mercoledì 9 gennaio 2013

La Stampa 9.1.13
Nell’inferno di Rosarno gli uomini sono tornati schiavi
Tre euro al caporale e poi al lavoro: 50 centesimi per ogni cassetta riempita
A tre anni dalla rivolta, tutto è come prima: oltre mille africani nei dormitori cloaca
Regione e governo non danno più soldi: ora il campo modello è tutto spaghi, cartoni ed eternit
di Giuseppe Salvaggiulo


Letti di terra Nel dormitorio abitano mille lavoratori. Le tende sono fatte con pezzi di plastica, spago, cartoni e lastre di eternit. Gli africani dormono su letti di terra pressata pronti a trasformarsi in fango alla prima pioggia. Cucinano riso e ali di pollo in bidoni di risulta. I bagni sono due fosse a cielo aperto FOTO ADRIANA SAPONE Baracche di eternit e campi abusivi In alto il campo abusivo sorto a fianco alle tende mandate dal ministero. Sotto una baracca costruita con lamiere di eternit recuperate in discarica
Sbaglia chi dice che a Rosarno, tre anni dopo la rivolta dei migranti, le devastazioni, la controrivolta degli italiani, la caccia all’uomo e infine la deportazione dei neri, tutto è come prima. È peggio.
Gli africani sono di nuovo mille, come allora: arrivati in autunno, ripartiranno in primavera dopo aver raccolto agrumi a 25 euro al giorno, anche se adesso i padroni prediligono il cottimo che aumenta la produttività: un euro a cassetta per i mandarini e 0,50 per le arance, in ogni cassetta 18-20 chili di raccolto. Nel pieno della stagione lavorano trequattro giorni a settimana, a chiamata, versando tre euro al caporale che li carica all’alba sul pullmino. Nei giorni di magra girano in bici nella piana, fanno la spesa ai discount, cucinano riso e ali di pollo in bidoncini arrugginiti, si ubriacano di birra, litigano tra loro.
I due giganteschi dormitori nei ruderi delle fabbriche dismesse non esistono più da tre anni: uno chiuso d’imperio e abbandonato, l’altro demolito. Bisognava rimuovere, non solo psicologicamente. Ma la nuova favela tra Rosarno e San Ferdinando è, se possibile, ancora più raccapricciante. Lamiere di eternit recuperate in qualche cimitero industriale, di cui la Calabria abbonda, fanno rimpiangere gli scheletri di cemento e le pareti di ferro. Ora i tetti sono di cellophane, cartone, plastica di risulta. Come calcestruzzo uno spago di fortuna. Cumuli di terra pressata alti venti centimetri sorreggono i precari giacigli, pronti a inondarli di fango alla prima pioggia. I bagni sono in fondo a destra: due fosse larghe un metro scavate per quaranta centimetri nella terra, a cielo aperto e senza riparo alcuno. Nella tenda più grande, dieci metri per cinque, si contano non meno di cento posti letto tra materassi rancidi e brandine. Un odore indicibile. Non ci sono acqua, fogna, elettricità; solo immondizia a fare da sipario.
«Una cosa incivile, vergognosa, uno schifo», urla Domenico Madafferi, sindaco di San Ferdinando che, sulla base di una relazione sui requisiti igienici «praticamente inesistenti» e sulla «situazione dannosa per la salute» di «baracche fatiscenti» e «dimore abusive senza le condizioni minime di vivibilità» che «potrebbero essere focolai di infezioni», ha scritto di suo pugno un’ordinanza di sgombero. «Un modo per mettere Regione e governo spalle al muro, dopo inutili riunioni, appelli e solleciti scritti – spiega -. Ma non è cambiato nulla, solo promesse». Così ieri ha scritto la lettera al prefetto con cui si appresta a eseguire lo sgombero. Un’eventualità drammatica, «perché il ricordo di tre anni fa sarà niente rispetto a quello che potrebbe accadere se arriviamo con le ruspe».
Eppure in questo stesso posto, solo un anno fa, le autorità inauguravano un campo modello: 280 posti, ampie tende da quattro persone, stufe a olio, tv satellitare, bagni da campeggio, lampioni nei viottoli, rifiuti raccolti ordinatamente, mensa con cucina, presidio medico. Una Svizzera nella piana di Gioia Tauro. Il materiale era arrivato dal Viminale dopo l’interessamento del ministro per la Cooperazione Andrea Riccardi. La Regione aveva messo 55 mila euro per la gestione. La Provincia pagava la corrente elettrica. I sindaci Elisabetta Tripodi di Rosarno e Domenico Madafferi di San Ferdinando facevano il resto. Le associazioni di volontariato più diverse - cattoliche, laiche, evangeliche - si prodigavano per offrire assistenza, cibo, coperte grazie all’aiuto di migliaia di persone (altro che razzismo). La tendopoli si aggiungeva ai container installati nel febbraio 2011: 120 migranti in moduli da sei con cucinino e bagno in camera. Non solo si smantellavano gli ultimi ghetti, ma l’inedito «modello Rosarno» dava vitto e alloggio a ogni immigrato con 2 euro al giorno, contro i 45 spesi generalmente dalla Protezione Civile. E dunque, pur con numeri ancora insufficienti (400 posti, un terzo del necessario), in una terra dove lo stato di eccezione è permanente (qualche tempo fa i tre Comuni principali si ritrovarono contemporaneamente sciolti per mafia), aver messo tra parentesi l’emergenza pareva un miracolo. Invece a rivelarsi una fuggevole parentesi è stata proprio la normalità. Giugno 2012: finiti i soldi della Regione, la tendopoli viene chiusa e abbandonata, in attesa della nuova stagione agricola. In agosto i sindaci si rivolgono a Regione e governo: bisogna organizzarsi per tempo o tornerà il caos. Cosa che puntualmente accade: a fine ottobre, quando parte la raccolta dei mandarini, la tendopoli priva di gestore viene occupata e saturata dai migranti.
Nelle tende si sistemano in sei, ma non basta perché altri ne arrivano. I sindaci reclamano aiuto: non hanno soldi, strutture, personale per farcela. «Regione e governo latitano, il ministro Riccardi non risponde, solo la presidenza della Repubblica dà un segnale di attenzione comprando e mandando coperte, peraltro inadeguate», dice sconsolato il sindaco. In poche settimane anche la mensa diventa un maxi dormitorio. Non c’è più spazio e gli ultimi arrivati cominciano a costruire la favela contigua all’insediamento originario. Senza manutenzione, gli scarichi fognari non reggono a una popolazione quadruplicata, i container con i bagni diventano cloache inservibili, la cucina chiude, i cassonetti dei rifiuti esplodono. Basterebbero 50-70 mila euro per ripristinare la gestione della tendopoli in modo dignitoso, efficiente e controllato fino a primavera. Solo lo 0,000006% della spesa pubblica italiana e delle promesse udite tre anni fa. Ancora troppo, per Rosarno.

l’Unità 9.1.13
Bersani: pronti a vincere
La squadra Pd: 40% donne
Varate le liste del Pd: ultime novità il giornalista Mineo e gli esponenti cattolici Patriarca, Fattorini, Preziosi e Nardelli, la sindacalista Fedeli


Restano fuori Reggi Paganelli, Ceccanti
Candidati Tronti, e in Abruzzo Concia

Il segretario: «Sfruttiamo al meglio il vantaggio»
di Simone Collini




«È una rivoluzione. Porteremo in Parlamento il 40% di donne». Pier Luigi Bersani è visibilmente soddisfatto. Le liste del Pd sono pronte, sono approvate all’unanimità dalla direzione del partito, e sono per il segretario democratico quello che ci vuole per vincere, perché sono «all’insegna della competenza, del pluralismo e della professionalità». E poi, che non guasta, perché su 38 capilista saranno 16 le candidate.
«Siamo pronti a governare il Paese», dice aprendo i lavori, «con la scelta di stasera siamo in campagna elettorale, sfruttiamo al meglio il vantaggio sui nostri competitori». L’avversario è Silvio Berlusconi, ma ormai è chiaro che per vincere il Pd dovrà fare i conti anche con l’operazione avviata da Mario Monti insieme a Pierferdinando Casini e Luca Cordero di Montezemolo. Ed è pensando alla sfida che ha di fronte che Bersani ha voluto inserire nelle liste molti esponenti chiamati dal mondo delle professioni, dell’associazionismo laico e cattolico, dell’imprenditoria e del sindacato.
Candidati con il Pd ci sono quattro esponenti cattolici come Edo Patriarca, che è presidente del centro nazionale volontariato e organizzatore delle settimane sociali, Ernesto Preziosi, che è direttore dell’Istituto Tonioli, Flavia Nardelli, che è segretaria generale dell’Istituto Luigi Sturzo, ed Emma Fattorini, che è storica dei movimenti religiosi alla Sapienza. C’è l’economista Paolo Guerrieri e la sindacalista (e tra le fondatrici di “Se non ora quando?”) Valeria Fedeli, che sarà capolista al Senato in Toscana, insieme a Maria Rosaria Carrozza, capolista alla Camera. A guidare la lista Pd in Sicilia per il Senato c’è il direttore di RaiNews24 Corradino Mineo, mentre Sergio Zavoli è candidato in Campania, dove capolista saranno la giornalista anti-camorra Rosaria Capacchione, al Senato, e, alla Camera, Enrico Letta e Guglielmo Epifani.
Per quel che riguarda gli altri capolista in Piemonte ci sono Cesare Damiano e Mario Taricco alla Camera e Ignazio Marino in Senato, in Lombardia Bersani, Carlo Dell’Aringa, Cinzia Fontana e Massimo Mucchetti (Senato), in Trentino Gianclaudio Bressa e Giorgio Tonini. Pier Paolo Baretta e Davide Zoggia saranno i capilista in Veneto per la Camera, mentre Laura Puppato sarà la numero uno per il Senato. In Liguria ci sono Andrea Orlando alla Camera e Donatella Albano al Senato. In Emilia Romagna, Dario Franceschini e Josefa Idem, in Umbria, Marina Sereni e Miguel Gotor, in Abruzzo Giovanni Legnini e Stefania Pezzopane. Nel Lazio guidano le liste Pd Bersani, Donatella Ferranti e Pietro Grasso, in Basilicata Roberto Speranza e Emma Fattorini, in Puglia Franco Cassano e Anna Finocchiaro, in Calabria Rosy Bindi e Marco Minniti, in Sardegna Silvio Lai e Alba Canu, in Sicilia Bersani, Flavia Nardelli e Mineo.
Sono rimasti fuori dalle liste i parlamentari uscenti Stefano Ceccanti, Andrea Sarubbi e Alessandro Maran, e non sono entrati (per rimanere nel fronte renziano) il coordinatore della campagna per le primarie del sindaco di Firenze, Roberto Reggi, e il responsabile Feste del Pd Lino Paganelli. Matteo Renzi ha invece chiesto di mettere in lista Yoram Gutgeld, direttore della società di consulenza McKinsey e padre della proposta lanciata dal sindaco di un taglio di 100 euro sull'Irpef per i redditi sotto i 2 mila euro. È ventitreesimo in Lombardia Giorgio Gori, il che vuol dire che può entrare in Parlamento se il Pd si aggiudica il premio di maggioranza in quella regione. Decisamente più alti in lista Anna Paola Concia (Abruzzo), Mario Tronti (Lombardia) il segretario dei Giovani democratici Fausto Raciti (Sicilia), Alessandra Moretti (Veneto), l’ex operaio Thyssen e deputato uscente Antonio Boccuzzi (Piemonte) e il direttore responsabile di “Italianieuropei” Massimo Bray (Puglia).
LA LEPRE DA INSEGUIRE
«La lepre da inseguire siamo noi e tutti faranno la gara dietro di noi», dice con una delle sue metafore Bersani parlando ai membri della direzione Pd. Il segretario democratico sa che dovrà vedersela anche con Monti, e al premier manda a dire che il suo partito «non cerca la rissa», ma «offrendo rispetto chiediamo rispetto». Con queste liste Bersani vuole dimostrare che guida un collettivo, perché «la personalizzazione dice con evidente riferimento al simbolo della lista civica “Con Monti per l’Italia” porta instabilità». Sul premier, dice, il Pd non ha «niente di cui pentirsi», ha sostenuto il governo con «assoluta lealtà, anche su scelte su cui avremmo fatto di più». Come sull’Imu. Adesso Monti dice che è da rivedere? «Se si voleva sistemare l’Imu c’era il nostro emendamento», manda a dire Bersani. E non è l’unica frecciata indirizzata a Monti, che nei giorni scorsi aveva detto che non ha più senso parlare di destra e sinistra. «In Italia si dice che non esiste il bipolarismo, ma è una singolare notizia per l’Europa, dove non è così».
Ora il leader del Pd parte subito in campagna elettorale, pronto a impegnarsi soprattutto nelle regioni che possono garantire la maggioranza certa al Senato. Poi, in caso di vittoria, comincia la sfida vera. «Il 2013 sarà l’anno più acuto della crisi sul versante sociale. L’Italia ce la farà, noi metteremo il segno più dove oggi c’è il segno meno. Troveremo la nostra forza nel civismo. Ce la faremo senza raccontare favole».

Tutti i candidati su www.unita.it

il Fatto 9.1.13
Iil filosofo e il paracadutato, il Pd ha scelto i suoi
Discussioni accese in Puglia, Sardegna e Trentino, poi i pezzi vanno a posto
Ecco chi ha vinto e chi ha perso
di Wanda Marra


La direzione del Pd ieri sera dopo solo un paio d’ore di riunione ha approvato all’unanimità le liste dei candidati alle elezioni. Senza neanche leggerle ad alta voce. Figuriamoci discuterle. Come nella migliore tradizione. Le trattative finali sono durate una settimana, con tanto di riunioni notturne tra via del Nazareno e via Tomacelli (dove si riuniva il cosiddetto comitato elettorale), nomi saltati all’ultimo momento, dimissioni di segretari regionali annunciate e poi rientrate. Comporre l’algoritmo Bersani – ovvero combinare i nomi decisi dai vertici nazionali e frutto degli accordi con le correnti con i vincitori delle primarie – non è stata cosa semplice. A lavorarci indefessamente sono stati Stumpo e Migliavacca, i fedelissimi del segretario (entrambi in lista, uno in Calabria, l’altro in Emilia Romagna): la combinazione prevedeva posti certi per il listino (il 30% se il Pd vince le elezioni, di più se le perde), e i vincitori dei gazebo dietro, meno garantiti. “Con le primarie abbiamo ammazzato il Porcellum”, dichiarava ieri Bersani in direzione. A giudicare dagli umori non sembra sia stato del tutto così.
“Sono finito sesto, una posizione molto al limite”. Emanuele Trappolino, giovane bersaniano non di fede ma d’appartenenza, discute prima dell’inizio con il gruppo degli umbri. Lì è rimasto fuori anche il segretario, Lamberto Bottini, sconfitto alle primarie, che prima ha dato le dimissioni, tuonando contro i vertici e ventilando brogli, poi le ha ritirate. Alla Camera in Umbria capolista è la Sereni (quota Franceschini), prima di Trappolino, quinto, c’è anche Verini (uno dei pochi veltroniani rimasti). Trappolino sorride, in generale le facce lunghe si sprecano. “In pieno ed assoluto dissenso col gruppo dirigente nazionale del Pd per aver tradito lo spirito delle primarie ed aver invaso le liste pugliesi di 'immigrati dal nord' mi dimetto dalla carica di Segretario regionale”, dichiarava ieri Sergio Blasi, segretario della Puglia. Il tema è quello dei “paracadutati”: candidati imposti dall’alto che tolgono posti ai vincitori dei gazebo, legati al territorio. Passano un paio d’ore e Blasi ritira le sue dimissioni. È riuscito a ottenere l’uscita di Francesca Marinaro, a favore di una pugliese. Se è per la Sardegna, Sergio Lai non accetta il posto di capolista in dissenso con il segretario.
IN SICILIA, sono solo cinque gli esterni nelle liste di Camera e Sanato, più il capolista a Palazzo Madama, Mineo (e risulta così quasi certamente salvo l'ex segretario Cisl, Sergio D’Antoni, uno dei trombati eccellenti dai gazebo). Ma poi le sorprese dell’ultima ora si sprecano. In Toscana, la capolista a Palazzo Madama doveva essere la senatrice uscente, il magistrato Della Monica. Ma nella notte tra lunedì e martedì il suo nome sparisce: entra Valeria Fedeli, vicepresidente del sindacato europeo dell’Industria. E anche moglie di Passoni, fatto fuori dalle primarie in Piemonte. Oppure in Calabria, dove doveva entrare Enzo Ciconte, docente di Roma Tre, massimo esperto italiano di ‘ndrangheta. Ma all’ultimo momento esce per far posto ad Angelo Argento, siciliano in quota Letta (e senza nessuna conoscenza della mafia calabrese). Un gruppo di esodati fuori dal Pd protesta perché è solo terza la Gnecchi in Trentino, vincitrice delle primarie.
Nel risultato finale spiccano i nomi della società civile, le figurine di Bersani: c’è Piero Grasso (candidato nel Lazio e non in Sicilia, dove il capolista in Senato è Mineo, direttore di Rai News, che dovrà vedersela con il candidato di Ingroia, il figlio di Pio La Torre), c’è la Carrozza, rettore del Sant’Anna, c’è Mucchetti, ci sono gli economisti Giampaolo Galli e Dell’Aringa, i filosofi Marzano e Cassano, lo storico Galli. Ieri entrano 4 esterni di area cattolica. Sono Edoardo Patriarca, presidente del Centro Nazionale per il Volontariato ed Ernesto Preziosi, ex presidente dell’Azione Cattolica, la storica Emma Fattorini e Flavia Nardelli, in quota renziana figlia del segretario Dc Flaminio Piccoli. E c’è Gotor, storico, fedelissimo del segretario. Nessun ministro di Monti. Però, “sono molti quelli che ci piacciono”. Non è detto che alcuni di loro non arrivino poi all’esecutivo.
Il segretario lascia fuori il fido portavoce Di Traglia, la pasionaria Chiara Geloni, il capoufficio stampa Roberto Seghetti. Li porterà a Palazzo Chigi, dicono. Non entra nemmeno Giuntella. Renzi mette dentro un drappello di fedelissimi (la Bonafè, per dire, è paracadutata in Lombardia) più uno di rutelliani. Entra il direttore di McKinsey, Yoram Gutgeld. Restano fuori alcuni uomini chiave delle primarie, dal braccio destro Reggi al costituzionalista Clementi, a Paganelli. Franceschini i suoi li piazza tutti, anche senza primarie: da Martino a Garofani a Lo Sacco. Nel drappello Psi oltre al segretario Nencini c’è pure Bobo Craxi. Ma ad algoritmo compiuto Bersani già canta vittoria: “Più che favoriti ci sentiamo vincenti. Siamo noi la lepre da inseguire”

La Stampa 9.1.13
Guai giudiziari
Impresentabili, adesso spunta una autocertificazione


Li chiamano “impresentabili”. Sono quelli che a rigor di legge sono “candidabili”, ma comunque potrebbero rappresentare un’ombra per il Pd. E allora, risolto con un passo indietro della diretta interessata il caso di Bruna Brembilla, che aveva ottenuto un buon risultato alle primarie lombarde, ma è coinvolta in un’inchiesta sulle infiltrazioni della ’ndrangheta nell’hinterland di Milano, e la cosa era stata rimarcata da una lettera aperta a Bersani da alcuni big del partito, il Pd annuncia che si doterà di un codice anti-impresentabili.
Il meccanismo viene annunciato da Luigi Berlinguer, ideatore di un modulo da far sottoscrivere a tutti i candidati «in cui loro stessi - spiega - dichiarino di non trovarsi in una delle condizioni di incandidabilità previste dal codice etico del Pd e dalla recente normativa sulle liste pulite».
In tutta evidenza, se un candidato firmasse questa autocertificazione, e un domani saltasse fuori qualche magagna giudiziaria, verrebbe meno il rapporto fiduciario con il partito. «Successivamente la segreteria potrà investire la commissione di garanzia per una eventuale verifica sui casi in difetto dei requisiti», conclude Berlinguer. C’è tempo fino al 21 gennaio
Eppure Beppe Grillo non perde l’occasione per un’aspra polemica. «Bersani - scrive sul suo blog - in diretta a “Otto e mezzo” ha detto di non conoscere le persone nelle liste del pd che hanno problemi con la giustizia. Non se ne occupa. Si fida del comitato dei garanti composto da persone irreprensibili come Caterina Romeo. Condannata a 1 anno e 4 mesi per violazione alla legge elettorale».
Sarcastico come al solito, Grillo: «Vorrei facilitare l’arduo compito segnalandone alcuni. Vladimiro Crisafulli, Enna, rinviato a giudizio per concorso in abuso d’ufficio, accusato di aver ottenuto la pavimentazione di una strada comunale che porta alla sua villa a spese della Provincia di Enna. Antonino Papania, Trapani, ha patteggiato davanti al gip di Palermo una pena di 2 mesi e 20 giorni di reclusione per abuso d’ufficio. Giovanni Lolli, L’Aquila, rinviato a giudizio con l’accusa di favoreggiamento, prescritto. Nicodemo Oliverio, Crotone, imputato per bancarotta fraudolenta. Francantonio Genovese, Messina, indagato per abuso d’ufficio».

il Fatto 9.1.13
L’incandidabile armata prova (ancora) a resistere
Rinuncia a correre la sola Brembilla
Per gli altri scatterà l’autocertificazione su apposito modulo
di Caterina Perniconi


Sei un candidato del Partito democratico coinvolto in qualche inchiesta giudiziaria? Puoi autocertificarti e la commissione di garanzia valuterà se la tua dichiarazione è in linea con il codice etico (ove la segreteria del partito lo richiedesse). È questo il meccanismo “anti-impresentabili” studiato da Luigi Berlinguer per ripulire le liste elettorali entro il 21 gennaio, giorno della presentazione definitiva.
“ESAMINEREMO caso per caso” aveva detto Pier Luigi Bersani. Ma la discussione in Direzione nazionale non c’è stata. Meglio rinviare i nomi più controversi al tribunale interno, sempre che tutti gli aspiranti parlamentari consegnino il modulo con la dichiarazione, e che sia veritiera. Per esempio: il candidato numero 7 in lista nella circoscrizione Sicilia 2 alla Camera, Vladimiro Crisafulli, dovrà scrivere che è stato rinviato a giudizio per abuso d’ufficio con l’accusa di aver fatto pavimentare a spese della Provincia la strada comunale che porta alla sua villa. Inchiesta che, secondo il codice etico del Pd, non ti rende incandidabile. Potrebbe anche scrivere che è stato filmato mentre parlava di politica e affari con il boss Raffaele Bevilacqua. Posizione archiviata, sebbene la sentenza parlasse di “dimostrata disponibilità a mantenere i rapporti con il boss”. Candidabile.
Chi rischia di più è Antonio Papania, piazzato al secondo posto nella circoscrizione Sicilia al Senato, che ha patteggiato 2 mesi e 20 giorni di reclusione per abuso d’ufficio. Anche se il reato non è tra quelli esplicitamente esclusi dal codice etico. Ha invece deciso di non passare dalle “forche caudine” della commissione di garanzia Bruna Brembilla. Ex assessore provinciale a Milano nella giunta di Filippo Penati è stata intercettata in un’inchiesta sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta, posizione poi archiviata. Sarebbe stata candidabile. “Per senso di responsabilità, consapevole della delicatezza del momento politico che stiamo vivendo, decido di rinunciare alla candidatura – ha scritto in una lettera al segretario del Pd lombardo, Maurizio Martina – per me non è importante un posto, ma l’affermazione delle politiche del Pd, candidato a guidare il paese in una delicatissima fase di transizione”.
LA BREMBILLA aveva partecipato alle primarie e poteva ambire a un posto in lista. Ma alla fine ha rinunciato. Resta invece Francantonio Genovese, terzo in lista nella circoscrizione Sicilia 2 per la Camera, campione di conflitti d’interesse. Scriverà nell’autocertificazione che che lo chiamano
“Franzantonio” perché è diventato sindaco di Messina sebbene azionista della Caronte, società dei traghetti nello Stretto? E che molti dei suoi parenti siedono sulle poltrone di enti e società finanziati dalla Regione? Difficile. Al dodicesimo posto della circoscrizione Campania 1 per la Camera resiste Massimo Paolucci, tirato in ballo nella “trattativa” tra lo Stato e i Casalesi sui rifiuti a Napoli, mai indagato. Il suo coinvolgimento era stato denunciato in un articolo della giornalista antimafia Rosaria Capacchione, anche lei candidata con il Pd, ma al Senato. Le loro strade, per ora, restano divise.

