martedì 12 novembre 2013

l’Unità 12.11.13
I sindacati chiamano il Pd: trovare nuove risorse
Nella settimana dello sciopero, Cgil, Cisl e Uil premono per cambiare la manovra
Priorità: ammortizzatori, pensioni, esodati e cuneo fiscale
di Massimo Franchi


In piazza e in Parlamento. La settimana degli scioperi unitari provinciali di Cgil, Cisl e Uil si è aperta con gli incontri al Senato per modificare la legge di stabilità. Susanna Camusso, Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti hanno spiegato le loro ragioni e loro richieste ai gruppi del Pd, di Sel e di Fratelli d’Italia.
Naturalmente l’incontro più importante è stato quello col gruppo del Pd. Sia per la grandezza del gruppo, sia per il fatto che il co-relatore della legge di stabilità è quel Giorgio Santini che fino a nove mesi fa era il segretario generale aggiunto della Cisl. Normale quindi che vi sia unità di vedute su molti punti.
Il nodo però rimane. Ed è quello delle risorse. Perché se non si aumentano non è possibile fare niente di quello che chiedono i sindacati. Per farlo le strade sono due: tassare rendite e patrimoni o tagliare la spesa pubblica improduttiva, cominciando fissando i costi standard per gli acquisti da parte delle amministrazioni, specie nella sanità.
È su questo che si giocherà la partita parallela fra piazza e Parlamento. Cgil, Cisl e Uil puntano sul successo degli scioperi per mettere pressione sui senatori.
monitoreranno il lavoro delle commissioni e, non prima di due settimane, tireranno le somme per decidere se continuare la mobilitazione o dirsi soddisfatti dei cambiamenti del testo della manovra.
FONDO DA LOTTA ALL’EVASIONE
Gli incontri di ieri sono stati commentati in maniera positiva, ma solo sotto il punto di vista delle «intenzioni». Camusso, Bonanni e Angeletti ora aspettano «i fatti».
Entrando più nello specifico, i sindacati hanno elencato una serie di strumenti per allargare le risorse disponibili. Si va dall’accordo con la Svizzera dei capitali scudati, all’aumento della tassazione sulle transazioni finanziarie portandolo dall’attuale 20 al 22-25%, alla tassazione del poker cash, i giochi on-line in genere, su cui oggi si attua un prelievo di un misero 0,6 per cento. A questo si va ad aggiungere un Fondo derivante dai proventi dalla lotta all’evasione. «Sappiamo benissimo che un fondo di questo tipo non è immediatamente utilizzabile spiega Maurizio Petriccioli, segretario confederale Cisl ma chiediamo intanto di incardinarlo insieme alla legge di stabilità e di usarne i proventi recuperati l’anno prossimo dal 2015 in poi. In questo modo possiamo anche accettare che gli interventi sul cuneo fiscale siano poco incisivi nel 2014 perché avremmo la certezza del fatto che negli anni seguenti si allargherebbero».
Le priorità dei sindacati possono essere riassunte in quattro punti. La prima riguarda il finanziamento degli ammortizzatori sociali a partire dalla cassa integrazione in deroga con il 2013 ancora da chiudere e un 2014 in cui finalmente si chiede una copertura precisa e definitiva (di almeno 3,6 miliardi), senza dover intervenire tre volte come successo quest’anno. Si passa poi alla rivalutazione delle pensioni con la richiesta di ritornare allo schema pre-Fornero: 100 per cento fino a 1.400 lordi, 90 per cento fino a 2.000, 70 per cento fino a 3mila). Per arrivarci rispetto alla versione attuale del testo della legge di stabilità (che si basa su fasce verticali e non orizzontali) si calcola servano circa 800 milioni. Per trovarli si punta ad allargare la platea delle pensioni d’oro a cui si chiede già un contributo di solidarietà. La terza priorità riguarda gli esodati: Cgil, Cisl e Uil chiedono «una soluzione anche graduale ma definitiva» che individui le tipologie e fissi criteri certi per una transizione per coloro che oggettivamente non sono in grado di attendere i 67 anni. La quarta e ultima priorità riguarda il cuneo fiscale. I sindacati non si vogliono esprimere sulla possibilità di focalizzare le risorse sui soli redditi sotto i 28mila euro. Semplicemente perché chiedono di aumentare le risorse e permettere alla platea attuale di avere un sensibile aumento del reddito disponibile.

il Fatto 12.11.13
Francesco accusa ma il Vaticano fa affari con il lusso
A Roma, dietro Piazza Navona, Propaganda Fide trasforma in suite con open bar sui tetti di Roma un altro palazzo storico e vuole cacciare gli ultimi affittuari
di Alessandro Ferrucci e Carlo Tecce


Ancora un ceffone di papa Francesco: “La doppia vita di un cristiano fa male, tanto male. Chi fa donazioni per la Chiesa e ruba ai poveri e allo Stato va gettato in mare. I corrotti sono putridi”.
Un pezzo di doppia Chiesa, che non fa opere di bene e ansima per l’affare facile, la trovate nel gomito di sampietrini che anticipa piazza Navona, la pregiata via Zanardelli, tra il Tevere e la Cassazione.
Ingresso di un palazzo d’epoca, suggestivo e imponente, proprietà vaticana.
L’impalcatura segnala ristrutturazioni frenetiche, urgenti.
Portale di legno spalancato, vetrina soffusa a scomparsa e un bancone sbrilluccicoso con due ragazze gentili. Di fronte a una statua di gesso con la testa mozzata, attrazione da circo per i turisti più distratti, ci sono tre stelle dorate, non i tre voti religiosi: castità, povertà, obbedienza.
QUESTO È L’ALBERGO di lusso di Propaganda Fide, il dicastero che coordina le attività missionarie e gestisce un patrimonio immobiliare di miliardi e dovrebbe, pare, evangelizzare i popoli. Qui i popoli vengono ospitati, a pagamento ovvio. In stanze di lusso con splendidi falsi d’autore in olio su tela, divani di pelle sintetica, vasi di plastica simil porcellana: 100 o 150 euro a notte, le esenzioni fiscali per il Vaticano creano un mercato incredibile. Propaganda Fide ha stravolto il terzo e il quarto piano di via Zanardelli 23: no, non è roba vecchia che la vecchia Chiesa conserva. La concessione è di fine aprile con Jorge Bergoglio già nominato pontefice e divenuto Francesco. L’ultima inaugurazione è di settembre e le pareti emanano pittura fresca. Il libro per lasciare un ricordo scritto è strapieno di messaggi in inglese o tedesco. Per fare cassa Propaganda Fide ha affidato al “Burcardo srl” la gestione di questi appartamenti. Società con piccolo capitale versato, fondata appena cinque anni fa, l’amministratore del “Burcardo” si chiama Maurizio Stornelli, fratello di Sabatino, ex altissimo dirigente di Fin-meccanica e di Selex Service Management (era ad). Gli Stornelli sono stati coinvolti in un’inchiesta dei magistrati di Napoli: appalto “Sistri”, tracciabilità dei rifiuti e “violazione sui contratti pubblici”.
La retata di aprile ha provocato 22 arresti, nel gruppo c’erano anche i fratelli Stornelli. “Burcardo” ha numerose strutture, sempre di Propaganda Fide: vasche idromassaggio, carte da parati, lettoni stile Putin. L’investimento è ghiotto e così il dicastero di cardinal Fernando Filoni vuole trasformare in albergo l’intero palazzo di via Zanardelli, per due piani ancora affittato a un negozio di orologi dal 1986 e a uno studio legale dal 1954. Propaganda Fide vuole rescindere i contratti di locazione e aumentare, anzi raddoppiare il numero di camere, forse 14 non sono sufficienti. E poi la terrazza che sormonta l’angolo di piazza Navona, open bar dove servono aperitivi con vista Cupolone e ti invitano a fumare in posacenere da bancarella, sarebbe sfruttata a regime, al massimo.
Le lettere per il contenzioso sono già partite, ma sarà impossibile far desistere il dicastero. Non sarebbe il primo sfratto. Centinaia di piccole e antiche case, distribuite negli anni 50 e 60 ai ristoratori dei Castelli Romani che lavoravano nella Capitale, a tante vedove con figli, a orfani con parenti, sono già liberi da tempo. E nessuna carta bollata ha fermato il Vaticano. E nessuno scrupolo ha fermato “i doppi cristiani” che volevano il guadagno facile, lucravano e lucrano su donazioni di fedeli che volevano finanziare la Chiesa per finanziare i più deboli. Francesco disse: “I conventi chiusi vanno dati ai rifugiati, non vanno fatti alberghi”. A Propaganda Fide non ascoltano il Papa oppure il Papa non riesce a farsi ascoltare. Perché i conventi restano chiusi, ma di alberghi il Vaticano ne apre uno al mese.

La Stampa 12.11.13
I veleni
Caos Pd, quattro congressi sospesi
Tensione Epifani-Cuperlo
di Francesco Grignetti


Il sasso che Romano Prodi ha lanciato nello stagno continua a agitare le acque. Lui non voterà alle primarie. E ora in tanti, soprattutto i renziani, temono un effetto depressivo sul popolo di centrosinistra. Se n’è reso conto Prodi stesso, che ieri ha voluto calibrare meglio il messaggio. Le primarie, gli han-
Per il segretario casi sospetti «fisiologici» Replica del dalemiano: «No, inquietanti»
no chiesto, sono ancora uno strumento valido? E lui: «Certamente. Spero che in tanti vadano a votare. Il mio è un discorso assolutamente personale, ognuno nella vita fa le sue scelte. Io ho lavorato tanto perché ci fossero le primarie quindi spero tanto che abbiano successo».
Ma è un sondaggio che comparirà oggi sul quotidiano “Europa” a mettere in affanno la nomenklatura del Pd. Secondo il sondaggio, a cura della società Quorum, Matteo Renzi è destinato a una fuga in solitaria. Lo ac-
creditano del 72.5% dei voti alle primarie. Alle sue spalle, ampiamente staccati, Gianni Cuperlo al 14.5% e Pippo Civati al 12.3%. Chiude Gianni Pittella con lo 0.7%.
Se non è una sorpresa il vantaggio di Renzi, è il testa-atesta tra Cuperlo, vezzeggiato da buona parte del partito, e l’outsider Civati a fare notizia. Tanto è vero che quest’ultimo
gongola: «Dalle primarie mi aspetto una sorpresa». Un suo successo personale potrebbe segnalare quanto sia marcata l’area del disagio dentro il centrosinistra contro il governo delle Larghe intese.
Il Pd intanto cerca di voltare pagina dopo una settimana di passione per lo scandalo del tesseramento gonfiato e dei congressi taroccati. Alla fine, sono quattro i congressi provinciali sospesi: ad Asti, Frosinone, Rovigo e Catanzaro ci sono istruttorie in corso. Sbloccati invece gli altri casi che erano sotto osservazione, da Lecce e Siracusa, a Trapani.
«Dobbiamo evitare dice quindi Guglielmo Epifani, che ieri ha formalizzato la decisione già presa nei giorni  scorsi di sospendere il tesseramento fino al 24 novembre che ciò che è stato prodotto in qualche federazione sia l’immagine di un congresso che invece non è quello che c’è stato. Va dato un giudizio molto equilibrato di ciò che stiamo facendo».
Nel suo sforzo di presentare un partito «normale», però, Epifani, sulle polemiche sulle iscrizioni gonfiate, dice che si tratta di «una situazione del tutto fisiologica». Parole che fanno sobbalzare Cuperlo: «Il problema della trasparenza del tesseramento nel Pd non è fisiologico, ma un fatto imbarazzante ed angosciante».
E la polemica non cala. «Chi in queste settimane spara nel mucchio sostiene Matteo Renzi in una lettera inviata agli iscritti Pd dicendo che ci sono casi anomali nel tesseramento dovrebbe fare i nomi e i cognomi delle singole località. Altrimenti diamo l’impressione che 370 mila persone che vanno a votare sono 370 mila imbroglioni. Non è così».
Per sapere quanti sono stati i nuovi tesserati, al centro dei veleni interni al Pd, si dovrà aspettare ancora un giorno. A Roma stanno affluendo i dati dalla periferia; oggi saranno elaborati. Gli iscritti erano 250 mila a settembre. Nei giorni scorsi si era balzati a 600 mila. Moltissimi sono stati quelli dell’ultimo momento, ma difficilmente si arriverà agli 800 mila del 2009. Spiegano al partito: «Questo è stato un anno molto particolare: i primi mesi dell’anno sono volati via, il tesseramento che tradizionalmente iniziava a marzo è partito con grande ritardo».

La Stampa 12.11.13
Tessere e congressi
La sindrome autolesionista che rode il Pd
di Elisabetta Gualmini


Chi, osservando il congresso del Pd, si incupisce per il rigonfiamento delle tessere, per
le urla tra le tifoserie e il blocco delle iscrizioni, rischia di restare sulla superficie. Le disfunzioni della politica nell’anno di (dis)grazia 2013 non sono una notizia. Le pesche miracolose di tesserati in circoli di tre o quattro anime o l’affluenza straripante in luoghi solitamente deserti in cui pochi hanno avuto la gioia di accendere una lampadina sono abbastanza ovvie. I partiti hanno i polmoni spompati, una circolazione sanguigna spenta, platee interne più invecchiate dei sindacati (pur continuando a detenere un grande potere).
Che la competizione tra gli iscritti sia combattuta a colpi di zoccolo duro iperfidelizzato (soprattutto nella zona rossa post-bersaniana) e truppe mercenarie (soprattutto al Sud) non c’è da stupirsi. Per sua fortuna nel Pd la decisione finale è affidata alle primarie aperte dell’8 dicembre, nelle quali la più ampia partecipazione renderà il peso dei pullman e delle truppe organizzate meno rilevante. E, per inciso, il partito aperto è l’unico antidoto contro i signori delle tessere e i cammellaggi.
Non ci sono altre ricette.
La stranezza semmai, nell’era dell’assoluto disgusto nei confronti della politica, è che un partito italiano tenga un Congresso dal quale usciranno vincitori e vinti, e molti in ogni caso usciranno di scena. Basta chiedersi, quanto contavano nel Pd nazionale Cuperlo, Civati e Renzi nel 2009, all’epoca del congresso precedente? Un test con google dà la risposta: tra quasi niente e niente. Un ribaltamento del genere non è capitato nemmeno nel dopoguerra. Figuriamoci cosa diventerebbe un Congresso del Pdl, se ne facessero uno vero, al posto della conta di sabato prossimo tra i fedeli e gli ex fedeli, in cui l’ultima parola l’avrà comunque Berlusconi. Altro che guerra tra bande. Altro che psicodrammi e sequenze di dita alzate e di tu-mi-cacci. Tanto che alla fine se vorrà rinascere sopravvivendo al tramonto del capo fondatore, il centrodestra dovrà prendere esempio dalla concorrenza.
E ricordiamoci cos’erano i Congressi dei partiti nella Prima Repubblica: cerimonie ad uso e consumo del pubblico in cui tutto era deciso a tavolino oppure guerriglie senza regole con colpi bassi, compravendita di pacchetti di tessere, notti dei lunghi coltelli e negoziati sfiancanti in stanze piene di fumo tra smaliziati giocatori di poker («sangue e merda» nell’estrema sintesi di Rino Formica).
Le schermaglie finora sono state tutto sommato contenute, soprattutto se si considera che la posta in gioco nel Pd è alta. Al di là della disillusione o della depressione che in questo momento circonda la politica e anche il centrosinistra, in tempi non lontani, potrebbe aprirsi per il nuovo gruppo dirigente di quel partito una enorme finestra di opportunità: con due cavalli di razza come Renzi e Letta in pista, e dall’altra parte Berlusconi senza un vero erede, in fase di cupio dissolvi. Ecco perché Alfano è così aggrappato alle larghe intese. E non gli passa neanche per la testa di mollarle. Lo ha detto chiaramente che se si va a casa, poi arrivano «le sinistre». Con una nuova leadership di partito capace di comunicare oltre i tradizionali steccati e un capo di governo uscente che non ha affatto demeritato, entrambi espressione di una classe politica anagraficamente giovane e capace di parlare all’elettorato moderato, il Pd potrebbe mettersi sulla rampa di lancio.
Il vero quesito quindi è se il nuovo gruppo dirigente del Pd, i Cuperlo, i Civati e i Renzi, saranno in grado, alla fine, di sottrarre questa competizione e la gestione successiva del partito alla sindrome autolesionista che sino ad oggi lo ha attraversato. E se alla fine Renzi e Letta riusciranno a trovare lo schema di gioco più utile per il Pd e per il Paese, invece che ordinare (o coordinare) le loro agende in base a una astratta comodità della rispettiva traiettoria personale. E se il rinnovamento degli organismi dirigenti, quella sana circolazione di teste e competenze, ci sarà sul serio, e sarà vera, trasparente e impietosa. Non finta, né di facciata, in cui, come al solito, tutto il vecchio viene riesumato, miscelato e riproposto uguale a prima, o meramente sostituito con una schiera di yesmen fedeli ai nuovi capi. Questo per favore no.

La Stampa 12.11.13
Tessere, Crisafulli nel mirino «Ormai avere consenso sta diventando un problema»
4 domande a Vladimiro Crisafulli
di Fra. Gri.


