domenica 13 gennaio 2013

l’Unità 13.1.13
Bersani sfida Berlusconi
Il leader Pd: «Confronto tv solo tra candidati premier. Anticorruzione tra i miei primi atti»
di Simone Collini


Annuncia l’ordine del giorno del suo primo Consiglio dei ministri in caso di vittoria e sfida Silvio Berlusconi a dire se è o no lui il candidato premier del centrodestra. Pier Luigi Bersani si prepara all’apertura della campagna elettorale, al teatro Ambra Jovinelli di Roma, giovedì, insieme a un gruppo di ragazzi che voterà per la prima volta, e prova a stanare il leader del Pdl sul nodo dell’alleanza con la Lega, che regge soltanto grazie a un escamotage ormai neanche più troppo mascherato.
Il segretario del Pd sa che per ottenere la maggioranza anche al Senato saranno determinanti le sfide di Lombardia e Veneto, dove il centrosinistra potrebbe non prendere il premio di maggioranza soltanto se regge l’accordo siglato tra Berlusconi e Roberto Maroni. Accordo che prevede l’indicazione del leader Pdl come capo della coalizione (è obbligatorio indicarlo al momento in cui si depositano simboli e apparentamenti) lasciando invece l’incognita su chi sia il candidato premier (la Lega punta su Giulio Tremonti). Così, nel giorno in cui Berlusconi fa sapere che vuole fare il confronto televisivo soltanto con Bersani, il segretario Pd fa filtrare che sarebbe ben felice di raccogliere la sfida, a patto che finiscano le ambiguità: «Il confronto tv si farà solo con i candidati premier. Ma chi è il candidato del premier del centrodestra? Ce lo dica Berlusconi. Oppure Maroni».
Con questa mossa, che va al di là della singola questione dei passaggi televisivi, Bersani vuole far venir fuori tutte le contraddizioni in cui si muovono Pdl e Lega, puntando a un indebolimento del fronte destro nelle regioni chiave del nord. I «soliti yes-man di Berlusconi», per dirla con Vannino Chiti, provano a ribaltare il discorso accusando il segretario Pd di temere un faccia a faccia televisivo con l’ex premier, ma la controffensiva non riesce. Il portavoce di Berlusconi, Paolo Bonaiuti, cita il regolamento di Vigilanza Rai per sostenere che i confronti tv vanno fatti non tra candidati premier ma tra i capi delle coalizioni, e il portavoce di Bersani, Stefano Di Traglia, gli risponde che al di là degli «appigli regolamentari», rimane aperta la questione politica: «Se Berlusconi è il capo della coalizione, chi indica lui come candidato premier? Chi è il Mister X che Pdl e Lega indicherebbero al presidente della Repubblica?».
LA PRIMA VOLTA
Lanciato il sasso nello stagno del centrodestra, Bersani si prepara ora all’appuntamento di apertura della sua campagna elettorale, che sarà simbolicamente sotto il titolo «la prima volta».
Attorno a sé chiamerà giovani che a febbraio andranno al loro primo appuntamento con le urne. Il luogo scelto è il teatro Ambra Jovinelli, da dove praticamente partì la sua corsa verso Palazzo Chigi, visto che qui si è candidato segretario del Pd alle primarie del 2009 (lo Statuto del partito prevede che il segretario sia il candidato premier, anche se poi Bersani ha deciso di fare primarie aperte per la premiership). E, come anticipa in parte in una ventina di righe scritte di suo pugno, l’appuntamento di giovedì sarà all’insegna della prima volta anche perché illustrerà i temi all’ordine del giorno del primo Consiglio dei ministri che presiederà, in caso di vittoria, con una legge anticorruzione in cima alla lista. «Faremo in modo che nelle prossime settimane la campagna elettorale non sia fatta di politicismi o di cabaret, come si è visto largamente fin qui. Insieme a ragazzi e ragazze diremo chiaramente e concretamente in quale Italia vogliamo vivere nel futuro. Prima di ogni altra cosa vogliamo o no un’Italia dove ci sia moralità pubblica, sobrietà e rigore della politica, cultura dei diritti? Cominceremo da questa domanda, ci prenderemo i nostri impegni precisi e chiederemo agli altri se e come intendano prendersi i loro impegni. Noi, nel primo giorno di governo daremo cittadinanza ai figli degli immigrati, proporremo una legge sui partiti, sulla trasparenza degli atti pubblici, sulle incompatibilità; proporremo norme contro la corruzione come il falso in bilancio e l’autoriciclaggio. Prenderemo dunque le mosse dalla riscossa civica e morale».
LA LETTERA
Una serie di proposte le inserirà anche nella lettera che a breve spedirà agli elettori del centrosinistra delle regioni chiave per avere la maggioranza anche al Senato, e cioè Lombardia, Veneto, Sicilia e Campania. Bersani punta a ottenere col centrosinistra il 51% in entrambi i rami del Parlamento, anche se ha già chiarito che in ogni caso si aprirà al confronto con i moderati. Una linea che non è uguale a quella prospettata ieri da Mario Monti al convegno organizzato dai liberal Pd.
Il premier ha sì auspicato che, quale sia l’esito del voto, dopo ci sia una «collaborazione tra punti riformisti». Ma ha anche aggiunto che questi esistono «più o meno in tutti partiti». Bersani la pensa diversamente. Con il Pdl nessun accordo è possibile, per il leader del Pd. Che ieri, insieme a simbolo del partito e apparentamenti, ha fatto depositare al Viminale anche il programma della coalizione che contiene impegni vincolanti, a cominciare dal sostegno «in modo leale e per l’intero arco della legislatura» al premier scelto con le primarie e dall’obbligo di attenersi a quanto deciso con voto a maggioranza dai gruppi parlamentari».
Ora però nel centrosinistra si è aperto un caso riguardante il Centro democratico. Bruno Tabacci e Massimo Donadi si sono scontrati prima sull’eventualità di un accordo con Mpa (favorevole il primo, contrario il secondo) e poi sui nomi da inserire nelle liste. Che ieri sono state annunciate da Pino Bicchielli e Nello Formisano, ma Donadi ha fatto sapere che non saranno quelle definitive e ha annunciato per domani una conferenza stampa per denunciare gravi scorrettezze.

Corriere 13.1.13
Il Pd: partiremo da immigrati e legalità E fissa le «condizioni» per gli alleati
Bersani: nel primo giorno a Palazzo Chigi anche norme sui partiti
di Al. T.


ROMA — Quasi un programma di governo: «Noi, nel primo giorno di governo, daremo cittadinanza ai figli degli immigrati. Proporremo una legge sui partiti, sulla trasparenza degli atti pubblici, sulle incompatibilità; proporremo norme contro la corruzione, come il falso in bilancio e l'autoriciclaggio». Pier Luigi Bersani annuncia che giovedì, prima della presentazione delle liste, aprirà la campagna elettorale. E lo farà a Roma, nell'incontro con i giovani che votano per la prima volta alle elezioni politiche.
Un tentativo, quello del segretario del Partito democratico, di spostare l'asse della campagna elettorale, che si è pericolosamente inclinato verso la deriva televisiva berlusconiana, con effetti tutti da decifrare. Lo dice esplicitamente Bersani: «Faremo in modo che nelle prossime settimane la campagna elettorale non sia fatta di politicismi o di cabaret, come si è visto largamente fino a qui».
Poi aggiunge: «Insieme a ragazzi e ragazze diremo chiaramente e concretamente in quale Italia vogliamo vivere nel futuro. Prima di ogni altra cosa, vogliamo o no un'Italia dove ci sia moralità pubblica, sobrietà e rigore della politica, cultura dei diritti? Cominceremo da questa domanda, ci prenderemo i nostri impegni precisi e chiederemo agli altri se e come intendano prendersi i loro impegni».
Bersani parla di «riscossa civica e morale». Per portarla avanti, però, serve una coalizione coesa e anche a questo serve il programma sottoscritto dai sette responsabili dei partiti, Bersani (Pd), Vendola (Sel), Tabacci e Donadi (Centro democratico), Nencini (Psi), Portas (Moderati), Theiner (Svp) e Lauretta (Megafono lista Crocetta). Documento che contiene cinque impegni vincolanti: sostegno leale fino a fine legislatura; no a logiche di spartizione e affidamento al leader del compito di comporre il governo; in caso di controversie, votazione a maggioranza qualificata dei gruppi in seduta congiunta; lealtà agli impegni internazionali; sostegno all'esecutivo per la difesa dell'economia, della moneta unica e per procedere verso un governo politico-economico federale dell'eurozona.
Programma nel quale si vede anche qualche cautela nei confronti di partner come Vendola, non del tutto allineato sui temi dell'economia e della politica internazionale. Ieri era parso ad alcuni che ci fosse un importante apertura da parte di Sinistra e libertà nei confronti di Monti. Oggi arriva, se non una smentita, un ridimensionamento all'ipotesi di un via libera di Vendola a un eventuale appoggio esterno al governo a guida Bersani.
L'agenda dell'ex premier, secondo fonti Sel, resta del tutto incompatibile con quella del centrosinistra. E si ribadiscono le parole pronunciate l'altro ieri da Vendola, durante la presentazione della campagna di comunicazione del movimento e ripetute nel faccia a faccia televisivo con Fini: le ricette del centrosinistra per il futuro del Paese sono alternative a quelle proposte dal premier. La presunta apertura, spiegano le stesse fonti, ha più «il sapore di un'operazione politica fatta da altri».
La notizia di ieri è però che Sel ha depositato il suo simbolo, che avrà la dicitura «Sinistra ecologia libertà con Vendola». Un debutto del nome del leader di Sel, che in qualche modo ricorda i partiti «personali» del centrodestra, tanto invisi a Bersani, che non ha mai voluto mettere il suo nome sul simbolo.

Corriere 13.1.13
La strategia per non finire schiacciati a sinistra
di Maria Teresa Meli


Il segretario, gli affondi di Monti e Berlusconi e lo sforzo di agganciare i moderati
ROMA — «Populisti, massimalisti, conservatori ed élites desiderose di guidare il Paese non sono mai riuscite a convergere per governare insieme ma hanno sempre trovato un bersaglio comune nei riformisti»: è da tempo che Pier Luigi Bersani la pensa così. E ora questa sua convinzione sembra aver trovato un'ulteriore conferma.
Il segretario del Pd si sente sicuro di vincere la disfida di Palazzo Madama: «Quale pareggio? — ama ripetere ai collaboratori — noi giochiamo per la vittoria, che è possibile anche al Senato». Però, poiché in politica è bene valutare sempre tutte le variabili immaginabili, Bersani e i suoi, osservando l'avvio della campagna elettorale, si sono resi conto che sia Monti sia Berlusconi, seppure in modi diversi e per diversi intenti, stanno tentando di «appiattire il Pd a sinistra». Vengono interpretate con questa chiave di lettura le ripetute uscite del premier contro i Democrat. Quasi tutte hanno l'aria di essere state studiate a tavolino per una precisa strategia. «Ma noi non dobbiamo reagire alle provocazioni», è la parola d'ordine del segretario.
A Monti è bene rispondere, certo, ma con il fioretto. E soprattutto è bene che sia Bersani a usare quest'arma, lasciando magari la scimitarra ad altri. Già, perché il leader del Pd non può consentirsi il lusso di buttare all'aria tutto il gran lavoro fatto in questi anni per agganciare l'elettorato moderato. Monti, sostengono a Largo del Nazareno, vuole spaventarlo quell'elettorato, mostrando un Pd spostato tutto a sinistra, polemico e movimentista. È l'arma a disposizione del premier per sperare di togliere i voti dei moderati al Pd. Secondo i sondaggi a disposizione di Bersani e dei suoi, le percentuali attribuite alle liste centriste vanno dall'otto al quindici per cento. C'è una bella differenza tra queste due cifre. E l'unica strada che ha di fronte Monti per non far precipitare la sua coalizione sulla percentuale più bassa è proprio quella di personalizzare molto la campagna elettorale e di contrapporre la società civile rappresentata da lui ai partiti, e, in particolare, al Pd, che in questo quadro verrà raffigurato come una forza politica conservatrice e molto di sinistra.
Secondo i vertici del Partito democratico si spiegano in questo modo anche gli «acquisti» fatti dal premier tra l'area più liberal del Pd. Personalità di spicco, almeno in alcuni casi, ma con scarso seguito elettorale. Perché allora inserirli nelle liste? Proprio per dimostrare che i Democrats più moderati non si trovano più a loro agio in un partito alleato con Sel e tutto spostato a sinistra. Perché, per dirla con il liberal Enrico Morando, il movimento di Vendola «rischia di indebolire la proposta di governo del Pd». Bersani, perciò, prepara le sue contromosse, anche perché si aspetta altre uscite polemiche da parte del premier che, dicono a Largo del Nazareno, «ha perso stile e senso della misura».
C'è poi il capitolo Berlusconi. Fino a qualche giorno fa era inchiodato al 19,2 per cento. Con la «performance» da Santoro ha guadagnato un paio di punti. Ancora pochi. Ma è meglio non sottovalutare il Cavaliere, ragiona Bersani. Per ora il centrodestra è sotto in tutte le regioni, però mancano ancora parecchi giorni alla chiusura della campagna elettorale. Che Berlusconi intende condurre giocandosi tutte le carte. Per questo motivo ha voluto stringere alleanze molteplici e poco omogenee: «Tanto poi, come sempre, sarò io che rappresenterò la sintesi».
L'ex presidente del Consiglio ritiene che «Bersani e Monti peschino nello stesso elettorato» e «schiacciando entrambi a sinistra», sostiene, di fronte al centrodestra si apre una prateria di voti.
Dunque, non sono pochi gli elementi che Bersani deve valutare. E ce n'è anche un altro. Con tanto di nome e cognome: Antonio Ingroia. «Vuole far vincere il centrodestra al Senato», ironizza con i suoi il segretario. Ma effettivamente il magistrato potrebbe mettere a rischio Lombardia, Sicilia e Campania. In questo senso al Pd hanno gradito non poco l'attacco di Roberto Saviano al sindaco di Napoli de Magistris, grande sponsor di Ingroia.

Corriere 13.1.13
I sondaggi, le «Gioiose macchine» e i timori di una (nuova) beffa
di Gian Antonio Stella


«Un sondaggio ucraino dà a Berlusconi il 122% dei voti». Campasse cento anni, Romano Prodi non si pentirà mai abbastanza della battuta sulla rimonta berlusconiana del 2006 su cui a sinistra ridacchiavano: cinque giorni dopo vinceva d'un soffio alla Camera e pareggiava al Senato restando appeso a Franco Turigliatto. Il saggio maitre-à-penser Giùan Trapattoni da Cusano Milanino l'aveva detto: «Non dire gatto se non l'hai nel sacco». E a sinistra riemerge la fifa blu di una nuova beffa. Sono troppe le rimonte subite dalla sinistra negli scontri elettorali. Un'AdnKronos del novembre 2004 dava Enzo Bianco in vantaggio abissale su Umberto Scapagnini (66 a 26%) alle Comunali di primavera e pochi giorni prima del voto l'Unità, mentre l'esponente della Margherita affermava d'avere «22 punti in più dell'attuale sindaco», titolò: «La sconfitta a Catania travolgerà il governo». Vinse Scapagnini. Un altro sondaggio Swg nel febbraio 2006 dava per vincente alle Regionali in Sicilia Rita Borsellino col 52%, contro Totò Cuffaro al 44%: vinse Cuffaro con 12 punti e 26 seggi di vantaggio. Nel 2008 Francesco Rutelli fece suo il primo turno alle Comunali di Roma con quasi centomila voti di vantaggio su Gianni Alemanno e si dichiarò fiducioso per il «vantaggio determinante». Vinse Alemanno. Come non bastarono 20 punti di vantaggio a Vincenzo Bernazzoli, l'anno scorso, per averla vinta al ballottaggio a Parma sul grillino Federico Pizzarotti.
I più brucianti, però, restano i tracolli del 1994 e del 2006 nelle elezioni che parevano già vinte contro il Cavaliere. La prima volta Achille Occhetto, convinto di avere messo a punto «una gioiosa macchina da guerra», si sentiva ripetere dai compagni di Bologna: «Akell va tranquell», Achille va tranquillo. Un sondaggio per «il Mondo» diceva che solo il 10,5% degli imprenditori voleva Berlusconi premier, cinque volte meno di Ciampi: 56%. A fine gennaio, mentre La Repubblica titolava un editoriale «Scende in campo il ragazzo coccodè» e dilagavano le ironie sul partito di plastica, l'Ansa spiegava che secondo i sondaggi la coalizione progressista stava al 35%, il centro di Martinazzoli e Segni al 31%, la destra al 34% con Forza Italia al 9,2%. Sette settimane dopo, lasciando la sinistra tramortita, trionfava lui, il Cavaliere.
Fin lì, potevano invocare la clamorosa e inimmaginabile sorpresa mai accaduta al mondo. Manco un meteorite fosse piombato su Botteghe Oscure. Peggio ancora, però, fu lo sperpero del vantaggio del 2006 che Nando Pagnoncelli avrebbe ricostruito nel saggio «L'Italia a metà» a cura di Paolo Natale e Renato Mannheimer. Alla fine del 2005, dopo vittorie a ripetizione in quasi tutte le elezioni, gli italiani convinti che la primavera dopo le Politiche sarebbero state vinte dal centrosinistra erano il 55,5%, quelli convinti che la destra si sarebbe ripresa erano il 24%: 31 punti in meno. Quanto agli orientamenti, l'Unione stava al 53,1%, la destra otto punti sotto. E per settimane si andò avanti così, coi vari sondaggi che davano la sinistra avanti di sei o otto punti e Berlusconi che si affannava a dire che quei sondaggi non erano buoni: «Siamo appena sotto, ma in rimonta». Anzi, a un certo punto si spinse a denunciare, facendo indignare tutti, una congiura ordita da una sorta di «sindacato dei sondaggisti» decisi a danneggiarlo.
Esagerava? Sì. E avevano ragione i professionisti del settore a denunciare a loro volta come il Cavaliere, infischiandosene della legge, citasse ogni giorno rimonte mirabolanti senza mai precisare come, dove e da chi fossero stati fatti i sondaggi. Resta il fatto che la sicumera con cui a sinistra si sentivano così predestinati al trionfo da scartare l'idea di Riccardo Illy di una lista civica d'appoggio o da liquidare con risatine i tonanti incoraggiamenti berlusconiani ai destrorsi in rotta, fu indimenticabile. «Tutti e sei i principali istituti demoscopici riportano che ci sono 6 punti di differenza tra centrodestra e centrosinistra», spiegò Piero Fassino a fine gennaio. E proseguì: «Ritengo il nostro vantaggio incolmabile, ma non per questo vogliamo dar la vittoria per scontata. Il governo Prodi governerà con una maggioranza chiara per cinque anni. Non solo: avremo una maggioranza chiara sia alla Camera sia al Senato».
«L'ipotesi di un pareggio alle prossime elezioni», ridacchiò Alfonso Pecoraro Scanio, «esiste solo nei sondaggi taroccati del premier. Sarà l'Unione a garantire stabilità e rilanciare l'Italia dopo cinque anni di malgoverno». «Dopo la finanza creativa arrivano i sondaggi creativi», ironizzò una nota ufficiale della «cabina di regia» dell'Ulivo. E mentre Renato Mannheimer avvertiva già a febbraio che il Senato sarebbe stato in bilico, il capogruppo del Pdci liquidava l'indagine della società «Penn, Schoes & Berland» favorevole al Cavaliere con parole irridenti: «Se il sondaggio americano, da lui commissionato e pagato, lo dà vincente, buon per lui: come si dice a Roma si consola con l'aglietto». Va da sé che ancora più ridicolo fu considerato un sondaggio di Euromedia: «Dobbiamo essere grati a Berlusconi che dopo la bufala americana ora ci propone l'oracolo a perdere», diceva una nota dell'ufficio stampa Ds. E additava allo scherno Alessandra Ghisleri «la quale, da quando ha deciso di smettere i panni della paleontologa e si è messa a fare la sondaggista, con i numeri non ha la stessa dimestichezza che forse aveva con i tirannosauri».
Il gioco preferito, per qualche settimana, sembrò quello sui sondaggi esotici. «Mi sono rivolto ad amici sondaggisti della Papuasia che mi hanno riferito che il centrosinistra ha 20 punti di vantaggio non recuperabili dal Cav. Berlusconi», ammiccava non ancora berlusconizzato Clemente Mastella. «Di che sondaggi parlate, quelli arrivati dall'Ucraina?», chiedeva sorridendo Luciano Violante. E poteva mancare Massimo D'Alema? «Sarcasmo da Rotterdam», come lo chiama Ferrara, fu impareggiabile: «Con i sondaggi Berlusconi vuole intimidire l'avversario e incoraggiare le proprie truppe. Siamo a forme primitive del tipo "gli Dei sono con noi. Abbiamo scrutato il volo degli uccelli dall'alto della collina e ci è favorevole"».
Poi arrivò la sera dello spoglio dei voti, la scoperta che il vantaggio immenso si era volatilizzato, lo shock, l'amara consapevolezza che al Senato sarebbe stato praticamente impossibile governare… Meno di due anni dopo, caduto il governo dopo un'agonia interminabile, parevano tutti contriti e decisi: mai più dare per morto il Cavaliere, mai più… Macché, l'hanno rifatto. E adesso sono lì, di colpo inquieti. E alle prese con quel fastidioso e sottile incubo notturno…