Corriere 9.1.13
Maggioranza da Costruire se 2 Regioni-Chiave Vanno al Pdl
Lombardia, Sicilia e Campania in bilico al Senato
di M. Antonietta Calabrò


«Toss up». Per il Senato e quindi per il futuro governo, la partita è aperta, è come quando si lancia in aria una monetina, «toss up», appunto. Le due coalizioni (centrosinistra e centrodestra) sono distanti circa un dieci per cento, con in testa il centrosinistra, ma.... Ma per effetto del diverso premio attribuito dal Porcellum (su base nazionale alla Camera e su base regionale a Palazzo Madama), la maggioranza della coalizione guidata da Pier Luigi Bersani è netta a Montecitorio, mentre al Senato sarà l'esito di alcune Regioni-chiave a sancire se il centrosinistra potrà «fare da solo» o se Monti e la sua «Scelta civica» potranno essere l'ago della bilancia. Il premier, infatti, non ha alcuna possibilità di vincere alla Camera né in alcuna regione al Senato. In queste condizioni, per poter pesare nella formazione del prossimo governo, Monti deve sperare che Berlusconi vinca in alcune delle Regioni in bilico. Se questo accadesse i seggi del «partito di Monti» diventerebbero decisivi al Senato per fare il governo sulla base di una alleanza con la coalizione di centrosinistra. Paradossalmente, insomma, Monti deve «tifare» Berlusconi.
Scenari ipotizzati dal politologo Roberto D'Alimonte che sul Sole24ore ha analizzato le rilevazioni condotte da Ipsos (l'Istituto di Nando Pagnoncelli) in tre Regioni considerate decisive. Innanzitutto la Lombardia, il cosiddetto «Ohio» italiano, uno swing state che però assegna ben 49 seggi a Palazzo Madama (cioè un sesto di tutti i senatori), e quindi «pesa» come la California nelle elezioni presidenziali americane. Poi la Sicilia e terza, è questa la vera sorpresa, la Campania. Dove la lista capitanata dall'ex aggiunto della Procura di Palermo, Antonio Ingroia, «Rivoluzione civile», sostenuta dal sindaco di Napoli, De Magistris, sta «cannibalizzando» il Pd.
Per D'Alimonte in queste tre Regioni l'esito del voto è oggi assolutamente imprevedibile con una sostanziale parità tra centrodestra e centrosinistra al 32,5%. La supremazia di una coalizione sull'altra, anche di un voto soltanto, per effetto del premio di maggioranza regionale significherebbe in Lombardia 27 seggi al primo classificato e solo 12 al secondo: uno scarto notevole.
Anche in base alle analisi di Fabio Fois, European Economist presso Barclays Capital, la divisione di investment banking della Barclays Bank, basterà al Pd-Sel perdere la Lombardia e anche una qualsiasi altra Regione, per stare «sotto» — con 157 seggi — la maggioranza assoluta al Senato che è costituita da 158 senatori eletti, esclusi i senatori a vita. Se la coalizione di Bersani invece dovesse perdere Lombardia, Sicilia e Veneto avrebbe solo 149 senatori (9 in meno della maggioranza assoluta).
«Certamente, stando ai nostri calcoli, qualora la coalizione Pd-Sel non riuscisse a vincere in Lombardia e in una delle altre Battleground-regions, l'eventuale supporto delle forze centriste al Senato diventerebbe cruciale per la governabilità», dice Fois.
Per Andrea Lenci, di Scenaripolitici.com, Monti ha molte chance. Parte da una premessa generale, Lenci. «L'elettorato in questa fase è molto mobile, tipico dell'inizio delle campagne elettorali. Stiamo vedendo qualcosa di già sperimentato nel 2006 dove l'elettorato "moderato", dopo essersi rifugiato nell'astensione o nella protesta (M5s) torna ad esprimersi». Ricorda che «nel 2006 ci fu una buona rimonta di Berlusconi che convinse buona parte dei suoi ex elettori a rivotarlo». Ma subito Lenci aggiunge: «Ora gli stessi elettori stanno tornando, ma stanno andando verso Monti per la gran parte». Monti leader dei moderati? «In effetti tutto questo ha una logica, l'elettore stanco del centrodestra che non è convinto dal centrosinistra e nemmeno da Fini e Casini, trova un nuovo movimento "moderato" al centro della scena. Un'alternativa importante e che pesca anche nel Pd. Per le prossime settimane i trend potrebbero continuare, se Monti dovesse crescere ulteriormente, e noi lo diamo in forte crescita, non escludo terremoti».
Resta un fatto. Se Pd-Sel dovessero davvero perdere anche la Campania (oltre a Lombardia, Veneto e Sicilia) la loro quota di senatori scenderebbe di almeno altri dieci seggi e allora forse potrebbe non bastare neppure il «fattore Monti» per dare al Paese un governo. Potrebbe delinearsi uno scenario, evocato da Berlusconi nei giorni scorsi, da «grande coalizione».

l’Unità 9.1.13
Una sfida storica
La nuova strada della sinistra
di Massimo D’Alema


Una prospettiva, per l’Italia, c’è. L’idea di un’alleanza delle forze progressiste aperta ai moderati, con la leadership di Pier Luigi Bersani, appare come l’unica proposta politica in grado di rispondere all’esigenza di una ricostruzione democratica.
Con il confronto delle primarie, questa prospettiva ha preso corpo e si è imposta al centro del dibattito pubblico.
Un progetto che si presenta, oggi, come un ritorno della politica alla guida del Paese. Sarà all’altezza, il centrosinistra? L’interrogativo è legittimo, dopo le sconfitte e le delusioni del passato. Anche per questo, non è inutile volgere lo sguardo all’esperienza di questi ultimi venti anni. Non ho mai apprezzato in pieno l’espressione «Seconda Repubblica», che è carica di ambiguità e contiene, forse, un riconoscimento eccessivo al ventennio che si chiude oggi e che si aprì con la crisi dei primi anni Novanta.
LA STAGIONE BERLUSCONIANA
Certamente mi pare appropriato riferirsi a un periodo segnato dal ruolo e dal protagonismo di Silvio Berlusconi, dal suo stile, da un modo di fare politica, da un blocco di forze sociali e di interessi intorno a lui. Il successo di Berlusconi, il suo essere in grado di interpretare un ventennio di vita nazionale, nascono ben al di là delle sue personali capacità e della forza del suo potere mediatico e finanziario. Egli ha, in realtà, impersonato una sorta di rivincita del potere economico e degli spiriti animali della società civile contro la «Repubblica dei partiti», la rivincita di un liberismo rozzo e individualista contro i vincoli che i solidarismi di matrice cattolica e socialista hanno imposto al capitalismo italiano. Un progetto di modernizzazione, quello berlusconiano, che veniva da lontano, certamente dagli anni Ottanta. E, in definitiva, una versione italiana di quella più generale egemonia di una visione neoliberista che ha visto nell’89 non solo la fine del comunismo, ma anche la fine della storia e la definitiva resa dei conti con le ideologie e le grandi narrazioni del Novecento.
Come in altri momenti delle vicende del nostro Paese, i salti di qualità più radicali avvengono sotto l’incalzare di eventi internazionali. La crisi della «Repubblica dei partiti» nasce con l’89, la caduta del comunismo e la fine della Guerra Fredda. Così, la fine del berlusconismo precipita nella grande crisi che in questi anni investe il capitalismo finanziario globalizzato.
A questo appuntamento, l’Italia giunge fragile. Uno dei Paesi più esposti, anzitutto per debolezze profonde, accumulate nel tempo: il peso del debito pubblico, il divario tra Nord e Sud, la farraginosità dell’amministrazione, l’inefficienza della macchina della giustizia, la frammentazione della struttura produttiva. A ciò si aggiungono i problemi accumulati in questi anni per le debolezze di un centrosinistra che non è stato in grado di completare la sua opera riformatrice e per gli effetti devastanti degli anni di governo di Berlusconi e della Lega. Non solo sui conti pubblici, sull’economia e sulla società, ma sull’etica pubblica e sulla credibilità stessa delle istituzioni e del sistema politico-democratico.
Il Paese era veramente giunto sull’orlo del collasso, anche se la memoria corta degli italiani rischia di rimuovere questa realtà. Mario Monti ha interpretato davvero quel ruolo di responsabilità e di salvezza nazionale cui è stato chiamato dal capo dello Stato. Egli ha affrontato con energia l’emergenza, attraverso misure dolorose, in parte inevitabili, anche se non sempre attente a un’esigenza di equità sociale. Ma, in definitiva, il compito del governo era di evitare il disastro e il Paese ne è uscito. Credo che il merito maggiore di Monti sia stato quello di avere restituito voce e credibilità all’Italia sulla scena europea e internazionale, dopo un periodo di marginalità o di profonda umiliazione.
Basterebbe questo a motivare la gratitudine che tutti noi dobbiamo al presidente del Consiglio e anche, sia consentito, a chi lo ha voluto e sostenuto con lealtà, mettendo da parte la legittima richiesta di un voto immediato e la probabile conquista anticipata del governo. Come in altri passaggi cruciali della storia del Paese, ha prevalso a sinistra il senso del dovere verso l’Italia e credo che questa scelta legittimi ora, accanto alla forza del consenso popolare, la candidatura di Bersani alla guida del governo.
Perché ora c’è bisogno di una svolta. E non perché il ceto politico pretenda di reinsediarsi al posto dei tecnici, come si scrive con disprezzo indicando il ritorno della politica come l’alba di una nuova stagione di corruzione e di incompetenza. Non credo debba sfuggire che questa non è solo una campagna contro la politica, è una campagna contro il diritto dei cittadini a scegliere da chi vogliono essere governati, cioè contro la democrazia e contro la sinistra.
Certo, la crisi e la decadenza della politica sono sotto gli occhi di tutti, ma se si vuole imboccare la via di una rigenerazione anche morale e non di un ripiegamento tecnocratico, occorre vedere in profondità i motivi e le cause. Noi non viviamo il tempo del dominio dei partiti e della politica sulla società e sull’economia. Al contrario, ciò cui assistiamo è un declino progressivo e che parte da lontano. La decadenza del partito di massa, ideologico, ha caratterizzato tutta la storia europea degli ultimi trent’anni(...)
Sarebbe impensabile negare gli effetti devastanti di perdita di credibilità del sistema politico e istituzionale, ma il problema è che le spinte dominanti nell’opinione pubblica e nel senso comune vanno nella direzione di una ulteriore destrutturazione, privatizzazione e personalizzazione della politica. Quindi verso un aggravamento dei guasti e non verso un loro risanamento. E, ciò che è persino più grave, verso un restringimento delle basi sociali dell’agire politico. Per dirla rozzamente, la politica dei partiti personali, dominata dai media, priva di sostegno e finanziamenti pubblici, è una politica per ricchi o per lo meno dominata dai ricchi.
È possibile un’altra strada?
C’è una via per la ricostruzione democratica, per uscire dal berlusconismo, senza per ciò coltivare l’illusione di un ritorno al passa-
to? Questa è la sfida con cui si misurerà Bersani e tutto il centrosinistra. Una sfida che oggi appare particolarmente impegnativa e complessa.
In altri momenti di crisi, l’Italia ha avuto, nel riferimento al contesto internazionale e particolarmente all’Europa, un ancoraggio solido e anche l’indicazione di una via d’uscita. Oggi è l’Europa stessa a essere l’epicentro della crisi. È l’Europa la grande malata della globalizzazione, attraversata da spinte populiste e rischi tecnocratici, in diversi casi non meno pericolosi di quelli che hanno investito il nostro Paese (...) Il cittadino americano può scegliere tra un presidente che tagli le tasse riducendo la protezione dei più poveri e uno che tassi i ricchi per garantire l’assistenza sanitaria. Per quanto condizionata dai mercati finanziari e dalle agenzie di rating, la politica americana, come quella di altre potenze emergenti, sembra ancora in grado di decidere. In Europa, no. Il cittadino europeo sostanzialmente ha la percezione di non potere influire sulle scelte dell’Unione, che si presentano come un complesso neutro di vincoli e di obbligazioni, dovute a ragioni tecniche. Alla politica non resta che fare «i compiti a casa», cioè eseguire le direttive che la razionalità economica dominante impone. La politica (politics), confinata entro i limiti delle realtà nazionali, ha scarsa possibilità di incidere, si riduce a narrazione.
In questo quadro si rafforzano le spinte populiste nel nome del demos contro le élite tecnocratiche, invocando l’ethnos nazionale o localistico contro la globalizzazione e l’integrazione europea. Così, la democrazia europea rischia di essere schiacciata tra il peso di una tecnocrazia necessariamente più attenta ai vincoli posti dai mercati finanziari e dalle stringenti compatibilità che essi impongono, e un populismo sempre più antieuropeo, il quale dà voce al malessere sociale e alle identità culturali che si sentono minacciate dalla globalizzazione.
Può apparire paradossale, ma le due grandi tendenze politiche che hanno dominato la scena europea negli ultimi dieci anni sono ambedue espressione soprattutto della destra, o meglio di due diverse destre che nascono dalla storia d’Europa: una liberale e liberista, legata a poteri economici forti, tendenzialmente cosmopolita e favorevole alla globalizzazione; l’altra nazionalista, localista, populista, legata a valori tradizionali e a ceti colpiti o spaventati dall’apertura dei mercati e dalle sfide del mondo globale.
La sinistra europea è apparsa spiazzata e in difficoltà. Si è divisa tra componenti innovative e neoliberali, che hanno condiviso con le élite economiche una visione sostanzialmente ottimistica della globalizzazione, e forze più tradizionali, che hanno difeso lo storico compromesso socialdemocratico e le conquiste che lo hanno caratterizzato, nell’illusione che tutto ciò avrebbe potuto essere protetto anche nei nuovi scenari della competizione mondiale. L’esito è stato quello di una duplice, dolorosa sconfitta. Se pensiamo che la Terza via di Tony Blair ha finito per accodarsi all’avventura di George Bush e dei neocon in Iraq, e che una parte del socialismo francese si è schierata per il «no» nel referendum sulla nuova Costituzione europea, possiamo misurare su entrambi i versanti i rischi di appannamento ideale e di subalternità.
Ma questo è ciò che abbiamo alle spalle: a quella stagione politica ne è seguita un’altra, dominata dalle destre in Europa, che ora può chiudersi. E non solo in Italia. Adesso c’è una nuova stagione che si apre per i progressisti. Non si tratta solo della Francia di François Hollande, ma di un ritorno più significativo sulla scena di forze di ispirazione socialista e laburista. E non si tratta soltanto di questo, ma anche di alleanze di centrosinistra che vanno oltre la tradizione socialdemocratica. Quello che accadrà in Italia e in Germania potrà essere decisivo per modificare lo scenario politico europeo e scrivere finalmente una nuova pagina. Certo, le prove che abbiamo di fronte appaiono estremamente impegnative (...).
L’OPERA DI RICOSTRUZIONE
Il centrosinistra italiano, da Giuliano Amato, Carlo Azeglio Ciampi e Romano Prodi sino ad oggi, ha una storia di forte e coerente impegno per l’Europa. Aggiungo che la coerenza europeista è stata a lungo ed è ancora una delle discriminanti di fondo contro vecchi e nuovi populismi nella politica italiana. In questo c’è, sicuramente, la consonanza più profonda tra il Pd e Monti e l’elemento più significativo di continuità con il suo governo che il centrosinistra dovrà assicurare.
L’opera per la ricostruzione e la rinascita dell’Italia non potrà che collegarsi al processo di rilancio europeo come due aspetti della stessa sfida che sta di fronte a una nuova classe dirigente. Anche per questo è così importante che a guidare il Paese sia una forza come il Pd, che – con la sua originale identità – è parte integrante, autorevole e riconosciuta del riformismo europeo (...)

l’Unità 9.1.13
Giovani sempre più senza lavoro È il record degli ultimi 20 anni
I dati Istat evidenziano l’aggravamento della situazione
Nella fascia tra i 15 e di 24 anni il 37,1% di disoccupati
di Marco Ventimiglia


MILANO Una pioggia di numeri, relativi all’andamento della disoccupazione, provenienti da Istat ed Eurostat. Tante cifre che però hanno dei comuni denominatori. Infatti, emerge senza tema di smentita l’aggravarsi nel Continente del problema dei senza lavoro, che diventa ancor più drammatico se ci si concentra sulla fascia più giovane della popolazione europea. E se poi si restringe il campo all’interno dei confini nazionali, allora c’è da rabbrividire apprendendo del nuovo record di giovani privi di un impiego registrato nel mese di novembre, con il tasso di disoccupazione salito al 37,1%, ai massimi dal lontano 1992.
MALE ANCHE L’EUROPA
Dunque, l’Istituto nazionale di Statistica certifica che nel nostro Paese più di un giovane su tre, tra quelli attivi, è senza occupazione. In particolare, secondo i dati provvisori forniti ieri, nella fascia tra i 15 ed i 24 anni d’età le persone in cerca di lavoro sono 641mila e rappresentano il 10,6% della popolazione complessiva di questo segmento. Ed ancora, il tasso di disoccupazione dei 15-24enni (come detto pari al 37,1%) risulta essere in aumento di ben 0,7 punti percentuali rispetto al mese precedente e addirittura di 5 punti nel confronto tendenziale anno su anno. Resta invece stabile il tasso complessivo di disoccupazione in Italia all'11,1%, appunto lo stesso dato di ottobre. Ma nel raffronto con il mese di novembre del 2011 emerge un drammatico aumento di 1,8 punti percentuali. Nel dettaglio, il tasso di disoccupazione maschile, pari al 10,6%, cresce di 0,1 punti percentuali rispetto a ottobre e di 2,2 punti nei dodici mesi; quello femminile, pari al 12,0%, cala di 0,2 punti percentuali rispetto al mese precedente e aumenta di 1,2 punti rispetto a novembre 2011.
Spostandoci sui dati continentali, Eurostat ha evidenziato il continuo peggioramento del mercato del lavoro nell’area euro, dove a novembre la disoccupazione ha toccato nuovamente un massimo storico all'11,8 per cento, contro l'11,7 per cento di ottobre. Questo significa che in un mese si sono contati 113mila disoccupati in più, portando il totale a quota 18 milioni 820mila. La dinamica di peggioramento appare ancora più marcata nel paragone su base annua: nel gennaio del 2012 la disoccupazione media nell'Unione valutaria era al 10,7 per cento e rispetto ad allora il numero totale delle persone prive di impiego è cresciuto di ben 2 milioni 15mila. In questo contesto vola la disoccupazione giovanile, seppur con valori medi ben inferiori a quelli italiani. Secondo i dati di Eurostat, a novembre 2012 il tasso ha raggiunto il 24,4%, con 3,733 milioni di under 25 senza lavoro, a fronte del 21,6% dello stesso mese dello scorso anno. Il numero dei giovani disoccupati nell'area della moneta unica è balzato così di 420mila unità in un anno. Nell'Unione europea a 27, invece, il tasso di disoccupazione per gli under 25 è stato, sempre nel mese di novembre, del 23,7% rispetto al 22,2% dello stesso mese del 2011.
Dure le reazioni dei sindacati. La Cgil, per voce della responsabile delle politiche giovanili, Ilaria Lani, sottolinea che i dati sulla disoccupazione mettono «in evidenza il fallimento delle politiche di solo rigore che hanno alimentato la recessione e le disuguaglianze e colpito prevalentemente le nuove generazioni, che ormai vedono un sostanziale blocco nell'accesso al lavoro». Per la Cisl «l'impatto della crisi e le riforme pensionistiche stanno penalizzando particolarmente l'occupazione giovanile» e «il lavoro deve essere il primo punto di qualsiasi programma elettorale». Secondo il segretario confederale della Uil, Guglielmo Loy, «il dato generale è implacabilmente chiaro e quello sulla stagnazione del lavoro giovanile segnala che il disagio occupazionale sta determinando un ulteriore peggioramento delle condizioni economiche e sociali del nostro Paese».

il Fatto 9.1.13
Tagliano pensioni e ospedali, ma comprano sommergibili
 Per l’acquisto di due sottomarini militari U-212 lo Stato spenderà 2 miliardi (170 milioni l’anno) grazie a una norma confermata dalla legge di Stabilità voluta dal governo Monti e approvata da Pdl, Pd e Terzo Polo. Un altro spreco dopo gli F-35
di Daniele Martini


Pensioni, ospedali e scuole sì. Cacciabombardieri, sommergibili e siluri no. Chissà perché in Italia da un po’ di tempo a questa parte si può tagliare di tutto, senza esitare a mettere per strada centinaia di migliaia di esodati, per esempio, o fino al punto da indurre i direttori amministrativi degli ospedali a “suggerire” ai medici di prescrivere ai malati le cure meno care e non le più efficaci. Ma quando si arriva di fronte alle armi i governi come d’incanto smettono la faccia feroce e diventano accondiscendenti e rispettosi come indù al cospetto di vacche sacre e i quattrini gira e rigira riescono sempre a trovarli. L’ultimo caso lo ha sollevato quasi per caso lunedì sera, durante Piazzapulita su La7, l’ex ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, il quale ha ricordato che tra le spese militari pesanti dell’Italia in questo momento non ci sono solo i 900 milioni di euro per rifinanziare le missioni all’estero, a cominciare da quella in Afghanistan, o i discussi e sofisticatissimi F-35, i cacciabombardieri più costosi di tutta la storia dell’aeronautica militare. Ci sono anche due sommergibili di “ultima generazione” della classe U 212, detta anche classe Todaro. Due battelli, come dicono in gergo, che costano quasi 1 miliardo di euro, che sommato all’altro miliardo già speso per altre 2 unità già entrate in esercizio e con base a Taranto, fanno 2 miliardi. Tanto per avere un ordine di grandezza, è una somma pari a circa la metà di quanto gli italiani hanno dovuto pagare di Imu sulla prima e in moltissimi casi unica casa di proprietà. E una tranche da 168 milioni è stata inserita nella legge di stabilità, varata sotto Natale.
IL PROGRAMMA degli U 212 va avanti da quasi vent’anni e quindi tutti i governi della Seconda Repubblica, di centro-destra, centrosinistra e tecnici, ci hanno messo lo zampino, compreso quelli in cui Tre-monti era ministro e non escluso l’esecutivo di Mario Monti con l’ammiraglio Giampaolo Di Paola alla Difesa, che non hanno mosso ciglio di fronte alla conferma delle ingenti spese. Il primo sommergibile battezzato Salvatore Todaro fu consegnato alla Marina militare il 29 marzo 2006, il secondo un anno dopo, mentre nel 2009 è stato dato il via alla fase 2 del piano, cioè la costruzione di altri 2 sommergibili, frutto di una collaborazione italo-tedesca.
GLI ITALIANI partecipano con gli stabilimenti Fincantieri di Muggiano alla periferia di La Spezia e i tedeschi con il consorzio Arge in cui spiccano i produttori di acciaio Thyssen Krupp, tristemente famosi per il rogo nella fabbrica di Torino in cui morirono sette operai e per il quale è stato condannato l’amministratore dello stabilimento. Il 9 dicembre 2009 nei cantieri spezzini, alla presenza di “autorità, civili, militari e religiose” è stata celebrata la cerimonia del “taglio della prima lamiera” del battello che porterà la matricola S 528. Secondo informazioni della Difesa, fino a 6 mesi fa era stato costruito meno della metà di quel primo sommergibile (il 43 per cento, per l’esattezza), mentre non era stata avviata l’impostazione e tagliata mezza lamiera del secondo il cui termine ultimo di consegna, compreso un anno di prove in mare, è fissato addirittura per il 2017. Al ministero della Difesa sostengono che qualsiasi cambio di indirizzo in corsa sarebbe intempestivo e inopportuno perché i contratti sono siglati. Volendo, però, e ammesso che da qualche parte qualcuno abbia la volontà politica di farlo, si potrebbe anche fermare in extremis la costruzione dell’ultimo sottomarino della serie, con un risparmio di circa mezzo miliardo di euro, in considerazione del fatto che da quando fu decisa la sua realizzazione a oggi di cose ne sono cambiate parecchie, e non in meglio per quanto riguarda le condizioni dei conti pubblici e degli italiani in generale a cui continuano ad essere richiesti sacrifici feroci. In altri paesi dimostrano atteggiamenti molto più “laici” nei confronti delle spese militari, non esitando a metterle in discussione, a ridurle o a tagliarle del tutto quando lo considerano opportuno e di fronte ad altre esigenze ritenute più importanti. Caso emblematico di questo approccio pragmatico è quello del governo conservatore canadese che ha deciso di porre un freno al programma dei cacciabombardieri F-35 considerando fosse necessaria una fase di ripensamento visti i costi crescenti e molto elevati dell’operazione e constatati i difetti dell’aereo emersi in fase di realizzazione e di prova.