Vladimiro “Mirello” Crisafulli, ex senatore del Pd, escluso dalle scorse primarie per effetto di una campagna di stampa, e ora neosegretario provinciale di Enna, a sentire le voci dei renziani, lei è la pietra del-
lo scandalo perché il “suo” candidato Cuperlo a Enna ha vinto 150 a 0. Da Dario Nardella a Davide Faraone, a Simona Bonafé, a Mario Morgoni, i renziani l’hanno messo nel mirino.
Offeso oppure orgoglioso?
«Tranquillo. A Enna abbiamo fatto le cose per bene. Non ci sono state polemiche. Il numero dei tesserati è stabile rispetto agli anni scorsi. Il risultato è questo. Poi, certo, noto che avere consensi nel mio partito sta incominciando a essere un problema. Come pure c’è qualcuno che si permette di emettere giudizi su di me mentre ha processi penali in corso».
E i renziani?
«Guardi, io sono sempre stato molto attento agli animali in via di estinzione...».
Intanto lei ha lanciato l’allarme: con le regole sul tesseramento aperto potrebbe capitare che persino i mafiosi votino ai congressi del Pd. Non l’ha detta un po’ forte?
«Io ho detto che potrebbe succedere. Spero che i miei compagni stiano attenti. Ma se ci fosse superficialità nel tesseramento, in Sicilia potrebbe anche accadere. La colpa è di chi ha fatto regole concepite male. È criminogeno prevedere il tesseramento fino all’ultimo giorno. Non è serio».
Da oggi però il tesseramento è sospeso e cominciano le primarie vere e proprie.
«Già, infatti in un mese porteremo i nostri iscritti a votare tre volte... Altro che dibattito di idee e analisi dei programmi, il nostro impegno ormai è tutto e soltanto proiettato sulla mobilitazione. Io non mi scandalizzo. Ma così ognuno si preoccupa esclusivamente di sollecitare la militanza. E fin quando vengono mobilitate le militanze storiche, poco male. Sono le militanze nuove, quelle dell’ultima ora, che creano qualche problema».

il Fatto 12.11.13
Effetto Crisafulli: Cuperlo vince 147 a 0
di Wanda Marra


IN ALCUNI CIRCOLI DI ENNA LA MOZIONE DEL CANDIDATO DALEMIANO OTTIENE UNA MAGGIORANZA BULGARA. MIRELLO ATTACCA: “RENZI CE L’HA CON ME PERCHÉ NON SONO UN FIGHETTO COME LUI”

Chi non è del Pd mi auguro che non vada a votare alle primarie”. Nico Stumpo, l’ex responsabile Organizzazione del Pd, ora longa manus bersanian-cuperliana nella Commissione congresso, stavolta non ha limitato per regolamento la partecipazione alle primarie. Ma alla fine ieri a Sky dice quelli che molti della sua “fazione” pensano. Più del rischio flop evidentemente può lo spauracchio Matteo Renzi.
EPPURE, a questo punto, le ombre sui gazebo aumentano di giorno in giorno. Con la partecipazione che cala nei sondaggi. Aprendo la Leopolda il sindaco di Firenze aveva fissato l’asticella a 2 milioni di persone. Un risultato che verrebbe valutato buono e che comunque sarebbe ben inferiore sia ai 2 milioni e 700 mila elettori dell’anno scorso, che agli obiettivi di allora, che per l’ex Rottamatore viaggiavano su oltre 3 milioni. Secondo un sondaggio di Demopolis solo il 16% degli elettori del Pd prevede di votare certamente per la scelta del nuovo segretario. L’11% afferma di non avere ancora deciso; il 73% degli elettori del Pd esclude invece di recarsi ai gazebo. E numericamente le cifre che girano al Nazareno sono ben inferiori alle previsioni del candidato super favorito: un milione, un milione e 100 mila. Effetto tesseramento gonfiato, brogli, defezioni illustrissime.
Ieri anche Chiamparino – tirato in ballo in passato alternativamente come possibile candidato e come grande elettore di Renzi – ha fatto sapere di non essere certo di andare a votare. E da Porta a porta arriva la defezione di Susanna Camusso, segretario generale Cgil: “Siamo sempre a favore della partecipazione ma queste sono primarie interne al partito mentre sarebbe diverso se si trattasse di primarie per un candidato premier, il candidato a dirigere il Paese”. Altre presa di distanza importante dopo quella di Prodi. Che ha provocato allarme, preoccupazione, inseguimenti. L’ex portavoce, la deputata Sandra Zampa, che ha dichiarato che andrà a votare Civati, avverte: “Non credo che cambierà idea. Per chi andrebbe a votare? Non lo so, so di certo che non sceglierebbe Cuperlo”. Ad aver più da perdere rispetto alla defezione del padre fondatore è il giovane Matteo. Per lui si sono espressi alcuni prodiani, da Arturo Parisi a Sandro Gozi. E infatti i suoi stanno cercando di convincere il Professore a fare retromarcia. Il ministro Graziano Delrio in testa: “Avevo caldeggiato la sua candidatura a presidente della Repubblica e per me quei 101 erano stati 101 ladri che hanno rubato la fiducia del loro popolo. Ma è vero che la nostra gente è vicina a Romano Prodi, gli vuole bene, ha sofferto con lui e ora sarebbe davanti a un’altra lacerazione”. Ma chi spiega meglio la posizione del Professore è la fedelissima Albertina Soliani, ex senatrice: “Prodi sta dicendo al Pd che così non va bene. Non è lui che deve cambiare, è il partito. E d’altra parte, io stessa non so chi scegliere”.
E non manca la polemica su Crisafulli: la mozione Cuperlo in alcuni circoli di Enna che stanno votando per il leader nazionale ha avuto percentuali bulgare. “A Pietraperzia, in provincia di Enna, il congresso del Pd si è concluso con una vittoria bulgara-crisafulliana dei sostenitori di Cuperlo: 147 voti su 147”. Lo scrive su Facebook il renziano Faraone. “A Regalbuto, stessa provincia, 102 voti per Cuperlo e 2 per Renzi. Appello alla Protezione civile per i due sopravvissuti... ”. “Crisafulli vince a Enna 150-0? Troppo bello per essere vero? Non siate i soliti sospettosi via... ”, twitta il renziano Nardella. Renzi aveva detto: “Da segretario nazionale porrò il problema di Crisafulli segretario di Enna”. L’interessato va a Klaus Condicio e spara: “Se fossi un fighetto, un modello, se fossi belloccio come Renzi, se non fossi siciliano e non pesassi 110 chili non sarei stato coperto di insulti da simpatizzanti renziani: nei loro attacchi ci sono punte di razzismo”.

il Fatto 12.11.13
Caos Sicilia: doppi segretari e boom tessere


È CAOS Pd in Sicilia, dove il partito è impantanato tra doppi segretari, boom di tessere e persino congressi annullati. Il caso più clamoroso è avvenuto a Catania, dove il dirigente nazionale, Nicola Stumpo, inviato dal partito per fare chiarezza, ha annullato il congresso provinciale. Il miracolo della moltiplicazione delle tessere si è presto esteso ad altre province. A Trapani i renziani si sono spaccati in due: una parte (5 circoli su 24), assieme a Cuperlo e Civati, ha eletto Danilo Orlando, mentre la maggioranza dei fedelissimi di Renzi ha eletto, d’intesa con l'aria Dem, Francesco Brillante. Anche a Siracusa il Pd è double face : bersaniani e area Dem hanno eletto per acclamazione in un hotel Carmen Castelluccio, mentre renziani e lettiani hanno votato l'ex assessore Liddo Schiavo. Nelle altre province la situazione non è migliore. Il deputato Giuseppe Lauricella ha scritto a Epifani per denunciare "congressi farsa" a Messina, ad Agrigento alcuni segretari cittadini eletti provengono dal centrodestra, mentre a Ragusa il neosegretario Giovanni Denaro non fa riferimento a nessuno dei quattro candidati alle primarie nazionali.

il Fatto 12.11.13
4 lettere ai militanti
Entusiasmo, vola via con il candidato
di Andrea Scanzi


Motivare i militanti del Pd è sempre più difficile. Le larghe intese, le tessere fasulle, la rinuncia di Prodi. È un momento difficile, e per il Pd è un momento che dura dalla nascita. Così i candidati alla segreteria corrono ai ripari. E scrivono ai militanti. Lo fanno con una email a testa che, per molti versi, si confà come il bignami delle loro mozioni. Vorrebbe essere una chiamata alle armi, ma sembra più che altro un brodino per elettori sempre più sfibrati. Le email sono destinate a un database di circa 450 mila iscritti in vario modo alla newsletter del Pd. Di questi 90 mila o giù di lì sono tesserati al Pd. I destinatari, previa comunicazione del Pd, hanno accettato nelle scorse settimane l’intensificazione di email in prossimità dell’8 dicembre: un calvario conquistato a fatica. Il database è conosciuto dal Pd, ma non dai candidati , che dunque scrivono le email al Pd che a sua volta le inoltra agli iscritti. Alcuni votanti alle precedenti primarie lamentano di avere ricevuto solo la lettera di Renzi e il comitato di Civati specifica che loro, a differenza di altri, non hanno spammato i poveri elettori. Paradossalmente è proprio la email di Civati a essere arrivata ieri per ultima, anche a causa di un imprecisato “blocco del server”. In compenso sono arrivate subito le email di Matteo Renzi, Gianni Pittella e Gianni Cuperlo. Renzi, come sempre, dice tutto e soprattutto niente. “L’Italia cambia verso”, e non importa specificare come cambierà (infatti Renzi ha esortato gli elettori a scrivere al suo posto il programma). Punti forti: “L’Italia deve cambiare”, “L’Italia può cambiare”, “Servono idee chiare” (quindi qualcuno gliele dia), “Il Pd è oggi l’unica vera grande speranza” (parole forti), “Vengo dalle amministrazioni locali” (e non è detto sia un bene). Nel finale, Renzi ammette di avere “anche fatto tanti errori” e saluta gli elettori con un giovanilista “Un sorriso”. Probabilmente voleva scrivere Gimme five, tributo a uno dei suoi maestri intellettuali, ma poi si è frenato: per timore di apparire troppo colto. Pittella è ormai il Che Guevara della Lucania. “Mai più alle larghe intese”, “taglio alle spese militari per finanziare l’istruzione”, “reddito di garanzia”.
SE NON avesse sbagliato partito entro cui candidarsi parrebbe quasi convincente, al di là di un tremebondo “senza infingimenti” che pare più arcaico dei melodrammi di Arrigo Boito. Il più tenero è Cuperlo, così poco convinto da se stesso da vergognarsi quasi di chiedere il voto. L’incipit trasuda orgogliosa mestizia: “Cara democratica, caro democratico, io non so quale candidato hai deciso di sostenere come segretario nazionale o se stai ancora valutando chi, tra noi, corrisponda meglio alla tua idea di partito. Se hai già scelto di sostenere un altro candidato, ti porgo i miei più sinceri auguri e ti ringrazio se vorrai continuare a leggere queste righe”. Cuperlo, che si presume abbia scritto la email mentre si flagellava in un convento di frati dalemiani scalzi, cita Jean-Michel Guenassia (“Quello che per loro contava nella Terra promessa non era la terra. Era la Promessa”) e chiede al Pd di “cambiare se stesso”. In un siffatto profluvio di entusiasmo contagioso manca solo un conclusivo “Ricordati che devi morire”, giusto per far sognare ancor di più gli elettori. Cuperlo ha però ancora tempo per sfoderare un tale grido di battaglia. Magari al primo confronto televisivo, con Renzi pronto a rispondergli: “Sì sì, mo’ me lo segno”. Quasi come Troisi in quel vecchio film.

Repubblica 12.11.13
Sotto tiro il presidente del Municipio: ha piazzato i parenti
Esposto a Tor Bella Monaca “Tessere pagate pure a fascisti”
di Lorenzo D’Albergo


ROMA — Dibattiti deserti, ma urne prese d’assalto. Nei circoli Pd del Municipio VI, periferia est di Roma, le votazioni per scegliere i nuovi segretari di sezione e i delegati per l’elezione del segretario della federazione romana si sono trasformate in un incubo per i militanti storici. È storia di una settimana fa ed ora, nei ricorsi inviati alla commissione di garanzia, si legge di voti comprati, intimidazioni e boom sospetti di iscrizioni.
Secondo chi ha presentato le denunce, a gestire il gioco sarebbe il presidente del Municipio Marco Scipioni. «Ha piazzato tutti i suoi protetti — dice Doriana Mastropietro della sezione di Tor Bella Monaca — creando una parentopoli nei circoli Pd e assicurandosi il controllo dei delegati». «Al villaggio Breda — racconta Manuele Petri — sono arrivate 84 nuove richieste solo il 5 novembre. Queste persone hanno votato in un’urna separata e i risultati provano che la consultazione è inquinata. Giuntella ha preso il 75 per cento dei voti, mentre il candidato segnalatodal presidente del Municipio è arrivato al 96 per cento».
Qualcuno si spinge oltre le statistiche e si dice pronto a testimoniare di aver assistito alla compravendita di voti. «Una nostra iscritta — assicura Enzo Lo Giudice del circolo Finocchio-Borghesiana — ha denunciato di aver visto foglietti con prestampati i nomi di Ferri (candidato alla segreteria della sezione-ndr), Giuntella e Cuperlo. E alcuni dei nuovi tesserati affermavano di aver ricevuto 20 euro per la loro preferenza». Poi c’è il caso del circolo Versante Prenestino: «Dopo le minacce ricevute al telefono da un uomo che continuava a ripetere “ci prendiamo tutti” — racconta Valeria Sipari — avevamo annullato il congresso. Ma qualcuno che non conosciamo ha votato lo stesso in una stanza del Comune». Non è finita: «Un 86enne — dice Doriana Mastropietro — è uscito fuori dalla fila e prima di iscriversi mi ha detto candidamente: “Signo’ io sto qua pe’ fa’ un piacere e so’ pure fascista”. Ho stracciato la sua tessera davanti al garante. Mai e poi mai lo avrei fatto votare».

il Fatto 12.11.13
Capolinea. Senza identità
Il ripudio di Prodi è la fine del progetto del Pd
di Marco Politi


C’è una nota di umorismo nero nel rifiuto pubblicizzato di Romano Prodi, che non parteciperà alle primarie del Pd, accompagnato dall’augurio che “tanti altri, in particolare moltissimi giovani, vadano a votare”. Come mettersi   davanti ad un autosalone ed esclamare: “La nuova Cinquecento fa pena, ma spero che tanti ragazzi la comprino! ”. La realtà è molto più cruda. Il ripudio di Prodi segna la fine del progetto dei cattolici democratici di formare insieme ai riformatori laici e di tradizione socialista un partito progressista dell’alternanza. Perché questo doveva essere l’Ulivo e il Pd: un moderno partito di progresso e non un sufflé moderato secondo il gusto di Rutelli e Fioroni. Benché crollato rapidamente, il suo secondo governo a questo tendeva nelle politiche (per quanto imperfette) a favore dei diritti civili, nella questione sociale, in politica estera a cominciare da quella mediorientale.
IL PD formato 2013 con tutto ciò non ha nulla a che fare, privato dopo lo shock elettorale del febbraio scorso di qualsiasi fisionomia riconoscibile, affogato in elezioni per la segreteria in cui il dibattito sui programmi è totalmente assente. Sostituito da un marketing, che nella versione renziana si riallaccia direttamente allo stile berlusconiano degli slogan-promesse mescolati alle frasi-calcio-nelle-palle rivolte agli avversari. C’è un risvolto delle ultime elezioni per il capo dello stato, già dimenticato ma che Prodi ben conosce. Matteo Renzi non solo sabotò l’aprile scorso l’elezione di Franco Marini con l’incredibile accusa di voler ambire alla presidenza sfruttando la “fede cattolica” (proprio Marini, che da segretario del Partito popolare è stato uno dei più critici verso le compromissioni tra gerarchie ecclesiastica e berlusconismo). Ma il giorno della bocciatura di Prodi fu il primo esponente di rilievo del Pd ad annunciare pubblicamente: “La candidatura di Prodi non c’è più”. Di corsa, di corsissima. Ventidue minuti dopo la fumata nera in Parlamento. Perché ciò che contava per lui era tagliare la strada a qualsiasi disegno, che in qualche modo potesse allargare il ruolo del Pd a sinistra e verso l’area Cinque stelle (i cui elettori avevano incluso Prodi nella rosa dei candidati alla presidenza). Trovare tracce di un afflato del cattolicesimo sociale e democratico nel governo Letta è sforzo vano. Considerare un virgulto democristiano Renzi è un’offesa alla storia della scudocrociato. La mancanza di attenzione alla questione sociale (caratterizzata dall’implosione drammatica dei ceti medi impoveriti e dal crescente fossato rispetto alla casta dei superbenestanti) nonché il disprezzo ripetuto verso i sindacati, esibito da Matteo “Sotto la lingua niente” (copyright Giampaolo Pansa), non hanno nulla a che fare con il popolarismo cattolico vecchio o aggiornato. (Come contorno si consideri l’appoggio suicida dei cattolici di San’Egidio allo spocchioso esperimento di centrismo di Monti, incoraggiato dalla miopia di alcuni settori vaticani). In questo contesto Prodi tira le somme di un’estraneità, che non riguarda lui solamente, ma generazioni intere, mature e nuove, di cattolici che sarebbero desiderosi di impegnarsi per il bene comune però non hanno nulla da spartire con il “Vincere” renziano.
IL DRAMMA del Pd è che non c’è più uno spazio politico dove il cattolicesimo democratico e sociale possa agire. Non c’è nemmeno spazio, peraltro, per un pensiero di moderna sinistra orientata allo stato sociale. A ben vedere non c’è neanche un partito: a fronte dell’ubriacatura plebiscitaria e personalistica in atto. Ignorare le primarie del vuoto – evidenzia Prodi – è l’unico segnale possibile davanti a una politica italiana che, come disse l’ex premier tempo addietro, “non ha valori e non conosce il senso di colpa e di vergogna”. È singolare, ma non irrazionale, che da un altro versante il laico Scalfari, dopo lungo soppesare, bolli Renzi come “avventuriero”. In questo deserto i cattolici democratici non hanno dove andare. E i laici egualmente.

Corriere 12.11.13
Un sondaggio: a Renzi il 72,5%
Ma nel Pd ora c’è il caso Sicilia. Lite sul boom dei cuperliani a Enna
Primarie, Camusso: non voto
di D. Mart.


