca di un innovativo metodo per comporre in versi, fino alla messa a punto di un linguaggio poetico che definì «piede variabile». Dall'imagismo passò al modernismo. Il contemporaneo successo raggiunto con The Waste Land dal futuro naturalizzato inglese Thomas S. Eliot tenne a lungo in ombra il nome di Williams, che non si scoraggiò. Nemmeno a Paterson e a Rutherford, suoi stabili habitat, erano in molti a sapere di questa "altra" attività dedicata alle lettere.
Lavorò per decenni quasi in preparazione della sua opera più importante, Paterson, un ritratto in versi e prosa della città, intesa come rappresentazione dell'Uomo, perché «l'uomo stesso è una città». Diviso in cinque parti — la prima uscirà nel 1946 e l'ultima nel 1958 — il lavoro gli valse un riconoscimento di rilievo nazionale, il National Book Award, preludio al Pulitzer, postumo, del 1963.
N el 1952 gli era stato offerto un posto di prestigio alla Library of Congress di Washington, offerta che venne immediatamente ritirata per l'accusa (rivelatasi falsa) di essersi iscritto al partito comunista e — in palese controsenso — a causa della sua stretta amicizia con Ezra Pound, per le dichiarate simpatie di questi nei confronti del nazismo.
Nel 1956 la piccola casa editrice di San Francisco appartenente al poeta Lawrence Ferlinghetti, City Lights Books, pubblicava il poema di Allen Ginsberg, Howl, Urlo: «Ho visto le menti migliori della mia generazione distrutte dalla pazzia, affamate, nude isteriche, / trascinarsi per strade di negri all'alba in cerca di droga rabbiosa». La prefazione era firmata da William Carlos Williams. I due poeti si conoscevano da tempo: «Quando lui era più giovane, e io ero più giovane, conoscevo Allen Ginsberg, un giovane poeta che viveva a Paterson, New Jersey, dove — figlio di un ben noto poeta — era nato e cresciuto».
Il vecchio e ormai affermato Williams, un distinto signore dall'aspetto perbene, con gli occhiali e la calvizie incipiente, vestito di grigio in giacca e cravatta, si era incontrato con la nuova generazione dei poeti americani, in particolare con quella Beat, dove militava Ginsberg. Questi «ragazzi» lo consideravano loro «padre spirituale» e lui cercava da sempre nuove idee, nuovi modi d'esprimersi, nuovi fermenti. Williams indicava una strada alternativa all'accademismo di Eliot. Howl, il poema di Ginsberg, scatenò accuse e processi, ma Williams non ne fu toccato. Nella lunga gestazione di Paterson trovò modo di inserirvi lettere di Ginsberg e di Pound, la cartella clinica di un paziente, articoli di giornali, e di insistere su quello che era il suo credo: «Nessuna idea, se non nelle cose». Il linguaggio doveva essere lo stesso in uso tra la gente.
D al 1948 Williams cominciò ad avere problemi di salute, che più tardi lo renderanno disabile e quasi cieco.
La fedele Flossie leggeva ad alta voce e lui ascoltava e continuava imperterrito a scrivere e a creare (l'ultima parte di Paterson è di quegli ultimi faticosi anni). Venne un altro capolavoro, dall'incipit memorabile: «Dell'asfodelo, quel fiore verdeggiante / come un ranuncolo / sopra il gambo che si dirama - / solo che è verde e legnoso - / vengo, mia dolce, / a cantarti». C'era l'amore e c'era la speranza in qualche cosa al di là della vita.
Morì a 79 anni, il 4 marzo 1963. Il poeta beat Jonathan Williams lo ricorderà così: «Sono contento / che tu sia morto / il mese / in cui viene primavera».