Il Fatto 9.1.13
Casta esercito
Armamenti e tagli mancati, il governo ha indossato l’elmetto
di Thomas Mackinson


C’è un settore della spesa pubblica che va a gonfie vele e purtroppo non è la scuola, non è la sanità. In contro-tendenza con tutti gli altri comparti, quello della Difesa nel 2012 ha subito meno tagli e ha ricevuto più fondi, forte di
un doppio trattamento di favore che è proseguito fino all’ultimo, con una serie di colpi di coda che fanno discutere. L’ultimo si è consumato il 28 dicembre scorso con la proroga - quasi in sordina e a governo ormai dimissionato - delle missioni internazionali. Un provvedimento di solito accompagnato da forti tensioni e polemiche ma passato stavolta sotto silenzio, nonostante si portasse in pancia un vero e proprio giallo sui numeri. A prima vista il decreto sembra infatti ridurre la spesa rispetto al passato. Il budget messo sul tavolo dal governo è stato infatti pari a 935 milioni, inferiore di mezzo miliardo rispetto a quello del 2012. Il testo pubblicato in Gazzetta, però, indica che la copertura finanziaria alle operazioni militari è relativa soltanto ai primi nove mesi dell'anno, cioè fino al 30 settembre 2013. Insomma, alla fine dei conti il risparmio potrebbe essere solo sulla carta, un taglio col trucco. Un epilogo molto simile a quello dei tagli generali alla spesa strutturata del comparto difesa, anch’essi oggetto di fortissime polemiche, sia in Parlamento che fuori. Quelli di Tremonti prima e la spending review poi, si sa, sono stati “congelati” temporaneamente in vista della riforma dell’intero comparto. Quella che il generale Di Paola ha scritto per un anno e la Camera ha votato (distrattamente) il 12 dicembre, mentre fuori da Montecitorio le associazioni per il disarmo e i radicali protestavano inascoltati. Contestavano al governo metodo e merito: gli eventuali risparmi che si otterranno da questa operazione, sbandierata come una rivoluzione epocale, non
torneranno affatto alle casse dello Stato, non contribuiranno per nulla al risanamento del debito pubblico o a garantire più servizi ai cittadini. Quelle risorse, a differenza dei tagli degli altri settori, resteranno a disposizione della Difesa e saranno impiegate per finanziare l’acquisto di nuovi sistemi d’arma, compresi i contestatissimi F35 che costeranno 15 miliardi di euro. La loro riduzione, urlata a gran voce e da più parti, si è fermata a 41 esemplari. Di novanta, a quanto pare, non si poteva proprio fare a meno. Dunque anche a questo servirà la riduzione di 43mila unità, il 25% del personale civile e militare attualmente impiegato nella difesa. Idem per i frutti, molto incerti, del fantomatico piano di vendita del 30% delle caserme che dovrebbe andare a compimento in cinque anni. Quello che si profila, stanti questi fondamentali, è un’escalation di investimenti nel-l’industria bellica nei prossimi 10-15 anni. Sulla cui assoluta necessità per il nostro Paese si dibatte da tempo. Qualcuno, e non è la prima volta, sta mettendo in dubbio anche le reali “performance” delle nostre industrie. Le associazioni pacifiste, ad esempio, hanno confrontato i dati sull’export dichiarati nella relazione al Parlamento e quelli contenuti nel Rapporto annuale dell’Unione Europea. E hanno scoperto una curiosa incoerenza tra i numeri: nel 2011 l’Italia avrebbe esportato armi e sistemi di difesa per 2,6 miliardi, per la Ue “appena” uno. Delle due l’una, o i dati sono ampiamente inattendibili o i ritorni degli investimenti militari non sono poi così certi, come ostentato da un governo che ha continuato a indossare l’elmetto. Materia di riflessione per la nuova legislatura. E infine ecco un altro colpo di coda, stavolta assestato dalla casta con le stellette: l’ausiliaria per generali e ammiragli in congedo, una sorta di indennità di chiamata, nel 2013 salirà del 21%, con un costo aggiuntivo per i contribuenti civili di 74 milioni di euro.

La Stampa 9.1.13
Fassina (Pd) attacca “Sarebbero più utili accordi internazionali contro quelli grandi”
“Il redditometro è per i piccoli evasori”
di Rosaria Talarico

Sarà che la campagna elettorale alle porte, sarà che pagare le tasse non piace a nessuno, si tratti del popolo o dei politici. Fatto sta che il redditometro, il nuovo strumento per contrastare l’evasione fiscale appena diventato legge, raccoglie critiche e insulti a trecentosessanta gradi. «Può essere uno strumento importante, ma si concentra sulla piccola evasione – osserva Stefano Fassina, responsabile economico del Pd – servono accordi internazionali per la grande evasione». Incredibilmente le parole sono quasi le stesse usate dall’altra parte politica, con il presidente del gruppo Pdl al Senato, Maurizio Gasparri che descrive gli italiani «tartassati oltre ogni limite e adesso anche spiati e limitati nella libertà personale» aggiungendo che con il redditometro «si instaura uno Stato di polizia fiscale, che finirà con il colpire solo i cittadini onesti che pagano le tasse ma nulla fa contro gli evasori totali, di fatto invisibili al fisco».
Il direttore dell’Agenzia delle entrate, Attilio Befera prova anche a difendere il redditometro con una lettera pubblicata ieri dal Corriere della sera, rifiutando parallelismi con gli Stati di polizia caratterizzati «dall’assoluta segretezza che ammanta le procedure con cui le autorità di quegli Stati operano». Invece il redditometro serve per individuare casi reali di «spudorata evasione fiscale», per citare un’espressione utilizzata da Giorgio Napolitano nel suo discorso di fine anno. Per Vincenzo Visco, ex ministro delle Finanze e grande fustigatore di evasori, il nuovo redditometro invece «rischia di essere un flop. Ho sempre detto che non mi convince perché questi strumenti statistici, al fine di controllo di massa, sono molto incerti nel loro funzionamento». L’alternativa giusta da seguire è quella di «usare le banche dati in modo selettivo e avere un rapporto costante con i singoli contribuenti». Befera respinge anche al mittente le accuse di volere colpire la ricchezza e i suoi simboli: «Il gettito è tanto più alto quanto più i cittadini guadagnano ed è assurdo quindi che il fisco intenda combattere la ricchezza. Semmai è vero il contrario». Una difesa d’ufficio, per quanto appassionata, che cade nel vuoto.
«Strumento di tortura fiscale» lo definisce senza mezzi termini il senatore Pdl Alessio Butti. Mentre il capogruppo al Senato di Fratelli d’Italia Centrodestra Nazionale, Alessandra Gallone ricorda come continuino a passare sotto silenzio «i vergognosi patteggiamenti del fisco italiano con le banche e si preferisca condannare il piccolo contribuente, magari colpevole di essersi fatto aiutare dal nonno per pagare le rette universitarie del figlio, oppure per aver effettuato donazioni alle Onlus».
Meno drastico il presidente della Commissione parlamentare di vigilanza sull’anagrafe tributaria, Maurizio Leo. Da un lato sostiene che il nuovo redditometro vada «maneggiato con cautela, per evitare che diventi uno strumento oppressivo per il contribuente». Dall’altro «coglie nel segno e va sicuramente utilizzato da parte dell’amministrazione, per contrastare l’evasione di massa». E il fatto che l’onere della prova spetti al contribuente non è «un caso di barbarie giuridica» ci tiene a spiegare Befera perché «nessuno, più del contribuente stesso, può sapere come stiano effettivamente le cose». Resta da vedere quanta voglia abbia di andarle a raccontare al fisco.

il Fatto 9.1.13
Crimini e privacy
Pubblici i documenti sui preti pedofili di Los Angeles
di Angela Vitaliano


New York. Inizio d’anno difficile per l’Arcidiocesi di Los Angeles che, a seguito della decisione presa dal giudice Emilie Elias, non potrà più cancellare i nomi dei preti e dei funzionari del Vaticano presenti nei circa trentamila documenti relativi a uno dei più grandi scandali della pedofilia finora scoperti e denunciati. Nel 2007, dopo anni di ripetuti abusi sessuali su minori, da parte di diversi preti, l’Arcidiocesi arrivò a un accordo con le vittime per un risarcimento di 660 milioni di dollari.
IN BASE A QUELL’ACCORDO fu deciso anche che tutti i nomi contenuti nei documenti relativi allo scandalo, potessero essere resi pubblici, senza nessuna possibilità di filtro o di censura. Nel 2011, tuttavia, in seguito a una richiesta presentata alla Corte da 20 dei preti coinvolti, il giudice Dickran Tevrizian, decise di concedere all’Arcidiocesi il permesso di “intervenire” sui documenti così da oscurare i nomi dei “protagonisti”. Secondo il giudice, dare pubblicità alle identità di chi era coinvolto nello scandalo, avrebbe “imbarazzato e ridicolizzato la chiesa”. Di diversa opinione, evidentemente, il giudice che, con grande soddisfazione da parte delle vittime, ha annullato la decisione del 2011 obbligando l’Arcidiocesi a non mettere in atto nessuna cancellazione o censura, se non laddove si tratti di individui che non hanno avuto un peso determinate sullo svolgimento dei fatti. Il giudice, motivando la sua decisione, ha ricordato che non tutti i nomi contenuti nei documenti sono legati al reato di pedofilia in sé stesso e che, dunque, è importante che tutti possano avere un quadro chiaro di come si siano svolti i fatti e del peso avuto da ciascuno nella loro evoluzione. I documenti includono lettere e appunti scambiati fra esponenti di alto rango del vaticano e i loro avvocati, referti medici e psicologici, lamentele stilate da parte di genitori e, in alcuni casi, corrispondenze fra i preti accusati di pedofilia e diversi destinatari in Vaticano. “L’obiettivo del nostro cliente è di risolvere questo al più presto”, ha commentato l’avvocato dell’Arcidiocesi, Michael Hennigan che ha aggiunto anche che il cardinale Roger Mahony, da poco andato in pensione, non ha posto obiezioni alla pubblicazione del suo nome.
Non sembra, tuttavia, possibile che la pubblicazione dei file possa avvenire prima di un mese perché “bisogna capire quant’è grande questa montagna”, ha aggiunto Hennigan lasciando la corte. Ray Boucher, avvocato delle vittime, spera che i tempi possano essere più brevi e, soprattutto, che vengano messe in atto il minor numero di censure

Repubblica 9.1.13
Dalla brigatista torturata ai dittatori africani le ombre nascoste nel passato di Fioriolli
di C. B.


Guidò la questura di Genova subito dopo il G8 denunciando i giornalisti per gli articoli sul massacro alla Diaz

ROMA — Al centro della vicenda napoletana balla un prefetto in pensione la cui storia, da sola, racconta la linea d’ombra di un pezzo della storia recente della polizia Italiana. E che ha il suo incipit nel gennaio 1982. Oscar Fioriolli, classe 1947, trentino di Riva del Garda, poliziotto formato nei reparti Celere, è nelle squadre speciali dell’Antiterrorismo. Le Br-Pcc hanno sequestrato il generale americano James Lee Dozier, vicecomandante delle Forze terrestri alleate per il sud Europa. E il Viminale ha deciso che nella caccia all’ostaggio sia arrivato il momento di mettere in un canto la Costituzione. Salvatore Genova, in quei giorni funzionario della Digos di Verona, è testimone dell’interrogatorio di Elisabetta Arcangeli, arrestata come sospetta fiancheggiatrice delle Br e ritenuta possibile chiave per arrivare al covo in cui è prigioniero l’alto ufficiale. Racconta Salvatore Genova nell’aprile dello scorso anno all’Espresso: «Separati da un muro, perché potessero sentirsi ma non vedersi, ci sono Volinia (il compagno della Arcangeli ndr.) e la Arcangeli. Li sta interrogando Fioriolli. Il nostro capo, Improta, segue tutto da vicino. La ragazza è legata, nuda, la maltrattano, le tirano i capezzoli con una pinza, le infilano un manganello nella vagina, la ragazza urla, il suo compagno la sente e viene picchiato duramente, colpito allo stomaco, alle gambe. Ha paura per sé ma soprattutto per la sua compagna (...) Carico insieme a loro Volinia su una macchina, lo portiamo alla villetta per il trattamento. Lo denudiamo, legato al tavolaccio subisce l’acqua e sale».
Di quel peccato originale, Fioriolli non vorrà mai parlare. Ma su quel peccato originale costruisce una carriera. Non ha modi né bruschi, né grevi da sbirro. Piuttosto le stim- mate, la forma mentis, di quella polizia politica. Ama le belle cose e mischiarsi tra la gente che conta. Tra l’87 e il ’97, dirige la Digos di Genova, e il suo primo incarico da questore (1997) è ad Agrigento. Dove resta due anni prima della rotazione a Modena (1999-2001) e Palermo, dove resta però solo pochi mesi. Il G8 di Genova lo riporta nell’agosto 2001 nella sua città, dove è rotolata la sola testa del questore Francesco Colucci. Fioriolli è nella massima considerazione di Gianni De Gennaro, allora capo della polizia, e la sua biografia combacia come un calco con l’urgenza che, in quel momento, ha il Viminale. A Fioriolli non va spiegato quello che deve fare. E la sua prima mossa è una denuncia in Procura contro la stampa genovese accusata di “calunniare” la polizia nelle sue ricostruzioni sui fatti della Diaz. La seconda, la melina che impedisce la compiuta identificazione della “macedonia” di polizia che ha fatto irruzione nella scuola. La questura di Genova, del resto, è roba sua. A cominciare dalla Digos e dal suo dirigente Spartaco Mortola. Che come lui è nella cerchia di amici di un faccendiere siriano, tale Fouzi Hadj. Un tipo ricercato per bancarotta, da cui Fioriolli riceve un prestito di 50 mila euro e che fa balenare opachi affari in materia di sicurezza con la dittatura della Guinea Conakry.
Nel gennaio 2005, Fioriolli è a Napoli, nella questura che è stata fino a poco tempo prima di Izzo e terremotata dall’inchiesta della Procura sui fatti della caserma Raniero (prova generale del G8 genovese). Sappiamo oggi come è andata. Gli ultimi anni sono a Roma, a capo della scuola di formazione per l’ordine pubblico e alle specialità. In tempo per la pensione. E per togliere il disturbo prima che cominci a grandinare.

l’Unità 9.1.13
Carceri, condannata l’Italia
La Corte di Strasburgo condanna l’Italia per il trattamento «inumano e degradante» ai detenuti Pronti altri 550 ricorsi
Napolitano ai partiti: «Mortificante conferma dell’incapacità dello Stato»
di Massimo Solani


La Corte europea dei diritti umani ha accolto il ricorso di sette detenuti di Piacenza e Busto Arsizio condannando l’Italia per la seconda volta al pagamento di un risarcimento pari a 100mila euro. Per Strasburgo l’Italia è responsabile di un trattamento «inumano e degradante» dei detenuti, costretti in celle con meno di 3 metri quadrati a disposizione. Per Napolitano è una «mortificante conferma della incapacità del nostro Stato a garantire i diritti elementari dei reclusi». Il Guardasigilli Severino: «Sono avvilita ma non sorpresa».

L’emergenza carceri che in Italia non sembra trovare spazio nell’agenda politica, in Europa si vede benissimo. E costa cara al nostro Paese. La Corte europea dei diritti umani di Strasburgo infatti, dopo la bocciatura del luglio 2009, accogliendo il ricorso presentato da sette detenuti delle carceri di Piacenza e Busto Arsizio, ha condannato ancora una volta l’Italia per il trattamento «inumano e degradante» riservato ai reclusi imponendo un risarcimento danni complessivo pari a 100mila euro. Ma la situazione del sovraffollamento carcerario con i detenuti ammassati nelle celle con a disposizione meno di tre metri quadrati, denuncia la Corte Europea, in Italia è ormai strutturale al punto che sono già almeno 550 i ricorsi arrivati a Strasburgo. Per questo la raccomandazione al nostro governo, che somiglia ormai ad un ultimatum, è quella di mettere in atto provvedimenti deflattivi, anche attraverso lo studio di misure alternative alla reclusione, e di dotarsi entro un anno di uno strumento giuridico che permetta ai detenuti di rivolgersi ai tribunali italiani per denunciare le condizioni di vita disumane e ottenere, eventualmente, un risarcimento.
Raccomandazioni condivise dal presi-
dente della Repubblica Giorgio Napolitano che più volte, l’ultima in occasione del discorso di fine anno quando lo definì «un dato persistente di incviviltà da sradicare», ha esortato la politica per una soluzione dell’emergenza carceri. «La sentenza della Corte europea dei diritti dell' uomo di Strasburgo rappresenta un nuovo grave richiamo alla insostenibilità della condizione in cui vive gran parte dei detenuti nelle carceri italiane ha commentato ieri il presidente Si tratta di una mortificante conferma della perdurante incapacità del nostro Stato a garantire i diritti elementari dei reclusi in attesa di giudizio e in esecuzione di pena, e nello stesso tempo di una sollecitazione pressante da parte della Corte a imboccare una strada efficace per il superamento di tale ingiustificabile stato di cose». «Il Parlamento avrebbe potuto, ancora alla vigilia dello scioglimento delle Camere, assumere decisioni, e purtroppo non l'ha fatto ha concluso Napolitano La questione deve ora poter trovare primaria attenzione anche nel confronto programmatico tra le formazioni politiche che concorreranno alle elezioni del nuovo Parlamento così da essere poi rimessa alle Camere per deliberazioni rapide ed efficaci».
Un augurio condiviso anche da Rodolfo Sabelli, presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, secondo il quale l’emergenza carceraria è una «assoluta priorità» che il nuovo Parlamento dovrà affrontare. «Il guaio prosegue Sabelli è che sono mancati interventi strutturali in grado di risolvere il problema». «La situazione delle carceri italiane chiosa l’Unione delle Camere Penali è lo specchio fedele di una giustizia che non funziona e calpesta i diritti fondamentali».
SOVRAFFOLLAMENTO AL 140%
La sentenza della Corte di Strasburgo, quattro anni dopo la precedente condanna seguita al ricorso di un detenuto di Rebibbia, non è certo un fulmine a ciel sereno visto che il tasso di sovraffollamento delle nostre carceri ha ormai superato il 140% con punte, denunciate dai Radicali, del 269% nel carcere di Mistretta a Messina, del 255% a Brescia e del 251% a Busto Arsizio. Per questo il ministro della Giustizia Paola Severino, dopo la bocciatura in Parlamento del suo ddl sulle pene alternative, si dice «avvilita ma non sorpresa» dal pronunciamento di Strasburgo. «In questi tredici mesi di attività ha spiegato ho dato la priorità al problema carcerario: il decreto “salva carceri”, il primo provvedimento in materia di giustizia varato un anno fa dal Consiglio dei ministri e divenuto legge nel febbraio del 2012, ha consentito di tamponare una situazione drammatica. I primi risultati li stiamo constatando: i detenuti che nel novembre del 2011 erano 68.047 sono oggi scesi a 65.725». Poco, pochissimo però se si considera che la capienza delle carceri, al 31 dicembre 2012, era stimata in 47mila posti. «La mia amarezza, torno a ribadirlo, è grande ha concluso la Severino non è consentito a nessuno fare campagna elettorale sulla pelle dei detenuti. Continuerò a battermi, come ministro ancora per poche settimane e poi come cittadina, perché le condizioni delle persone detenute nelle nostre carceri siano degne di un Paese civile».

l’Unità 9.1.13
Suicidi dietro le sbarre, una catastrofe del diritto
di Luigi Manconi e Giovanni Torrente


Una nuova sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo ha sanzionato il nostro sistema penitenziario per violazione l’articolo 3 della Convenzione europea, che proibisce «la tortura o i trattamenti inumani o degradanti». Non stupisce.