ROMA — Bloccato il tesseramento, per fugare i sospetti delle tessere gonfiate, ora nel Pd scoppia la guerra del voto bulgaro nei circoli di periferia che stanno eleggendo i candidati per il congresso nazionale. Le intenzioni di voto per le primarie diffuse da «Europa» sono in grande maggioranza per Matteo Renzi ma i voti veri degli iscritti nei circoli, che cominciano ad arrivare, seppure di una spanna, sono favorevoli a Gianni Cuperlo.
Ecco perché i sostenitori del sindaco di Firenze non hanno digerito il ko inflitto loro ad Enna dal raìs locale Vladimiro Crisafulli, detto Mirello, che appoggia Cuperlo alle primarie dell’8 dicembre. La contabilità della disfatta dei renziani ad Enna la fa, provocatoriamente, il fedelissimo Davide Faraone: «A Pietraperzia il congresso del Pd si è concluso con una vittoria bulgaro-crisafulliana dei sostenitori di Cuperlo: 147 voti su 147. A Regalbuto, 102 voti per Cuperlo, 2 per Renzi. Appello alla protezione civile per i due sopravvissuti». Il senatore Mario Morgoni è più esplicito: «Cosa aspetta lo staff di Cuperlo a prendere le distanze dal voto di Enna? È stata fatta una campagna sullo stop al tesseramento ma il caso Crisafulli conferma che sono altri i problemi».
L’ex senatore Crisafulli — 6.000 preferenze e sesto posto in lista alle politiche del 2013, poi depennato all’ultimo minuito dalla commissione di garanzia di Luigi Berlinguer al fine di «tutelare l’immagine e l’onorabilità» del partito — è incappato nel 2010 in un’inchiesta per abuso d’ufficio perché la strada che conduce alla sua villa è stata pavimentata a spese della Provincia. Ora però il capo del Pd di Enna non intende retrocedere: «Nel mio partito sta incominciando a essere un problema: è meglio non avere consensi. Come pure c’è qualcuno che si permette di emettere giudizi su di me mentre ha processi penali in corso». Crisafulli invita Renzi per un pubblico confronto sulle politiche per il Sud e lo invita a fare le verifiche del caso quando sceglie i suoi uomini in Sicilia. Perché, aggiunge lanciando la sua provocazione, alle primarie aperte «in cui qualcuno all’ultimo momento si iscrive e diventa segretario senza sapere chi è e da dove viene», alla fine «escludo che voti Messina Denaro, ma i mafiosi se decidono di andare a votare possono farlo».
A 4 settimane dalle primarie per scegliere il nuovo segretario del Pd, il quotidiano «Europa» ha diffuso le intenzioni di voto: Renzi è in fuga con il 72,5% e distacca i competitor Cuperlo (14,5%) e Civati (12,3%) e il fanalino di coda Pitella (0,7%). Il giornale diretto da Stefano Menichini, divide le preferenze per fasce di età: tifano per Renzi gli scaglioni 16-24 anni e e 25-44 anni, mentre i sostenitori di Cuperlo sarebbero fortissimi tra gli over 65. Renzi prevale nelle «regioni rosse» mentre Cuperlo si afferma soprattutto nel Mezzogiorno. Adesso, però, c’è l’incognita dell’affluenza che rischia di inabissarsi dopo lo strappo del padre nobile del partito Romano Prodi («Non ho rinnovato la tessera e non vado a votare alle primarie»). E questa rinuncia (ieri sera anche il segretario dell Cgil Susanna Camusso ha annunciato che non andrà ai gazebo) preoccupa molto i renziani perché ritenevano di poter contare sulla marcia in più offerta dal professore. Senza contare che la fedelissima prodiana Sandra Zampa proprio ieri si è schierata per Civati. Quest’ultimo avanza un suo pronostico: «Al congresso, Renzi perderà. Prevedo sorprese». E i primi dati sui congressi di circolo indicano Cuperlo primo (43,6%) davanti a Renzi (41,9%), Civati e Pittella(0,9%) .

il Fatto 12.11.13
Costituzione, Art. 11
L’Italia e la scoperta di essere tra i “cattivi”
La retorica trasforma quei poveri soldati in difensori della Patria e della civiltà
Ma quell’evento ha cambiato la percezione all’estero e in patria
di Maurizio Chierici


Dopo la lunga pace sorvegliata dall’articolo 11 della Costituzione, con la strage di Nassiriya l’Italia infila l’elmetto e ammette di fare la guerra. Trascura l’ipocrisia del girare le parole (truppe di pace, truppe con compiti umanitari) per rinfrescare un passato che all’improvviso ritorna. E il dolore entra nelle tv di ogni casa. Non la solita sofferenza degli altri, città bruciate, profughi in fuga. Sono carabinieri e militari uccisi mentre montano la guardia al-l’operazione Antica Babilonia. L’ultimo massacro risaliva a un altro 12 novembre: 1961. Tredici aviatori in volo umanitario nel Congo della guerra civile vengono trucidati a Kindu.
52 anni dopo si combatte più meno attorno alle stesse ricchezze. Francia e Germania non si erano aggregate alla coalizione. Gli allarmi di Bush sulle armi di distruzioni di massa sepolte da Saddam chissà dove per Londra e Berlino avevano l’aria della messa in scena di chi voleva mettere le mani sul petrolio. Insomma, non gli hanno creduto. L’Italia di Forza Italia sì. Nassiriya era ed è un cuscinetto cruciale tra sciiti e sunniti, iraniani e iracheni. Presidio pericoloso: noi, le braccia, l’alto comando inglese l’autorità. Soffocato dalla retorica delle condoglianze ufficiali, il dolore trasforma quei poveri militari in difensori della patria e della civiltà: erano professionisti che per quadrare i bilanci familiari andavano di là dal mare a “difendere i nostri confini”.
LAVORO CON TANTI RISCHI e il salario della paura resta poca cosa che l’enfasi trascura perché non è bello ridurre le fanfare della caduta di Saddam nella paga del soldato che ha famiglia. “Si fa la pace costruendo scuole e ospedali, non sparando”: amarezza di Gino Strada. E i bersaglieri sparano quando gli ordini comandano. Quattro mesi dopo, sgombrano i ponti sull’Eufrate in una lunga notte di fuoco. Nassiriya cambia il rapporto tra i giornalisti italiani e i mondi inquieti in fondo al Mediterraneo. Prima che l’ambiguità delle missioni di pace trasformasse le nostre truppe in guardiani di conquiste economiche, eravamo un paese senza nemici. Ai giornalisti che seguivano le guerre bastava alzare il passaporto col sorriso di chi annuncia d’essere italiano. Ai posti di blocco rispondevano: “Buon viaggio, amico”. “Vai pure, fratello”. Ma il 19 gennaio 1991, prima guerra del Golfo, succede qualcosa: il Tornado del maggiore Bellini, navigatore capitano Maurizio Cocciolone, bombarda depositi d’armi nel Kuwait, ma non ce la fa a tornare. Si salvano col paracadute e finiscono nelle mani “impazzite” dei bombardati che non perdonano. Botte e torture. Intanto i reporter di terra (che non sanno della disavventura) provano a distribuire sorrisi e mostrare il passaporto orgogliosi di un paese felice che non conta. Invece comincia a contare: un po’ di loro finisce all’ospedale anche se ufficialmente non eravamo ancora nemici. L’articolo 11 frenava la disinvoltura dell’attraversare armati le nostre frontiere e lo statuto degli italiani in guerra restava incerto. Talmente traballante da bloccare la carriere del Bellini pilota del Tornado. Vent’anni dopo protesta coi comandi superiori. “Ho passato 47 di prigionia, torture e minacce. Ho ricevuto una medaglia d’argento al valor militare, ma ufficialmente non sono mai stato in guerra. Non risulta da nessuna parte”. Gli hanno spiegato che nel ’91 l’Italia non poteva dichiararsi in guerra con l’Iraq per non violare la Costituzione. E la sua avventura non è mai successa. Ma Nassiriya era diversa: tutto in regola, truppe di conquista autorizzate. E l’articolo 11? Sempre lì, basta non tenerne conto.

Repubblica 12.11.13
A bordo della “Chimera”, dopo il salvataggio del 25 ottobre

“Oro, cellulari e più di 80mila tra euro e dollari”
“Derubarono i profughi siriani” Indagati gli uomini della Marina
di Francesco Viviani e Alessandra Ziniti


PALERMO — Li hanno riconosciuti guardando le foto di marò e ufficiali imbarcati sulla corvetta Chimera. Quegli stessi uomini in tuta mimetica che li avevano salvati. Proprio loro li avrebbero costretti a consegnare soldi e gioielli mentre si trovavano a bordo della nave. E così nell’indagine sugli ammanchi degli averi dei profughi siriani salvati il 25 ottobre spuntano i primi indagati.
Furto aggravato: è questo il reato ipotizzato dal procuratore Renato Di Natale dopo la denuncia di una ventina di migranti. Quel giorno, a bordo della corvetta, c’erano anche marò del battaglione San Marco, come dimostra un video diffuso dalla Marina dopo il salvataggio e ora acquisito agli atti dell’inchiesta. Alcuni di loro avrebbero perquisito i profughi appena giunti a bordo. Una delle donne derubate racconta: «Ci separarono dai nostri bambini mentre iniziarono a perquisire accuratamente noi donne: alcune avevano nascosto i beni più preziosi nel reggiseno, altre nelle mutande. Io, per esempio, avevo cucito all’interno della mia biancheria intima più di 5mila euro. Ma ci sequestrarono tutto: l’oro, gli euro, i dollari e i cellulari. Chiesi più volte come avrei potuto recuperare i miei effetti personali, facendogli presenteche erano l’unica possibilità per farci arrivare a destinazione. Ma quelli provavano a rassicurarci: “Mettiamo a ciascuno, in un sacchetto numerato unico, tutte le proprie cose e ve lo riconsegniamo appena scesi”». E invece.
Donne e uomini separati durante il tragitto fino a Porto Empedocle. «Iniziarono ad afferrare e sollevare i bambini per farli entrare in bagno in una maniera tale che non potessimo accorgerci se li stavano toccando per cercare soldi nascosti tra i vestiti». All’arrivo a Porto Empedocle, la sorpresa: «Fecero scendere prima donne e bambini. Nessuno di noi aveva ancora potuto rivedere il marito in modo che non potessimo raccontargli che ci erano stati presi i soldi. Poi ci dissero che erano arrivate le nostre cose. Aprimmo i sacchetti, c’era un po’ di oro, i documenti e i cellulari. Ci avevano lasciato i soldi siriani e libici mentre i dollari e gli euro erano scomparsi. In tutta la nostra imbarcazione sono spariti 64mila euro e 25mila dollari circa. Io stessa mi sono vista sparire 4.300 dollari e 1.500 euro». Il marito aggiunge: «Noi abbiamo venduto la nostra casa, abbiamo venduto tutti i nostri averi in modo da non aver bisogno di chiedere aiuto. E ora non abbiamo più i soldi per mangiare. Quelli non erano soldati, erano l’esercito di Alì Baba. Ladroni».

Corriere 12.11.13
Il segno del fallimento di due generazioni
Adulti meno responsabili e ragazzi che si arrendono
di Mauro Magatti


Due mezzi di scambio terribilmente moderni e potenti — il denaro e Internet — in grado di mettere in rapporto tra loro perfetti sconosciuti; adulti maschi alla ricerca di emozioni forti — come il sesso con adolescenti — per combattere la tendenza anestetica del nostro tempo: dove essendo tutto permesso, non si riesce a sentire più niente e si è costretti ad alzare l’asticella della trasgressione; ragazze disposte a seguire, senza troppe domande, il gatto e la volpe che incontrano nell’ambiente digitale e che promettono loro di aprire la strada ad una fantomatica città dei balocchi — dove basta avere qualche soldo in mano e farsi vedere disinibiti per sentirsi grandi.
Il quadro che esce dalle tristissime vicende di cronaca di questi giorni apre una finestra su una zona buia della società italiana. I mezzi che dovrebbero servire per realizzare i grandi obiettivi di una crescita umana e sociale vengono piegati per ottenere piccoli godimenti seriali, per i quali si è disposti non solo a passare sopra il senso morale, ma anche a calpestare il semplice buon gusto. Non che fatti di questo tipo non siano sempre avvenuti, pur se in forme diverse, anche nel passato. Ma fa riflettere la diffusione del fenomeno, non più riducibile al caso. Che segnala un malessere profondo.
Il declino della società italiana non è solo economico. È come se intere parti del nostro tessuto sociale fossero a rischio di rimanere imprigionate in un vortice regressivo, dove non c’è né futuro né passato, ma solo singoli momenti che devono diventare sempre più «forti». Per compensare la mancanza di prospettive e di progettualità si ricorre al gioco, alla fortuna, al brivido dell’eccesso. In un’altra epoca si sarebbe parlato di decadenza.
Una decadenza singolare, però, tipica di un paese che accede ai mezzi che la modernità mette a disposizione — denaro, Internet — accontentandosi di utilizzarli per replicare modelli di comportamento arcaici — come quelli del maschio che insegue le fantasie erotiche. I danni che la iper modernità è in grado di procurare quando non si investe nella cura delle persone, nel potenziamento della capacità di giudizio, nella qualità degli ambienti educativi sono ingenti. Le società che prosperano, non solo economicamente, sono quelle capaci di ricomporre strumentalità e senso, aprendo spazi di partecipazione e di riconoscimento per i propri cittadini.
Proprio il contrario della situazione italiana di questi anni, in cui sembrano intrecciarsi i fallimenti di due generazioni: quello degli adulti, i veri responsabili del disastro in cui ci troviamo e che paiono voler abdicare del tutto alla loro responsabilità nei confronti delle nuove generazioni; e quello dei giovani, molti dei quali paiono aver perso la speranza per il loro futuro, accontentandosi di briciole di godimento. Ci siamo assuefatti a vedere centinaia di ragazzi e ragazze la cui massima aspirazione è di diventare veline o calciatori. «Aspirazioni» spesso assecondate, quando non alimentate, dalla famiglia di appartenenza.
Gli episodi di questi giorni, certo estremi, ci devono allarmare, senza girare lo sguardo dall’altra parte. Di tutto questo occorre che si parli. Occorre che se ne parli sui giornali e su Internet, ma soprattutto a scuola e in famiglia. Che ne parlino i ragazzi e le ragazze tra loro. Perché, se c’è una cosa straordinaria dell’essere umano, è la sua capacità di riflessione e di apprendimento a partire anche dalle esperienze più negative. All’unica condizione di essere disposti a non chiudere gli occhi davanti alla realtà.

Corriere 12.11.13
Pubertà precoce. Coro di Bach in crisi
La nostra era ci cambia voce e anima
di Marco Del Corona


Il nostro tempo ha cambiato i nostri corpi. Lo sappiamo: ce lo ricordano i nostri figli quando li osserviamo crescere spesso più rapidi di noi alla loro età. Ed è una verità persino banale che le fotografie dei nostri nonni ripetono all’infinito. Il tempo che trasforma i nostri corpi fa mutare la nostra voce e, con la voce, anche altro: qualche tassello del nostro universo emotivo e culturale cambia di posto.
Ne è la prova quanto accade a Lipsia, nel coro di ragazzi di cui Johann Sebastian Bach fu maestro fra il 1723 e l’anno della sua morte, il 1750. Il Thomanerchor, 801 anni di vita, è tutto maschile. I soprani — che offrono il registro più immediatamente riconoscibile, il più acuto — sono bambini di età compresa fra i 10 anni e il momento in cui la pubertà porta al cambio della voce. È qui che si manifesta il marchio del nostro tempo: se nel periodo di Bach si avevano soprani diciassettenni, oggi il cambio di voce si verifica tra i 12 e i 13 anni. Questo significa che, calcolando che si entra nell’orbita dell’istituzione a 9 anni e si è parte effettiva del Thomanerchor a 10, il periodo di maturità artistica dei giovanissimi soprani è di due anni. Come ha spiegato al New York Times Magazine un demografo di Berkeley, dalla metà del Settecento in poi la pubertà è arretrata di due mesi e mezzo a decennio, con il risultato — appunto — che il cambio di voce avviene oggi troppo presto. Si cercano rimedi e non è facile.
Non occorreva che un’indagine giornalistica su una storica istituzione musicale tedesca ci ricordasse che l’età dello sviluppo dei nostri ragazzi, come quella delle nostre ragazze, s’è fatta precoce. Né è nuovo il dibattito su come la nostra esperienza del suono e dell’ascolto sia più o meno comparabile con quella della stagione barocca (decenni di ricerche musicologiche e di dibattiti su «filologia» e «prassi esecutive» hanno appassionato e diviso critici e pubblico, arricchendo l’offerta e il mercato). Lipsia però ci dice anche che il cambiamento operato dal nostro tempo va più in profondità del corpo e delle corde vocali. Trasforma un po’ la nostra anima. La rende né migliore né peggiore: diversa. Figlia del nostro tempo, semplicemente. Ancora una volta Bach ha qualcosa da insegnare.

Corriere 12.11.13
Agenzia spaziale, la nuova sede non ha neanche i pannelli solari. Obbligatori per legge

Bollette della luce da 80 mila euro
di Sergio Rizzo


ROMA – Se l’astronauta italiano Luca Parmitano, di ritorno dalla sua lunga missione spaziale, volesse fare una visitina al complesso dell’Asi a Tor Vergata, gli suggeriamo di presentarsi senza qualche suo collega russo o americano. Eviterebbe di sicuro una domanda imbarazzante per i vertici dell’ente. La seguente: perché con tutto quello spazio a disposizione nella sede nuova di zecca di un ente che dovrebbe rappresentare la nostra avanguardia tecnologica, non c’è nemmeno un pannello solare?
Ma ancora più imbarazzante, ne siamo sicuri, sarebbe la risposta: perché costano troppo. Spaventa il prezzo dei pannelli. Mentre non spaventava la lievitazione, quella sì davvero spaventosa, dei costi per la realizzazione della sede dell’Agenzia spaziale italiana, passati dal 12 milioni di euro inizialmente previsti alla fine del 2000 agli 84,4 milioni certificati da una pepatissima relazione dell’Autorità per gli appalti pubblici. Da non crederci.
Eppure è proprio con tale motivazione, secondo Walter Pelagrilli della Uil, che si sarebbe arenato qualche anno fa un progetto per la realizzazione di un impianto fotovoltaico. Con il risultato, insiste il sindacalista, che non soltanto in questo modo l’Asi rinuncia agli incentivi (pagati dagli utenti e non dallo Stato) garantiti dal solare, ma si vede recapitare bollette da 80 mila euro a bimestre. E questo, sottolinea ancora, nonostante esistano una legge e una delibera del Comune di Roma che impongono agli edifici nuovi l’obbligo di dotarsi di impianti per l’energia rinnovabile.
La vicenda della nuova sede dell’Asi a Tor Vergata con la singolare moltiplicazione per sette della spesa, sulla quale indaga la procura della Corte dei conti, andrebbe raccontata nelle scuole per amministratori pubblici: come esempio di quello che non si deve fare se si vogliono evitare gli sprechi. Sempre che sia soltanto una semplice faccenda di sprechi. L’Authority, com’è noto, ha segnalato una serie di «illegittimità e irregolarità» nella gestione dell’opera. A cominciare dalla curiosa procedura con cui l’appalto venne secretato per le «ragioni di sicurezza» rivendicate dall’ex presidente Sergio Vetrella, successivamente senatore del Pdl. Di conseguenza la cosa venne affidata al provveditorato del Lazio di Angelo Balducci, che scelse la ditta a trattativa privata. E la scelta cadde su una delle imprese che sarebbero finite nelle inchieste sulla «cricca».
Risultato? Una spesa di 84 milioni 434.755 euro e 65 centesimi: senza pannelli solari, ovvio. Più le consulenze e più l’indennizzo all’architetto Massimiliano Fuksas autore del primo progetto che venne gettato alle ortiche con la scusa che era necessaria, giuravano, una superficie molto più grande di quella preventivata perché sarebbe stata assunta un sacco di gente. E così fu. Soltanto che le assunzioni erano una pura fantasia e due edifici del nuovo complesso sono rimasti completamente vuoti. Qualcuno allora ha pensato di trasferire in quei locali deserti le aziende controllate dall’ente. Ma il provveditorato ha detto di no. Il motivo? Dovrebbero pagare un canone doppio di quello che pagano oggi. Poco importa che sia una partita di giro, visto che incasserebbe l’ente pubblico loro proprietario: con un risparmio non indifferente per l’Erario. Dunque i due stabili continuano a restare vuoti.
Del resto, anziché le 500 persone immaginate ci sono oggi a Tor Vergata sempre le stesse 238 che erano nelle vecchie, più piccole e meno costose sedi dei Parioli. Fra affitto e a tutto il resto prima si spendevano un paio di milioni: adesso per la gestione degli uffici di proprietà ne servono almeno tre.
Per non parlare dei soldi buttati via perché il trasloco si è fatto 14 mesi dopo il completamento dei lavori: due milioni e mezzo, forse tre. La stima è del solito Pelagrilli, che non cessa di inondare di richieste di chiarimenti il presidente Enrico Saggese. Su tutto: dai pannelli solari, al personale distaccato, alle consulenze. Come quella per cui la Corte dei conti ha condannato in primo grado il 10 ottobre scorso il medesimo Saggese a rimborsare l’ente che presiede con 5 mila euro. Ovvero circa un terzo del valore della consulenza da 15.600 euro assegnato nel 2009 alla dottoressa Daniela Di Battista. Oggetto, «il servizio di supporto psicologico al personale»...