Corriere La Lettura 14.7.13
I guerrieri omerici prima di Omero
di Anna Lucia D’Agata


Nell’immagine: Una danza armata dipinta su un vaso cretese del X secolo a.C. La scoperta eccezionale aiuta a ridefinire i processi civili e sociali di iniziazione dei giovani

Nessuno nel mondo antico poteva dirsi più abile dei cretesi nell'arte della danza. Gli abitanti dell'«isola dalle cento città» erano considerati danzatori per antonomasia e tale fama appare già ben radicata nei poemi omerici. Vi si narra che a Cnosso, Dedalo, il leggendario artefice del Labirinto, aveva costruito per Arianna «dalla bella chioma» una pista da ballo, dove giovani e fanciulle danzavano tenendosi per mano, piroettando su se stessi, o lanciandosi in assolo acrobatici.
L'eroe cretese Merione, discendente dal mitico re di Creta Minosse (e atleta protagonista dei giochi funebri per Patroclo), è detto capace di schivare la lancia nemica proprio in virtù della sua abilità nella danza. A Creta, infine, e ai Cureti, leggendari daimones cretesi, era assegnata l'invenzione della più celebre delle danze, la danza armata o pyrriché, che svolgeva un ruolo primario nell'educazione dei giovani. Riservata a occasioni molto speciali come cerimonie funebri o iniziazioni giovanili, e finalizzata all'esibizione dell'abilità individuale, la danza armata era il mezzo attraverso cui i giovani greci imparavano a usare le armi al suono della musica, a maneggiare in maniera appropriata lancia e scudo, ad acquisire la necessaria agilità fisica per combattere fianco a fianco con i loro compagni.
I danzatori di pyrriché erano rappresentati nudi, con indosso solo lo scudo e l'elmo, e con in mano un'arma d'offesa, la lancia, la spada o il giavellotto. Era in occasione del loro ingresso nel mondo degli adulti, quando venivano acclamati cittadini, e venivano loro assegnati armi e fanciulle come spose, che i giovani cretesi erano chiamati a danzare: allora, al pari dei Cureti — come testimonia un antico inno riportato su un'iscrizione di epoca romana, trovata nel santuario della città di Itanos a Palaikastro, sul versante orientale dell'isola — danzavano in armi attorno all'altare di Zeus.
Nel 2002 a Creta, nello scavo dell'insediamento sulla collina della Kephala, alle propaggini occidentali del massiccio dello Psiloriti e all'interno del territorio della futura città greca e romana di Sybrita, è stato scoperto un cratere fittile decorato con la più antica scena di danza armata, in Grecia, che si data al X secolo a.C. e la cui pubblicazione scientifica è appena apparsa su una rivista specializzata del Consiglio Nazionale delle Ricerche. Il vaso è un manufatto rivoluzionario che consente di trascinare indietro di alcuni secoli, ben prima di Omero e della nascita della polis nel corso dell'VIII secolo a.C., l'origine della danza armata, pratica sociale tra le più importanti della Grecia antica.
La regione dello Psiloriti è la provincia aspra e impervia di Creta che include anche il monte Ida, la vetta più alta dell'isola. Proprio qui la mitologia greca ha collocato la nascita e l'infanzia di Zeus, custodito dai Cureti in una grotta inaccessibile nella quale il fragore creato dai loro scudi avrebbe nascosto i vagiti del bimbo al padre Cronos che lo voleva divorare. Qui l'archeologia moderna ha individuato il santuario in grotta dell'antro Ideo, identificato dagli antichi come culla di Zeus e unico santuario pancretese che l'isola abbia mai avuto.
Anche oggi la regione dello Psiloriti mantiene una sua forte identità, caratterizzata da un'economia spiccatamente pastorale e dalla persistenza di un sistema sociale arcaico, fondato sull'incontrastata preminenza di valori tradizionalmente maschili. In quest'area di Creta la ricerca etnografica ha mostrato come le differenze culturali siano costruite attraverso pratiche sociali che celebrano appunto la mascolinità. Un maschio deve saper bere a dismisura, saper usare le armi, saper danzare, saper razziare gli animali, a un livello tale di eccellenza che tutti lo possano immediatamente riconoscere. Attraverso queste azioni, modi di comportamento speciali, e oggetti come la lira, strumento musicale cretese per eccellenza, diventano il simbolo di gruppi locali e riflettono (ma allo stesso tempo creano), valori condivisi che danno forma alle istituzioni sulle quali la comunità tradizionale è fondata. Volendo indagare le strutture sociali della stessa area alla fine del II millennio a.C. — una fase nella quale l'unico gruppo sociale discernibile è quello dei guerrieri, e la maggior parte delle rappresentazioni figurate rimandano alla caccia — è stato per me quasi inevitabile fare ricorso all'approccio etnografico che si applica al panorama culturale cretese moderno.