l’Unità 13.1.13
Da Casini a Ingroia, a Vendola la piaga delle liste personali
I nomi dei leader di partito in bella mostra sui marchi Solo Bersani non lo fa
di Simone Collini


Casini l’aveva tolto, per poi rimetterlo dopo che il premier ha voluto il suo, e in bell’evidenza, nel simbolo della «Scelta civica con Monti per l’Italia». Quello di Berlusconi ovviamente c’è, l’inserimento del nome nel simbolo elettorale praticamente è un’invenzione sua, anche se le altre volte indicava il candidato premier della coalizione e invece questa è ridimensionato a «presidente» del Pdl. Quello di Ingroia va da lato a lato lungo tutto il simbolo, a troneggiare sopra quella specie di riproduzione del «Quarto Stato».
Grillo ha unito l’utile al dilettevole, avendo inserito nella parte inferiore del simbolo il nome sotto forma di indirizzo web del suo sito, nel quale si pubblicizzano libri e dvd suoi e di Casaleggio. Maroni, per star tranquillo, ha depositato venerdì un logo con scritto «Maroni presidente» e ieri un altro della Lega col nome suo e quello di Tremonti. Scritto così: TreMonti. C’è poi il nome di Fini nel simbolo di Fli, quello di Storace per la Destra, di Mastella per l’Udeur e anche il nome dell’imprenditore Samorì per i Moderati in rivoluzione. La lista non è finita perché anche nel centrosinistra non hanno rinunciato a mettere il nome nel simbolo elettorale Vendola (Sel) e Crocetta (Il Megafono, lista che corre per il Senato in Sicilia).
Con in mano la scheda elettorale, il 24 e 25 febbraio, si potrà fare l’appello. Nei simboli ci saranno i nomi di tutti i leader di partito. Mancherà praticamente soltanto quello di Bersani. Il segretario del Pd, da quando è stato eletto, ha detto che non avrebbe messo il suo nome nel simbolo del partito, bollando i «partiti personali» come pericolosi per la stabilità del sistema. Una linea che Bersani non ha mai messo in discussione, né quando ha vinto le primarie ed è stato scelto
come candidato premier del centrosinistra, né quando l’attuale presidente del Consiglio è «salito in politica» e ha sfoderato il simbolo «Con Monti per l’Italia», e neanche negli ultimi giorni quando più d’uno tra compagni di partito, sondaggisti ed esperti di comunicazione gli ha consigliato di inserire il suo nome nella parte bassa del simbolo Pd, com’era del resto con Veltroni candidato premier nel 2008.
Hanno fatto altre scelte gli altri. Casini a settembre aveva anche convocato a Chianciano l’ufficio politico per formalizzare la scelta: via il suo nome, a favore dell’inserimento nel simbolo della parola «Italia». Quello doveva essere, per il leader Udc, «un primo segno tangibile di questa nuova fase che si è aperta». Poi? Poi è successo che il 4 gennaio Monti ha convocato una conferenza stampa all’hotel Plaza per presentare il simbolo della «Scelta civica con Monti per l’Italia». Pochi minuti dopo che il premier ha tolto il drappo rosso dal treppiedi che reggeva la new entry politica, è comparsa sulle agenzie di stampa una nota firmata da tutti i segretari regionali dell’Udc in cui si chiedeva a Casini di rimettere il suo nome nel simbolo. E cosa doveva fare il leader centrista, se tutti i suoi dirigenti locali gli chiedevano questo sacrificio? E cosa doveva fare a quel punto anche Fini?
Non è stato facile prendere una decisione neanche per Maroni. Nel senso, non è stato facile vincere un congresso contro Bossi sostenendo la necessità di rompere con Berlusconi e poi scegliere di allearsi di nuovo con lui. E allora? Allora Maroni si è inventato di mettere nel simbolo della Lega anche il nome di Tremonti (giocando sul doppio senso con TreMonti, visto che c’erano) che per il Carroccio dovrebbe essere i candidato premier del centrodestra. Poi c’è stata la difficolta a mettere insieme nel simbolo della Lega Alberto da Giussano con spadone e sole delle Alpi e Padania e doppi nomi di persona e di lista (c’è anche il riferimento allla 3L tremontiana, Lista lavoro e libertà), ma questo è stato un problema del reparto grafico. Il reparto politico si deve essere comunque sentito con la coscienza a posto.

l’Unità 13.1.13
Camusso: «Monti fa propaganda. Ora serve un governo del lavoro»
«Il gioco del premier è solo un’operazione identitaria a fini elettorali, d’ora in poi eviteremo di commentare.
Un esecutivo si giudica per quello che ha fatto»
di Laura Matteucci


MILANO «Questa campagna elettorale sembra un déjà vu: il continuo rimbalzare sull’Imu è un dibattito che ricorda quello sull’Ici del 2006 prima, del 2008 poi. È una campagna elettorale che non fa i conti con i problemi reali del Paese, con il tema della progressività e della redistribuzione fiscale, che è molto più complesso di come viene affrontato. E connesso a questo, c’è il tema del lavoro, presente solo a sinistra, ma assente nei ragionamenti di tutti gli altri». Parla Susanna Camusso, segretaria della Cgil negli anni della crisi più feroce del dopoguerra: il 2013 si è appena aperto, portando nel vivo la campagna elettorale, mentre tutte le organizzazioni economiche lo prevedono anche peggiore dell’anno precedente. Con una premessa, che riguarda il presidente del Consiglio uscente Mario Monti: «La nostra scelta politica dice Camusso è di non commentare più questa modalità che ha adottato con cui cerca di praticare una tecnica propagandistica. Primo, perché è un alibi per non parlare di quello che intende fare, secondo perché il governo si commenta per quello che ha fatto e non per le polemiche che suscita».
Sta dicendo, quindi, che non intende più entrare nel merito delle accuse che Monti fa alla Cgil, di essere un sindacato conservatore?
«Esatto. Il suo gioco è solo un’operazione identitaria a fini elettorali, invece che di delineazione di un programma, soprattutto rispetto alla grande questione sociale del Paese. È una modalità di propaganda elettorale da manuale».
Veniamo ai temi che la Cgil pone alla politica. Avete in calendario la Conferenza programmatica il 25-26 gennaio, e lì discuterete nel dettaglio le proposte per un piano per il lavoro: ma intanto che cosa chiede la Cgil ai partiti in campagna elettorale, in particolare del centrosinistra?
«Per uscire dalla crisi non si può né tornare a negarla, né semplicemente constatarne l’esistenza: bisogna arrivare finalmente a delle soluzioni, partendo dal fatto che il governo e le sue scelte sono essenziali. L’obiettivo primo dev’essere non solo difendere il lavoro, ma soprattutto crearlo. Un miliardo e passa di ore di cassa integrazione parlano di un processo di deindustrializzazione già in atto, il 37% di disoccupazione giovanile è un dato drammatico: il tema è creare lavoro, con uno straordinario sforzo e uscendo da una stagione di sterile ideologismo di discussione sulla dicotomia pubblico-privato».
Per muoversi come?
«La crisi è anche un’opportunità, quella di ripensare al Paese e al suo modello di sviluppo, con una discussione concreta a partire dal fatto che, se non abbiamo grandi risorse di materie prime, disponiamo comunque di straordinarie ricchezze. Iniziamo dalla vere risorse, tra cui un’alta qualità dell’istruzione, nonostante tutto. Questo è un Paese che ha bisogno innanzitutto di rimettere in piedi se stesso, attraverso potenti opere di bonifica del territorio, di risanamento, che ha bisogno di prevenzione e non di interventi congiunturali a tampone. Dove il sistema industriale deve riflettere sulle proprie responsabilità nell’aver spostato tanta parte degli investimenti dalla produzione alla rendita. Ci vuole una visione strategica: la ricetta anticiclica dell’incentivazione dei consumi può al massimo valere nell’immediato, ma per risollevarsi è essenziale pensare a direttive valide sul lungo periodo. Una proiezione del made in Italy, ad esempio, e dei beni culturali ed ambientali. Bisogna ripartire dalla risorse vere, appunto. Con un orizzonte di programmazione che dev’essere ampio».
Sul breve periodo, peraltro, il quadro è fosco: dal punto di vista del tasso di disoccupazione e del reddito disponibile, il 2013 si presenta peggiore del 2012. «Sul piano delle questioni sociali lo sarà sicuramente, anche perché stiamo ormai sommando quattro anni di crisi pesante. Data la sua profondità e il suo carattere strutturale, la crisi non si risolverà in poco tempo, gli effetti peseranno sul lungo periodo, e risalirne la china sarà una questione complessa. Bisogna dare dei segnali anticiclici, e anche di cambiamento culturale, a partire dall’affrontare il tema della democrazia e della rappresentanza. Ci vogliono politiche che programmino, favoriscano, inducano. E spendano, anche. Perché le risorse finanziarie, con una fiscalità progressiva, una forma di tassa patrimoniale, l’allentamento selettivo del Patto di stabilità, si possono trovare».
Il nuovo governo, insomma, dovrà muoversi su un doppio binario: affrontare le emergenze da un lato, immaginare una nuova politica industriale ed economica dall’altro.
«È così. Faccio un esempio: sul breve periodo, è chiaro che il nuovo governo dovrà occuparsi di Finmeccanica, ma in prospettiva deve indicare e programmare il processo di trasformazione verso la chimica verde. Dovrà discutere l’universalità degli ammortizzatori, ma intanto garantire le risorse per la cassa in deroga».
La crisi è italiana, ma è anche internazionale.
«Nel 2014 si vota per il Parlamento europeo, e l’obiettivo dev’essere di cambiamento sia nel ruolo del governo dell’Europa, sia nella rigida politica adottata del rigore e del rientro dal debito».
Come vede un Pd che candida l’ex direttore generale di Confindustria Galli e il numero due della Cisl Santini, continuando, anche con la vittoria di Bersani, ad avere un forte radicamento a sinistra? «Che ci sia un contributo da parte di altre organizzazioni sindacali e sociali mi sembra un bene. E credo sia giusto chiamare a concorrere tante forze diverse che, anche se possono dare vita a qualche contraddizione, danno comunque il segno della centralità del lavoro».

l’Unità 13.1.13
Miguel Gotor
«Sostenere che destra e sinistra non esistono è tipico della destra»
«Dobbiamo sconfiggere tutti i populismi: quelli vecchi di Berlusconi e Lega quelli nuovi di Grillo e quelli giustizialisti di Di Pietro e Ingroia»
di Maria Zegarelli


ROMA «Non bisogna avere paura di Silvio Berlusconi. Bisogna avere rispetto per la persona e per il potere che ancora ha». Così come «non bisogna dare affatto per scontata la vittoria del centrosinistra alle prossime elezioni politiche». Mai banale Miguel Gotor, storico, capolista per i democratici in Umbria per il Senato, voluto in squadra dal segretario Pier Luigi Bersani.
Paura no, ma grande preoccupazione sì. Se l’aspettava questa rimonta del Cavaliere?
«La sua influenza permane ancora forte sia nelle reti di sua proprietà che alla Rai, ma Berlusconi ha anche grandi capacità di mobilitare il proprio elettorato. Questa idea della presunta rimonta risponde a un orizzonte di attesa da parte del mondo della comunicazione che deriva dal fatto che c’è il desiderio, implicito e esplicito, di riproporre lo schema del 2006: un’anatra zoppa costituita dalla coalizione di centrosinistra». Però è un fatto che non intende mollare la presa e i sondaggi gli danno ragione. «Il suo obiettivo è soprattutto quello di crearsi una propria pattuglia di parlamentari scelti da lui e di massima fiducia: questo è il motivo per cui ha fatto di tutto per non cambiare la legge elettorale e tenersi il Porcellum. Per continuare a tutelare i suoi interessi non aveva senso appaltare la sua creatura ad altri».
Quanto è dura la sfida per il centrosinistra al Senato stando così le cose?
«Io non appartengo alla categoria degli ottimisti a prescindere. Penso che ci sarà un successo ma richiederà un grande impegno da parte nostra, così come accade in tutte le democrazie occidentali. Il modo peggiore di affrontare questa battaglia è di pensare che la vittoria sia certa e il fatto che lo pensi la maggior parte dell’opinione pubblica rientra in quello schema del 2006, quando c’era la coalizione guidata da Prodi data per favorita e alla fine si scoprì un Berlusconi in piena rimonta. Il problema è che siamo un po’ pigri e tendiamo a guardare il presente con le lenti del passato. Il Berlusconi del 2013 è giocoforza diverso da quello del 2006, del 2001 o del 1994, ma noi continuiamo a guardarlo come fosse sempre uguale a se stesso. Intorno a noi però l’Italia è cambiata».
E lei come lo vede il futuro sulla base di questo diverso presente?
«Prevedo una campagna elettorale combattuta, senza particolari differenze dalle campagne elettorali tedesche, francesi e americane: siamo tendenzialmente polarizzati anche se alla luce dei processi politici messi in atto a tutt’oggi vedo la coalizione di Bersani favorita».
Si riferisce alle primarie?
«Le primarie per la leadership sono state un primo processo di partecipazione democratica che ha permesso a milioni di italiani di scegliere il proprio candidato. Poi, ci sono state quelle per i parlamentari e questi sono i due fatti che costituiscono il cuore della proposta politica di Bersani: “siamo persone serie che fanno quello che dicono”. Il Pd, restando in vigore il Porcellum, ha fatto scegliere ai cittadini italiani, e non solo ai suoi iscritti, i propri parlamentari, nonostante il poco tempo a disposizione. Si è trattato di un’iniziativa civica che ci ha dato buona salute ma non per questo possiamo stare tranquilli».
Tanto che in questo schema il centro montiano sarà inevitabilmente l’ago dela bilancia.
«Questo lo si dirà solo alla conta dei voti, certamente il tipo di legge elettorale rende possibile una maggioranza instabile al Senato, o quantomeno da formare. Ma al di là di questo aspetto c’è una riflessione dal punto di vista strategico che Bersani fa da quando è stato eletto segretario: il Pd ha il compito di essere il perno riformista di una coalizione di centrosinistra che deve rinunciare a ogni atteggiamento settario o pretesa di autosufficienza. Lo dice dal 2009 e non è colpa nostra se qualcuno se ne accorge solo ora: essendo consapevoli della gravità della crisi italiana, non solo economica ma anche etico-civile, sappiamo che è necessario un atteggiamento dialogante con tutte quelle forze di centro, moderate, di segno costituzionale ed europeista. Noi dobbiamo sconfiggere tutti i populismi, quelli vecchi di Berlusconi e della Lega; quelli nuovi, di Grillo e quelli giustizialisti alla Di Pietro e ora alla Ingroia. Non so se ce la faremo ma è l’obiettivo della nostra coalizione».
Monti è tornato sulla divisione tra destra e sinistra. Ha detto: «Dio ce ne scampi». Lei che ne pensa?
«Noi dobbiamo scampare dal trasformismo, dall’elitarismo e dalla presunzione che le carte in democrazia si distribuiscono per grazia ricevuta. Non funziona così. Destra, centro e sinistra sono categorie che esistono in tutte le realtà occidentali. Chi sostiene che non ci sono più, o non devono più esserci, sta facendo un discorso tipico della destra liberale. Negare la distinzione vuol dire confondere le idee, nasconderne le differenze, per mettere gli uni e gli altri nel mucchio del “tutti uguali”. Il riformismo non è una categoria neutra in quanto esistono riforme di destra e di sinistra, ma questo gli italiani lo sanno. La nostra è una proposta larga e generosa di carattere popolare e riformista incentrata sul lavoro e su una maggiore giustizia sociale e quanto più riuscirà ad affermarsi tanto più l’Italia intorno a Bersani riuscirà a riprendere forza civica e slancio economico. Questa è la nostra sfida».