Una nuova sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo ha sanzionato il nostro sistema penitenziario, condannando l’Italia a risarcire sette detenuti di Busto Arsizio e Piacenza: le condizioni della loro reclusione, secondo la Corte, violavano l’articolo 3 della Convenzione europea, che proibisce «la tortura o i trattamenti inumani o degradanti». Non stupisce. Quella che si consuma nelle carceri è una catastrofe del diritto e dell’umanità e, tra le manifestazioni più crudeli di tale tragedia, emerge il fenomeno dell’autolesionismo. Su Politica del diritto, la rivista del Mulino diretta da Stefano Rodotà, ora in libreria, pubblichiamo i primi risultati di una ricerca sul tema. In particolare, dopo aver ricostruito la dimensione del fenomeno in una prospettiva nazionale, proponiamo un approfondimento statistico dei fenomeni di autolesionismo e suicidio avvenuti negli ultimi 5 anni in tre regioni campione: Piemonte, Liguria e Campania.
1. SUICIDIO E AUTOLESIONISMO IN CARCERE: LE DIMENSIONI DEL FENOMENO
Il carcere è un luogo dove il rischio che si verifichi un suicidio è tra le 9 e le 21 volte superiore rispetto all’esterno. Quali le ragioni di uno scarto così rilevante? I dati raccolti mostrano come, a differenza di quanto si riscontra fra i cittadini liberi, le variazioni percentuali dei tassi di suicidio fra i detenuti, anche solo da un anno all’altro, siano assai significative. Il dato mostra quindi una relativa autonomia delle dinamiche che portano al suicidio in carcere rispetto alle dinamiche esterne a esso. Ne consegue che il numero dei suicidi nelle carceri pare aumentare sensibilmente in particolari momenti di crisi, per ragioni che sono intrinsecamente legate a processi interni all’istituzione penitenziaria. Quanto detto viene confermato dalla serie storica 1980-2010. In particolare, la lettura della curva dei tentativi di suicidio e dei suicidi realizzati mostra come i tentativi abbiano avuto un tendenziale aumento a partire dalla seconda metà degli anni ’80, con la punta massima raggiunta alla fine degli anni ‘90 ed eguagliata nel 2010. Al contrario, i suicidi realizzati sono aumentati numericamente dal 1993 sino ad oggi, con la punta massima toccata nel 2001 con 69 suicidi. Tuttavia, se confrontiamo numero dei suicidi e popolazione detenuta, si può osservare come la curva raggiunga il suo punto più elevato negli anni ‘80; in seguito, i tassi scendono, seppur con un andamento «schizofrenico», tale che ad anni tendenzialmente meno preoccupanti, seguono periodi di rapido incremento. All’interno di questa irregolare dinamica, un aspetto va rimarcato. Con riferimento agli ultimi 30 anni, la minor frequenza di suicidi in carcere si verifica nel corso del 1990 e del 2006. In quegli anni, come noto, sono stati approvati dal Parlamento gli ultimi provvedimenti di clemenza. Ed è possibile, quindi, ipotizzare che la speranza offerta da quei provvedimenti, sommata al miglioramento delle condizioni detentive a seguito della riduzione dell’affollamento, abbia stemperato il clima all’interno degli istituti. Abbia favorito, cioè, il contenimento dei comportamenti autolesivi.
2. IL SUICIDIO NELLE CARCERI ITALIANE: LE INDICAZIONI DI TRE STUDI DI CASO
Nelle tre regioni oggetto della ricerca i dati mostrano come, nell’arco di cinque anni, si siano verificati 12 suicidi in Piemonte, 6 in Liguria e 39 in Campania. A fronte del numero assoluto di suicidi in Campania, il dato rapportato al totale delle presenze mostra un quadro assai più complesso. Se utilizziamo il rapporto tra il numero di suicidi e, da un lato, il complesso degli eventi critici, e, dall’altro, il tasso di sovraffollamento delle singole carceri, avremo a disposizione due indicatori del clima di tensione e del grado di vivibilità di ciascun istituto, rappresentato dal sovraffollamento. Il suicidio, all’interno di tali contesti, non appare come un fenomeno isolato, bensì come l’esito estremo di un clima di tensione che si esprime anche attraverso l’elevato indice di gesti autolesivi messi in atto. Pare possibile, quindi, indicare i tratti di quelli che possiamo definire «istituti ad alto indice di tensione» (e di sofferenza). All’interno del senso comune carcerario, diffuso tra gli operatori come tra i detenuti, è immediatamente percepibile la differenza tra istituti conosciuti per la migliore vivibilità e istituti connotati da condizioni massimamente afflittive. Nel gergo carcerario, ciò porta a distinguere le carceri «aperte» da quelle «chiuse», quelle «a vocazione trattamentale» da quelle con attitudine «custodiale»; e, infine, i penitenziari «punitivi» da quelli «premiali». A nostro parere, le cause che producono un «istituto ad alto indice di tensione» sono, per un verso, di natura strutturale e, per un altro, di natura organizzativa e ambientale. Resta il fatto che i motivi profondi di quella «tensione» non possono essere dedotti dal mero dato numerico, ma devono essere analizzati attraverso l’osservazione dell’universo di relazioni, scelte organizzative e dati strutturali che contribuiscono a determinare la vita concreta all’interno di un penitenziario.
3. DA DOVE, QUANDO E PERCHÉ IN CARCERE?
I dati da noi raccolti permettono di approfondire l'indagine con riferimento a nazionalità, età e posizione giuridica delle persone che si sono tolte la vita. Relativamente alla nazionalità, il dato appare significativo soprattutto in regioni, quali il Piemonte e la Liguria, dove la presenza di stranieri detenuti è più elevata. In entrambe le regioni, in questi cinque anni si è avuta una prevalenza di suicidi tra gli italiani rispetto a quelli tra gli stranieri; e drammaticamente significativi appaiono i dati relativi all'età e alla posizione giuridica. Relativamente alla prima variabile, risulta confermato come i detenuti più giovani mostrino una maggiore tendenza al suicidio. In Piemonte e in Campania, nel corso di questo periodo, non si sono verificati suicidi tra i reclusi appartenenti alla fascia di età 18-24 anni, mentre in Liguria sono stati due su sei i minori di 24 anni che si sono tolti la vita. Oltre tale soglia, il numero di suicidi aumenta immediatamente superando la percentuale media di persone detenute nella fascia fra i 24 e i 44 anni. Appare significativo, in proposito, il fatto che in Campania e in Piemonte quasi tre quarti dei suicidi abbiano riguardato persone con un'età compresa tra i 25 e i 44 anni, mentre in Liguria la fascia d'età fra i 18 e i 44 anni comprende tutti gli episodi di suicidio registrati negli ultimi cinque anni in quella regione. Il dato più sconcertante nell'analisi dei tratti qualificanti i reclusi che hanno messo in atto il suicidio, riguarda la loro posizione giuridica: in 25 casi su 48, si tratta di persone sottoposte a misura cautelare. In oltre la metà dei casi, quindi, siamo in presenza di soggetti per i quali vale la presunzione di non colpevolezza.
4. UN ASSAGGIO DI PRIGIONE?
Dalle ricerche sul fenomeno del suicidio in carcere, un dato emerge con maggiore evidenza: i primi giorni di detenzione come la fase di maggior rischio per la realizzazione di atti di autolesionismo. In questi anni qualcosa è cambiato nelle pratiche penitenziarie: egli istituti di grande dimensione, ad esempio, è stato creato il cosiddetto Servizio nuovi giunti. Ciò nonostante, in alcune regioni, persiste il fenomeno dei suicidi nei primi giorni di carcerazione. In Piemonte, in particolare, un terzo dei suicidi è stato realizzato entro 30 giorni dall'arresto. A quanto fin qui detto, va aggiunta qualche considerazione a proposito di quella fase particolarmente delicata nella gestione della popolazione detenuta, rappresentata dai trasferimenti. È frequente che questi ultimi siano attuati a seguito di eventi critici verificatisi nell'istituto di provenienza; o riguardino, comunque, soggetti non graditi o di difficile gestione, considerati «pericolosi» per l'ambiente. La lettura dei dati relativi ai tempi del suicidio, in relazione al momento dell’ingresso nel carcere dove è avvenuto il fatto, sembrano confermare l'ipotesi del trasferimento come momento particolarmente problematico. Anche in questo caso, ovviamente, il trasferimento non è sufficiente a spiegare tutto. Eppure esso costituisce un segnale di situazioni palesemente critiche, gestite attraverso l'unica soluzione che troppo spesso l'amministrazione sembra in grado di adottare: la rimozione del problema attraverso l'invio di quello che viene considerato il responsabile del problema stesso in un luogo diverso. Non è un caso: la pratica della rimozione sembra, più in generale, dominare il governo della questione carceraria in Italia.

l’Unità 9.1.13
Chiuso tra nuovi muri Israele scivola a destra
A due settimane dal voto Netanyahu annuncia la costruzione di un’altra barriera sul confine siriano: contro gli jihadisti
di Umberto De Giovannangeli

Un Paese «murato». Un Paese che si sente circondato da entità ostili, irriducibilmente avverse. È Israele a due settimane dal voto. Le entità ostili si chiamano Fratelli Musulmani egiziani, Hamas, Hezbollah, ed ora anche i gruppi jihadisti che combattono in Siria il regime di Bashar al-Assad. Muri e barriere di difesa sostituiscono la politica, o meglio, si fanno politica. I tempi di realizzazione sono stati pressoché rispettati: con la fine del 2012 oltre mille chilometri, sono stati protetti da muri, barriere, protezioni fisiche. Filo spinato. Cemento. Acciaio. Sensori ottici. Fossati. La barriera con l’Egitto uno sbarramento di circa 253 km ha comportato l’innalzamento di reticolati sotto l’ombra di un sofisticato sistema di controllo radar lungo l'intera linea di confine che separa l’estrema propagine meridionale del deserto israeliano del Neghev dal Sinai egiziano. La Barriera un investimento da 372 milioni di dollari è formata da uno spezzone di sessanta chilometri a sud dell’area di Rafah e un altro della stessa lunghezza a nord di Eilat. Il tratto intermedio, considerato poco soggetto alle infiltrazioni a causa del terreno accidentato, è protetto da apparecchi elettronici.
Un nuovo Muro, stavolta a nord sul confine con il Libano, è stato realizzato nell’arco di tre mesi, da Israele. La barriera, che in alcuni punti è alta anche undici metri, corre sulla linea del cessate il fuoco del 2000 inizialmente per un chilometro, tra le pianure di Khiam e la cittadina libanese di al-Addaiseh, passando per l’ex valico di frontiera di Fatima Gate. Quanto al Muro in Cisgiordania, nella parte già completata, si dipana per una lunghezza di 709 chilometri e il suo tracciato corre per l’85% all’interno del territorio palestinese della Cisgiordania e solo per il 15% a ridosso della linea di frontiera. Nei punti più alti, il «Muro» in questione raggiunge l’altezza di 8 metri e si estenderà, al suo completamento, per oltre 752 chilometri.
SETTANTA CHILOMETRI
Benjamin Netanyhau promette ora di far costruire una barriera fortificata sul confine con la Siria, per proteggere lo Stato ebraico dalle forze radicali islamiche. Nella riunione di Gabinetto del 6 gennaio, il primo ministro rileva che il regime di Bashar al-Assad è «instabile» e che Israele è «fortemente preoccupato» per il destino delle armi chimiche possedute da Damasco. Oltre confine, spiega, «sono arrivate le forze della jihad globale», un termine che Israele utilizza per indicare i gruppi influenzati da al Qaeda. Intervenendo alla riunione di governo, Netanyahu ha sottolineato come la barriera in costruzione lungo il confine con l’Egitto sia quasi finita, annunciando quindi l’intenzione di «costruirne una identica, con alcune opportune modifiche a causa di condizioni diverse, lungo le Alture del Golan».
«Sappiamo che dall’altra parte del nostro confine con la Siria oggi l’esercito siriano si è ritirato e i combattenti della jihad globale hanno preso il suo posto ha detto il premier noi dobbiamo quindi proteggere questo confine da incursioni e dal terrorismo, come abbiamo già fatto con successo al confine con il Sinai». Una fonte della sicurezza rivela alla Cnn che Israele ha già completato circa 10 chilometri di muro e che «mancano circa 60 chilometri» da completare nel Golan, dicendosi fiducioso che i lavori saranno ultimati nel 2013. Le Alture del Golan sono state conquistate da Israele alla Siria durante la «Guerra dei sei giorni» del 1967 e annesse nel 1981, senza il via libera della comunità internazionale.
In questo scenario da trincea permanente, la destra israeliana di Benjamin Netanyahu e Avigdor Lieberman, «Likud-Beitenu» continua a essere favorita nei sondaggi elettorali. E questo grazie anche all’incapacità delle opposizioni di centrosinistra di trovare unità. Si è concluso in un fallimento il tentativo dell’ex ministra degli Esteri Tzipi Livni di dare vita a una coalizione di centro-sinistra da contrapporre a quella conservatrice guidata da Netanyahu. La stessa Livni ha dichiarato alla radio pubblica che «purtroppo non è stato raggiunto alcun accordo» nel summit protrattosi, nei giorni scorsi, fino a tarda notte con i leader delle altre due formazioni progressiste. Al vertice hanno partecipato la Livni, leader del neonato partito liberale Hatnuah (il Movimento, in lingua ebraica, ndr), Shelly Yachimovich, la leader dei laburisti, e Yair Lapid, che guida i riformisti moderati di Yesh Atid. «Obiettivo della riunione era trovare il modo di sostituire il governo Netanyahu», ha spiegato. «Affinchè l’opinione pubblica comprenda che noi rappresentiamo un’alternativa seria, dobbiamo impegnarci a non prendere parte a una compagine governativa guidata da lui», ha sottolineato, alludendo alle posizioni non del tutto chiare assunte al riguardo dai potenziali interlocutori. Il governo «Biberman» ringrazia.

Corriere 9.1.13
Ungheria choc: «Zingari animali, eliminiamoli»
di Paolo Valentino


Fino a quando l'Ungheria continuerà ad abusare della pazienza (o della neghittosità) dell'Unione Europea? Chiuso il 2012 con il nauseabondo invito di un membro del Parlamento magiaro a schedare tutti gli ebrei in una lista speciale, l'anno nuovo si apre con un ennesimo e sinistro latrato xenofobo e razzista di un autorevole esponente della classe politica al potere a Budapest.
Come il braccio incontrollabile del generale nell'immortale Stranamore di Kubrick, questa volta è la penna di Zsolt Bayer, uno dei fondatori del partito al potere Fidesz e amico personale del premier Viktor Orban, a confermare quanto profondo e radicato sia il seme dell'intolleranza e dell'odio etnico in una parte degli attuali dirigenti ungheresi.
Commentando per il giornale Magyar Hirlap una rissa di Capodanno, nella quale sono rimaste gravemente ferite diverse persone e dove alcuni degli assalitori erano dei rom, Bayer ha pensato bene di definire l'intera etnia «inadatta a coesistere»: «I rom — ha scritto — non sono capaci di vivere tra le persone. Sono animali e si comportano da animali». Il giornalista se l'è presa con «il mondo occidentale politicamente corretto», colpevole ai suoi occhi di predicare tolleranza e comprensione verso gli zingari, che rappresentano il 7% della popolazione ungherese e appartengono alle fasce più povere e meno istruite della società.
Per capire di chi stiamo parlando, occorre ricordare che Bayer è stato sin dall'inizio uno dei compagni di strada di Orban e negli anni Novanta ha servito come portavoce di Fidesz. È uno dei maggiori organizzatori delle Marce della pace, le manifestazioni in sostegno del governo che lo scorso anno hanno visto la partecipazione di decine di migliaia di persone. Non è la prima volta che il nostro si rivela e i suoi commenti si sono spesso distinti per i toni antisemiti e razzisti.
Naturalmente, per bocca del ministro della Giustizia Tibor Navracsics, il governo ha emesso una rituale condanna dell'articolo. Ma in un significativo gioco delle parti, la portavoce di Fidesz, Gabriella Selmeczi, ha detto che il partito non prende posizione su un editoriale: «Bayer ha scritto l'articolo non in quanto politico ma in quanto giornalista e noi non commentiamo le opinioni dei giornalisti». In difesa del free speech, insomma. Peccato che proprio alcuni giorni fa la radio pubblica, forte della legge liberticida sui media introdotta da Orban, abbia censurato alcuni passaggi della trasmissione mensile dello scrittore Peter Esterhazy, che suonavano troppo critiche del regime.
Bayer ha cercato ieri di fare una parziale e maldestra retromarcia, spiegando in un nuovo editoriale di aver voluto soltanto «smuovere le acque, far accadere qualcosa»: «Voglio ordine — così il giornalista —, voglio che ogni zingaro onorevole continui a vivere in questo Paese, ma che ogni zingaro incapace e inadatto a stare in questa società venga cacciato via».
I partiti d'opposizione non ci stanno, sollecitano contro di lui un'incriminazione formale e chiedono a Fidesz di espellerlo immediatamente dai suoi ranghi. In caso contrario, hanno convocato una manifestazione di protesta per domenica davanti alla sede del partito di governo.
È dall'aprile 2010, da quando una clamorosa vittoria elettorale gli fruttò una maggioranza dei 2/3 in Parlamento, che Viktor Orban ha varato in Ungheria una sistematica restaurazione autoritaria e antidemocratica del potere, instaurando in un Paese membro dell'Unione Europea un clima di paura, intolleranza e sinistri echi xenofobi. Forse è giunto il tempo che l'Europa agisca con decisione.

Repubblica 9.1.13
Perché non possiamo fare a meno dei partiti
“Forza senza legittimità”, la nuova analisi politica di Piero Ignazi
di Ilvo Diamanti


Ormai l’antipolitica è dovunque. È entrata nel linguaggio corrente della vita quotidiana e nel discorso “politico”. Un argomento usato dai leader politici a fini polemici. Tuttavia, il bersaglio dell’antipolitica non è la “politica” in quanto tale. Coincide, piuttosto, con i partiti. Che, in Italia, godono — si fa per dire — di pessima reputazione. Peraltro, è largamente condivisa la convinzione che la “malapolitica” condotta dai partiti costituisca un “male” tipicamente italiano, che si è propagato con particolare intensità negli ultimi anni. Piero Ignazi smentisce questa leggenda, ricostruendo la “storia” e la “geografia” del fenomeno in un saggio dal titolo esplicito e suggestivo: Forza senza legittimità. Il vicolo cieco dei partiti (Laterza, pagg. 153, euro 14). Dove l’autore descrive, con rara efficacia, il paradosso apparente espresso dai partiti. Oggi più che mai delegittimati, sfiduciati dai cittadini. Eppure, oggi più che mai, dotati di potere e di influenza, in ambito istituzionale, ma anche nel mondo sociale, nella vita quotidiana. Ignazi ridimensiona i ragionamenti di “senso comune” sull’argomento. La sfiducia verso i partiti non è un fatto recente, non riguarda il nostro tempo. E non è una specialità italiana. Dal punto di vista storico i partiti non hanno mai goduto di buona stampa. «La colpa», esordisce Ignazi, «è nel nome». Perché il partito deriva dal latino partire.
E, per questo, evoca la parzialità. Per questo sono distinti dalle “fazioni”. Ma spesso ritenuti equivalenti e altrettanto faziosi. Così, secondo Hobbes, i partiti diventano «uno Stato nello Stato». E per questo «è dovere dei governanti disperderli». I partiti, cioè, vengono considerati veicoli di interessi particolari, in contrasto con l’interesse “generale”, con il “bene comune”. Ma sono molti altri i critici autorevoli dei partiti. Ignazi ne ripercorre le posizioni. Rammenta, fra gli altri, Alexis de Tocqueville, il quale ammette che «i partiti sono un male inerente ai governi liberi». Dunque, un male inevitabile, ma comunque, un male. Bisogna attendere il passaggio tra Otto e Novecento per assistere al cambiamento del clima d’opinione verso i partiti. E di riflesso al cambiamento del loro rapporto con la società. I partiti conoscono un’età dell’oro durante la prima metà del secolo trascorso. Quando si affermano i partiti di massa. Socialisti, comunisti, popolari. Rappresentano e mobilitano le masse, appunto. Stabiliscono un legame di identificazione e di identità con i loro elettori. Anche perché sono presenti sul territorio nella società. Inoltre, sono partiti di iscritti, dotati di un’ampia rete di volontari, ma anche di funzionari. Per garantire continuità ed efficacia alla loro azione. Per questo, dispongono di consenso sociale, ma al tempo stesso, si professionalizzano sempre più. E si evolvono in senso oligarchico. Per adattarsi alla complessità sociale diventano “pigliatutti”. Partiti elettorali, che non hanno più un target specifico e definito. Ma si rivolgono, appunto, a tutti gli elettori. Per questo, perdono le loro specificità ideologiche. «Degli iscritti, così come delle sezioni territoriali», appunta Ignazi, «non c’è più bisogno». I partiti, quindi si rifugiano nelle istituzioni e sui media. Diventano, cioè, partiti di cartello. «Agenzie pubbliche regolamentate e ufficializzate che - sottolinea l’autoredallo Stato traggono le loro risorse legalmente con il finanziamento pubblico e in maniera opaca attraverso il patronage ». Investono, cioè, nel controllo clientelare dell’opinione pubblica. Per questo, conclude Ignazi, «i partiti sono oggi in Europa molto più forti di un tempo».In Europa,
si badi bene. Perché queste tendenze non riguardano solo l’Italia. Ma coinvolgono tutti i principali paesi europei. Dalla Francia alla Germania. Dal Belgio all’Austria. Per non parlare delle nuove democrazie. Il partito è, dunque, divenuto “stato-centrico”. Ma si è indebolito sul territorio e nella società. Per questo la stima nei loro confronti è precipitata. Ciò li ha spinti a correre ai ripari. Allargando il richiamo alla volontà popolare, il ritorno agli iscritti. E agli elettori. In modo diretto. Attraverso le primarie. Ma anche, in alcuni casi, attraverso lo scambio diretto tra leader e popolo. In modo carismatico e populista.
Da ciò il problema di questa fase. Perché, scrive Ignazi, «non c’è scampo: senza i partiti non c’è democrazia. Se vogliamo un sistema democratico e pluralista dobbiamo tenerci dei partiti». Ma «questi » partiti, «hanno scambiato il potere con la fiducia ». Per reagire, conclude l’autore, i partiti dovrebbero «spossessarsi di tante delle risorse accumulate ». Una condizione necessaria ma non sufficiente. E, purtroppo, difficile da realizzare, con “questi” partiti. Così, il saggio di Ignazi appare utile, interessante. Ma anche amaro. Perché in fondo al tunnel, oltre il paradosso che produce forza senza legittimità, non si vede la luce.

Repubblica 9.1.13
La musica delle tenebre
La colonna sonora infame voluta da Adolf Hitler
Già prima della presa del potere, il Führer ordinò che orchestre e compositori fossero “arianizzati”
di Natalia Aspesi

Hitler amava la musica, purché fosse pura, cioè germanica, e non contaminata, cioè ariana: il problema era, agli inizi degli anni Trenta, che tra i più celebri compositori, i sovrintendenti più stimati, i direttori d’orchestra più grandi, i solisti più noti al mondo, i cantanti più amati dal pubblico, le orchestre più gloriose, c’erano molti, troppi ebrei. Una vergogna che andava cancellata col massimo rigore, del resto come tutti e tutto ciò che fosse «giudaico, bolscevico, negroide», cioè degenerato e subumano. L’imperativo « eliminare l’elemento ebraico dalla musica tedesca» cominciò a essere messo in pratica anni prima della salita al potere di Hitler nel marzo del ’33, e trovò subito una folla di musicisti e musicologi, giornalisti e accademici, pronti alla delazione, all’insulto, alla violenza, con un’efficienza patriottica, funebre e demente, che accompagnò l’antisemitismo di Stato sancito poi nel 1935 dalle leggi di Norimberga, sino all’orrore della “soluzione finale”, pianificata alla Conferenza di Wannsee nel 1942, tra i cui ideologi c’era l’acclamato violinista Reinhard Heydrich. Già all’inizio del Terzo Reich era diventato un problema anche il grande settecentesco Händel, di pura stirpe sassone, poi naturalizzato inglese: i suoi possenti oratori esaltavano l’immaginario onirico del regime, ma i testi erano «pura immondizia» e furono mondati da ogni accenno biblico.
E Mozart? Bisognava arianizzare i suoi «capolavori dello spirito germanico », liberando opere come Le nozze di Figaro dal libretto scritto dall’ebreo convertito Lorenzo da Ponte, la cui traduzione tedesca era stata curata da Hermann Levi, il direttore d’orchestra del primo Parsifal di Bayreuth, imposto da re Ludwig di Baviera a un furibondo Wagner che lo aborriva in quanto non ariano. Molti anni dopo Joseph Goebbels avrebbe detto: «È stato Wagner a insegnarci cosa è un ebreo».
Ogni nuova storia che ci ricorda l’Olocausto, riesce a essere necessaria, e lo è anche L’armonia delle tenebre (Archinto) di Nicola Montenz, che a 36 anni è un lungo elegante giovanotto abbigliato di nero, docente di cultura e comunicazione nel mondo antico; vive a Piacenza, è diplomato in organo (suo fratello gemello in arpa) ed è anche autore di quell’affascinante Parsifal e l’Incantatore, sul rapporto tra Ludwig II di Baviera e Wagner, pubblicato due anni fa sempre da Archinto, e adesso in Francia con critiche appassionate. Il nuovo libro ha la struttura di un tragico libretto d’opera: si apre con un prologo, che sprofonda subito il lettore nel feroce scontro tra ambiziosi nazisti, Goebbels, Göring e Rosenberg, acerrimi nemici tra loro, per accaparrarsi il monopolio di ogni forma di cultura, compresa la musica; e si chiude col quinto e ultimo atto, a Terezìn, il ghetto lager in Cecoslovacchia dove venivano ammassati gli ebrei illustri, tra cui una folla di musicisti.
Lo scontro per sottomettere la cultura lo vinse Goebbels, diventato ministro della Propaganda, organizzando una monumentale struttura burocratica, gerarchica, capillare e pazza, divisa in sette ferree sezioni, una delle quali era la Reichmusikkammer, a cui facevano capo sette dipartimenti, ognuno dedicato a un ambito musicale: compositori, esecutori, organizzazione di concerti, gruppi corali e di musica popolare,
editori, costruttori di strumenti musicali. In questo modo il governo nazionalsocialista già alla fine del 1933 aveva ottenuto il controllo assoluto della vita intellettuale tedesca e di chiunque volesse lavorare in ambito culturale e soprattutto musicale. Dodici anni dopo, a Terezìn, prima che partisse l’ultimo e definitivo convoglio per i forni crematori di Auschwitz nell’ottobre del ’44, (su 139.861 internati, ne sopravvissero meno di 20mila) fu concesso di organizzare concerti e opere, tra cui ben 55 in prima assoluta, composte nel lager stesso, per esempio, da Gideon Klein e da Pavel Haas.
Spesso però le prove risultavano inutili, come avvenne nel caso dell’esecuzione del Requiem di Verdi, diretto da Raphael Schachter: per ben due volte i cori di 150 elementi furono deportati in massa ad Auschwitz dopo la prima esecuzione, e a Schachter fu concesso un terzo tentativo, in omaggio alla visita nel lager di Eichmann e per ingannare gli ingannabili inviati della Croce Rossa. Si sa chi furono i grandi della musica che per opportunismo, per paura, per la carriera, collaborarono, o per lo meno, non si opposero a un regime che decideva persino quali compositori dovevano essere cancellati, per esempio Mahler, Hindemith, Schoenberg, Weill, Krenek, Berg, Webern, quale tipo di musica poteva costare la perdita del lavoro e peggio, l’atonale, la dodecafonica, il jazz, le canzoni da cabaret, i ritmi a percussione, tutta la musica “degenerata” cui fu dedicata come all’arte, una grande mostra.
Montenz ritiene ingiusto ergersi oggi a giudice di quei musicisti che, lo volessero o meno, divennero i portavoce ufficiali del regime, senza tener conto delle sfumature. Richard Strauss, che aveva accettato la presidenza della nazista Camera della musica, non condivise mai l’antisemitismo hitleriano, Wilhem Furtwängler aveva rifiutato di “arianizzare” il Berliner Philharmoniker e di rinunciare alla sua segretaria ebrea: si riteneva intoccabile ma cadde in disgrazia quando volle contro ogni veto dirigere
Mathis il pittore, del “degenerato” e marito di una mezza ebrea Hindemith. Per ritornare nelle grazie del partito, accettò di dirigere Wagner a quel congresso di Norimberga che avrebbe promulgato le leggi razziali. Altre celebrità furono più allineate allo spirito del regime: il giovane Herbert von Karajan, iscritto al partito nazionalsocialista, ne diresse l’inno nella Parigi occupata, il soprano Elisabeth Schwarzkopf era membro del partito e cantava nei paesi invasi dall’esercito tedesco, l’allora celebre pianista Elly Ney scriveva a Goebbels di non voler dormire in alberghi che in passato avevano ospitato ebrei, il pianista Wilhelm Backhaus, considerato il massimo interprete di Beethoven, nel ’36 fece dichiarazione di voto a favore di Hitler, come il direttore d’orchestra Karl Bohm. D’altra parte non c’era bisogno di essere eroi per essere condannati: uno dei più grandi talenti musicali del Terzo Reich, il pianista Karlrobert Kreiten, nel maggio del ’43 dopo una discussione con un’amica sulla guerra forse perduta, fu arrestato, processato, impiccato. Aveva 27 anni.
Nell’Italia fascista fu Arturo Toscanini a esporsi più di altre celebrità contro il nazismo. Nel 1933, con altri direttori d’orchestra, inviò a Hitler un telegramma aperto invitandolo a «porre fine alla persecuzione dei nostri colleghi in Germania per ragioni politiche o religiose». Furibondo, il Führer proibì che la radio trasmettesse le loro registrazioni. Poi si lasciò convincere dalla sua amica, seguace e ammiratrice Winifred Wagner,
a invitare Toscanini a dirigere il Parsifal a Bayreuth, ma inamovibile fu Toscanini, che rifiutò ogni blandizia. Al suo posto arrivò il sempre servizievole Strauss. Ci fu anche chi, travolto dall’orrore, si pentì del suo appoggio iniziale al nazismo, come il musicologo Kurt Huber, che si unì alla Rosa Bianca e fu ghigliottinato nel 1943, o il compositore e organista Hugo Distler che travolto dai sensi di colpa si suicidò con il gas nel 1942.