il Fatto 12.11.13
Iran. La lobby ebraica frena l’accordo Usa


Da un lato, lo sforzo diplomatico Usa per cercar di rassicurare Israele sul possibile accordo con Teheran sul programma nucleare. Dall’altro, l’offensiva lanciata dallo Stato ebraico al Congresso americano, per provare a mettere il più possibile i bastoni tra le ruote a Obama nel riavvicinamento con Teheran. La partita a scacchi sul nucleare sta divenendo anche un braccio di ferro tra alleati. Un’intesa “può proteggere Israele” in maniera “più efficace”, e tra Washington e lo Stato ebraico “c'è un contatto continuo”, ha assicurato il segretario di Stato Usa Kerry da Abu Dhabi, dove cerca di contenere le preoccupazioni degli alleati arabi. Ma oggi il ministro israeliano per l’Economia, Naftali Bennett, un “falco” con radici familiari negli Usa, arriverà a Washington con l’obiettivo di far pressioni contro l’accordo di Ginevra.

l’Unità 12.11.13
Donna, femminista, 23 anni È il nuovo volto di Hamas
Isra sa l’inglese, ha una figlia ed è divorziata. Ha vissuto nel Regno Unito
ed è stata scelta perché sa come parlare all’Occidente: facendo leva sull’umanità
di Umberto De Giovannangeli


Non è solo questione di look. È l’inizio di una «rivoluzione rosa» a Gaza. Per la prima volta Hamas ha scelto una donna come propria portavoce: si tratta della giornalista Isra al-Modallal, 23 anni, incaricata di migliorare i rapporti con i media internazionali. «Mi rivolgerò ai media occidentali e israeliani e mi adopererò per cambiare il linguaggio e offrire un quadro diverso della Palestina ha detto renderò le questioni più umane e anche se i funzionari palestinesi non comprendono questo linguaggio, io so cosa vuole l’opinione pubblica occidentale».
«L’Occidente non comprende il discorso religioso-aggiunge-, quanto piuttosto il discorso umano». Isra parla perfettamente l’inglese per aver vissuto cinque anni nel Regno Unito. Secondo quanto riportato dal quotidiano Asharq Al-Awsat, la portavoce starebbe ora studiando la lingua ebraica per poter seguire i media israeliani: «Sto studiando tutto riguardo ai media israeliani, occidentali e americani... e trascorro molto tempo a leggere e a guardare canali diversi». Al-Modallal ha detto di non aver alcun problema a parlare con i media israeliani, sottolineando però di aver bisogno comunque di un’autorizzazione ufficiale: «Se mi viene data l’autorizzazione io personalmente non ho problemi».
STRATEGIA DI COMUNICAZIONE
Il cambiamento nel dipartimento media del governo di Hamas è iniziato sei mesi fa, quando è stato incaricato il nuovo capo, Ihab Ghussein. Questi ha iniziato ad assumere giovani, inaugurato un nuovo sito web governativo e l’uso dei social media, aperto a seminari e laboratori. Ghussein ha spiegato di aver scelto Al-Modallal «per essere più aperti all’Occidente», dopo che molte donne hanno inviato il curriculum per l’incarico. «Non seguirò i titoli dei giornali», spiega Isra, madre di una bambina, «piuttosto vorrei che la stampa occidentale si concentrasse sulle questioni umanitarie. Sui prigionieri in Palestina, sui rifugiati, sulle donne». Perché un portavoce solo per la stampa straniera? «Perché spiega Isra raggiunta telefonicamente da Rainews24 nel suo ufficio a Gaza City in alcuni Stati, come in America, in Europa, in Australia, certi temi sono sentiti di più». Se Hamas l’ha scelta, è anche perché Isra ha vissuto all’estero e sa quindi parlare a persone di diverse nazionalità. Di certo, la mossa dell’esecutivo di Gaza è quasi rivoluzionaria, visto che lei è la prima donna a ricoprire un ruolo simile.
Il compito di Isra è portare all’attenzione della stampa straniera alcuni temi. Ma ci sono anche alcuni «stereotipi negativi» da combattere. Un esempio? «Hamas spiega la neo portavoce combatte per i diritti umani dei palestinesi. Difende i nostri bambini, le nostre donne, le nostre persone. Nessuno lo dice. Questo è uno stereotipo negativo, il fatto che non se ne parli».
In Unione Europea, Stati Uniti e Australia, l’organizzazione islamista palestinese è classificata come terroristica. Inoltre, Hamas non riconosce Israele come Stato. Isra condivide questa idea? La risposta è concisa: «Non sono d’accordo con l’occupazione. Né sui prigionieri». Inoltre, Hamas vieta di parlare ai giornalisti israeliani. Il quotidiano online Ynet scrive che la nuova portavoce per la stampa straniera ha rifiutato loro un’intervista. Il perché lo spiega lei stessa: «È la posizione del governo e la rispetto. I media israeliani scrivono molte cose contro di noi. Se accettano le questioni sui diritti umani, se ci trattano come popolo occupato, allora sì, possiamo anche parlarci». La giornalista di Gaza ha così subito aperto account sui social network. Su Facebook e su Twitter. Il primo tweet nel nuovo ruolo? La notizia della morte di un prigioniero palestinese in un carcere israeliano.
Divorziata, mamma, «convinta femminista». E ora portavoce di Hamas. Isra non vede in questo alcuna contraddizione. Da poche ore gestisce un ufficio stampa composto di soli uomini. Uomini che, a proposito, parlano già benissimo di lei e la giudicano un «vulcano di idee». « I miei impegni di lavoro sono assillanti racconta Isra mia figlia è adesso con la nonna». Mentre con l’agenzia stampa palestinese Maan analizza già quella che secondo lei è la nuova realtà: «I media occidentali finalmente si sono accorti che i cronisti israeliani falsificano i fatti, per questo dobbiamo sforzarci ancora di più per far scoprire le loro bugie».

Corriere 12.11.13
«Donne arabe sconfitte dalle primavere»
Rapporto Thomson Reuters sui diritti: l’Egitto il Paese peggiore
di Viviana Mazza


L’Egitto post-rivoluzionario non è un Paese per donne. Oggi, la nazione simbolo della Primavera araba si rivela la peggiore per i diritti femminili nel mondo arabo, peggiore dell’Arabia Saudita dove le donne sono trattate come eterne minorenni ed è proibito loro anche guidare l’auto, della Siria, dove sono usate come «armi di guerra» con rapimenti e stupri sia da parte del regime che di alcuni gruppi ribelli, e dello Yemen, dove un quarto sono sposate prima dei 15 anni (tutti Paesi che comunque seguono di poco).
Al secondo posto, dopo l’Egitto, c’è l’Iraq, « più pericoloso per le donne oggi che ai tempi di Saddam Hussein». Invece, le Isole Comore, piccolo arcipelago nell’Oceano Indiano, è il migliore di tutti i membri della Lega Araba: benché non garantisca la libertà di espressione politica, non discrimina le donne in caso di divorzio, in politica (il 20% dei ministri) né sul posto di lavoro (il 35%), «grazie anche all’eredità francese nel sistema legale».
E’ la situazione fotografata da un nuovo sondaggio condotto dalla «Fondazione Thomson Reuters» interpellando centinaia di esperti nei 21 membri della Lega Araba più la Siria (sospesa dall’organizzazione nel 2011). «Colpisce — spiega al Corriere Monique Villa, l’amministratrice delegata della Fondazione — che i Paesi delle Primavere arabe siano tra gli ultimi». Dalle stesse donne che hanno lottato al fianco degli uomini per il cambiamento sociale, ci si aspetta che tornino tra le mura domestiche. In politica, per esempio, 987 egiziane si sono candidate alle elezioni del 2012, e 9 sono state elette; in Siria, prima dell’inizio delle rivolte il 13% dei giudici erano donne, una percentuale subito ridottasi e di incerto futuro. Il 99% delle egiziane afferma di aver subito molestie in strada, un fenomeno «endemico, socialmente accettato e mai punito». E’ un dato simile a quello che si registra in Yemen, ed è in crescita perfino in Tunisia. «La Tunisia era un paese baluardo dei diritti delle donne nella regione, dove l’aborto è stato legalizzato nel 1965 prima che in Italia — nota Monique Villa  — e ci sorprende ritrovarla oggi più vicina all’Algeria che alle isole Comore».
Il sondaggio usa sei indicatori: «misura» la violenza contro le donne, i diritti riproduttivi e gli spazi in famiglia, società, economia e politica. Corrispondono ad altrettanti aspetti della «Convenzione Onu sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne», di cui peraltro sono firmatari 19 dei Paesi esaminati: il problema è che molti rifiutano gli articoli relativi alla vita familiare, perché visti in conflitto con la sharia, la legge islamica. Così restano in vigore leggi ostili alle donne, come in Egitto, dove una musulmana che sposa un uomo di altra fede rischia di essere incriminata per apostasia e di vedere i propri figli messi sotto tutela di un uomo musulmano, o in Iraq dove c’è uno sconto di pena per gli omicidi di donne «disonorate».
Di buone notizie ce ne sono poche nel rapporto, «ma è una fotografia, e le rivoluzioni hanno alti e bassi e richiedono tempo: speriamo che nei prossimi anni la situazione cambi». Emerge anche che «la stabilità e la ricchezza favoriscono i diritti delle donne». Le monarchie ricche del Golfo come Kuwait, Oman, Qatar sono ai primi posti, dopo le Comore. E il caso dell’Iraq fa riflettere sulle conseguenze di imprese come l’esportazione della democrazia. «In Iraq, dove sotto Saddam le donne lavoravano — continua la CEO di Thomson Reuters — l’invasione americana non ha migliorato la loro vita: ha lasciato 1,6 milioni di vedove e un tasso femminile di occupazione al 14,5%». Non vuol dire che nelle dittature le donne se la passino meglio che in democrazia, ma che i fattori che determinano i loro diritti sono tanti. «Il Libano, ad esempio, dà alle donne il diritto di voto, ma se trent’anni fa era la Svizzera del Medio Oriente oggi è reso instabile dalla guerra e dal radicalismo». I pezzi del mosaico sono tanti: per il momento compongono un’immagine cupa del Medio Oriente al femminile.

Corriere 12.11.13
Gran Bretagna
«Basta privilegiati dalle scuole private»
di Paola De Carolis


LONDRA — Se «mobilità sociale» era il motto di Margaret Thatcher, la Lady di Ferro stenterebbe oggi a riconoscersi nel Partito conservatore che ha portato David Cameron a Downing Street. Secondo John Major, l’unico predecessore del premier ad aver frequentato l’umile scuola statale, sono esagerati i ruoli d’influenza ricoperti da chi ha studiato nei collegi privati.
«In ogni sfera della vita pubblica di questo Paese — ha detto l’ex primo ministro, celebre anche per aver lasciato la scuola a 16 anni — troviamo gente che ha frequentato scuole private o che è cresciuta in famiglie benestanti». Un fatto che Major trova «sconcertante». «Il nostro sistema scolastico — ha aggiunto — dovrebbe permettere ai giovani di emanciparsi, non chiuderli nella classe dalla quale provengono. Abbiamo bisogno di loro, di ragazzi che possano utilizzare fortuna, intelletto e duro lavoro per sviluppare al massimo le loro potenzialità».
Il governo Cameron è almeno per metà composto da ministri e sottosegretari che hanno frequentato scuole a pagamento: il premier ha studiato a Eton e poi all’università di Oxford come il sindaco di Londra Boris Johnson. Il cancelliere dello scacchiere George Osborne ha fatto il liceo presso la St Paul’s Boys School e si è laureato a Oxford, il vicepremier Nick Clegg il liceo a Westminster e l’università a Cambridge. Il primo ministro è spesso criticato per essersi circondato da gente che come lui proviene da una classe sociale medio-alta e sulla scia dei commenti di Major uno stretto collaboratore di Cameron ha fatto sue le stesse preoccupazioni. «La mobilità sociale deve essere tra le prime preoccupazioni di ogni governo perché non può mai bastare», ha detto Sajid Javid, consigliere finanziario di Osborne. Suo padre, proprio come quello di Major, faceva il conducente d’autobus.

Corriere 12.11.13
Meno detenuti in Svezia, chiusi quattro penitenziari


La Svezia ha deciso di chiudere quattro carceri perché, da quasi 10 anni, il numero dei detenuti decresce mediamente dell’1 per cento ogni anno. Con una punta di diminuizione del 6 per cento nel 2012 rispetto al 2011. Una percentuale che, secondo Nils Öberg, a capo dei servizi penitenziari svedesi, si ripeterà anche quest’anno. Così le autorità svedesi chiuderanno i penitenziari di Åby, Håja, Båtshagen e Kristianstad oltre a un centro di recupero. Strutture che saranno vendute o riconvertite. «La speranza è che alla base di questa tendenza ci siano i nostri sforzi in materia di riabilitazione e prevenzione», ha detto Öberg in un’intervista al Guardian . «Ma se anche fosse così non sarebbe sicuramente sufficiente per spiegare un calo così grande delle presenze». Un’altra ipotesi possibilità potrebbe essere la tendenza dei giudici di assegnare pene più miti per i reati legati alla droga, in seguito ad una decisione del 2011 della Corte suprema svedese. O per quelli legati a furti e crimini violenti che, dal 2004 al 2012, sono scesi rispettivamente del 36 per cento e 12 per cento. «Quel che è certo — conclude Öberg — è che la pressione del sistema della giustizia penale negli ultimi anni è diminuita notevolmente».

Corriere 12.11.13
Record cinese dell’E-commerce ma è solo perché non pagano le Tasse ?
di Guido Santevecchi


L’11 novembre la Cina ha festeggiato il «giorno dei single»: 11/11, tutti numeri singoli. Ed è diventata anche la celebrazione della forza dell’e-commerce nella Repubblica popolare: il doppio 11 è il momento giusto per regalarsi qualcosa acquistandolo online. Nel 2009 Alibaba, il colosso fondato da Jack Ma, decise di adottare la data per lanciare una giornata di vendite online a prezzi scontati: l’anno scorso sulle sue due piattaforme Taobao.com e Tmall.com si sono riversati in 24 ore 3,07 miliardi di dollari (quasi tre volte tanto gli acquisti in rete degli americani nel Cyber Monday, il giorno in cui si ritorna dalla festa di Thanksgiving e comincia anche l’avvicinamento al Natale).
L’obiettivo di quest’anno erano i 5 miliardi di dollari. Dalla mezzanotte i siti cinesi specializzati dedicati all’e-commerce sono stati presi d’assalto: a mezzogiorno erano andati via un milione e seicentomila reggiseni e due milioni di mutande per uomo, secondo i dati comunicati da Tmall. Non comprano solo i single e non si compra solo in questa festa goliardica. Il fenomeno delle vendite sul web in Cina corre tutto l’anno: si calcola che a fine 2015 varrà 300 miliardi di dollari, superando gli Stati Uniti. Alibaba è già la piattaforma più grande del mondo: attraverso Taobao e Tmall l’anno scorso ha mosso prodotti per 160 miliardi di dollari, più del totale combinato di Amazon.com e eBay.
Un segno di mercato e di modernità. In Cina l’e-commerce è efficiente e affidabile: pagamento tramite una piattaforma online a cui ci si registra, dopo la consegna, che avviene nel giro di uno-cinque giorni.
Il settore dei servizi cresce, la Cina non è più solo la Fabbrica del Mondo: ora la manifattura è al 45 per cento del Prodotto interno lordo, tanto quanto i servizi. Il resto dell’economia è agricoltura. Certo, gli Stati Uniti sono ancora lontani, dall’alto del loro 80% di servizi. Il successo di Alibaba, mercato gigantesco, è anche il segno che i consumi interni accelerano. Però resta un problema non da poco: la stragrande maggioranza delle vendite online è esentasse. Nel senso che nessuno le paga e nessuno le esige.