Il cratere fittile della danza armata è stato ritrovato all'estremità occidentale dell'insediamento sulla Kephala nel vano principale dell'Edificio 3. Contesto e natura degli oggetti associati al cratere fanno intendere che il vaso fosse stato usato in un ambito elitario e, data la sua complessa rappresentazione figurata, al momento senza confronti, deve essere stato prodotto su commissione per un evento specifico che includeva certo un banchetto: un evento che, possiamo immaginare, a livello locale sia rimasto memorabile. Sul vaso di Sybrita sono dipinti tre guerrieri in armi che a differenza delle raffigurazioni note tra XII e VIII secolo a.C. non sono rappresentati in processione o nell'atto di combattere ma con le braccia sollevate e le palme aperte in atto di danzare. Accanto a loro, una lira e un cimbalo o timpano, strumento musicale simile a uno scudo, alludono all'accompagnamento musicale che doveva scandire la danza dei guerrieri.
Quando il vaso venne dipinto, l'alfabeto non aveva ancora fatto in Grecia la sua comparsa, ma certo storie fantastiche e di eroi — alcune formatesi nelle corti dei palazzi minoici e micenei, altre acquisite dall'ambiente mediterraneo e vicino-orientale — erano da molti secoli recitate e tramandate in forma orale. Molte di queste avrebbero più tardi contribuito alla stesura dell'Iliade e dell'Odissea. La raffigurazione sul vaso di Sybrita non ha precedenti nel repertorio cretese dell'età del Bronzo, né può essere collegata alle scene di derivazione orientale presenti su qualche vaso da Cnosso, allora uno dei principali centri dell'isola. Piuttosto essa deve essere considerata l'invenzione originale di un artigiano che ha tratto ispirazione dal contesto sociale nel quale viveva. In una società fondata sulla comunicazione orale la scena rappresentata, perché avesse successo, doveva essere ben comprensibile al pubblico e contribuire allo sviluppo di un linguaggio visivo comune. Di fatto in Grecia antica le rappresentazioni figurate erano fondate su un discorso narrativo che si stabiliva tra artigiano e fruitori del vaso: attraverso di esso contribuivano entrambi alla costruzione delle storie rappresentate e alla loro trasmissione. In altri termini, le scene figurate non avevano solo intento decorativo, ma svolgevano anche un ruolo socialmente attivo all'interno del loro contesto di riferimento.
La scena rappresentata sul vaso della danza armata è un indizio importante del fatto che nell'insediamento sulla Kephala, a due secoli di distanza dal collasso delle strutture statali dell'età del Bronzo, una comunità socialmente e politicamente articolata aveva nuovamente preso forma sotto la guida di corpi privilegiati che si connotavano come guerrieri, che gestivano l'attività di culto ufficiale ed erano interessati alla propria autorappresentazione. Se dunque il cratere è la forma simbolo del banchetto, la scena di danza armata codifica i modi in cui un gruppo della comunità di Sybrita assegnò a se stesso il privilegio dell'iniziazione maschile, celebrandolo, forse per la prima volta, con una cerimonia che deve aver incluso anche un banchetto. Il vaso può essere considerato l'espressione iconografica e rituale di quell'istituzione che consentiva alla società locale di assicurare la propria continuità, e che avrebbe dominato la forma peculiare di polis che si sarebbe sviluppata a Creta: un sistema basato su gruppi di età in cui l'appartenenza familiare e il legame con il clan ricopriva il ruolo più importante.
In tal senso il cratere di Sybrita sembra esprimere un ideale di mascolinità che va oltre la celebrazione dell'abilità fisica e sostiene la formazione di una «leadership» in grado di assicurare la permanenza al vertice di uno specifico gruppo familiare. Rimandando a un modello di stabilità sociale forse connesso agli stadi iniziali della città-stato, la scena sul cratere di Sybrita raffigura la pratica dell'iniziazione maschile, e i guerrieri rappresentati si possono identificare con giovani cretesi appena ammessi al corpo degli adulti. Ed è verosimile pensare, come aveva intuito Jane Harrison nella Cambridge degli inizi del '900, che siano stati simili rituali a dare vita a miti come quello dei Cureti ai quali viene attribuita l'origine della danza armata nell'isola. A più di cento anni da quella intuizione, il cratere di Sybrita esorta a mantenere attivo il dialogo tra antropologia, sociologia e Grecia delle origini.