martedì 8 gennaio 2013

Corriere 18.12.12
Perché il divenire è un eterno errore
di Emanuele Severino


«Secondo un principio consolidato della metafisica classica, il divenire richiede una condizione che lo trascende» — scrive Biagio de Giovanni nel suo studio, importante e suggestivo, dedicato a Hegel e Spinoza. Dialogo sul moderno (Guida, pp. 267, 17). Tale principio domina effettivamente sia l'«antico», sia il «moderno»; non però, aggiungo, il pensiero del nostro tempo, per il quale il divenire non richiede altro che se stesso. Il mondo — il finito — non ha bisogno di Dio.
Che Dio sia la condizione del divenire significa che Dio salva il finito. La tesi di de Giovanni è appunto che l'intento di fondo di Spinoza e di Hegel è di salvare il finito. Ed egli, questo intento, lo fa proprio, ma dandogli un timbro nuovo, che insieme, a suo avviso, rende esplicito quanto nei due pensatori rimane invece velato. Semplificando il discorso molto complesso di de Giovanni si può dire che, per lui, il mondo è salvato solo da Dio, ma che il rapporto tra Dio e Mondo produce un radicale spaesamento del pensiero, che non riesce e non può riuscire a sciogliere i problemi prodotti dalla coabitazione di quei due termini. Le difficoltà e le contraddizioni a cui va incontro il rapporto finito-infinito in Hegel e Spinoza non sono quindi imputabili alla limitatezza del loro pensiero, ma sono insuperabili. De Giovanni non presuppone arbitrariamente l'esistenza dell'infinito, non ne progetta nemmeno la fondazione, né la richiede a Spinoza e a Hegel, dove, a suo avviso, Dio è il luogo dove i problemi e le contraddizioni maggiormente si addensano. L'esistenza del Dio è il contenuto di una «fede», è un «paradosso» che però avvolge ogni uomo, «la stessa vita umana».
Sennonché la fede in Dio, dicevo all'inizio, è spinta al tramonto da ciò che chiamo l'«essenza della filosofia del nostro tempo», dove il Tutto resta identificato alla totalità del visibile-finito-diveniente. De Giovanni vede l'unità sottostante all'«antico» e al «moderno» (e si tratta di millenni), ma non intende allargarla, e anzi prende le distanze dalla fede originaria, indicata nei miei scritti, che invece unisce l'intera storia dell'uomo e quindi sta al fondamento sia dell'accettazione sia del rifiuto di Dio. Mi riferisco all'onnipresente fede originaria nel diventar altro delle cose.
Per de Giovanni i miei scritti concepirebbero «il pensiero dell'Occidente come preso in un unico solenne errore, che è un estremo, iperlogico (e a suo modo, certo, geniale) invito a escludere il significato delle differenze», alle quali, peraltro, non si può rinunciare (p. 117). Credo che egli si riferisca qui alle «differenze» intese come differenti modi di errare. Ma nemmeno i miei scritti sono disposti a rinunciare a tali differenze. Solo che esse hanno questo di identico, di essere errori. E avere in comune l'esser errori non cancella i differenti modi dell'errare — come, per i colori, avere in comune l'esser colori non è una monocromia, non cancella il loro differire l'uno dall'altro. La vita umana è il luogo in cui si manifesta ciò che vi è di identico in ogni errore: il suo essersi separato dalla verità, presentandosi come quella fede nel diventar altro delle cose, che, anche nelle sue forme più «innocenti» nuoce, perché esso è lo squartamento dove le cose si strappano da sé stesse, ossia è la radice di ogni violenza. L'Errore è insieme l'Orrore — vado dicendo.
De Giovanni mi rivolge un elogio che mi piacerebbe meritare e di cui lo ringrazio («Sono convinto che la profondità speculativa di Severino sia assai alta e pressoché unica oggi in Europa»), ma aggiunge che «la pedagogia che nasce da questa profondità è muta, perché riduce la dialettica interna alla storia della metafisica alla monocroma ripetizione dell'errore». Chiedo a de Giovanni di indicarmi, per uscire dalla supposta monocromia, da un lato un solo punto, nella storia dell'uomo, dove non si creda nell'esistenza della trasformazione delle cose — almeno di quelle mondane, e dall'altro lato un solo errore che non presupponga questa fede. Poi, se vorrà, potremo discutere il punto decisivo, ossia i motivi per i quali affermo che tale fede, nonostante la sua apparente plausibilità ed «evidenza» è l'Errore più profondo a cui l'uomo è stato destinato (ma dal quale l'Inconscio più profondo dell'uomo è già da sempre libero).

Corriere 8.1.13
«Rivolta legittima» Migranti assolti
I clandestini della rivolta assolti per «legittima difesa»
Il giudice: le condizioni del centro un'offesa alla dignità
di Luigi Ferrarella


«La loro difesa è stata proporzionata all'offesa». Dunque no alla condanna ad un anno e 8 mesi chiesta dal pm per i tre clandestini che diedero vita a una rivolta danneggiando il Cie (Centro di identificazione ed espulsione) di Isola Capo Rizzuto nell'ottobre 2012. Il Tribunale di Crotone ha deciso che il tunisino, l'algerino e il marocchino siano assolti «per legittima difesa»: difendevano il diritto alla dignità e alla libertà.

MILANO — Quasi una settimana sui tetti, lanciando sulla polizia calcinacci e rubinetti, grate e suppellettili: i tre cittadini stranieri irregolarmente soggiornanti in Italia, che dal 9 al 15 ottobre 2012 diedero vita a una rivolta nel «Centro di identificazione ed espulsione» di Isola Capo Rizzuto dove erano amministrativamente trattenuti in attesa di allontanamento, «sono stati costretti a commettere» i reati di danneggiamento e di resistenza a pubblico ufficiale «dalla necessità di difendere i loro diritti (alla dignità umana e alla libertà personale) contro il pericolo attuale di un'offesa ingiusta». E «siccome la loro difesa è stata proporzionata all'offesa», vanno non condannati a 1 anno e 8 mesi di carcere, come chiedeva il pm Francesco Carluccio, ma assolti per «legittima difesa». È questa la motivazione con la quale il Tribunale di Crotone il 12 dicembre scorso ha assolto un tunisino, un algerino e un marocchino difesi dagli avvocati Natale De Meco, Eugenio Naccarato e Giuseppe Malena.
Il giudice Edoardo D'Ambrosio muove dal quadro normativo europeo e basa il suo ragionamento sul fatto che i provvedimenti di trattenimento nel Cie emessi dalla questura di Reggio Calabria fossero «privi di motivazione, e dunque illegittimi alla luce dell'articolo 15 della direttiva n. 115 del 2008, così come interpretato dalla Corte di Giustizia europea», perché «omettevano del tutto l'indicazione delle ragioni specifiche in forza delle quali non era stato possibile adottare una misura coercitiva meno afflittiva del trattenimento presso il Cie».
Nel richiamare poi due sentenze del 2009 della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo che hanno condannato Grecia e Belgio per le pessime condizioni di loro centri di trattenimento, il giudice rimarca nel caso calabrese i «materassi luridi, privi di lenzuola e con coperte altrettanto sporche, lavabi e “bagni alla turca” luridi, asciugamani sporchi, pasti in quantità insufficienti e consumati senza sedie né tavoli» (adesso c'è la mensa). E trae la convinzione che «le strutture del Centro sono al limite della decenza», usando il termine «nell'etimologia di convenienti alla loro destinazione: che è quella di accogliere essere umani. E, si badi, esseri umani in quanto tali, e non in quanto stranieri irregolarmente soggiornanti sul territorio nazionale. Lo standard qualitativo delle condizioni di alloggio non deve essere rapportato a chi magari è abituato a condizioni abitative precarie, ma al cittadino medio, senza distinzione di condizione o di razza».
L'asserita illiceità del trattenimento e «le condizioni lesive della dignità umana» sono «le offese ingiuste» contro le quali gli imputati hanno dunque reagito per «legittima difesa», di cui il giudice ravvisa i tre requisiti. C'era l'«attualità del pericolo», perché il trattenimento nel Centro «restringeva la loro libertà e le condizioni ledevano la loro dignità umana». C'era l'«inevitabilità del pericolo», perché, «quando l'offensore è incarnato da un apparato dello Stato di diritto, gli imputati non possono essere considerati alla stregua di chi affronta una situazione di pericolo prevista ed accettata, dovendosi sempre attendere da uno Stato di diritto non il rischio di una violazione dei propri diritti, ma appunto il rispetto delle regole, e tanto più dei diritti fondamentali del cittadino». E per il giudice c'è stata «proporzionalità tra difesa del diritto ed offesa arrecata», perché «il confronto tra i beni giuridici in conflitto è pacificamente a favore dei beni difesi (dignità umana e libertà personale), rispetto a quelli, offesi, del prestigio, efficienza e patrimonio materiale della pubblica amministrazione».

Repubblica 8.1.13
Bersani: vincerò e sarò premier
di Giovanna Casadio


ROMA — Pierluigi Bersani è convinto: il Pd vincerà le elezioni e lui sarà premier nella futura legislatura. Il segretario del Partito democratico torna a criticare la candidatura di Monti: non è una buona notizia per il Paese. Accordo fatto tra Pdl e Lega per le elezioni nazionali, ma la base del Carroccio protesta: basta con il Cavaliere. Lite tra Maroni e il patron di Arcore sull’ipotesi di Tremonti candidato premier. Nella coalizione guidata da Monti c’è ancora un braccio di ferro per la composizione delle liste.
«Monti dice “o premier o niente”? Io ho meno esigenze... ho fatto di tutto e posso mettermi al servizio di tutto per il bene del paese». Bersani non risparmia stoccate a Monti e ai centristi, alla lista montiana («Legittima, ma non è una buona notizia per l’Italia e poi è sbagliato mettere il proprio nome sul simbolo»), a Casini e a quella corrente di pensiero che sostiene «debba governare chi non prende voti». La democrazia per la verità funziona in un altro modo: «Governa chi prende più voti», e comunque il Pd - prevede il segretario in tv, su La7 a Otto e mezzo - avrà la maggioranza sia alla Camera che al Senato, e continuerà a rivolgersi a altre forze
«fuori dall’alleanza del centrosinistra ». A quei moderati cioè, che fanno oggi fronte con il Professore. Del resto Monti è «un compe-titore, mentre Berlusconi è l’avversario ». Un po’ di chiarezza dovrebbero però farla i montian-centristi, ad esempio «le formazioni che fanno capo a Monti, dove si siedono in Europa, accanto a Berlusconi e Orban?».
Bersani è pronto alla sfida tv con Monti e con Berlusconi: «Li faccio volentieri i confronti, si sa che mi piacciono». Comunque, queste sono ore in cui si preparano le liste, si soppesano le candidature, e anche le parole. Quelle di Vendola sui ricchi da mandare al diavolo non sono il massimo: «Ora non impicchiamolo a una battuta...ma i super ricchi stiano qui e paghino le tasse». Tasse che adesso Monti vuole ridurre mentre, ricorda il leader democratico, fino a venti giorni fa «era impossibile tutto». Nella sede dei Democratici è la giornata più lunga; c’è la stretta finale sulle liste che stamani saranno vagliate dal “comitatone” elettorale e poi in serata avranno il via libera della Direzione nazionale. Liste per «3/4 di eletti con le primarie, tantissimi giovani, la più alta percentuale europea di donne e dove non ci saranno impresentabili»: garantisce
il segretario. Dove ci sarà anche un’attenzione all’area cattolica. Ci sarà più di un nome di area cattolica: annuncia. Accordi non ancora chiusi, ma si parla dello storico Alberto Melloni e del sociologo Mauro Magatti. Il Pd mette a segno anche due colpi che vanno nella direzione di rafforzare il fronte anti montiano, togliendo carte ai centristi. Quindi entrano in lista l’economista Giampaolo Galli, ex direttore di Confindustria, docente di finanza internazionale alla Luiss, un bocconiano, un liberal che critica Monti ; e il numero due della Cisl, Giorgio Santini, molto corteggiato dai centristi (con il quale Fioroni ha fatto da ufficiale di collegamento), e che sarà candidato al Senato nelle file democratiche in Veneto, subito dopo la Puppato. Il puzzle-candidature non è facile da comporre. Oltre a Giorgio Tonini e a Marco Minniti, capilista rispettivamente in Trentino e in Calabria al Senato, entrano i veltroniani Verini, Martella e Causi. Fuori sono Ceccanti, Maran, Vassallo, dati in uscita verso Monti. Renzi ottiene molto: per lui tratta a Roma Luca Lotti. Il “rottamatore” piazza capolista in Piemonte 2, Mino Taricco, votatissimo alle primarie. Nell’elenco dei 17 renziani c’è Yoram Gutgeld, uno degli uomini di punta del suo pool durante la campagna per la premiership. Polemiche sui ripescaggi. Scoppia una bufera sulla candidatura in testa di lista di Ignazio Marino (capolista in Piemonte) nel Lazio. Battaglie dell’ultimo minuto, con lo scoglio-Sicilia da superare; le candidature friulane difficili da comporre; il “caso socialisti” in via di soluzione e quindi senza più liste autonome a indebolire il Pd al Senato.

L’Huffington Post 8.1.13
Elezioni 2013, sondaggio Ipsos-Il Sole 24 Ore

Lombardia e Campania decisive per la vittoria del Centrosinistra al Senato
qui

Il Sole 24 Ore 8.1.13
Lombardia e Campania, duello per il Senato
di Roberto D'Alimonte

qui

Giampaolo Galli, direttore generale dal 2009 al 2012 su indicazione di Emma Marcegaglia: da Confindustria alla lista del Pd

La Stampa 8.1.13
Pd a caccia di facce e idee riformiste
di Federico Geremicca


Giampaolo Galli, direttore generale di Confindustria fino a sei mesi fa; Giorgio Santini, numero due della Cisl di Raffaele Bonanni; Luigi Taranto, segretario generale di Confcommercio; Carlo Dell’Aringa, economista, una vita tra le cattedre dell’Università Cattolica. Sono alcuni dei «candidati illustri» alle elezioni del prossimo febbraio: ma saranno candidati nelle liste di Pier Luigi Bersani, non in quelle di Mario Monti... Può apparire paradossale, naturalmente, fare l’elenco di queste candidature proprio nel giorno in cui dentro il Pd si alzano voci in difesa della ricandidatura di esponenti «liberal» - da Ichino a Morando, da Ceccanti a Ranieri a Tiziano Treu - fuori (per un motivo o per un altro) dalle liste elettorali. E invece di paradossale c’è davvero poco, se solo si pensa al tipo di campagna elettorale che Bersani immagina di aver di fronte ed alla provenienza di un bel pezzo dell’attuale gruppo dirigente del Pd (e cioè, il Partito Comunista Italiano).
Infatti, non poche delle scelte che il leader dei democratici va annunciando in queste ore, ricordano da vicino la politica dei cosiddetti «indipendenti di sinistra» candidati ed eletti, a cavallo tra gli Anni 70, 80 e oltre, nelle liste del Pci. Da Raniero La Valle a Stefano Rodotà, fino a fino a Luigi Spaventa e Guido Rossi, si è sempre trattato di competenze e storie ritenute adatte ad «aprire» il partito a settori della società all’epoca lontani, se non addirittura ostili. Ma mentre vent’anni fa il punto era testimoniare soprattutto dell’«affidabilità democratica» del Pci (attraverso candidature che accreditassero il partito verso l’allora cosiddetta «borghesia illuminata»), oggi la questione è tutt’altra.
Oggi, infatti, la sfida più difficile è con Mario Monti. Anzi, meglio: col «riformismo montiano» e il grande appeal esercitato dal premier verso cancellerie europee e settori importanti del mondo della finanza. Ciò che al Pd è oggi richiesto, insomma (dando per scontata la sua «affidabilità democratica»...) sono garanzie sul terreno delle politiche economiche da seguire, degli impegni europei da rispettare e delle iniziative sul piano della crescita compatibili col risanamento del bilancio. Nelle intenzioni di Bersani, candidature come quelle elencate in avvio dovrebbero costituire la prova che, anche su questo terreno, il Pd è ormai del tutto affidabile: come sono lì a testimoniare - appunto - nomi quali quello dell’ex direttore di Confindustria o di autorevoli economisti di estrazione certo non marxista...
Non è paradossale, insomma, che mentre settori del Pd lamentano (più o meno in buona fede) la liquidazione dell’anima «liberal» del partito, il partito stesso offra un seggio in Parlamento a personalità - se così si può dire ancor più liberal di quelle escluse dalle liste. Il paradosso (la contraddizione) del Pd non è dunque qui, quanto piuttosto - nella scelta originaria dell’alleanza con Nichi Vendola: e non a caso, ancora ieri, è verso questo «patto» che osservatori e leader di altri partiti hanno indirizzato i loro strali polemici.
D’altra parte, il leader di Sel - che ha ovviamente un’area elettorale da presidiare - non lascia passare giorno senza offrire ai suoi avversari politici un motivo di critica e stupore, più o meno genuini. «I super-ricchi devono andare al diavolo», ha affermato ieri (parlando della vicenda Depardieu-Putin): con un lessico ed una predisposizione d’intenti che certo non sarà stata particolarmente apprezzata nemmeno dagli ultimi «candidati illustri» scelti da Bersani.
E’ facile immaginare, allora, che proprio la «coabitazione impossibile» tra Bersani e Vendola (anzi: tra le loro politiche) sarà il punto d’attacco, in campagna elettorale, alla costruenda coalizione di centrosinistra. E’ una contraddizione che Monti ha colto subito invitando Bersani pena, appunto, il non essere credibile - a «tagliare le ali» e mettere il silenziatore ai progetti «non riformisti» cavalcati dalla Cgil, dalla Fiom o da Stefano Fassina (responsabile economico Pd). La risposta di Bersani è stata doppia: da una parte ha fatto sapere che nessuno sarà silenziato, dall’altra ha messo in lista personalità che potrebbero tranquillamente essere in lista con Mario Monti. Una doppia linea se si vuole «strabica», assai rischiosa e forse non facilissima da gestire. Bersani naturalmente lo sa. Ma è proprio così che sembra aver deciso di affrontare una campagna elettorale che tutti o quasi - comunque continuano a dare già per quasi vinta...

il Fatto 8.1.13
Ora anche Bersani scopre gli impresentabili del Pd
“Esamineremo caso per caso”
di Wanda Marra


“La Commissione di Garanzia li esaminerà uno a uno”, promette il segretario in tv: “Abbiamo altri 10 giorni di tempo”. Intanto apre a Monti sul programma e candida l’ex direttore di Confindustria, proprio mentre l’alleato Vendola spedisce “i ricconi all’inferno”