Repubblica 12.11.13
La nuova Cina
“I privati nei colossi di Stato” Oggi il Plenum del Partito vara l’ultima rivoluzione cinese
La scommessa: un paese meno dipendente da export e low cost
di Giampaolo Visetti


PECHINO — Apertura dei colossi di Stato ai capitali privati, burocrazia più snella, nuovo fisco, licenza di vendere la terra coltivata, equiparazione del welfare tra cittadini e residenti nei villaggi, lotta alla corruzione e allo smog che stanno uccidendo partito e Paese. Sembra non avere fine l’elenco delle «storiche riforme» che i media di Stato assicurano verranno annunciate oggi dai leader cinesi nominati un anno fa.
Mai la fine di un plenum del Partito comunista cinese è stata caricata di tante attese e la stessa propaganda, che da giorni paragona il vertice aperto sabato a quelli epocali del 1978 e del 1993, si è chiesta infine se la lista comprenda «più auspici o più scongiuri».
Oggi si comincerà a cercare di capire, ma su un fatto tutti concordano: la seconda economia del mondo, per non smettere di crescere e per restare socialmente stabile, ha bisogno di riforme urgenti e se il presidente Xi Jinping non dimostrerà di avere avuto la forza di imporle ai conservatori, la sua stagione potrebbe dirsi già, prematuramente e pericolosamente, chiusa.
Ipotesi, nell’immediato, accademica. Alti funzionari del partito, nelle ultime ore, hanno confermato che Pechino annuncerà «importanti novità» in campo economico e finanziario, lanciando la «grande stagione delle privatizzazioni» e spingendo la Cina verso «un mercato finanziario maturo e la piena convertibilità monetaria». Cautela ben maggiore viene usata invece per i cambiamenti politici, su cui nei mesi scorsi gli stessi leader rossi si erano sbilanciati. Nel corso del vertice del partito, in un blindato hotel della capitale, i 376 uomini che invisibilmente comandano la nazione avrebbero concordato di scongiurare il rischio di fare la fine dell’Urss, che «implose nel nome della democratizzazione imposta dall’Occidente». Dunque via libera al “modello Singapore”, come già deciso dai 25 membri del Politburo: riforme economiche e sociali «graduali e solo se compatibili con la stabilità politica», ossia con il pieno potere del regime autoritario stabilito da Mao Zedong.
Una via stretta, liberare il mercato senza sottrarlo allo Stato, tanto più in un clima di sorprendente tensione: due attentati in due settimane, forti malumori tra militari e nostalgici sostenitori del condannato leader maoista Bo Xilai, che pur all’ergastolo si sarebbe visto proporre la “presidenza a vita” di un nuovo partito, denunce di censura e pressioni su Stati e media stranieri come Bloomberg, volte a silenziare scandali che potrebbero travolgere il partito, ma pure frenata della crescita, esasperazione popolare senza precedenti contro divario tra ricchi e poveri, corruzione e un inquinamento che ormai è più di un’emergenza nazionale.
Ma è proprio la carenza di alternative a rafforzare il dichiarato riformismo economico di Xi Jinping, che in quattro giorni ha spiegato ai vertici comunisti che «nell’interesse interno e globale la Cina non può restare vittima della sindrome del Giappone», potenza che smise di crescere perché ritardò ad aggiornare il proprio modello di sviluppo, e che «è l’ora di fare un passo avanti pur senza perdere l’equilibrio».
Le studiate indiscrezioni inviate ai media assicurano dunque che il terzo Plenum, da tradizione, annuncerà oggi l’approvazione di una «epocale riforma del profilo economico cinese», garantendo al mondo «il sostegno alla crescita anche nel prossimo decennio». Tra le misure più attese, la possibilità degli investitori privati, anche stranieri, di acquisire quote fino al 10-15% delle 112 megaaziende di Stato, colossi mondiali, monopoliste in settori come credito, assicurazioni, trasporti, energia e telecomunicazioni. Davvero una rivoluzione, promossa per rendere la Cina meno dipendente da export e low cost, e più fondata sull’espansione di consumi interni e servizi. Più «graduali» invece le riforme dell’“hukou”, il sistema di registrazione familiare che vincola ogni cinese a vivere in un determinato posto, e della proprietà dei terreni, osteggiate da iper-indebitate amministrazioni locali.
Vincerà l’americano “sogno cinese” di Xi Jinping o la nostalgia maoista della sinistra interna, appoggiata dai due ex presidenti Jiang Zemin e Hu Jintao? La partita non finirà oggi, ma per una volta anche il risultato del primo tempo è decisivo.

l’Unità 12.11.13
Marco Cavallo in marcia
Il simbolo della liberazione dei matti torna contro gli Opg
La nuova battaglia per la chiusura degli ospedali psichiatrici è itinerante:
da oggi al 25 novembre attraverso 10 regioni e 16 città
di Anita Eusebi


«MARCO CAVALLO RIPARTE QUI DA TRIESTE PER UN LUNGO VIAGGIO ATTRAVERSO L’ITALIA PER DIRE BASTA AGLI OSPEDALI PSICHIATRICI GIUDIZIARI TUTTORA ESISTENTI, strutture indegne di un paese civile come affermato dallo stesso Presidente della Repubblica Napolitano». Questo l’inizio della lettera che stamattina la Presidente della regione Friuli Venezia Giulia Debora Serracchiani consegna a Marco Cavallo in Piazza Unità d’Italia, chiedendogli di portare il suo messaggio agli amministratori di tutte le altre regioni. «Un messaggio chiamato cavallo», direbbe Umberto Eco.
Quaranta anni fa il gigante di legno e cartapesta, realizzato allora dal gruppo degli artisti del Laboratorio P sotto la guida di Vittorio Basaglia e Giuliano Scabia, sfondò il muro di cinta del manicomio San Giovanni di Trieste. «Quando il cavallo azzurro lasciò il ghetto, centinaia di ricoverati lo seguirono. La testimonianza della povertà e della miseria dell’ospedale invase le strade della città portando con sé la speranza di stare insieme agli altri in un aperto scambio sociale, in rapporti liberi tra persone», scrive Franco Basaglia. Oggi come allora si torna a «invadere le strade». E nello spirito originale della Legge 180, che nel 1978 restituì dignità e cittadinanza ai «matti» decretando la chiusura dei manicomi, Marco Cavallo è ora protagonista di una nuova battaglia, forte della sua valenza simbolica contro ogni forma di discriminazione ed esclusione sociale.
Il viaggio di Marco Cavallo nel mondo di fuori per incontrare gli internati è il nome dell’iniziativa, promossa a livello nazionale dal cartello di istituzioni e associazioni StopOpg e da Collana 180 Archivio Critico della Salute Mentale. Marco Cavallo viaggerà da oggi al 25 novembre attraverso 10 regioni e 16 città, per un totale di 3500 km, per richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica sulla questione complessa e drammatica degli Opg, smuovere le coscienze e stimolare una riflessione collettiva. Farà tappa in particolare nelle sedi dei sei Opg esistenti (Barcellona Pozzo di Gotto, Aversa, Napoli Secondigliano, Montelupo Fiorentino, Reggio Emilia e Castiglione delle Stiviere). Si fermerà anche a Roma, in Parlamento il 21 novembre.
L’inferno di questi «non luoghi», istituzioni totali dove sono internate ancora oggi più di mille persone in condizioni a dir poco disumane, costituisce una pagina vergognosa della nostra Repubblica ed è finito sotto gli occhi di tutti in seguito al rapporto della Commissione d’inchiesta presieduta da Ignazio Marino e ai documentari di denuncia Opg. Dove vive l’uomo e Lo Stato della follia di Francesco Cordio. «Una situazione che rende il nostro Paese indegno della Costituzione, e della stessa 180», commenta Stefano Cecconi, portavoce nazionale di StopOpg.
L’obiettivo principale è la chiusura degli Opg. Ma la soluzione non è certo la paventata traduzione degli internati negli attuali Opg in tanti mini Opg regionali, diversi solo per dimensioni e distribuzione territoriale: avrebbero lo stesso impianto ideologico a fondamento e giustificazione sociale. A questo Marco Cavallo e StopOpg dicono un no chiaro. Resta il bisogno improrogabile di aprire i Centri di Salute Mentale h24 e assicurare ai servizi sul territorio adeguate risorse economiche e umane, affinché possano essere parte integrante del processo di superamento degli Opg, attraverso la presa in carico degli internati con processi riabilitativi e di inclusione sociale.
«Marco Cavallo è la storia della libertà riconquistata dagli internati che ancora oggi ci parla di futuro, apre alla possibilità, invita a una scelta di campo», afferma Peppe Dell’Acqua, già direttore del Dipartimento di Salute Mentale di Trieste, portavoce del Forum Salute Mentale nonché tra i curatori della Collana 180. «E soprattutto è un cavallo che non tollera molto le chiusure...», scherza Dell’Acqua.
L’augurio conclusivo della Serracchiani è che «il viaggio riattivi l’attenzione di tutti, e i servizi di salute mentale costruiscano in ben più forte, organizzata ed efficace misura strumenti per quella vera sicurezza sociale che deriva dalla coesione, dall’inclusione e dal sostegno a tutti i diritti deboli, a garanzia reale di tutti noi». È dunque tempo per Marco Cavallo di rimettersi in viaggio, e che sia buon viaggio!

l’Unità 12.11.13
il successo dei libri sul papa

Il primo miracolo di papa Francesco
di Maria Serena Palieri


VISITA AL MEGASTORE DELLA CATENA PER DEFINIZIONE LAICA: AL REPARTO «SAGGI» giganteggia la postazione «Chiesa», proprio come al reparto narrativa giganteggia quella dei gialli. Ecco la sfilata: Jorge Maria Bergoglio/Papa Francesco Nel cuore dell’uomo e Scegliere la vita (Bompiani), JMB /PF In Lui solo la speranza (Jaca Book), JMB Così pensa papa Francesco (I libri di Sant’Egidio), JMB/PF È l’amore che apre gli occhi (Rizzoli), poi le collazioni, i Fioretti di papa Francesco (Piemme) e le fotografie in Francesco Uno di noi (Rizzoli).
C’è il dialogo confezionato in quattro e quattr’otto: PF/Eugenio Scalfari per Einaudi-Repubblica, così come la lettura in filigrana: JMB/Abraham Korka Il cielo e la terra (Mondadori). Ci sono i libri su di lui: Andrea Riccardi La sorpresa di papa Francesco (Mondadori), Aldo Maria Valli Le sorprese di Dio. I giorni della rivoluzione di Francesco (Ancora), Evangelina Himitian Francesco papa della gente (Bur). A seguire, quello che in linguaggio industriale chiameremmo l’indotto: ristampe di inchieste sull’oro e le caste del Vaticano, dialoghi con badesse e testi dell’altro Francesco, il Santo...
Un posticino anche per Luce del mondo dell’altro papa, emerito, Benedetto XVI, Mondadori. E, si immagina in gestazione da ben prima che JMB diventasse PF, di Marco Marzano e Nadia Urbinati Missione impossibile. La riconquista cattolica della sfera pubblica (Il Mulino).
Il primo miracolo di papa Francesco è quello di rivitalizzare, almeno in un settore, offerta e vendita di libri. Questa la sensazione, in un megastore dove la crisi aleggia per invadenza di quattro titoli best-seller, impennate degli sconti, povertà di contenuti.
Domanda: se qui è così, come sarà oltre Tevere nelle librerie di via della Conciliazione?

La Stampa 12.11.13
Assedio di Leningrado, la verità proibita
Nei Diari della poetessa Olga Berggol’c la tragedia della città stretta nella morsa nazista, stremata, affamata, trascurata da Mosca: l’altra faccia dell’eroismo magnificato da Stalin
Dai microfoni della radio diceva quello che le chiedeva il regime, esaltando il coraggio e incitando alla lotta
Nelle pagine segrete: «I meschini rituali del potere e del partito che suscitano una penosa vergogna»
di Anna Zafesova


«Nessuno è stato dimenticato e nulla è stato dimenticato». Queste rime di Olga Berggol’c sono incise nel marmo del cimitero Piskariovskoe, dove è sepolto mezzo milione di vittime dell’assedio di Leningrado. Nelle fosse comuni nel tremendo inverno 1941-42 venivano gettati 10 mila corpi al giorno. Lì ci sono anche i resti di Nikolai, il marito della poetessa. Lei, la voce dei sopravvissuti, aveva chiesto di essere sepolta lì, ma quando è morta, nel 1975, i dirigenti del partito gliel’hanno negato. Perché Olga Berggol’c era sì la musa e l’eroina di una delle più grandi tragedie della Seconda Guerra mondiale, ma era anche un personaggio che il regime considerava inaffidabile, una «doppiogiochista» come le aveva urlato il magistrato dell’Nkvd che la interrogava in carcere, che cercava di «non raccontare menzogne, se non quelle
imposte dalla censura».
Una doppia verità e una doppia vita: per 900 giorni la sua voce è arrivata via radio nelle case buie e fredde dove gli abitanti della città stretta d’assedio dai tedeschi stavano morendo di fame e terrore, leggeva poesie che inneggiavano al loro coraggio, li incitava a continuare a lottare. E nello stesso tempo, anche lei congelata e denutrita, scriveva nel suo diario quello che non poteva raccontare: la morte onnipresente, la fame, la disperazione, e «i meschini rituali del potere e del partito che suscitano una penosa vergogna» e continuano imperterriti mentre la gente comincia a cadere per strada, stremata, e mentre le truppe di Hitler avanzano, «come hanno fatto a portare le cose a questo punto!».
Una verità amara sulla guerra, così diversa dalla trionfalistica propaganda che lei stessa ascoltava e produceva alla radio, da affidarla solo ai diari segreti che a un certo punto seppellì in cortile: «La dedica ai posteri non sono riuscita a scriverla. E poi... non è per loro che mi spremo l’anima... ma per me stessa, per noi, che viviamo qui, oggi, incancreniti nella menzogna».
Dopo la morte della poetessa i diari vengono sigillati negli archivi, file segreti, inaccessibili. Solo dopo la fine dell’Urss ne vengono pubblicati alcuni stralci, che oggi per la prima volta appaiono in italiano (Diario proibito, Marsilio, pp. 159, € 14). Una testimonianza appassionata e atroce, che registra l’abituarsi all’orrore quotidiano, dal terrore cieco per le prime bombe, nel settembre 1941, «uccidetemi pure, ma non terrorizzatemi con quel fischio maledetto», fino alla routine di «otto allarmi aerei al giorno» per i quali non si scende più nemmeno nel rifugio. E poi la fame, onnipresente, straziante. Quando gli amici riusciranno a farla scappare, ormai ridotta alla distrofia alimentare, a Mosca, rilegge i diari e si vergogna di avere «scritto solo di cibo, un continuo, ossessivo delirio della fame». Il marito Nikolai muore, denutrito, e diventa normale ricordarsi di «scrivere delle lettere alle persone che mi sono care, forse saranno le mie ultime lettere», in una città dove si muore ogni giorno, sotto le bombe e, accasciandosi direttamente sui marciapiedi gelati, di distrofia. Parola che viene proibita, e gli ospedali nei certificati di morte mettono diagnosi false, per non ammettere che il governo sta lasciando morire di fame i leningradesi (ne periranno quasi 700 mila, senza contare i 20 mila morti sotto le bombe). Si parla di cannibalismo, genitori che mangiano i figli, cacciatori che adescano bambini per strada, mentre Mosca proibisce di inviare viveri agli assediati perché c’è già il governo che «sta provvedendo».
Un incubo che fa sobbalzare la Berggol’c quando, a Mosca, sente parlare di «eroismo» di Leningrado: «Strombazzando il nostro coraggio nascondono al popolo la verità su di noi». La città che il regime considera focolaio dell’opposizione è odiata da Stalin, che sembra quasi cogliere l’occasione per piegarla, e sotto le bombe tedesche continua implacabile a funzionare la macchina della repressione. Il padre di Olga viene mandato al confino, nonostante come medico fosse utile in città: «non è piaciuto il suo cognome» di origine tedesca. In un «cantuccio buio buio, assolutamente dostoevskiano», sta morendo di fame e paura Anna Achmatova, la grande poetessa bollata come «reazionaria» dal partito.
La stessa Olga è stata miracolosamente rilasciata dal carcere, dopo aver perso il bambino che aspettava: «Mi hanno strappato l’anima, rovistandovi dentro con le loro fetide dita, e dopo averla oltraggiata, insudiciata e ricacciata dentro, ora mi dicono “Vivi!”». Da fervente comunista che aveva esordito a 14 anni con una poesia sulla morte di Lenin, passa all’odio per il regime e per Stalin, e vive nel terrore dell’arresto, che paradossalmente viene alleviato dalla convivenza quotidiana con la morte. Decide di rientrare a Leningrado, «a morire», ma anche a vivere, al suo nuovo amore, e al martirio della sua città, a descrivere i bambini con «le mani scheletriche», lo stridio sul ghiaccio delle slitte che portano i cadaveri al cimitero, gli uomini e le donne che continuano a lavorare e a sperare nonostante tutto: «La paura della morte è scomparsa».

La Stampa 12.11.13
E Shostakovich fece capire ai tedeschi che avevano perso
di A.Z.


Dmitry Shostakovich comincia a scrivere la sua Settima sinfonia prima della guerra, e diverse testimonianze indicano che la voleva dedicare alle vittime del terrore staliniano. Ma il giorno in cui su Leningrado cadono le prime bombe, il 2 settembre 1941, riprende il lavoro dedicandolo alla guerra, e alla sua città che sei giorni dopo verrà cinta nell’assedio per tre anni. Un mese dopo il compositore viene fatto sfollare e completa l’opera dedicata al martirio dei suoi concittadini. La prima è a Kuibyshev il 5 marzo 1942, ma la vera sfida è portarla a Leningrado.
Olga Berggol’c durante un soggiorno a Mosca racconta a Shostakovich la tragedia e lo supplica di far suonare la Settima già ribattezzata La sinfonia di Leningrado nella seconda capitale. Lo spartito viene fatto arrivare con un aereo speciale e per colmare le lacune dell’orchestra erano rimasti solo 15 musicisti, gli altri erano morti di fame vengono reclutati i militari dal fronte. Il concerto viene fissato per il 9 agosto 1942, la data che Hitler aveva fissato per festeggiare la caduta di Leningrado all’hotel Astoria.
Mentre i musicisti fanno le ultime prove, l’Armata Rossa lancia un’operazione di artiglieria per far tacere, almeno per qualche ora, i cannoni del nemico. La musica viene trasmessa alla radio e, attraverso gli altoparlanti, in tutta la città, fino alle linee naziste, per fargli sentire che la città non era ancora morta. Anni dopo, due tedeschi confesseranno al direttore d’orchestra Karl Eliasberg di aver ascoltato la Settima dalle trincee: «Quel giorno abbiamo capito di aver perso».

“Compagni, nel cerchio di fuoco”
Stridono sul Nevskij i pattini, stridono
su ridicoli slittini infantili,
trasportano acqua in pentole azzurre,
legna e masserizie, morti e malati...
Così da dicembre la gente della città erra
per lunghe verste, in una fitta nebbia oscura,
nel folto di ciechi, gelidi palazzi
in cerca di un angolo caldo.
Così una donna conduce il marito chissà dove.
Una grigia maschera sul volto,
in mano una latta, la zuppa per la cena...
Fischiano le granate, il gelo infuria...
«Compagni, siamo nel cerchio di fuoco!».
E una ragazza col viso coperto di brina,
serra ostinata la livida bocca,
un corpo avvolto nella coperta
trasporta al cimitero Ochtinskoe.
Lo trascina, barcollando – almeno tirare fino a [stasera...
I suoi occhi immobili fissano il buio.
Giù il berretto, cittadino!
Un leningradese trasportano, caduto al suo posto in battaglia.

Olga Berggol’c
Da Diario di febbraio, trad. Nadia Cicognini, ed. Marsilio

Un’immagine di Leningrado nel 1942, con un manifesto che mobilita i cittadini alla difesa contro l’attacco nazista. L’assedio durò dall’8 settembre 1941 al 27 gennaio 1944, con oltre 700 mila morti

La Stampa 12.11.13
Dal Principe al Cavaliere la menzogna come arte
A 500 anni dal capolavoro di Machiavelli: la bugia sistematica è una risorsa della politica o un sigillo identitario degli italiani?
di Franco Cardini


Si intitola La bugia. Un’arte italiana: imbrogli privati, menzogne politiche l’almanacco Guanda 2013, a cura di Ranieri Polese (pp. 168, € 28). Qui un ampio estratto del contributo di Franco Cardini, a commento del capitolo 18 del Principe, in cui Machiavelli spiega che un Principe è spesso obbligato, «per mantenere lo Stato» a «operare contro alla umanità, contro alla carità, contro alla religione». Deve cioè «saper entrare nel male». L’apparenza dev’essere ben diversa: occorre che appaia «a vederlo e udirlo, tutto pietà, tutto integrità, tutto umanità, tutto religione». Detto che «ognuno vede quel che tu pari; pochi sentono quel che tu sei», «nelle azioni di tutti gli uomini», e soprattutto dei Principi, «si guarda al fine».

