martedì 8 gennaio 2013

Corriere 18.12.12
Perché il divenire è un eterno errore
di Emanuele Severino


«Secondo un principio consolidato della metafisica classica, il divenire richiede una condizione che lo trascende» — scrive Biagio de Giovanni nel suo studio, importante e suggestivo, dedicato a Hegel e Spinoza. Dialogo sul moderno (Guida, pp. 267, 17). Tale principio domina effettivamente sia l'«antico», sia il «moderno»; non però, aggiungo, il pensiero del nostro tempo, per il quale il divenire non richiede altro che se stesso. Il mondo — il finito — non ha bisogno di Dio.
Che Dio sia la condizione del divenire significa che Dio salva il finito. La tesi di de Giovanni è appunto che l'intento di fondo di Spinoza e di Hegel è di salvare il finito. Ed egli, questo intento, lo fa proprio, ma dandogli un timbro nuovo, che insieme, a suo avviso, rende esplicito quanto nei due pensatori rimane invece velato. Semplificando il discorso molto complesso di de Giovanni si può dire che, per lui, il mondo è salvato solo da Dio, ma che il rapporto tra Dio e Mondo produce un radicale spaesamento del pensiero, che non riesce e non può riuscire a sciogliere i problemi prodotti dalla coabitazione di quei due termini. Le difficoltà e le contraddizioni a cui va incontro il rapporto finito-infinito in Hegel e Spinoza non sono quindi imputabili alla limitatezza del loro pensiero, ma sono insuperabili. De Giovanni non presuppone arbitrariamente l'esistenza dell'infinito, non ne progetta nemmeno la fondazione, né la richiede a Spinoza e a Hegel, dove, a suo avviso, Dio è il luogo dove i problemi e le contraddizioni maggiormente si addensano. L'esistenza del Dio è il contenuto di una «fede», è un «paradosso» che però avvolge ogni uomo, «la stessa vita umana».
Sennonché la fede in Dio, dicevo all'inizio, è spinta al tramonto da ciò che chiamo l'«essenza della filosofia del nostro tempo», dove il Tutto resta identificato alla totalità del visibile-finito-diveniente. De Giovanni vede l'unità sottostante all'«antico» e al «moderno» (e si tratta di millenni), ma non intende allargarla, e anzi prende le distanze dalla fede originaria, indicata nei miei scritti, che invece unisce l'intera storia dell'uomo e quindi sta al fondamento sia dell'accettazione sia del rifiuto di Dio. Mi riferisco all'onnipresente fede originaria nel diventar altro delle cose.
Per de Giovanni i miei scritti concepirebbero «il pensiero dell'Occidente come preso in un unico solenne errore, che è un estremo, iperlogico (e a suo modo, certo, geniale) invito a escludere il significato delle differenze», alle quali, peraltro, non si può rinunciare (p. 117). Credo che egli si riferisca qui alle «differenze» intese come differenti modi di errare. Ma nemmeno i miei scritti sono disposti a rinunciare a tali differenze. Solo che esse hanno questo di identico, di essere errori. E avere in comune l'esser errori non cancella i differenti modi dell'errare — come, per i colori, avere in comune l'esser colori non è una monocromia, non cancella il loro differire l'uno dall'altro. La vita umana è il luogo in cui si manifesta ciò che vi è di identico in ogni errore: il suo essersi separato dalla verità, presentandosi come quella fede nel diventar altro delle cose, che, anche nelle sue forme più «innocenti» nuoce, perché esso è lo squartamento dove le cose si strappano da sé stesse, ossia è la radice di ogni violenza. L'Errore è insieme l'Orrore — vado dicendo.
De Giovanni mi rivolge un elogio che mi piacerebbe meritare e di cui lo ringrazio («Sono convinto che la profondità speculativa di Severino sia assai alta e pressoché unica oggi in Europa»), ma aggiunge che «la pedagogia che nasce da questa profondità è muta, perché riduce la dialettica interna alla storia della metafisica alla monocroma ripetizione dell'errore». Chiedo a de Giovanni di indicarmi, per uscire dalla supposta monocromia, da un lato un solo punto, nella storia dell'uomo, dove non si creda nell'esistenza della trasformazione delle cose — almeno di quelle mondane, e dall'altro lato un solo errore che non presupponga questa fede. Poi, se vorrà, potremo discutere il punto decisivo, ossia i motivi per i quali affermo che tale fede, nonostante la sua apparente plausibilità ed «evidenza» è l'Errore più profondo a cui l'uomo è stato destinato (ma dal quale l'Inconscio più profondo dell'uomo è già da sempre libero).

Corriere 8.1.13
«Rivolta legittima» Migranti assolti
I clandestini della rivolta assolti per «legittima difesa»
Il giudice: le condizioni del centro un'offesa alla dignità
di Luigi Ferrarella


«La loro difesa è stata proporzionata all'offesa». Dunque no alla condanna ad un anno e 8 mesi chiesta dal pm per i tre clandestini che diedero vita a una rivolta danneggiando il Cie (Centro di identificazione ed espulsione) di Isola Capo Rizzuto nell'ottobre 2012. Il Tribunale di Crotone ha deciso che il tunisino, l'algerino e il marocchino siano assolti «per legittima difesa»: difendevano il diritto alla dignità e alla libertà.

MILANO — Quasi una settimana sui tetti, lanciando sulla polizia calcinacci e rubinetti, grate e suppellettili: i tre cittadini stranieri irregolarmente soggiornanti in Italia, che dal 9 al 15 ottobre 2012 diedero vita a una rivolta nel «Centro di identificazione ed espulsione» di Isola Capo Rizzuto dove erano amministrativamente trattenuti in attesa di allontanamento, «sono stati costretti a commettere» i reati di danneggiamento e di resistenza a pubblico ufficiale «dalla necessità di difendere i loro diritti (alla dignità umana e alla libertà personale) contro il pericolo attuale di un'offesa ingiusta». E «siccome la loro difesa è stata proporzionata all'offesa», vanno non condannati a 1 anno e 8 mesi di carcere, come chiedeva il pm Francesco Carluccio, ma assolti per «legittima difesa». È questa la motivazione con la quale il Tribunale di Crotone il 12 dicembre scorso ha assolto un tunisino, un algerino e un marocchino difesi dagli avvocati Natale De Meco, Eugenio Naccarato e Giuseppe Malena.
Il giudice Edoardo D'Ambrosio muove dal quadro normativo europeo e basa il suo ragionamento sul fatto che i provvedimenti di trattenimento nel Cie emessi dalla questura di Reggio Calabria fossero «privi di motivazione, e dunque illegittimi alla luce dell'articolo 15 della direttiva n. 115 del 2008, così come interpretato dalla Corte di Giustizia europea», perché «omettevano del tutto l'indicazione delle ragioni specifiche in forza delle quali non era stato possibile adottare una misura coercitiva meno afflittiva del trattenimento presso il Cie».
Nel richiamare poi due sentenze del 2009 della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo che hanno condannato Grecia e Belgio per le pessime condizioni di loro centri di trattenimento, il giudice rimarca nel caso calabrese i «materassi luridi, privi di lenzuola e con coperte altrettanto sporche, lavabi e “bagni alla turca” luridi, asciugamani sporchi, pasti in quantità insufficienti e consumati senza sedie né tavoli» (adesso c'è la mensa). E trae la convinzione che «le strutture del Centro sono al limite della decenza», usando il termine «nell'etimologia di convenienti alla loro destinazione: che è quella di accogliere essere umani. E, si badi, esseri umani in quanto tali, e non in quanto stranieri irregolarmente soggiornanti sul territorio nazionale. Lo standard qualitativo delle condizioni di alloggio non deve essere rapportato a chi magari è abituato a condizioni abitative precarie, ma al cittadino medio, senza distinzione di condizione o di razza».
L'asserita illiceità del trattenimento e «le condizioni lesive della dignità umana» sono «le offese ingiuste» contro le quali gli imputati hanno dunque reagito per «legittima difesa», di cui il giudice ravvisa i tre requisiti. C'era l'«attualità del pericolo», perché il trattenimento nel Centro «restringeva la loro libertà e le condizioni ledevano la loro dignità umana». C'era l'«inevitabilità del pericolo», perché, «quando l'offensore è incarnato da un apparato dello Stato di diritto, gli imputati non possono essere considerati alla stregua di chi affronta una situazione di pericolo prevista ed accettata, dovendosi sempre attendere da uno Stato di diritto non il rischio di una violazione dei propri diritti, ma appunto il rispetto delle regole, e tanto più dei diritti fondamentali del cittadino». E per il giudice c'è stata «proporzionalità tra difesa del diritto ed offesa arrecata», perché «il confronto tra i beni giuridici in conflitto è pacificamente a favore dei beni difesi (dignità umana e libertà personale), rispetto a quelli, offesi, del prestigio, efficienza e patrimonio materiale della pubblica amministrazione».

Repubblica 8.1.13
Bersani: vincerò e sarò premier
di Giovanna Casadio


ROMA — Pierluigi Bersani è convinto: il Pd vincerà le elezioni e lui sarà premier nella futura legislatura. Il segretario del Partito democratico torna a criticare la candidatura di Monti: non è una buona notizia per il Paese. Accordo fatto tra Pdl e Lega per le elezioni nazionali, ma la base del Carroccio protesta: basta con il Cavaliere. Lite tra Maroni e il patron di Arcore sull’ipotesi di Tremonti candidato premier. Nella coalizione guidata da Monti c’è ancora un braccio di ferro per la composizione delle liste.
«Monti dice “o premier o niente”? Io ho meno esigenze... ho fatto di tutto e posso mettermi al servizio di tutto per il bene del paese». Bersani non risparmia stoccate a Monti e ai centristi, alla lista montiana («Legittima, ma non è una buona notizia per l’Italia e poi è sbagliato mettere il proprio nome sul simbolo»), a Casini e a quella corrente di pensiero che sostiene «debba governare chi non prende voti». La democrazia per la verità funziona in un altro modo: «Governa chi prende più voti», e comunque il Pd - prevede il segretario in tv, su La7 a Otto e mezzo - avrà la maggioranza sia alla Camera che al Senato, e continuerà a rivolgersi a altre forze
«fuori dall’alleanza del centrosinistra ». A quei moderati cioè, che fanno oggi fronte con il Professore. Del resto Monti è «un compe-titore, mentre Berlusconi è l’avversario ». Un po’ di chiarezza dovrebbero però farla i montian-centristi, ad esempio «le formazioni che fanno capo a Monti, dove si siedono in Europa, accanto a Berlusconi e Orban?».
Bersani è pronto alla sfida tv con Monti e con Berlusconi: «Li faccio volentieri i confronti, si sa che mi piacciono». Comunque, queste sono ore in cui si preparano le liste, si soppesano le candidature, e anche le parole. Quelle di Vendola sui ricchi da mandare al diavolo non sono il massimo: «Ora non impicchiamolo a una battuta...ma i super ricchi stiano qui e paghino le tasse». Tasse che adesso Monti vuole ridurre mentre, ricorda il leader democratico, fino a venti giorni fa «era impossibile tutto». Nella sede dei Democratici è la giornata più lunga; c’è la stretta finale sulle liste che stamani saranno vagliate dal “comitatone” elettorale e poi in serata avranno il via libera della Direzione nazionale. Liste per «3/4 di eletti con le primarie, tantissimi giovani, la più alta percentuale europea di donne e dove non ci saranno impresentabili»: garantisce
il segretario. Dove ci sarà anche un’attenzione all’area cattolica. Ci sarà più di un nome di area cattolica: annuncia. Accordi non ancora chiusi, ma si parla dello storico Alberto Melloni e del sociologo Mauro Magatti. Il Pd mette a segno anche due colpi che vanno nella direzione di rafforzare il fronte anti montiano, togliendo carte ai centristi. Quindi entrano in lista l’economista Giampaolo Galli, ex direttore di Confindustria, docente di finanza internazionale alla Luiss, un bocconiano, un liberal che critica Monti ; e il numero due della Cisl, Giorgio Santini, molto corteggiato dai centristi (con il quale Fioroni ha fatto da ufficiale di collegamento), e che sarà candidato al Senato nelle file democratiche in Veneto, subito dopo la Puppato. Il puzzle-candidature non è facile da comporre. Oltre a Giorgio Tonini e a Marco Minniti, capilista rispettivamente in Trentino e in Calabria al Senato, entrano i veltroniani Verini, Martella e Causi. Fuori sono Ceccanti, Maran, Vassallo, dati in uscita verso Monti. Renzi ottiene molto: per lui tratta a Roma Luca Lotti. Il “rottamatore” piazza capolista in Piemonte 2, Mino Taricco, votatissimo alle primarie. Nell’elenco dei 17 renziani c’è Yoram Gutgeld, uno degli uomini di punta del suo pool durante la campagna per la premiership. Polemiche sui ripescaggi. Scoppia una bufera sulla candidatura in testa di lista di Ignazio Marino (capolista in Piemonte) nel Lazio. Battaglie dell’ultimo minuto, con lo scoglio-Sicilia da superare; le candidature friulane difficili da comporre; il “caso socialisti” in via di soluzione e quindi senza più liste autonome a indebolire il Pd al Senato.

L’Huffington Post 8.1.13
Elezioni 2013, sondaggio Ipsos-Il Sole 24 Ore

Lombardia e Campania decisive per la vittoria del Centrosinistra al Senato
qui

Il Sole 24 Ore 8.1.13
Lombardia e Campania, duello per il Senato
di Roberto D'Alimonte

qui

Giampaolo Galli, direttore generale dal 2009 al 2012 su indicazione di Emma Marcegaglia: da Confindustria alla lista del Pd

La Stampa 8.1.13
Pd a caccia di facce e idee riformiste
di Federico Geremicca


Giampaolo Galli, direttore generale di Confindustria fino a sei mesi fa; Giorgio Santini, numero due della Cisl di Raffaele Bonanni; Luigi Taranto, segretario generale di Confcommercio; Carlo Dell’Aringa, economista, una vita tra le cattedre dell’Università Cattolica. Sono alcuni dei «candidati illustri» alle elezioni del prossimo febbraio: ma saranno candidati nelle liste di Pier Luigi Bersani, non in quelle di Mario Monti... Può apparire paradossale, naturalmente, fare l’elenco di queste candidature proprio nel giorno in cui dentro il Pd si alzano voci in difesa della ricandidatura di esponenti «liberal» - da Ichino a Morando, da Ceccanti a Ranieri a Tiziano Treu - fuori (per un motivo o per un altro) dalle liste elettorali. E invece di paradossale c’è davvero poco, se solo si pensa al tipo di campagna elettorale che Bersani immagina di aver di fronte ed alla provenienza di un bel pezzo dell’attuale gruppo dirigente del Pd (e cioè, il Partito Comunista Italiano).
Infatti, non poche delle scelte che il leader dei democratici va annunciando in queste ore, ricordano da vicino la politica dei cosiddetti «indipendenti di sinistra» candidati ed eletti, a cavallo tra gli Anni 70, 80 e oltre, nelle liste del Pci. Da Raniero La Valle a Stefano Rodotà, fino a fino a Luigi Spaventa e Guido Rossi, si è sempre trattato di competenze e storie ritenute adatte ad «aprire» il partito a settori della società all’epoca lontani, se non addirittura ostili. Ma mentre vent’anni fa il punto era testimoniare soprattutto dell’«affidabilità democratica» del Pci (attraverso candidature che accreditassero il partito verso l’allora cosiddetta «borghesia illuminata»), oggi la questione è tutt’altra.
Oggi, infatti, la sfida più difficile è con Mario Monti. Anzi, meglio: col «riformismo montiano» e il grande appeal esercitato dal premier verso cancellerie europee e settori importanti del mondo della finanza. Ciò che al Pd è oggi richiesto, insomma (dando per scontata la sua «affidabilità democratica»...) sono garanzie sul terreno delle politiche economiche da seguire, degli impegni europei da rispettare e delle iniziative sul piano della crescita compatibili col risanamento del bilancio. Nelle intenzioni di Bersani, candidature come quelle elencate in avvio dovrebbero costituire la prova che, anche su questo terreno, il Pd è ormai del tutto affidabile: come sono lì a testimoniare - appunto - nomi quali quello dell’ex direttore di Confindustria o di autorevoli economisti di estrazione certo non marxista...
Non è paradossale, insomma, che mentre settori del Pd lamentano (più o meno in buona fede) la liquidazione dell’anima «liberal» del partito, il partito stesso offra un seggio in Parlamento a personalità - se così si può dire ancor più liberal di quelle escluse dalle liste. Il paradosso (la contraddizione) del Pd non è dunque qui, quanto piuttosto - nella scelta originaria dell’alleanza con Nichi Vendola: e non a caso, ancora ieri, è verso questo «patto» che osservatori e leader di altri partiti hanno indirizzato i loro strali polemici.
D’altra parte, il leader di Sel - che ha ovviamente un’area elettorale da presidiare - non lascia passare giorno senza offrire ai suoi avversari politici un motivo di critica e stupore, più o meno genuini. «I super-ricchi devono andare al diavolo», ha affermato ieri (parlando della vicenda Depardieu-Putin): con un lessico ed una predisposizione d’intenti che certo non sarà stata particolarmente apprezzata nemmeno dagli ultimi «candidati illustri» scelti da Bersani.
E’ facile immaginare, allora, che proprio la «coabitazione impossibile» tra Bersani e Vendola (anzi: tra le loro politiche) sarà il punto d’attacco, in campagna elettorale, alla costruenda coalizione di centrosinistra. E’ una contraddizione che Monti ha colto subito invitando Bersani pena, appunto, il non essere credibile - a «tagliare le ali» e mettere il silenziatore ai progetti «non riformisti» cavalcati dalla Cgil, dalla Fiom o da Stefano Fassina (responsabile economico Pd). La risposta di Bersani è stata doppia: da una parte ha fatto sapere che nessuno sarà silenziato, dall’altra ha messo in lista personalità che potrebbero tranquillamente essere in lista con Mario Monti. Una doppia linea se si vuole «strabica», assai rischiosa e forse non facilissima da gestire. Bersani naturalmente lo sa. Ma è proprio così che sembra aver deciso di affrontare una campagna elettorale che tutti o quasi - comunque continuano a dare già per quasi vinta...

il Fatto 8.1.13
Ora anche Bersani scopre gli impresentabili del Pd
“Esamineremo caso per caso”
di Wanda Marra


“La Commissione di Garanzia li esaminerà uno a uno”, promette il segretario in tv: “Abbiamo altri 10 giorni di tempo”. Intanto apre a Monti sul programma e candida l’ex direttore di Confindustria, proprio mentre l’alleato Vendola spedisce “i ricconi all’inferno”

Abbiamo un codice etico ed esiste una legge sull’incandidabilità: esaminemo caso per caso”. Dopo quattro giorni di silenzio Pier Luigi Bersani ieri sera ad Otto e mezzo così risponde a una domanda di Lilli Gruber, che gli pone la questione sollevata dal “Fatto quotidiano”. Cosa intende fare il Pd con gli “impresentabili”, imputati o coinvolti in vario modo in inchieste giudiziarie, che hanno vinto le primarie? Bersani chiarisce che tanto per cominciare si chiederà a ogni candidato di sottoscrivere un auto certificazione in cui ciascuno dica che la sua presentazione alle elezioni è conforme alla legge dello Stato e a quella del Pd. Dopodiché starà alla Commissione di garanzia, presieduta da Luigi Berlinguer (che si è già riunita ieri), esaminare i casi dubbi. Se anche la dead line per votare le candidature è la direzione del partito di oggi pomeriggio, il segretario ha chiarito che la Commissione avrà ancora qualche giorno, fino alla presentazione ufficiale delle liste, per valutare. Dunque, “non ci saranno impresentabili”, ha detto Bersani. Resta da vedere come andrà a finire: molti casi compatibili con la legge sono quanto meno inopportuni a livello politico ed etico. Bisognerà capire fino a che punto i Democratici avranno il coraggio di alzare l’asticella.
Il segretario del Pd ieri mentre andava duramente all’attacco di Monti (la sua lista “non è un bene per l’Italia) ” per l’ennesima volta ha però ribadito di essere disponibile a un accordo di programma dopo le elezioni tra progressisti e moderati. Perché i suoi avversari sono Lega e Berlusconi. “Certo parlerò con Monti”. Si sa come la pensa: il premier lo fa chi vince le elezioni. Anche se ieri se n’è uscito con una prova di disponibilità: “Monti premier o niente? Io sono meno esigente”.
Oggi intanto dovrebbe trovare una quadra la composizione delle liste. Ieri, il Pd ha tirato fuori la “sorpresa” quotidiana: Giampaolo Galli, ex Dg di Confindustria, vicino alla Marcegaglia, e fino a qualche giorno fa in forze a Fermare il Declino, oltre che in lizza per un posto nella lista Monti. Un ultraliberal che alla fine ha scelto di candidarsi con il Pd, “partito solidamente ancorato all’Europa”. Lo stesso che nello scorso marzo sull’articolo 18 alla Cgil che chiedeva di ripristinare il reintegro nel posto di lavoro, rispondeva: “Non va bene”, sarebbe “un sostanziale ritorno allo status quo”. In disaccordo evidente anche con molta parte del Pd e col responsabile Economia, Fassina. Dopo Dell’Aringa, Galli è un altro che va a riempire la casella lasciata libera da Ichino. Dopo di lui “le figurine di Bersani”, come qualcuno comincia a chiamarle, si sono arricchite anche di Giorgio Santini, il numero due della Cisl.
Intanto le trattative sulla composizione delle liste sono frenetiche. Ieri notte al Nazzareno sono andati in processione i segretari regionali, per evitare che i “paracadutati” a livello nazionale sottraggano posti a chi ha vinto le primarie.
FUORI dal listino rimangono tutti i cosiddetti “montiani” del Pd, da Ceccanti a Vassallo a Ranieri, pronti a correre con il Professore. I 17 nomi di Renzi dovrebbero essere arrivati a una quadra: dentro i fiorentini Simona Bonafè, Francesco Bonifazi, Luca Lotti, Laura Cantini, Maria Elena Boschi, il sindaco di Corciano, Nadia Ginetti e il consigliere di Carbonia, Alessandra Tresalli; Ivan Scalfarotto e Cristiana Alicata (attivista per i diritti degli omosessuali) ; l’ex responsabile delle feste democratiche, Paganelli, e poi i rutelliani (in nome evidentemente della provenienza stessa del sindaco di Firenze), Michele Anzaldi, Realacci, Gentiloni. Dentro anche il costituzionalista Francesco Clementi. E nelle ultime ore entrano Roberto Cociancich, commissario internazionale Federazione italiana scout e Ernesto Carbone, pro-diano. Resta fuori Reggi, la testa di sfondamento delle primarie per la leadership, (quello che diede degli “scagnozzi” agli uomini di Bersani). Su di lui c’è stato un veto vero e proprio. Del cerchio magico del segretario dentro Stumpo e Migliavacca e Zoggia, Giuntella, Speranza e Moretti. In bilico Di Traglia, Seghetti e Geloni. Dentro probabilmente anche il direttore dell’Unità, Sardo. E Gotor.

il Fatto 8.1.13
Lettera al segretario: “Non presentare la Brembilla”


La candidatura al Parlamento dell'ex sindaco di Cesano Boscone, ex assessore provinciale e attuale consigliera provinciale, Bruna Brembilla, nelle file del Pd lombardo, sarebbe “compromettente per la credibilità e l'onorabilità del partito”. A scriverlo, in una lettera indirizzata al segretario Bersani, sono il presidente del comitato di esperti antimafia del Comune di Milano, Nando dalla Chiesa, l’assessore comunale al Welfare, Pierfrancesco Majorino, e il presidente della Commissione consiliare antimafia David Gentili. Nel testo, i tre ricordano al segretario Pd come “Bruna Brembilla presenta infatti un profilo particolarmente controindicato: quello di avere, secondo intercettazioni effettuate dai carabinieri, trattato voti e appoggi elettorali con esponenti dei clan calabresi nell’hinterland sud milanese, area purtroppo infestata da forti interessi e gruppi di 'ndrangheta”. Perciò, proseguono, “sarebbe un messaggio assai grave per la vita pubblica candidare chi ha tenuto condotte come quella indicata, anche se (come in questo caso) non penalmente sanzionate”. Non sarebbe infatti “comprensibile perchè al nord il partito candidi alcune figure che si sono distinte per le loro denunce e la quotidiana battaglia contro il potere mafioso, dovendo anche ricorrere discretamente alla protezione dei carabinieri, e contemporaneamente candidi chi dagli stessi carabinieri è stato sorpreso mentre chiedeva e otteneva voti da persone strettamente legate a esponenti di rilievo della 'ndrangheta”, scrivono. “Si tratta a nostro avviso di due modelli di politica incompatibili”.