Abbiamo un codice etico ed esiste una legge sull’incandidabilità: esaminemo caso per caso”. Dopo quattro giorni di silenzio Pier Luigi Bersani ieri sera ad Otto e mezzo così risponde a una domanda di Lilli Gruber, che gli pone la questione sollevata dal “Fatto quotidiano”. Cosa intende fare il Pd con gli “impresentabili”, imputati o coinvolti in vario modo in inchieste giudiziarie, che hanno vinto le primarie? Bersani chiarisce che tanto per cominciare si chiederà a ogni candidato di sottoscrivere un auto certificazione in cui ciascuno dica che la sua presentazione alle elezioni è conforme alla legge dello Stato e a quella del Pd. Dopodiché starà alla Commissione di garanzia, presieduta da Luigi Berlinguer (che si è già riunita ieri), esaminare i casi dubbi. Se anche la dead line per votare le candidature è la direzione del partito di oggi pomeriggio, il segretario ha chiarito che la Commissione avrà ancora qualche giorno, fino alla presentazione ufficiale delle liste, per valutare. Dunque, “non ci saranno impresentabili”, ha detto Bersani. Resta da vedere come andrà a finire: molti casi compatibili con la legge sono quanto meno inopportuni a livello politico ed etico. Bisognerà capire fino a che punto i Democratici avranno il coraggio di alzare l’asticella.
Il segretario del Pd ieri mentre andava duramente all’attacco di Monti (la sua lista “non è un bene per l’Italia) ” per l’ennesima volta ha però ribadito di essere disponibile a un accordo di programma dopo le elezioni tra progressisti e moderati. Perché i suoi avversari sono Lega e Berlusconi. “Certo parlerò con Monti”. Si sa come la pensa: il premier lo fa chi vince le elezioni. Anche se ieri se n’è uscito con una prova di disponibilità: “Monti premier o niente? Io sono meno esigente”.
Oggi intanto dovrebbe trovare una quadra la composizione delle liste. Ieri, il Pd ha tirato fuori la “sorpresa” quotidiana: Giampaolo Galli, ex Dg di Confindustria, vicino alla Marcegaglia, e fino a qualche giorno fa in forze a Fermare il Declino, oltre che in lizza per un posto nella lista Monti. Un ultraliberal che alla fine ha scelto di candidarsi con il Pd, “partito solidamente ancorato all’Europa”. Lo stesso che nello scorso marzo sull’articolo 18 alla Cgil che chiedeva di ripristinare il reintegro nel posto di lavoro, rispondeva: “Non va bene”, sarebbe “un sostanziale ritorno allo status quo”. In disaccordo evidente anche con molta parte del Pd e col responsabile Economia, Fassina. Dopo Dell’Aringa, Galli è un altro che va a riempire la casella lasciata libera da Ichino. Dopo di lui “le figurine di Bersani”, come qualcuno comincia a chiamarle, si sono arricchite anche di Giorgio Santini, il numero due della Cisl.
Intanto le trattative sulla composizione delle liste sono frenetiche. Ieri notte al Nazzareno sono andati in processione i segretari regionali, per evitare che i “paracadutati” a livello nazionale sottraggano posti a chi ha vinto le primarie.
FUORI dal listino rimangono tutti i cosiddetti “montiani” del Pd, da Ceccanti a Vassallo a Ranieri, pronti a correre con il Professore. I 17 nomi di Renzi dovrebbero essere arrivati a una quadra: dentro i fiorentini Simona Bonafè, Francesco Bonifazi, Luca Lotti, Laura Cantini, Maria Elena Boschi, il sindaco di Corciano, Nadia Ginetti e il consigliere di Carbonia, Alessandra Tresalli; Ivan Scalfarotto e Cristiana Alicata (attivista per i diritti degli omosessuali) ; l’ex responsabile delle feste democratiche, Paganelli, e poi i rutelliani (in nome evidentemente della provenienza stessa del sindaco di Firenze), Michele Anzaldi, Realacci, Gentiloni. Dentro anche il costituzionalista Francesco Clementi. E nelle ultime ore entrano Roberto Cociancich, commissario internazionale Federazione italiana scout e Ernesto Carbone, pro-diano. Resta fuori Reggi, la testa di sfondamento delle primarie per la leadership, (quello che diede degli “scagnozzi” agli uomini di Bersani). Su di lui c’è stato un veto vero e proprio. Del cerchio magico del segretario dentro Stumpo e Migliavacca e Zoggia, Giuntella, Speranza e Moretti. In bilico Di Traglia, Seghetti e Geloni. Dentro probabilmente anche il direttore dell’Unità, Sardo. E Gotor.

il Fatto 8.1.13
Lettera al segretario: “Non presentare la Brembilla”


La candidatura al Parlamento dell'ex sindaco di Cesano Boscone, ex assessore provinciale e attuale consigliera provinciale, Bruna Brembilla, nelle file del Pd lombardo, sarebbe “compromettente per la credibilità e l'onorabilità del partito”. A scriverlo, in una lettera indirizzata al segretario Bersani, sono il presidente del comitato di esperti antimafia del Comune di Milano, Nando dalla Chiesa, l’assessore comunale al Welfare, Pierfrancesco Majorino, e il presidente della Commissione consiliare antimafia David Gentili. Nel testo, i tre ricordano al segretario Pd come “Bruna Brembilla presenta infatti un profilo particolarmente controindicato: quello di avere, secondo intercettazioni effettuate dai carabinieri, trattato voti e appoggi elettorali con esponenti dei clan calabresi nell’hinterland sud milanese, area purtroppo infestata da forti interessi e gruppi di 'ndrangheta”. Perciò, proseguono, “sarebbe un messaggio assai grave per la vita pubblica candidare chi ha tenuto condotte come quella indicata, anche se (come in questo caso) non penalmente sanzionate”. Non sarebbe infatti “comprensibile perchè al nord il partito candidi alcune figure che si sono distinte per le loro denunce e la quotidiana battaglia contro il potere mafioso, dovendo anche ricorrere discretamente alla protezione dei carabinieri, e contemporaneamente candidi chi dagli stessi carabinieri è stato sorpreso mentre chiedeva e otteneva voti da persone strettamente legate a esponenti di rilievo della 'ndrangheta”, scrivono. “Si tratta a nostro avviso di due modelli di politica incompatibili”.

Repubblica 8.1.13
Il diritto alla politica
di Adriano Prosperi


Posizionarsi, dice Bersani: è una parola. Ma, come accade con le parole nel loro rapporto complicato e difficile con le cose, questa volta la parola fa intravedere il nocciolo duro di una realtà nascosta che tutti ci riguarda. La questione è dove stia la politica e dove stiamo noi rispetto a lei. Lo spazio della politica si è allontanato da quello dove donne e uomini vivono la loro vita fino ad apparire lontano ed estraneo. La politica è stata a lungo un luogo basso dove c’era un protagonista che decideva di scendervi a sistemare le cose, in nome e per conto di tutti. Molti ci hanno creduto e si sono messi a guardare lo spettacolo alle sue televisioni. Oggi ci dicono che è un luogo alto, dove sale chi è chiamato per investitura (di qualcuno che evidentemente sta ancora più in alto). Alto o basso che sia, quel luogo resta fuori dalla nostra veduta e ci chiediamo dove sia finito quello spazio civile dove su di uno stesso piano, quello orizzontale della vita quotidiana, i cittadini tutti potevano incontrare la politica e farvi la loro parte.
Di fatto, man mano che si avvicina l’appuntamento delle elezioni cresce l’impressione di un continuo e progressivo divaricarsi della distanza tra le parole e le cose. È come se le cose nuove fossero abbigliate di vestimenti vecchi, tanto che ci sembrano familiari e non ci accorgiamo della loro novità. Ora, è vero che nel linguaggio corrente affiora la coscienza del mutamento avvenuto e si parla abitualmente di seconda e di terza repubblica. Ma è un singolare vizio italiano quello di mascherare il nuovo sotto l’abito del vecchio: quando il generale Charles De Gaulle volle
rafforzare i poteri del presidente della repubblica francese propose un referendum che ottenne un largo consenso elettorale e da cui nacque una diversa costituzione. Da noi il cambiamento è avvenuto in forme mascherate, sotterranee, attraverso dissimulazioni, furberie e vere e proprie falsificazioni della realtà, senza mai un mutamento delle forme istituzionali e delle regole del gioco.
Fare degli esempi è molto facile: parliamo ad esempio dei partiti, quelli ai quali la Costituzione riconosce il compito di garantire ai cittadini il diritto di «concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale» (art.49). Chi ha una certa età non può dimenticare l’appassionata partecipazione che a partire dal’48 ha portato grandi masse a fare uso effettivo di quel diritto sulla base del programma del partito e caricando il proprio voto di un fortissimo investimento di volontà di cambiamento. Oggi il confronto politico si svolge per lo più al di fuori dei partiti e più o meno esplicitamente contro di essi. Anche laddove resiste la forma partito o ne sussistono le vestigia, quello che conta e a cui si affida l’efficacia del richiamo elettorale è il leader: il suo nome, la sua storia personale, o almeno la sua faccia, i suoi tic individuali. È una conseguenza del ventennio berlusconiano.
Oggi ci prepariamo a un ritorno all’esercizio della sovranità popolare dopo una parentesi di stato d’eccezione. Ma nella realtà gli elettori si trovano davanti a una serie di proposte che hanno il nome e il volto di uomini. Ai due estremi della gamma troviamo Grillo e Monti. Da un lato un leader che disprezza e rifiuta le regole del confronto politico, si dichiara anti-sistema e domina da padrone assoluto persone e cose del movimento che a lui si ispira; dall’altra un leader che si propone con toni e argomenti rispettosi e bene educati, fa leva sulla persuasione razionale, presenta un programma molto ampio ed elaborato e si offre come un servitore del Paese. Ma ambedue hanno in comune il fatto di tirare le fila di un movimento restandone al di sopra e al di fuori.
Il senatore a vita «sale» in una sfera politica dalla quale potrà contemplare le miserie della lotta degli altri contendenti per conquistare fiducia e consenso. L’altezza è la sua collocazione, anche secondo «altissime» opinioni. «Alto e nobile» il suo senso della politica, anzi «il più alto e più nobile» secondo il commento dell’Osservatore Romano: per il quale Monti è destinato a intercettare una «domanda di politica alta». È lui, per il Vaticano, «l’uomo adatto a traghettare l’Italia»: vizio antico quello di coprire i propri interessi coi decreti della Provvidenza. Ma non è certo il caso di dare lezioni di morale e di religione a chi lo fa per mestiere da millenni. Non tocca a noi insegnare alla Chiesa il suo mestiere: ci tocca invece chiederci perché i nostri governanti abbiano dimenticato la Costituzione (che recita “Lo Stato e la Chiesa sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani”) e facciano un uso scorretto del proprio ufficio danneggiando gli interessi dello Stato, cioè di tutti i cittadini non solo con iniquità fiscali evidenti (vedi lo scandalo Imu) ma anche e soprattutto piegandosi a certe ossessioni ecclesiastiche in materia di diritti individuali, come quelli di sposarsi, procreare e decidere sulle cure che ci riguardano senza subire leggi costrittive dettate dal clero. Scorrere l’agenda Monti cercando un qualche cenno a queste materie sarebbe fatica vana. Eppure chi vorrà governare dovrà pur dire ai cittadini che intenzioni ha in materia di diritti.
Ma, per usare il centratissimo titolo del bel libro recente di Stefano Rodotà, abbiamo ancora il diritto di avere dei diritti? E qui si tocca il punto ultimo ed estremo dove verificare quale distanza il tempo e la malizia umana abbiano interposto tra le parole e le cose. In questo Paese la stragrande maggioranza della popolazione per secoli non ha avuto diritti ma solo doveri, quelli biblici di Adamo ed Eva: lavorare per gli uomini, partorire nel dolore per le donne. I diritti alla vita, alla libertà, al perseguimento della felicità che la Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti aveva definito inalienabili non sfiorarono le masse contadine dei sudditi del Regno d’Italia più di quanto avessero sfiorato le tribù dei nativi americani. È stato solo col secondo dopoguerra che è nata un’esperienza dei diritti per effetto di una liberazione che fu politica e divenne rapidamente sociale – liberazione dalla stretta del bisogno e della mancanza di lavoro, possibilità di partecipare al grande e felice banchetto dei consumi e di presentarsi al seggio elettorale sentendosi finalmente soggetti e costruttori del proprio destino.
Oggi tutto questo appare lontanissimo: e la radice primaria è la scomparsa del lavoro come diritto oltre che come realtà. Il governo Monti si è assunto il compito di adeguare le parole alle cose, con una ratifica formale della scomparsa che ha accelerato i processi del degrado sociale. Di fatto quello che fu il caposaldo della Costituzione repubblicana e dette una risonanza straordinaria alla formulazione fanfaniana dell’articolo 1 è oggi una vuota parola. Al di là delle caute ed elusive formulazioni del documento Monti su questo punto, c’è l’avvenuta trasformazione del lavoro come diritto in lavoro come benefica elargizione di capitani d’industria – purché non ci sia più la minaccia di uno Statuto dei lavoratori e di un sindacato indocile. E quanto ai giovani, oggi conosciamo una devastante pratica dell’abbandono di chi studia e fa ricerca davanti all’alternativa tra l’emigrazione e le follie burocratiche di macchine concorsuali senza fine e senza posti. L’esito finale di tutto questo è una estromissione collettiva dalla politica come campo aperto di cui si fa parte normalmente, senza dover attendere la chiamata dall’alto. Contro l’alto e il basso bisognerà pur restaurare un approccio orizzontale, laico e concreto alla lotta politica: a meno di non voler tornare all’Italia dei secoli antichi, quando i contadini veneti si sentivano stretti fra l’«Altissimo di sopra che manda la tempesta» e «l’Altissimo di sotto che prende quel che resta». Con la sconsolata conclusione: «E noi tra ‘sti doi Altissimi restemo poverissimi ».

Repubblica 8.1.13
Il baratro fiscale dell'agenda Monti
di Luciano Gallino


Non ci sono solo gli Stati Uniti. Anche l’Italia ha il suo baratro fiscale, come quello Usa di natura politica prima che economica. L’agenda Monti vi dedica ampio spazio, sebbene usi altri termini. In realtà il baratro l’ha aperto il Parlamento quando ha ratificato mesi fa – su proposta del governo Monti – il Trattato sulla stabilità, sul coordinamento ecc. imposto da Consiglio europeo, Commissione e Bce. L’art. 4 prescrive: “Quando il rapporto tra il debito pubblico e il prodotto interno lordo di una parte contraente supera il valore.. del 60%... tale parte contraente opera una riduzione a un ritmo medio di un ventesimo all’anno”. Il Trattato è già in vigore, ma in base a un precedente regolamento del Consiglio, l’inizio della riduzione del debito verso la meta del 60 per cento dovrebbe aver luogo solo dal 2015.
L’agenda Monti riprende quasi alla lettera tale prescrizione (punto 2, comma c). Si tratta a ben guardare del tema più importante sia della campagna elettorale che dell’azione del prossimo governo, quale esso sia. Il motivo dovrebbe esser chiaro. Ridurre davvero il nostro debito pubblico nella misura e nei tempi richiesti dal Trattato in questione è un’operazione che così come si presenta oggi ha soltanto due sbocchi: una generazione o due di miseria per l’intero Paese; aspri conflitti sociali; discesa definitiva della nostra economia in serie D. Oppure la constatazione che il debito ha raggiunto un livello tale da essere semplicemente impagabile, per la ragione che esso deriva sin dagli anni ‘60 non da un eccesso di spesa, bensì dalla accumulazione di interessi troppo alti. Quindi si dovrebbero trovare altre strade rispetto alle politiche attuate da Monti e riproposte dalla sua agenda.
Al fine di ripagare un debito a lunga scadenza in rate annuali è infatti essenziale una condizione: che il debitore, al netto di quanto spende per il proprio sostentamento, abbia ogni anno delle entrate, per tutta la durata prevista, che siano almeno pari in media a quella di ciascuna rata del debito. Nel caso del debito pubblico italiano tale condizione base non esiste. Il Pil supera i 1650 miliardi, per cui il 60 per cento di esso ne vale circa 1000. Mentre il debito accumulato ha superato i 2000. Al fine di farlo scendere al 60 per cento del Pil come prescrive il Trattato, si dovrebbe quindi ridurre il debito di 50 miliardi l’anno per un ventennio. La cifra è di per sé paurosa, tale da immiserire tre quarti della popolazione. Ma il problema non è solo questo. È che l’interesse sul debito, al tasso medio del 4 per cento, comporta una spesa di 80 miliardi l’anno, la quale si somma ogni anno al debito pregresso. Ne segue che quest’ultimo non smette di crescere. Ora, se riduco il debito di 50 miliardi, avrò sì risparmiato 2 miliardi di interessi; però sui restanti 1950 miliardi dovrò pur sempre pagarne 78. Risultato: il debito è salito a 2028 miliardi (2000-50+78). L’anno dopo taglio il debito di altri 50 miliardi e gli interessi di 2. Però devo pagarne 76, per cui il debito risulterà salito a 2054. Chi vuole può continuare. Magari inserendo nel calcoletto un dettaglio: l’art. 4 del Trattato prescinde del fatto che il debito di un paese potrebbe col tempo aumentare di molto, per cui l’entità del ventesimo di rientro andrebbe alle stelle. L’Italia, per dire, potrebbe ritrovarsi a fine 2015 con un Pil di poco superiore all’attuale, ma con un debito che a causa dell’accumulo degli interessi ha raggiunto i 2200 miliardi. Così i miliardi annui da tagliare passerebbero da 50 a 60.
Le obiezioni da opporre a quanto rilevato sopra le sappiamo. Il raggiungimento di un discreto avanzo primario ha già permesso di ridurre la spesa degli interessi di 5 miliardi: lo ricorda anche l’agenda Monti. La riduzione del differenziale di rendimento a confronto dei titoli tedeschi permetterà altri risparmi. Dalla dismissione di grosse quote del patrimonio pubblico arriveranno fior di miliardi. Le spese dello Stato possono venire ridotte di parecchi altri punti; qualcuno parla addirittura di 5 punti per più anni, alla luce di una profonda teoria politica che si compendia col dire “bisogna affamare la bestia” (cioè lo Stato, cioè quasi tutti noi). Per finire con l’immancabile “a fine 2013 arriverà la crescita e il Pil riprenderà a salire”.
Ciascuna delle suddette obiezioni o è fondata sull’acqua, come la previsione di ricavare alla svelta decine di miliardi dalla dismissione di beni pubblici – vedi la sorte delle cartolarizzazioni di Tremonti – oppure sull’accettazione per i prossimi venti o trent’anni di politiche lacrime e sangue, ancora peggiori di quelle che hanno afflitto gli ultimi anni all’insegna dell’austerità.
Naturalmente il problema non riguarda soltanto l’eventuale ritorno al governo di Monti con la sua agenda. Riguarda più ancora i partiti come Pd e Sel, che le elezioni potrebbero pure vincerle, ma che hanno dichiarato di voler rispettare nell’insieme l’agenda in parola. Sono essi per primi a dover scegliere la strada per uscire dalle strettoie attuali. Da un lato si profila una grave regressione sociale e politica, oltre che economica, indotta dalla ricerca coattiva del mezzo per ripagare un debito ormai impagabile. Dall’altro bisogna riconoscere questa sgradevole realtà, e aprire con decisione una trattativa su scala europea per trovare modi meno iniqui socialmente per uscire dall’impasse del debito pubblico, il che non riguarda ovviamente solo l’Italia. Un riconoscimento al quale potrebbe seguire la ricerca dei modi per superare una contraddizione in verità non più tollerabile: una Bce che presta migliaia di miliardi alle banche (lo ha fatto, per citare un solo caso, tra novembre 2011 e febbraio 2012) all’1 per cento, ma non può fare altrettanto con gli stati. Per cui questi vendono obbligazioni alle banche, sulle quali esse percepiscono interessi tripli o quadrupli. È vero, l’art. 123 del Trattato Ue vieta alla Bce di prestare denaro direttamente agli Stati. Ma a parte il fatto che prima o poi tale articolo dovrà essere modificato, posto che esso fa della Bce l’unica banca centrale al mondo che non può svolgere le funzioni proprie di una banca centrale, si dovrebbe d’urgenza porre rimedio a tale inaudita contraddizione. Con il baratro fiscale di mezzo, la riduzione del debito pubblico a meno della metà è inconcepibile. Ma se l’Italia, per dire, potesse prendere in prestito dalla Bce, in forma obbligazionaria o altra, 1000 miliardi al tasso dell’1 per cento, come han fatto le banche europee nel caso precitato, allora potrebbe diventarlo. Pensiamoci. E magari proviamo a spiegare ai cittadini come si pone realmente per il prossimo futuro la questione del debito pubblico.

Repubblica 8.1.13
I bancomat del Vaticano bloccati dalla procura
Inchiesta anti riciclaggio: furono i pm a sollecitare l’intervento di Bankitalia
di Maria Elena Vincenzi


ROMA — È stata la procura di Roma a disporre l’ispezione di Bankitalia che ha portato allo stop ai pagamenti Pos in Vaticano. Per palazzo Koch, Deutsche Bank Italia non può fornire quelle macchinette perché la Santa Sede non è in regola con la normativa anti-riciclaggio. Il no di via Nazionale è arrivato il 6 dicembre e la banca ha disposto il ritiro di tutti gli strumenti per i pagamenti elettronici. Per Bankitalia, che ha fatto gli accertamenti su mandato del procuratore aggiunto Nello Rossi e del pubblico ministero Stefano Rocco Fava, i pos non possono essere autorizzati. Per un motivo semplice: il Vaticano non è in regola con la legge italiana.
Una storia che inizia nel 2010: fu allora che, per la prima volta, l’Unità di Informazione Finanziaria di via Nazionale disse che, per poter utilizzare i pagamenti elettronici, la Santa Sede, stato extracomunitario, doveva rispettare la normativa locale contro il money laundering.
Una bocciatura che, per due anni, è stata blanda e che è sfociata, poi, nel perentorio no degli ultimi giorni. A seguito del quale Deutsche Bank Italia, che è soggetto alla normativa italiana, ha disposto un piano di ritiro dei pos che va avanti da un mese e terminerà il 15 febbraio con il blocco anche dei pagamenti online. È l’ennesimo capitolo di una guerra che vede la Procura e Bankitalia da un lato e lo Ior dal-l’altra, cominciata, anche quella nel 2010, a settembre, con il sequestro di 23 milioni di euro (poi dissequestrati), ritenuti oggetto di una movimentazione sospetta. Per quel filone furono iscritti nel registro degli indagati i vertici dello Ior, l’allora presidente, Ettore Gotti Tedeschi, e il direttore generale, Paolo Cipriani. Gli inquirenti, che sono ancora al lavoro su quell’inchiesta, sono convinti che ci siano alcune attività poco chiare riconducibili all’Istituto per le Opere di Religione. Un fascicolo che, nei mesi, si è arricchito di nuovi episodi in cui, secondo le accuse, la banca Vaticana avrebbe avuto il compito di “ripulire” denaro. Ed è in questo contesto che i magistrati hanno disposto l’ispezione di settembre che ha portato, poi, al ritiro delle macchinette per i pagamenti elettronici.
Una storia banale che nasconde problemi ben più importanti che riguardano la volontà della banca Vaticana di adeguarsi alla normativa italiana contro il riciclaggio. Lo stesso pontefice, dopo il sequestro, aveva auspicato l’adeguamento alla legge italiana, ma i vertici dello Ior sembrano tergiversare. Eppure il “caos pagamento elettronico” ha fatto il giro del mondo: sono tanti i turisti che si sono lamentati di non poter pagare con la carte di credito per entrare ai Musei Vaticani. E tanti i giornali stranieri che hanno riportato la notizia. Le macchinette ritirate dalla Deutsche Bank sono una cinquantina. Musei e monumenti, ma anche molti esercizi commerciali come tabaccherie, benzinai e farmacie.
Diversamente da come avviene in Italia, infatti, dove è il singolo esercente a dover richiedere il pos, il Vaticano stipula un solo contratto collettivo per rifornire tutti gli esercizi. Ecco perché il disagio sta mettendo in difficoltà la Santa Sede: i tempi per firmare un nuovo contratto, magari con un altro provider, potrebbero non essere brevi. Oltretevere, infatti, si stanno valutando le soluzioni e, per farlo, non è escluso che si vada direttamente all’origine del problema per capire quali siano le cause. Proprio per questo non è escluso che ci si muova per avere un incontro con Bankitalia.