Corriere La Lettura 14.7.13
Scambio di doni dopo il duello
L’etica dell’Iliade
di Luciano Canfora

qui

Repubblica 14.7.13
Se l’alfabeto è una prigione
di Roberto Esposito


«Note caratteristiche: Andrea Emo, persona di poco fondamento, inetto a qualunque cosa, con qualche vena di pazzia» — così uno dei maggiori filosofi italiani del Novecento si presentava nel 1929 ad un lettore che si augurava non dovesse mai avere. E non sembra una follia scrivere circa quarantamila pagine, senza pubblicarne nessuna, come ha fatto questo pensatore veneto, allievo eterodosso di Gentile, legato da profonda amicizia con Alberto Savinio e Cristina Campo? Il suo rilievo filosofico è ormai noto da quando, soprattutto ad opera di Massimo Cacciari, alcuni dei suoi frammenti hanno cominciato ad essere pubblicati. Ma forse nessuna delle raccolte precedenti dà ragione della sua scelta di anonimato più di quella, appena edita da Gallucci con il titoloLavoce incomparabile del silenzio,a cura di Massimo Donà e Raffaella Toffolo, con tre testi di Cacciari, Giorello e dello stesso Donà. Se è generalmente vero che senza un possibile destinatario nessuno scriverebbe mai, per Emo chi cerca la celebrità, rendendo pubblico ciò che è privato, svilisce e profana la propria opera. Del resto, egli osserva, di nessuno si è parlato tanto quanto di coloro che, come Socrate, Cristo, Budda e forse perfino Omero, non hanno mai scritto nulla. Questi grandi ‘analfabeti’ — nel senso letterale dell’espressione — non hanno mai voluto imprigionare la parola vivente “nelle carceri dell’alfabeto”. La scrittura è nata, come una sorta di segretario collettivo, quando la memoria dell’umanità è cominciata a declinare. Ma come la scrittura tradisce la parola, così la pubblicazione tradisce l’esigenza intima della scrittura.
Naturalmente per cogliere il senso di queste proposizioni bisogna risalire al cuore della con-cezione di Emo. Più vicino a Schelling che a Hegel e a Fichte, cui invece si richiama Gentile, il suo pensiero va accostato al neoplatonismo lungo la linea che congiunge Meister Eckhart a Cusano. Ma un rimando più prossimo, forse mediato da Cristina Campo, conduce alla prospettiva di Simone Weil. Anche per lei il soggetto — sia divino che umano — si esprime solo negandosi. L’Inizio — anche nel senso cristiano della Creazione — è un atto di svuotamento che fa spazio all’altro da sé. Il Soggetto, in questo caso, non è una sostanza, un fondamento, un ente, ma un niente che può agire soltanto negandosi. Da qui una relazione con il nichilismo, ma anche con la teologia della Croce. Cosa altro annuncia Cristo se non che la Resurrezione passa per la morte? Dio si manifesta non nella gloria, ma nel sacrificio ultimo. Allo stesso modo l’uomo, esposto all’assenza disenso e alla potenza del nulla — l’affinità spirituale con Leopardi è palese — , non può realizzarsi che nella meditazione della propria nullità. Appunto in essa è custodita la libertà dei pensieri. La loro possibilità di non essere “dei subordinati, schiavi, cariatidi di un sistema o di una persona”.
In queste frasi balena un altro, forse ancora più radicale, punto di tangenza con Simone Weil. Si tratta del carattere impersonale del pensiero. Se, come si è detto, il soggetto non può affermarsi che negandosi; se quello che Gentile chiamava ‘atto puro’ passa sempre per uno svuotamento della dimensione soggettiva; se ogni creazione, divina o umana, non è che decreazione, il vero pensiero, il pensiero originario, non può di certo appartenere al soggetto. E infatti, per Emo, “quando si pensa o si scrive, non si deve creare solo il pensiero proprio, ma anche l’altrui”. Il pensiero, nella suaforma originaria, non sta nella coscienza individuale, ma in ciò che la contrasta e la forza ad alterarsi. Anzi quando il pensiero diviene cosciente, “esiste sempre meno”. La coscienza può tornare ad essere creatrice soltanto quando si conosce negativamente. Solo allora, tornata su di un piano impersonale, può creare pensieri nuovi e originali.
Ciò vale ancora di più per la poesia: “Il miracolo della poesia — scrive Emo con una intensità che deve aver colpito Cristina Campo — è sempre l’impersonalità”. In questa rinuncia a tutte le cose e a tutte le forze è il segreto della poesia. Il poeta non parla mai per sé — è un intermediario che, annullando la propria personalità, permette ai sentimenti di manifestarsi allo stato puro, “permette l’apparizione di una verità assoluta, impersonale, e quindi utile e vera per tutti”. Da questo punto di vista, che solo oggi possiamo riconoscere in tutta la sua pregnanza, poeta sommo è Mallarmé, richiamato in molte pagine della raccolta. Come farà lo stesso Emo per la filosofia, egli è stato colui che ha situato la poesia moderna nel punto d’incrocio, sublime impossibile, tra parola e silenzio. Facendo del silenzio la custodia della parola e della parola la voce del silenzio.