Repubblica 8.1.13
Il diritto alla politica
di Adriano Prosperi


Posizionarsi, dice Bersani: è una parola. Ma, come accade con le parole nel loro rapporto complicato e difficile con le cose, questa volta la parola fa intravedere il nocciolo duro di una realtà nascosta che tutti ci riguarda. La questione è dove stia la politica e dove stiamo noi rispetto a lei. Lo spazio della politica si è allontanato da quello dove donne e uomini vivono la loro vita fino ad apparire lontano ed estraneo. La politica è stata a lungo un luogo basso dove c’era un protagonista che decideva di scendervi a sistemare le cose, in nome e per conto di tutti. Molti ci hanno creduto e si sono messi a guardare lo spettacolo alle sue televisioni. Oggi ci dicono che è un luogo alto, dove sale chi è chiamato per investitura (di qualcuno che evidentemente sta ancora più in alto). Alto o basso che sia, quel luogo resta fuori dalla nostra veduta e ci chiediamo dove sia finito quello spazio civile dove su di uno stesso piano, quello orizzontale della vita quotidiana, i cittadini tutti potevano incontrare la politica e farvi la loro parte.
Di fatto, man mano che si avvicina l’appuntamento delle elezioni cresce l’impressione di un continuo e progressivo divaricarsi della distanza tra le parole e le cose. È come se le cose nuove fossero abbigliate di vestimenti vecchi, tanto che ci sembrano familiari e non ci accorgiamo della loro novità. Ora, è vero che nel linguaggio corrente affiora la coscienza del mutamento avvenuto e si parla abitualmente di seconda e di terza repubblica. Ma è un singolare vizio italiano quello di mascherare il nuovo sotto l’abito del vecchio: quando il generale Charles De Gaulle volle
rafforzare i poteri del presidente della repubblica francese propose un referendum che ottenne un largo consenso elettorale e da cui nacque una diversa costituzione. Da noi il cambiamento è avvenuto in forme mascherate, sotterranee, attraverso dissimulazioni, furberie e vere e proprie falsificazioni della realtà, senza mai un mutamento delle forme istituzionali e delle regole del gioco.
Fare degli esempi è molto facile: parliamo ad esempio dei partiti, quelli ai quali la Costituzione riconosce il compito di garantire ai cittadini il diritto di «concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale» (art.49). Chi ha una certa età non può dimenticare l’appassionata partecipazione che a partire dal’48 ha portato grandi masse a fare uso effettivo di quel diritto sulla base del programma del partito e caricando il proprio voto di un fortissimo investimento di volontà di cambiamento. Oggi il confronto politico si svolge per lo più al di fuori dei partiti e più o meno esplicitamente contro di essi. Anche laddove resiste la forma partito o ne sussistono le vestigia, quello che conta e a cui si affida l’efficacia del richiamo elettorale è il leader: il suo nome, la sua storia personale, o almeno la sua faccia, i suoi tic individuali. È una conseguenza del ventennio berlusconiano.
Oggi ci prepariamo a un ritorno all’esercizio della sovranità popolare dopo una parentesi di stato d’eccezione. Ma nella realtà gli elettori si trovano davanti a una serie di proposte che hanno il nome e il volto di uomini. Ai due estremi della gamma troviamo Grillo e Monti. Da un lato un leader che disprezza e rifiuta le regole del confronto politico, si dichiara anti-sistema e domina da padrone assoluto persone e cose del movimento che a lui si ispira; dall’altra un leader che si propone con toni e argomenti rispettosi e bene educati, fa leva sulla persuasione razionale, presenta un programma molto ampio ed elaborato e si offre come un servitore del Paese. Ma ambedue hanno in comune il fatto di tirare le fila di un movimento restandone al di sopra e al di fuori.
Il senatore a vita «sale» in una sfera politica dalla quale potrà contemplare le miserie della lotta degli altri contendenti per conquistare fiducia e consenso. L’altezza è la sua collocazione, anche secondo «altissime» opinioni. «Alto e nobile» il suo senso della politica, anzi «il più alto e più nobile» secondo il commento dell’Osservatore Romano: per il quale Monti è destinato a intercettare una «domanda di politica alta». È lui, per il Vaticano, «l’uomo adatto a traghettare l’Italia»: vizio antico quello di coprire i propri interessi coi decreti della Provvidenza. Ma non è certo il caso di dare lezioni di morale e di religione a chi lo fa per mestiere da millenni. Non tocca a noi insegnare alla Chiesa il suo mestiere: ci tocca invece chiederci perché i nostri governanti abbiano dimenticato la Costituzione (che recita “Lo Stato e la Chiesa sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani”) e facciano un uso scorretto del proprio ufficio danneggiando gli interessi dello Stato, cioè di tutti i cittadini non solo con iniquità fiscali evidenti (vedi lo scandalo Imu) ma anche e soprattutto piegandosi a certe ossessioni ecclesiastiche in materia di diritti individuali, come quelli di sposarsi, procreare e decidere sulle cure che ci riguardano senza subire leggi costrittive dettate dal clero. Scorrere l’agenda Monti cercando un qualche cenno a queste materie sarebbe fatica vana. Eppure chi vorrà governare dovrà pur dire ai cittadini che intenzioni ha in materia di diritti.
Ma, per usare il centratissimo titolo del bel libro recente di Stefano Rodotà, abbiamo ancora il diritto di avere dei diritti? E qui si tocca il punto ultimo ed estremo dove verificare quale distanza il tempo e la malizia umana abbiano interposto tra le parole e le cose. In questo Paese la stragrande maggioranza della popolazione per secoli non ha avuto diritti ma solo doveri, quelli biblici di Adamo ed Eva: lavorare per gli uomini, partorire nel dolore per le donne. I diritti alla vita, alla libertà, al perseguimento della felicità che la Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti aveva definito inalienabili non sfiorarono le masse contadine dei sudditi del Regno d’Italia più di quanto avessero sfiorato le tribù dei nativi americani. È stato solo col secondo dopoguerra che è nata un’esperienza dei diritti per effetto di una liberazione che fu politica e divenne rapidamente sociale – liberazione dalla stretta del bisogno e della mancanza di lavoro, possibilità di partecipare al grande e felice banchetto dei consumi e di presentarsi al seggio elettorale sentendosi finalmente soggetti e costruttori del proprio destino.
Oggi tutto questo appare lontanissimo: e la radice primaria è la scomparsa del lavoro come diritto oltre che come realtà. Il governo Monti si è assunto il compito di adeguare le parole alle cose, con una ratifica formale della scomparsa che ha accelerato i processi del degrado sociale. Di fatto quello che fu il caposaldo della Costituzione repubblicana e dette una risonanza straordinaria alla formulazione fanfaniana dell’articolo 1 è oggi una vuota parola. Al di là delle caute ed elusive formulazioni del documento Monti su questo punto, c’è l’avvenuta trasformazione del lavoro come diritto in lavoro come benefica elargizione di capitani d’industria – purché non ci sia più la minaccia di uno Statuto dei lavoratori e di un sindacato indocile. E quanto ai giovani, oggi conosciamo una devastante pratica dell’abbandono di chi studia e fa ricerca davanti all’alternativa tra l’emigrazione e le follie burocratiche di macchine concorsuali senza fine e senza posti. L’esito finale di tutto questo è una estromissione collettiva dalla politica come campo aperto di cui si fa parte normalmente, senza dover attendere la chiamata dall’alto. Contro l’alto e il basso bisognerà pur restaurare un approccio orizzontale, laico e concreto alla lotta politica: a meno di non voler tornare all’Italia dei secoli antichi, quando i contadini veneti si sentivano stretti fra l’«Altissimo di sopra che manda la tempesta» e «l’Altissimo di sotto che prende quel che resta». Con la sconsolata conclusione: «E noi tra ‘sti doi Altissimi restemo poverissimi ».

Repubblica 8.1.13
Il baratro fiscale dell'agenda Monti
di Luciano Gallino


Non ci sono solo gli Stati Uniti. Anche l’Italia ha il suo baratro fiscale, come quello Usa di natura politica prima che economica. L’agenda Monti vi dedica ampio spazio, sebbene usi altri termini. In realtà il baratro l’ha aperto il Parlamento quando ha ratificato mesi fa – su proposta del governo Monti – il Trattato sulla stabilità, sul coordinamento ecc. imposto da Consiglio europeo, Commissione e Bce. L’art. 4 prescrive: “Quando il rapporto tra il debito pubblico e il prodotto interno lordo di una parte contraente supera il valore.. del 60%... tale parte contraente opera una riduzione a un ritmo medio di un ventesimo all’anno”. Il Trattato è già in vigore, ma in base a un precedente regolamento del Consiglio, l’inizio della riduzione del debito verso la meta del 60 per cento dovrebbe aver luogo solo dal 2015.
L’agenda Monti riprende quasi alla lettera tale prescrizione (punto 2, comma c). Si tratta a ben guardare del tema più importante sia della campagna elettorale che dell’azione del prossimo governo, quale esso sia. Il motivo dovrebbe esser chiaro. Ridurre davvero il nostro debito pubblico nella misura e nei tempi richiesti dal Trattato in questione è un’operazione che così come si presenta oggi ha soltanto due sbocchi: una generazione o due di miseria per l’intero Paese; aspri conflitti sociali; discesa definitiva della nostra economia in serie D. Oppure la constatazione che il debito ha raggiunto un livello tale da essere semplicemente impagabile, per la ragione che esso deriva sin dagli anni ‘60 non da un eccesso di spesa, bensì dalla accumulazione di interessi troppo alti. Quindi si dovrebbero trovare altre strade rispetto alle politiche attuate da Monti e riproposte dalla sua agenda.
Al fine di ripagare un debito a lunga scadenza in rate annuali è infatti essenziale una condizione: che il debitore, al netto di quanto spende per il proprio sostentamento, abbia ogni anno delle entrate, per tutta la durata prevista, che siano almeno pari in media a quella di ciascuna rata del debito. Nel caso del debito pubblico italiano tale condizione base non esiste. Il Pil supera i 1650 miliardi, per cui il 60 per cento di esso ne vale circa 1000. Mentre il debito accumulato ha superato i 2000. Al fine di farlo scendere al 60 per cento del Pil come prescrive il Trattato, si dovrebbe quindi ridurre il debito di 50 miliardi l’anno per un ventennio. La cifra è di per sé paurosa, tale da immiserire tre quarti della popolazione. Ma il problema non è solo questo. È che l’interesse sul debito, al tasso medio del 4 per cento, comporta una spesa di 80 miliardi l’anno, la quale si somma ogni anno al debito pregresso. Ne segue che quest’ultimo non smette di crescere. Ora, se riduco il debito di 50 miliardi, avrò sì risparmiato 2 miliardi di interessi; però sui restanti 1950 miliardi dovrò pur sempre pagarne 78. Risultato: il debito è salito a 2028 miliardi (2000-50+78). L’anno dopo taglio il debito di altri 50 miliardi e gli interessi di 2. Però devo pagarne 76, per cui il debito risulterà salito a 2054. Chi vuole può continuare. Magari inserendo nel calcoletto un dettaglio: l’art. 4 del Trattato prescinde del fatto che il debito di un paese potrebbe col tempo aumentare di molto, per cui l’entità del ventesimo di rientro andrebbe alle stelle. L’Italia, per dire, potrebbe ritrovarsi a fine 2015 con un Pil di poco superiore all’attuale, ma con un debito che a causa dell’accumulo degli interessi ha raggiunto i 2200 miliardi. Così i miliardi annui da tagliare passerebbero da 50 a 60.
Le obiezioni da opporre a quanto rilevato sopra le sappiamo. Il raggiungimento di un discreto avanzo primario ha già permesso di ridurre la spesa degli interessi di 5 miliardi: lo ricorda anche l’agenda Monti. La riduzione del differenziale di rendimento a confronto dei titoli tedeschi permetterà altri risparmi. Dalla dismissione di grosse quote del patrimonio pubblico arriveranno fior di miliardi. Le spese dello Stato possono venire ridotte di parecchi altri punti; qualcuno parla addirittura di 5 punti per più anni, alla luce di una profonda teoria politica che si compendia col dire “bisogna affamare la bestia” (cioè lo Stato, cioè quasi tutti noi). Per finire con l’immancabile “a fine 2013 arriverà la crescita e il Pil riprenderà a salire”.
Ciascuna delle suddette obiezioni o è fondata sull’acqua, come la previsione di ricavare alla svelta decine di miliardi dalla dismissione di beni pubblici – vedi la sorte delle cartolarizzazioni di Tremonti – oppure sull’accettazione per i prossimi venti o trent’anni di politiche lacrime e sangue, ancora peggiori di quelle che hanno afflitto gli ultimi anni all’insegna dell’austerità.
Naturalmente il problema non riguarda soltanto l’eventuale ritorno al governo di Monti con la sua agenda. Riguarda più ancora i partiti come Pd e Sel, che le elezioni potrebbero pure vincerle, ma che hanno dichiarato di voler rispettare nell’insieme l’agenda in parola. Sono essi per primi a dover scegliere la strada per uscire dalle strettoie attuali. Da un lato si profila una grave regressione sociale e politica, oltre che economica, indotta dalla ricerca coattiva del mezzo per ripagare un debito ormai impagabile. Dall’altro bisogna riconoscere questa sgradevole realtà, e aprire con decisione una trattativa su scala europea per trovare modi meno iniqui socialmente per uscire dall’impasse del debito pubblico, il che non riguarda ovviamente solo l’Italia. Un riconoscimento al quale potrebbe seguire la ricerca dei modi per superare una contraddizione in verità non più tollerabile: una Bce che presta migliaia di miliardi alle banche (lo ha fatto, per citare un solo caso, tra novembre 2011 e febbraio 2012) all’1 per cento, ma non può fare altrettanto con gli stati. Per cui questi vendono obbligazioni alle banche, sulle quali esse percepiscono interessi tripli o quadrupli. È vero, l’art. 123 del Trattato Ue vieta alla Bce di prestare denaro direttamente agli Stati. Ma a parte il fatto che prima o poi tale articolo dovrà essere modificato, posto che esso fa della Bce l’unica banca centrale al mondo che non può svolgere le funzioni proprie di una banca centrale, si dovrebbe d’urgenza porre rimedio a tale inaudita contraddizione. Con il baratro fiscale di mezzo, la riduzione del debito pubblico a meno della metà è inconcepibile. Ma se l’Italia, per dire, potesse prendere in prestito dalla Bce, in forma obbligazionaria o altra, 1000 miliardi al tasso dell’1 per cento, come han fatto le banche europee nel caso precitato, allora potrebbe diventarlo. Pensiamoci. E magari proviamo a spiegare ai cittadini come si pone realmente per il prossimo futuro la questione del debito pubblico.

Repubblica 8.1.13
I bancomat del Vaticano bloccati dalla procura
Inchiesta anti riciclaggio: furono i pm a sollecitare l’intervento di Bankitalia
di Maria Elena Vincenzi


ROMA — È stata la procura di Roma a disporre l’ispezione di Bankitalia che ha portato allo stop ai pagamenti Pos in Vaticano. Per palazzo Koch, Deutsche Bank Italia non può fornire quelle macchinette perché la Santa Sede non è in regola con la normativa anti-riciclaggio. Il no di via Nazionale è arrivato il 6 dicembre e la banca ha disposto il ritiro di tutti gli strumenti per i pagamenti elettronici. Per Bankitalia, che ha fatto gli accertamenti su mandato del procuratore aggiunto Nello Rossi e del pubblico ministero Stefano Rocco Fava, i pos non possono essere autorizzati. Per un motivo semplice: il Vaticano non è in regola con la legge italiana.
Una storia che inizia nel 2010: fu allora che, per la prima volta, l’Unità di Informazione Finanziaria di via Nazionale disse che, per poter utilizzare i pagamenti elettronici, la Santa Sede, stato extracomunitario, doveva rispettare la normativa locale contro il money laundering.
Una bocciatura che, per due anni, è stata blanda e che è sfociata, poi, nel perentorio no degli ultimi giorni. A seguito del quale Deutsche Bank Italia, che è soggetto alla normativa italiana, ha disposto un piano di ritiro dei pos che va avanti da un mese e terminerà il 15 febbraio con il blocco anche dei pagamenti online. È l’ennesimo capitolo di una guerra che vede la Procura e Bankitalia da un lato e lo Ior dal-l’altra, cominciata, anche quella nel 2010, a settembre, con il sequestro di 23 milioni di euro (poi dissequestrati), ritenuti oggetto di una movimentazione sospetta. Per quel filone furono iscritti nel registro degli indagati i vertici dello Ior, l’allora presidente, Ettore Gotti Tedeschi, e il direttore generale, Paolo Cipriani. Gli inquirenti, che sono ancora al lavoro su quell’inchiesta, sono convinti che ci siano alcune attività poco chiare riconducibili all’Istituto per le Opere di Religione. Un fascicolo che, nei mesi, si è arricchito di nuovi episodi in cui, secondo le accuse, la banca Vaticana avrebbe avuto il compito di “ripulire” denaro. Ed è in questo contesto che i magistrati hanno disposto l’ispezione di settembre che ha portato, poi, al ritiro delle macchinette per i pagamenti elettronici.
Una storia banale che nasconde problemi ben più importanti che riguardano la volontà della banca Vaticana di adeguarsi alla normativa italiana contro il riciclaggio. Lo stesso pontefice, dopo il sequestro, aveva auspicato l’adeguamento alla legge italiana, ma i vertici dello Ior sembrano tergiversare. Eppure il “caos pagamento elettronico” ha fatto il giro del mondo: sono tanti i turisti che si sono lamentati di non poter pagare con la carte di credito per entrare ai Musei Vaticani. E tanti i giornali stranieri che hanno riportato la notizia. Le macchinette ritirate dalla Deutsche Bank sono una cinquantina. Musei e monumenti, ma anche molti esercizi commerciali come tabaccherie, benzinai e farmacie.
Diversamente da come avviene in Italia, infatti, dove è il singolo esercente a dover richiedere il pos, il Vaticano stipula un solo contratto collettivo per rifornire tutti gli esercizi. Ecco perché il disagio sta mettendo in difficoltà la Santa Sede: i tempi per firmare un nuovo contratto, magari con un altro provider, potrebbero non essere brevi. Oltretevere, infatti, si stanno valutando le soluzioni e, per farlo, non è escluso che si vada direttamente all’origine del problema per capire quali siano le cause. Proprio per questo non è escluso che ci si muova per avere un incontro con Bankitalia.

Repubblica 8.1.13
Allarme curve xenofobe slogan e striscioni decuplicati in 10 anni
La ricerca: così negli stadi dilaga l’intolleranza
di Paolo Berizzi


MILANO — Dare della scimmia a un giocatore di colore della squadra avversaria, o anche della propria. Umiliarlo vomitandogli addosso dagli spalti un suono onomatopeico: l’ormai famigerato «buuu». Inneggiare alla superiorità della razza bianca, alle camere a gas, all’Etna e al Vesuvio, alla pulizia etnica, alla presunta supremazia di un’area geografica del Paese. Negli stadi italiani, in tutti i campionati di calcio, e a tutte le latitudini, è diventata un’usanza vergognosa. In crescita esponenziale.
Dall’inizio degli anni ‘90 a oggi gli episodi di razzismo e discriminazione durante le partite di calcio di serie A, B e C e serie minori, sono decuplicati. Sì, dieci volte tanto. Un’impennata di inciviltà che dal 2000 al 2010 ha coinvolto 275 tifoserie, la maggior parte delle quali è in mano a gruppi ultrà di estrema destra. E che è già costata ai club calcistici un milione 268 mila euro di multe. Un impasto di deficienza e follia: molto spesso pianificata, in altri casi estemporanea ma non meno odiosa. Aumento dell’immigrazione straniera con conseguente diffusione di xenofobia e intolleranza? Sicuro, ma forse c’è anche altro. L’evoluzione del becerume razzista da stadio è descritta da una ricerca del Centro Studi sicurezza pubblica di Brescia, diretto da Maurizio Marinelli, esperto di tifo e violenza ultrà. L’indagine raccoglie, episodio dopo episodio — catalogando cori e striscioni, ammende e squalifiche — oltre vent’anni di intolleranza incubata e deflagrata allo stadio. Dal razzismo biologico al pregiudizio razziale ai simboli vietati esibiti durante la partita. «Dai dati che abbiamo raccolto emerge uno spaccato allarmante — spiega Marinelli — . Rispetto a quanto avveniva negli stadi alla fine del secolo scorso, il razzismo si è autoalimentato moltiplicandosi per dieci. È vero che è cambiata la struttura e la composizione sociale delle città e che lo stadio è una cartina di tornasole. Ma la deriva xenofoba è diventata, in Italia, una delle piaghe delle manifestazioni sportive. Più degli incidenti, che infatti sono diminuiti. Si parte da molto lontano e si arriva al caso di Busto Arsizio».
Visto oggi, il picco è impressionante. Dal 2000 a oggi negli stadi italiani, in tutte le serie del Campionato di calcio, sono avvenuti 630 episodi di razzismo. Si va dalla saliva «infetta» di Diawara, il senegalese del Torino offeso dal mister Eugenio Fascetti nel febbraio del 2000, ai cori degli ultrà interisti contro Marc Zoro nel 2005; c’è il saluto fascista di Paolo Di Canio nel derby capitolino del 6 gennaio dello stesso anno e le svastiche nella curva del Siena contro il Livorno. E via via una sequenza o poco edificante di «buuu», striscioni vergognosi e pollici versi quando il giocatore acquistato è di colore o di origini semite.
Se si va indietro nel libro bianco del razzismo pallonaro, si scopre che prima le cose andavano meno peggio. Tra il 1989 e il 2000 i cori, le scritte, gli striscioni, gli episodi dichiaratamente discriminatori sono stati “solo” 56. Pessimi, certo. Ma molti di meno del decennio a venire. Indelebili furono i graffiti «Vai nel forno» e «via gli ebrei» con cui gli ultrà neri dell’Udinese accolsero nel 1989 il neo acquisto israeliano Ronnie Rosenthal. Che infatti non fu tesserato. O l’elegante «Hitler: con gli ebrei anche i napoletani», esibito dai supporter interisti a San Siro un anno dopo. Due e otto anni dopo furono gli ultrà laziali a distinguersi: prima con le scritte antisemite contro Aaron Winter, poi, nel derby con la Roma, con «Auschwitz la vostra patria, i forni le vostre case». Il peggio doveva ancora venire, ed è arrivato. Nessuna tifoseria esclusa. Sono 275 le curve che negli ultimi dieci anni si sono macchiate di razzismo. Settantaquattro in seria A, 66 in B, 70 nella prima divisione della Lega Pro (l’ex C1) e 65 in seconda divisione. Tra l’89 e il 2000 erano state 45. Le tifoserie più razziste? Verona, Lazio, Ascoli, Padova, Juventus e Roma. Tutte dichiaratamente di destra. I club, dalla stagione 2000/2001, hanno già sborsato 1 milione e 268mila euro a causa del loro odio verbale. Nella metà dei casi cori e striscioni hanno preso di mira il singolo giocatore. Per il 30% la società e i tifosi avversari. E per il restante 20% le cosiddette “minoranze etniche”. Che fare quando sul campo piovono ululati e cori razzisti? Marinelli è in linea con il ministro Cancellieri: «Bisogna sospendere. Ma bisogna anche stabilire con chiarezza a chi spetta la decisione e in quali casi. La normativa oggi è confusa».