Repubblica 8.1.13
Allarme curve xenofobe slogan e striscioni decuplicati in 10 anni
La ricerca: così negli stadi dilaga l’intolleranza
di Paolo Berizzi


MILANO — Dare della scimmia a un giocatore di colore della squadra avversaria, o anche della propria. Umiliarlo vomitandogli addosso dagli spalti un suono onomatopeico: l’ormai famigerato «buuu». Inneggiare alla superiorità della razza bianca, alle camere a gas, all’Etna e al Vesuvio, alla pulizia etnica, alla presunta supremazia di un’area geografica del Paese. Negli stadi italiani, in tutti i campionati di calcio, e a tutte le latitudini, è diventata un’usanza vergognosa. In crescita esponenziale.
Dall’inizio degli anni ‘90 a oggi gli episodi di razzismo e discriminazione durante le partite di calcio di serie A, B e C e serie minori, sono decuplicati. Sì, dieci volte tanto. Un’impennata di inciviltà che dal 2000 al 2010 ha coinvolto 275 tifoserie, la maggior parte delle quali è in mano a gruppi ultrà di estrema destra. E che è già costata ai club calcistici un milione 268 mila euro di multe. Un impasto di deficienza e follia: molto spesso pianificata, in altri casi estemporanea ma non meno odiosa. Aumento dell’immigrazione straniera con conseguente diffusione di xenofobia e intolleranza? Sicuro, ma forse c’è anche altro. L’evoluzione del becerume razzista da stadio è descritta da una ricerca del Centro Studi sicurezza pubblica di Brescia, diretto da Maurizio Marinelli, esperto di tifo e violenza ultrà. L’indagine raccoglie, episodio dopo episodio — catalogando cori e striscioni, ammende e squalifiche — oltre vent’anni di intolleranza incubata e deflagrata allo stadio. Dal razzismo biologico al pregiudizio razziale ai simboli vietati esibiti durante la partita. «Dai dati che abbiamo raccolto emerge uno spaccato allarmante — spiega Marinelli — . Rispetto a quanto avveniva negli stadi alla fine del secolo scorso, il razzismo si è autoalimentato moltiplicandosi per dieci. È vero che è cambiata la struttura e la composizione sociale delle città e che lo stadio è una cartina di tornasole. Ma la deriva xenofoba è diventata, in Italia, una delle piaghe delle manifestazioni sportive. Più degli incidenti, che infatti sono diminuiti. Si parte da molto lontano e si arriva al caso di Busto Arsizio».
Visto oggi, il picco è impressionante. Dal 2000 a oggi negli stadi italiani, in tutte le serie del Campionato di calcio, sono avvenuti 630 episodi di razzismo. Si va dalla saliva «infetta» di Diawara, il senegalese del Torino offeso dal mister Eugenio Fascetti nel febbraio del 2000, ai cori degli ultrà interisti contro Marc Zoro nel 2005; c’è il saluto fascista di Paolo Di Canio nel derby capitolino del 6 gennaio dello stesso anno e le svastiche nella curva del Siena contro il Livorno. E via via una sequenza o poco edificante di «buuu», striscioni vergognosi e pollici versi quando il giocatore acquistato è di colore o di origini semite.
Se si va indietro nel libro bianco del razzismo pallonaro, si scopre che prima le cose andavano meno peggio. Tra il 1989 e il 2000 i cori, le scritte, gli striscioni, gli episodi dichiaratamente discriminatori sono stati “solo” 56. Pessimi, certo. Ma molti di meno del decennio a venire. Indelebili furono i graffiti «Vai nel forno» e «via gli ebrei» con cui gli ultrà neri dell’Udinese accolsero nel 1989 il neo acquisto israeliano Ronnie Rosenthal. Che infatti non fu tesserato. O l’elegante «Hitler: con gli ebrei anche i napoletani», esibito dai supporter interisti a San Siro un anno dopo. Due e otto anni dopo furono gli ultrà laziali a distinguersi: prima con le scritte antisemite contro Aaron Winter, poi, nel derby con la Roma, con «Auschwitz la vostra patria, i forni le vostre case». Il peggio doveva ancora venire, ed è arrivato. Nessuna tifoseria esclusa. Sono 275 le curve che negli ultimi dieci anni si sono macchiate di razzismo. Settantaquattro in seria A, 66 in B, 70 nella prima divisione della Lega Pro (l’ex C1) e 65 in seconda divisione. Tra l’89 e il 2000 erano state 45. Le tifoserie più razziste? Verona, Lazio, Ascoli, Padova, Juventus e Roma. Tutte dichiaratamente di destra. I club, dalla stagione 2000/2001, hanno già sborsato 1 milione e 268mila euro a causa del loro odio verbale. Nella metà dei casi cori e striscioni hanno preso di mira il singolo giocatore. Per il 30% la società e i tifosi avversari. E per il restante 20% le cosiddette “minoranze etniche”. Che fare quando sul campo piovono ululati e cori razzisti? Marinelli è in linea con il ministro Cancellieri: «Bisogna sospendere. Ma bisogna anche stabilire con chiarezza a chi spetta la decisione e in quali casi. La normativa oggi è confusa».

La Stampa 8.1.13
Il nuovo corso. Pechino vuole chiudere i campi di rieducazione
Nei laojiao si finisce per anni senza processo per venire “rieducati”
di Ilaria Maria Sala


Dopo 55 anni la Cina potrebbe far calare il sipario sui famigerati campi di rieducazione. Sparirà - stando a un annuncio diffuso ieri mattina su Weibo, il Twitter cinese, e confermato poi dall’agenzia ufficiale Xinhua – il cosiddetto «laojiao», le colonie dove 250 mila persone, fra oppositori e semplici «disturbatori» della quiete del regime, vengono rimesse in riga attraverso il lavoro.

A rendere pubblica la posizione di Pechino è stato il direttore della Commissione agli Affari Legali e Politici del partito comunista, Meng Jianzhu, che ha affermato che il «laojiao» sarà abolito o modificato in modo sostanziale già nel 2013. Che qualcosa si muovesse si subodorava da quando diversi editoriali apparsi sulla stampa avevano cominciato a criticare il sistema, e una serie di lettere aperte per chiudere l’esperienza del laojiao avevano potuto circolare senza incappare nella censura. I campi di rieducazione tramite il lavoro, o Rtl, godono giustamente di pessima reputazione, e molti in Cina trovano che danneggino inutilmente l’immagine del Paese, come anche molte Ong – che considerano il laojiao una violazione dei diritti umani – non mancano di sottolineare: vi si finisce senza processo, dietro sanzione amministrativa, e vi si può trascorrere fino a quattro anni, rinnovabili a discrezione delle autorità. Un sistema detentivo ingiusto e aperto ad ogni tipo di abuso, copiato dall’ex Unione Sovietica, che prevede che i cittadini non scontino semplicemente una pena, ma vengano anche «riplasmati» nel pensiero, per uscirne come «uomini nuovi» fedeli al Partito. Le file dei campi di lavoro negli ultimi anni sono state ingrossate in particolare da centinaia di adepti del gruppo spirituale Falun Gong, dichiarato fuori legge dalle autorità cinesi. Numerosi, infine, gli scandali che hanno ricondotto alcune esportazioni cinesi particolarmente a buon mercato al lavoro coatto dei prigionieri.
Nicholas Bequelin, ricercatore sulla Cina per Human Rights Watch, ha commentato la notizia: «È un messaggio molto chiaro da parte di Xi Jinping (il presidente cinese della nuova amministrazione che prenderà pieni poteri a marzo), che mostra che il Dipartimento di sicurezza pubblica sta perdendo parte dei suoi poteri. Ma ora la comunità internazionale deve spingere per un’abolizione totale, e non lasciare che i campi di lavoro vengano eliminati senza toccare le altre parti marce del sistema detentivo cinese, dalle «prigioni nere» (centri detentivi extralegali), alle sparizioni forzate agli arresti domiciliari irregolari».
Uno dei recenti casi che avevano attirato l’attenzione dei media fu quello di Ren Jianyu, condannato a due anni di rieducazione nel settembre del 2011, dopo che aveva «fatto circolare commenti e notizie negative» sul suo account Weibo nella città di Chongqing. Questo, quando Bo Xilai stava portando avanti una campagna «contro la criminalità» che soffocò anche le limitate proteste di persone come Ren, subito prima di essere silurato a sua volta. Caduto in disgrazia Bo Xilai, Ren ha ottenuto una revisione del suo caso, riguadagnando la libertà dopo un anno.
Un altro caso riguarda la signora Zhao Meifu, arrestata dalla polizia pechinese mentre si stava recando a visitare il figlio, studente nella capitale. Zhao si era in passato unita ai «postulanti», persone che si recano dalle autorità centrali per cercare giustizia per casi di abusi avvenuti dei dirigenti locali. Si ritrovano invece spesso rinchiusi nei campi di rieducazione per «disturbo della quiete», per quanto il sistema dei postulanti sia previsto dalla legge. Il figlio di Zhao, Guo Dajun, ha chiesto che il caso della madre sia rivisto, e la stampa cinese ha ampiamente coperto il suo caso.

«Se il laojiao venisse però rimpiazzato da un nuovo sistema di detenzione amministrativa, sempre nelle mani della polizia, sarebbe una vittoria di Pirro», ha detto Bequelin.
Tra i 250 mila detenuti adepti di Falun Gong e «disturbatori» che criticavano il sistema

La Stampa 8.1.13
Lo scrittore ex detenuto “Non mi fido, resteranno”
«Mi feci quattro anni perché avevo chiesto alla biblioteca una copia del Dottor Zivago»
Kang Zhengguo: troppo utili per eliminare persone scomode
di I. M. S.


Lo scrittore Kang Zhengguo ha fatto 4 anni nei campi. Ha scritto «Esercizi di rieducazione» (Laterza, 2010)

Cosa pensare dell’annuncio fatto ieri in Cina di chiudere i campi di rieducazione tramite il lavoro? Lo abbiamo chiesto allo scrittore Kang Zhengguo, ora in esilio negli Stati Uniti dove insegna cinese a Yale, ed autore del volume «Esercizi di Rieducazione», edito in Italia da Laterza (2010).
Lei ha esperienza diretta dei campi di rieducazione tramite il lavoro. Che ricordo ne ha?
«Ah, i campi di rieducazione. Ci sono stato, sì. Ne ho un ricordo molto preciso. Ci sono entrato per la prima volta il 18 settembre del 1968. Abitavo a Xian, dove studiavo russo, e scrissi una lettera alla Biblioteca di Mosca perché volevo leggere una copia del Dottor Zivago, la Cina lo aveva proibito dicendo che era un testo borghese e revisionista e io volevo farmene un’idea mia. La lettera è stata intercettata, ed entrai al campo agricolo di Mala, nello Shaanxi, dove i detenuti dovevano lavorare la terra, fra le altre cose, praticamente senza attrezzi. Le condizioni erano davvero molto dure, perché i campi di rieducazione riflettono sempre in peggio le condizioni di quanto c’è fuori: durante il Grande Balzo in Avanti, dieci anni prima, la carestia uccise milioni di persone nel Paese, ma nei campi uccise tutti. Durante la Rivoluzione Culturale, molte persone venivano perseguitate per una frase considerata anti-rivoluzionaria, ma nei campi erano perseguitati tutti».
E dunque, come accoglie la notizia della loro chiusura?
«Per essere sincero, quando andai nel campo, nel 1968, si sentiva già parlare del fatto che le autorità volessero eliminarli. Sono uscito nel 1972, e parlavano ancora di eliminarli. Quindi, aspetto prima di festeggiare, voglio vedere che cosa faranno effettivamente. I campi in Cina sono stati creati nel 1957, durante la «Campagna contro gli elementi di destra», imitando quello che stava succedendo in Unione Sovietica. Queste erano persone che ricevevano solo una sentenza politica, non un processo, nulla di previsto dalla legge. Solo un’etichetta: “elemento di destra! ”, e con quella, venivi spedito al “laojiao”. Chi diventava elemento di destra era deciso dal direttore dell’unità di lavoro, e questi fra l’altro aveva anche una quota mensile di elementi di destra da stanare, per cui mandava al “laojiao” tutti quelli che gli stavano antipatici. Litigavi con il tuo capo squadra? Ti ritrovavi ai lavori forzati. Da lì in poi tutto dipendeva dal tuo “atteggiamento”. La pena non ha limiti: il tuo atteggiamento è considerato sbagliato dopo i primi tre anni? Ecco, altri quattro».
Da chi è composta la popolazione dei campi?
«All’epoca in cui c’ero io, eravamo soprattutto “elementi di destra”. Dopo, al 90 per cento si trattava di piccoli criminali, il resto erano prigionieri politici. Dagli Anni Ottanta in poi però finirci è diventato facilissimo, la polizia sbatteva dentro tutti quelli che non voleva vedere in giro, e negli anni Novanta hanno cominciato a riempirli di seguaci del Falun Gong. Ma ci va la gente che non ha santi in Paradiso: gli sconosciuti, quelli che chiedono aiuto al governo centrale contro gli abusi, imbestialendo le autorità locali, chi si oppone agli espropri di case e terreni. Non c’è nessun incentivo a non mettere la gente dentro i campi: senza processo, ti sbarazzi di persone che ti infastidiscono. Ora dicono che smettono di usare queste strutture, non che le aboliscono: stiamo a vedere, ma se è vero, sarebbe già una buona idea».

Corriere 8.1.13
Canton, giornalisti in sciopero «Vogliamo la libertà di parola»
Primo importante test per il nuovo segretario Xi Jinping
di Paolo Salom


PECHINO — Si sono radunati davanti all'edificio che ospita il loro giornale. Hanno scandito slogan e mostrato striscioni che non lasciavano nulla all'immaginazione: «Vogliamo la libertà di stampa, il rispetto della Costituzione e la democrazia». Giornalisti in piazza, a Canton. Per la prima volta, la sfida al potere viene da quei settori che un tempo erano considerati «la voce e la mente» del Partito. E i redattori del Nanfang zhoumo (Southern Weekly) non si sono limitati a proclamare uno sciopero che di per sé non ha precedenti: la loro protesta si è diffusa sui social network con una rapidità che ha preso alla sprovvista i pur solerti censori e gli agenti della polizia informatica.
Trentacinque redattori hanno sottoscritto una petizione online, subito firmata da molti altri, mentre le loro «iniziative di lotta» venivano pubblicizzate su Weibo, il Twitter cinese. Il gioco a rimpiattino con le autorità è scattato immediatamente: da una parte, gli account dei giornalisti ribelli venivano cancellati uno dopo l'altro, mentre ne sorgevano di nuovi e quello «ufficiale» del settimanale annunciava che «la password è stata formalmente passata alle autorità di censura: da questo momento i messaggi di questo account non sono più gestiti dalla redazione».
Mai nella Repubblica Popolare, se escludiamo i drammatici giorni di Tienanmen, la richiesta di democrazia era stata così esplicita da parte dei settori più «vicini» ai problemi che un grande Paese in perenne trasformazione è costretto ad affrontare. Il neosegretario Xi Jinping, salutato come una figura «moderna e aperta», deve ora affrontare la prima vera crisi del suo mandato, una crisi che non ha a che fare con rivendicazioni economiche o con i frequenti soprusi nelle province, dove i contadini sono in lotta perenne con i funzionari a caccia di nuovi terreni edificabili. Questa volta la questione riguarda i diritti primari dei cittadini, quelli che la Costituzione cinese, nero su bianco, garantirebbe di già.
E infatti, lo sciopero dei giornalisti del Southern Weekly, settimanale noto per le sue posizioni «progressiste», da sempre nel mirino dei censori, riguarda proprio la possibilità di pubblicare articoli senza dover rendere conto a una censura che non permette di superare quella che viene considerata una «linea rossa invalicabile»: la legittimità del Partito. Non che il giornale lo abbia detto esplicitamente, ma quando, dopo Capodanno, è stato messo in pagina un editoriale che invitava al «rispetto della Costituzione e alla riforma in senso democratico» del Paese, il capo censore di Canton, Tuo Zhen, non ha esitato, ordinando di sostituire il pezzo già in pagina con un altro che invece esaltava il ruolo del Partito. Mossa che ha generato immediatamente la protesta: i giornalisti hanno scritto una lettera aperta chiedendo «l'immediata rimozione» del responsabile di una «decisione dittatoriale in tempi di grandi trasformazioni e di speranze per un futuro di democrazia».
Curiosamente questo avveniva mentre, più a nord, il sito Internet di Yanhuang Chunqiu (Annali della Cina), un mensile realizzato da ex membri del Partito e da funzionari in pensione, tutti su posizioni di «critica dall'interno», veniva cancellato senza preavviso. La ragione? Un editoriale, simile nei contenuti a quello del Southern Weekly: e cioè la richiesta esplicita rivolta al potere di «rispettare la lettera della Costituzione». Difficile dire se queste proteste avranno un seguito — la stagione delle Primavere — simile a quello già visto nei Paesi arabi. Certo il regime ha le antenne molto sensibili. E Xi Jinping, che finora ha mostrato un basso profilo, per quanto certo nessuna reale apertura (i giornalisti a Canton non sono stati arrestati o affrontati dalla polizia che è rimasta a distanza), dovrà comunque decidere se tenere il timone ben saldo sul passato o provare una svolta che potrebbe cambiare la faccia della Cina.

La Stampa 8.1.13
Un muro sul Golan Israele teme gli jihadisti in arrivo dal caos siriano
Intesa con gli Usa: barriera di 69 km sulle alture
di Maurizio Molinari


Il governo di Israele, d’intesa con l’amministrazione Obama, ha deciso di costruire sulle alture del Golan una barriera difensiva lunga 69 km e alta 4,5 metri al fine di proteggersi dal rischio di infiltrazioni e attacchi da parte di gruppi jihadisti. A darne l’annuncio è stato il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, dando disposizione al ministero della Difesa di realizzare una rete di protezione strutturata in maniera identica a quella creata lungo i 230 chilometri di confine con l’Egitto: una rete metallica sorvegliata da telecamere e altri sistemi di sicurezza di ultima generazione.
Illustrando la decisione, Netanyahu ha detto: «Sappiamo che l’esercito siriano ha abbandonato le posizioni oltre il confine, dove ora si trovano gruppi armati di ribelli». Il riferimento è ad alcuni villaggi drusi da dove la scorsa estate partirono alcuni colpi di mortaio verso il territorio controllato da Israele. Moshe Yaalon, ministro israeliano per gli Affari strategici, afferma che le «bandiere verdi» dei gruppi jihadisti si vedono lì dove una volta si trovavano le postazioni siriane ed è proprio questo lo sviluppo che ha portato Gerusalemme a concordare con Washington la costruzione della barriera.
Il timore è che il Golan possa diventare, all’indomani della caduta del regime di Bashar al Assad, un nuovo fronte di attacchi jihadisti contro Israele, sul modello di quanto avvenuto nel Sinai dopo il rovesciamento di Hosni Mubarak in Egitto. Tale scenario spiega anche il recente incontro fra Netanyahu e il sovrano giordano Abdullah - di cui si è avuta notizia solo a posteriori -, accomunati dalla preoccupazione di una Siria instabile perché può trasformarsi in una piattaforma d’azione per i gruppi jihadisti sunniti con in più l’aggravante della presenza degli arsenali chimici di Assad, accumulati dagli Anni Settanta. Fonti militari israeliane hanno spiegato al Washington Post che Gerusalemme «ha fatto sapere a Damasco che le armi chimiche sono una linea rossa» e non consentirà che possano cadere nelle mani di «Hezbollah o jihadisti», assicurando che «al momento si trovano in luoghi protetti».
Israele ha strappato alla Siria il controllo delle alture del Golan nel giugno 1967, a seguito della guerra dei Sei Giorni, e le ha annesse nel 1981 con un atto non riconosciuto dalla comunità internazionale. Dalla fine del conflitto del Kippur nel 1973, la linea di armistizio è stata stabile e senza maggiori scontri armati, pur in presenza di un perdurante stato di guerra fra i due Paesi. Ripetuti tentativi di siglare un accordo di pace fra Israele e Siria, grazie alla mediazione degli Stati Uniti, sono falliti in ragione dell’importanza strategica dell’altopiano.

Repubblica 8.1.13
Francia, battaglia sulle nozze gay il fronte cattolico si mobilita
Domenica 500mila in piazza. E lo scontro entra nelle scuole
di Giampiero Martinotti


PARIGI — Cinquecentomila persone e forse più: la scommessa è ambiziosa, ma la destra e il mondo cattolico possono vincerla. Domenica, Parigi assisterà a una delle più grandi manifestazioni degli ultimi vent’anni, contro il matrimonio gay e il diritto di adottare bambini accordato alle coppie omosessuali. Uno scontro su un tema di società dietro cui si cela il tentativo moderato di sfruttare l’impopolarità di François Hollande e del suo governo, accusati, non sempre a torto, di dilettantismo.
Promessa elettorale del leader socialista, il disegno di legge sul “matrimonio per tutti”, come viene pudicamente definito, era atteso e scontato. E tutto lasciava pensare che potesse passare senza scosse: una larga maggioranza dei francesi è favorevole e solo l’adozione per le coppie gay mostra un’opinione pubblica spaccata a metà, mentre la sinistra chiede un provvedimento ancor più libertario, cioè l’autorizzazione per le coppie di donne a ricorrere all’inseminazione artificiale. Le cose, tuttavia, non sono andate lisce come tutti s’immaginavano.
Il primo a lanciare una pietra nello stagno, la scorsa estate, è stato monsignor André Vingt-Trois, arcivescovo di Parigi e presidente della Conferenza episcopale transalpina. Spalleggiato dai responsabili delle altre religioni, ha dato il “la” alla mobilitazione del mondo cattolico, che è apparsa subito ben superiore al peso specifico dei credenti nella società francese, secolarizzata e profondamente laica. Grazie a una presenza senza precedenti su Internet, la “cattosfera” è riuscita a risvegliare le sue truppe. E la destra ha sfruttato con abilità il movimento: François Copé, presidente dell’Ump, ha visto nella voglia di protestare della minoranza cattolica lo strumento per ridar fiato a un’opposizione tramortita dalle sconfitte elettorali della primavera. E ha lanciato l’idea di una manifestazione per domenica prossima, a due settimane dall’inizio della discussione parlamentare sul ddl governativo.
La Chiesa, intesa come istituzione, non parteciperà: monsignor André Vingt-Trois ha detto con chiarezza che non sfilerà nella capitale. Ma sarà proprio la mobilitazione del mondo cattolico a ingrossare le fila dei dimostranti. Del resto, le polemiche la riguardano direttamente: una lettera del segretario dell’insegnamento cattolico ai presidi della scuole private (frequentate da due milioni di alunni e al 94 per cento cattoliche) ha suscitato l’ira del ministro della Pubblica istruzione. Secondo lui, quella missiva mette in discussione la neutralità della scuola nel dibattito pubblico; secondo la Chiesa, il ministro attacca direttamente la scuola privata. Entrambi hanno fatto un passo indietro per calmare le acque e oggi Hollande, ricevendo le autorità religiose per i tradizionali auguri di buon anno, tenterà di chiudere la polemica.
Ma se la Chiesa è all’origine della mobilitazione, è la destra a sperare di raccoglierne i frutti politici. Non senza qualche cacofonia: i leader più moderati esitano a farsi veder tra chi resiste all’evoluzione della società e dei suoi costumi, Marine Le Pen, pur approvando la protesta, si asterrà dal partecipare per non sciupare la sua immagine di rinnovatrice del Fronte nazionale. Il matrimonio gay, insomma, rischia di nascondere la vera posta in gioco di domenica prossima: il rapporto di forza politico tra un potere socialista indebolito e una destra ringalluzzita.