il Fatto 13.1.13
Caccia al voto
La politica non si fa (più) in Parlamento
di Furio Colombo


Qui non si parla di politica o di alta strategia. Qui si lavora”. Credo che in pochi riconosceranno l'origine di questa frase, che era un pericoloso cartello di avvertimento in ogni luogo pubblico durante la guerra fascista. Nel momento in cui scrivo è una perfetta descrizione del Parlamento che è stato appena sciolto. Ma anche del lavorio infaticabile e intenso, degli scontri e incontri e incroci e ripulse e improvvisi ritorni di legami perduti che la preparazione del nuovo Parlamento attraverso la composizione delle liste elettorali. Quelle che sono già disponibili sono lì a dimostrare ciò che sto dicendo: liste di dirigenti, di quadri e di impiegati per future imprese parlamentari che devono produrre con disciplina certi prodotti. Le liste che non ci sono ancora dimostrano quanto sia difficile mettere insieme persone efficienti, sottomesse, laboriose, fingendo di accumulare talenti.
OGNI LISTA ha i suoi ornamenti o i suoi pezzi di antiquariato, un po’ come esporre nell'atrio della ditta il primo macchinario con cui era cominciata l'impresa. Per il resto, personale di fiducia, che non alzi la testa. Qui mi scontro – lo so – con la diffusa persuasione che “il Parlamento non lavora”. Il Parlamento, salvo quando subisce gravi incidenti di percorso, come è accaduto nella lunga agonia dell'ultimo governo Berlusconi, lavora moltissimo, ma non per fare politica. Quando si dice ‘di questo discuterà il Parlamento’, non si dice niente. Il Parlamento produce con alacrità atti amministrativi fatti di labirintici commi ed emendamenti, il cui senso e le cui conseguenze sono chiari solo ai committenti e ai destina-tari.
Molto dipende, naturalmente, dal rapporto fra Parlamento e governo. Il Parlamento, quando è guidato da Monti, lavora intensamente ad approvare in fretta, quasi senza discutere, ciò che è stato deciso in materia economica, per ragioni di emergenza (vera emergenza provocata dall’incompetenza e tendenza a mentire di Berlusconi). L'ultimo governo “generalista” del Paese (nel senso che voleva, allo stesso tempo, produrre alcuni risultati tecnici e alcuni fatti politici) è stato il governo Prodi. Poi è diventata abituale la totale assenza del dibattito politico, salvo stentorei discorsi di parti e controparti ogni due o tre mesi, su questioni gravi, come i diritti umani, la scuola, il lavoro, la pace, questioni che non hanno mai avuto in Parlamento né un prima né un dopo. Dunque sono privi di fondamento quei “rating” che assegnano ai vari parlamentari gradi di “produttività”. Lo sono perché non si domandano “produttività” di che cosa?
STO DESCRIVENDO, temo in modo accurato, un Parlamento che sta alla larga dalla politica e in cui un parlamentare non può prendere alcuna iniziativa politica da solo tranne che parlare a un'aula vuota, una volta esaurito l'ordine del giorno alla cui compilazione non partecipa. Allora dov'è la politica? Come abbiamo visto il percorso verso il governo non serve. Se un governo ha interesse a non fare politica (per esempio per non compromettere una coalizione, si pensi alle “coppie di fatto”) il Parlamento rimane afasico. Infatti c'è il regolamento, stravagante, rigoroso e invalicabile delle Camere. Stabilisce che un parlamentare, persino nella o nelle Commissioni di cui fa parte, può presentare un’interrogazione solo tramite il rappresentante del suo gruppo. Stabilisce che il deputato o senatore possono proporre tutto quello che vogliono. Non arriverà mai in aula (e il parlamentare proponente non potrà parlarne in aula) fino a quando il suo gruppo, cioè il partito con cui è stato eletto, non darà il permesso . Il più delle volte non accade mai. Dunque se cercate dove comincia e dove finisce la politica (e dove si esercita o si azzera la “produttività” politica) la freccia punta ai partiti. Ed è qui che un segugio indagherebbe per rispondere alla domanda: che fine ha fatto la politica? L'indagine può cominciare benissimo dalle nuove liste elettorali che si sono composte o si stanno componendo, e ai partiti (ai loro leader) che le hanno volute. Ognuno ha cercato uno o due personaggi di valore estranei all'organizzazione, ma destinati a ornare il salotto, a depositare un discorso o una memorabile intervista e a togliere il disturbo. Ma ha voluto soprattutto numerose e ben distribuite pattuglie di lavoratori che al momento giusto restano in attesa dell l'input, qualunque esso sia (andare avanti, tornare indietro, accordarsi o scontrarsi per ragioni che non sempre vengono condivise) o anche solo spiegate).
COME ESEMPIO pensate alla scelta Pd del dottor Galli, già direttore generale di Confindustria, dato come probabile ministro del Lavoro a nome del partito che ospita il candidato ed ex ministro del Lavoro Damiano. A Damiano non si è potuto dire di no e far finta che non esista, come è accaduto al deputato Sarubbi (che si era ostinato a parlare di politica, di diritti umani, e non di Eni, al tempo del trattato con la Libia) e in due, oltre ai Radicali, avevamo votato no. Ma la sua presenza è saggiamente compensata e “coperta” dal dottor Galli per non correre il rischio di “ali estreme”. Come esempio prendete Paola Binetti e osservate dove l'ha collocata il nuovo mondo di Monti: due volte capolista in punti essenziali delle nuove liste per rassicurare chi deve essere rassicurato sui valori non negoziabili. Sono solo due lampi nel buio, ma servono per dire che la politica ha un suo unico luogo, i partiti. Ma i partiti, anche quelli rispettabili, hanno deciso di tenersi le mani libere “per negoziare”. Negoziano risultati che hanno a che fare con il potere, non con i cittadini. I cittadini restano soli e, di tanto in tanto, sono accalappiati nella rete di decisioni che non si sa se siano buone o cattive perché sono indecifrabili. Si sa che sono pesanti, che cambiano la vita di molti. Sarebbe importante discutere di tutto ciò in politica. Ma quale politica?

l’Unità 13.1.13
Santoro-Berlusconi, tutto fa spettacolo
di Francesco Benigno


RECENTI RICERCHE ARCHEOLOGICHE HANNO RIVELATO CHE IL COLOSSEO un tempo era a colori e che le scene che facevano da sfondo ai trucidi combattimenti dei gladiatori erano dipinte di rosso e di giallo ocra. Anche le corride, dove si sparge (sempre) il sangue di poveri tori e (raramente) di incauti toreri, hanno quei colori ricorrenti: il rosso, la tinta della carne ferita e il giallo, il colore del sole splendente. Sangue e arena. Amore e morte. Come dire, l’estremo che racchiude il segreto della vita.
Nel nostro piccolo (grande) mondo virtuale l’altro giorno ben nove milioni di italiani hanno assistito al Grande Match, autorappresentato come corrida o come duello alla morte, stile Sfida all’Ok Corral. I duellanti, o meglio gli attori protagonisti erano eccezionali in sé ma ancor più nel loro imprevedibile mescolarsi: come il diavolo e l’acqua santa, il frac e il perizoma, o i bigné e le cotiche. Imprevisto questo incontro, ma anche lungamente  atteso, del genere la vendetta che cova lungamente come il fuoco sotto la cenere per poi rivelarsi incandescente, o come il destino che ricongiunge il tiranno e il reprobo, il calunniatore e la vittima. In scena dunque, o sarebbe meglio dire starring, da una parte Toro scatenato, il Giornalista col dito puntato, il Zola de’ Noantri, l’affabulatore non sempre lucido ma comunque appassionato e soprattutto scafato, aiutato dal suo insidioso pacchetto di mischia: l’Inquisitore sferzante e documentato, con la sua ironia acre e proterva, e due giovani dame nibelungiche, dal biondo crine ma dotate di accuminato spadone. Dall’altra parte dell’emiciclo vi era invece nientepopodimeno che The Joker creduto morto ma redivivo, nella parte di «colui che ritorna», il clownstatista che rivela a piacere presunti complotti di stato e piccanti segreti familiari, il pifferaio magico che incanta, il leone che ruggisce ancora.
Fu vera sfida? Agli spettatori l’ardua sentenza. Forse no, almeno a giudicare da un particolare. A un certo punto The Joker fa una genialata, si siede al posto dell’Inquisitore e, assumendo le sue pose, prende a recitare una letterina velenosa che gli fa il verso, ricordandone le varie condanne civili per diffamazione. Niente di strano, apparentemente. In una sfida così, all’ultimo sangue, tutto dovrebbe essere lecito, anche i colpi sotto la cintola. Ma ecco Toro scatenato saltar su a dire che così non va, che i patti non sono stati rispettati, che si doveva parlare di IMU e non di processi. Situazione surreale: è come se in un incontro di Wrestling John Cena dicesse a Rey Misterio che certi colpi non si possono portare, che sono state violate le regole... ma quali regole? Lì l’unica regola è che tutto quanto fa spettacolo...
Ma soprattutto, al di là degli attori, la Grande Tenzone è stata significativa perché ha messo in scena lo scontro di due retoriche, di sue narrazioni opposte e apparentemente inconciliabili, anche se temporaneamente accomunate dalla criminalizzazione del governo Monti: da una parte la tele-indignazione che si fa spettacolo e diventa perciò intrattenimento, indignaiment; e dall’altra la tele-promozione, la vendita di un futuro rassicurante, la protezione dal pericolo incombente: le orde di cosacchi rossi che minacciano di abbeverare i loro cavalli sulle rive del Tevere.
Servizio pubblico: bella parola, forse parola grossa. Un servizio pubblico non dovrebbe per caso aiutare la gente a capire, e perciò a concepire la politica non come spettacolo, fuoco d’artificio, ma come la difficile arte di occuparsi della cosa pubblica? Non dovrebbe significare dare spazio a ragionamenti necessariamente (almeno un po’, per quel che la televisione consente) complessi e a diverse visioni del futuro possibile? Non dovrebbe significare aiutare gli elettori a orientarsi nell’offerta politica mettendo alle strette i contendenti e obbligandoli a dire prima quali saranno le proprie scelte di governo domani? Certo, nella società della piazza globale non possiamo tornare a Tribuna politica, la paludata trasmissione d’antan dove si parlava solo in politichese stretto. Ma da qui alla sceneggiata napoletana (oggi si chiama reality show) ce ne corre. Servizio pubblico: ce ne sarebbe davvero bisogno.

l’Unità 13.1.13
L’esultanza del Pdl: «Grazie Michele»
All’indomani dello show del Cavaliere da Santoro parlamentari e giornali berlusconiani inneggiano alla rimonta e ringraziano lo storico nemico
di Giuseppe Vittori


Berlusconi cammina un metro da terra dopo Servizio Pubblico e il duello incrociato con gli storici avversari Santoro e Travaglio. È talmente convinto di aver svoltato che fa quasi fatica, adesso, a tenere a bada le liste collegate non più convinte neppure di arrivare a quel 2% necessario per piazzare qualcuno in Parlamento. Berlusconi si prende tutto, è il tormentone di queste ore in via dell’Umiltà mentre scade il tempo per presentare simboli e coalizioni e quindi decidere in che modo apparentarsi. La rappresentazione plastica di questo ritrovato e insperato stato d’animo è la prima pagina de Il Giornale di ieri. «È rimonta, grazie Santoro» titola a nove colonne il giornale di Sallusti. «Cosicché Berlusconi non solo è risorto ma è tornato ad essere il mattatore dei tempi migliori (quelli del 1994) sconvolgendo equilibri politici che avevano dato l’impressione di essere inalterabili», scrive Feltri, che riconosce «azzardato» un paragone con il 1994, quando il novello Cavaliere fece inceppare «la gioiosa macchina da guerra» di Occhetto. E però «una cosa è sicura: battere il redivivo Silvio il 24 e il 25 febbraio non sarà uno scherzo».
Insomma, l’incubo del cappotto alle prossime politiche sembra evitato. Sembra a portata di mano, al di là dei surreali gridi di vittoria, una buona seconda posizione. Accettando finalmente il contraddittorio e in una fossa dei leoni come Servizio Pubblico, il capo della coalizione si è mostrato vivo e scalciante. Altra cosa poi è la credibilità del leader politico.
Di fronte alle grida di successo dei berluscones, resta il mistero di una trasmissione che da una parte era l’occasione attesa da anni per pareggiare conti in sospeso come l’editto bulgaro che costò a Santoro la cacciata dalla Rai. E dall’altra doveva essere il luogo dell’affossamento definitivo del leader politico Berlusconi. Che infatti, al di là dei poco elevati gesti da showman, tipo quello di pulire la seggiola dove si era seduto Travaglio, è sembrato bolso e confuso. Ma che tutti danno per vincitore del duello. I contenuti poi sono un’altra cosa. Ed è infatti a questi che si è dedicato ieri Travaglio su Il Fatto che ha titolato: «Santoro, boom di ascolti. Berlusconi: boom di bugie». «Tentare di racchiudere vent’anni di orrori in due ore e mezza di trasmissione televisiva sarebbe stato oltreché impossibile, inutile» scrive Travaglio. «La tecnica di Berlusconi è nota: un cocktail micidiale di logorrea, menzogna e vittimismo che mette a dura prova anche il più scafato intervistatore». Il problema è che le bugie, tantissime, anche l’altra sera sono riuscite tutto sommato a galleggiare.

l’Unità 13.1.13
Adozioni gay, lo stop del Vaticano
Dura presa di posizione della Santa Sede contro la sentenza della Corte di Cassazione. «I bambini non sono merce». Avvenire: «Decisione ambigua»

Il legale della famiglia: «Per il bambino questa è la condizione normale»
di Saverio Franco


ROMA «L’adozione dei bambini da parte degli omosessuali porta il bambino a essere una sorta di merce». Lo afferma il presidente del dicastero vaticano per la famiglia, arcivescovo Vincenzo Paglia. Non si può considerare, spiega alla Radio Vaticana senza citare in alcun modo la sentenza di ieri della Corte di Cassazione, che ieri ha affidato il figlio a una madre di Brescia che vive con la sua compagna, che «come ho diritto a questo, ho diritto anche a quell’altro».
In realtà, sottolinea il capo dicastero del Vaticano, «il bambino deve nascere e crescere all’interno di quella che, da che mondo è mondo, è la via ordinaria, cioè con un padre e una madre. Il bambino deve crescere in questo contesto». E se può accadere di nascere con un solo genitore, si tratta di «situazioni drammatiche», che non fanno testo. «Inficiare questo principio infatti è pericolosissimo, per il bambino anzitutto, ma per l’intera società».
Per la verità la prima risposta ufficiale della Chiesa è arrivata da Avvenire quotidiano della Cei: «Una sentenza ambigua che crea sconcerto», scrive il quotidiano. «Per esperienza comune di ogni essere umano continua il giornale la nascita di un bambino scaturisce dall’unione tra un uomo e una donna, comporta la cura e l’allevamento da parte dei genitori» E aggiunge: «Il punto più sconvolgente della pronuncia, quando considera il bambino come soggetto manipolabile, attraverso sperimentazioni che sono fuori dalla realtà naturale, biologica e psichica, umana e che non si sa bene quanto dovrebbe durare». Secondo Avvenire la sentenza di piazza Cavour, motivata dal fatto che non è dimostrato che «l’equilibrio di un bambino ne risenta se viene cresciuto da una coppia omosessuale», lascia stupefatti quando cancella tutto ciò che l’esperienza umana, e con essa le scienze psicologiche, ha elaborato e accumulato in materia di formazione del bambino».
È, quest’ultimo, lo stesso concetto su cui insiste l’Osservatorio dei diritti dei Minori che la definisce una «sentenza shock». «Non si capisce di cosa parli la Cassazione quando afferma che non esistono certificazioni scientifiche attestanti l’inidoneità dei gay ad adottare dice l’Osservatorio -. D’altro canto non è la prima volta che la Suprema Corte stupisce con sentenze scioccanti, come alcune relative alla violenza sulle donne», rileva in una nota Marziale che è anche consulente della commissione parlamentare per l’Infanzia».
Di tutt’altro avviso Paola Concia, esponente del Pd, che si chiede «quale sia il senso di umanità dei vescovi che mettono in discussione che un bambino possa continuare ad avere una continuità affettiva con una madre omosessuale. Non riesco a vedere il senso di umanità del vescovo. Il vescovo è più interessato a portare avanti una battaglia ideologica o al sano sviluppo di una bambino e di una bambina che deve crescere sereno in una famiglia?». E proprio in merito alla sentenza aggiunge: «Questa sentenza della Cassazione non fa altro che registrare la realtà, ovvero che un bambino può crescere normalmente in una famiglia omosessuale. L’orientamento sessuale non ha influenza sullo sviluppo psicofisico del bambino. La sentenza è di buonsenso. I bambini che vivono in situazioni di mono genitorialità devono poter crescere con gli stessi diritti dei bambini figli di coppie eterosessuali».
In effetti, ha spiegato l’avvocato Raffaella Richini, legale della donna omosessuale che ha ricevuto l’affido esclusivo del figlio, «lo scalpore di questa sentenza ha stupito me e la mia assistita perché il bambino vive serenamente la situazione perché per lui è la normalità. La mia assistita si è battuta per dimostrare di essere una buona madre. Questa sentenza mette la parola fine alle sofferenze». «Purtroppo ha detto ancora l’avvocato il bambino ha assistito a episodi di violenza che hanno in qualche modo preoccupato la madre e questi fatti sono stati decisivi per la decisione della Cassazione. Al padre non è mai stata negata la possibilità di partecipare alla vita del figlio, ma non ha mai accettato di seguire un corso di educazione alla genitorialità come richiesto dagli assistenti sociali» Infine una considerazione sulla sentenza: «L’omosessualità della madre non è stata assolutamente rilevante, non ci aspettavamo queste polemiche».