A ben vedere, quel che il Segretario fiorentino intende qui dire è che la menzogna, ammantata di pietà, integrità, umanità e religione, è ammissibile quale strumento di governo nella misura – e nei casi – in cui si presenta come indispensabile; se la dissimulazione è ben orchestrata, il «vulgo» (e, aggiunge, «nel mondo non è se non vulgo») non sarà in grado di smascherarla. Questo tuttavia a condizione che il principe sia in grado di «mantenere lo Stato». Machiavelli invita cioè a usare qualunque mezzo per il raggiungimento dello scopo: ma tale scopo è molto preciso, è quello del governo dei sudditi e del mantenimento in forza dello Stato. Solo un plurisecolare equivoco ha consentito che si sia tanto parlato del carattere «amorale» – se non «immorale» – del pensiero machiavelliano, distorcendolo appunto nel significato di «machiavellico». Niccolò è uno degli anelli della catena che, avviata nei secoli XII e XIII dal pensiero scolastico (Pietro Abelardo e Tommaso d’Aquino), si è sviluppata attraverso Umanesimo e Rinascimento: al pari di quel che gli scolastici proponevano per la filosofia, Leon Battista Alberti per l’architettura, Luca Pacioli per la matematica e più tardi Galileo per la scienza, il Machiavelli cerca le leggi fondanti della politica libere dall’ipoteca trascendente della fede e della teologia. Quel che egli vuole esprimere attraverso l’analisi degli esempi tratti dalla storia antica ma anche recente e recentissima (da Alessandro e Cesare a Castruccio Castracani e Cesare Borgia) è la ricerca delle occulte e immutabili regole che indirizzano l’agire umano nella prospettiva della formulazione di una storia che sia comprensibile e utilizzabile come se si trattasse di una scienza esatta.
[...] Costretto a tenersi lontano dalla vita politica, scrisse, quasi a titolo autoconsolatorio, lui che di qualunque potere era privo, un trattato su come lo si potesse conquistare e mantenere per sempre: e nel 1516, nella speranza che ciò lo avrebbe aiutato a rientrare nelle grazie della dinastia al governo, lo dedicò a Lorenzo figlio di Piero, quindi nipote del Magnifico, che lo zio Giovanni – diventato papa Leone X – aveva investito del ducato di Urbino. Lorenzo era allora ventiquattrenne, e sarebbe del resto morto tre anni dopo senza aver dato particolari prove di sé: i Medici non dettero segno di curarsi affatto dell’oscuro intellettuale che gli aveva dedicato quell’opuscolo, che sarebbe rimasto in disparte fino alla morte sopravvenuta nel 1527. Splendido teorico della politica, si era sempre barcamenato male nelle quotidiane esigenze.
La parabola di Niccolò Machiavelli può essere utilizzata per comprendere il destino ultimo dell’intera compagine culturale degli intellettuali umanisti, che avevano confidato nelle infinite possibilità date loro dallo studio degli antichi, nell’esser «moderni» contro la media tempestas dei secoli che li avevano preceduti, mentre si ritrovarono in un mondo dilaniato dalle guerre che né loro, né i signori al servizio dei quali stavano o avrebbero voluto stare, erano in grado di controllare.
Ai primi del Cinquecento, la crisi di un’Europa sconvolta dai conflitti si unì infatti all’esplosione di un problema religioso latente da tempo. La fede nella guida degli antichi che aveva illuminato l’esperienza culturale degli umanisti poteva ormai sembrare per molti versi morta e sepolta; stritolata nella repressione convergente della Riforma e della Controriforma, condannata a sembrare un gioco d’intellettuali dinanzi alle sanguinose guerre di religione. Da questo contesto le fragili realtà statuali italiane, all’interno delle quali la cultura umanistico-rinacimentale aveva raggiunto il suo apice,
uscirono perdenti, incapaci di reggere il confronto con le monarchie assolute che si andavano rafforzando in Europa.
Non meraviglia quindi che la virile forza sottesa al suggerimento, dato dal Machiavelli ai potenti del suo tempo, di essere «lioni» e «golpi» al tempo stesso, si perdesse in un paese dal quale le élite fuggivano – si dimentica troppo spesso che fra Cinque e Settecento la penisola italica sarà anche restata in balìa delle «preponderanze straniere», ma i principali artisti, poeti, letterati, musicisti, architetti e perfino comandanti militari d’Europa erano tutti italiani – e nel quale tuttavia il «vulgo» non poteva che adattarsi alla malinconica filosofia del «Francia e Spagna purché se magna» e del «quando soffia il vento, fatti canna». La parabola degli outsider che cercarono una strada diversa – come quel Masaniello che pare anticipare certi aspetti della «carriera» di Beppe Grillo – è coerente con quella d’una filosofia che dai caratteri leonino-volpeschi del Machiavelli era passata all’arte della simulazione e della dissimulazione «onesta» teorizzata nella prima metà del Seicento dal napoletano Torquato Accetto e alle peripezie del «bugiardo» che Carlo Goldoni aveva messo in scena nel 1750 sulle orme di Corneille e di Ruiz de Alarcón.
La Rivoluzione francese giunta nella penisola sulle baionette d’Oltralpe, il Risorgimento organizzato tra corti e cancellerie e solo debolmente riflesso in un’opinione pubblica nel complesso ignorante e indifferente, il trasformismo avviato dai «gattopardi» presentati da Tomasi di Lampedusa («Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi») e ben testimoniato dalla ricerca di un unanimismo che attraverso il giolittismo, l’ammucchiata mussoliniana dal 1925 in poi, quindi esperienze come la lunga gerontocrazia democristiana, l’avventura craxiana e l’imprenditorial-istrionismo berlusconiano, non hanno fino a oggi se non confermato la lunga attitudine italiana al conformismo di superficie e all’arte di arrangiarsi, salvo trovare – e questo va detto – inaspettate risorse ed energie nei momenti di crisi. Ma basta tutto ciò per individuare deterministicamente uno dei «caratteri originali» dell’identità italiana nel sistematico ricorso alla menzogna come risorsa utilitaristica? E per invocare una «paternità machiavelliana» a tale risorsa, ignorando che la lezione del Segretario fiorentino aveva un carattere etico strategico diretto ai governanti anziché ai governati, ai protagonisti della storia anziché a quanti erano e restano invece abituati a subirla?

Corriere 12.11.13
La bellezza sarà il motore del riscatto
Siamo il Paese che investe meno in cultura. Berlino accoglie più turisti di Roma
di Michele Ainis


La bellezza salverà il mondo, diceva Dostoevskij. Ma per riuscirci ha bisogno d’uno sguardo che la illumini: il mito di Venere non avrebbe potuto attecchire in un mondo di ciechi. Vittorio Sgarbi possiede questo sguardo, questa capacità di distinguere il bello. Per conoscere è necessario infatti, e innanzitutto, ri-conoscere; ogni conoscenza muove da un riconoscimento, dalla restituzione della propria dignità specifica a una cosa, un luogo, una prassi, un’idea.
Quanto al bello, non è affatto vero che alberghi unicamente nella Pietà di Michelangelo o nella Nona di Beethoven. C’è bellezza nelle vecchine ossute di cui parlava Baudelaire (Les petites vieilles ), ce n’è altrettanta in quel taglio di luce che si rifrange contro il tuo balcone a una cert’ora del tramonto. E c’è un tesoro nascosto, o comunque ignorato, nelle periferie del Belpaese. Come gli affreschi dei fratelli Salimbeni nell’oratorio di San Giovanni (XV secolo), a San Severino Marche; o come la cripta della cattedrale di Anagni (XI secolo). Le pagine di Sgarbi ci accompagnano perciò in un viaggio, in un’esplorazione. Ci raccontano una ricchezza della quale non sospettavamo l’esistenza. O meglio: sappiamo dei Fori imperiali, della Torre di Pisa, dei templi di Agrigento. Sappiamo che l’Italia (con 49 siti riconosciuti dall’Unesco, alla data del 2013) è in testa alla classifica che misura il patrimonio culturale mondiale. Ma in realtà tutto il nostro territorio è punteggiato da tesori storici, artistici, paesistici. E noi ci camminiamo sopra ogni giorno, per lo più senza sapere dove posiamo i piedi.
Domanda: e lo Stato italiano, quanto ne sa delle bellezze italiane? Ha la capacità di riconoscerle, e quindi di farle conoscere? (…) Il censimento dei beni culturali rimane un’incompiuta, e non è un dettaglio irrilevante. Non a caso nel codice Urbani del 2004 — il testo normativo che disciplina tuttora la materia — la catalogazione precede ogni altra attività spesa per tutelare il patrimonio artistico. E a sua volta la tutela esprime il primo obbligo che la Costituzione assegna al nostro Stato; gli altri due si chiamano valorizzazione e promozione. Però se manca la tutela, se i cornicioni di Pompei ti cadono addosso sulla testa, avrai ben poco da valorizzare. Ecco, Pompei. Dopo il crollo della Schola Armaturarum, nel novembre 2010, è divenuta l’emblema d’un fallimento nazionale. Tanto che tre anni dopo (29 giugno 2013) l’Unesco ci ha dato un ultimatum: o provvedete a un minimo di manutenzione, o la togliamo dai patrimoni dell’umanità.
Sennonché è impossibile fare i compiti a casa, quando non hai nemmeno la carta su cui scriverli. Diamo uno sguardo ai numeri, sono più eloquenti di ogni parola. In Italia la spesa pubblica destinata alla cultura vale l’1,1 per cento del Pil, secondo una rilevazione Eurostat diffusa nell’aprile 2013. Siamo quindi i più avari d’Europa, più ancora della Grecia, dove mancano persino farmaci e siringhe negli ospedali; mentre il dato medio UE è esattamente doppio (2,2 per cento) rispetto a quello italiano. (…) Morale della favola: abbiamo rotto la cinghia, a forza di tirarla. E in tutto questo la crisi economica c’entra fino a un certo punto. C’entra di più un’idea che in Italia conta schiere di seguaci. Quella scolpita con parole spicce da Giulio Tremonti (all’epoca ministro dell’Economia) il 14 ottobre 2010: «Con la cultura non si mangia». Invece ci si mangia eccome, quando i governi sanno apparecchiare la tavola. Ed è vero casomai l’inverso: affamando la cultura, s’affama un Paese intero. Ne è prova la perdita d’attrattiva dell’Italia in questi anni di tagli forsennati, con danni in primo luogo all’industria del turismo. Secondo il Country Brand Index 2013, la classifica della reputazione di 118 Paesi stilata dall’agenzia FutureBrand, nel 2012 il «marchio Italia» è precipitato dal decimo al quindicesimo posto. Di conseguenza Roma viene surclassata da Berlino, che nel dopoguerra era ridotta a un ammasso di macerie, e che non può certo offrire ai turisti il Colosseo. (…)
E la valorizzazione? Partiamo innanzitutto dal concetto. Valorizzare significa — letteralmente — riconoscere un valore, promuovendone il giusto apprezzamento e mettendone a frutto le potenzialità. Rispetto ai beni culturali, significa pertanto assicurarne la fruizione collettiva, renderli accessibili, lustrarli, esporli, raccontarli. Per quale ragione? Perché la cultura è strumento di riscatto, d’emancipazione. Senza cultura siamo sudditi, non cittadini. È questo il mandato che i costituenti affidarono alle nostre istituzioni, scrivendo l’art. 9 della Carta; ed è questa la ragione che rende ogni bene culturale — come diceva Massimo Severo Giannini — per definizione pubblico, ancorché di proprietà privata. Altrimenti non si spiegherebbe il regime di vincoli e gravami che trasforma il possesso dei beni culturali — come pure è stato detto — in «una disgrazia costituzionalmente sancita». Insomma ogni tesoro artistico, ogni reperto storico, ogni lascito significativo delle generazioni che ci hanno preceduto è per vocazione destinato a tutti, e tutti devono fruirne senza ostacoli.
Se però abbassiamo lo sguardo sulla terra, se lo volgiamo dal paradiso dei principi costituzionali all’inferno del nostro vissuto quotidiano, il paesaggio cambia aspetto. C’è il valore, non c’è la valorizzazione. (…) Colpa degli uomini, ma anche delle leggi. D’altronde sono gli uomini a scrivere le leggi. E gli uomini politici italiani, esattamente un secolo fa, scrissero il decreto 30 gennaio 1913, n. 363. Vi si legge che i soprintendenti e i direttori dei musei possono effettuare acquisti sul mercato, però assumendosene la responsabilità contabile e fino a un importo massimo stabilito dal medesimo decreto. Quale? Mille lire, o eccezionalmente duemila se il ministero lo autorizzi. Oggi equivale a un euro, ma gli uomini politici del terzo millennio non hanno mai trovato il tempo d’aggiornare quella cifra stabilita dai loro bisnonni: il codice Urbani (art. 130) richiama espressamente il decreto regio del 1913, senza disporre un meccanismo di rivalutazione. Insomma: siamo incapaci di valorizzare il nostro patrimonio culturale, ma la svalutazione, quella sì, sappiamo come farla.

l’Unità 12.11.13
I crolli di Pompei. Storia di uno sfascio
Il nodo ora è la nomina di un direttore in grado di rimettere in sesto l’area
di Luca Dal Frà


Un manager o un tecnico? Dietro i minuetti istituzionali ci sono soprattutto i 105 milioni dell’Ue per i quali sarebbe in corso una battaglia di potere, dove si fronteggiano non solo politica e impresa

RUMORS, RUMOR DI SCIABOLE, MANOVRE RETROSCENICHE SI ADDENSANO SU POMPEI, CELEBRE NEL MONDO PIÙ CHE PER LA SUA BELLEZZA, PER L’INCURIA E IL DILETTANTISMO NELLE ITALICHE POLITICHE CULTURALI, un sito archeologico che vive una ennesima stagione ingloriosa, mentre continuano i crolli. L’ultimo è beffardamente avvenuto proprio su quella via dell’Abbondanza che tutti sanno essere maggiormente a rischio. Un crollo fortunatamente non poderoso, ma poderosamente amplificato dai media, per tirare la volata alla nomina di un direttore a Pompei figura prevista dal decreto Valore cultura -, per rilanciare una situazione in pesante stallo da due anni: a contendersi la poltrona sarebbero Fabrizio Magani e Giuseppe Scognamiglio.
Primo e probabilmente unico caso di un funzionario del Ministero degli Esteri distaccato presso una banca, Scognamiglio è stato consulente al Commercio con l’Estero, responsabile delle politiche di sostegno all’internazionalizzazione del sistema economico italiano, è nei consigli direttivi più vari, dall’Abi a Save the children, oltre che promotore della camera di commercio italo-turca e presidente della società editoriale della banca dove è dirigente. E altro ancora, però non s’è mai occupato di cultura, e godrebbe dell’appoggio del sottosegretario alla presidenza del Consiglio Patroni Griffi e, a quanto pare, dello stesso presidente Enrico Letta.
Magani è invece un ottimo storico dell’arte in forza al Ministero per i Beni e le Attività Culturali. A circa quattro anni dal terremoto di l’Aquila, dopo che la gestione commissariale e della Protezione civile pur potendo agire in deroga alla normativa non aveva iniziato alcuna ricostruzione, Magani è divenuto direttore regionale per l’Abruzzo e in breve tempo ha avviato molti cantieri, attraverso i regolari percorsi di legge, con precisi cronoprogrammi su cui chiedergli conto, gestiti con trasparenza sul sito ufficiale della sua direzione. Non è certo l’unico funzionario tecnico-scientifico in grado di far marciare la macchina dello Stato meglio di commissari e supermanager: ad appoggiarlo sarebbe il ministro competente Massimo Bray.
I media danno l’immagine dello scontro, oramai annoso, che in questo Paese vede opposti tecnici contro manager per la direzione di entità culturali, ma la cosa convince poco. Perché il profilo di Scognamiglio non è di un manager ma, nella migliore delle ipotesi, di un diplomatico al servizio delle banche, magari ottimo mediatore virtuoso nell’arte del compromesso, nella peggiore delle ipotesi di un lobbista. Il che non significa sia una delle due cose, ma la dice lunga su chi lo sostiene in quanto manager, mentre Magani non è un archeologo e allora perché spostarlo, rischiando di non risolvere i problemi di Pompei e riacutizzare quelli de L’Aquila.
Occorre andare oltre la querelle dei nomi per capire quella che oramai appare la più possente rogna della storia dell’archeologia, cioè Pompei e tutti i suoi guai. Siamo nel 2011, le casse svuotate dal supermanager della protezione civile Marcello Fiori per inutili lavori a dimostrarlo è anche una relazione della Corte dei Conti -, dopo i crolli quasi quotidiani che rimbalzavano sulla stampa come palle di fucile, a Pompei sembra consumarsi la sconfitta definitiva dei commissariamenti e dei supermanager culturali. Sul sito cala però una inquietante immobilità. In quel momento si comincia a parlare concretamente di 105 milioni di euro della Unione Europea (UE) da destinare a Pompei, un iter accelerato dall’allora ministro per la Coesione Territoriale, Raffaele Fitto. Di lì a poco alla Soprintendenza di Pompei viene affiancata Invitalia, con il compito di seguire gli aspetti amministrativi: è un nuovo semi-commissariamento, presentato come salvifico ma rivelatosi al di sotto delle aspettative, tanto che quasi nulla si muove.
Entra in scena Giancarlo Galan come Ministro della cultura: il suo famigerato Decreto salva Pompei, in realtà svuota ulteriormente le casse della Soprintendenza senza tuttavia intaccare i fondi Ue che non potevano essere distratti -, e scardina una parte della tutela intorno all’area archeologica, ipotizzando la creazione di edifici per il turismo da costruire in deroga alla normativa. Scende subito in campo una non meglio precisata cordata di imprenditori campani, che trova sponda politica in Scilipoti, e si mette a disposizione. Attenzione, non per dare danaro a Pompei, ma prenderne: realizzando quelle strutture che il decreto prevederebbe con soldi non loro ma pubblici (forse i 105 mln della Ue?).
Nello stesso periodo un consorzio di aziende francesi, queste sì pronte a dare di tasca loro decine di milioni di euro per ulteriori restauri sul sito vesuviano, si è dileguato nel nulla, e vagli a dar torto visto quanto accadeva altro che partecipazione dei privati, quelli che davvero vogliono dar soldi li facciamo scappare.
Entra in scena il Governo Monti, nel 2012 nasce il Grande Progetto Pompei (GPP) da realizzare con i 105 mln Ue, una gioiosa macchina da guerra con dentro 4 ministeri, la presidenza del Consiglio, sempre Invitalia e la prefettura antimafia a vegliare sui bandi perché, si disse, quelli di Pompei non dovevano essere inquinati dalla camorra, quasi gli altri bandi godessero invece di una franchigia.
Il piano, da un punto di vista archeologico curato dal Segretariato generale del Mibac, sbandiera una mezza dozzina di importanti interventi, per lo più risalenti a una decina di anni prima, all’epoca della soprintendenza di Pier Giovanni Guzzo, e mai realizzati nel successivo periodo della spendarella commissariale. È però un progetto culturalmente non ineccepibile: Pompei non abbisogna tanto e solo di progetti speciali ma, come dimostrano i crolli recenti, ha soprattutto urgenza, si sottolinea urgenza, di triviale manutenzione, che sarebbe ordinaria in un sito archeologico ma non si riesce a fare per la mancanza di personale specializzato. Difficile poi sfuggire all’impressione che rispetto all’ordinario i piani faraonici siano ben spendibili a livello di immagine.
Parola d’ordine del GPP è comunque «sinergie», termine che ama essere usato nelle conferenze stampa dal tempo dei socialisti craxiani che lo nobilitarono, ma fin da allora si traduce spesso o in compromessi talvolta consociativi, oppure in una macchina burocratica immobile. Forse prevedibilmente e, ahimè, anche previsto, a Pompei si verifica la seconda ipotesi: lo stallo continua.
Estate 2013, un nuovo rapporto Unesco al calor bianco minaccia velatamente di togliere il patrocinio al sito, mentre si fa reale il rischio di perdere i 105 mln UeE per scadenza termini. Si prova a correre ai ripari con il decreto Valore cultura, dove si torna all’idea di un plenipotenziario, un direttore con ampie deroghe che tanto assomiglia a un commissario straordinario. In sede parlamentare al momento della conversione in legge è aggiunto un vicedirettore, figura di non chiara funzione burocratica, dunque probabile omaggio alle larghe intese.
Oltre le buone intenzioni di tutti, il solo elenco di queste iniziative, percorse da un certo nervosismo normativo e forti incertezze politico-culturali, sembra convergere in un punto. Sorge lo spontaneo dubbio che ancora una volta il problema non sia Pompei ma i 105 mln dell’Ue, per i quali sarebbe in corso uno scontro di potere. Certo sommerso ma senza esclusione di colpi e dove si fronteggiano politica, impresa, clientelismi, allegre cordate e su cui pesa anche l’ombra della criminalità organizzata. Forse in questa luce si spiegano le titubanze, le pressioni, i minuetti istituzionali e i vestalici furori di questi giorni intorno alla nomina di un direttore per Pompei, che si troverà a dover fare in fretta e a rivedere profondamente il piano stilato due anni fa, già allora inadeguato.