LA VOCE INCOMPARABILE DEL SILENZIO di Andrea Emo Gallucci pagg. 264 euro 15

Repubblica 14.7.13
La rivolta del pensiero contro la “disperanza”
di Francesca Bolino


Bisogna trovare «la forza di vivere il presente in movimento che chiamiamo futuro», dice Marc Augé.
Ma questa forza deve essere supportata da soggetti storici concreti, individuali e collettivi: solo le rivolte del pensiero possono «farci uscire dalle impasses e dai vicoli ciechi della malinconia e della disperanza». Mario Galzigna conclude così il suo saggio dedicato a una delle insegne del nostro tempo — l’assuefazione all’idea di sottrazione del futuro — che egli definisce con il neologismo “disperanza”. Nella ri-costruzione di un “pensiero in rivolta” Galzigna riesuma alcuni momenti di sovversione: la pittura di Magritte, la psichiatria antiistituzionale di Ronald Laing, Antonin Artaud scrittore insorto. Trasgressioni libertine e giochi dell’intelletto. E anche la sfida politica anti-colonialista degli Indios, vista come una decolonizzazione dell’antropologia e dunque del pensiero. Un affascinante esercizio di destabilizzazione “alla Foucault” con lo scopo di smuovere la mansuetudine diffusa e rianimare attitudini consegnate agli archivi, a cominciare dall’idea stessa di rivolta. Contro lo scoramento.