il Fatto 13.1.13
L’acquisto di armamenti
Dal walfare al warfare così lo Stato si indebita
di Daniele Martini


L’ACQUISTO DI ARMAMENTI AVVIENE IN SORDINA. SI SFOGLIA UN DEPLIANT E SI SCEGLIE IL MODELLO DI AEREO O ELICOTTERO, SILURO O SISTEMA DI PUNTAMENTO. TUTTO È PRESENTATO CON IL CODICE ROSSO DELL’EMERGENZA, IL VOTO DEL PARLAMENTO È SOLO CONSULTIVO

Dal welfare al warfare. In sordina, il più possibile lontano dai riflettori, ma con un’accelerazione recente, l’Italia da paese che impegna le sue forze per la protezione sociale e il benessere (welfare), sta diventando uno Stato che si indebita per le armi (warfare). Lo smottamento avviene a colpi di sterzate decisioniste, con un sistema che tra il serio e il faceto nel-l’ambiente è chiamato il “depliant”, come quegli opuscoli consegnati nelle agenzie di viaggio per invogliare i clienti a prenotare le vacanze o i volantoni dei supermercati con le offerte di pelati e braciole. Con il depliant delle armi, l’Italia ha comprato costosissimi sistemi d’arma, aerei, elicotteri, sottomarini, la bellezza di 71 programmi di armamento, a colpi di 3 miliardi e mezzo di euro all’anno, a volte anche 4, senza contare gli investimenti di difficile quantificazione inseriti nel bilancio del ministero dello Sviluppo economico.
SOLDATO DEL FUTURO, MA QUANTO MI COSTI?
L’elenco delle spese è impressionante. In prima fila ci sono i soliti F-35, i cacciabombardieri della Lockheed Martin, e la cosiddetta Forza Nec, cioè il soldato robotizzato del futuro. Per entrambi l’Italia ha già preso impegni e speso quattrini, anche se non c’è ancora una decisione definitiva. Entrambi implicano un impegno finanziario stratosferico, circa 13 miliardi di euro ciascuno di spese vive, cioè per l’acquisto puro e semplice, senza contare gli annessi e connessi che sono altrettanto impegnativi, dalla manutenzione alla sostituzione di componenti. Per gli F-35, per esempio, i tecnici calcolano che la fase post acquisto sia addirittura più costosa dell’acquisto stesso, nell’ordine di due volte e forse anche tre. In pratica con gli F-35 nei prossimi 20 anni l’Italia dovrebbe mettere sul piatto una cifra che volendo stare bassi verosimilmente oscilla tra i 25 e i 40 miliardi di euro. Gli Stati maggiori sostengono, però, che una quota di queste spese avrebbe un ritorno positivo sull’industria e il lavoro italiani, ma è vero solo in minima parte. La Rivista Italiana Difesa, molto vicina agli ambienti militari, tempo fa arrivò addirittura ad annunciare il raddoppio dello stabilimento Faco di Cameri dell’Alenia (Finmeccanica) sostenendo che sarebbe stata assemblata lì parte dei velivoli destinati alle forze armate americane. Ma non è così e la stessa Lockheed Martin interrogata in proposito ha precisato ufficialmente che “tutti gli F-35 per gli Stati Uniti sono programmati per essere fabbricati a Fort Worth, Texas”. Punto. Con Forza Nec ci sono i prodromi perché si verifichi qualcosa di simile. Le pressioni della “lobby del fante” perché il programma proceda sono molto forti, anche nel rispetto di una specie di manuale Cencelli delle spese militari: un tot ad Aeronautica, un tot alla Marina, un tot all’Esercito e ai programmi Interforze. L’Esercito, ovviamente, non vuol restare indietro e insegue un equilibrio per impedire che Marina ed Aeronautica facciano la parte del leone, necessitando entrambe di sistemi sofisticati e tecnologicamente avanzati e quindi più costosi. Aerei ed elicotteri, in particolare, costano un occhio della testa. Per esempio gli elicotteri Nh 90 prodotti in cooperazione con Francia, Germania e Olanda comportano una spesa complessiva fino al 2018 di quasi 4 miliardi di euro, gli elicotteri dell’Esercito Etm 1 miliardo e gli Eh 101 un altro miliardo ancora. Gli aerei da combattimento Eurofighter 2000, costruiti insieme a Germania, Inghilterra e Spagna, costano 18 miliardi fino al 2018, l’ammodernamento fino al 2015 dei Tornado 1,5 miliardi, 4 Boeing 767 rifornitori un altro miliardo.
Per Forza Nec il soldato del futuro non c’è un punto fermo, ma si va avanti lo stesso, forse per precostituire le condizioni perché anche volendo non si possa tornare indietro. Sono stati impegnati oltre 600 milioni di euro ed è stato firmato un contratto del valore di 238 milioni con Selex sistemi integrati (ancora Finmeccanica) a cui sono interessate anche altre aziende italiane: Galileo, Elsag, Oto Melara, Agusta Westland, Mbda Italia, Iveco, Engineering, Impresa soldato futuro. Il criterio del fatto compiuto viene invocato anche per i costosissimi sottomarini U 212 Todaro (Fin-cantieri più il consorzio tedesco Arge). Due sono già in esercizio e sono stati pagati 1 miliardo di euro, uno è in costruzione e per il quarto che non è stato neanche abbozzato, dalla Difesa si affrettano a sottolineare che rimangono da pagare “solo” 300 milioni, come dire che non si può fare marcia indietro. Nel frattempo sono stati stanziati 90 milioni per armare quei sottomarini con “siluri pesanti”. Questa estate Il Fatto si è imbattuto per caso in un altro gigantesco affare di compravendita di armi comunicato ufficialmente con un ermetico testo di poche righe.
DUE “FERRARI” DEI CIELI GULFSTREAM 5 COMPRATI IN ISRAELE
Per sostituire un aereo pattugliatore in esercizio nella base di Pratica di Mare e preso in affitto, la Difesa sta spendendo più di mezzo miliardo di euro per l’acquisto da Israele di due Gulfstream 5, aerei americani considerati come Ferrari dei cieli. L’operazione prevede che Alenia-Aermacchi (sempre Fin-meccanica) fornisca a Israele 30 jet M 346 per l’addestramento dei piloti israeliani. Israele, però, venderà all’Italia un satellite spia Ofek che costa oltre 800 milioni di euro. La cosa davvero sorprendente è che tutto questo arce no, l’aereo o il sottomarino si compra lo stesso, perché il voto ha valore solo consultivo. È sorprendente che le spese per la Difesa siano stabilite con questi criteri abbastanza disinvolti. Perché se è vero che qualsiasi paese non può fare a meno di spendere per difendersi, così come del resto è previsto anche dalla Costituzione italiana, è anche vero che ovunque quelle spese vengono passate ai raggi X. Qui, invece, sembra una prerogativa degli stati maggiori tutt’al più d’intesa con il ministro di turno. Se poi il ministro è un militare, come l’ex capo di Stato maggiore della Difesa Giampaolo Di Paola, cresce il rischio di una autorefenzialità in divisa. Forse in futuro le cose potrebbero cambiare grazie al cosiddetto lodo Scanu (da Giampiero Scanu, deputato Pd), un articolo della riforma della Difesa che introduce l’obbligo da parte degli stati maggiori e del ministero di presentare una documentazione un po’ più seria concedendo al Parlamento un voto vincolante.
20 MILIARDI IN 5 ANNI
“Dentro” i resoconti degli atti delle Camere
LA CIFRA è imponente, dispiegata nei quattro anni della legislatura appena trascorsa (governo tecnico escluso) e suddivisa nei vari programmi d'arma (terrestri, aerei, interforze). Tirando le somme, attraverso i resoconti degli atti parlamentari (i pareri non vincolanti sui decreti del Ministro della difesa espressi dalla commissione competente), si sfiorano i 20 miliardi di euro. A tanto ammonta infatti, la spesa approvata per portare a termine l'acquisizione dei “sistemi d’arma, delle opere e dei mezzi direttamente destinati alla difesa nazionale”, soldi da rintracciare ogni anno nel bilancio ordinario dello stato. Si passa dai 2,4 miliardi di euro nel 2008, ai 502 milioni del 2011. L'anno record però, è il 2009, con ben 15,3 miliardi di euro messi in conto. La spiegazione è nei 13 miliardi previsti per l’acquisto dei velivoli JSF, i famigerati caccia F-35. Ma si contano anche i 605 milioni per il “progetto multinazionale relativo al futuro sistema federato di satelliti europei ed alla realizzazione di due satelliti Cosmo SkyMed. Nel 2010 le spese approvate sono invece calate sensibilmente, attestandosi poco sotto il miliardo di euro (934 milioni), la maggior parte dei quali destinati all’acquisto di “10 elicotteri di categoria media con funzioni Sar (Search and rescue)” e di “32 sistemi di osservazione e acquisizione obiettivi (OTS) e altrettanti sistemi anti-carro di terza generazione”. É nel 2011 però, che si registra il dato più basso: 502 milioni di euro, di cui 198 destinati all’acquisto dei “Veicoli tattici leggeri multiruolo (Vtlm).

il Fatto 13.1.13
“Banche armate”
Pallottole e conti correnti
di Salvatore Cannavò


Non con i miei risparmi”. È lo slogan che, almeno dal 1996, anima le associazioni, prevalentemente cattoliche, che si oppongono ai rapporti tra il commercio delle armi e il ruolo delle banche. La campagna ideata dalle riviste Missione Oggi, Nigrizia e Mosaico di Pace si chiama infatti “Banche armate” e mette in luce quali intrecci esistano tra gli istituti di credito, a stretto contatto con milioni di persone, e il traffico di armi.
I DATI di cui parliamo, riferiti al 2011, sono nella Relazione del ministero dell’Economia e delle Finanze sulle operazioni autorizzate agli istituti di credito in Italia per l’export di armi. La cifra complessiva è di oltre 2,3 miliardi, importi che, nella grande maggioranza, sono appannaggio di gruppi stranieri. Al primo posto, infatti, c’è la Deutsche Bank con operazioni per 664 milioni, pari al 27,85% del totale, ma dopo la fusione tra Bnp Paribas e la Bnl il gruppo parigino sale in testa con 714 milioni di euro e una quota sul totale del 29,94%. Al terzo posto la Barclays bank con 185 milioni e il 7,75% del totale e a seguire ancora una banca francese, il Crédit Agricole, con 174 milioni, pari al 7,32 per cento dell’ammontare complessivo. Questi quattro istituti dispongono del 72,86% del totale dei flussi autorizzati e certificati dal ministero, relativi ai conti correnti su cui il cliente colloca i guadagni effettuati vendendo armi all’estero. Si tratta quindi di un ruolo di supporto e non di un interesse diretto delle banche. È proprio questa la funzione, però, additata da “Banche armate” come negativa e lesiva del diritto di un risparmiatore anti-guerra a non vedere i propri risparmi mescolati ai profitti di chi commercia in armi.
TRA LE BANCHE italiane, invece, spicca l’Unicredit, con 169 milioni e il 7,09 per cento del totale mentre l’altra grande banca italiana, Intesa Sanpaolo, brilla per una percentuale pari a zero. Una decisione presa dall’azienda presieduta da Giovanni Bazoli nel 2007: “Il Gruppo Intesa-Sanpaolo sospende definitivamente la partecipazione a operazioni finanziarie che riguardano il commercio e la produzione di armi e di sistemi d’arma, pur consentite dalla legge 185/90” spiegava allora una nota del gruppo ricordando “i principi espressi nel codice etico” dell’azienda. Se ne avvantaggiano gli istituti più piccoli, insediati nei territori dove operano le fabbriche d’armi. Come il Banco di Brescia (che fa parte di Ubi Banca) che con il 5,02% gestisce flussi pari a 120 milioni di euro. A seguire, un’altra bresciana (zona in cui si trovano fabbriche come la Beretta o la produttrice di mine Valsella), la banca cooperativa Valsabbina con 67 milioni e il 2,81 per cento oppure la Cassa di Risparmio della Spezia, che fa riferimento al gruppo Crédit Agricole (con il 2,18% del totale). Per quanto riguarda le altre, a parte la Banca Popolare del Commercio e Industria (1,982), e il Banco di Sardegna (1,08) sono sotto l’1 per cento.
DOPO IL PICCO del 2009 (3,8 milioni di euro), il valore dell’export definitivo di materiale di armamento autorizzato dal Mef è in continuo calo: dai 3 miliardi del 2010 ai 2,38 del 2011. Il balzo lo compiono le autorizzazioni per operazioni di importazione definitiva (635 milioni contro 225 del 2010) e quelle per importazioni temporanee con 843 milioni contro i 187 del 2010. In tasca agli intermediari sono finiti 113 milioni di euro.

il Fatto 13.1.13
Il nostro export anti crisi
Fucili a Gheddafi. Via Malta
di Chiara Daina


In Europa, mentre la crisi si mangia qualsiasi settore del mercato, il business delle armi rimonta: con il 18,3% in più di autorizzazioni per esportazioni belliche, che hanno fruttato oltre 37,5 miliardi di euro, si lascia alle spalle la contrazione subita nel 2010. E i clienti principali sono diventati i Paesi del Medio Oriente, non più gli Stati Uniti come in passato.
È QUELLO che emerge dal XIV Rapporto europeo sul traffico delle armi presentato lo scorso 14 dicembre di cui nessuno però sembra essersi preoccupato. Nessun comunicato stampa, del Consiglio o del Parlamento dell'Unione europea, per dare conto dei risultati del 2011 sulle esportazioni di attrezzature militari. Silenzio assoluto. Eppure di attenzione ne meriterebbe. Soprattutto se si osserva che alcuni Paesi tra i maggiori esportatori mondiali di armamenti, come Gran Bretagna e Germania, fanno orecchie da mercante, non hanno cioè fornito alcuna cifra agli organismi europei. E che l'Italia cambia le carte in tavola. Secondo l'ultima relazione ufficiale del Governo al Parlamento italiano, infatti, l'Italia ha consegnato armi verso altri Stati per un valore di oltre 2,6 miliardi di euro. Sul rapporto europeo invece l'export di armi italiano vale solo un miliardo di euro. Ironia della sorte, un gioco di magia o cifre truccate? Di sicuro, c'è poca trasparenza. “La cifra segnalata all'Ue corrisponde alle esportazioni belliche a uso civile e sportivo (quindi non militare) riportate dall'Istat per il 2011” spiega Giorgio Beretta della Rete Disarmo. Quindi l'esecutivo Monti potrebbe aver tenuto nascosto all'Ue le armi militari vendute agli eserciti stranieri. Risultato: all'Algeria abbiamo fatturato 82 milioni di euro in armi contro gli 8,6 milioni dichiarati in sede europea; dall'Arabia Saudita, anziché 9,9 milioni ne abbiamo guadagnati 142. Dagli Emirati Arabi Uniti sono arrivati oltre 56 milioni e non 16. E così via. Ma non è uno stratagemma inventato dall'ultimo governo. “Anche con Berlusconi c'è stato lo stesso trucchetto - continua Beretta -: non segnalare all'Ue le specifiche tipologie di armi esportate e quindi sentirsi liberi di omettere una parte consistente dei guadagni”.
E POI LA SORPRESA : “Se l'Italia avesse comunicato all'Ue gli effettivi 2,6 milioni di euro di consegne - conclude Beretta - si piazzerebbe al secondo posto in Europa per esportazioni di armi, dopo la Francia (3,647 milioni) ma prima di Spagna (2,4 milioni) e Germania (1,2 milioni)”. Qualcuno se ne è accorto, come Augusto Di Stanislao, capogruppo Idv in commissione Difesa, da anni in prima linea nella battaglia contro le spese militari: “Il ministro Di Paola ha rivelato una smodata ambizione di farci diventare una potenza militare mondiale, contro l'art. 11 della Costituzione”. La legge 185/90 vieta la vendita di armi ai Paesi in conflitto. “Ma ignorando la distinzione tra armi civili e militari, non impedisce le triangolazioni” rimarca Stanislao. Il caso di Malta del 2009 è emblematico. “Più di 11 mila tra pistole e fucili semiautomatici furono spediti via Malta al colonnello Gheddafi – ricorda Rete Disarmo – e l’Italia non riportò all’Ue i 7,9 milioni ricevuti dalla Libia, attribuiti invece a Malta”. È una coincidenza se dal 2009 il nostro governo tace all’Ue la vendita di armi militari agli eserciti stranieri?