La Stampa 8.1.13
Il nuovo corso. Pechino vuole chiudere i campi di rieducazione
Nei laojiao si finisce per anni senza processo per venire “rieducati”
di Ilaria Maria Sala


Dopo 55 anni la Cina potrebbe far calare il sipario sui famigerati campi di rieducazione. Sparirà - stando a un annuncio diffuso ieri mattina su Weibo, il Twitter cinese, e confermato poi dall’agenzia ufficiale Xinhua – il cosiddetto «laojiao», le colonie dove 250 mila persone, fra oppositori e semplici «disturbatori» della quiete del regime, vengono rimesse in riga attraverso il lavoro.

A rendere pubblica la posizione di Pechino è stato il direttore della Commissione agli Affari Legali e Politici del partito comunista, Meng Jianzhu, che ha affermato che il «laojiao» sarà abolito o modificato in modo sostanziale già nel 2013. Che qualcosa si muovesse si subodorava da quando diversi editoriali apparsi sulla stampa avevano cominciato a criticare il sistema, e una serie di lettere aperte per chiudere l’esperienza del laojiao avevano potuto circolare senza incappare nella censura. I campi di rieducazione tramite il lavoro, o Rtl, godono giustamente di pessima reputazione, e molti in Cina trovano che danneggino inutilmente l’immagine del Paese, come anche molte Ong – che considerano il laojiao una violazione dei diritti umani – non mancano di sottolineare: vi si finisce senza processo, dietro sanzione amministrativa, e vi si può trascorrere fino a quattro anni, rinnovabili a discrezione delle autorità. Un sistema detentivo ingiusto e aperto ad ogni tipo di abuso, copiato dall’ex Unione Sovietica, che prevede che i cittadini non scontino semplicemente una pena, ma vengano anche «riplasmati» nel pensiero, per uscirne come «uomini nuovi» fedeli al Partito. Le file dei campi di lavoro negli ultimi anni sono state ingrossate in particolare da centinaia di adepti del gruppo spirituale Falun Gong, dichiarato fuori legge dalle autorità cinesi. Numerosi, infine, gli scandali che hanno ricondotto alcune esportazioni cinesi particolarmente a buon mercato al lavoro coatto dei prigionieri.
Nicholas Bequelin, ricercatore sulla Cina per Human Rights Watch, ha commentato la notizia: «È un messaggio molto chiaro da parte di Xi Jinping (il presidente cinese della nuova amministrazione che prenderà pieni poteri a marzo), che mostra che il Dipartimento di sicurezza pubblica sta perdendo parte dei suoi poteri. Ma ora la comunità internazionale deve spingere per un’abolizione totale, e non lasciare che i campi di lavoro vengano eliminati senza toccare le altre parti marce del sistema detentivo cinese, dalle «prigioni nere» (centri detentivi extralegali), alle sparizioni forzate agli arresti domiciliari irregolari».
Uno dei recenti casi che avevano attirato l’attenzione dei media fu quello di Ren Jianyu, condannato a due anni di rieducazione nel settembre del 2011, dopo che aveva «fatto circolare commenti e notizie negative» sul suo account Weibo nella città di Chongqing. Questo, quando Bo Xilai stava portando avanti una campagna «contro la criminalità» che soffocò anche le limitate proteste di persone come Ren, subito prima di essere silurato a sua volta. Caduto in disgrazia Bo Xilai, Ren ha ottenuto una revisione del suo caso, riguadagnando la libertà dopo un anno.
Un altro caso riguarda la signora Zhao Meifu, arrestata dalla polizia pechinese mentre si stava recando a visitare il figlio, studente nella capitale. Zhao si era in passato unita ai «postulanti», persone che si recano dalle autorità centrali per cercare giustizia per casi di abusi avvenuti dei dirigenti locali. Si ritrovano invece spesso rinchiusi nei campi di rieducazione per «disturbo della quiete», per quanto il sistema dei postulanti sia previsto dalla legge. Il figlio di Zhao, Guo Dajun, ha chiesto che il caso della madre sia rivisto, e la stampa cinese ha ampiamente coperto il suo caso.

«Se il laojiao venisse però rimpiazzato da un nuovo sistema di detenzione amministrativa, sempre nelle mani della polizia, sarebbe una vittoria di Pirro», ha detto Bequelin.
Tra i 250 mila detenuti adepti di Falun Gong e «disturbatori» che criticavano il sistema

La Stampa 8.1.13
Lo scrittore ex detenuto “Non mi fido, resteranno”
«Mi feci quattro anni perché avevo chiesto alla biblioteca una copia del Dottor Zivago»
Kang Zhengguo: troppo utili per eliminare persone scomode
di I. M. S.


Lo scrittore Kang Zhengguo ha fatto 4 anni nei campi. Ha scritto «Esercizi di rieducazione» (Laterza, 2010)

Cosa pensare dell’annuncio fatto ieri in Cina di chiudere i campi di rieducazione tramite il lavoro? Lo abbiamo chiesto allo scrittore Kang Zhengguo, ora in esilio negli Stati Uniti dove insegna cinese a Yale, ed autore del volume «Esercizi di Rieducazione», edito in Italia da Laterza (2010).
Lei ha esperienza diretta dei campi di rieducazione tramite il lavoro. Che ricordo ne ha?
«Ah, i campi di rieducazione. Ci sono stato, sì. Ne ho un ricordo molto preciso. Ci sono entrato per la prima volta il 18 settembre del 1968. Abitavo a Xian, dove studiavo russo, e scrissi una lettera alla Biblioteca di Mosca perché volevo leggere una copia del Dottor Zivago, la Cina lo aveva proibito dicendo che era un testo borghese e revisionista e io volevo farmene un’idea mia. La lettera è stata intercettata, ed entrai al campo agricolo di Mala, nello Shaanxi, dove i detenuti dovevano lavorare la terra, fra le altre cose, praticamente senza attrezzi. Le condizioni erano davvero molto dure, perché i campi di rieducazione riflettono sempre in peggio le condizioni di quanto c’è fuori: durante il Grande Balzo in Avanti, dieci anni prima, la carestia uccise milioni di persone nel Paese, ma nei campi uccise tutti. Durante la Rivoluzione Culturale, molte persone venivano perseguitate per una frase considerata anti-rivoluzionaria, ma nei campi erano perseguitati tutti».
E dunque, come accoglie la notizia della loro chiusura?
«Per essere sincero, quando andai nel campo, nel 1968, si sentiva già parlare del fatto che le autorità volessero eliminarli. Sono uscito nel 1972, e parlavano ancora di eliminarli. Quindi, aspetto prima di festeggiare, voglio vedere che cosa faranno effettivamente. I campi in Cina sono stati creati nel 1957, durante la «Campagna contro gli elementi di destra», imitando quello che stava succedendo in Unione Sovietica. Queste erano persone che ricevevano solo una sentenza politica, non un processo, nulla di previsto dalla legge. Solo un’etichetta: “elemento di destra! ”, e con quella, venivi spedito al “laojiao”. Chi diventava elemento di destra era deciso dal direttore dell’unità di lavoro, e questi fra l’altro aveva anche una quota mensile di elementi di destra da stanare, per cui mandava al “laojiao” tutti quelli che gli stavano antipatici. Litigavi con il tuo capo squadra? Ti ritrovavi ai lavori forzati. Da lì in poi tutto dipendeva dal tuo “atteggiamento”. La pena non ha limiti: il tuo atteggiamento è considerato sbagliato dopo i primi tre anni? Ecco, altri quattro».
Da chi è composta la popolazione dei campi?
«All’epoca in cui c’ero io, eravamo soprattutto “elementi di destra”. Dopo, al 90 per cento si trattava di piccoli criminali, il resto erano prigionieri politici. Dagli Anni Ottanta in poi però finirci è diventato facilissimo, la polizia sbatteva dentro tutti quelli che non voleva vedere in giro, e negli anni Novanta hanno cominciato a riempirli di seguaci del Falun Gong. Ma ci va la gente che non ha santi in Paradiso: gli sconosciuti, quelli che chiedono aiuto al governo centrale contro gli abusi, imbestialendo le autorità locali, chi si oppone agli espropri di case e terreni. Non c’è nessun incentivo a non mettere la gente dentro i campi: senza processo, ti sbarazzi di persone che ti infastidiscono. Ora dicono che smettono di usare queste strutture, non che le aboliscono: stiamo a vedere, ma se è vero, sarebbe già una buona idea».

Corriere 8.1.13
Canton, giornalisti in sciopero «Vogliamo la libertà di parola»
Primo importante test per il nuovo segretario Xi Jinping
di Paolo Salom


PECHINO — Si sono radunati davanti all'edificio che ospita il loro giornale. Hanno scandito slogan e mostrato striscioni che non lasciavano nulla all'immaginazione: «Vogliamo la libertà di stampa, il rispetto della Costituzione e la democrazia». Giornalisti in piazza, a Canton. Per la prima volta, la sfida al potere viene da quei settori che un tempo erano considerati «la voce e la mente» del Partito. E i redattori del Nanfang zhoumo (Southern Weekly) non si sono limitati a proclamare uno sciopero che di per sé non ha precedenti: la loro protesta si è diffusa sui social network con una rapidità che ha preso alla sprovvista i pur solerti censori e gli agenti della polizia informatica.
Trentacinque redattori hanno sottoscritto una petizione online, subito firmata da molti altri, mentre le loro «iniziative di lotta» venivano pubblicizzate su Weibo, il Twitter cinese. Il gioco a rimpiattino con le autorità è scattato immediatamente: da una parte, gli account dei giornalisti ribelli venivano cancellati uno dopo l'altro, mentre ne sorgevano di nuovi e quello «ufficiale» del settimanale annunciava che «la password è stata formalmente passata alle autorità di censura: da questo momento i messaggi di questo account non sono più gestiti dalla redazione».
Mai nella Repubblica Popolare, se escludiamo i drammatici giorni di Tienanmen, la richiesta di democrazia era stata così esplicita da parte dei settori più «vicini» ai problemi che un grande Paese in perenne trasformazione è costretto ad affrontare. Il neosegretario Xi Jinping, salutato come una figura «moderna e aperta», deve ora affrontare la prima vera crisi del suo mandato, una crisi che non ha a che fare con rivendicazioni economiche o con i frequenti soprusi nelle province, dove i contadini sono in lotta perenne con i funzionari a caccia di nuovi terreni edificabili. Questa volta la questione riguarda i diritti primari dei cittadini, quelli che la Costituzione cinese, nero su bianco, garantirebbe di già.
E infatti, lo sciopero dei giornalisti del Southern Weekly, settimanale noto per le sue posizioni «progressiste», da sempre nel mirino dei censori, riguarda proprio la possibilità di pubblicare articoli senza dover rendere conto a una censura che non permette di superare quella che viene considerata una «linea rossa invalicabile»: la legittimità del Partito. Non che il giornale lo abbia detto esplicitamente, ma quando, dopo Capodanno, è stato messo in pagina un editoriale che invitava al «rispetto della Costituzione e alla riforma in senso democratico» del Paese, il capo censore di Canton, Tuo Zhen, non ha esitato, ordinando di sostituire il pezzo già in pagina con un altro che invece esaltava il ruolo del Partito. Mossa che ha generato immediatamente la protesta: i giornalisti hanno scritto una lettera aperta chiedendo «l'immediata rimozione» del responsabile di una «decisione dittatoriale in tempi di grandi trasformazioni e di speranze per un futuro di democrazia».
Curiosamente questo avveniva mentre, più a nord, il sito Internet di Yanhuang Chunqiu (Annali della Cina), un mensile realizzato da ex membri del Partito e da funzionari in pensione, tutti su posizioni di «critica dall'interno», veniva cancellato senza preavviso. La ragione? Un editoriale, simile nei contenuti a quello del Southern Weekly: e cioè la richiesta esplicita rivolta al potere di «rispettare la lettera della Costituzione». Difficile dire se queste proteste avranno un seguito — la stagione delle Primavere — simile a quello già visto nei Paesi arabi. Certo il regime ha le antenne molto sensibili. E Xi Jinping, che finora ha mostrato un basso profilo, per quanto certo nessuna reale apertura (i giornalisti a Canton non sono stati arrestati o affrontati dalla polizia che è rimasta a distanza), dovrà comunque decidere se tenere il timone ben saldo sul passato o provare una svolta che potrebbe cambiare la faccia della Cina.

La Stampa 8.1.13
Un muro sul Golan Israele teme gli jihadisti in arrivo dal caos siriano
Intesa con gli Usa: barriera di 69 km sulle alture
di Maurizio Molinari


Il governo di Israele, d’intesa con l’amministrazione Obama, ha deciso di costruire sulle alture del Golan una barriera difensiva lunga 69 km e alta 4,5 metri al fine di proteggersi dal rischio di infiltrazioni e attacchi da parte di gruppi jihadisti. A darne l’annuncio è stato il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, dando disposizione al ministero della Difesa di realizzare una rete di protezione strutturata in maniera identica a quella creata lungo i 230 chilometri di confine con l’Egitto: una rete metallica sorvegliata da telecamere e altri sistemi di sicurezza di ultima generazione.
Illustrando la decisione, Netanyahu ha detto: «Sappiamo che l’esercito siriano ha abbandonato le posizioni oltre il confine, dove ora si trovano gruppi armati di ribelli». Il riferimento è ad alcuni villaggi drusi da dove la scorsa estate partirono alcuni colpi di mortaio verso il territorio controllato da Israele. Moshe Yaalon, ministro israeliano per gli Affari strategici, afferma che le «bandiere verdi» dei gruppi jihadisti si vedono lì dove una volta si trovavano le postazioni siriane ed è proprio questo lo sviluppo che ha portato Gerusalemme a concordare con Washington la costruzione della barriera.
Il timore è che il Golan possa diventare, all’indomani della caduta del regime di Bashar al Assad, un nuovo fronte di attacchi jihadisti contro Israele, sul modello di quanto avvenuto nel Sinai dopo il rovesciamento di Hosni Mubarak in Egitto. Tale scenario spiega anche il recente incontro fra Netanyahu e il sovrano giordano Abdullah - di cui si è avuta notizia solo a posteriori -, accomunati dalla preoccupazione di una Siria instabile perché può trasformarsi in una piattaforma d’azione per i gruppi jihadisti sunniti con in più l’aggravante della presenza degli arsenali chimici di Assad, accumulati dagli Anni Settanta. Fonti militari israeliane hanno spiegato al Washington Post che Gerusalemme «ha fatto sapere a Damasco che le armi chimiche sono una linea rossa» e non consentirà che possano cadere nelle mani di «Hezbollah o jihadisti», assicurando che «al momento si trovano in luoghi protetti».
Israele ha strappato alla Siria il controllo delle alture del Golan nel giugno 1967, a seguito della guerra dei Sei Giorni, e le ha annesse nel 1981 con un atto non riconosciuto dalla comunità internazionale. Dalla fine del conflitto del Kippur nel 1973, la linea di armistizio è stata stabile e senza maggiori scontri armati, pur in presenza di un perdurante stato di guerra fra i due Paesi. Ripetuti tentativi di siglare un accordo di pace fra Israele e Siria, grazie alla mediazione degli Stati Uniti, sono falliti in ragione dell’importanza strategica dell’altopiano.

Repubblica 8.1.13
Francia, battaglia sulle nozze gay il fronte cattolico si mobilita
Domenica 500mila in piazza. E lo scontro entra nelle scuole
di Giampiero Martinotti


PARIGI — Cinquecentomila persone e forse più: la scommessa è ambiziosa, ma la destra e il mondo cattolico possono vincerla. Domenica, Parigi assisterà a una delle più grandi manifestazioni degli ultimi vent’anni, contro il matrimonio gay e il diritto di adottare bambini accordato alle coppie omosessuali. Uno scontro su un tema di società dietro cui si cela il tentativo moderato di sfruttare l’impopolarità di François Hollande e del suo governo, accusati, non sempre a torto, di dilettantismo.
Promessa elettorale del leader socialista, il disegno di legge sul “matrimonio per tutti”, come viene pudicamente definito, era atteso e scontato. E tutto lasciava pensare che potesse passare senza scosse: una larga maggioranza dei francesi è favorevole e solo l’adozione per le coppie gay mostra un’opinione pubblica spaccata a metà, mentre la sinistra chiede un provvedimento ancor più libertario, cioè l’autorizzazione per le coppie di donne a ricorrere all’inseminazione artificiale. Le cose, tuttavia, non sono andate lisce come tutti s’immaginavano.
Il primo a lanciare una pietra nello stagno, la scorsa estate, è stato monsignor André Vingt-Trois, arcivescovo di Parigi e presidente della Conferenza episcopale transalpina. Spalleggiato dai responsabili delle altre religioni, ha dato il “la” alla mobilitazione del mondo cattolico, che è apparsa subito ben superiore al peso specifico dei credenti nella società francese, secolarizzata e profondamente laica. Grazie a una presenza senza precedenti su Internet, la “cattosfera” è riuscita a risvegliare le sue truppe. E la destra ha sfruttato con abilità il movimento: François Copé, presidente dell’Ump, ha visto nella voglia di protestare della minoranza cattolica lo strumento per ridar fiato a un’opposizione tramortita dalle sconfitte elettorali della primavera. E ha lanciato l’idea di una manifestazione per domenica prossima, a due settimane dall’inizio della discussione parlamentare sul ddl governativo.
La Chiesa, intesa come istituzione, non parteciperà: monsignor André Vingt-Trois ha detto con chiarezza che non sfilerà nella capitale. Ma sarà proprio la mobilitazione del mondo cattolico a ingrossare le fila dei dimostranti. Del resto, le polemiche la riguardano direttamente: una lettera del segretario dell’insegnamento cattolico ai presidi della scuole private (frequentate da due milioni di alunni e al 94 per cento cattoliche) ha suscitato l’ira del ministro della Pubblica istruzione. Secondo lui, quella missiva mette in discussione la neutralità della scuola nel dibattito pubblico; secondo la Chiesa, il ministro attacca direttamente la scuola privata. Entrambi hanno fatto un passo indietro per calmare le acque e oggi Hollande, ricevendo le autorità religiose per i tradizionali auguri di buon anno, tenterà di chiudere la polemica.
Ma se la Chiesa è all’origine della mobilitazione, è la destra a sperare di raccoglierne i frutti politici. Non senza qualche cacofonia: i leader più moderati esitano a farsi veder tra chi resiste all’evoluzione della società e dei suoi costumi, Marine Le Pen, pur approvando la protesta, si asterrà dal partecipare per non sciupare la sua immagine di rinnovatrice del Fronte nazionale. Il matrimonio gay, insomma, rischia di nascondere la vera posta in gioco di domenica prossima: il rapporto di forza politico tra un potere socialista indebolito e una destra ringalluzzita.

Repubblica 8.1.13
Etiopia
E i bambini analfabeti si trasformano in hacker
L’ultima trovata di Nicholas Negroponte: pc a 40 piccoli africani In pochi giorni imparano a leggere, scrivere e scaricare applicazioni
di Alessandra Baduel


Hanno fra i quattro e gli undici anni e non avevano mai visto prima una parola scritta, ma una volta ricevuta una scatola con dentro un computer, hanno impiegato quattro minuti per spacchettarlo e accenderlo, cinque giorni per usare 47 diverse applicazioni, due settimane per cantare l’alfabeto, in un inglese fino a quel momento sconosciuto. L’ultimo esperimento sul rapporto fra bambini e computer è firmato dal guru di Internet Nicholas Negroponte, professore del Massachusetts Institute of Technology (Mit), e ambientato in due villaggi isolati dell’Etiopia, Wonchi e Wolonchete, dove 40 bambini sono stati lasciati liberi di usare dei laptop da soli, senza adulti che li guidassero. L’ong One Laptop per Child, fondata da Negroponte nel 2005, affianca al resoconto dell’esperimento una cifra: 100 milioni di bambini del mondo che hanno l’età giusta per il primo anno d’istruzione, però non hanno né scuola né maestri.
Dieci settimane con il laptop in mano, e Kelbessa sapeva scrivere “lion”, leone, tracciando le lettere sulla terra battuta vicino a una delle otto capanne di fango e paglia che compongono il suo villaggio, Wonchi. A un’ottantina di chilometri da Addis Ababa, Wonchi è lontano da tutto, persino dal pozzo: per prendere l’acqua ci vuole un’ora di cammino. Non c’è elettricità, né una scuola vicina. Non ci sono cartelli né scatole, etichette o altro materiale con su scritte delle parole. A Wonchi nessuno, finora, leggeva o scriveva. I computer a energia solare portati nei due villaggi per l’esperimento hanno cambiato tutto. In ottobre, Negroponte poteva riferire al Mit che l’esperimento, partito in febbraio, sta dando risultati impensabili.
Secondo lo studioso servono almeno due anni perché i dati siano convalidati dalla comunità scientifica, ma è un fatto che nel frattempo le settimane passano e i bambini continuano a usare i loro computer con costanza, facendo continui progressi. Le memory card di ogni laptop vengono prelevate e sostituite con nuove memorie ogni settimana, mentre quelle usate arrivano al Mit per essere analizzate. C’è chi ha scoperto la funzione video e filmato il nonno che curava il bestiame, chi ha immortalato fratellini e capanna, chi si dedica a hackerare le protezioni. E tutti stanno imparando inglese e amarico etiopico. Perché tutti usano il computer per una media di sei ore al giorno, in genere quando fa buio e sono finite le attività quotidiane di aiuto agli adulti, come andare al pozzo.
Adesso, aiutano gli adulti anche di sera: mostrando loro i computer e quello che appare lì dentro. Ma l’obiettivo dell’esperimento è un altro e sembra raggiunto. Dal 2005 a oggi, One Laptop per child ha messo due milioni e mezzo di Motorola Xoom in mano a bambini di 40 Paesi. Nel presentare i primi risultati dell’esperimento etiopico, Negroponte ha spiegato: «Con il lavoro già fatto in quei Paesi, abbiamo scoperto che i bambini imparano molto da soli. Ma quanto? Per rispondere, ci siamo concentrati sui 100 milioni che non hanno una scuola. Ed è così che abbiamo scelto i due villaggi etiopici per scoprire se un bambino può imparare a leggere da solo. Se può farlo, poi potrà anche leggere per imparare. Se funzionerà, ci indicherà la strada per raggiungere quei 100 milioni». Basterà un computer.