RIVOLTE DEL PENSIERO di Mario Galzigna Bollati Boringhieri, pagg. 174, euro 18

Repubblica 14.7.13
Le origini russe, Bobbio, il diritto Parla l’ex presidente della Consulta
Gustavo Zagrebelsky
“La mia vita da giurista attento alla democrazia all’etica del dubbio e alla vita delle persone”
di Antonio Gnoli


L’appuntamento con Gustavo Zagrebelsky è nella nuova università torinese che accoglie Giurisprudenza e Scienze politiche. Il campus, dedicato a Luigi Einaudi, ha un’aria sinuosa e trasparente. Colpisce il tetto che sembra l’enorme guscio di una tartaruga. Il professore mi attende all’ingresso. Non c’è nulla di formale, come ci si aspetterebbe da un grande giurista. Noto che tra le mani stringe un libro: una raccolta di saggi dedicata al Grande Inquisitore. Mi informa che sull’argomento sta preparando un libro e che della tantissime interpretazioni che sono state offerte delle pagine di Dostoevskij quella che lo ha maggiormente convinto è del teologo Dietrich Bonhoeffer. Penso alla sua morte avvenuta in un campo di concentramento nazista per impiccagione. E al fatto che lì, in quell’aprile del 1945, l’inquisitore prese il volto di un tiranno folle e crudele che ne decretò la condanna a morte.
Questa sua predilezione per Dostoevskij da cosa nasce?
«Dal senso di inquietudine e di confessione che attraversa i suoi romanzi. Più mi addentro nei suoi personaggi e più resto turbato dall’impasto di abiezione e salvazione che essi restituiscono».
È la duplicità della natura umana.
«Che non trovo per esempio in Tolstoj, il quale ci regala dei bellissimi monumenti classici, mentre in Dostoevskij si avverte un tormento continuo. Non credo sia secondario che egli scrivesse sotto l’assillo dei debiti».
Detto da un giurista è curioso.
«Perché? Dostoevskij era attento non tanto alle dottrine generali ma alla condizione umana; seguiva i processi e descriveva i comportamenti degli avvocati, degli imputati e dei giudici. Anche un giurista non può ignorare la vita delle persone».
Non dovrebbe occuparsi di norme generali e astratte?
«Certo, ma il diritto giusto non esiste in assoluto. Il suo dramma è che la norma pura e semplice può agire con violenza sulla condizione particolare, ma al tempo stesso la singolarità delle situazioni può distruggere la norma».
E allora?
«La discussione resta aperta. Pascal diceva che alla legge si ubbidisce perché è legge».
E se la legge è ingiusta?
«Se si introduce un elemento di valutazione di giustizia il rischio è la distruzione dell’ordine, perché ciascuno può dire: la legge è ingiusta e io non obbedisco. È una vecchia questione».
Talmente antica da risalire ad Antigone?
«Quella tragedia è una delle grandi fonti di ispirazione del diritto. Antigone ne rappresenta il lato tradizionale, il sangue, il genos, gli dèi; mentre Creonte è la legge modernizzatrice e artificiale. Credo ci sia bisogno di entrambi gli aspetti. Se uno dei due si libera del-l’altro, il diritto può diventare uno strumento pericoloso. Il compito del giurista si svolge lì in mezzo».
Per fare esattamente cosa?
«Per difendere la duplicità. Mi sono formato in questa università e la mia impostazione era forgiata sui principi di Hans Kelsen. Mi sembrava un sistema perfetto. Ma le norme possono essere equivoche. Interpretabili. Ed ecco allora il bisogno di andare oltre Kelsen».
E quindi oltre Bobbio?
«Bobbio fu un pilastro di questa università e vide in Kelsen un di riferimento fondamentale. Ma lui, che si definiva positivista aggiungeva che era un positivista inquieto».
È stato uno dei suoi maestri?
«È stato un mio professore ammiratissimo e ricordo che le sue lezioni erano belle anche esteticamente. Però il mio vero maestro fu Leopoldo Elia, che insegnava diritto costituzionale».
Perché ha scelto il mondo del diritto?
«Mi piacerebbe risponderle: per convinzione e decisione. In realtà fu per caso. L’iscrizione a giurisprudenza avvenne perché ritenevo fosse una facoltà non moltocomplicata e in grado di aprire molte strade. Mio padre voleva che prendessi ingegneria. Mi portò da un suo amico, un celebre fisico russo che abitava a Torino e si chiamava Gleb Wataghin. Aveva fatto costruire nel suo laboratorio un acceleratore di particelle. Era un ometto vulcanico. Davanti a quell’acceleratore restai muto. Non sapevo cosa chiedere. E Wataghin disse a mio padre: tutto, ma non la fisica!».
Il caso ha governato spesso la sua vita?
«Quasi sempre. È incredibile come io mi sia inserito nelle situazioni senza nessun particolare progetto. Devo aggiungere che ho avuto una vita professionale molto fortunata. E mi considero un uomo libero che, con un certo tormento, si illude di fare al momento la cosa giusta».
E quali sono i suoi tormenti?
«Non essere abbastanza chiaro in quel che dico o scrivo. Poi ci sono i tormenti più personali. A me pesa moltissimo per esempio dire qualcosa che possa dispiacere a qualcuno col quale ho un buon rapporto. E questo tanto più, in quanto viviamo in un tempo in cui la gente si offende facilmente. Davanti a certe reazioni anch’io, a volte, non so trattenermi».
Nel senso?
«Contrariamente a quello che si vede sono un iracondo. Però cerco di tenere sotto controllo gli scoppi d’ira. Ritrovo in me molto di mio padre. L’ira, insieme alla vodka e al gioco, è una caratteristipunto