Repubblica 8.1.13
Etiopia
E i bambini analfabeti si trasformano in hacker
L’ultima trovata di Nicholas Negroponte: pc a 40 piccoli africani In pochi giorni imparano a leggere, scrivere e scaricare applicazioni
di Alessandra Baduel


Hanno fra i quattro e gli undici anni e non avevano mai visto prima una parola scritta, ma una volta ricevuta una scatola con dentro un computer, hanno impiegato quattro minuti per spacchettarlo e accenderlo, cinque giorni per usare 47 diverse applicazioni, due settimane per cantare l’alfabeto, in un inglese fino a quel momento sconosciuto. L’ultimo esperimento sul rapporto fra bambini e computer è firmato dal guru di Internet Nicholas Negroponte, professore del Massachusetts Institute of Technology (Mit), e ambientato in due villaggi isolati dell’Etiopia, Wonchi e Wolonchete, dove 40 bambini sono stati lasciati liberi di usare dei laptop da soli, senza adulti che li guidassero. L’ong One Laptop per Child, fondata da Negroponte nel 2005, affianca al resoconto dell’esperimento una cifra: 100 milioni di bambini del mondo che hanno l’età giusta per il primo anno d’istruzione, però non hanno né scuola né maestri.
Dieci settimane con il laptop in mano, e Kelbessa sapeva scrivere “lion”, leone, tracciando le lettere sulla terra battuta vicino a una delle otto capanne di fango e paglia che compongono il suo villaggio, Wonchi. A un’ottantina di chilometri da Addis Ababa, Wonchi è lontano da tutto, persino dal pozzo: per prendere l’acqua ci vuole un’ora di cammino. Non c’è elettricità, né una scuola vicina. Non ci sono cartelli né scatole, etichette o altro materiale con su scritte delle parole. A Wonchi nessuno, finora, leggeva o scriveva. I computer a energia solare portati nei due villaggi per l’esperimento hanno cambiato tutto. In ottobre, Negroponte poteva riferire al Mit che l’esperimento, partito in febbraio, sta dando risultati impensabili.
Secondo lo studioso servono almeno due anni perché i dati siano convalidati dalla comunità scientifica, ma è un fatto che nel frattempo le settimane passano e i bambini continuano a usare i loro computer con costanza, facendo continui progressi. Le memory card di ogni laptop vengono prelevate e sostituite con nuove memorie ogni settimana, mentre quelle usate arrivano al Mit per essere analizzate. C’è chi ha scoperto la funzione video e filmato il nonno che curava il bestiame, chi ha immortalato fratellini e capanna, chi si dedica a hackerare le protezioni. E tutti stanno imparando inglese e amarico etiopico. Perché tutti usano il computer per una media di sei ore al giorno, in genere quando fa buio e sono finite le attività quotidiane di aiuto agli adulti, come andare al pozzo.
Adesso, aiutano gli adulti anche di sera: mostrando loro i computer e quello che appare lì dentro. Ma l’obiettivo dell’esperimento è un altro e sembra raggiunto. Dal 2005 a oggi, One Laptop per child ha messo due milioni e mezzo di Motorola Xoom in mano a bambini di 40 Paesi. Nel presentare i primi risultati dell’esperimento etiopico, Negroponte ha spiegato: «Con il lavoro già fatto in quei Paesi, abbiamo scoperto che i bambini imparano molto da soli. Ma quanto? Per rispondere, ci siamo concentrati sui 100 milioni che non hanno una scuola. Ed è così che abbiamo scelto i due villaggi etiopici per scoprire se un bambino può imparare a leggere da solo. Se può farlo, poi potrà anche leggere per imparare. Se funzionerà, ci indicherà la strada per raggiungere quei 100 milioni». Basterà un computer.

ComUnità Diversa Mente 7.1.12
Gli omicidi invisibili delle donne nigeriane
di Flore Murard-Yovanovitch

qui segnalazione di Nuccio Russo

Repubblica 8.1.13
Il dolore calmo di Lucio Magri
A un anno dalla morte, i saggi del fondatore del “Manifesto”
di Miguel Gotor


È trascorso più di un anno dalla morte di Lucio Magri. L’ultima volta che lo vidi fu anche la prima della mia vita e conservo una memoria particolarmente vivida di quella giornata. Non so neppure perché, ma mi ritrovai insieme con mia moglie nella sua accogliente casa in piazza del Grillo, seduto su dei lunghi divani bianchi. Tutt’intorno, la giovane moglie Mara, prematuramente scomparsa, sembrava scrutarci dalle foto sugli scaffali di un salotto che in un tempo ormai dissipato aveva ospitato la sede del primo Manifesto, quando Praga bruciava insieme con la speranza che un altro socialismo fosse ancora possibile.
Al centro dell’ampia stanza stava un uomo triste e solo, disperatamente sofferente, fanciullesco nel suo esibito dolore. Aveva appena terminato quello che sapeva essere il suo testamento umano e politico, Il sarto di Ulm. Una possibile storia del Pci, l’ultima resistenza al vortice di una depressione divorante. Ricordo ancora nitido il disagio di essere ospitati dentro quella tragedia, i nostri tentativi di comunicare con un muro dagli occhi cerulei ancora bellissimi, ma resi smarriti dall’angoscia.
Nella sua decisione di porre termine alla sua vita con il suicidio assistito vidi il solco di un radicalismo e un gusto per l’intransigenza che avevano accompagnato tutta la sua esistenza: dalla giovanile militanza cattolica e democristiana nel gruppo dossettiano nel segno della riforma morale e intellettuale dell’Italia, allo scontro con Fanfani, all’ingresso nel Pci dopo il 1956, conquistato dall’inquieta sensibilità di Franco Rodano; dalla radiazione nel 1970 dal partito all’avventura giornalistica, umana e politica prima del Manifesto e poi del Pdup; dal rientro, all’inizio degli anni Ottanta, nel Pci di Berlinguer, ma non da pentito della sua esperienza nella sinistra extraparlamentare, sino al rigetto della svolta del 1989, all’ingresso in Rifondazione comunista e alla difesa dell’esperienza del comunismo italiano.
A un anno dalla sua morte, il 28 novembre 2011, è uscita una raccolta di saggi di Lucio Magri Alla ricerca di un altro comunismo. Saggi sulla sinistra italiana a cura di Luciana Castellina, Famiano Crucianelli e Aldo Garzia (il Saggiatore, 18,50 euro). Un libro composito che comprende una lunga e partecipata prefazione della Castellina, a lungo sua compagna di vita e di impegno politico, che ripercorre l’itinerario biografico e intellettuale di Magri; una bella intervista frutto di una serie di incontri con gli amici Crucianelli e Garzia «per ricostruire eventi particolari e fasi politiche in una sua autonoma rilettura della storia politica degli ultimi cinquant’anni », con una particolare attenzione alle vicende della sinistra comunista dagli anni Sessanta al 1989; dieci scritti di Magri composti tra il 1962 e il 1993, fra cui Il modello di sviluppo capitalistico e il problema dell’alternativa proletaria pubblicato in Les Temps Modernes; il ricordo dello storico dell’assolutismo Perry Anderson che ne traccia il profilo di «intellettuale rivoluzionario in grado di pensare in sintonia con i movimenti di massa sviluppatisi durante il corso della sua vita»; l’annuncio, infine, di una preziosa iniziativa online: l’allestimento di un sito (www.luciomagri.com) nel quale saranno pubblicati via via tutti i suoi scritti.
Lo sguardo esistenziale si incrocia con l’avventura politica ed è difficile distinguere le due dimensioni. È la solitudine dei primi anni di vita, un’infanzia trascorsa nel deserto libico al seguito del padre ufficiale d’aviazione a conferirgli, secondo Luciana Castellina, «il pessimo carattere che si è poi portato dietro tutta la vita», venato da una rigidissima intransigenza, privo, come affermava l’amico Michelangelo Notarianni «di sentimenti intermedi». Non integralista, mai dogmatico, capace di continue autocritiche politiche, refrattario a ogni forma di incoerenza, eclettismo, faciloneria. Il tratto di fondo è la passione lucida per la politica, nutrita dalla lettura critica di Lukács, di Adorno, di Marcuse, di Galbraith, l’analisi dei nessi nazionali e internazionali per comprendere non solo la forza e l’originalità dell’esperienza dei comunisti italiani da Togliatti in poi, ma anche i limiti e gli errori commessi.
Come ricorda Castellina, Magri è stato un uomo integralmente novecentesco che ha vissuto in modo drammatico la crisi della sinistra, a causa del suo «assolutismo caratteriale diventato un rovello costante». Un rovello, intorno al peso di una sconfitta che era anche un atto di amore nei confronti di una storia. Questo pensai quando vidi i suoi occhi brillare l’ultima volta dall’alto della tromba delle scale, mentre accompagnava la nostra vitalità con un sorriso triste, troppo triste, per non dirci addio: «Io son giunto alla disperazione calma, senza sgomento. Scendo. Buon proseguimento».

Repubblica 8.1.13
Roma, ecco le statue che Ovidio cantò nelle Metamorfosi
Scoperta la villa di Messalla, mecenate del poeta
di Laura Arcan


ROMA — Il cenacolo dei grandi poeti latini d’età augustea, da Ovidio ad Albio Tibullo, riprende vita alle porte di Roma, a Ciampino. Una scoperta che gli archeologi definiscono «eccezionale». È la villa romana attribuita a Marco Valerio Messalla Corvino, console insieme a Ottaviano e comandante nella battaglia di Azio del 31 avanti Cristo. Ma soprattutto mecenate di poeti e intellettuali d’età augustea che hanno scritto la storia della letteratura classica.
A restituire la villa, citata dalle fonti e il cui riferimento a «Valerii Messallae» deriva dai bolli sulle tubature, è il quartiere termale, dove gli ambienti sfoggiano frammenti di mosaici. Ma a confermare che si tratti del tesoro di Messalla potrebbe essere un altro ambiente, distante alcune decine di metri: la natatio, la piscina all’aperto lunga oltre venti metri, con le pareti dipinte di azzurro. Dall’interno della vasca sono riaffiorate una serie di sculture straordinarie. Sette statue integre, con alcune mutilazioni ricostruibili, di oltre due metri d’altezza. Un repertorio statuario che illustra il mito di Niobe e dei Niobidi. «Una di quelle scoperte che capita una sola volta nella vita di un archeologo», racconta Aurelia Lupi, guida, sotto la direzione scientifica di Alessandro Betori, dell’équipe della Soprintendenza ai beni archeologici del Lazio che tra giugno e luglio scorsi hanno avviato una campagna di sondaggi preventivi su un’area interessata da un progetto di edilizia sulla via dei Laghi all’interno dei cosiddetti Muri dei Francesi, una proprietà privata corrispondente al Barco dei Colonna. L’area è la stessa finita di recente sulle cronache per la triste vicenda del Portale di Girolamo Rainaldi, il maestoso ingresso barocco crollato e lasciato in stato di abbandono.
«Statue di Niobe ne sono state trovate in passato, ma nel caso di Ciampino abbiamo buona parte dell’intero gruppo», sottolinea la soprintendente Elena Calandra: «Sette statue d’età augustea complete, ma anche una serie di frammenti che possono essere ricomposti». Capolavori che mettono in scena la tragedia del mito, la punizione della superbia di Niobe. «Queste statue entreranno nei manuali di storia dell’arte classica» aggiunge Calandra. Le meraviglie del circolo di Messalla dovevano ornare i quattro lati della piscina e un basamento in peperino al centro della vasca. Sono rimaste inviolate sotto terra per secoli, probabilmente dopo che un terremoto nel II secolo le ha fatte precipitare sul fondo della vasca. «Le sculture ci offrono nuove testimonianze sull’iconografia di Niobe» dice Alessandro Betori, direttore scientifico degli scavi. «Nel gruppo spiccano due figure maschili di giovani colti nell’atto di osservare l’eccidio dei fratelli che appaiono a tutt’oggi inediti. E soprattutto, la villa da cui provengono appartiene a Messalla, protettore di Ovidio. Non è un caso che la descrizione più vivida del mito di Niobe si trovi proprio nel suo capolavoro, le Metamorfosi.
Da assiduo frequentatore del circolo, il poeta avrà forse avuto modo di vedere il gruppo dei Niobidi in tutto il suo splendore e di rimanerne ispirato». Oppure, potrebbero essere stati i versi del poeta a suggerire a Messalla il tema del gruppo scultoreo che doveva impreziosire la piscina della villa.
Dalla scultura alla poesia, insomma. Ora servono risorse per restaurare e valorizzare le opere.

Repubblica 8.1.13
Così quei versi fecero grande il loro autore
di Maurizio Bettini

FORSE chi compose il programma iconografico del decoro si ispirò ai suoi versi? Nell’Iliade, Achille racconta questa vicenda a Priamo, venuto a reclamare il corpo di Achille. «Si ricordò di mangiare perfino Niobe dalla bella chioma » gli dice «alla quale ben dodici figli morirono dentro la casa, sei figli e sei figlie nel fiore degli anni. Li uccise Apollo tirando con l’arco d’argento, adirato contro Niobe, perché osava paragonarsi a Leto dalle belle guance». È la testimonianza più antica di questo mito, paradigma insieme di hybris materna e di crudeltà divina. Ma anche e soprattutto paradigma dello sconfinato dolore in cui si piomba per la perdita dei figli — non si poteva trovare racconto più adatto per accompagnarlo alla sorte di Priamo. Ovidio rese ancor più celebre questo mito, nelle Metamorfosi accese ulteriormente i colori di Omero. Adesso Niobe è una donna folle, tracotante, che vorrebbe addirittura distogliere i fedeli dall’onorare Latona, la madre di Apollo e di Artemide. Chi è costei paragonata a me? — va gridando — lei di figli ne ha avuti solo due, io quattordici. Sono felice e sempre lo sarò, chi può dubitarne? Ed ecco che Apollo, istigato da Latona irata, comincia a saettare. I sette splendidi figli della madre superba (in Omero erano solo sei) cadono uno dopo l’altro — di colpo l’esametro di Ovidio si è fatto Iliade, si è fatto Eneide: sangue che sgorga, nuche trapassate, polmoni a brandelli, gole squarciate. Non paga di quanto ha subito Niobe, sempre più folle, continua a insultare la dea, ed ecco cadere tutte e sette anche le sue tenere figlie. A questo punto non può che intervenire la metamorfosi, a suo modo pietosa. Niobe viene trasformata in roccia, e la pietra, si sa, è metafora concreta della durezza del dolore.
In Grecia la storia di Niobe e dei suoi miseri figli aveva offerto materia per un affresco niente meno che a Polignoto. In effetti è una vicenda spontaneamente visiva, un racconto che pare fatto apposta per produrre figure. Le statue appartenevano a una villa di Marco Valerio Messalla, una delle figure di maggior spicco, come oratore e come politico, negli anni della tarda repubblica e del principato di Augusto. La scoperta potrà gettare nuova luce sul rapporto fra le arti figurative e la poesia romana. Quella di Ovidio in particolare. Messalla infatti aveva raccolto attorno a sé un gruppo di poeti, Tibullo, Sulpica, Ligdamo; ma sembra che, dopo la morte di Mecenate, anche Lucio Valgio Rufo, Emilio Macro e in particolare Ovidio (che fu amico del figlio di Messalla) si fossero uniti al suo circolo.

l’Unità 8.1.13
Psicopatia armata
Ordinaria follia negli Usa. Un’altra strage sabato
Sembrano versioni postmoderne delle tragedie greche quelle provocate negli Stati Uniti dal ricorso a pistole e fucili
Un Far West che nell’84-85 ha superato le vittime americane in Vietnam
di Enzo Verrengia


ANCORA UNA STRAGE DA PSICOPATIA ARMATA. È SUCCESSO DI NUOVO AD AURORA, NEL COLORADO, LA CITTADINA PRESSO DENVER DOVE LA SCORSA ESTATE JAMES HOLMES AVEVA SPARATO SULLA FOLLA DEL NUOVO FILM DI BATMAN. Allora si contarono 12 morti. Sabato mattina, 5 gennaio, il bilancio è stato inferiore, ma i numeri non alleviano lo sgomento. Un uomo con almeno due fucili ha preso in ostaggio e ucciso tre persone nella tipica abitazione monofamiliare dell’iconografia americana. Poi è caduto sotto i colpi delle squadre Swat (Special Weapons and Tactics), anche queste ormai stampate nell’immaginario contemporaneo. Il tutto mentre imperversa l’isteria di mamme, maestre e bambini in seguito al massacro compiuto dal ventenne Adam Lanza alla Sandy Hook di Newtown.
Non uno, ma tanti, troppi giorni di ordinaria follia si susseguono negli Stati Uniti. Versioni postmoderne delle tragedie greche, in cui la catarsi è negata dalla ripetitività fino alla statistica. Senza altri protagonisti che individui anonimi per i quali la maschera perfetta è il volto incarognito di Michael Douglas nel film di Joel Schumacher del 1993 Un giorno di ordinaria follia. L’anonimo protagonista viene indicato con la sigla della sua targa automobilista, D-fens, che in inglese si pronuncia come «difesa». Perché è questo lo spirito che lo anima: l’autoprotezione contro un mondo gone mad, impazzito.
L’INSORGERE DELLA VIOLENZA
Alle origini della corsa americana all’armamento privato c’è il Secondo Emendamento della Costituzione, che recita: «Essendo necessaria una milizia ben regolata alla sicurezza di un libero stato, non sarà violato il diritto della gente di possedere e portare armi». I Padri Fondatori vedevano nel cittadino armato una garanzia contro l’insorgere della tirannia. Ma non prevedevano di favorirne una imbattibile, quella della violenza.
Già negli anni ‘30, con l’espandersi del gangsterismo, la Corte Suprema tentò un dibattito sull’emendamento. «Una milizia ben regolata» non significava che chiunque potesse proclamarsene componente spianando un’arma. Venne così istituito il Batf, Bureau of Alcohol, Tobacco and Firearms (Ufficio degli alcolici, del tabacco e delle armi da fuoco), per tentare un controllo della materia, specialmente nel contrabbando di pistole da uno stato all’altro. Ne facevano parte i famosi «intoccabili» del film di Brian De Palma del 1987, che incastrarono Al Capone. Il Batf, però, cadde in disgrazia dopo l’operazione di Waco, sfociata nel rogo in cui persero la vita i componenti della setta di David Koresh.
Una nuova legge sul porto d’armi si chiama «Brady Bill», dal cognome dell’ex portavoce di Reagan, semiparalizzato da uno dei sei colpi sparati al Presidente da Jack W Hinkley la domenica del 29 marzo 1981. Moment of Madness, «momento di follia», titolava Time, terminando con la domanda: «Si potrà mai fermare?»
Jack Brady, sostenuto dalla moglie Sarah fondò la Handgun Control Inc. (Società per il controllo delle armi da fuoco), presieduta dalla donna, la cui crociata culminò nell’atto parlamentare che segnò la Storia americana. Perché qualsiasi tentativo di disarmo negli Stati Uniti equivale a tagliare via una fetta del carattere nazionale. «La felicità è una pistola calda» cantavano i Beatles. Avevano ragione 250 milioni di volte, il numero di armi che circolano negli Stati Uniti. Ne hanno una in casa da 50 a 60 milioni di famiglie, la metà del totale. Non ci rinuncia certo il buon padre che vive nel terrore di vedere i suoi cari in balia dei bruti come nel film Ore disperate. Non il paranoico solitario, che infila la pistola nel cruscotto dell’auto prima di mettersi al volante. «A Washington e New York non girerei mai senza una pistola per proteggermi» ammette con la grinta che gli è propria Tom Clancy, lo scrittore più falco del mondo. Ritrovandosi sulla posizione di un misconosciuto Jay Montoya, commesso viaggiatore di Los Angeles, di tutt’altra risma di quello di Arthur Miller: «Proteggerò la mia casa. So come usare questo fucile e lo farei». Mostra un semiautomatico Ruger Mini-14, eccessivo per sparare ai passeri, ma ottimo per uccidere. Un ricercatore del Policlinico Gemelli, da qualche anno pendolare a New York per periodici aggiornamenti, confessa con un sorriso forzato: «L’America è eccezionale. Peccato che per chi viene da fuori è meglio andare a spasso con una scorta».
Sul New England Journal of Medicine del 10 novembre 1988 si legge che «le ferite da arma da fuoco sono un problema di salute pubblica il cui tributo è intollerabile.» Lo scrivono James Mercy e Vernon Houk, ricercatori del Centro per il Controllo delle Malattie di Atlanta, aggiungendo un dato agghiacciante. «Fra il 1984 e il 1985 il numero delle persone che morirono per lesioni da armi da fuoco negli Stati Uniti furono 62.897, superando quello delle perdite americane in tutti gli otto anni e mezzo del conflitto in Vietnam.»
L’ESSENZA DEL PROBLEMA COLTA DALL’ARTE
Come sempre, l’essenza del problema viene colta dalla letteratura e dal cinema. Il romanzo Non temerò alcun male, di Robert Anson Heinlein, si svolge in questi anni ma risale al 1970. Mostra un’America dall’esistenza sociale blindata. Bisogna muoversi solo in auto o in volo e per i pochi tratti a piedi portare mantelli corazzati. Inevitabile il paragone con l’attuale boom delle vendite di giubbotti antiproiettile.
Peter Bogdanovich realizza nel 1967 Bersagli. Un vecchio attore di film horror, Boris Karloff, decide di sfuggire ad una realtà peggiore del cinema, per ritrovarsi a competere con un uomo normale che falcidia gli altri sparando da un drive-in.
Alan Arkin nel 1971 dirige Piccoli omicidi, dalla commedia di Jules Feiffer. Un fotografo pacifista ad oltranza, interpretato da Elliott Gould, sopraffatto dalla violenza del prossimo, regisce mettendosi a sparare nelle strade dalle finestre di una New York in cui tutti sono diventati cecchini e bersagli reciproci. Quando la società degenera nell’odio generalizzato, ogni angolo del cosiddetto mondo sviluppato replica Beirut, Sarajevo, Baghad e le altre città segnate da apocalissi di piombo e cordite.

La Stampa TuttoScienze 8.1.13
Caro Archimede, il 2013 adesso comincia da te
di Francesco Vaccarino
Politecnico di Torino


Eureka! Come Leonardo, la Gioconda, Newton, la mela, Darwin le Galapagos ed Einstein, E=mc2, anche Archimede ha il suo «brand». E non è a caso che lo citiamo con questi personaggi. «Archimede è stato uno delle più grandi personalità scientifiche e il suo pensiero è contraddistinto da un tratto fondamentale: la capacità di individuare i problemi cruciali e risolverli uscendo da schemi precostituiti». Parola di Ciro Ciliberto, ordinario di geometria all’Università di Roma Tor Vergata e neopresidente dell’Umi, l’Unione matematica italiana.
Archimede fu matematico, fisico e inventore straordinario. Un esempio di scienziato totale che prefigura l’uomo rinascimentale. Diede contributi fondamentali alla geometria, all’idrostatica e alla meccanica, creando la vite senza fine, la carrucola mobile, le ruote dentate e, soprattutto, la leva. «E ora, per il 2013, l’Umi ha lanciato l’Anno Archimedeo – aggiunge Ciliberto –. Con il “Progetto lauree scientifiche” abbiamo bandito un premio rivolto agli studenti di scuola secondaria superiore, per elaborati, anche artistici, che si riferiscano all’opera di Archimede. La speranza è di avvicinare i giovani, anche quelli che non hanno una passione specifica per la matematica, al pensiero del grande siracusano». Professore, sono passati 2300 da Archimede: qual è lo stato di salute della ricerca matematica in Italia? «La matematica italiana è molto stimata, come testimoniano i premi della European Mathematical Society assegnati ad Alessio Figalli e Corinna Ulcigrai, nonché la Medaglia Pascal della European Academy of Science a Franco Brezzi. Molte università straniere hanno tra i docenti studiosi italiani: è una realtà che riempie di soddisfazione, ma anche preoccupante. Significa che molti giovani brillanti non trovano posto in Italia o che per studiosi affermati non ci sono le condizioni ottimali per le loro ricerche. Tutto questo non sarebbe male, se ci fosse reciprocità, fatto che accade di rado. I politici farebbero bene a porre a questo problema molta più attenzione di quanto non facciano». Ma, almeno, ci sono stati progressi nei programmi per le scuole? La situazione, per quanto riguarda l’insegnamento secondario, è cambiata: con una decisione che, in linea di principio, giudico positiva, si è passati dai “programmi” alle “linee guida”, che disegnano gli obiettivi finali brano eccedere il tempo che i docenti che l’insegnamento nei diversi ordini hanno a disposizione. Infine resta da dovrebbe realizzare. chiarire, per il ciclo superiore, come
Quindi, in concreto? contemperare la libertà lasciata dalle «In pratica c’è molto da fare: le linee linee guida con la prova scritta di maguida non sempre sono state espres- tematica per la maturità che è uguale sioni delle comunità scientifiche, ma per tutti. Ecco perché nell’Umi si è di esperti nominati dall’alto. Non cominciato a parlare dell’opportunità sempre, poi, sono state scritte in mo- di redigere degli “syllabus’’, elenchi di do chiaro e a volte gli obiettivi sem- argomenti basilari che tutti gli studenti alla fine del loro ciclo scolastico dovrebbero conoscere». Un consiglio per un giovane che vo­ glia studiare matematica? «Acquisire spirito e mentalità archimedee. Studiare bene e non solo la matematica. Prima che buoni matematici si deve essere un buoni cittadini e persone preparate, aperte a vari punti di vista, che sanno interagire».