ComUnità Diversa Mente 7.1.12
Gli omicidi invisibili delle donne nigeriane
di Flore Murard-Yovanovitch

qui segnalazione di Nuccio Russo

Repubblica 8.1.13
Il dolore calmo di Lucio Magri
A un anno dalla morte, i saggi del fondatore del “Manifesto”
di Miguel Gotor


È trascorso più di un anno dalla morte di Lucio Magri. L’ultima volta che lo vidi fu anche la prima della mia vita e conservo una memoria particolarmente vivida di quella giornata. Non so neppure perché, ma mi ritrovai insieme con mia moglie nella sua accogliente casa in piazza del Grillo, seduto su dei lunghi divani bianchi. Tutt’intorno, la giovane moglie Mara, prematuramente scomparsa, sembrava scrutarci dalle foto sugli scaffali di un salotto che in un tempo ormai dissipato aveva ospitato la sede del primo Manifesto, quando Praga bruciava insieme con la speranza che un altro socialismo fosse ancora possibile.
Al centro dell’ampia stanza stava un uomo triste e solo, disperatamente sofferente, fanciullesco nel suo esibito dolore. Aveva appena terminato quello che sapeva essere il suo testamento umano e politico, Il sarto di Ulm. Una possibile storia del Pci, l’ultima resistenza al vortice di una depressione divorante. Ricordo ancora nitido il disagio di essere ospitati dentro quella tragedia, i nostri tentativi di comunicare con un muro dagli occhi cerulei ancora bellissimi, ma resi smarriti dall’angoscia.
Nella sua decisione di porre termine alla sua vita con il suicidio assistito vidi il solco di un radicalismo e un gusto per l’intransigenza che avevano accompagnato tutta la sua esistenza: dalla giovanile militanza cattolica e democristiana nel gruppo dossettiano nel segno della riforma morale e intellettuale dell’Italia, allo scontro con Fanfani, all’ingresso nel Pci dopo il 1956, conquistato dall’inquieta sensibilità di Franco Rodano; dalla radiazione nel 1970 dal partito all’avventura giornalistica, umana e politica prima del Manifesto e poi del Pdup; dal rientro, all’inizio degli anni Ottanta, nel Pci di Berlinguer, ma non da pentito della sua esperienza nella sinistra extraparlamentare, sino al rigetto della svolta del 1989, all’ingresso in Rifondazione comunista e alla difesa dell’esperienza del comunismo italiano.
A un anno dalla sua morte, il 28 novembre 2011, è uscita una raccolta di saggi di Lucio Magri Alla ricerca di un altro comunismo. Saggi sulla sinistra italiana a cura di Luciana Castellina, Famiano Crucianelli e Aldo Garzia (il Saggiatore, 18,50 euro). Un libro composito che comprende una lunga e partecipata prefazione della Castellina, a lungo sua compagna di vita e di impegno politico, che ripercorre l’itinerario biografico e intellettuale di Magri; una bella intervista frutto di una serie di incontri con gli amici Crucianelli e Garzia «per ricostruire eventi particolari e fasi politiche in una sua autonoma rilettura della storia politica degli ultimi cinquant’anni », con una particolare attenzione alle vicende della sinistra comunista dagli anni Sessanta al 1989; dieci scritti di Magri composti tra il 1962 e il 1993, fra cui Il modello di sviluppo capitalistico e il problema dell’alternativa proletaria pubblicato in Les Temps Modernes; il ricordo dello storico dell’assolutismo Perry Anderson che ne traccia il profilo di «intellettuale rivoluzionario in grado di pensare in sintonia con i movimenti di massa sviluppatisi durante il corso della sua vita»; l’annuncio, infine, di una preziosa iniziativa online: l’allestimento di un sito (www.luciomagri.com) nel quale saranno pubblicati via via tutti i suoi scritti.
Lo sguardo esistenziale si incrocia con l’avventura politica ed è difficile distinguere le due dimensioni. È la solitudine dei primi anni di vita, un’infanzia trascorsa nel deserto libico al seguito del padre ufficiale d’aviazione a conferirgli, secondo Luciana Castellina, «il pessimo carattere che si è poi portato dietro tutta la vita», venato da una rigidissima intransigenza, privo, come affermava l’amico Michelangelo Notarianni «di sentimenti intermedi». Non integralista, mai dogmatico, capace di continue autocritiche politiche, refrattario a ogni forma di incoerenza, eclettismo, faciloneria. Il tratto di fondo è la passione lucida per la politica, nutrita dalla lettura critica di Lukács, di Adorno, di Marcuse, di Galbraith, l’analisi dei nessi nazionali e internazionali per comprendere non solo la forza e l’originalità dell’esperienza dei comunisti italiani da Togliatti in poi, ma anche i limiti e gli errori commessi.
Come ricorda Castellina, Magri è stato un uomo integralmente novecentesco che ha vissuto in modo drammatico la crisi della sinistra, a causa del suo «assolutismo caratteriale diventato un rovello costante». Un rovello, intorno al peso di una sconfitta che era anche un atto di amore nei confronti di una storia. Questo pensai quando vidi i suoi occhi brillare l’ultima volta dall’alto della tromba delle scale, mentre accompagnava la nostra vitalità con un sorriso triste, troppo triste, per non dirci addio: «Io son giunto alla disperazione calma, senza sgomento. Scendo. Buon proseguimento».

Repubblica 8.1.13
Roma, ecco le statue che Ovidio cantò nelle Metamorfosi
Scoperta la villa di Messalla, mecenate del poeta
di Laura Arcan


ROMA — Il cenacolo dei grandi poeti latini d’età augustea, da Ovidio ad Albio Tibullo, riprende vita alle porte di Roma, a Ciampino. Una scoperta che gli archeologi definiscono «eccezionale». È la villa romana attribuita a Marco Valerio Messalla Corvino, console insieme a Ottaviano e comandante nella battaglia di Azio del 31 avanti Cristo. Ma soprattutto mecenate di poeti e intellettuali d’età augustea che hanno scritto la storia della letteratura classica.
A restituire la villa, citata dalle fonti e il cui riferimento a «Valerii Messallae» deriva dai bolli sulle tubature, è il quartiere termale, dove gli ambienti sfoggiano frammenti di mosaici. Ma a confermare che si tratti del tesoro di Messalla potrebbe essere un altro ambiente, distante alcune decine di metri: la natatio, la piscina all’aperto lunga oltre venti metri, con le pareti dipinte di azzurro. Dall’interno della vasca sono riaffiorate una serie di sculture straordinarie. Sette statue integre, con alcune mutilazioni ricostruibili, di oltre due metri d’altezza. Un repertorio statuario che illustra il mito di Niobe e dei Niobidi. «Una di quelle scoperte che capita una sola volta nella vita di un archeologo», racconta Aurelia Lupi, guida, sotto la direzione scientifica di Alessandro Betori, dell’équipe della Soprintendenza ai beni archeologici del Lazio che tra giugno e luglio scorsi hanno avviato una campagna di sondaggi preventivi su un’area interessata da un progetto di edilizia sulla via dei Laghi all’interno dei cosiddetti Muri dei Francesi, una proprietà privata corrispondente al Barco dei Colonna. L’area è la stessa finita di recente sulle cronache per la triste vicenda del Portale di Girolamo Rainaldi, il maestoso ingresso barocco crollato e lasciato in stato di abbandono.
«Statue di Niobe ne sono state trovate in passato, ma nel caso di Ciampino abbiamo buona parte dell’intero gruppo», sottolinea la soprintendente Elena Calandra: «Sette statue d’età augustea complete, ma anche una serie di frammenti che possono essere ricomposti». Capolavori che mettono in scena la tragedia del mito, la punizione della superbia di Niobe. «Queste statue entreranno nei manuali di storia dell’arte classica» aggiunge Calandra. Le meraviglie del circolo di Messalla dovevano ornare i quattro lati della piscina e un basamento in peperino al centro della vasca. Sono rimaste inviolate sotto terra per secoli, probabilmente dopo che un terremoto nel II secolo le ha fatte precipitare sul fondo della vasca. «Le sculture ci offrono nuove testimonianze sull’iconografia di Niobe» dice Alessandro Betori, direttore scientifico degli scavi. «Nel gruppo spiccano due figure maschili di giovani colti nell’atto di osservare l’eccidio dei fratelli che appaiono a tutt’oggi inediti. E soprattutto, la villa da cui provengono appartiene a Messalla, protettore di Ovidio. Non è un caso che la descrizione più vivida del mito di Niobe si trovi proprio nel suo capolavoro, le Metamorfosi.
Da assiduo frequentatore del circolo, il poeta avrà forse avuto modo di vedere il gruppo dei Niobidi in tutto il suo splendore e di rimanerne ispirato». Oppure, potrebbero essere stati i versi del poeta a suggerire a Messalla il tema del gruppo scultoreo che doveva impreziosire la piscina della villa.
Dalla scultura alla poesia, insomma. Ora servono risorse per restaurare e valorizzare le opere.

Repubblica 8.1.13
Così quei versi fecero grande il loro autore
di Maurizio Bettini

FORSE chi compose il programma iconografico del decoro si ispirò ai suoi versi? Nell’Iliade, Achille racconta questa vicenda a Priamo, venuto a reclamare il corpo di Achille. «Si ricordò di mangiare perfino Niobe dalla bella chioma » gli dice «alla quale ben dodici figli morirono dentro la casa, sei figli e sei figlie nel fiore degli anni. Li uccise Apollo tirando con l’arco d’argento, adirato contro Niobe, perché osava paragonarsi a Leto dalle belle guance». È la testimonianza più antica di questo mito, paradigma insieme di hybris materna e di crudeltà divina. Ma anche e soprattutto paradigma dello sconfinato dolore in cui si piomba per la perdita dei figli — non si poteva trovare racconto più adatto per accompagnarlo alla sorte di Priamo. Ovidio rese ancor più celebre questo mito, nelle Metamorfosi accese ulteriormente i colori di Omero. Adesso Niobe è una donna folle, tracotante, che vorrebbe addirittura distogliere i fedeli dall’onorare Latona, la madre di Apollo e di Artemide. Chi è costei paragonata a me? — va gridando — lei di figli ne ha avuti solo due, io quattordici. Sono felice e sempre lo sarò, chi può dubitarne? Ed ecco che Apollo, istigato da Latona irata, comincia a saettare. I sette splendidi figli della madre superba (in Omero erano solo sei) cadono uno dopo l’altro — di colpo l’esametro di Ovidio si è fatto Iliade, si è fatto Eneide: sangue che sgorga, nuche trapassate, polmoni a brandelli, gole squarciate. Non paga di quanto ha subito Niobe, sempre più folle, continua a insultare la dea, ed ecco cadere tutte e sette anche le sue tenere figlie. A questo punto non può che intervenire la metamorfosi, a suo modo pietosa. Niobe viene trasformata in roccia, e la pietra, si sa, è metafora concreta della durezza del dolore.
In Grecia la storia di Niobe e dei suoi miseri figli aveva offerto materia per un affresco niente meno che a Polignoto. In effetti è una vicenda spontaneamente visiva, un racconto che pare fatto apposta per produrre figure. Le statue appartenevano a una villa di Marco Valerio Messalla, una delle figure di maggior spicco, come oratore e come politico, negli anni della tarda repubblica e del principato di Augusto. La scoperta potrà gettare nuova luce sul rapporto fra le arti figurative e la poesia romana. Quella di Ovidio in particolare. Messalla infatti aveva raccolto attorno a sé un gruppo di poeti, Tibullo, Sulpica, Ligdamo; ma sembra che, dopo la morte di Mecenate, anche Lucio Valgio Rufo, Emilio Macro e in particolare Ovidio (che fu amico del figlio di Messalla) si fossero uniti al suo circolo.

l’Unità 8.1.13
Psicopatia armata
Ordinaria follia negli Usa. Un’altra strage sabato
Sembrano versioni postmoderne delle tragedie greche quelle provocate negli Stati Uniti dal ricorso a pistole e fucili
Un Far West che nell’84-85 ha superato le vittime americane in Vietnam
di Enzo Verrengia


ANCORA UNA STRAGE DA PSICOPATIA ARMATA. È SUCCESSO DI NUOVO AD AURORA, NEL COLORADO, LA CITTADINA PRESSO DENVER DOVE LA SCORSA ESTATE JAMES HOLMES AVEVA SPARATO SULLA FOLLA DEL NUOVO FILM DI BATMAN. Allora si contarono 12 morti. Sabato mattina, 5 gennaio, il bilancio è stato inferiore, ma i numeri non alleviano lo sgomento. Un uomo con almeno due fucili ha preso in ostaggio e ucciso tre persone nella tipica abitazione monofamiliare dell’iconografia americana. Poi è caduto sotto i colpi delle squadre Swat (Special Weapons and Tactics), anche queste ormai stampate nell’immaginario contemporaneo. Il tutto mentre imperversa l’isteria di mamme, maestre e bambini in seguito al massacro compiuto dal ventenne Adam Lanza alla Sandy Hook di Newtown.
Non uno, ma tanti, troppi giorni di ordinaria follia si susseguono negli Stati Uniti. Versioni postmoderne delle tragedie greche, in cui la catarsi è negata dalla ripetitività fino alla statistica. Senza altri protagonisti che individui anonimi per i quali la maschera perfetta è il volto incarognito di Michael Douglas nel film di Joel Schumacher del 1993 Un giorno di ordinaria follia. L’anonimo protagonista viene indicato con la sigla della sua targa automobilista, D-fens, che in inglese si pronuncia come «difesa». Perché è questo lo spirito che lo anima: l’autoprotezione contro un mondo gone mad, impazzito.
L’INSORGERE DELLA VIOLENZA
Alle origini della corsa americana all’armamento privato c’è il Secondo Emendamento della Costituzione, che recita: «Essendo necessaria una milizia ben regolata alla sicurezza di un libero stato, non sarà violato il diritto della gente di possedere e portare armi». I Padri Fondatori vedevano nel cittadino armato una garanzia contro l’insorgere della tirannia. Ma non prevedevano di favorirne una imbattibile, quella della violenza.
Già negli anni ‘30, con l’espandersi del gangsterismo, la Corte Suprema tentò un dibattito sull’emendamento. «Una milizia ben regolata» non significava che chiunque potesse proclamarsene componente spianando un’arma. Venne così istituito il Batf, Bureau of Alcohol, Tobacco and Firearms (Ufficio degli alcolici, del tabacco e delle armi da fuoco), per tentare un controllo della materia, specialmente nel contrabbando di pistole da uno stato all’altro. Ne facevano parte i famosi «intoccabili» del film di Brian De Palma del 1987, che incastrarono Al Capone. Il Batf, però, cadde in disgrazia dopo l’operazione di Waco, sfociata nel rogo in cui persero la vita i componenti della setta di David Koresh.
Una nuova legge sul porto d’armi si chiama «Brady Bill», dal cognome dell’ex portavoce di Reagan, semiparalizzato da uno dei sei colpi sparati al Presidente da Jack W Hinkley la domenica del 29 marzo 1981. Moment of Madness, «momento di follia», titolava Time, terminando con la domanda: «Si potrà mai fermare?»
Jack Brady, sostenuto dalla moglie Sarah fondò la Handgun Control Inc. (Società per il controllo delle armi da fuoco), presieduta dalla donna, la cui crociata culminò nell’atto parlamentare che segnò la Storia americana. Perché qualsiasi tentativo di disarmo negli Stati Uniti equivale a tagliare via una fetta del carattere nazionale. «La felicità è una pistola calda» cantavano i Beatles. Avevano ragione 250 milioni di volte, il numero di armi che circolano negli Stati Uniti. Ne hanno una in casa da 50 a 60 milioni di famiglie, la metà del totale. Non ci rinuncia certo il buon padre che vive nel terrore di vedere i suoi cari in balia dei bruti come nel film Ore disperate. Non il paranoico solitario, che infila la pistola nel cruscotto dell’auto prima di mettersi al volante. «A Washington e New York non girerei mai senza una pistola per proteggermi» ammette con la grinta che gli è propria Tom Clancy, lo scrittore più falco del mondo. Ritrovandosi sulla posizione di un misconosciuto Jay Montoya, commesso viaggiatore di Los Angeles, di tutt’altra risma di quello di Arthur Miller: «Proteggerò la mia casa. So come usare questo fucile e lo farei». Mostra un semiautomatico Ruger Mini-14, eccessivo per sparare ai passeri, ma ottimo per uccidere. Un ricercatore del Policlinico Gemelli, da qualche anno pendolare a New York per periodici aggiornamenti, confessa con un sorriso forzato: «L’America è eccezionale. Peccato che per chi viene da fuori è meglio andare a spasso con una scorta».
Sul New England Journal of Medicine del 10 novembre 1988 si legge che «le ferite da arma da fuoco sono un problema di salute pubblica il cui tributo è intollerabile.» Lo scrivono James Mercy e Vernon Houk, ricercatori del Centro per il Controllo delle Malattie di Atlanta, aggiungendo un dato agghiacciante. «Fra il 1984 e il 1985 il numero delle persone che morirono per lesioni da armi da fuoco negli Stati Uniti furono 62.897, superando quello delle perdite americane in tutti gli otto anni e mezzo del conflitto in Vietnam.»
L’ESSENZA DEL PROBLEMA COLTA DALL’ARTE
Come sempre, l’essenza del problema viene colta dalla letteratura e dal cinema. Il romanzo Non temerò alcun male, di Robert Anson Heinlein, si svolge in questi anni ma risale al 1970. Mostra un’America dall’esistenza sociale blindata. Bisogna muoversi solo in auto o in volo e per i pochi tratti a piedi portare mantelli corazzati. Inevitabile il paragone con l’attuale boom delle vendite di giubbotti antiproiettile.
Peter Bogdanovich realizza nel 1967 Bersagli. Un vecchio attore di film horror, Boris Karloff, decide di sfuggire ad una realtà peggiore del cinema, per ritrovarsi a competere con un uomo normale che falcidia gli altri sparando da un drive-in.
Alan Arkin nel 1971 dirige Piccoli omicidi, dalla commedia di Jules Feiffer. Un fotografo pacifista ad oltranza, interpretato da Elliott Gould, sopraffatto dalla violenza del prossimo, regisce mettendosi a sparare nelle strade dalle finestre di una New York in cui tutti sono diventati cecchini e bersagli reciproci. Quando la società degenera nell’odio generalizzato, ogni angolo del cosiddetto mondo sviluppato replica Beirut, Sarajevo, Baghad e le altre città segnate da apocalissi di piombo e cordite.