Gustavo Zagrebelski è nato nel 1943. Ex Presidente della Corte Costituzionale Insegna Diritto costituzionale all’Università di Torino

Repubblica 14.7.13
Il trionfo del corpo femminile nella “scandalosa” Venere di Tiziano
di Melania Mazzucco


Questa donna nuda è felice, potente e irresistibile. Erotica, disponibile, audacissima e però di una purezza perfino sublime. Il fatto che si possano — e si debbano — usare per lei questi aggettivi contraddittori spiega le reazioni incontrollate che ha scatenato fin da quando, nel 1538, il ventiquattrenne Guidobaldo della Rovere signore di Camerino — che forse l’aveva commissionata, o forse no — la vide ancora in lavorazione nello studio del pittore e voleva farsela consegnare, anche se non aveva i soldi per pagarla (dovette chiederli alla madre, fatto che, visto il soggetto del quadro, spiega la sua paura che costei glieli negasse e un altro acquirente più danaroso potesse soffiargliela). Negli spettatori suscitava desiderio, imbarazzo o scandalo. Negli artisti una cupidigia altrettanto violenta: possederla replicandola. È forse il quadro più copiato della storia dell’arte. Fino a oggi i pittori si sono confrontati con lei, offrendone una versione più casta, più astratta, oppurepiù pornografica. Ma, nonostante i rifacimenti, la nuda di Tiziano è rimasta senza sorelle.
La cosiddetta Venere di Urbino ha però una “madre”. Nel 1510 Giorgione aveva dipinto per un aristocratico veneziano una Venere nuda, dormiente in un paesaggio (laVenere di Dresda).
Quel quadro, incompiuto, lo aveva finito Tiziano stesso. Ventotto anni sono un tempo lunghissimo nella vita di un uomo: da sodale di Giorgione era diventato uno dei pittori più celebri d’Europa. Nel 1538 aveva una cinquantina d’anni. Eppure, tornò al modello dell’amico scomparso: riprese la posizione della figura femminile, ma — apportando delle varianti — mutò completamente il senso del quadro. LaVenere di Dresda dorme. Si titilla il pube, ma in sogno forse — o, in un gesto di pudore, per coprirsi. Non sa che la stiamo guardando. La nuda di Tiziano è sveglia. Di più, è consapevole della nostra presenza: ci guarda. Le labbra accennano un sorriso.
Questo quadro ha generato infinite repliche, ma anche fiumi di parole e polemiche secolari. Riassumendo brutalmente, le interpretazioni si dividono in due scuole. Alcuni studiosi — forti della definizione del quadro data dal suo primo acquirente: «la donna nuda», appunto — negano ogni implicazione mitologica, e leggono l’immagine per ciò che essa è: un magnifico nudo contemporaneo. Senza messaggi e implicazioni allegoriche. La modella sarebbe una cortigiana — amica di Tiziano o del giovane della Rovere o di entrambi: la sua identità non conta. La donna reale diventa l’incarnazione della bellezza effimera e però trionfante della carne. Altri, forti della testimonianza di Vasari (che definì il soggetto come una «Venere giovanetta»), vi decifrano implicazioni filosofiche, neoplatoniche, oppure epitalamiche: leggono gli oggetti del quadro come simboli, propedeutici alla sessualità riproduttiva del matrimonio e alla fecondità della sposa. Questo sarebbe un quadro nuziale. Ma la ragione del suo fascino risiede proprio nel fatto che l’immagine non si lascia spogliare della sua ambiguità.