Corriere 13.1.13
New York, il voto dei pazienti cambia lo stipendio ai medici
Test negli ospedali: chi cura meglio guadagna di più
di Massimo Gaggi


NEW YORK — I medici che lavorano negli ospedali di New York sono impegnati in questi giorni in un duro negoziato — condotto dalla divisione sanitaria del grande sindacato dei servizi, il Seiu — per definire un nuovo sistema retributivo basato sui risultati ottenuti anziché sul volume dei servizi prestati. Si ipotizza anche che i pazienti possano dare un «voto» ai medici, influenzando in parte lo stipendio che percepiscono. E a ogni passaggio della trattativa sorge un'obiezione: «Non possiamo essere penalizzati quando un risultato deludente dipende anche dagli infermieri, dal livello di igiene di un reparto o dalla disponibilità di posti-letto». E molti altri critici, esterni alla trattativa, avvertono che tutti i criteri oggettivi di efficienza, in medicina possono essere facilmente aggirati: in buona o cattiva fede.
Una cartella clinica di un iperteso può essere «interpretata», se non alterata, scegliendo come dato di riferimento quello più basso tra i tre controlli giornalieri della pressione. Fino al solito problema di fondo: in teoria una sanità più efficiente aiuta il paziente perché dà risultati migliori a costi più bassi; in pratica il medico poco scrupoloso cercherà di evitare i pazienti con patologie gravi o croniche o quelli più poveri, che hanno maggiormente trascurato la loro salute. Discussioni annose che hanno fin qui ostacolato l'uso di criteri meritocratici anche in altri settori come la scuola, con gli insegnanti che rifiutano di farsi giudicare sui risultati sostenendo che chi lavora negli istituti di una zona povera, multiculturale o socialmente degradata è condannato in partenza rispetto a chi gli allievi li ha in quartieri ricchi e socialmente omogenei.
Ma il confronto avviato a New York dagli 11 ospedali pubblici della città è importante perché anticipa l'attuazione della riforma sanitaria di Barack Obama che tra meno di un anno introdurrà meccanismi di remunerazione degli ospedali basati su precisi «benchmark» di misurazione dei risultati clinici ottenuti. Certo, il sistema americano — basato su strutture sanitarie private e un meccanismo assicurativo misto, con lo Stato che copre chi ha più di 65 anni, i poveri e i veterani — è profondamente diverso da quelli dell'Europa e dell'Italia. È quindi impossibile fare paralleli, viste anche le profonde differenze filosofiche: la salute, che nella nostra visione è un diritto del cittadino, negli Usa è una responsabilità individuale. Ma l'esplosione dei costi della sanità, la tecnologia che moltiplica le possibilità terapeutiche e l'emergenza del deficit pubblico sono fenomeni paralleli sulle due sponde dell'Atlantico. Gli esperimenti in atto negli Stati Uniti vanno, quindi, seguiti con attenzione perché prima o poi finiranno per ispirare anche da noi interventi di ristrutturazione della spesa. Che in America, vale la pena ricordarlo, è molto più elevata e meno efficiente rispetto alle migliori esperienze europee. Ma proprio per questo gli Usa sono ora costretti a rimboccarsi le maniche.
Del resto l'unica rivoluzione dei costi attuata negli ospedali italiani, il pagamento basato sul cosiddetto «Drg» — il risultato di una cura anziché la mera somma dei costi dei giorni di ricovero, dei test clinici e delle terapie — è una metodologia americana: elaborata trent'anni fa all'università di Yale, è stata applicata dalle assicurazioni private americane, prima di arrivare anche da noi (Drg sta per «diagnosis related group»).
Ora anche il governo federale cerca di introdurre più parametri oggettivi nel definire i rimborsi di cure sempre più costose. Con Obamacare, la riforma del presidente, anche molti cittadini oggi non assicurati avranno la mutua, ma i costi elevati del sistema spingeranno sempre più nella direzione della partecipazione degli assistiti alle spese per la loro salute. Le mutue responsabilizzano i pazienti, promettendo al tempo stesso di dare loro gli strumenti — dati «online», applicazioni, guide al rapporto coi medici — per trasformarli in consumatori informati. Ma il potere contrattuale del malato davanti al medico resta limitato. La trattativa in corso tra medici, sindacati e ospedali si muove attorno a questo dilemma: come proteggere l'interesse del paziente garantendogli tutti gli esami necessari evitando la prescrizione di test inutili che servono solo a incrementare il fatturato dell'azienda ospedale. Un problema che si è posto anche da noi, perfino negli ospedali pubblici. E che nemmeno noi abbiamo ancora risolto.

Corriere 13.1.13
Riscoprire la calligrafia
Il computer sta uccidendo una pratica millenaria I mezzi elettronici andrebbero banditi dalle scuole
di Guido Ceronetti


A pprofitto di una lunga vacanza terapeutica in prossimità di un mare inodoro per tentare di migliorare la mia grafia manuale, con l'aiuto di un libretto che a dirlo aureo lo si segnala debolmente. Ecco qua: Scrivere meglio, edito da Stampa Alternativa & Graffiti nel 1998, autori Francesco Ascoli e Giovanni de Faccio, calligrafi. Quattordici anni fa appena, ma tra la sopravvivente comunicazione chirografica e l'uniformazione tecnologica totalitaria in atto, la distanza è già, irreparabilmente, senza misura. Come tardivo rimedio, cercate il prezioso volume sulle vie elettroniche (dai librai, figuriamoci) oppure richiedetelo a Archie Pavia, il recuperatore di «Novecento di Carta», in via Acqui 9 bis Roma, che vi trova tutto; mentre l'indirizzo mancante dell'Editrice ve lo surroga quello dell'Associazione Calligrafica Italiana, via Giannone 4 Milano, che dubito esista ancora. Pubblicava una rivista «Calligrafia» di cui possiedo un paio di numeri soltanto, ma chissà, buttiamo i dadi, se me ne arrivasse qualcosa?
Primo uso di Scrivere meglio: trarne istruzioni per rieducare i bambini in età scolare, stravolti, stuprati prematuramente da «compiuter» e telefonino e che gli sia vietato l'accesso alle morbosità digitali degli adulti. Imparare a scrivere una elegante d curvata e un riuscito accoppiamento di una doppia t, è molto meglio di un superbo videogioco d'abbrutimento. Mi ci sono messo perché, come per l'amore e il desiderio, per imparare a scrivere meglio l'età non conta. Io ho l'età di Fidel Castro, con la stilo a cartuccia avrò scritto più di diecimila lettere, eppure nel manuale Ascoli-de Faccio ho una quantità di grafie da invidiare e sperimentare. Godo anche della consulenza dell'amico svizzero Orio Galli, grafico satirico eccelso, che tiene corsi di scrittura per adulti dealfabetizzati in Ticino.
Tuttavia, a diciotto anni, nel 1945, diplomato in stenodattilografia, battevo accanitamente su più tastiere con nove-dieci dita; con meno dita e velocità calante batto ancora libri e articoli su portatile, e la faccenda dura da sessantasette anni. (Lutero mi presti il suo Ich kahn nich anders di Worms). Dalla prima Remington all'ultimo resto in lire, la scrittura meccanizzata su portatili ed elettriche è stata via via obbligatoria dovunque, anche nelle tende dei Tuaregh, con il suo popolo di adorabili dattilografe, paesaggio sonoro del XX secolo migliore della sega elettrica e del trapano del dentista.
Finché arrivò l'ordine perentorio dall'Occulto: Alt! Nelle generazioni industriali la fretta del cambiamento è sempre più forsennata. Nell'ignoranza del buono, si schiantano una dopo l'altra contro l'utopia del meglio. Non contano più neppure il trascorrere di un anno, di un mezzo anno. La durata media di ciascuna è l'età delle meduse. Oggi l'estensione del predominio elettronico è capillarmente quella del pianeta insieme ai suoi satelliti artificiali, e in questo Maelstrom di Poe vorticano tutto ciò che è stampa, lettura, scrittura, lavoro di mani, apprendimento, percezione. La risposta dei cerebri stressati è da un lato una pecorile acquiescenza, dall'altro l'illimitatezza delle depressioni.
Urge, dunque, riappropriarsi della scrittura manuale, della lettera imbucabile, dell'alfabeto e dei suoi caratteri, prodigio della creatività umana, del calcolo eseguito mentalmente. C'è ancora qualcuno cui piacerebbe vincere sul serio una guerra? I rimbecilliti del videogame, forse; non certo gli strateghi del Pentagono o d'Israele! La guerra sèguita a vivere, nel mondo, ma una volta cominciata entra in un irreversibile impotente disperato coma nel brodo del suo disonore. Poco più di cento anni dal War of the Worlds tramato dal genio di Wells, neppure più la guerra interplanetaria attira gli scrittori del genere, il cinema... Nell'insegnamento elementare la comunicazione elettronica dev'essere responsabilmente bandita, il riappropriarsi della scrittura vera partire di là. Ma temo si contino, maestre e direttrici didattiche tanto illuminate.
Il fondo della questione — vedo pensandoci — oltrepassa da un pezzo lo «scrivere meglio» magistralmente messo in luce dal libro, perché il problema essenziale è scrivere. Tenere corrispondenza, annotarsi tutto in un diario, amarsi scriventi (senza amore di sé non soffi neppure una candela), amarsi diversi proprio perché si scrive. Questo che faccio è un Sos disperato, perché senza l'uso costante della grafia manuale il regresso civile e umano delle nazioni può essere spaventoso. Il libro è aperto e indulgente anche per chi abbia pessima scrittura, e sia svogliato nel migliorarla, purché ne abbia una.

Corriere La Lettura 13.1.13
Parte da Crono e Zeus la nevrosi del parricidio
di Eva Cantarella


L' altro giorno la Banca mondiale ha messo su Twitter una serie di dati che fanno pensare al mondo fra le due guerre. Non ai totalitarismi, al riarmo, alla Grande Depressione, o al razzismo. No. A eventi più piccoli, schegge di singole vite. Quei dati della Banca mondiale mostravano quello che con orrenda espressione si chiama il global brain trade, il commercio mondiale di cervelli. L'Italia compare espressa graficamente in una punta minima di intelligenze in entrata e una lunga freccia in uscita.
Si sa, problemi di una generazione di ultimi arrivati e collettivamente diseredati, che tendono a uscire da un Paese per loro inospitale. Un deflusso compiuto in silenzio, senza proteste se non individuali, pensate dentro di sé come preghiere di rabbia che isolano, più che espresse a voce alta come argomenti che accomunano. Ma davanti a quella freccia del grafico, non ho potuto fare a meno di pensare a qualcosa che non c'entrava niente, eppure parlava in qualche modo all'Italia di questi anni. Il 1921, e Piero Sraffa. Quasi che la sua storia fosse rilevante per noi oggi, benché quasi tutto di quell'epoca fra la Grande guerra e la marcia su Roma suoni (e sia) così diverso da noi, oggi e qui.
Nel 1921 Sraffa era un ragazzo in visita a Londra, studente Erasmus ante litteram, quando un incontro cambiò la sua vita. Mary Berenson, moglie dello storico d'arte Bernard Berenson che si era rintanato in villa sulle colline di Firenze, lo presenta a John Maynard Keynes. Sraffa aveva 23 anni e veniva da una laurea a Torino con Luigi Einaudi, e prima ancora da un anno passato in divisa nelle retrovie del fronte. Keynes era allora trentottenne, non aveva ancora prodotto nessuna delle teorie che avrebbero cambiato il Novecento, ma il suo pamphlet sulle conseguenze economiche della pace ne aveva già fatto una rockstar intellettuale dell'epoca: un Nouriel Roubini del trattato di Versailles. Keynes soppesa quel ragazzo introverso, percepisce la sua forza mentale nascosta da qualche parte dietro i fitti capelli nerissimi. Per la sua serie Reconstruction in Europe, il dandy inglese decide di commissionare al piccolo venuto da Torino un articolo sui guai ben nascosti delle banche italiane. Apparirà l'anno dopo sull'«Economic Journal», poi ancora in versione semplificata sul «Manchester Guardian» (il «Guardian» di oggi). Alla seconda uscita, quando il ragazzo è ormai rientrato in patria, se ne accorgono i banchieri di Roma e Milano e si lamentano con Mussolini. Il capo del governo proprio allora sta cercando di salvare il Banco di Roma, operazione delicata, e perde le staffe. Detta un rabbioso telegramma non a Sraffa, ma a suo padre, definendo il lavoro del ragazzo «una diffamazione contro l'Italia». Sraffa junior risponde che è tutto basato sui fatti, verificabile, e non ritratta una parola. Aveva rotto la cappa di conformismo e sapeva bene che da quel momento per lui non c'era più nulla da fare. Con il Paese aveva chiuso. Alla fine Keynes lo prenderà sotto la sua ala, inventandogli dei lavoretti a Cambridge pur di tenerlo al riparo. Bibliotecario, poi redattore del giornalino universitario: Sraffa non avrebbe più lasciato il King's College e nel 1961 avrebbe ricevuto la medaglia dell'Accademia di Svezia, equivalente al Nobel per l'Economia formalmente istituito a partire dal 1969.
Il ragazzo impertinente che si sente esterno al sistema al punto da «diffamare l'Italia» all'estero; il rivolgersi al padre per tenere a freno il figlio; la fuga di cervelli. Ricorda qualcosa? In effetti, no. Non solo perché quella era una dittatura e questa è una democrazia. C'è dell'altro, Sraffa aveva fatto qualcosa che i giovani d'oggi — espressione proverbiale da vecchi — non fanno: si era infuriato anche più di Mussolini, si era ribellato con tutta la forza dell'intelligenza, e il puntiglio dei fatti.

Corriere La Lettura 13.1.13
Macché antipolitica, è iperpolitica
di Umberto Curi


Dietro le polemiche più furibonde rivolte contro i partiti e le istituzioni rappresentative c'è la pretesa assolutamente irrealistica che lo Stato possa risolvere qualsiasi problema P iaccia o meno, è destinata ad essere una protagonista — se non la dominatrice assoluta — dell'imminente campagna elettorale, come già lo è stata nel recente scorcio della vita nazionale. Detestata o invocata, criticata o esaltata, per riconoscimento unanime l'antipolitica è il nuovo soggetto che sta rubando la scena alle altre maschere della rappresentazione che celebra il suo rito supremo con le elezioni. Ma alla indiscussa centralità del fenomeno non corrisponde affatto una comprensione adeguata di quale ne sia la vera «natura», né di ciò che di essa è a fondamento, dal punto di vista storico e concettuale. L'equivoco principale scaturisce da quella preposizione, «anti», che suggerisce un'idea totalmente fuorviante, tale per cui essa tenderebbe a negare frontalmente la politica. Mentre un'analisi meno superficiale può far emergere un dato sorprendente, e cioè che ciò con cui abbiamo a che fare non è la negazione, ma al contrario una variante iperpolitica della politica.
Nel libro IX dell'Odissea Omero riferisce un episodio singolare. La nave di Ulisse ha raggiunto un'isola solitaria e sconosciuta. Come è consuetudine, viene inviata a terra una piccola delegazione di uomini, per ottenere informazioni sugli abitanti dell'isola. Passano le ore, ma dei compagni mandati in ricognizione non si ha notizia. Verranno ritrovati — illesi — qualche ora più tardi. A differenza di ciò che si temeva, gli abitanti dell'isola non li avevano accolti in maniera ostile. Al contrario, avevano condiviso il loro alimento abituale, i frutti del loto. «Ed essi — racconta Omero — non volevano più ritornare, e volevano invece restare là, insieme ai Lotofagi, a mangiare loto, dimenticando il ritorno». Nóstou lathéstai, «dimenticare il ritorno»: questo il pericolo più insidioso, fra le molte avversità affrontate da Ulisse e dai suoi compagni. Lo stesso pericolo, citando precisamente questo passo omerico, è indicato da Platone quale principio di degenerazione dell'individuo, nel passaggio dall'uomo oligarchico all'uomo democratico. All'origine del processo di degrado, il cui esito più compiuto sarà l'instaurazione della tirannide, vi è una «dimenticanza», non meno esiziale di quella che ha minacciato i compagni di Ulisse. Come costoro, scampati miracolosamente a mille disavventure, rischiano di vedere vanificato il progetto del ritorno in patria per una semplice «dimenticanza», allo stesso modo da una «dimenticanza» trae origine la degenerazione degli individui, e dunque anche degli Stati. In un altro contesto, Platone spiegherà più chiaramente quale sia il contenuto di un oblio così decisivo. Ciò che siamo irresistibilmente portati a di-menticare (letteralmente: a far «cadere dalla mente»), è quale sia la fonte da cui scaturisce la politica, e quindi anche quale ne sia il fondamento. La politica è un phármakon, e cioè — per rispettare rigorosamente l'irresolubile ambivalenza del termine greco — una medicina che intossica, un veleno che guarisce. Non è dunque, per restare non occasionalmente nel lessico farmacologico, una panacea, un toccasana capace di sanare ogni malattia, senza dar luogo ad alcun fenomeno collaterale. Si tratta, invece, di un rimedio limitato e imperfetto, necessario per fronteggiare la malattia dello Stato, ma al tempo stesso del tutto incapace di garantire una compiuta guarigione. Ciò che troppo spesso siamo portati a dimenticare — scrive Platone nel dialogo intitolato Politico — è che il mondo in cui attualmente viviamo è un mondo che gira alla rovescia, nel quale tutti i processi fisici, cosmologici e biologici si muovono in senso contrario, rispetto alla direzione originaria. Un mondo, soprattutto, che è caratterizzato dal fatto che Dio ha abbandonato la barra del timone, e perciò non ci conduce più al pascolo, orientando la vita dell'intera comunità. Non siamo dunque più «gregge divino», ma dobbiamo piuttosto «badare a noi stessi», senza più poterci affidare alla guida della divinità. Nella situazione di abbandono, e dunque di massima incertezza, nella quale attualmente ci siamo venuti a trovare, ci sono stati elargiti alcuni doni — primi fra tutti la tecnica e la politica — mediante i quali cercare di guadagnarci la nostra sopravvivenza. Pur essendo, fra tutte le technai, quella regia, fin dalla sua genesi la politica è solo questo: una medicina che intossica, un rimedio inevitabilmente parziale, un tentativo per compensare l'abbandono da parte di Dio.
Tutto ciò è altresì confermato dall'analisi platonica dello Stato. Illusorio sarebbe immaginare che uno Stato possa dirsi «sano» dopo la «grande catastrofe» che ha invertito il senso di tutti processi biologici e astronomici. Quale che ne sia la forma di governo, è inevitabile che quello in cui viviamo sia uno Stato «rigonfio» e dunque «ammalato». Ed è altresì inevitabile che, assecondando l'impulso che è all'origine dello Stato, compaia nell'orizzonte storico qualcosa che in precedenza era sconosciuto, e che invece da quella fase in poi accompagnerà il genere umano. Nel passaggio dalla condizione di originaria «salute» dello Stato alla situazione attuale, sulla spinta di una «sconfinata brama di ricchezza», diventerà necessario «fare la guerra». Ancora una volta, il «realista» Platone, intercetta il meccanismo che è storicamente e concettualmente alla base della guerra, senza alcun affidamento esigenziale: «facciamo pure a meno di dire se la guerra sia fonte di male o di bene. Contentiamoci di dire che ne abbiamo scoperto la genesi» (Repubblica, II, 373, d-e). Da tutto ciò dovrebbe risultare con evidenza che utopistica non è affatto la rappresentazione platonica dello Stato, come per negligenza o conformismo si continua acriticamente a ripetere. Utopistico sarebbe, al contrario, credere che l'uomo possa da sé procurarsi uno Stato nel quale dominino la «pace» (eiréne), il «rispetto reciproco» (aidós), una «buona legislazione» (eunomía) e la «giustizia non invidiosa» (aphtonía díkes), vale a dire ciò che solo la guida del «pastore del mondo» poteva assicurarci. Per la stessa ragione per la quale sarebbe stolto affidare alle capre il governo delle capre, «nessuna natura d'uomo è capace di governare tutte le cose umane con potere assoluto senza riempirsi di tracotanza e di ingiustizia» (Leggi, IV, 713 c-d). In un contesto e con motivazioni differenti, Thomas Hobbes ribadirà a suo modo l'assunto platonico. Non vi è proprio nulla di «naturale», né ancor meno di «divino», nella politica. Ad essa ricorriamo solo perché ne siamo costretti dalla paura, perché tramite essa vogliamo sottrarci al rischio incombente di subire violenza, preservando la nostra incolumità. Il contratto fra lo Stato e i cittadini non scaturisce da una opzione positiva e non corrisponde ad alcuna prospettiva salvifica. È fondato piuttosto sul realistico riconoscimento che l'unica alternativa alla politica è la guerra, anzi: il bellum omnium contra omnes. Ecco, dunque, ciò che non si deve «dimenticare», se si vuole evitare di fare la fine degli incauti compagni di Ulisse. Che siamo così lontani dal vivere in un mondo «bene ordinato», da poter perfino affermare di trovarci piuttosto in un mondo in cui tutto gira alla rovescia. Che quella creazione interamente artificiale che è lo Stato riproduce — né potrebbe essere diversamente — tutti i limiti degli uomini che di esso sono artefici, al punto da non poter essere concepito se non come organismo affetto da malattie mai definitivamente estirpabili. Che nella genesi stessa dello Stato è materialmente scritto lo sbocco bellico, come necessità insita nella sua stessa «natura». Che la politica, soprattutto, può agire soltanto come phármakon, come un rimedio imperfetto, come un beneficio che arreca nuove sofferenze. La radice vera dell'antipolitica, nelle sue formulazioni meno becere, sta tutta in questa «dimenticanza». Consiste nel pretendere che la politica funzioni come rimedio «assoluto», come farmaco senza effetti tossici. L'antipolitico vive ancora nell'«incantamento» dell'età di Crono, si illude che i cittadini possano ancora essere «gregge divino». Esige che la politica sia ciò che non può essere, una panacea, anziché un phármakon. Si sente tradito perché la politica non è accompagnata dalla «buona legislazione» e dal «rispetto reciproco», e ancor meno dalla «pace» e dalla «giustizia». Appassionato amante deluso dal suo amato, l'antipolitico rimprovera alla politica di non corrispondere all'immagine che aveva ingenuamente vagheggiato. E vorrebbe starsene là, su quell'isola, con i Lotofagi, a mangiare loto, dimenticando il ritorno.