La Stampa TuttoScienze 8.1.13
Caro Archimede, il 2013 adesso comincia da te
di Francesco Vaccarino
Politecnico di Torino


Eureka! Come Leonardo, la Gioconda, Newton, la mela, Darwin le Galapagos ed Einstein, E=mc2, anche Archimede ha il suo «brand». E non è a caso che lo citiamo con questi personaggi. «Archimede è stato uno delle più grandi personalità scientifiche e il suo pensiero è contraddistinto da un tratto fondamentale: la capacità di individuare i problemi cruciali e risolverli uscendo da schemi precostituiti». Parola di Ciro Ciliberto, ordinario di geometria all’Università di Roma Tor Vergata e neopresidente dell’Umi, l’Unione matematica italiana.
Archimede fu matematico, fisico e inventore straordinario. Un esempio di scienziato totale che prefigura l’uomo rinascimentale. Diede contributi fondamentali alla geometria, all’idrostatica e alla meccanica, creando la vite senza fine, la carrucola mobile, le ruote dentate e, soprattutto, la leva. «E ora, per il 2013, l’Umi ha lanciato l’Anno Archimedeo – aggiunge Ciliberto –. Con il “Progetto lauree scientifiche” abbiamo bandito un premio rivolto agli studenti di scuola secondaria superiore, per elaborati, anche artistici, che si riferiscano all’opera di Archimede. La speranza è di avvicinare i giovani, anche quelli che non hanno una passione specifica per la matematica, al pensiero del grande siracusano». Professore, sono passati 2300 da Archimede: qual è lo stato di salute della ricerca matematica in Italia? «La matematica italiana è molto stimata, come testimoniano i premi della European Mathematical Society assegnati ad Alessio Figalli e Corinna Ulcigrai, nonché la Medaglia Pascal della European Academy of Science a Franco Brezzi. Molte università straniere hanno tra i docenti studiosi italiani: è una realtà che riempie di soddisfazione, ma anche preoccupante. Significa che molti giovani brillanti non trovano posto in Italia o che per studiosi affermati non ci sono le condizioni ottimali per le loro ricerche. Tutto questo non sarebbe male, se ci fosse reciprocità, fatto che accade di rado. I politici farebbero bene a porre a questo problema molta più attenzione di quanto non facciano». Ma, almeno, ci sono stati progressi nei programmi per le scuole? La situazione, per quanto riguarda l’insegnamento secondario, è cambiata: con una decisione che, in linea di principio, giudico positiva, si è passati dai “programmi” alle “linee guida”, che disegnano gli obiettivi finali brano eccedere il tempo che i docenti che l’insegnamento nei diversi ordini hanno a disposizione. Infine resta da dovrebbe realizzare. chiarire, per il ciclo superiore, come
Quindi, in concreto? contemperare la libertà lasciata dalle «In pratica c’è molto da fare: le linee linee guida con la prova scritta di maguida non sempre sono state espres- tematica per la maturità che è uguale sioni delle comunità scientifiche, ma per tutti. Ecco perché nell’Umi si è di esperti nominati dall’alto. Non cominciato a parlare dell’opportunità sempre, poi, sono state scritte in mo- di redigere degli “syllabus’’, elenchi di do chiaro e a volte gli obiettivi sem- argomenti basilari che tutti gli studenti alla fine del loro ciclo scolastico dovrebbero conoscere». Un consiglio per un giovane che vo­ glia studiare matematica? «Acquisire spirito e mentalità archimedee. Studiare bene e non solo la matematica. Prima che buoni matematici si deve essere un buoni cittadini e persone preparate, aperte a vari punti di vista, che sanno interagire».

lunedì 7 gennaio 2013

l’Unità 7.1.13
La coalizione di centrosinistra è al 40%
Pdl-Lega 25%, Monti e Grillo attorno al 15%
Bersani in testa. E le classi sociali esistono ancora
di Carlo Buttaroni
Presidente Tecné


Dopo la presentazione del simbolo e l’ufficialità della «lista Monti», i sondaggi realizzati da Tecné per Sky Tg24 registrano una crescita dei consensi per il premier uscente. Se l’aumento sia determinato prevalentemente dall’annuncio oppure abbia un carattere «strutturale», si vedrà nei prossimi giorni. Allo stato, tuttavia, quasi 26 punti separano la coalizione di Monti da quella di Bersani e 11 la dividono da quella guidata da Berlusconi. Distanze molto ampie. E forse anche per questo, Pier Ferdinando Casini e il premier uscente hanno dichiarato che destra e sinistra sono categorie politiche superate, cercando di rovesciare i termini di un confronto che, lasciato sul piano bipolare tradizionale, confinerebbe l’area di «centro» in uno spazio politico ristretto.
Ma le posizioni di Casini e Monti derivano da una scelta di strategia elettorale, oppure destra e sinistra sono veramente concetti superati? Per quasi cinquant’anni le vicende politiche dell’Italia hanno posto uno di fronte l’altro Dc e Pci, interpreti di visioni e interpretazioni diverse della società e dei suoi bisogni. Negli ultimi vent’anni il confronto è stato tra il centrosinistra a trazione ulivista-Pd e il centrodestra interpretato da Silvio Berlusconi. Un bipolarismo sicuramente diverso da quello che lo aveva preceduto, ma che faceva comunque riferimento ad agende politiche alternative e a una diversa gerarchia delle priorità sociali ed economiche. Per i cittadini gli uni erano la sinistra, gli altri la destra. Sono categorie politiche che provengono dal Novecento ma che tuttora conservano una loro forza.
Per la grande maggioranza delle persone destra e sinistra hanno ancora un significato che esprime differenze che hanno a che fare con la visione dei diritti e dei doveri, con la concezione del futuro, con una certa idea della storia e delle tradizioni, con la gerarchia dei valori e dei bisogni. Norberto Bobbio, in uno dei suoi più celebri saggi, scriveva che di fronte all’idea di eguaglianza, destra e sinistra operano su piani diversi. Non è di sinistra solo chi sostiene il principio che tutti gli uomini devono essere uguali, ma anche coloro che, pur riconoscendo le diversità, ritengono più importante ciò che li accomuna. Al contrario, gli inegualitari sono coloro che ritengono più importante, per attuare una buona convivenza, promuovere le diversità.
Le differenze tra destra e sinistra, naturalmente, non si esauriscono intorno al concetto di eguaglianza, ma si ritrovano anche in altri significati. Per esempio nell’idea di «luogo» e di «tempo». Come ci ricorda Marcello Veneziani, infatti, l’uomo di destra si considera prevalentemente «figlio di un luogo» segno di continuità, di trasmissione di principi superiori al mutamento; l’uomo di sinistra, invece, si considera «figlio di un tempo», protagonista di un’epoca e di una generazione. E mentre il primo coltiva l’idea di «governo del luogo e della tradizione», il secondo promuove il «governo del tempo» e delle sue trasformazioni.
Nell’opinione pubblica, destra e sinistra conservano il senso di un’identità collettiva. Forse proprio per ridurre questa forza evocatrice che allo stesso tempo è sociale e politica i leader centristi contestano il concetto di «destra e sinistra». L’idea non è nuova e si accompagna a quella retorica che si esercita periodicamente a celebrare il declino delle «classi sociali», ritenendole inadeguate a cogliere l’essenza delle trasformazioni che attraversano le società globalizzate.
Ad alimentare il mito della fine delle «classi» certamente hanno contribuito le trasformazioni che hanno riguardato la struttura economica e sociale, con la vorticosa terziarizzazione dell’occupazione, che ha segnato il declino dei settori industriali con più alta occupazione operaia. Si pensi alla siderurgia, alla cantieristica navale, ai porti, alle miniere, al settore auto. Ma se c’è necessità di una nuova griglia interpretativa, capace di cogliere i paradigmi della nuova società, i suoi nuovi perimetri e le sue nuove istanze, questo non significa che non esistano più le classi sociali, né che non ci siano più politiche di destra e politiche di sinistra. D’altronde, le «classi» non descrivono solo una posizione gerarchica riferita all’occupazione e al reddito, non sono semplicemente un oggetto o un’unità di misura, bensì rappresentano un sistema complesso di relazioni, in grado di esprimersi anche (ma non solo) sul terreno del comportamento di voto.
Come molti studi, a livello internazionale, hanno recentemente dimostrato, la collocazione sociale continua a essere centrale nell’interpretazione degli orientamenti politici, tanto che la «scelta di classe» non si orienta solo su un partito ma ruota anche (soprattutto) intorno all’opzione della partecipazione elettorale vera e propria.
Un esempio, in questo senso, è rappresentato proprio dall’Italia. Nel nostro Paese la partecipazione al voto è stata sempre alta, ma negli ultimi vent’anni la quota di voti inespressi è cresciuta in maniera costante e la composizione sociale dell’astensionismo si è andata sempre più caratterizzando da cittadini con bassa scolarizzazione e relativa marginalità nel mercato del lavoro.
Il ruolo delle «classi sociali», anche se mutato rispetto al passato, quindi, non è scomparso né attenuato. Al contrario, di fronte all’incalzare della crisi sociale ed economica, si sta riproponendo con forza come perimetro delle domande che emergono dalla società. Domande rispetto alle quali la politica è chiamata a dare le sue risposte.
Più di quanto sia stato in anni recenti, «destra e sinistra» sono coordinate che collocano, su un piano o sull’altro, un certo tipo di problema e un certo tipo di risposta, che corrispondono a scale di priorità diverse. Sotto questo punto di vista la distanza tra Bersani e Monti è più ampia di quanto appaia a prima vista. Perché Bersani è riferimento di figure sociali che si esprimono anche attraverso il voto, come dimostrano i dati dell’indagine Tecné per Sky Tg24. E la stessa cosa vale per Berlusconi, Grillo, Ingroia. E per lo stesso Monti. Nel momento in cui, a gruppi sociali diversi (come i lavoratori dipendenti o i disoccupati) corrisponde un comportamento politico diverso, più orientato a destra o, al contrario a sinistra, come si può dire che destra e sinistra sono categorie superate?
Sicuramente non lo sono per gli elettori. Semmai uno dei problemi del nostro sistema politico riguarda proprio la progressiva attenuazione delle differenze, che c’è stata negli ultimi anni, che ha reso i partiti troppo simili tra loro. E, quindi, indistinguibili. Oggi, la sfida è anche quella di far tornare la politica a essere agenzia di senso. E per fare questo la presunta equidistanza o il superamento dei termini «destra e sinistra», non aiuta a comprendere e a scegliere.

La Stampa 7.1.13
Verso il voto. Grandi Manovre
Bersani stringe sulle liste i popolari chiedono seggi
Il sindaco Renzi potrebbe riuscire a ottenere più di 60 parlamentari
Ancora in bilico la candidatura di Reggi braccio destro del «rottamatore»
di A. L. M.


Il segretario Pier Luigi Bersani vuole chiudere in fretta le liste per dedicarsi alla campagna elettorale
Ceccanti Sempre incerto il destino del costituzionalista
Parisi Fuori il professore che ha appoggiato Renzi
Calabrese Il nutrizionista Giorgio Calabrese sarà in lista
De Martin In lista il docente torinese Juan Carlos De Martin

Bersani ha fretta di tuffarsi nella campagna elettorale e girare l’Italia. Vuole quindi chiudere al più presto la composizione delle liste e lasciarsi alle spalle polemiche e mal di pancia. Domani infatti la direzione del Pd dovrebbe mettere il sigillo alle candidature che dovrebbe sancire una prevalenza di esponenti vicini al segretario tra coloro che sono stati eletti alle primarie o verranno inseriti nel listino (si calcola attorno al 70%). L’area ex Popolare di Letta, Franceschini, Bindi e Fioroni già canta vittoria perché pensa di arrivare a quota 20% e magari far dimagrire ulteriormente Bersani grazie ai ricorsi delle varie regioni che non accettano l’assegnazione dei posti calati da Roma. «Eleggeremo sicuramente più parlamentari di Renzi», esultano gli ex Popolari che hanno vissuto male il protagonismo del sindaco di Firenze. Il quale fa spallucce e si ritiene soddisfatto di poter eleggere oltre 60 parlamentari (tra Camera e Senato), che potrebbero diventare 70 se il Pd avrà un’affermazione più forte del previsto. Ancora in bilico comunque la candidatura di Reggi, braccio destro del rottamatore, che invece indicherà tra i suoi 17 del listino Michele Anzaldi (ex portavoce di Rutelli) e l’avvocato di Milano Roberto Cociancich (presidente della conferenza internazionale scoutismo cattolico). Fuori invece il deputato Sarrubbi: tra i parlamentari uscenti vengono confermati tra i renziani solo Realacci e Gentiloni.
Incerta ancora la sorte del senatore e costituzionalista Ceccanti dell’area liberal che potrebbe essere recuperato in zona Cesarini. Questa è una componente che viene penalizzata ma per Walter Verini, storico braccio destro di Veltroni che sarà candidato in buona posizione nella sua Umbria, il problema non è quantitativo, ma se il Pd avrà una chiara «agenda riformista e se punta al dialogo con Monti dopo le lezioni». Verini pensa che sarà così, ma nella sua area c’è chi ritiene che i liberal siano tenuti fuori deliberatamente. Ne è convinto anche Parisi, che lascia il Parlamento e ritiene che il Pd sia «più sbilanciato a sinistra: lo ha deciso da tempo Bersani, e lo ha confermato la sua vittoria nella sfida con Renzi». Il segretario vuole chiudere in fretta il nodo delle candidature e vuole dare spazio quanto più possibile alla società civile. Dopo le candidature rosa della filosofa Michela Marzano e dell’ex leader degli industriali piemontesi Mariella Enoc, spuntano i nomi del nutrizionista Giorgio Calabrese e del docente al Politecnico di Torino l’italo argentino Juan Carlo De Martin.
Praticamente definiti i capolista alla Camera e al Senato. Fioroni doveva guidare il Pd in Sicilia orientale, accanto a Bersani nella Sicilia Occidentale. L’ex ministro della Pubblica Istruzione invece ha preferito correre nel Lazio (Lazio 2) ma non come capolista: sarà il numero due dopo una donna. Forse la Ferrante, l’agguerrita capogruppo in commissione Giustizia alla Camera. Stessa scelta fatta da Marini che lascia il primo posto al Senato a Stefania Pezzopane, ex presidente della provincia dell’Aquila.

Corriere 7.1.13
Pd, appelli e raccolte di firme per gli «esclusi»
Il rebus delle candidature. Resta in dubbio il renziano Reggi
La protesta della Sicilia
di R. R.


ROMA — Domani il Pd, lo ha promesso, dovrà ufficializzare i nomi dei suoi candidati al Parlamento. I vertici del partito sono costantemente al lavoro per selezionare i vincitori delle primarie; per compilare il listone dei prescelti che, pur non avendo partecipato alle primarie, correranno alle prossime Politiche; e per scegliere chi occuperà le caselle dei capilista e delle prime posizioni a seguire, quelle cioè a elezione garantita.
Il tempo stringe, ma restano ancora diversi nodi da sbrogliare e parecchie polemiche da sedare. I capicorrente incalzano per cercare di aumentare il proprio peso: tranne i bersaniani e la sinistra, tutti gli altri sono stati penalizzati dalle primarie. E i trombati cercano di rientrare grazie a interventi e appelli: così Ermete Realacci ce la farà grazie a una sottoscrizione di operatori della green economy (più difficile il recupero dei suoi colleghi Roberto Della Seta e Francesco Ferrante, uomini chiave del caso Ilva); mentre per Vincenzo Vita ieri si sono mossi Ettore Scola e Sergio Zavoli; e prosegue anche un costante tambureggiamento a favore di Paola Concia.
Sembra ancora in dubbio la candidatura di Roberto Reggi, il braccio destro di Matteo Renzi che continua a incontrare l'opposizione della dirigenza pd toscana, anche se molti nel partito sono convinti che si troverà una soluzione. Oltre al fatto che diverse regioni protestano contro l'inserimento di esterni decisi da Roma. Il Partito democratico siciliano, per esempio, non smette di protestare contro le candidature «calate dall'alto che impediscono l'inserimento di siciliani»; e in Liguria sabato i vertici locali del Pd hanno reso noto di aver sospeso i lavori sulle liste in attesa di discutere ancora con il direttivo nazionale.
Ultima, ma non per importanza, sul tavolo romano c'è la grana dei cosiddetti impresentabili: persone anche promosse dall'elettorato delle primarie, ma appesantite da inchieste, condanne, conflitti di interessi o parentele scomode. Nei giorni scorsi il Fatto Quotidiano ne ha elencati una serie: da Mirello Crisafulli di Enna, a Francantonio Genovese (Messina), a Antonino Papania (Trapani), a Nicodemo Oliverio (Crotone), a Bruna Brembilla (Milano), a Anna Puccio (pure Milano). Ci sono regole precise su questa tipologia di potenziali candidati? Maurizio Migliavacca, uomo di Bersani impegnato sulle liste, risponde: «Non lo so, non me ne occupo. Se ne sta occupando il Comitato dei garanti».
Infine, continua a covare sotto la cenere il malumore dei renziani. Ieri lo stesso sindaco di Firenze ha ribadito la sua «lealtà» al segretario del partito diventato candidato alla presidenza del Consiglio grazie al voto dell'elettorato di centrosinistra. Però ha anche aggiunto: «Ancora oggi a volte mi mordo la lingua per non dire tutto ciò che mi viene in mente. Ma il Pd è il mio partito». Con lui Arturo Parisi: «Il Pd ora è sbilanciato a sinistra. Lo voterò. Ma è un partito non capace di raccogliere la maggioranza degli italiani».

Corriere 7.1.13
Tonini, il liberal salvato: noi leali La nostra area non va annientata
«Sui nomi c'è un problema di equilibrio complessivo»
di Monica Guerzoni


Cattolico. Romano, 54 anni, laureato in Filosofia, presidente della Federazione universitaria cattolica dal ’79 all’83 e membro della presidenza e del consiglio nazionale dell’Azione cattolica fino all’89 In politica Senatore del Pd, membro della Direzione nazionale del partito

ROMA — «Chi vince non deve annientare chi perde, è un pilastro della democrazia».
E Bersani ha annientato i liberal del Pd, senatore Giorgio Tonini?
«Voglio sperare che non accada. C'è sicuramente un problema di equilibrio complessivo e mi auguro che in queste ultime ore ci sia un'attenzione per questa parte».
Siete minoranza, potrebbero replicare i bersaniani.
«È vero. Bersani ha vinto il congresso e poi anche le primarie, ma noi siamo stati leali e abbiamo riconosciuto la legittimità della vittoria. È giusto che la linea prevalente sia un'altra, però è sbagliato annullare una voce interna che è importante».
In democrazia si vince e si perde.
«Giusto. Dobbiamo essere tutti impegnati a sostenere Bersani, come ha fatto Renzi con una bella lezione di stile. Ma se passa il principio del "guai ai vinti", chi perde scompare dalla scena o deve scegliere l'esilio. E non è cosa buona».
Ichino ha lasciato il Pd per Monti e Ceccanti è fuori dalle liste.
«Appunto. Figure significative rischiano di non esserci, parlamentari uscenti come Ceccanti o giovani proposte, da Antonio Funiciello a Tommaso Nannicini... Sono voci che parlano a un pezzo di elettorato che può essere attratto da Monti e non deve essere indotto a pensare che il Pd è diventato inabitabile per questa area politica».
Inabitabile al punto che qualcun altro potrebbe lasciare?
«Non condivido la via dell'uscita. Quando si sta in un partito e si fa una battaglia interna, poi si deve accettare l'esito. Non sta bene restare solo se si vince, a meno che non mi dicano che chi perde muore. Se questa è la regola, scatta il si salvi chi può».
Lei si salverà, forse.
«La mia non è certo una nomina nel listino bloccato, è una corsa doppia per la candidatura al collegio di Trento. Prima devo essere candidato in un accordo di coalizione e poi essere eletto nel collegio uninominale».
Non si sente un miracolato insomma, né un paracadutato.
«Affatto, anche se sono grato al Pd perché posso contribuire a una operazione che ritengo stimolante e interessante, mi auguro assieme a Lorenzo Dellai e ai montiani».
In Trentino Alto Adige al Senato si vota con il Mattarellum. E il Pd sta lavorando a un accordo con Svp e il movimento di Lorenzo Dellai, che è tra i fondatori del centro montiano.
«Il traguardo è vicino. Se ce la facciamo, la mia regione sarà l'unico posto in Italia dove si realizza un accordo tra Pd e montiani».
Ma Bersani oggi stesso potrebbe siglare il patto con l'Svp, i cui rapporti con Monti non sono buoni.
«Sicuramente la frizione tra Dellai e la Sudtiroler Volkspartei è forte, ma i democratici stanno mediando. Vediamo come va a finire... Io sono fiducioso».
Spera che il Trentino possa essere un modello per un accordo di governo tra Bersani e Monti dopo il voto?
«Sì, il Trentino può essere un viatico. Io penso che il dialogo tra il segretario del Pd e il premier sia non solo possibile, ma necessario per il Paese. D'altronde è stato lo stesso Bersani a parlare di alleanza tra progressisti e moderati».
I liberal pagano il sostegno all'agenda Monti?
«Io spero di no, confido che non sia questa idea a prevalere».
Enrico Morando ha parlato di numeri punitivi per voi...
«I numeri finali delle candidature non si sanno. Mancano poche ore per fare in modo che ci sia un vero pluralismo nella rappresentanza parlamentare. Ed è a Bersani che tocca il compito di tenere tutto assieme».

Corriere 7.1.13
E in Trentino parte il «test» dell'alleanza con il Centro
di M. Gu.


ROMA — A rischio di correre troppo, i filo-montiani del Pd sono già pronti a brindare a un futuribile accordo tra i democratici e i centristi per il governo del Paese: per ora si tratta di un piccolo test, ma che ha indubbiamente una valenza simbolica. Anche perché il Trentino Alto Adige è stato più volte, in passato, un interessante laboratorio politico. Oggi stesso Pier Luigi Bersani dovrebbe ufficializzare l'alleanza nella Regione con l'Svp guidata da Richard Theiner — che ha parlato di «patto non ideologico con il Pd» — e la coalizione potrebbe allargarsi, al Senato, all'Unione per il Trentino. E poiché il movimento di Lorenzo Dellai è una costola del centro montiano, avendo contribuito a fondare «Verso la Terza Repubblica», i fautori di un'alleanza tra progressisti e moderati seguono con ansia gli sviluppi delle trattative. Tra le decisioni da prendere c'è il simbolo, se cioè accanto alla stella alpina dell'Svp e al ramoscello d'ulivo del Pd debba esserci la margherita dell'Upt, oppure il logo «Con Monti per l'Italia». Dellai conferma che l'accordo è vicino, ma sui dettagli mantiene il riserbo. «Non ci sono particolarissimi problemi — spiega l'ex presidente della Provincia — si tratta di rispettare una tradizione consolidata che ha visto i governi locali retti sempre da maggioranze che mettono insieme il centrosinistra e le principali rappresentanze autonomistiche». Sarà la prova generale di un accordo nazionale? «È molto prematuro dirlo — invita alla cautela l'ex sindaco di Trento —. A livello nazionale ci sono in campo proposte diverse e bisogna vedere come si sviluppa la campagna elettorale, quali saranno gli equilibri politici e quali convergenze programmatiche saranno possibili». E se molti ci vedono un laboratorio politico, come fu per la nascita della Margherita di Rutelli, lui non ha fretta di anticipare i tempi. «È una cosa molto legata al quadro peculiare della Regione — insiste Dellai, che sarà capolista alla Camera con Monti —. Non si possono prefigurare soluzioni successive al voto, perché in campagna elettorale è giusto che ogni candidato premier illustri al Paese la sua visione. Le parole discriminanti di Monti sono "riforme" ed "Europa" e solo dopo le elezioni si vedrà quali saranno le possibili convergenze sulle parole chiave». La prudenza di Dellai è fondata, anche perché tra i centristi di Monti sono in tanti, anche in regione, a non vedere di buon occhio un accordo con il Pd. La bozza di intesa sui temi dell'autonomia fra Pd e Svp è siglata, ma il partito di raccolta degli altoatesini ha più volte manifestato ostilità al governo Monti: anche negando la fiducia. E nonostante la mediazione del Pd, ci sono frizioni fra Dellai e la Volkspartei, che proprio ieri ha tenuto le primarie per eleggere cinque candidati per la Camera e quattro per il Senato.