Repubblica 12.11.13
Bellezza e politica
Jaar: “L’arte cambia il mondo una persona alla volta”
Intervista al maestro cileno mentre la Fondazione Merz di Torino gli dedica la grande mostra “Abbiamo amato tanto la rivoluzione”
di Gregorio Botta


TORINO «Abbiamo amato tanto la rivoluzione» dice una scritta al neon nell’enorme sala della Fondazione Merz e la frase si riflette sullo spesso tappeto di vetro frantumato che copre l’intero pavimento: 150 tonnellate di schegge, per la precisione. Il visitatore le sente scricchiolare sotto i piedi come una presenza inquietante. Sta camminando sul suo passato, sui sogni infranti di una generazione che voleva cambiare il mondo. Quanto rimpianto, quanta nostalgia. «Sì – dice Alfredo Jaar – ma quanta possibilità di rinascere. Il vetro è un materiale che si ricicla, può avere un’altra vita, e un’altra e un’altra ancora». Un suono stridulo si diffonde nella sala: proviene da un video girato nel 1981, nel Cile di Pinochet. È lo stesso artista che tenta di suonare un clarinetto e non sa come. Note sgraziate, ma necessarie. «Sotto la dittatura non si può parlare chiaro, ma bisogna comunque tentare di far sentire una voce». Il piffero della rivoluzione suona come può, con il pessimismo della ragione e l’ottimismo della volontà di gramsciana memoria. E infatti il volto di Gramsci – che con Pasolini è uno dei numi tutelari dell’artista – campeggia, moltiplicato in dodici disegni. «Ne sono ossessionato: appena ho del tempo libero, lo disegno».
Se c’è un artista politico al mondo, questo è Alfredo Jaar, che ha appena inaugurato la sua mostra (a cura di Claudia Gioia) a Torino. Coccolato dalla critica d’arte, esposto ovunque, (ha firmato più di 60 opere pubbliche in tutto il mondo) invitato ad ogni Biennale importante (da Documenta all’ultima Venezia, dove ha esposto un poeticissimo lavoro nel padiglione cileno) è sicuramente un caposcuola di quella wave estetica che unisce arte e impegno, poesia e militanza. «Io sono nato 57 anni fa in Cile - spiega - ho visto il golpe contro Allende: per fare arte ho dovuto subito imparare a parlare poeticamente tra le righe, a parlare senza parlare. Capisce? Era l’arte della resistenza. Io avevo a che fare con la censura. Per me l’arte è stata politica sin dal primo momento».
Fino a farla scappare dal Cile.
«La dittatura mi soffocava, dovevo fuggire. Ma mio padre mi convinse a laurearmi in architettura prima di partire. Così quando arrivai a New York nell’82, per cinque anni mi mantenni lavorandocome architetto. Ma nel frattempo cercavo di capire il mondo dell’arte americano: gallerie, musei, artisti. Tutto, insomma. Era molto affascinante, ma ho scoperto due cose fondamentali. La prima è che l’America era molto provinciale».
Provinciale? Erano gli anni ’80, Manhattan era la capitale culturale del globo, l’ombelico del mondo.
«Macché. Si parlava solo di New York, di Stati Uniti, e mai di Asia, Africa, America Latina. Esistevano solo artisti americani e al massimo qualche tedesco. Per gli altri non c’era posto. Io, come sudamericano, non esistevo. La seconda cosa che ho scoperto è che in America neanche il mondo esisteva. C’erano 35 conflitti internazionali, e nessuno neparlava. Per me era inconcepibile: per me la relazione tra conflitto e arte è naturale, è il contesto nel quale viviamo».
Però l’America le ha dato anche la grande occasione della sua vita.
«Vero. Nell’86 presi in affitto tutti gli spazi pubblicitari di una stazione della metropolitana di Spring Street, vicina a Wall Street, affissi grandi poster con le foto che avevo scattato nelle miniere d’oro di Serra Pelada, in Brasile. Erano immagini di un inferno dantesco: uomini seminudi, coperti di fango che come formiche brulicano nella enorme cava della montagna. A fianco di ciascuna foto c’era una semplice scritta: la quotazione del prezzo dell’oro in una delle Borse del mondo».
Pagò lei un intervento così costoso?
«No, partecipai ad un concorso del Guggenheim per una borsa e a loro piacque il progetto. Così lo finanziarono: e pensi che io non ero nessuno in America, sono stati bravi!... E da lì è cambiata tutta la mia vita. Achille Bonito Oliva mi portò alla Biennale di Venezia, poi mi hanno invitato a Documenta e poi via via in tutto il mondo e ho potuto dedicarmi solamente all’arte. Sono stato il primo sudamericano chiamato a Venezia: per dirle che cos’era il mondo artistico all’epoca».
In effetti quel suo lavoro sull’oro crea uno shock visivo molto forte, mostrando il nesso tra due realtà che noi non siamo abituati a collegare. Da una parte il valore asettico dell’oro, dall’altra il lavoro di uomini reali, la fatica fisica bestiale, le vite individuali spezzate in miniera. Ma a volte nell’arte politica il messaggio è preponderante: se le opere fanno la morale che cosa resta dell’estetica?
«Sì, capisco il rischio. Ma io voglio informare con poesia. Non cerco informazione pura e non cerco poesia pura: ma un equilibrio perfetto tra le due. Perché se l’opera è troppo bella, troppo poetica, allora perde l’informazione. Diventa vuota. Anche se è bellissima, è solo decorazione. Ma se invece è troppo didattica, diventa banale. È una linea molto sottile quella che cerco. A me piace l’arte critica, l’arte che contiene un pensiero».
E infatti lei dice che l’arte è 99% pensare e 1% fare.
«Sì, per me è un modello di vedere e pensare il mondo. Quando devo fare un lavoro, che sia in Ruanda o in Australia, per prima cosa io vado, studio, mi informo, devo capire. Il lavoro nasce dalla realtà che vedo: è il metodo che ho imparato dall’architettura. Infatti io dico che sono un architetto che fa arte, non sono certo un artista da studio, non ho fatto un solo lavoro che è nato dalla mia immaginazione. Per questo dico che tutta l’arte è sempre politica: una concezione del mondo non può essere neutrale».
D’accordo. Però se vuole cambiare il mondo perché non fa politicadirettamente?
«La politica esprime un mondo assolutamente corrotto, senza luce, né speranze, privo di ideali. Trovo più onesto agire nel campo dell’arte e della cultura: un territorio di libertà assoluta che consente di dire tutto ciò che vogliamo e dobbiamo».
Quindi è l’arte a cambiare il mondo?
«Sì, ma lo cambia una persona alla volta: coloro che si sentono toccati dall’opera – se l’opera riesce a toccarli – cambiano, perché entrano in contatto con un modo nuovo di pensare. La cultura crea modelli che lentamente si diffondono. Noi seminiamo, e la pianta cresce poco a poco. Le faccio un esempio: Obama esiste perché la cultura ha creato Obama prima di lui. Uno scrittore ha scritto un libro con un nero alla Casa Bianca, un gruppo di sceneggiatori ne ha fatto una serie televisiva – si ricorda? 24con Kiefer Sutherland – poi è arrivata Hollywood con uno o due film, poi un altro romanzo e poi alla fine un presidente nero è stato eletto davvero. Un sogno, un’utopia di un artista diventa realtà».
Però in fondo lei si rivolge al pubblico dell’arte, quello delle gallerie e dei musei, che è una piccola élite politicamente orientata. E che nella stragrande maggioranza è già d’accordo con quello che lei vuole dire. E poi magari vende a collezionisti ricchissimi che la comprano solo perché è di moda. Allora non diventa inutile il suo lavoro?
«È una questione vera quella del pubblico dell’arte. È vero che sta crescendo e si sta espandendo sempre più, ma è comunque un mondo piccolo e un po’ incestuoso e io mi sento un po’ frustrato a stare solo in quell’ambiente. Per questo dedico solo un terzo del mio tempo alle mostre nelle fondazioni, nei musei, nelle gallerie. Un terzo è dedicato invece all’Accademia – ora insegno ad Harvard – e un terzo ad opere pubbliche, che invece parlano a molta più gente».
Per tutto il tempo della conversazione Jaar ha armeggiato con il computer mostrandomi via via le sue opere. Ce n’è un’ultima che ci tiene a farmi vedere: è un bel padiglione di legno e vetri colorati costruito nel giardino di un museo di Dallas, il Nasher sculpture center. È un cubo perfetto, con una sala vuota al suo interno. Sembra soltanto un luogo destinato al riposo, alla calma, alla meditazione. Ma si intitolaMusica (Ogni cosa che so l’ho imparata il giorno che mio figlio è nato),e la magia è che ogni volta cheun bambino nasce in tre ospedali della città, il suo vagito viene trasmesso nel padiglione. Non sono tre ospedali qualsiasi: uno è dedicato soprattutto ai migranti e agli illegali, il secondo ai neri e il terzo ai più disagiati. «Ma sa che cosa ho chiesto? Che i genitori dei bambini nati ottenessero una tessera di un anno per entrare nel museo. E i loro figli, addirittura, avranno lo stesso diritto per tutta la vita. In sei mesi abbiamo aumentato di 5mila persone il pubblico del museo. Prima erano quasi tutti bianchi, e benestanti. Ora non più. Abbiamo cambiato la demografia del museo. Vede che l’arte, anche se in piccolo, qualcosa riesce a cambiarla. È un’opera molto bella, ma è la più marxista che abbia fatto».

Repubblica 12.11.13
Prenotazioni record per Vermeer a Bologna


BOLOGNA — Prenotazioni record per la mostra che per la prima volta porterà in Italia il capolavoro di Vermeer La ragazza con l’orecchino di perla (nella foto accanto) e che verrà allestita presso Palazzo Fava di Bologna dall’8 febbraio al 25 maggio prossimo. Nel primo giorno di apertura delle prenotazioni all’evento sono arrivate, in solo otto ore, ben 15mila richieste. «Un fatto mai accaduto prima», ha dichiarato Marco Goldin, patron di “Linea d’ombra” che produce l’atteso evento. Recentemente l’opera di Vermeer, custodita al museo Mauritshuis dell’Aia (ora in ristrutturazione), ha compiuto una “tournée” in prestigiose istituzioni in Giappone e negli Stati Uniti (attualmente è in mostra a New York), durante la quale ha richiamato circa due milioni di visitatori.

Corriere 12.11.13
Il libro di Walter Tocci «Sulle orme del gambero. Ragioni e passioni della sinistra»
Pci, 1966: l’errore di non scegliere nel duello tra Ingrao e Amendola
di Paolo Franchi


Un viaggio a ritroso nel tempo, per cercare di individuare le ragioni recenti e antiche di una sconfitta che, a sinistra, è prima di tutto la sconfitta della «generazione fortunata», che ha fatto in tempo a formarsi ai tempi della «grande politica» e poi, caduto il Muro, ha buttato al vento la sua occasione. La generazione, per intenderci, che per quarant’anni ha tenuto il campo, nel Pci, nel Pds, nel Pd: e che adesso non può, o almeno non dovrebbe, esimersi dal dovere di un rendiconto. A uso, se non altro, di chi oggi è ragazzo, o giù di lì.
Ce lo propone, questo viaggio, Walter Tocci, nel libro Sulle orme del gambero (Donzelli), un libro che interessa da vicino anche chi (è il mio caso) ne condivide solo in parte le tesi. Non è mai stato un leader, Tocci, ma la sua parte l’ha fatta, eccome, e continua a farla, da senatore e da segretario del Centro per la riforma dello Stato. I primi passi li ha mossi tra i metalmeccanici della Cisl, a Roma è stato prima un dirigente del Partito comunista nelle periferie, poi amministratore comunale e vicesindaco. Ma senza mai sottrarsi, anzi, a quello che un tempo si chiamava il lavoro culturale (in primo luogo sulle politiche urbane, i temi istituzionali, la scienza). E soprattutto senza mai smettere di interrogarsi, come si conviene a un ingraiano che alla scuola del «venerato maestro» ha appreso a coltivare il dubbio come metodo. Conclusa (malamente) la vicenda del Pci (lui era per il «no»), ha scelto, per usare la famosa espressione di Ingrao, di «restare nel gorgo», giungendo sino ad affidare le sue speranze, negli anni Novanta, all’Ulivo. Poi è andato avanti di delusione in delusione, di amarezza in amarezza, fino al 19 aprile del 2013: uno spartiacque (in questo è impossibile dargli torto), perché quei 101 franchi tiratori del Pd che impallinano Romano Prodi segnalano come la sinistra politica sia giunta «al minimo storico nella capacità di influenza sulla vita nazionale, come mai era accaduto, neppure nei momenti più difficili».
Il viaggio a ritroso dell’autore comincia da qui, e non c’è modo, in queste righe, di ripercorrerne criticamente le tappe. Ma il frangente storico in cui Tocci situa, non senza ardimento intellettuale, l’inizio di una lunga crisi, questo sì, è bene segnalarlo. Bisognerebbe risalire, addirittura, al 1966, a quell’XI congresso del Pci in cui, sostiene Tocci, vennero alla luce due diversi e opposti revisionismi post togliattiani, certo quello di sinistra, sconfitto, di Pietro Ingrao, ma pure, eccome, quello di destra, solo in parte vittorioso, di Giorgio Amendola, la cui eco si avverte ancora, nitidamente, in Giorgio Napolitano. La forma partito del Pci (ma forse, prima ancora, la forma mentis dei duellanti) impedì che prendessero corpo come due ipotesi strategiche alternative, destinate a combattersi o a trovare la via di un’inedita intesa: il partito restò sempre nelle mani di un centro che, per governarlo, si appoggiò ora sulla destra, come negli anni della solidarietà nazionale, ora sulla sinistra, come nell’ultima stagione di Enrico Berlinguer. Una formula che sembrava vincente, e invece condannò il Pci all’entropia, e impedì ai due revisionismi di crescere, dannando la sinistra all’astrattezza e la destra a un realismo destinato sovente a sconfinare nel moderatismo tout court .
La tesi, vale la pena di ripeterlo, è ardita, ma anche affascinante, e meritevole di riflessioni più approfondite. Così come varrebbe la pena di soffermarsi più attentamente su un’evidenza sempre sottaciuta, a lungo impensabile, e da Tocci enunciata con parole impietose: quel divorzio tra sinistra e popolo per cui «le persone più disagiate seguono la destra e guardano con diffidenza se non con disprezzo verso la sinistra, sempre più accasata nella neoborghesia urbana». Tocci prova a ragionarci su con passione fredda, sottraendosi ai luoghi comuni sul populismo e soprattutto restando a modo suo un militante in cerca di un filo che possa legare il passato, il presente e, perché no, il futuro. Si può dissentire da molte delle sue affermazioni. Ma, specie in tempi di politica usa e getta, già questo è un merito non da poco.
Il libro di Walter Tocci «Sulle orme del gambero. Ragioni e passioni della sinistra» è edito da Donzelli (pagine 265, e 18,50)

Corriere 12.11.13
Cent’anni fa in Italia il suffragio quasi universale
risponde Sergio Romano


Non le pare curioso che il centenario della prima elezione della Camera dei deputati a suffragio quasi universale maschile (26 ottobre-2 novembre 1913) sia passata quasi sotto silenzio? Forse si vuole far dimenticare che, voluta e attuata da Giovanni Giolitti di concerto con Vittorio Emanuele III, la riforma, portando gli elettori da 2.900.000 a 8.500.000, provò che l’Italia era matura per la partecipazione democratica e che i collegi uninominali, con eventuale ballottaggio, garantivano la stabilità? Sarei lieto di conoscere il Suo pensiero
Aldo A. Mola

Caro Mola,
della riforma elettorale del 1913 si è parlato recentemente all’Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti in occasione dell’inaugurazione della «Sala Luzzatti» di Palazzo Loredan in cui sono state ordinate la biblioteca e le carte dell’esponente della Destra liberale che fu più volte ministro del Tesoro e presidente del Consiglio dal 31 marzo 1910 al 29 marzo del 1911.
Luigi Luzzatti sapeva che occorreva allargare il suffragio e annunciò nel suo primo discorso che avrebbe proposto la riforma di una legge elettorale precedente, emanata nel 1882, per cui erano elettori soltanto i cittadini maschi che avevano compiuto i 21 anni di età, avevano fatto il biennio gratuito delle scuole elementari statati o erano in grado di pagare una imposta annuale sul reddito pari a lire 19,82.
I tempi erano maturi, ma Luzzatti si trovò alle prese con una matassa particolarmente imbrogliata. I socialisti volevano il suffragio universale, mentre i conservatori e i giolittiani temevano che avrebbe giovato soprattutto alle sinistre. Luzzatti tentò una via di mezzo e propose al Parlamento una legge che presentava due caratteristiche: il suffragio sarebbe stato allargato a tutti coloro che sapevano scrivere almeno qualche parola e il voto sarebbe stato obbligatorio, come già accadeva in altri Stati fra cui Belgio e Svizzera. La proposta sarebbe dovuta piacere a tutti, ma i socialisti si opposero al voto obbligatorio perché temevano, come scrisse Ivanoe Bonomi in un libro apparso dopo la sua morte (La politica italiana dalla breccia di Porta Pia a Vittorio Veneto ), «quella massa apatica e indifferente che, appunto per questa sua indole, fugge le novità e, se è costretta a votare, vota per i conservatori».
Pur concepita con le migliori intenzioni, insomma, la legge proposta da Luzzatti avrebbe favorito i socialisti nelle regioni che erano maggiormente alfabetizzate, ma li avrebbe sfavoriti dove le masse potevano essere più facilmente manipolate dai notabili. Era una ulteriore conferma della dualità dell’Italia e del principio, valido anche ai nostri giorni, secondo cui le leggi che vanno bene per il Nord non vanno necessariamente bene per il Sud. Giolitti tagliò corto, lasciò intendere che l’unica soluzione possibile era il suffragio universale temperato da qualche limitazione (ma senza «voto obbligatorio») e invitò la Camera a votare contro la proposta di legge. Il governo cadde e Giolitti, come era nelle sue intenzioni, tornò al potere. La riforma della legge elettorale fu fatta dal suo governo e dette il diritto di voto a tutti coloro che avevano compiuti i trent’anni, anche se analfabeti, ai ventunenni che avevano i requisiti previsti dalla legge precedente o avevano fatto il servizio militare. Gli italiani che andarono alle urne nel 1913 furono cinque milioni e 100.615, soltanto il 60% degli aventi diritto, ma abbastanza per raddoppiare il numero dei socialisti alla Camera.