Corriere Salute 13.1.13
Contro la depressione si stimola il nervo più «digestivo»


Stimolare un nervo largamente coinvolto nel controllo di funzioni viscerali, il nervo chiamato «vago», per combattere la depressione psichica.
Può sembrare strano, eppure si tratta di un importante filone di sperimentazione, visto anche che gli specialisti sono costantemente alla ricerca di nuove forme di trattamento per questo disturbo.
Infatti, nonostante il continuo sviluppo di farmaci antidepressivi e il diffondersi di trattamenti psicoterapici di vari orientamenti, esiste una quota di persone che non risponde alle cure oggi disponibili. Il nervo vago è una struttura fondamentale del sistema nervoso autonomo.
Svolge varie funzioni, tra cui quelle di governare la motilità di stomaco e intestino, di contribuire a regolare il battito cardiaco e di portare al cervello tutte le informazioni viscerali.
La stimolazione di questo nervo viene effettuata attraverso l'impianto sotto l'ascella di un generatore di impulsi, simile a un pacemaker, che viene poi collegato al nervo vago all'altezza del collo.
Gli impulsi stimolano il nervo che aumenta la sua attività, e questa azione, almeno in alcune persone che soffrono di depressione, porta a un miglioramento del tono dell'umore.
La scoperta di tale potenzialità terapeutica in ambito psichiatrico è emersa durante l'utilizzo di questa tecnica come cura per certe forme di epilessia refrattaria.
I neurologi si sono accorti che i pazienti trattati per l'epilessia mostravano un miglioramento del tono dell'umore e questa osservazione li ha indotti a sperimentare la tecnica anche per il trattamento della depressione.
Il primo studio effettuato con la stimolazione vagale per la depressione fu realizzato su trenta pazienti, la metà dei quali circa mostrò un miglioramento. Studi successivi, tuttavia, hanno poi limitato l'efficacia della stimolazione vagale a circa il trenta per cento delle persone trattate.
Secondo Paul Fitzgerald, psichiatra dell'Alfred and Monash University School of Psychology and Psychiatry di Melbourne, in Australia, autore di una revisione sull'argomento pubblicata sull'Australian and New Zealand Journal of Psychiatry, va chiarito che «i dati finora raccolti e pubblicati che supportano l'utilizzo della stimolazione vagale nel trattamento della depressione sono abbastanza limitati».
«Comunque — aggiunge lo psichiatra Fitzgerald — è un trattamento che sembra avere un'efficacia antidepressiva e il profilo di risposta è differente in maniera promettente da quello prodotto da una varietà di altre cure. L'effetto antidepressivo sembra infatti accumularsi lentamente nel tempo e poi persistere».
Si tratta di un tipo di trattamento considerato alquanto aggressivo per l'organismo e che deve essere quindi riservato a casi gravi e che non rispondono alle altre cure disponibili, come conferma la dottoressa Monica Mathys della Texas University Health Sciences Center School of Pharmacy di Dallas, in un articolo pubblicato sul Journal of pharmacy practice, dedicato proprio alle alternative terapeutiche per i casi di depressione resistente.

Corriere Salute 13.1.13
La terapia della moderazione dello scettico Montaigne
di Armando Torno


Per parlare di Michel de Montaigne, morto nel 1592 a 59 anni, cominciamo a recarci al suo castello, tra Castillon e Bergerac, a una ottantina di chilometri da Bordeaux. Qui si ritirò, dopo aver occupato cariche pubbliche, a scrivere gli Essais. I quali restano una formidabile palestra per lo spirito e trovarono nello scetticismo ben temperato la chiave di una ricerca e le risposte all'esistenza. Dell'antico maniero, colpito dalle fiamme nel XIX secolo, resta la torre. In essa c'è tutto quanto serviva al filosofo: la stanza al piano terreno, ovvero la cappella; un'altra al primo dove dormiva e poi, sovrastante, il suo studio: qui scriveva circondato dai libri. Intorno vigne, viottoli, boschi. I Saggi di Montaigne non ammettono censure nemmeno con i problemi di salute dell'autore. Riportano tutta la verità possibile, senza infingimenti. E restano una delle opere che meglio insegnano ad affrontare, dal punto di vista dell'atteggiamento, disturbi e dolori. Michel è l'esatto contrario del malato immaginario di Molière; si cura ma non si piange addosso, sa ridere al momento giusto dei medici e dei loro sforzi. È convinto che facciano più danni al nostro corpo le opinioni che abbiamo dei mali che non le patologie stesse; infine, non desidera vivere come coloro che hanno sempre bisogno di avere «trois medecins a leur cul». Dopo aver ricordato — siamo nel II libro degli Essais, al capitolo XXXVII — che «la maggior parte delle facoltà della nostra anima, nel modo in cui noi le impieghiamo, turbano le tranquillità della vita più di quanto le giovino», Montaigne descrive direttamente i suoi problemi. «Io sono alle prese — confessa — con la peggiore di tutte le malattie, la più improvvisa, la più dolorosa, la più mortale e la più irrimediabile. Ne ho già provati cinque o sei attacchi lunghissimi e penosi; tuttavia, o io m'inganno, o c'è ancora in questo stato di che sostenersi, per chi ha l'anima libera dal timore della morte e libera dalle minacce, dalle conclusioni e dalle conseguenze con cui la medicina ci stordisce. Ma il dolore stesso non è in realtà tanto crudele, aspro e pungente che un uomo tranquillo debba entrare in agitazione o disperazione».
Di cosa si tratta? Quale malanno lo tormentava? Ecco la sua risposta: «Traggo dal mal della pietra almeno questo profitto, che quello che non avevo potuto ancora ottenere su me stesso per conciliarmi o del tutto familiarizzarmi con la morte, esso lo farà; poiché quanto più mi tormenterà e mi affliggerà, tanto meno sarà per me temibile la morte». Da perfetto filosofo, sempre a scuola dagli antichi, rovescia il problema della sofferenza e la trasforma in una sorta di aiuto per affrontare l'estremo appuntamento. Quello che Montaigne chiama, seguendo Ippocrate, «mal della pietra» era una calcolosi, vale a dire dei calcoli renali allora difficilmente operabili se non a rischio della vita. Ne soffriva, per fare un altro esempio illustre, anche Michelangelo, che trasse anch'egli giovamento dall'acqua. Il 15 marzo 1549 il sommo artista lascia una testimonianza dei suoi problemi in una lettera al nipote Leonardo: «Circa il male mio del non poter orinare, io ne sono stato poi molto male, muggiato dì e notte senza dormire e senza riposo nessuno». Nel Viaggio in Italia, Montaigne descrive le cure che tentò, tra l'altro, ai Bagni di Lucca tra il 14 agosto e il 12 settembre 1581. Un suo passo: «Dopo avermi bagnato, resi le orine torbide; e la sera, avendo camminato un buon pezzo per strade alpestre e non speditevoli, le resi affatto sanguinose: e sentii al letto non so che alterazioni ai reni». Il filosofo registra anche i dettagli: il 28 agosto «a l'alba andai a bere alla fontana di Bernabò, e ne bevvi 7 libre, 4 oncie, a 12 oncie la libra»; il 29 «bevvi alla fontana ordinaria 9 bicchieri, i quali capivano una libra l'uno». Il giorno 11 settembre, grazie al cielo, può scrivere: «Buttai la mattina buona quantità d'arenella, e la più parte in forma di miglio, soda, rossa di sopra, di dentro bigia». E tutto questo accade a un animo che crede in pochissime cose, anzi quasi in nulla. Oggi si metterebbe a ridere delle nostre cure preventive e delle continue analisi che pratichiamo per scongiurare futuri malesseri. Ritornando agli Essais — in tal caso siamo nel III libro, al capitolo XIII — si legge: «Le arti che promettono di mantenerci il corpo in salute e l'anima in salute, ci promettono molto; e tuttavia non ce ne sono altre che mantengano meno di esse quello che promettono. Al tempo nostro, quelli che fanno professione di queste arti fra noi ne fanno vedere i risultati meno di chiunque altro. Si può dire di loro, al massimo, che vendono droghe medicinali; ma che siano medici, questo non si può dirlo».
Montaigne cerca in sé un equilibrio che non riesce a trovare nei progressi delle scienze. Ridiamogli la parola: «Il mio modo di vivere è uguale nella malattia come nella salute: lo stesso letto, le stesse ore, gli stessi cibi mi giovano, e le stesse bevande. Non vi aggiungo assolutamente nulla, se non la moderazione del più e del meno, secondo la mia forma e il mio appetito. La mia salute, è mantenere senza disturbo il mio stato abituale. Vedo che la malattia me ne allontana da una parte, se do retta ai medici, me ne allontaneranno dall'altra». Le sentenze che fece incidere sulle travi della sua biblioteca, una sessantina circa, riflettono quasi tutte la sua incredulità, il distacco da cose e passioni. Tre vicine, ricavate da Sesto Empirico, il grande medico scettico del II secolo, ricordano: «Io non decido nulla», «Non comprendo», «Sospendo».

Corriere Salute 13.1.13
«La scienza più importante tra le praticate è incerta, confusa e agitata da cambiamenti»


Negli Essais (libro II, c. XXXVII), Montaigne offre un compendio scettico di storia della medicina, realizzato soprattutto sul mondo greco-romano. «Vogliamo — scrive — un esempio dell'antico contrasto della medicina? Erofilo fa risiedere negli umori la causa originaria delle malattie; Erasistrato, nel sangue delle arterie; Asclepiade, negli atomi invisibili che si insinuano nei nostri pori; Alcmeone, nell'eccesso o nel difetto delle forze del corpo; Diocle, nell'ineguaglianza degli elementi del corpo e nella quantità dell'aria che respiriamo; Stratone, nell'abbondanza, indigeribilità e corruzione del cibo che prendiamo; Ippocrate la fa risiedere negli spiriti». Dopo aver ricordato che Plinio dichiara come la scienza più importante tra le praticate «è, per disgrazia, la più incerta, la più confusa e agitata da più cambiamenti», Montaigne riprende la sua ironia. «Prima della guerra del Peloponneso — nota — questa scienza non era molto conosciuta; Ippocrate la mise in credito. Tutto quello che costui aveva stabilito, Crisippo lo rovesciò; in seguito Erasistrato, nipote di Aristotele, rovesciò tutto quello che ne aveva scritto Crisippo. Dopo di questi sopravvennero gli empirici, che presero una via tutta diversa dagli antichi nel trattare quest'arte. Quando il credito di questi ultimi cominciò a invecchiare, Erofilo mise in pratica un'altra specie di medicina, che Asclepiade a sua volta venne a combattere e ad annientare. Alla lor volta acquistarono anche autorità le opinioni di Temisone, e poi di Musa e, ancora più tardi, quelle di Vezio Valente, medico famoso per la sua intesa con Messalina... L'impero della medicina cadde al tempo di Nerone nelle mani di Tessalo, che abolì e condannò tutto quello che era stato creduto fino a lui. La dottrina di questi fu abbattuta da Crina di Marsiglia, che introdusse di nuovo il sistema di regolare tutte le operazioni di medicina sulle effemeridi e sui movimenti degli astri, mangiando, dormendo e bevendo nell'ora che piacesse alla Luna e a Mercurio. La sua autorità fu poco dopo soppiantata da Carino, medico di quella medesima città di Marsiglia. Questi combatteva non solo la medicina antica, ma anche l'uso pubblico, e adottato tanti secoli prima, dei bagni caldi. Egli faceva bagnare gli uomini nell'acqua fredda, anche d'inverno, e immergeva i malati nell'acqua naturale dei ruscelli...».

Corriere Salute 13.1.13
E ora i «Saggi» ritornano d'attualità


Dal 2007, allorché «La Pléiade» di Gallimard pubblicò una nuova edizione degli «Essais» di Michel de Montaigne (curata da Jean Balsamo, Alain Legros, Michel Magnien e Catherine Magnien-Simonin) e un «Album» a lui dedicato, le iniziative si sono moltiplicate. In quello stesso anno Honoré Champion editava, a cura di Philippe Desan, professore a Chicago, una nuova impressione rivista, corretta e aumentata del «Dictionnaire de Michel de Montaigne» (quasi 1.300 pagine su doppia colonna, con un centinaio di specialisti). In Italia, nell'aprile di quello stesso anno, si tenne a Battaglia Terme un convegno dal titolo «Michel de Montaigne e il termalismo» (gli atti uscirono nel 2010). Da noi la classica traduzione dei «Saggi» è quella di Fausta Garavini (utilizzata in questa pagina): uscì per la prima volta nel 1966 da Adelphi e fu più volte ristampata, anche negli Oscar Mondadori; nel 2012 è stata pubblicata da Bompiani, con testo critico a fronte curato da André Tournon e revisione della curatrice. In quest'ultima mancano le sentenze che il filosofo fece scrivere sulle travi della biblioteca: sono state proposte, nel 2012, con il titolo «La torre di Montaigne» e il testo originale, da La Vita Felice. Il «Viaggio in Italia» è nella Bur (citato in questa pagina). Si ristampa dal 1956.

il Fatto 13.1.13
Corrado Guzzanti il vero comico lasciato solo
di Fulvio Abbate


Sarà vero che siamo diventati tutti più stupidi, perfino quando ridiamo? Togli pure il punto di domanda: la risposta è davvero affermativa. Più stupidi certificati, quel che è peggio incapaci di elaborare un pensiero sulle ragioni della regressione culturale di massa, inadatti ormai perfino a sbrogliare il filo che porta all’indietro fino al tonfo del gusto comico. Fino a ripensare gli anni dell’orrore avuti in dono da Bettino Craxi, perché è stato allora che l’imbecillità di massa ha iniziato a essere ritenuto un valore, poi, ovviamente, è arrivato lo splendido Silvio Berlusconi. Con “Drive In”. Con le risate registrate. Oh, povere scoregge mentali. Così via, fino all’abominio attuale, dove c’è perfino modo di far passare per “intelligente” un sottogenere di satira (si fa per dire) che porta gli imitatori a scegliere come obiettivo di parodia, metti, una Belén Rodriguez; musica comica leggera, insomma.
Perdonate la premessa un po’ pallosa e magari perfino ideologica, ma se ieri sera non mi fossi imbattuto in Corrado Guzzanti nei panni di un Licio Gelli accudito dal fido domestico filippino Marco Marzocca – “… di dove sei te? Perché qui è pieno de filippini… Per chi tifi te? Manila, no, Milan…” – davvero se non fossi stato visitato dalla maschera di Gelli-Guzzanti non avrei intuito la cometa della chiarezza politica in terra di comicità, su La7.
LASCIA PERDERE il talento, lascia perdere il trucco che rende Corrado assai simile al pervicace fondatore della loggia P2, lascia perdere anche buona parte delle battute che giustamente scelgono di travalicare l’oggetto stesso della parodia, la forza di quel Gelli lì, bisognoso della padella come ogni anziano in bilico tra ricordi sfocati e demenza da non autosufficiente, risiede interamente nell’avere pensato che la memoria dell’argomento stesso P2-poteri occulti potesse diventare motivo diciamo di varietà, potesse dare vita a una maschera comica. Adesso molti penseranno: è davvero il minimo essendoci di mezzo Corrado Guzzanti, il cui spessore d’autore, come dire, “civile”, è fuori d’ogni dubbio. Avete ragione, tutto vero, ma è altrettanto certo che a fronte delle qualità politiche di chi sceglie di mettere in scena il Piano di Rinascita Democratica tra vestaglia e squallore senile in progress, il paesaggio comico dominante altrove sembra invece scegliere la narcosi della stupidità. Sia ufficiale sia di sinistra. Sarà forse per semplice viltà o piuttosto perché in televisione il qualunquismo sembra essere l’abito più comodo, quello che consente di applaudire i Panariello, i Max Giusti, le Virginia Raffaele, i Ficarra e Picone così come appaiono dietro la scrivania di “Striscia”?
Sai qual è l’amarezza di fondo? Semplicemente pensare che Guzzanti sia stato lasciato solo, o quasi, a resistere contro le piogge acide della coglionaggine garantita. Il tema della qualità del pensiero comico potrà sembrare un problema secondario, e invece dovrebbe aprire ogni consiglio d’amministrazione di viale Mazzini. Dovrebbe. Grazie per il suo Gelli, maestro Guzzanti.