Repubblica 7.1.13
Bersani, impasse in Sicilia e Friuli al Senato patto con gli Arancioni
Sulle liste il Psi minaccia di sfilarsi. Recuperata la Concia
di Giovanna Casadio


ROMA — Con ottimi sondaggi sul tavolo, il Pd studia l’offensiva per il Senato. È il tallone d’Achille che Bersani non può sottovalutare, e su cui in queste ore si sta discutendo, in un intreccio tra scelta di candidati forti (Piero Grasso; Maria Chiara Carrozza; Guglielmo Epifani), accordi, e “casi” irrisolti. Come la trattativa con i socialisti di Riccardo Nencini. Il segretario del Psi è arrivato a Roma sabato, per chiedere il rispetto degli accordi su numero e “peso” dei candidati nelle liste. Partita ancora aperta. Tanto che Nencini dichiara di essere pronto a non candidarsi personalmente, e di preparare delle liste del Psi autonome per il Senato in Lazio, Campania e Basilicata. Sarebbe un danno per il
Pd, dove qualcuno immagina persino “accordi tecnici” di non belligeranza con il Movimento Arancione di Ingroia-De Magistris per evitare competizioni a sinistra, ad esempio in Sicilia e in Veneto. Ottenere la maggioranza al Senato per Bersani è dare scacco a Monti e alle mire centriste sulla premiership.
Il puzzle delle liste democratiche si compone con difficoltà, a 48 ore dal via libero definitivo in Direzione domani. Il Friuli e la Sicilia sono ancora in pieno caos. Debora Serracchiani, segretaria democratica friulana, ingaggia un braccio di ferro e interrompe le trattative: «Quattro paracadutati da Roma sono troppi». Ci si aggiorna a oggi. In Piemonte, Mariella Enoc ringrazia ma rinuncia. All’ex presidente di Confindustria piemontese, manager della sanità, cattolica, era stato offerto il primo posto in lista davanti a Cesare Damiano o nella circoscrizione 2. Un modo per equilibrare il “gauchista” Damiano. Niente da fare. Ignazio Marino sarà capolista piemontese al Senato, nonostante lui preferisse il Lazio. Incassa però la candidatura in un posto sicuro di Paola Concia, deputata uscente della corrente mariniana, leader lesbo-gay. In tarda serata si riaprono le speranze per Stefano Ceccanti e per il renziano Roberto Reggi. In Toscana potrebbero essere due donne capolista: al Senato (Maria Chiara Carrozza) e alla Camera (Michela Marzano, seguita da Andrea Manciulli). La Sicilia è in alto mare; oggi il segretario Giuseppe Lupo dovrebbe tornare a Roma, i siciliani non vogliono più di sei nomi nazionali. Beppe Fioroni, dato per possibile capolista in Sicilia orientale (oltre che secondo in Lazio 2), stamani ribadirà nell’incontro con Migliavacca che è ben contento così. Matteo Renzi ha fatto avere al tavolo delle candidature la sua lista dei 17, sicuri sarebbero Simona Bonafè (in Lombardia); Francesco Bonifazi, Ivan Scalfarotto, Luca Lotti, Laura Cantini, Nadia Ginetti, Maria Elena Boschi, Paolo Gentiloni, Lino Paganelli, Ermete Realacci, Cristina Alicata, Alessandra Tresalli (consigliere di Carbonia), Michele Ansaldi (ex portavoce di Rutelli). Si è fatto anche il nome del giornalista Beppe Severgnini. Inoltre. Appello del regista Scola e di Sergio Zavoli per recuperare Vincenzo Vita, esperto di media. Enzo Bianco, l’ex ministro dell’Interno che non si candida ma potrebbe essere in corsa per fare il sindaco di Catania, replica ai montiani del Pd e alle tentazioni di saltare il fosso: «Il profilo democratico-liberale nel Pd dovrà essere di indubbia rilevanza». Ma la lealtà a Bersani pure.

l’Unità 7.1.13
Destra e sinistra
Sono cambiati i significati ma la distinzione resta
di Francesco Benigno


«FARE IL BAGNO NELLA VASCA È DI DESTRA, FAR LA DOCCIA È INVECE DI SINISTRA... IL CULATELLO È DI DESTRA, LA MORTADELLA È DI SINISTRA». Così Giorgio Gaber nella canzone Destra-sinistra disegnava la distinzione basilare dell’universo politico divenuta ormai luogo comune fissato nelle cose e negli stili di vita. Allora, negli anni a cavallo del XXI secolo, con lo storico scossone seguito allo sgretolarsi del tradizionale sistema dei partiti, la distinzione destra-sinistra assumeva una nuova valenza.
Sarà il regista Paolo Virzì in due film di successo a raccontare quell’Italia: «Ferie d’agosto» (1995) che delineava la contrapposizione politica attraverso il conflitto di due diverse famiglie in vacanza a Ventotene, scontro di gusti e di accenti, distinzione quasi tribale di culture incarognite; e «Caterina va in città» (2003) che raccontava la parallela degenerazione della politica in contrapposta e speculare partitocrazia vista dagli occhi delle nuove generazioni. Invece di due parti di un sistema politico pensato come necessariamente votato al ricambio (la cosiddetta democrazia dell’alternanza) prendevano corpo due schieramenti che si vivevano come minacciosi e alternativi, eserciti l’un contro l’altro armati.
Se durante la prima Repubblica il muro di Berlino aveva da un lato con la preclusione anticomunista (il «fattore K») ingessato il sistema politico e d’altro lato l’aveva per così dire «protetto» consentendogli un sia pure controllato esperimento di compartecipazione (l’arco costituzionale antifascista), negli anni della cosiddetta seconda Repubblica, grazie soprattutto (ma non solo) alla retorica anticomunista berlusconiana, un muro «antropologico» si erigeva nel Paese a dividere destra e sinistra, come da separati in casa: sicché mentre la crisi delle ideologie svuotava di significato la propaganda del nemico prossimo venturo, ne restavano gli stilemi stantii e le vuote icone, consentendo alla pungente ironia di Gaber di concludere che «l’ideologia è la passione, l’ossessione della tua diversità».
Se l’opposizione destra-sinistra ha costituito dunque l’asse della discussione pubblica della seconda Repubblica, come dimostra il successo da best-seller dell’omonimo pamphlet di Norberto Bobbio (1994), la crisi di quella stagione e il profilarsi di un possibile, ulteriore mutamento politico (una terza Repubblica?) hanno suscitato di recente crescenti dubbi intorno alla sua significatività. Ha cominciato Beppe Grillo in una puntata di Annozero a sostenere che il movimento Cinque stelle «non é né di destra né di sinistra ma è sopra»; e ora è il premier Mario Monti a presentare se stesso come non di destra né di sinistra ma come il custode del nuovo, contrapposto a una politica arcaica. Si profila dunque adesso la tendenza a sostituire una metafora sommaria (destra-sinistra) con altre non meno sommarie (alto-basso e vecchio-nuovo). Con una differenza: che mentre la vecchia distinzione profilava comunque un sistema politico regolato, basato sull’alternanza di due parti in tendenziale equilibrio, le nuove tendono a delegittimare l’altro da sé, a trasformare l’avversario in un impaccio, o un pericolo.
Certo, oggi non possiamo pensare che la distinzione destra-sinistra sia un passe-partout valido sempre e dappertutto. Già il testo di Bobbio, tutto incentrato sul tema dell’eguaglianza (semplificando: la sinistra e la destra si distinguerebbero per strategie egualitarie e comunitarie da una parte e per strategie anti-egualitarie e libertarie dall’altra) non prendeva di petto il tema delle cosiddette new issues, vale a dire quei temi che dividono gli schieramenti secondo modi nuovi di orientarsi e di distinguersi: rispetto alla difesa della natura, ad esempio, o alle rivendicazioni di genere, o al discrimine tra le generazioni, o alle rivendicazioni a base territoriale, etno-culturale o etico-religiosa.
Del cambiamento del significato di destra e sinistra, del resto, siamo stati testimoni. C’era un tempo, ancora recente, in cui la destra significava «legge e ordine» e la sinistra «protesta sociale e ribellione»: il Palazzo contro la Piazza, per dire. Poi, a poco a poco la sinistra ha preso (giustamente) a voler conservare i successi faticosamente raggiunti, i diritti sociali e civili conquistati con le lotte e la destra si è fatta ribellistica e anti-legalitaria. Non si tratta di un gioco delle parti, ma del tentativo del sistema politico di assorbire e rendere intelligibili le nuove contraddizioni. Di farsi attraversare da esse. La verità è che, secondo l’epoca e il contesto cui si adatta, la distinzione destra-sinistra ha avuto e ha bisogno di trasformarsi, di cambiare volto e pelle. Ma sta qui la sua forza, la ragione per cui continuiamo a usarla.

l’Unità 7.1.13
Destra e sinistra valgono da tempo anche per i cattolici
di Domenico Rosati


FU SPADOLINI A CONIARE PER IL PONTIFICATO DI LEONE XIII il Papa della Rerum Novarum, la prima enciclica sociale la definizione di «papato socialista». E tale per molti fu la percezione dell’indirizzo della Chiesa sulle «cose nuove» che si erano manifestate nella seconda metà dell’Ottocento, riassunte tutte nella questione sociale e nell’icona della «condizione operaia».
La definizione, per quanto impropria, rendeva l’idea di una differenza di atteggiamento rispetto ad un passato in cui le differenze di status erano viste come un portato dell’assetto «naturale» della società; e dunque andavano accettate come dati di fatto senza variazioni che non fossero quelle affidate all’azione compassionevole della beneficenza. Sentir denunciare dalla cattedra di Pietro la «“condizione poco men che servile» del proletariato industriale; e soprattutto proclamare il carattere «naturale» del diritto di associazione dei lavoratori, così parificato al sempre tutelato diritto di proprietà; ed infine introdurre il dovere dello Stato di intervenire per ristabilire la giustizia violata in rapporto all’altra affermazione di principio per cui «il lavoro non è una merce»: tutto questo bastò a fissare l’opinione che il movimento sociale cattolico, che da quel magistero prese avvio, fosse da collocare sul versante politico del rifiuto dello status quo e della rivendicazione di un «nuovo ordine» che fosse meno iniquo dell’assetto meccanicamente determinato dagli spiriti animali del capitalismo.
I protagonisti di quel movimento non volevano, beninteso, essere assimilati alle componenti propriamente socialiste già insediate nel panorama politico e sindacale, con le quali entravano semmai in concorrenza nei diversi ambiti; ma, nel «conflitto economico-sociale a carattere di classe» che segnò quella stagione, le forze che osteggiavano l’emancipazione dei lavoratori non facevano troppe distinzioni: anche i cattolici «sociali» erano avversari da trattare alla stessa stregua di tutte le altre forze «di sinistra». Anche allora e per un lungo periodo, del resto, ebbe corso nella struttura sociale e nella stessa realtà della Chiesa una «destra cattolica» che si manifestò con coerenza nell’interdizione di ogni moto di cambiamento sia nei
rapporti di lavoro, sia nell’ordine sociale, sia nell’ambito politico dove si manifestavano i primi impulsi di superamento della teocrazia e di interazione tra ispirazione cristiana e metodo democratico.
È corretto rilevare che la contrapposizione fu anche tra conservazione e riforma. Ma con una precisazione di ambiti che non consente equivoci. Il riformismo di matrice cattolica, infatti, aveva come primo obiettivo la risoluzione secondo giustizia della questione sociale, e puntava sulla dilatazione dell’influsso delle masse lavoratrici nell’ordinamento civile e nelle stesse istituzioni. La battaglia per il suffragio universale maschile mirava a dare basi più estese alla democrazia liberandola dalle angustie dell’impianto censitario ed aprendo la via della partecipazione politica a strati e ceti che ne erano esclusi. Il discrimine si fece ancor più chiaro quando si configurò una posizione clerico-fascista e tutte le correnti cattolico-democratiche e cattolico-sociali dovettero pagare severi pedaggi. I nomi di Sturzo, De Gasperi e Donati si affiancano giustamente a quelli di Guido Miglioli che in pieno fascismo promosse il Primo maggio unitario e di Achille Grandi che, dopo il ventennio, fu tra i fondatori della Cgil con Di Vittorio e Buozzi.
La discriminante sociale resta dunque fondamentale per determinare il fine delle riforme, che è sempre quello della mutazione in senso ugualitario del sistema capitalistico. Esso non viene aggredito in termini sovversivi ed anzi se ne accettano i presupposti come matrici del dinamismo economico; ma si mira ad intervenire per correggerne le distorsioni e gli squilibri di potere, sia con la regolazione dei flussi che con l’intervento diretto dello Stato democratico. Una visione ben diversa da quella invalsa nella cultura politica degli ultimi decenni, per cui riforme e riformismo sono sinonimi di lubrificanti del mercato al quale in ultima analisi si rimette la determinazione del bene e del male. Per chi volesse una illustrazione dei concetti che precedono al di fuori delle tentazioni polemiche di giornata è consigliabile la rilettura del saggio di Giorgio La Pira (anni Cinquanta) dal titolo «L’attesa della povera gente» e dal programma riassunto in un twitt: «Un governo con un solo obbiettivo: il pieno impiego».
Se poi si vuole estendere l’analisi a vicende più propriamente politiche basterà ricordare che una destra e una sinistra operarono a lungo all’interno di quella singolare struttura plurale che è stata la Democrazia cristiana, con battaglie memorabili come la riforma agraria, le partecipazioni statali, la nazionalizzazione dell’energia elettrica, la programmazione; ed ancora l’estensione dello Stato sociale, la riforma sanitaria universale, l’espansione dei diritti civili. Con un corollario decisivo sul piano del metodo: il rifiuto dell’integralismo e la ricerca di incontri e collaborazioni con forze di matrice diversa sempre sul terreno del confronto democratico. Ricordarlo senza nostalgia aiuta a scongiurare le semplificazioni che sono state rimesse in circolazione in questo avvio di campagna elettorale. Che almeno si sappia di cosa si parla.

l’Unità 7.1.13
Compagni che sbagliano
di Emanuele Macaluso


L’Economist, commentando le ultime vicende della politica italiana, ha osservato che «paradossalmente è il rassicurante Monti che molto probabilmente causerà un risultato instabile alle prossime elezioni».
Ciò potrebbe verificarsi se la coalizione vincente in ipotesi quella incentrata su Pd e Sel non dovesse ottenere la maggioranza assoluta in Senato. Come è noto il Porcellum è una somma di vergogne (parlamentari nominati, premio di maggioranza senza la definizione di un quorum per ottenerlo, indicazione del leader della coalizione come presidente del Consiglio la cui nomina invece spetta al presidente della Repubblica). E tra queste vergogne ci sono anche criteri squilibrati e squilibranti nell’assegnazione del premio tra Camera e Senato.La prima cosa da notare è che sia Monti, sia Casini puntano su questo possibile (ma non certo) squilibrio per impedire a chi vince di governare. Monti ha detto che non farà il ministro di un possibile governo Bersani. Non si capisce perché, soprattutto dopo queste sue dichiarazioni, Bersani che avrebbe la maggioranza alla Camera, e in ogni caso sarebbe il leader del partito che ha ottenuto la maggioranza relativa dei voti, dovrebbe fare il ministro di un governo Monti. Casini è stato ancora più brutale: lavorare per impedire alla coalizione guidata da Bersani di ottenere la maggioranza al Senato per impedire allo stesso Bersani di fare un governo.
Grazie alla mia età ho seguito tutte le elezioni che si sono svolte in Italia del 1946 in poi. Non ricordo una coalizione «centrista», «moderata», addirittura «degasperiana» che partecipasse alle elezioni non per governare ma per non fare governare. Non solo, l’incredibile comportamento di Mario Monti ha bruciato le due sole chance che aveva per guidare una grande coalizione di centro-sinistra. La prima l’ha bruciata scendendo (sì, scendendo) in campo alla guida di una coalizione centrista. Se infatti Monti fosse rimasto «in panchina», per evitare una maggioranza risicata e politicamente in affanno, e dunque un governo che non governa (come quello di Prodi), sarebbe stato lo stesso Bersani a cercare un’intesa al centro e Monti avrebbe potuto essere un punto di riferimento per una più grande coalizione. Sceso in campo, Monti ha invece fatto tutto il possibile per rendere impossibile un rapporto di governo con la coalizione bersaniana nella quale, com’è noto, vivono più anime. Può il leader di questa coalizione accettare le ingiunzioni di Monti nei confronti di una parte del suo partito e dei suoi alleati, e anche della Cgil? A Monti mi permetto di ricordare che De Gasperi, Fanfani e Moro, i quali guidavano un partito che aveva la maggioranza assoluta (1948), e largamente relativa successivamente, non posero mai veti a persone o alle correnti di altri partiti. Riccardo Lombardi non volle fare lui il ministro nel centrosinistra di Moro; mentre il Psi, con segretari Nenni, De Martino, Mancini, Craxi, continuò a governare con il Pci giunte comunali, provinciali e regionali, senza provocare scissioni nella Cgil. E Moro quando nel 1976 fece l’accordo con Berlinguer (governo di emergenza) volle come presidente del consiglio Giulio Andreotti, perché voleva l’unità del suo partito e il segretario del Pci consentì.
Il caso Monti, non più «terzo», non è, come scrive Umberto Ranieri su il Foglio, quello di un eroe che rinuncia a possibili incarichi rilevanti perché fa prevalere interessi generali. È un caso in cui la vicenda personale ha una dimensione politica e mette in secondo piano, come nota l’Economist, la governabilità e la possibilità che Monti sia utile al Paese, non solo ai centristi. A questo proposito mi stupisce che due persone che hanno una storia riformista nella sinistra italiana Umberto Ranieri e Enrico Morando in tutti i loro interventi sul caso Monti tacciono il risvolto più squisitamente politico che esso ha. Monti ha fatto la scelta centrista dopo un’aperta sollecitazione del Ppe, interessato a ripulire la sua immagine in Italia imbrattata da Berlusconi. E lo ha fatto anche per competere meglio in Europa con il Partito socialista. Iniziativa comprensibile anche in Italia. L’altro polo che ha sollecitato Monti ad assumere il ruolo che sta svolgendo è stato il Vaticano. E lo ha fatto in modo inequivoco, con la benedizione di due vertici: la Cei con il cardinale Bagnasco e la segreteria di Stato con il cardinale Bertone. Insomma, si è mosso il Papa. I motivi sono analoghi a quelli del Ppe: avere nella politica italiana un referente autorevole e credibile, dopo la disavventura berlusconiana, anche per bloccare l’ascesa di un leader che ha le ascendenze nella sinistra.
Monti dice di non aver fatto un partito ma un «movimento», tuttavia il Ppe in Italia si ricostruisce intorno a lui. E il Ppe è legittimamente alternativo al Pse. Non c'è dubbio, come dicono anche Ranieri e Morando, che i caratteri che ha assunto la crisi economica e sociale nel mondo, e particolarmente nell’Eurozona, impongono politiche europee e nazionali strettamente coordinate e riforme strutturali che mettono in discussione i vecchi assetti statali e sociali. Ma il centro sinistra italiano deve fare questa rivoluzione con i socialisti europei o con il Ppe? Questo, purtroppo, non interessa ad alcuni settori del Pd, ma pensavo che interessasse molto a Ranieri e Morando. I quali hanno aderito al Pd ma volevano spingerlo verso il Pse, unica alternativa alla conservazione, al Ppe. O mi sbaglio?
Insomma, carissimi compagni e amici miei di sempre, Monti centrista e riferimento del Ppe può essere un ottimo alleato e potrebbe esserlo anche come presidente del Consiglio, se le condizioni politiche lo suggerissero o lo imponessero (in Germania è avvenuto più volte). Ma assumerlo come solo possibile candidato alla guida del Paese alla vigilia delle elezioni e farne un proprio capo politico, è cosa del tutto diversa. È così? O sono io che avvicinandomi ai novant’anni vado rincoglionendo?

Repubblica 7.1.13
Innanzitutto i diritti civili
di Chiara Saraceno


I diritti civili sono «importantissimi », «anche più delle riforme economiche e sociali », ha affermato Mario Monti in un’intervista a Sky ieri mattina. Salvo aggiungere subito dopo che «non sono urgenti». Un suo eventuale governo non li avrebbe come temi prioritari nella sua agenda, lasciandoli all’iniziativa del Parlamento. Stava rispondendo a una domanda specifica sulla questione del riconoscimento delle coppie omosessuali, ma la risposta vale per l’intero arco dei diritti di cui si discute da anni: fine vita e testamento biologico, riproduzione assistita e divorzio breve. Nodo di infuocate controversie tra politici
sotto l’ombra del monito sui “valori non negoziabili” della gerarchia cattolica, sono la causa di gravi sofferenze e umiliazioni per chi continua a vederseli negati. E continuerà a non averli per un bel pezzo, fino a che si continuerà a pensare che la libertà e la dignità delle persone, il riconoscimento della loro capacità di prendere decisioni importanti su questioni di vita e di morte, del valore non solo individuale, ma sociale, dei loro rapporti di amore e solidarietà, non hanno mai carattere di urgenza, direi di necessità.
Siamo alle solite. I diritti civili – specie quelli di coloro cui sono negati – vengono sempre “dopo”.
Il vetero-marxismo della distinzione tra struttura e sovrastrutture è sempre di moda, anche tra gli autonominati liberali, pardon riformatori. I diritti civili (ma in larga misura anche quelli sociali) non fanno parte dell’agenda Monti, quindi non rientrano nel 98 per cento di accordo sul programma da Monti richiesto per essere disponibile a una qualche alleanza dopo le elezioni. Ma evidentemente non fanno neppure parte degli impegni di adesione e fedeltà richiesti a chi già da ora corre con lui, in primis a Casini e al suo partito, ma anche ai cattolici che imbarcherà come tali nella sua lista civica. Una lista civica che avrà al suo centro, perciò, pressoché solo l’economia, sulla quale, evidentemente, Monti pensa ci possa essere una ricetta unica non negoziabile, la sua (con buona pace di posizioni diverse sostenute non solo da Fassina, ma di economisti di fama internazionale). Per il resto, in particolare sui diritti civili e di libertà, è più che disposto, ad una cessione di sovranità dal governo al Parlamento, lavandosene pilatescamente le mani: attento a non esprimere neppure una posizione personale per non incrinare il patto con Casini, con i cattolici del meeting di Todi e, soprattutto, per tenersi stretto il sostegno platealmente ricevuto dal giornale del Vaticano. Finché faceva il presidente tecnico di un governo tecnico, chiamato ad affrontare problemi economici urgenti, questo atteggiamento era non solo legittimo, ma doveroso. Come candidato premier e come proponente di una Agenda per l’Italia, lo è molto meno. È chiaro che il Parlamento, alla fine, è sovrano. Ma, dato che in Parlamento andranno coloro che sono eletti sulla base di un progetto per il paese, non sembra troppo chiedere che cosa pensano e che cosa intendono fare, nel caso andassero al governo, su questi temi, e in particolare che cosa pensa chi dice di essere entrato in politica proprio perché ha un’idea di Italia per cui vuole impegnarsi.
C’è da sperare che, nella disperata rincorsa al centro e a candidati che rappresentino il fantomatico elettorato cattolico, il Pd non segua la stessa strada, mettendo la sordina sui diritti civili. Lasciarsi alle spalle il vetero-marxismo ed essere degli autentici liberali è, su questi temi, una necessità insieme politica e civile.