Repubblica 12.11.13
La strage impunita
Brescia 28 maggio 1974, “Qui non è successo niente”
Un libro di Benedetta Tobagi racconta l’attentato di Piazza della Loggia, le storie delle vittime, i depistaggi infiniti
di Gad Lerner


Benedetta e zio Manlio. Benedetta e quella data fatidica, il 28 maggio. Forse ora ho capito da dove abbia tratto Benedetta Tobagi — proprio lei, figlia di una vittima del terrorismo — la forza di salire sul palco di piazza Duomo gremita di milanesi alla fine della campagna elettorale del 2011 per difendere il candidato Giuliano Pisapia dalla calunnia del sindaco uscente, Letizia Moratti, che lo aveva accusato di complicità con i brigatisti. In una città ancora lacerata dai rancori e dai misteri ereditati dagli anni di piombo, si levava una voce addolorata, giovane ma matura, che invocava rigore storico contro le strumentalizzazioni propagandistiche. Non le bastava riscuotere pubblica compassione. Aveva già dedicato al feroce delitto politico che il 28 maggio 1980 le aveva strappato il padre, un libro struggente eppure magistrale nella documentazione:
Come mi batte forte il cuore.Ma ora capisco che di quel bisogno di capire, elaborato intorno a una ferita non rimarginabile, Benedetta ha fatto una scelta di vita. Raccogliendo del giornalista Walter Tobagi non solo l’impegno civile ma anche l’inesausto spirito di ricerca: perché mai la vicenda della nostra Repubblica è così tragicamente intrisa di violenza politica?
Non potevo saperlo, ma quando Benedetta parlò in piazza Duomo già si era rinsaldata una relazione profonda fra lei e lo zio acquisito, così ama chiamarlo, zio Manlio. Nel nuovo libro di Benedetta Tobagi, Una stella incoronata di buio. Storia di una strage impunita (Einaudi, pagg. 470, euro 20), è lui che figura come straordinario protagonista: Manlio Milani, l’operaio bresciano che in un altro cupo 28 maggio dell’anno 1974 aveva perduto la moglie Livia. Uccisa dalla bomba scoppiata in piazza della Loggia lo stesso giorno, sei anni prima, dell’omicidio Tobagi.
Benedetta e Manlio si sono conosciuti nel maggio 2007 a una trasmissione dell’Infedele e da allora non si sono lasciati più. Lei ha cominciato a frequentare la sede della Casa della memoria di Brescia della quale Manlio è l’anima, nella sua veste di instancabile presidente dell’Associazione familiari delle vittime. Così, da un intenso rapporto di identificazione e da un passaggio generazionale condiviso nella «luce segreta della perseveranza», è nato il libro: il ritratto di Livia e degli altri amici rimasti vittime dell’attentato si allarga pagina dopo pagina nel contesto della città percorsa da tensioni sociali e scontri ideologici, fino a dare vita a un affresco d’insieme della penisola degli anni Settanta e della strategia della tensione che l’ha insanguinata. Di nuovo, come solo Benedetta Tobagi sa fare, le umane passioni, le speranze, gli amori, i miti culturali, si ricompongono in un impianto storiografico finalmente decifrabile.
Per i molti che, quarant’anni dopo, hanno il diritto di non saperlo, stiamo parlando di otto morti e centodue feriti fra i lavoratori in sciopero convenuti in piazza della Loggia per manifestare contro la recrudescenza degli atti di violenza fascista nella città di Brescia. Una bomba vigliacca, nascosta in un cestino portarifiuti, viene fatta esplodere durante il comizio del sindacalista Franco Castrezzati. C’è un filmato che fa male al cuore ogni volta che lo si rivede. L’eloquio stentoreo di Castrezzati, il botto che lo sovrasta, la nuvola di fumo bianco che si solleva, le urla della folla, di nuovo il sindacalista che invita i compagni a mantenere la calma… Negli anni precedenti vi erano stati diversi attentati sanguinosi sui treni, oltre che la strage di piazza Fontana. Ma quella di Brescia fu la prima volta che una bomba seminò la morte nel mezzo di uno sciopero unitario dei sindacati. Passerà meno di un mese e anche le Brigate Rosse cominceranno a uccidere: due missini in una sede di Padova. Allo stragismo di destra risponde l’omicidio politicodi sinistra. La fotografia di Manlio Milani nel mentre sorregge il capo di Livia che spira, e con l’altro braccio levato pare rivolgersi alla folla, ha la tragicità pittorica di una passione. Ripercorriamo la loro vicenda sentimentale fra la sezione comunista, il circolo culturale, il consultorio dell’Aied dove, vincendo la timidezza, Livia insegna l’uso dei contraccettivi a tante donne bresciane (Adele Faccio dorme a casa loro quando passa da quelle parti). Un amore che minimizza le differenze diclasse: Livia, insegnante, è la prima in famiglia a frequentare l’università; Manlio, operaio, l’ha conosciuta sul treno dei pendolari mentre tornava dalla Casa della Cultura di Milano. Se lui non ha avuto la possibilità di studiare, lei proprio per questo vuole che condividano perfino la stesura della tesi di laurea sulGattopardo.
Attraverso di loro conosciamo Brescia nella sua età del ferro, o meglio del tondino. Una città che nel 1971 vede impegnato nell’industria addirittura il 58 per cento della popolazione. Un padronato di nuovi ricchi compiaciuti della propria grevità, simboleggiato dal self made man Luigi Lucchini, istintivamente ostile alla sinistra e al sindacato. Ma Brescia è anche la città in cui gli operai cattolici gareggiano con quelli della Fiom in coerenza militante antifascista. E dove l’assessore democristiano Luigi Bazoli, la cui moglie Giulietta rimane anch’essa uccisa dalla bomba, decide di accompagnarla al cimitero con la bandiera rossa perché era quella la fede politica di lei. E poi la stessa bandiera rossa verrà esposta da Bazoli nel suo ufficio al Comune. Fra i morti tre donne; cinque insegnanti, tutti impegnati nel sindacato; due operai; un ex partigiano. Solo il servizio d’ordine sindacale potrà garantire, nei giorni seguenti, che la rabbia popolare non vada oltre i fischi e non travolga le autorità (dal capo dello Stato, Giovanni Leone, al premier Mariano Rumor) convenute per i funerali.
Se questa è la Brescia di Manlio Milani, che oggi tutti conoscono e rispettano in città, ce n’è un’altra opaca che Benedetta Tobagi va a rintracciare, aggirandosi con pazienza certosina nel labirinto dei depistaggi e delle testimonianze fasulle imbeccate da un capitano dei carabinieri che avrebbe fatto carriera fino a diventare generale: Francesco Delfino.
I ritratti degli uomini della destra eversiva — dal bellissimo ventunenne Silvio Ferrari morto pochi giorni prima della strage mentre trasportava in scooter dell’esplosivo, all’ex partigiano Carlo Fumagalli, amico di Edgardo Sogno e come lui divenuto anticomunista fino al punto di reclutare i nemici di un tempo — sono un libro nel libro. Vediamo muoversi alle loro spalle la struttura che fa capo ai fascisti di Ordine Nuovo, fuorilegge da un anno ma dotati di una struttura clandestina la cui finalità è dichiaratamente seminare il terrore, preparare un colpo di Stato, debellare il pericolo comunista. Dando per scontato, come teorizza Pino Rauti, che tanto «la terza guerra mondiale è già cominciata».
Questo anticomunismo paranoico è il tessuto connettivo che riunisce segretamente, nella loggia massonica P2 e in altre strutture parallele, i funzionari dei servizi segreti, alti ufficiali dei carabinieri e delle Forze armate, toghe con l’ermellino, ai capi della destra eversiva che traffica con gli esplosivi. Toccante è il racconto dell’inutile viaggio fino in Giappone di Manlio Milani, nel vano tentativo di convincere a tornare in Italia per raccontare la sua verità Delfo Zorzi, dirigente di Ordine Nuovo, divenuto facoltoso imprenditore.
Lo sciame di attentati e di sussulti golpisti che precedono la strage di Brescia impressiona chi oggi lo rilegge in sequenza. Ma perfino una lettera firmata Partito nazionale fascista, e indirizzata alGiornale di Brescia sei giorni prima dell’attentato, preannunciava l’intenzione di commetterlo. Perché non le fu dato il giusto peso dai responsabili della pubblica sicurezza? La latitanza e la connivenza di uomini dello Stato smettono di essere un’insinuazione generica, grazie alla ricerca di Benedetta Tobagi: sono esposte inequivocabilmente nero su bianco. Fino alla penosa sequenza dei processi, funestati da omicidi di pentiti in carcere e dalle morti sospette di potenziali testimoni scomodi. Fino all’umiliante esito delle assoluzioni per insufficienza di prove: Maggi Carlo Maria, Zorzi Delfo, Tramonte Maurizio, Rauti Giuseppe Umberto, Delfino Francesco… La magistratura, oltre trent’anni dopo, getta la spugna.
In piazza della Loggia viene conservato sotto vetro, dal giorno della strage, il manifesto del comitato antifascista con le sigle dei partiti e dei sindacati che convocava la manifestazione. Dopo la sentenza ci hanno appiccicato su un cartello: «In questo luogo il 28 maggio 1974 non èsuccesso niente».

Repubblica 12.11.13
Il Paese delle stragi nascoste sotto il tappeto
Segreti, silenzi e bugie per un delitto politico
di Benedetta Tobagi


L’ITALIA delle stragi mi fa pensare a una famiglia borghese che nasconde segreti innominabili come un abuso, un incesto o altri crimini vergognosi. Se anche il segreto viene alla luce e il velo d’ipocrisia si squarcia per un momento, ben presto lo schermo si ricompatta. Tutti cercano strenuamente di negare, di nascondere, di tacitare, di minimizzare la propria complicità fino all’ultimo istante, e dopo, denudati davanti all’oscena irrefutabile evidenza, si affrettano a coprire il tutto, relegando la tragedia fra i panni sporchi da non lavare in pubblico. La vita deve continuare. Bisogna salvare la famiglia, le apparenze, il buon nome delle istituzioni, la ragion di Stato. Bisogna capire. Era una situazione particolare, c’era la guerra fredda, i colpevoli – chi sono, poi? – agivano nell’interesse superiore della sicurezza nazionale, meglio una manciata di morti casuali che decine di migliaia in una guerra civile. Voltiamo pagina.
In questo meccanismo perverso le vittime innocenti sono condannate a una solitudine infinita.
Il trauma delle stragi impunite, confinato nel silenzio, coltiva un tumore nel corpo della società. Nessuno, beninteso, se non due vecchi estremisti di destra, si permetterebbe mai di dire apertamente che la gente se ne frega di sentir parlare delle bombe. Per carità, con tutti quei morti, pietà cattolica non lo consente. Per depotenziare il trauma, scatta un meccanismo di rimozione più efficace. Si lascia che gli orrori galleggino in una nebbia lattea di indeterminatezza in cui tutto resta astratto, sospeso, sterilizzato. Emerge giusto qualche scoglio, qualche nome, frammenti di cronaca ripetuti come un mantra. Gherardo Colombo, un uomo che sa scegliere le parole con grande cura, nel volume autobiografico Il vizio della memoriaconia una formula perfetta. «Solenni ovvietà», così chiama tutte quelle cose terribili che «si sanno» ma senza conoscerle davvero, ciò che tutti hanno orecchiato prima o poi, magari indignandosi brevemente, ma resta lì, sospeso nel vuoto. Fatti pesanti come macigni, ridotti alla stregua di isole disperse. La traccia dei collegamenti si affievolisce e si perde nel ricordo, fino a che diventano grumi illeggibili cui è difficile, e spiacevole, pensare. Meglio lasciar perdere: tanto, per fortuna, è passato. È lontano. Oppure, è solo l’ennesima prova che è tutto uno schifo e non vale la pena di tornarci su. La storia di ogni strage è complessa, un labirinto pieno di false tracce e vicoli ciechi in cui è facile perdersi (non bisogna lasciarsi sviare dall’immagine addomesticata dei labirinti di siepi ben disegnati che adornano i giardini delle ville aristocratiche: la strage somiglia piuttosto al dedalo originario, dimora del Minotauro, mostro divoratore di innocenti che, una volta gettati dentro, non avevano scampo). È difficile ritesserne le fila. Allora si semplifica. «Strage impunita» è un marchio che funziona. Sui giornali e in Tv, solo le assoluzioni continuano a fare notizia, molto più dell’incriminazione o persino della condanna in extremis di qualche criminale di mezz’età di cui nessuno sa niente. Le stragi impunite sono ridotte da tempo a una litania inoffensiva, «perché Piazza Fontana, Brescia, la stazione di Bologna, l’Italicus, Ustica eccetera, eccetera, eccetera…» cantava Gaber con lapidaria ironia inQualcuno era comunista. Una fiammata d’indignazione e una lacrima. Un luogo e tutt’al più una cifra, il numero dei morti: come le vecchie targhe delle macchine, o le sigle dei taxi, Milano 17, Brescia 8, Bologna 85… Risuonano appelli rituali ormai logori, «abolire il segreto di Stato», «scoprire i mandanti», mentre in questo magma indistinto muore d’asfissia la fiducia dei cittadini verso lo Stato.
Parole, elencazioni, evocazioni. Pochissime immagini. Ecco, alla storia delle stragi impunite manca persino un immaginario a cui appigliarsi per ricominciare a pensare. Non esiste l’equivalente della foto del ragazzo con la P38 in via De Amicis, a Milano, divenuta simbolo degli “anni di piombo”, ed è logico: i colpevoli sono per lo più senza volto. Ma nemmeno il corrispettivo del Moro prigioniero che regge un quotidiano davanti allo stendardo delle Brigate rosse. Le immagini delle stragi sono prive di esseri umani. [...] Il 28 maggio 1974 consegna il proprio racconto ai volti degli uomini. A Brescia non è avvenuta la più grande delle stragi, né la più nota. Ma è diversa dalle altre, per tanti motivi, e lo si capisce già dalle fotografie. «Strage col più alto tasso di politicità», è stato detto: perché la bomba colpì una manifestazione antifascista. Le immagini di piazza della Loggia dopo l’esplosione brulicano di persone. Gente che grida, corre, scappa, piange, resta impietrita. Manifestanti che soccorrono le vittime.
(tratto da Una stella incoronata di buio, in uscita con Einaudi)

IL LIBRO Una stella incoronata di buio,di Benedetta Tobagi (Einaudi, pagg. 480 euro 20)

Repubblica 12.11.13
Per “O Velho do Restelo” mancano 350mila euro. “Io, come un principiante”
Manoel de Oliveira senza produzione a 105 anni il maestro è disoccupato
di Anais Ginori


PARIGI Potrebbe sembrare una delle tante storie di registi che non riescono a iniziare le riprese di un film. La sceneggiatura è pronta da oltre un anno, sono stati scelti tutti gli attori, già fatti i sopralluoghi per le riprese, ma il budget non è ancora completo: mancano 350mila euro. Poco o tanto, dipende. Per Manoel de Oliveira è ormai una questione di tempo. Il regista portoghese a dicembre compirà infatti 105 anni. «Non sono un filosofo ma cerco di diventarlo davanti a tutte le difficoltà che ci sono per produrre questo mio nuovo lavoro», racconta Oliveira in una commovente intervista appena uscita sui Cahiers du Cinéma.
Il film che vuole girare s'intitola O Velho do Restelo (Il vecchietto di Restelo), nome di un personaggio del poema portoghese “I Lusiadi” che nel Cinquecento avvertì sui rischi delle epopee dei grandi navigatori portoghesi ma non fu profeta in patria. “Il vecchietto di Restelo” è diventato da allora, ricorda oggi il regista, un simbolo nazionale del pessimismo. «L'unica cosa che si può rimproverare a questa mia nuova sceneggiatura - continua Oliveira - è che sia pessimista. Ma la Storia, come il nostro presente, è pessimista».
Già qualche mese fa, il regista portoghese era pronto per il primo ciak. Poi però sono mancati i finanziamenti pubblici. Oliveira ce l’ha con il suo paese che ha improvvisamente tagliato i fondi per il cinema. «Il governo portoghese pensa solo al debito pubblico commenta - Ma la crisi non si supera riducendo tutte le spese senza alcun criterio, impedendo alle persone di lavorare». Il regista si sente tornato agli anni del dopoguerra quando, ancora giovane, era difficile produrre le sue prime pellicole. Con alle spalle una sterminata filmografia e tanti riconoscimenti vinti nei Festival, non immaginava di poter tornare a una condizione da “principiante”. «Forse è anche questione di fortuna. Curiosamente siamo solo pedine del destino». Nonostante la sua età avanzata, Oliveira ha una sorprendente energia e determinazione. Ha nel cassetto altre due sceneggiature pronte da girare, una sulle donne nel periodo delle vendemmie e un altro ambientato in Brasile. «Avrei voluto girarli l’anno prossimo, ma ora ovviamente tutto sta slittando». Il suo appello tramite i Cahiers du Cinéma forse sortirà qualche effetto. «Vivo della speranza, non guardo troppo la realtà che mi è spesso contraria. Realizzare questo film sarà come vincere una battaglia: è difficile».