Repubblica 13.1.13
Vendola: "La Suprema Corte finalmente dice che si può vivere felici con due mamme o due papà"
"Sì, anch´io vorrei avere un figlio ma se governeremo non pretenderò matrimoni e adozioni omosessuali"
di Giovanna Casadio


La Chiesa parla legittimamente in base al proprio magistero. Ma da cattolico mi dolgo di questo ostinato rifiuto di praticare l´ascolto. Cosa sono per loro i non eterossessuali? Non umanità?

ROMA - Nichi Vendola, lei è favorevole ai matrimoni gay e anche alle adozioni?
«Sì, ad entrambi».
Ha già detto che, con il suo compagno, volentieri adottereste un bambino. La sentenza della Cassazione ora vi aiuta?
«La sentenza rovescia un approccio, non propone cioè una questione astratta, ma entra nello specifico e scopre che un bambino può vivere felicemente con due mamme, oppure con due papà. Scopre che la vita reale è molto più ricca di sfumature e molto più complessa di quanto non siano gli schemi astratti dei fondamentalismi ideologici. Credo che siamo dentro una straordinaria transizione».
Ma in un futuro governo di centrosinistra, lei si batterà per ottenere il matrimonio gay e l´adozione per le coppie omosessuali?
«Il programma lo scriviamo insieme, e il leader è Bersani. La cosa per me fondamentale è l´assenza nel nostro programma di quella reticenza che, ad esempio, si trova nelle carte del professor Monti. E che indicano un deficit di cultura liberale, rimuovendo quel piccolo dettaglio rappresentato plasticamente dall´onorevole Paola Binetti, che è ora tra i montiani. La cultura liberale con il cilicio fa qualche fatica acrobatica a guadagnare credibilità».
Parliamo del centrosinistra, dell´alleanza Pd-Sel: cosa farete, come vi muoverete, se vincete le elezioni, sul fronte di questi diritti?
«Nella nostra agenda c´è il riconoscimento delle coppie di fatto e la legge contro l´omofobia. Mi pare l´ingresso dell´Italia, buon ultima, nel consesso delle società moderne. Io sono contento che avendo parlato di me, avendo detto che volevo sposarmi e che desidero un figlio, sono riuscito, almeno così mi è parso, a spostare il dibattito e a registrare aperture sulle unione civili anche tra le forze politiche neo clericali».
Il Pd non è per matrimoni né per adozioni per i gay, però.
«C´è un minimo comune denominatore, un punto di compromesso: coppie di fatto e legge contro l´omofobia. Apriremo un grande dibattito non morboso, non ingiurioso su questi nuovi temi che sono la cartina al tornasole della laicità e del pluralismo del nostro Stato. Davvero io mi auguro che ci sia un confronto e si facciano sentire anche le voci di apertura che esistono nell´arcipelago delle culture religiose».
Senta Vendola, ma a lei questo compromesso basta?
«Se il centrosinistra governerà, non immagino il mio ruolo come quello di chi quotidianamente alle proposte di Bersani aggiunga il celebre "più uno". Non mi predispongo al mestiere di chi tira la giacchetta al premier. Però questa è la direzione di marcia, mi basta condividerla. Questa è la storia che nessuno può fermare. È cambiato il mondo, e cambierà ancora. Finalmente si è potuto guardare in faccia la diversità che, mano a mano, si è data coraggio, si è raccontata. Oggi sono molti di più quelli che provano empatia che intolleranza. Io conosco molte famiglie monogenitoriali: sono splendide. Non ho mai trovato tra di loro un genitore sciatto o distratto rispetto ai suoi doveri».
Il "ministro" della famiglia del Vaticano, monsignor Vincenzo Paglia avverte che "i bambini non sono merce". Si sente un consumista, un egoista nel suo desiderio di adozione?
«Sono turbato da queste parole. In generale sono parole condivisibili. Ma andrebbero rivolte ai mass media, contro la strumentalizzazione che si fa dei bambini. Cosa c´entrano con il fatto che esistono in tanta parte del mondo famiglie di tipo nuovo? Famiglie che chiedono, anche in virtù dell´articolo 2 della nostra Costituzione, lo status giuridico, che rivendicano il diritto di avere diritti»?
La Chiesa quindi dovrebbe tacere?
«Io chiedo perlomeno di potere discutere con serenità, partendo dalla realtà. La Chiesa parla legittimamente in base al proprio magistero, però da cattolico mi dolgo molto di questo ostinato rifiuto di praticare l´ascolto. Tante volte la Chiesa ha sbagliato e ha riconosciuto i propri errori e torti».
Dicono i vescovi che in palio c´è la sfida antropologica, i cardini dell´umanità?
«Qui è il punto. La Chiesa pensa che la morale cattolica coincida con la morale naturale. In virtù di questa comoda equazione, si cancellano i principi della dialettica, del pluralismo. Cosa sono le persone non eterosessuali? Non umanità? I nuclei familiari che non corrispondono ai canoni della dottrina sono mutilati della possibilità di essere crocevia d´amore».

Repubblica 13.1.13
Così la scienza svela il segreto delle lacrime "Servono a fare gruppo"
E i neurologi confermano: le donne si emozionano di più
Superata la tesi che siano solo uno sfogo. L´esperto: rinsaldano i legami sociali
di Elena Dusi


ROMA - Un giorno nel nostro passato fra mente e occhi si creò un legame. E l´uomo imparò a esprimere con una lacrima tutto ciò che non era capace di dire a parole. Da allora la nostra specie - e solo lei - ha la curiosa e inspiegabile caratteristica di piangere quando si emoziona. A esplorare i segreti di questo comportamento, senza apparente fondamento dal punto di vista evolutivo e che Darwin si sforzò inutilmente di decifrare, si è dedicato oggi Michael Trimble, neurologo del National Hospital Queen Square di Londra. Il suo libro Why humans like to cry: tragedy, evolution and the brain (Perché agli uomini piace piangere: tragedia, evoluzione e cervello) spiega che le lacrime rafforzano l´empatia fra gli individui, rinsaldano i legami del gruppo e contengono sostanze chimiche impercettibili all´olfatto ma in grado di trasmettere messaggi alle persone vicine. Non è nemmeno un caso che quando a parlare sono gli occhi inumiditi, la bocca non sia in grado di proferire parola.
Lo stereotipo secondo cui le donne sono di lacrima facile è confermato da Trimble: il sesso femminile piange di emozione 5,3 volte al mese contro le 1,4 di quello maschile. Anche intensità, durata e rumorosità dei singhiozzi sono superiori fra le donne, con la differenza fra i sessi che inizia a comparire all´età della pubertà. Non è un caso che l´empatia, la capacità di identificarsi con le emozioni altrui, sia mediamente superiore nelle donne. Un esperimento condotto in Israele nel 2011 e pubblicato su Science dimostrò che una fialetta di lacrime versate da una donna e fatte annusare a un uomo riduce il livello di testosterone nel sangue, estinguendo le velleità di aggressione o accoppiamento. L´idea che le lacrime siano un vero e proprio linguaggio - cui il cervello è sensibile a livello subliminale e che è più forte di mille parole - ha soppiantato altre teorie ritenute valide in passato ed elencate da Trimble. Alla domanda "perché piangiamo?" gli psicoanalisti vicini a Freud rispondevano che singhiozzare è una difesa dalle pulsioni interne troppo forti. Sfogarsi serve a far tornare in equilibrio emozioni scosse da momentanee tempeste. Prima ancora si ipotizzò che attraverso le lacrime il corpo si liberasse da sostanze chimiche tossiche accumulate per via dello stress. A seconda infatti che si pianga per un dolore fisico o un´emozione, la composizione chimica delle gocce che scivolano lungo le guance varia leggermente. Nel secondo caso la concentrazione di alcuni ormoni prodotti dall´organismo in situazioni di stress è maggiore. La funzione catartica delle lacrime viene spiegata anche con la sensazione frequente di sentirsi meglio dopo un bel pianto. E fra gli effetti sgradevoli che alcuni malati di depressione curati con Prozac lamentano, paradossalmente, c´è proprio l´incapacità di versare lacrime.
La teoria più accreditata al momento è dunque che le lacrime siano il frutto della facoltà prevalentemente umana dell´empatia. Molti animali piangono in risposta al dolore fisico o per proteggere e lubrificare la parte esposta degli occhi. Ma solo gli uomini hanno stabilito nel corso dell´evoluzione quel legame fra occhi e cervello che trasforma le lacrime in un linguaggio inedito e valido (con qualche leggera differenza) in ogni cultura.
La comprensione della lingua delle lacrime non nasce con noi. Il pianto dei neonati nelle prime settimane di vita è un semplice richiamo per spingere la madre a occuparsi del suo cucciolo. Occorrono varie settimane perché ai vagiti si associno le lacrime vere e proprie e perché i bambini imparino a modulare il loro pianto per ottenere ciò che vogliono da mamma e papà, manipolando comportamento e sentimenti altrui. Una volta imparata, la lingua delle lacrime è anche associata all´apertura democratica di un Paese. Citando lo studio dello psicologo olandese Ad Vingerhoets, Trimble spiega che i cittadini delle democrazie economicamente avanzate e situate in climi miti piangono (o ammettono di piangere) più di chi vive sotto a una dittatura. Con l´Italia in buona posizione, abituata a versare lacrime copiosamente e senza vergogna.

Repubblica 13.1.13
Scriva 33
Grandi malattie per grandi scrittori
I tremori di Shakespeare & Co.
di Corrado Aluffi


La sifilide del Bardo, il bipolarismo di Melville, la tubercolosi di Orwell. Quanto soffrivano i maestri della letteratura, anche a causa delle pessime cure: sanguisughe, iniezioni di aria o siero di cavallo. E tanta droga. Un medico ora propone la sua diagnosi in un libro
Spaventosa era la magrezza del suo corpo. Il torace era stretto come quello di uno scheletro: le gambe rattrappite, le ginocchia erano più spesse delle cosce… (1984, 1949)
Sono andato a trovare il bardo Kinch e l´ho scoperto immerso nello studio della Summa contra gentiles in compagnia di due dame con la gonorrea (Ulisse, 1922)
La misteriosa malattia che mi aveva colpito alle mani era ignota nella letteratura medica. Si estese dalle mani ai piedi tanto che in certi periodi ero impotente quanto un neonato (La crociera dello Snark, 1911)
Far cadere, corrotto da sifilide, il naso, fino a spianarglielo tutto sopra la faccia, a chi sa sol fiutare la traccia del suo tornaconto (Timone di Atene, 1608)
Età decrepita che si è attaccata a me Come alla coda di un cane? Mai ho avuto una più eccitata, passionale e fantastica immaginazione…. (La torre, 1928)
Non posso ammattire: difendo il periglioso presidio della sanità (Clarel, 1876)

E’ una sala d´attesa un po´ particolare: a sedere con aria preoccupata, infatti, sono Jack London, William Shakespeare, George Orwell, Jonathan Swift e altri colossi letterari. Da una porta si affaccia un uomo in camice bianco: «Adesso a chi tocca?». Lui è John J. Ross, medico in forza al Brigham and Women Hospital di Boston e ricercatore alla Harvard Medical School, e la sala d´attesa è in realtà un libro, Shakespeare´s Tremor and Orwell´s Cough, dove Ross sottopone a check-up i maestri della letteratura in lingua inglese basandosi su biografie e opere. «Il libro è il frutto accidentale di un focolaio di sifilide che scoppiò a Boston nel 2000. Volli infiorettare con citazioni shakespeariane un discorso per un convegno su quell´emergenza: rammentavo che il Bardo amava citare questa malattia. Mentre spulciavo le sue opere, però, mi colpì il numero inusuale di tali citazioni: 55 righe nella commedia Misura per misura, 61 nel Troilo e Cressida, 67 nel Timone di Atene…» racconta a Repubblica il dottor Ross. «Così ho indagato più a fondo. Che legame c´era tra l´ossessione del Bardo per le malattie veneree, le dicerie sulla sua disinvoltura sessuale, l´orrenda cura al mercurio per la sifilide dell´età elisabettiana e la grafìa tremolante che afflisse Shakespeare nell´ultimo periodo della sua vita? Bene, all´epoca le malattie veneree si curavano con il mercurio. E il peggioramento della grafìa di Shakespeare può indicare problemi neurologici dovuti proprio a intossicazione da mercurio, oppure l´insorgenza del tremore essenziale. Pubblicai il risultato della mia indagine sulla rivista medica Clinical Infectious Diseases. L´enorme riscontro su Internet mi ha portato a un libro sugli scrittori e i misteri della loro salute».
I grandi della penna precorrevano i loro tempi sia dal punto di vista artistico che da quello medico, soffrendo a volte di malattie che solo oggi identifichiamo: «Sospetto che Herman Melville avesse il disturbo bipolare di personalità. Scrisse Moby Dick e altre opere in uno stato di euforia maniacale, e passò gran parte dei suoi ultimi vent´anni nel buco nero della depressione. Ebbe anche parecchi sintomi fisici, psicosomatici per i suoi biografi. Io invece ritengo più probabile un male allora sconosciuto: la spondilite anchilosante. Melville ebbe episodi di forte dolore agli occhi che lo costringevano a rinchiudersi in casa per proteggersi dalla luce del giorno. Ebbe anche una terribile lombalgia, e la sua spina dorsale divenne molto rigida. Sappiamo inoltre, dalle sue richieste di passaporto, che perse 3,5 centimetri in altezza tra i 30 e i 37 anni. Bene, il quadro di tutti questi sintomi è esattamente quello di una spondilite anchilosante».
Ross osa avventurarsi anche sul confine sfuggente tra la scienza e l´arte: «Jonathan Swift soffrì di demenza frontemporale. Negli stadi iniziali potrebbe essere addirittura stata la fonte della sua straordinaria creatività», azzarda. «Questo disturbo danneggia l´area cerebrale che controlla gli impulsi. Prima che il cervello cominci a perdere troppi colpi, l´effetto è una sorta di scatenamento della fantasia». In altri casi, invece, è l´ordalia dolorosa delle cure a diventare alimento letterario: «George Orwell subì penosi trattamenti antitubercolotici, che includevano iniezioni di aria nello stomaco, in un tentativo fallito di ridurre la parte tubercolosa del polmone sinistro, e farmaci che gli causarono una reazione allergica quasi fatale. Questo calvario diventò il racconto delle torture inferte a Winston Smith dal Ministro dell´Amore. Orwell stesso, del resto, ammise che 1984 sarebbe stato un romanzo meno cupo se lui fosse stato in salute. Lo sforzo eroico di scrittura e revisione di 1984, durante il quale perse tredici chili e fu costretto a letto nei due mesi prima della consegna, lo portò alla morte».
Le traversie mediche dei grandi, però, offrono anche occasioni d´ilarità: è il caso del tormentato rapporto di William Butler Yeats col sesso. Nel 1917 Yeats, cinquantaduenne, sposa Georgie Hyde Lees, di trent´anni più giovane. Entrambi si dilettavano con trance e sedute spiritiche, durante le quali asserivano di entrare in contatto con entità ultraterrene, gli "Istruttori", che una volta, sempre secondo i due, suggerirono a Yeats di lasciar stare l´occulto, pensare di più a scrivere ed essere più affettuoso con la moglie. «La freddezza sessuale tornò a tormentarlo più avanti. Nel 1929 Yeats, a Rapallo, contrasse un caso acuto di brucellosi che quasi lo uccise. Nicola Pende, pioniere dell´endocrinologia in Italia, gli iniettò siero equino e un antibiotico a base di arsenico» spiega Ross. «Yeats si ristabilì, ma cambiò umore. I suoi poemi divennero più tristi e solenni. "Solo due cose possono interessarmi: il sesso e la morte", scrisse. Si imbarcò quindi in una ricerca per risvegliare il suo vigore sessuale con la "procedura Steinach", una vasectomia che, interrompendo la funzione riproduttiva delle gonadi, si ipotizzava potesse aumentare la produzione di testosterone. A dire di Yeats, ciò gli produsse una "strana seconda pubertà". Io credo fu solo un effetto placebo. I maligni lo irrisero: è come un motore Cadillac costretto in una vettura Ford!». Certo, la procedura Steinach era più sicura di un altro precursore del viagra, il controverso metodo Voronoff, basato sul trapianto di testicoli scimmieschi. Già, perché in passato era più facile che un medico uccidesse piuttosto che curare. «Si toglieva sangue ai pazienti più gravi con sanguisughe, tagli e salassi. Li si torturava per curare i loro reni. I medici somministravano con leggerezza elementi tossici come mercurio, arsenico, antimonio» osserva Ross. E il fai-da-te? Era molto peggio. «Jack London ebbe l´infausta idea di farsi "medico di se stesso". Nel 1906, a trent´anni, volle circumnavigare il globo e alle isole Solomon contrasse la frambesia tropica: infezione della pelle, delle ossa e delle articolazioni dovuta al battero spirocheto Treponema pallidum pertenue che causa dolori alle articolazioni, perdita di peso e fame, con ulcere ed eruzioni cutanee. Come cura autarchica, si applicò sulla pelle tutto ciò che trovava sulla nave: arsenico, mercurio, vetriolo blu, succo di lime, acido borico e altro ancora. Il risultato? La reazione cutanea gli gonfiò mani e piedi fino a fargli temere di aver preso la lebbra» spiega Ross. «Ma era colpa del mercurio, che gli diede l´acrodinia (o "malattia rosa"), una forma di intossicazione che causa gonfiore delle mani. Continuò a curarsi con l´arsenico anche negli anni successivi. E, primo scrittore della storia a diventare miliardario coi suoi libri, proprio come una rockstar ebbe un medico assai compiacente che, invece di dissuaderlo dal curarsi da solo, gli procurava droghe come la stricnina, l´aconite, la belladonna, l´oppio, l´eroina e il cocktail di morfina e atropina che infine lo uccise».