Repubblica 7.1.13
Fassina: noi prendemmo gli insulti per gli errori del governo sugli esodati
“Non può paragonarci al Pdl sul fisco promesse elettorali”
di Umberto Rosso


Dal Pd nessuna frenata all’esecutivo ma una correzione di rotta, come sull’articolo 18 e sulle partita Iva
Non vedo molto spazio per i centristi, neanche con l’occupazione degli spazi tv: inadeguata la loro proposta politica

ROMA — Onorevole Fassina, il presidente Monti accusa il Pd di aver frenato il governo sul mercato del lavoro.
«Non abbiamo mai frenato, e siamo stati sempre leali. Abbiamo cercato invece di porre rimedio agli errori compiuti dall’esecutivo, pesanti anche. Così, abbiamo corretto l’impostazione mercantilistica che puntava alla cancellazione dell’articolo 18 per indebolire la forza contrattuale dei lavoratori e ridurre le retribuzioni. Non siamo riusciti invece ad evitare l’aumento di sei punti percentuali dei contributi sociali alle partite Iva».
Monti però lamenta un sostegno a corrente alternata da parte vostra e anche del Pdl.
«Trovo molto strumentale che il premier insista nel mettere sullo stesso piano noi e il centrodestra. A staccare la spina è stato il Pdl. Il Pd invece è andato perfino a prendersi gli insulti nelle piazze proprio a causa degli errori altrui. Come nel caso degli esodati».
Com’è andata quella vicenda?
«Fin da subito avevamo segnalato il problema al governo. Poi, per tre volte siamo intervenuti per cambiare il provvedimento: a gennaio, a giugno, e ancora ad ottobre. Riuscendo a salvaguardare 130 mila lavoratori, ma purtroppo non tutti».
Sta rovesciando l’accusa, è stato il governo a frenare sulle richieste “sociali” del Pd?
«È davvero singolare che adesso in tv il premier prometta il taglio dell’Irpef, l’Imu ai comuni, e il congelamento dell’ Iva. Ma allora perché ci ha sempre risposto che non c’era una lira per gli esodati? E come mai ha sempre detto di no alla nostra richiesta di fermare l’aumento Iva?».
Le casse non erano così vuote oppure il premier è entrato in campagna elettorale?
«Trattasi di promesse elettorali. Monti sa benissimo come il pareggio di bilancio strutturale del 2013 avverrà contestualmente ad un aumento del debito pubblico che peserà non poco sul futuro governo. Peserà per esempio sulla carenza di ammortizzatori sociali in deroga, così come peserà molto sul destino di migliaia di precari della pubblica
amministrazione».
Se le risorse pubbliche resteranno scarse, l’ottimismo è dunque solo frutto di un Monti che parla da politico?
«S’è sfilato la giacca da tecnico, e ha indossato quella della campagna
elettorale».
Secondo Casini, il Professore dovrebbe tornare a Palazzo Chigi se Bersani non vince sia alla Camera che al Senato.
«Il banchiere Cuccia diceva: le azioni si pesano e non si contano. In democrazia non funziona così: i voti si contano. Allora, chiedo io a Casini: dovrebbe andare a Palazzo Chigi uno che perde sia alla Camera che al Senato? Perché, di certo, il cartello del Professor Monti non risulterà vincente né a Montecitorio né a Palazzo Madama».
E il rischio che il centrosinistra non conquisti la maggioranza in Senato?
«Ce la faremo. Ma, in ogni caso, il governo si costruisce attorno alla personalità che ha raccolto il maggior numero di consensi. In Germania nel 2005 la Merkel ha dovuto allearsi con l’Spd, ma che non le spettasse il posto di cancelliere non è saltato in mente a nessuno».
La nascita della lista Monti potrebbe creare al Pd problemi di “governabilità” per il risultato a Palazzo Madama?
«Non vedo molto spazio per i centristi, in una scena occupata da un lato dal populismo e dall’altro dall’area progressista. E non riusciranno a ottenerlo neanche con l’occupazione di tutti gli spazi tv: è la loro proposta politica che risulta sostanzialmente
inadeguata».

Corriere 7.1.13
Pannella al premier: riforma subito la giustizia
di R. R.

ROMA — Marco Pannella scrive a Mario Monti una «lettera urgentissima». Rimproverandogli di non aver preso in considerazione una possibile alleanza con la sua lista Amnistia, giustizia e libertà. «Ti avevo di già comunicato l'ipotesi che, come ti preciserò, accoglievo con interesse positivo di un mio, nostro scegliere la tua coalizione», scrive il leader radicale. «E la scelta conseguente, per le imminenti elezioni. Mi avevi risposto che avresti riflettuto e fatto sapere la tua risposta. L'ho avuta quando hai annunciato "urbi et orbi" quali fossero i tuoi alleati, i tuoi coalizzati». Evidentemente Pannella non ha avuto il riscontro che si aspettava. «Temo che tu non sia stato aiutato a valutare pienamente le nostre, mie storie — non solo italiane — e il conseguente valore di quella ipotesi». Poi il leader si inoltra in un'analisi più politica: «Tu hai qualificato con un binomio — Europa e laicismo — la tua agenda. Dovresti almeno riflettere sugli "agenti" delle "agende". Sul nostro federalismo militante non puoi, credo, avere dubbi. Noi li abbiamo avuti invece quando di recente tu pubblicamente dichiarasti che gli Stati Uniti d'Europa non ci saranno mai e nessuno ne avrebbe sentito la necessità. Siamo certi che in quella occasione la tua affermazione non esprimeva la sostanza delle tue convinzioni». Pannella passa poi al punto che più gli sta a cuore: la riforma del sistema carcerario e l'amnistia ai detenuti. «Noi chiediamo, esigiamo, qui ed ora, alle elezioni, così come in ogni momento della nostra vita politica e in quella personale, che l'Italia esca dalla assoluta flagranza criminale nella quale da decenni e decenni insiste, persevera nei confronti delle giurisdizioni europee, internazionali e della Costituzione italiana. Noi, caro Presidente, siamo deplorati — incessantemente e a ritmo sempre più incalzante — non solo e non tanto per queste terrorizzanti carceri, quanto per il massacro dell'Amministrazione della Giustizia contro lo Stato di Diritto e i diritti umani dei residenti nel nostro territorio».

Corriere 7.1.13
Cinque Stelle, i dissidenti con Ingroia
Il movimento verso la scissione. Nel nuovo soggetto i delusi da Grillo
di Emanuele Buzzi


MILANO — La trama politica di Antonio Ingroia sembra intrecciarsi a doppio filo con quella dei Cinque Stelle. Prima un invito a Beppe Grillo ad allearsi con lui (respinto al mittente), poi la proposta ai dissidenti grillini espulsi a candidarsi con la sua lista «Rivoluzione Civile». Secondo indiscrezioni, rimbalzate anche su web e media, Ingroia avrebbe offerto il posto di capolista alla Camera in Emilia-Romagna a Giovanni Favia, consigliere regionale, e sarebbe a caccia degli altri ex ribelli da schierare all'interno della sua nuova formazione politica.
Oggi è atteso a Bologna per la definizione delle liste una delle colonne della «Rivoluzione Civile», il leader idv Antonio Di Pietro, che ha liquidato il caso con un «non ne so nulla», salvo poi chiarire: «Ho massimo rispetto per il Movimento 5 Stelle, rispetto sia quelli che lo appoggiano sia quelli che hanno scelto di dissentire. Ma non mi interessa entrare nei problemi degli altri. Io mi rivolgo a tutti i cittadini, senza chiedere se hanno votato questo o quel partito, ai cittadini stanchi di essere presi in giro, per costruire un'alternativa di governo a quella delle destre».
Nel frattempo, i ribelli grillini più noti prendono posizioni differenti. Irrintracciabile Favia (che però ha sempre smentito un'eventuale candidatura), al contrattacco, invece, Federica Salsi, che ammette di essere stata avvicinata da alcuni partiti e rifiuta le offerte. «Sono stata contattata da varie forze politiche — afferma il consigliere a Palazzo d'Accursio — ma io non mi candido al Parlamento. Non era mia intenzione candidarmi prima del caso che mi ha visto protagonista né lo è ora. Ci tengo a finire il mio mandato in Comune a Bologna». Su Facebook poi Salsi rincara la dose: «A differenza di Grillo, per me la parola data ha un valore. Tanto meno mi toccano le pressioni del suo amico Di Pietro su altri ex esponenti del Movimento 5 Stelle. Il loro gioco è di facile comprensione». Più secco Valentino Tavolazzi, che — in merito a una possibile candidatura — smentisce un eventuale coinvolgimento: «Personalmente non ne so nulla».
Intanto, in Rete, prendono corpo nuovi scenari che potrebbero aprire la strada a orizzonti molto più complessi rispetto a una semplice candidatura di qualche (ex) esponente di spicco grillino nelle liste di Ingroia. Si profila la nascita di un nuovo soggetto politico a livello nazionale: un'ala del movimento, delusa dalle scelte di Grillo e Casaleggio, sarebbe pronta a staccarsi dai Cinque Stelle e troverebbe «ospitalità» per le Politiche in «Rivoluzione Civile». Si tratterebbe di un'operazione simile a quella che fecero nel 2009 proprio Di Pietro e Grillo con Sonia Alfano (ex candidata grillina nel 2008 alla presidenza della Sicilia) per le Europee.

La Stampa 7.1.13
Siria, riappare Assad “Nessuno mi caccerà”
I guerrieri stanchi di Aleppo non credono più alla vittoria
Con i ribelli che assediano un aeroporto militare: “Impotenti contro i Mig”
di Domenico Quirico


Contraerea improvvisata Una mitragliatrice montata su un vecchio fuoristrada: sono le armi più pesanti in mano ai guerriglieri anti-Assad che devono fronteggiare artiglieria e missili lanciati dal cielo
Rasa al suolo La cittadina di Taftanaz, in mano agli insorti, dopo un raid dei cacciabombardieri dell’aviazione governativa

Ecco, inizia sempre così: l’aria d’improvviso è immobile e sembra gonfia di elettricità statica, come prima di una tempesta elettrica. Kaiss me l’ha detto: «Attento, sarà dopo il carro armato distrutto...». Un grande rimbombo sulla destra, a non più di cinquanta metri, la prima bomba erompe in una vampata di fuoco rosso e fumo nero e si gonfia di questa terra grassa e molle di nebbia.
L’onda sonora penetra nelle orecchie negli occhi, nel cervello e sbatacchia il corpo in un violento tremore; e poi terra ovunque che ricade. «Siamo fortunati, con la nebbia così fitta gli aerei non verranno... ». E invece dalla base aerea del regime, pigramente, ci stanno inquadrando: prima i cannoni dei tank, poi i mortai. Non hanno fretta; prima o poi... I ragazzi intorno a me, scuri di terra, si alzano come statue animatesi all’improvviso. Ridono, aspettando le altre bombe che verranno. Sono giovani e per loro è una prova di virilità dinanzi al pericolo. Ridono perché la morte tutto intorno li avvolge ogni giorno, da quasi un anno, in un caldo abbraccio.
Qui in Siria non ci sono retrovie, non ci sono luoghi sicuri in cui riposarsi dopo la battaglia, non ci sono giorni di bonaccia per cessare di essere soldati e ribelli e tornare ragazzi, magari tesi e rabbiosi, ma ragazzi, buttar via l’uniforme, e togliersi di dosso anche la guerra, ridere, scherzare. Oggi bisogna prendere questa base aerea di Taftanaz, nella regione di Idlib, feudo sunnita dove i combattenti sono ormai in grande maggioranza islamisti, siriani e del Jihad: i loro gruppi si chiamano Al Nusra, Al Farouk, Arahr al Sham, una sigla che non avevo mai udito. I folli di dio che hanno preso il controllo della rivoluzione, che sognano l’emirato siriano da cui cambieranno la carta del Vicino Oriente, e del mondo, il nostro incubo.
Siamo a venti chilometri a sud ovest di Aleppo: Aleppo dove si combatte la battaglia decisiva: se vinceranno i ribelli, il regime di Assad cadrà; altrimenti, perduta anche l’unica grande città cui sono avvinghiati disperatamente, si andrà verso la spartizione del Paese. Proprio da questa base partono gli elicotteri che massacrano la città martire. Ecco perché da tre giorni, ostinatamente, i guerriglieri stringono il cerchio attorno alla pista e ai bunker da cui i soldati continuano a lanciare zampate sanguinose. Bisogna prenderla, farla tacere a tutti i costi. Ma domani sarà un altro aeroporto, un altro quartiere di città, un altro villaggio: ancora e ancora, senza fine. La Siria: un posto del mondo, vicino vicinissimo alla nostra cieca indifferenza, dove una generazione è senza età. La sua vita dura un giorno: nascono all’alba, diventano adulti e muoiono la sera. Anche se sopravvivono, sono già vecchi.
Osservateli. Basta che inizino i combattimenti e tutto sparisce in loro, resta una sola cosa: sopravvivere. Non sono più ragazzi. Hanno ucciso e visto morire. L’udito si acuisce, come nei gatti, gli occhi diventano capaci di rilevare il minimo movimento, sanno quando rimanere sdraiati e quando devono sfilare in uno spazio aperto, si orientano senza errori al semplice suono di una mitragliatrice che spara.
Nessuno di loro è riuscito a spiegarmelo. Sanno quando abbassarsi un attimo prima che il proiettile esploda. Guardate Kaiss, studente in marketing: un giorno ha lasciato le sue cose in un posto sicuro, è uscito dalla caserma e via, è diventato rivoluzionario e disertore. A ogni esplosione strizza gli occhi, in quel modo benevolo che hanno i ragazzi, tendendo un po’ fuori il capo e annuendo di piacere, come se a ogni scoppio si sentisse più vivo. Seguendo in battaglia i ribelli siriani, ad Aleppo e ora qui, ho maturato la certezza che in guerra l’uomo non ha solo cinque sensi, ma sei, sette, dei tentacoli che spuntano e germogliano nel combattimento. E lo aiutano a sopravvivere.
Ora dalla base hanno aggiustato il tiro, il rimbombo e lo spicinio delle esplosioni riprende; non pigri, questa volta, ma smaniosi, queruli, dall’intonazione quasi interrogativa. Corriamo verso un bosco di ulivi, opache sagome nella nebbia. Non abbiamo sentito il sibilo di partenza, eppure percepiamo la granata in volo, ogni cellula del nostro corpo lo sa e si moltiplica in mille particelle, diventa un universo di paura e di attenzione, la vita parla in noi e solo lei ci salva. È per questo che è impossibile forse descriverla, chi non è stato in battaglia non ha i sensi per sentirla.
Al riparo degli ulivi i ragazzi delle squadre d’assalto, le nere divise degli islamisti, freneticamente con picconi e vanghette scavano una trincea. Adesso che siamo vicini i soldati fanno schiamazzare le mitragliatrici, ci cercano nella nebbia un po’ a casaccio. Ieri, senza la nebbia, ho visto lo scenario posizioni della battaglia, dorsi di pietra bianca delineantesi sullo sfondo del cielo, versanti brulli e cuspidi fitte di pini hanno l’aspetto dolce di un grembo di donna dove non sarebbe forse triste neanche morire. Qualche volta il campo di battaglia è idillico. Sembra che la natura, malgrado gli sforzi inauditi degli uomini per farla cooperare ai loro piani di strage, voglia dare una prova tangibile della sua indifferenza, della sua maestosa neutralità, ricordar loro l’immutabile trionfante bellezza e libertà del mondo e della vita. I ribelli che erano con me guardavano la loro terra, nessuno dubita che, qualunque sia lo sforzo necessario, si impadroniranno di quella base che hanno visto rosseggiare nel gran sole calante. È come se, contemplandola dall’osservatorio, l’avessero attirata per gli occhi in loro, impossessandosene fermamente.
Un elicottero si è alzato in volo, gira lentamente in mezzo alla nebbia, carico di razzi, cercando un varco in quell’opacità per sgravarsi di morte. Mi hanno raccontato che il comandante della base è stato ucciso, che molti soldati, un centinaio, hanno disertato. Ma quando ho chiesto di incontrarli ho ricevuto risposte vaghe. In Occidente circola l’idea che il regime sia agonizzante, e la rivolta, anche senza aiuti, avanzi ormai inesorabile verso la vittoria. Ogni volta che vengo in Siria ho l’impressione contraria. Pensavo di andare a Idlib, la città a sud di Aleppo, liberata, si era detto. È totalmente nelle mani degli uomini di Assad.
Dopo aver passato la frontiera turca ad Antiochia, sono venuto in un piccolo campo dell’Armata libera a Atmeh, poche tende bianche sulla cima della montagna spazzata dall’inverno. Dormo in una tomba paleocristiana, III secolo mi dicono, alcuni gradini, poi tre anguste navate scavate armoniosamente nella roccia, i ragazzi mi hanno mostrato una piccola, antica lampada a olio in terracotta che hanno trovato quando l’hanno trasformata in rifugio. Il loro campo sorge in quello che, sotto l’impero di Roma, era un cimitero della antica comunità cristiana. Nella tomba il freddo è meno terribile, una piccola batteria dopo le cinque regala un’ora di tremolante penombra bianca.
Ibrahim, i capelli ricci e un viso angelico che contrasta con gli occhi da uomo maturo, mette nella piccola stufa rametti di ulivo ancora con le foglie, piano, come se commettesse un sacrilegio. Li stanno potando, gli ulivi, giù nel vallone, prima che cada la neve e la leggera patina di ghiaccio che ogni mattina copre la terra si faccia ancora più spessa. Questi ragazzi sopravvivono qui, da settimane, da mesi. Non hanno la fede aspra del Jihad, vanno avanti nella ribellione con periodi di paura, di stanchezza, con una timida leggerezza di cuore. La notte sulla montagna vuol dire paura, con l’arrivo del tramonto senti che tutto in te si raffredda, si indurisce e si mette in guardia. Ti aspetti di tutto e sei pronto a tutto. Non c’è un fuocherello intorno, non un suono, non un movimento. Ti sovrasta un enorme cielo sconfinato, fino all’alba non c’è nessuno vicino a te, sei solo, anche se siete in dieci, cento, vi sentite soli. Non c’è vita intorno, sei tu la vita e il mondo nella Siria sconfinata e in guerra. Poi sulla montagna, laggiù verso la base, si accende un’esplosione, per un attimo svela le muraglie chiare come quella del nostro Carso. Poi scompare subito, in un orizzonte sbavato di nero. Qui tutto è passeggero, il tepore del fuoco, il silenzio, la vita
I ragazzi sono inchiodati dal fuoco nemico nella trincea tra gli ulivi. La nebbia cade giù forte come argento liquido, creando una pesante cortina su tutto. Un gruppo che attraversa di corsa gli spazi scoperti a destra, dall’altro lato del campo, si insinua tra i cespugli, ruscella verso il viottolo che porta al muro che circonda la base. Non c’è artiglieria per ribattere ai colpi, e se la nebbia si alza arriveranno i Mig da Homs per sarchiare il terreno intorno. E non basteranno le mitragliere montate sui camion per fermarli.
Siamo arrivati a quella fase del combattimento in cui ogni cosa sfugge al controllo, fase di incoscienza, di tensione e di esagerata sensibilità. Si sente che qualcosa di decisivo sta maturando: ma in che senso?
Parole allarmate arrivano da tutte le parti, circolano di fila in fila, tra gli urli i fischi gli schianti dei proiettili sempre più fitti. Le katibe, dall’altro lato dell’assalto, hanno subito perdite gravi, bisogna ritirarsi. I ragazzi rifluiscono piano verso il villaggio di Tatfanaz, raso al suolo dall’artiglieria, hanno sguardi senza luce. Tra tutte queste case morte erra qualche ribelle, sperduto come un cane senza padrone. L’assalto è fallito. In fondo è stata una giornata da poco, di quelle che se uno fa il diario non sa cosa scriverci e resta a lungo con la penna in mano e la pagina bianca; oppure deve ripetere le stesse cose, che c’era nebbia, faceva molto freddo, il nemico tirava bene... Un’altra giornata di guerra, in Siria. Siamo vivi, in fondo è quello che conta.

Repubblica 7.1.13
Polemiche. Perché non possiamo non dirci freudiani
L’intervista di Nino Ferro a Repubblica del 18 dicembre
Dopo l’articolo di “Repubblica” le reazioni del mondo analitico
di Luciana Sica


«Questa idea che esistano preti freudiani è un’invenzione polemica di Nino Ferro, ma la sua è una logica politica che scivola nella mediocrità sul piano teorico... Siamo tutti post-freudiani: basta leggere i più grandi autori ancorati alla psicoanalisi classica – da Laplanche a Green, ma anche allo stesso Winnicott – per rendersi conto che davvero non c’è il rischio di un culto religioso». Alberto Semi, sconfitto da Nino Ferro nella corsa alla guida della Società psicoanalitica italiana, non ha gradito l’intervista che il neopresidente ha rilasciato a Repubblica (il 18 dicembre scorso) e caduta come una bomba nel mondo analitico, ma non ne fa una questione di beghe interne. Tutt’altro: «Ben venga un dibattito libero e pubblico, per la sua funzione civile, perché anche all’esterno si possano assaporare almeno le grandi linee di una questione culturale fondamentale, e cioè chi sia l’essere umano e come possiamo pensarlo».
Semi non enfatizza le tensioni personali con Ferro, ma è un uomo che ama la polemica: «Che senso ha parlare di “psicoanalisi italiana”? Da noi non c’è mai stata una monocultura analitica, ma piuttosto una “psicoanalisi in Italia” con la presenza da sempre di correnti diverse – isolata in passato, questo è vero – mai provinciale però. Soprattutto non esistono idee vecchie e nuove, ma idee valide e non valide: ipotesi diverse per spiegare gli stessi fenomeni. Bisogna discuterne, sapendo che oggi ci sono nel mondo più psicoanalisi che pensano e lavorano, che la collaborazione è possibile a patto di chiarire quali sono le differenze. E senza mai avere paura del conflitto, perché il conflitto è il sale della vita. Ferro è più legato alla professione clinica, nel senso stretto del termine, mentre io considero importante che la psicoanalisi possa dire qualcosa sulla cultura in cui viviamo, anche in senso antropologico: dallo sgretolamento della famiglia ai nuovi modi di procreazione, dalla considerazione dei generi sessuali alla fine della vita...».
Ma qual è il vero oggetto del contendere? Prova a spiegarlo Stefano Bolognini, in qualche modo super partes nel suo ruolo di primo italiano al vertice dell’International Psychoanalytical Association: «Certamente il dilemma non è “Freud sì/Freud no” o anche “solo Freud/niente Freud”, ma piuttosto se sono più importanti le pulsioni – quelle spinte aggressive e sessuali dovute a fattori biologici e a processi inconsci – o se invece a prevalere è la relazione tra analista e paziente. In altre parole, cambia di più la vita ricordare, abbattendo i meccanismi difensivi della rimozione, oppure arricchire il pensiero? La cura analitica è solo un recupero della consapevolezza o un fattore trasformativo della mente? Il punto è dove cade l’accento, anche se in realtà la psicoanalisi è come un albero, il cui tronco (Freud) è importante quanto i rami e le foglie (gli sviluppi post-freudiani degli ultimi cinquant’anni): questo Ferro e Semi lo sanno benissimo, e la loro querelle insaporisce lo scenario di una psicoanalisi ormai irrimediabilmente pluralista. Unita però dall’irrinunciabilità, per qualsiasi albero, di avere radici, tronco, rami e foglie – anche se ognuno ha le sue preferenze, un suo modello teorico e clinico che non andrebbe comunque mai assolutizzato».
Sarebbe però un’ingenuità credere che la psicoanalisi in Italia si riduca a un duello a distanza tra Ferro e Semi, con una qualche mediazione di Bolognini. C’è tutto un mondo analitico in subbuglio e posizioni per niente faziose di tutto rispetto. Come quella di Sarantis Thanopulos, collaboratore del manifesto – con una rubrica che esce il sabato – e autore di libri non solo raffinati, ma innovativi: s’intitola Ipotesi gay il volume a più voci sull’omosessualità, curato con Olga Pozzi per Borla.
Non procede per semplificazioni quest’analista di origini greche, che rifiuta di schierarsi nella contrapposizione tra psicoanalisi classica e contemporanea, giudicandola ideologica e di scarsa consistenza culturale. Thanopulos non esita ad ammettere che «il pericolo di un uso esegetico del pensiero di Freud esiste davvero», ma esclude sia questa la tendenza dominante: «Piuttosto il rischio è che prevalga l’idea di considerare l’opera freudiana come un ferro vecchio e inutilizzabile, da archiviare sbrigativamente. Il pensiero di Freud va innanzitutto conosciuto a fondo e poi magari smontato dov’è necessario, anche radicalmente trasformato, ma sapendo che resta ancora vivo in tante sue intuizioni e soprattutto in certe sue impasse e contraddizioni. Ha ragione Ferro quando invita a non arroccarsi sul già noto e a non demonizzare altri modelli, compresi quelli americani, basta però che il rigetto di Freud non somigli a una via di fuga dall’obbligo del rigore a cui gli analisti sono comunque tenuti, qualunque cosa pensino del fondatore della loro disciplina».
Molto più “indignato” è Alberto Luchetti, che ha scritto una lettera furente al nostro giornale. Precisa di essere ancora lui il direttore della Rivista di Psicoanalisi (fino a marzo, quando gli succederà Giuseppe Civitarese) e soprattutto difende il suo lavoro e gli articoli scritti in questi anni da analisti di altri Paesi. Secondo la sua versione, «la Rivista non ha bisogno di una “apertura ai contatti e agli scambi internazionali”, per il semplice motivo che c’è già, ma evidentemente i nomi dei nostri articolisti, non essendo stati scelti da Ferro, non contano...». Peccato che – trattandosi di un trimestrale molto di nicchia – sia impossibile dare conto ai nostri lettori di una polemica, questa sì, decisamente interna.