La nuda è distesa su un letto. La pelle lattea è il suo vestito. Unici ornamenti, un braccialetto d’oro tempestato di pietre preziose, un orecchino di perla a forma di pera e un anellino al mignolo. E i capelli biondi: sistemati in una complicata acconciatura che però s’è sciolta, le ricadono sulla spalla. Le lenzuola spiegazzate lasciano affiorare il rivestimento del materasso, un prezioso tessuto rosso a motivi floreali. Poggiata sul braccio destro, la nuda giocherella con un mazzo di rose. Un fiore caduto spicca tra i fiori finti del tessuto, come sollecitasse il paragone trarealtà e finzione artistica. Un paragone evocato in primo luogo da lei. È a grandezza naturale (il quadro è lungo un metro e sessantacinque). Stoffe e carnagione sono dipinti con tale maestria da sembrare vera epidermide e vero broccato. Lei è qui, davanti a te.
La mano sinistra si carezza il pube, con lo scopo apparente di nascondere il pelo, ma in realtà attirando il nostro sguardo proprio su quel triangolo, scurito dall’ombra. Ai piedi di lei è acciambellato un cagnetto da compagnia — l’occhio vispo, come promessa di fedeltà e di vigilanza.
Una linea verticale (il bordo di un rettangolo scuro) divide in due lo spazio, separando la nuda in primo piano dalla stanza sullo sfondo. Il letto però non poggia sul pavimento, non si trova davvero in quella stanza. La prospettiva non è rispettata, e la diminuzione in scala delle figure non è scientifica. La nuda e le donne non esistono nello stesso spazio, non appartengono alla stessa realtà. È stato ipotizzato perfino che lei sia dipinta — sul coperchio interno del cassone in cui rimesta la serva. Una specie di quadro nel quadro. Comunque nella parte destra si svolge una scena di vita quotidiana: le serve trafficano coi suoi vestiti — che nel 1538 le veneziane conservavano in cassoni dipinti o intagliati (solo in seguito si diffuse l’abitudine di lasciarli in forma sui manichini di legno). Una serva, china sul cassone, vi fruga dentro. L’altra, in piedi davanti alle tappezzerie, le tiene sollevato il coperchio col braccio nudo, mentre con noncuranza ospita sulla spalla un elegante abito blu. Sul davanzale di una finestra a bifora campeggia un cespuglio di mirto tosato da un giardiniere, mentre un alberello stormisce alla brezza del tramonto. In questo interno cittadino la natura è tenuta sotto controllo, a distanza.
La natura che trionfa qui è un’altra: il corpo della donna — la bellezza della carne nuda che sigilla ogni mistero. Se gli occhi di lei ti invitano, il centro del quadro è la sua mano sul sesso. Le dita piegate suggeriscono il movimento — e muovono lo sguardo dello spettatore, che viene risucchiato là dove ha inizio ogni cosa. La combinazione degli occhi teneri e maliziosi della nuda col gesto della sua mano raggiunge una perfezione — concettuale, pittorica, emozionale — irripetibile. Tiziano ne fu consapevole. In seguito si specializzò nella raffigurazione di Venere a letto con musicista o di eroine mitologiche nude (come Danae). Ma non ripeté mai questa. Lo sguardo e il gesto sono rimasti unici. Come fosse consapevole di aver colto l’essenza della vita: nessuno può spingersi oltre.

Tiziano Vecellio Venere di Urbino (1538) Firenze Galleria degli Uffizi