L'intervista a Ferro del 18 dicembre scorso, al quale l'articolo di L. sica di oggi su repubblica (qui sopra) fa riferimento:
Repubblica 18.12.12
L’istituzione analitica volta pagina con la presidenza di Nino Ferro

“Basta con i dogmi: è ora di aprirsi all’esterno, di dialogare con gli altri”
Una nuova anima

“La psicoanalisi italiana non può fermarsi a Freud servono idee diverse altrimenti diventa un culto”
di Luciana Sica


«L’epoca d’oro della psicoanalisi italiana è ormai alle spalle? Ma che idea assolutamente demenziale. Quella lì era una psicoanalisi isolata, con una sua riconoscibilità esclusivamente interna, altrove non sapevano neppure che esistesse... Una ventina d’anni fa avrei voluto che il mio primo libro uscisse anche in inglese, ma fu rifiutato sempre con lo stesso argomento: bel lavoro il suo, peccato sia scritto da un italiano, non lo comprerebbe nessuno... Tanto che dissi: allora firmatelo Iron!».
Iron come Ferro. Come Nino Ferro, il nuovo presidente della Società psicoanalitica italiana, sessantacinque anni, palermitano trapiantato a Pavia, autore di libri tradotti in più di dieci lingue (un suo nuovo saggio su Le viscere della mente uscirà il prossimo anno da Cortina). È un analista conosciuto ovunque: l’americano Thomas Ogden – tra le teste più brillanti della psicoanalisi mondiale – avrà anche esagerato, ma è lui a considerare Nino Ferro «il migliore teorico e clinico psicoanalitico che attualmente scrive». Il neopresidente, più incline all’understatement, sembra però determinato a far voltare pagina alla psicoanalisi di casa nostra. Con due parole chiave – “pluralismo” e “internazionalizzazione” – e la consapevolezza che potrà giocare di sponda con Stefano Bolognini, alla guida dell’International Psychoanalytical Association, primo italiano al vertice dell’istituzione fondata da Freud nel 1910.
Lei vuole “sprovincializzare” la Società psicoanalitica italiana... Non sarà un’impresa facilissima, perché si direbbe un’organizzazione chiusa, che pretende di accreditarsi da sola, un po’ compiaciuta di sé. Come pensa di renderla più aperta, più dialogante?
«Alcuni segnali di cambiamento sono importanti da subito per uscire da un isolamento antistorico che a volte ci fa ancora ragionare in termini localistici. Come presidente di tutti, garantirò che ogni modello riconosciuto sia considerato legittimo e con pari dignità. Nessun pensiero sarà minoritario, ma nessuno – in nome dell’ortodossia freudiana – potrà più permettersi di scagliare anatemi del tipo “questa non è psicoanalisi”».
Da chi vengono le scomuniche e a chi sono dirette?
«Vengono da chi ama marcare a ogni riga e a ogni frase il senso dell’appartenenza, senza sentire il bisogno di una qualche originalità. In genere gli anatemi vengono scaraventati contro gli “altri”, quelli che si preferisce non studiare ma demonizzare».
Fa almeno un esempio del cambiamento che ha in mente?
«Mettiamo la nostra Rivista di psicoanalisi, diretta da Giuseppe Civitarese. Andrà aperta a maggiori contatti e scambi internazionali, compresa la psicoanalisi americana che potremo anche criticare, ma a patto di conoscerla bene, senza i soliti arroccamenti sul già noto».
Cosa dicono o fanno di così scabroso gli analisti americani?
«Si mettono in gioco nel rapporto analitico senza escludere neppure l’“auto-rivelamento”: possono anche raccontare qualcosa di sé, seppure in un legame stretto con quanto va dicendo il paziente. La loro è un’impostazione teorica e clinica fortemente “relazionale”».
Un peccato mortale per un analista classico?
«Un tabù che forse vale la pena d’infrangere. Del resto, se oggi Freud vedesse analizzare i pazienti come nei primi decenni del Novecento avrebbe una crisi di disperazione. Non era una scienza infertile che voleva, ma una scienza capace di svilupparsi, di trasformarsi, di volare...».
Non pensa che alcuni voli possano risultare azzardati?
«Penso che ognuno ha il diritto di approfondire il suo modello in modo libero e creativo, senza eclettismi, senza fare pastrocchi, ma anche senza ignorare tutto il resto. Soprattutto nel training – nella formazione degli allievi che costituisce per serietà e impegno il nostro marchio di fabbrica – non basterà più lo studio pur fondamentale dei classici, ma dovrà esserci una forte presenza della psicoanalisi contemporanea».
Sembrerebbe del tutto ovvio. Ma forse c’è un altro problema: non le risulta che gli analisti italiani difettano nella padronanza dell’inglese?
«E questo è davvero tragico, perché così non ci si può muovere nel mondo scientifico. Lo studio dell’inglese andrà inserito obbligatoriamente negli anni della formazione dei nostri analisti: lo considero un punto centrale del mio programma».
Il suo competitor nella corsa alla presidenza, Alberto Semi, ha accusato l’establishment della vostra istituzione di accentrare ogni decisione senza favorire la partecipazione e il talento creativo dei soci... Avrà qualche ragione?
«Non è certo la creatività che manca alla psicoanalisi italiana. Il problema è che finora non abbiamo avuto a disposizione dei canali agili per farla conoscere all’estero. Bisogna che ci siano. E comunque senza più dogmatismi: se una cosa non l’ha detta Freud, può andar bene lo stesso».
Ma c’è psicoanalisi senza Freud? O meglio: c’è una continuità o una rottura tra Freud e “le” psicoanalisi contemporanee?
«Mi verrebbe da dire: c’è microbiologia senza Pasteur? Certamente sì, grazie anche a Pasteur! Il punto è che bisogna avere il coraggio di proporre nuove idee anziché celebrare le vecchie. Non guarderei ai fasti del passato, ma al brillante futuro che la psicoanalisi saprà dare a se stessa con la ricerca e l’impegno nella cura delle nuove patologie. Fermarsi a Freud significherebbe trasformare una disciplina basata sull’esperienza in un credo religioso».
Secondo Semi, si rischia di perdere di vista nientemeno che l’inconscio... Lei ne difende o no la centralità?
«Ma assolutamente sì. Non a caso, l’anno scorso, ero tra i cinque analisti a organizzare l’appuntamento internazionale a Città del Messico, e ho insistito moltissimo per quel titolo sui tre pilastri della psicoanalisi: “Sessualità, Sogni e Inconscio”... Ma mi è sembrato che al congresso Semi non ci fosse».
Che ci fosse o meno, non importa. Piuttosto qual è la sua idea dell’inconscio? E quanto conterà ancora il passato del paziente?
«Seguendo il modello di Bion, penso che l’inconscio venga formato e trasformato nella relazione analitica, nell’incontro singolare tra due menti che costituiscono una nuova entità e danno vita a scenari nuovi e imprevedibili. Certo che il passato conta, ma forse il problema riguarda quelle storie che non ci è stato dato di vivere o – come direbbe Ogden – di sognare».
Lei ha un’aria conciliante, ma da voi i conflitti a tratti sono feroci...
Non è deludente tra gente che fa il vostro mestiere?
«Gli analisti esistono soltanto nel rapporto col paziente. Nella vita sono uomini e donne come tutti gli altri, né migliori né peggiori».
Ma la Società psicoanalitica non ha proposto l’immagine di un cenacolo di anime belle?
«Anime belle, noi? Via, le cattiverie e le generosità sono assolutamente identiche in ogni ambiente professionale. Anzi, da noi forse è un poco peggio, visto che se siamo dei bravi analisti siamo tenuti a contenere tutto il giorno le angosce dei pazienti. E quindi poi magari dobbiamo anche sfogarci un po’...».

Corriere 7.1.13
Insieme contro le disuguaglianze le parti migliori di sinistra e destra
di Giuseppe Bedeschi


I dati forniti in dicembre dalla Banca d'Italia sulla concentrazione della ricchezza nel nostro Paese non hanno suscitato, che io sappia, commenti adeguati. Eppure si tratta di dati impressionanti. Molte famiglie, secondo tali dati, hanno livelli modesti o nulli di ricchezza; all'opposto, poche famiglie dispongono di una ricchezza assai elevata: alla fine del 2010 la metà più povera deteneva il 9,4 della ricchezza totale, mentre il 10% più ricco deteneva il 45,9 % della ricchezza complessiva.
Tali abissi di disuguaglianza sociale non possono non suscitare disagio morale e sgomento. E non possono non rafforzare le ragioni di coloro che nella battaglia politica militano a sinistra. «Sinistra e destra ci sono ancora» titolava l'Unità del 5 gennaio, che pubblicava su questo tema una intervista al ministro Fabrizio Barca, il quale a un certo punto affermava: «Chi dice che non c'è differenza fra le due parti (destra e sinistra), oppure racconta un mondo monistico in cui esiste una sola soluzione ai problemi, in verità non vuole cambiare le cose e vuole favorire solo una parte, con il convincimento di possedere una soluzione tanto superiore alle altre da voler abolire il pluralismo».
Le parole del ministro Barca sono stimolanti. Perché, in realtà, il pluralismo di opinioni e di proposte di cui egli parla non riflette solo la divisione fra sinistra e destra (a questa dicotomia ha dedicato ieri considerazioni assai interessanti Giovanni Belardelli su questo giornale), ma è presente nella stessa sinistra (e probabilmente anche nella stessa destra). A sinistra, infatti, c'è chi ritiene che i provvedimenti più importanti del governo Monti (dalla riforma delle pensioni alle liberalizzazioni: queste ultime, invero, più promesse che realizzate) debbano essere senz'altro aboliti; e c'è invece chi ritiene che tali provvedimenti non solo vadano conservati, ma siano soltanto il timido inizio di un percorso sul quale bisogna procedere speditamente e senza incertezze. Lo stesso si può dire della destra, dove ci sono coloro che vorrebbero ritornare al passato (non a caso, del resto, i governi Berlusconi non hanno mai realizzato le riforme che avevano promesso), e coloro che, invece, ritengono improrogabili le «riforme liberali». La contrapposizione sinistra-destra è, insomma, oggi complicata dal fatto che ci sono due sinistre e due destre.
In realtà il Paese appare oggi profondamente diviso (ripeto: sia a sinistra, sia a destra) sulla strada da percorrere. Questa divisione appare più chiaramente (e drammaticamente) a sinistra, poiché quest'ultima, da un lato, possiede una ricchezza di tradizioni e di posizioni politico-culturali che la destra non ha, e dall'altro lato perché la sinistra deve compiere uno sforzo doloroso di revisione del proprio passato. Ma per diversi settori della sinistra (i settori innovatori) è ormai chiaro che il problema fondamentale del Paese è quello della crescita economica, la quale è ferma da 15/20 anni: una stagnazione che non ha un corrispettivo (lo ha ricordato su questo giornale Lucrezia Reichlin) non solo nell'esperienza di Francia e Germania, ma nemmeno in quella dei Paesi più poveri della periferia europea. Senza crescita economica, i ceti più deboli sono destinati a subire danni sempre più gravi, e le disuguaglianze sociali, da noi già così stridenti, sono destinate non a ridursi, bensì ad aggravarsi. «Se le dimensioni della torta non crescono — hanno scritto due esponenti della sinistra innovatrice, Enrico Morando e Giorgio Tonini nel loro libro su L'Italia dei democratici — non basteranno la buona volontà e l'amore di giustizia di chi taglia le fette a fare la felicità dei commensali: le potenzialità delle politiche redistributive — che il governo dei democratici certamente adotterebbe — incontrano un limite insormontabile nella dimensione del prodotto». Di qui i formidabili problemi che stanno di fronte a una sinistra moderna. Occorre rimuovere gli ostacoli che frenano la produttività del lavoro (l'aumento dei salari, ricordano Morando e Tonini, non può venire da un ulteriore, impossibile aumento della spesa pubblica, ma solo da un aumento della produttività: a tal fine sono necessarie però riforme nella normativa che regola il lavoro). Occorre infrangere i veti di gruppi privilegiati e di corporazioni avvinghiati alle loro posizione di rendita. E occorre ridurre l'eccessivo premio che, in Italia, va oggi all'anzianità: nella scuola, nella giustizia, nella pubblica amministrazione, si progredisce nella carriera non per meriti, ma per anzianità. Questo criterio antimeritocratico, che blocca gravemente la mobilità sociale, ha dato vita a una società chiusa e corporativa come la nostra, sulla quale grava una maledizione tremenda: essa non garantisce più un futuro ai propri giovani, molti dei quali, fra i migliori, devono andare raminghi in altri Paesi, dove la preparazione culturale e scientifica e la serietà professionale valgono ancora qualcosa.

La Stampa 7.1.13
Camus, la sola salvezza per l’Europa passa attraverso il federalismo
di Massimiliano Panarari


Prima della sventurata Grecia di questi ultimi mesi, ce ne sono state tante altre. E, tra queste, anche la spensierata e soleggiata meta di molte vacanze estive di tanti europei e non solo. Un fascino a cui non poteva sottrarsi di certo uno scrittore estremamente «mediterraneo», e attratto irresistibilmente dall’abbacinante luce solare, come Albert Camus, questa volta non al centro di una delle periodiche polemiche transalpine, ma oggetto di riscoperta da parte della nostra editoria per una sua interessante conferenza degli Anni Cinquanta.
Castelvecchi, nella collana di (spesso raffinati) repêchage intitolata «etcetera», ha da poco mandato in libreria Il futuro della civiltà europea (pp. 57, € 7), l’unico incontro registrato tra i vari da lui tenuti durante un soggiorno di tre settimane in Grecia nel 1955. Un viaggio nella «culla della cultura» che sognava da quand’era ragazzino, e che aveva deciso di intraprendere per scrollarsi di dosso le avvisaglie di una depressione generata dal clima parigino (quello meteorologico, ma pure quello delle superficiali parrocchie intellettuali) e dalle preoccupazioni per quanto stava accadendo nella sua Algeria.
Il 28 aprile di quell’anno, lo scrittore franco-algerino partecipò ad Atene, dialogando con alcuni noti intellettuali greci, a una conferenza organizzata dall’Unione culturelle Gréco-Française, e dedicata alle prospettive «spirituali» che attendevano il nostro continente. Ne esce, come mostrano queste pagine, il ritratto di un uomo inquieto rispetto alla sopravvivenza morale della nostra civiltà, duramente provata dalle due guerre mondiali dei decenni precedenti. E persuaso che la sola salvezza passasse per la formula del federalismo, continentale e mondiale.
Di fronte alla brutta prova di sé che aveva dato la sovranità nazionale, Camus perora con decisione la causa di un’Europa federale, ben oltre la pura confederazione di Stati. Un’Europa libera dalle influenze delle potenze della guerra fredda, e edificata sul rispetto delle diversità e il senso della «misura», come giusto equilibrio fra i principi, alla fin fine inevitabilmente «antitetici», di libertà e giustizia.

Repubblica 7.1.13
Piccoli imperi cadono

Non solo Roma, Bisanzio, la Russia e la Spagna
Uno studioso inglese racconta ascesa e declino di regni millenari spazzati via dalla storia
Come è scomparsa l’altra metà dell’Europa
di Stefano Malatesta


Pubblicato nella seconda metà del Settecento, Decline and Fall of Roman Empire di Edward Gibbon, è stato letto in Inghilterra per due secoli come qualcosa di simile al Vangelo da quelli che volevano dare alla politica un senso più nobile chiamato storia. Erano tutti affascinati dal tema della nascita e soprattutto della caduta degli imperi. All’epoca gli inglesi fingevano ancora di essere dei bottegai (così li aveva chiamati Napoleone, prendendo un grosso abbaglio) interessati solo al commercio e alle merci, mentre in realtà stavano ponendo le basi per l’impero più grande del mondo. Si sentivano gli eredi dei Romani, volevano essere come loro, ma nello stesso tempo non volevano fare quella fine tragica raccontata nelle storie delle guerre gotiche. Nessuno è mai riuscito a capire se il crollo degli imperi sia iscritto nella loro stessa nascita, o sia un evento dovuto alla fatuità e imprevedibilità del caso.
In questi giorni è uscito un bel libro che s’intitola Vanished Kingdoms: The History of Half-Forgotten Europe, un tomo di ottocentocinquanta pagine scritte in corpo otto (Penguin Books, 12 euro). L’autore è Norman Davies, uno dei più noti storici inglesi. È un luogo comune dire che la storia scritta nei libri e insegnata a scuola è sempre quella dei vincitori. Ma questa è rimasta solo una dichiarazione di principio da cui non sono state tratte tutte le conseguenze perché gli storici di stampo accademico sono portati a lavorare al coperto dalla tradizione e detestano andare nei territori di nessuno. Fa eccezione Norman Davies che si è dedicato a raccontare gli imperi scomparsi, ignorati o dimenticati, come la Prussia, l’Aragona e la Borgogna. È curioso che in un libro simile l’autore si sia dimenticato del caso più clamoroso, rappresentato dall’Inghilterra, in pochi anni passata dal rango di dominatrice di sette mari alla sua natura primaria ed essenziale di modesta isola abitata da isolani off-shore.
Davies non usa quasi mai la parola “decadenza”, un termine vago impiegato dagli storici per spiegare quello che loro non hanno capito. Spesso adoperato in maniera sbagliata. La “decadenza” dell’impero bizantino, un leitmotiv della storiografia di Sette-Ottocento è sempre stata raccontata come la Torre di Pisa, che pende che pende e che non va mai giù. Se andiamo a controllare le date dell’impero di Bisanzio ci accorgiamo che è rimasto così periclitante per un tempo doppio dell’Impero romano. Questi grandi agglomerati multirazziali e multilinguistici che sembravano ai nostri nonni l’emblema stesso della corruzione e dello sfasciume statale, come l’impero asburgico e l’impero ottomano, sono risultati molto più tolleranti, molto più ordinati e molto più civili delle litigiose, pericolose, turbolente nazioni nate dalla loro frantumazione. Così come i tramonti degli imperi sono risultati molto più luminosi, gradevoli e civili delle albe “radiose” promesse dalle rivoluzioni, simili a galere. Solo da pochi anni anche in Russia ammettono che l’economia dell’impero zarista, per quanto reazionario fosse, nei primi quindici anni del Novecento avesse il più alto tasso di crescita industriale dell’Europa. Che avrebbe portato la Russia a essere un grande paese, se non ci fosse stata la presa di potere dei bolscevichi.
Uno dei capitoli più lunghi e affascinanti del libro è dedicato alla vicenda della Borgogna. Nel Quattrocento era considerata la corte più lussuosa e stravagante che ci fosse in tutto il continente, nello stesso tempo la più ricca e amante delle arti, ma che soffriva dell’angst del passato, inteso come mondo cavalleresco, abitato solo da cavalieri
“sans tache ni reproche”.
Mentre i mercanti toscani viaggiavano in Europa e pagavano le merci con cambiali, inventate da loro stessi due secoli prima, i giovani borgognoni vedevano lo scialacquo come una delle belle arti e spendevano tutti i loro patrimoni in tornei e feste. Una civiltà raccontata in maniera splendida da un famoso libro L’autunno del Medioevo di Huizinga.
Una delle cause più frequenti della scomparsa delle nazioni è stata la sconfitta in guerra: ma nessuno ha avuto più sfortuna della Prussia, battuta come parte della Germania nella Seconda guerra mondiale. Successivamente anche dissolta nel 1947 da un decreto alleato che l’accusava di essere stato un paese «reazionario e guerrafondaio». In questo caso, oltre all’assurdità di cancellare una nazione burocraticamente, come se fosse non un ente vivo, ma una scartoffia dell’anagrafe, gli alleati non dovevano conoscere bene la storia. La Prussia è stato il paese degli Junker che servivano lo Stato come militari. Ma anche la nazione che per prima ha protetto i lavoratori con orari, pensioni e ferie pagate. Nel Novecento, anche durante il periodo nazista, la maggioranza in parlamento era formata da socialdemocratici. Oggi tutta la Prussia orientale e parte di quello occidentale porta nomi polacchi e anche il castello, che era la roccaforte dei cavalieri teutonici. L’unico posto che conserva il nome tedesco è per ragioni turistiche: la Wolfeschanze, la tana del lupo, da dove Hitler guidava le armate che aveva lanciato contro la Russia. Mentre Königsberg, dove l’orologiaio della torre regolava le lancette al passaggio del grande Immanuel Kant, per conoscere l’ora precisa, ora si chiama Kaliningrad, che è stata trasformata dai russi in una deprimente periferia di tipo moscovita.
Davies ha visitato quasi tutte le località da lui citate, e può essere letto come una guida in parte moderna, che fa una serie infinita di riferimenti al passato. Ma per quanto riguarda la Toscana il nostro autore ha fatto un errore grossolano: il Granducato di Toscana, degli Asburgo Lorena, poi passato dopo la caduta di Napoleone a Luisa d’Asburgo, non è mai stata una nazione eliminata dalla storia, ma una regione italiana senza la quale lo stesso nome Italia non avrebbe più senso. Forse Davies voleva riferirsi al paese degli Etruschi, che aveva avuto una vera identità nazionale prima di essere eliminato dalla micidiale macchina da guerra romana. Ma questa è una storia che si è
svolta parecchi secoli fa.

“Vanished Kingdoms: The History of Half-Forgotten Europe” di Norman Davies (Penguin Books)