Repubblica 13.1.13
Se le macchine ci aiuteranno a classificare i numeri
di Piergiorgio Odifreddi


All´arrivo dell´anno nuovo, si fanno i bilanci di quello vecchio. Nell´attesa delle novità matematiche del 2013, riandiamo dunque ad alcuni dei risultati che hanno fatto scalpore nel 2012. Uno, annunciato a settembre da Georges Gonthier del Centro di Ricerca Microsoft di Cambridge, gli ha richiesto sei anni di lavoro e riguarda un´applicazione dei computer alla matematica. Tutti studiamo a scuola l´algebra delle equazioni e delle loro soluzioni. I matematici, fin dall´Ottocento, la praticano nella forma astratta della "teoria dei gruppi". I gruppi sono associati alle equazioni, e quelli associati alle equazioni risolubili mediante formule come quella per l´equazione di secondo grado, si chiamano "risolubili" anch´essi.
I gruppi finiti assomigliano anche ai numeri interi. E come questi si possono decomporre in numeri primi, quelli si possono decomporre in gruppi "semplici". Nell´Ottocento i chimici hanno classificato gli elementi atomici nella tavola periodica, e nel Novecento i matematici hanno analogamente classificato i gruppi semplici finiti. Purtroppo, con una mostruosa dimostrazione collettiva, lunga 10.000 pagine, che nessun individuo ha mai compreso a fondo.
Il mattone essenziale della classificazione è un teorema dimostrato da Walter Feit e John Thompson nel 1963, secondo il quale ogni gruppo semplice finito è risolubile. Già questo teorema è un piccolo mostro di 250 pagine, e Gonthier è riuscito a scrivere un programma che ha permesso a un computer di verificarlo. Il prossimo passo sarà la verifica dell´intera classificazione, in una collaborazione tra l´uomo e la macchina che probabilmente caratterizzerà la matematica del futuro, e non solo quella del 2013!

Repubblica 13.1.13
Storia delle sirene l´incanto sottile dai greci a Kafka
di Giorgio Vasta


Il circo elettrico delle sirene (Codice Edizioni) dello storico della scienza Emanuele Coco comincia con una frase attribuita a Sant´Agostino - «Non chiedetevi se queste cose sono vere. Chiedetevi cosa significano» - , ovvero ponendo da subito la marginalità se non l´irrilevanza dell´esistenzarealedelle sirene. Se sono state immaginate, le sirene sono reali. Per comprenderne il significato è dunque legittimo interrogarne la storia - la storiadelmito - ricorrendo a una forma diretta e colloquiale. Perché le sirene, dalla Grecia antica a Kafka, ci riguardano. Volteggianti nel cielo o appostate su una roccia marina, le sirene non semplicemente parlanoconnoi: le sirene parlanodinoi. Ci inducono a immaginare ciò che accadrà; ci irretiscono facendo leva su qualcosa che potrebbe sembrarci illogico e disumano essendo invece uno dei modi più straordinari in cui l´umano si manifesta: ci costringono a confrontarci con il nostro costante bisogno di naufragio.
Dunque, in quanto intrinseche alle nostre esistenze, discutere delle sirene in una forma saggistica tradizionale non basta. L´autore ne è consapevole tanto da costruire un saggio sui generis che vira di continuo verso la storia d´amore, verso il racconto di come il desiderio sia il continuo deflagrare di un´immaginazione in cerca di una forma in cui incarnarsi.
Leggendo diventa presto evidente che il processo di identificazione delle sirene è coinciso nel tempo con un processo di invenzione e reinvenzione delle sirene medesime. Il tentativo di mettere a fuoco questi esseri misteriosi ha generato percezioni tanto avventurose quanto affascinanti. Le sirene sono state uccelli (così in due ceramiche corinzie: donne pennute dalle zampe di gallina, personificazione della leggerezza e della volatilitàdi ogni proposito sentimentale), pesci (femmineo dalla testa alla vita, secondo l´iconografia più diffusa il loro corpo continua in un tronco affusolato e squamoso che culmina in una coda biforcuta o a ventaglio), sono state lamantini o dugonghi dentuti. Sono state la sfrenatezza sessuale più sconvolgente, ma anche madri che allattano, come in una miniatura fiamminga della fine del XIII secolo. Sono state caste (secondo Omero), ma nella loro declinazione ferina - come risulta dal Sacramentario di Gellone - è necessario che la Madonna le esorcizzi brandendo una croce. Annidata nei salmi e nei pontificali del Medioevo, la loro immagine tutt´altro che servire da monito era per i monaci turbamento, l´infragilirsi di ogni pensiero rigoroso, l´insediarsi nella mente e nel corpo dello scompiglio. Non restava loro altro che conficcare la testa nella neve, ricomporre una geometria nel cervello - raggelare, rinsavire.
Onniscienti, in grado di vaticinare ciò che accadrà, le sirene sono polimorfe perché caleidoscopica, tremante, ambigua è sempre stata la raffigurazione maschile del femminile. Il libro di Coco vale anche da esplorazione del modo in cui nei secoli gli uomini hanno rappresentato a se stessi le donne. Da questa prospettiva le sirene sono figure sintomatiche di un immaginario aggressivo e colpevolizzante rispetto al quale il femminile è sensualità acrobatica che conduce alla perdizione oppure un materno tradizionalmente affettuoso.
Resta il fatto che le sirene sono, per nostra fortuna, irriducibili a una lettura ultima. Strette d´assedio dalla furia tassonomica del XVIII secolo, così come dai tentativi di spettacolarizzazione da circo Barnum - nel 1822, a Londra, l´ingresso per ammirarne un esemplare essiccato era di uno scellino - ugualmente le sirene si oppongono a ogni tentativo di imbrigliamento. Nessuno può catturare una sirena, presumere di averla identificata è soltanto un´illusione. La sirena permane sfuggente: la sua sostanza è lacunosa, la sua natura è quella del fantasma. Perché il desiderio, al limite, si segue: pretendere di imprigionarlo è inverosimile. Diversamente dai monaci medievali ci serve scrutare il mare nell´attesa di scorgere un´increspatura e poi un guizzo, il balenare di una coda; soprattutto continua a esserci necessario cogliere uno stridio, un balbettio, una lallazione: una tra le forme in cui si genera il canto che incanta

La Stampa 12.1.13
Nastassja Kinski “Mia sorella un’eroina”

Il libro-choc «Aver rivelato gli abusi del padre aiuta le vittime di pedofilia»
di S. N.


Ha pianto a lungo, ma adesso è fiera di lei e del suo coraggio: Nastassja Kinski considera sua sorella un’eroina, dopo che, in un libro sconvolgente, ha rivelato gli abusi sistematici subiti da bambina dal loro padre, il mitico attore Klaus Kinski. Con un intervento alla Bild , la nota attrice e modella reagisce alle rivelazioni contenute in Parole di bambini . Aiuteranno tutte le vittime della pedofilia, dice. «Sì, è un momento difficile per me - spiega -. Io però sono con mia sorella, la sostengo. Sono profondamente sconvolta. Ma sono anche orgogliosa della forza che ha avuto nello scrivere un libro del genere. Conosco il contenuto. Ho letto le sue parole. E ho pianto a lungo...».

L’esempio di sua sorella può essere utile agli altri: «Bambini e adolescenti devono essere protetti: devono sapere che ci può essere subito aiuto per loro, quando succede qualcosa di così raccapricciante. Un libro come quello di Pola aiuta tutti i bambini, i giovani, e le mamme che hanno paura del padre, e che mandano giù questa paura e la nascondono nell’anima». «Mia sorella è un’eroina - aggiunge - e così ha liberato dal peso della segretezza il suo cuore, la sua anima e il suo futuro». «Soltanto perché uno si chiama padre, non vuol dire che sia davvero un padre. L’Orrore è successo, anche i padri fanno cose orribili», è il solo commento che dedica all’attore.

Corriere 12.1.13
Un Pd supermarket cerca credito anche tra i cattolici
di Massimo Franco


P er quanto sbilanciato a sinistra, il Pd si presenta alle elezioni sempre più come una sorta di supermarket. Il partito organizzato garantisce un assemblaggio di categorie, gruppi sociali, tendenze culturali che in qualche caso appaiono agli antipodi; ma delle quali il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani continua a dirsi convinto di poter fare «la sintesi». Alla base dell'operazione si intravede soprattutto la negazione del leaderismo degli ultimi diciannove anni. Per paradosso, il candidato più forte a Palazzo Chigi, Bersani, non ha voluto che comparisse il suo nome sul simbolo. E, per quanto parzialmente smentite nelle liste, le primarie hanno accentuato questo processo.
È la conferma della volontà di affermare un modello di potere collegiale; e di archiviare l'altro che non solo non ha funzionato ma ha consegnato l'Italia per anni al carisma berlusconiano. Quando il leader del Pd rivendica il ruolo di «lepre» non pensa tanto al vantaggio nei sondaggi, ma all'intuizione che una fase è finita e se ne sta già vivendo un'altra: nonostante il vecchio «Porcellum» tenda a fossilizzare gli schieramenti del 2008. Il problema è che il fallimento della riforma elettorale rende il «supermarket» del centrosinistra un azzardo, più che un'opportunità. Il bipolarismo vecchio stile ingigantisce le posizioni di rendita e regala alleanze disomogenee.
La tentazione di leggere l'intesa Pd-Sel con le lenti del passato, e dunque assimilarla alla vecchia Unione, è forte. E l'idea che i fantasmi dell'instabilità siano esorcizzati dalla «carta di intenti» sottoscritta da Bersani con Nichi Vendola, non convince molto. Anche se sarebbe ingiusto ignorare lo sforzo e il tentativo di prefigurare una sorta di nuovo interclassismo, sfruttando le fratture che si sono prodotte nel blocco sociale del centrodestra; e approfittando dei limiti e insieme dei vantaggi che la tanto vituperata «austerità» del governo di Mario Monti ha mostrato. Sono le conseguenze di una «strategia della pazienza» che Berlusconi non è riuscito a perseguire fino in fondo, al contrario della sinistra.
Strattonato dalle tensioni nel Pdl per la leadership e dalla pressione esterna esercitata dall'ex e adesso nuovo alleato leghista, il Cavaliere alla fine ha strappato. E adesso è costretto a inseguire. Bersani, invece, all'ombra di Monti ha rinsaldato i rapporti col sindacato di riferimento, la Cgil, e con parte della Confindustria. Sta tentando di attenuare le diffidenze corpose che in gran parte dell'Europa e in Usa accompagnano la prospettiva di un governo guidato da lui. E si è spinto su un terreno considerato fino a qualche tempo fa un tabù per la sinistra: il mondo cattolico. Era un arcipelago associato durante la Seconda Repubblica al berlusconismo; e da un anno a questa parte calamitato dal montismo allo stato nascente.
Ma il fallimento del Forum dei cattolici di Todi ha confermato l'impossibilità di unificare quei movimenti. Il rapporto preferenziale fra le gerarchie ecclesiastiche e Berlusconi è archiviato, dopo la ricandidatura: al punto che il suo accenno, smentito dopo qualche giorno, ad un «sì» alle unioni omosessuali è stato letto come una vendetta contro una Chiesa «ingrata». Su Monti, invece, l'apertura di credito rimane, seppure più guardinga di qualche settimana fa. Ma mentre prendevano forma le liste centriste, gli arruolatori di Bersani hanno trovato dei vuoti imprevisti; e ci si sono infilati, mettendo in ombra le ambiguità vistose presenti nell'operazione. Il supermercato della sinistra prevede dunque anche scaffali cattolici. I vescovi non possono che stare a guardare, scettici.

Corriere 12.1.13
Bersani e i due rivali: attenti Non va abbassata la guardia Verso il voto Il centrosinistra La Nota
«Berlusconi, osso durissimo». Critiche al governo sulle stime

di Monica Guerzoni

ROMA — Pier Luigi Bersani, l'unico candidato premier che ha scelto di non schierare il suo nome nel simbolo, si è perso la sfida tra Berlusconi e Santoro in tv: «Anch'io ho diritto a un po' di relax...». Ma da quel che ha letto e sentito il leader del Pd si è fatto l'idea che il ritorno in forze del Cavaliere finirà per indebolire Monti e, dunque, per giovare ai democratici. Nelle riunioni di vertice ha spronato i suoi a non sottovalutare il leader del Pdl: «Berlusconi è un osso durissimo, non dobbiamo abbassare la guardia...». E se tre giorni fa si diceva «vincente», ora Bersani si accontenta di definirsi «favorito».
L'intervista—show di Servizio Pubblico ha rimesso l'ex premier al centro della scena, tanto che i sondaggi riservati commissionati dal Pd stimano il candidato del centrodestra al 22-23 per cento. Il recupero di Berlusconi ha impressionato Bersani, il quale però ritiene Monti altrettanto insidioso e così attacca. «Certamente siamo usciti dal baratro, ma non condivido certi toni un po' trionfalistici — ammonisce riguardo alle prospettive della crisi economica —. Il 2013 sarà un anno difficile».
Dei conti di Monti e Grilli, Bersani si fida fino a un certo punto. Teme che il premier e il ministro dell'Economia abbiano peccato di ottimismo e li sfida sul tema cruciale del rispetto degli impegni con l'Europa: «Dobbiamo vedere se l'obiettivo del pareggio di bilancio è centrato. Bisogna vedere se la crescita è quella delle previsioni e quanta polvere è stata messa sotto al tappeto...». Un'immagine pensata per insinuare dubbi sulla capacità del Professore di portare avanti il risanamento dell'Italia. Ma non è solo una mossa elettorale, quella di Bersani. È che il segretario, supportato da uno studio di Nens e da alcune previsioni internazionali, ha il sospetto che il governo dei tecnici abbia sovrastimato i numeri della crescita, tanto più che le entrate, a partire dall'Iva, sarebbero inferiori alle previsioni. E se i soldi stanziati per gli ammortizzatori sociali non dovessero bastare a coprire le aziende in difficoltà?
Oggi il capo del governo parlerà alla XIV assemblea annuale di Libertà Eguale, l'associazione fondata dal senatore democratico Enrico Morando. Monti aprirà l'evento con una conferenza, mentre Bersani non ci sarà: ha preferito evitare l'incontro ravvicinato in un momento così teso della campagna elettorale. Se andrà al governo, sugli esodati il segretario non mollerà la presa. E oltre a varare come prime norme il falso in bilancio e l'antiriciclaggio, il leader del Pd ridurrà l'Imu sugli immobili di minor pregio: serviranno due miliardi e mezzo e una seria riforma del catasto. Ma sia chiaro che la tassa più odiata dagli italiani «è stata messa da Berlusconi», nel senso che il governo Prodi fu costretto a imporla a mo' di «pezza» ai «guai» creati dal centrodestra. Il segretario non dimentica il quarto incomodo e provoca Grillo, paragonandolo indirettamente a Benito Mussolini: «Una volta il Parlamento era un bivacco per i manipoli, adesso siamo alla scatoletta di tonno. Andiamo avanti così!». Ma ce n'è anche per Monti. Bersani non ha capito «contro chi combatte» il premier e si dice «molto dispiaciuto» per il mancato appoggio del Professore ad Ambrosoli, candidato governatore del centrosinistra in Lombardia.
E il Quirinale? Bersani assicura di non avere «preclusioni» sul nome di Monti, osserva però che l'inquilino di Palazzo Chigi «si è messo mani e piedi nella contesa politica» il che, come lo stesso premier «ha riconosciuto, rende più difficile avere un ruolo di terzietà». Se Palazzo Chigi toccherà a lui Bersani sarà «inclusivo, dialogante e molto determinato». Non vuole governare in splendida solitudine, punta al 51 per cento ed è convinto che «ci sarà». Grazie anche all'impegno di Matteo Renzi (con il quale ha in agenda un evento a Firenze) e al simbolico contributo dei socialisti. L'accordo con Riccardo Nencini è siglato. Il Psi porterà in Parlamento cinque tra deputati e senatori inseriti nelle liste del Pd e il vicesegretario Enrico Letta dà il via alla campagna: «L'intesa completa la coalizione di centrosinistra». Nichi Vendola ne sarà parte integrante e il problema sarà conciliare l'apertura di Bersani ai moderati con lo slogan «benvenuti a sinistra». Monti, concede Vendola, «potrà appoggiarci, ma stare nel governo è un'altra cosa».

Corriere 12.1.13
Amos Oz contro Netanyahu: «Distruggerà Israele»
di Davide Frattini


GERUSALEMME — Con il primo ministro concorda solo su un punto: le elezioni fra dieci giorni riguardano la sopravvivenza di Israele. Il premier Benyamin Netanyahu è convinto che la minaccia sia l'Iran, lo scrittore Amos Oz che sia Netanyahu. Profeta spirituale della sinistra israeliana — i critici lo paragonano con sarcasmo al rabbino Ovadia Yosef, leader dell'ultraortodosso Shas — Oz porta la campagna elettorale nei salotti di Tel Aviv dove (durante una serata raccontata dal quotidiano liberal Haaretz) intrattiene gli indecisi, quelli che non vogliono scegliere i partiti di centro ma neppure regalare un voto a perdere.
Perché il romanziere spinge ancora per Meretz, malgrado il crollo del febbraio 2009: tre deputati e un imbarazzante ballo della sedia per decidere chi dovesse entrare in parlamento, un giro di danza che aveva cancellato l'inebriata conga della fondatrice Shulamit Aloni, quando vent'anni fa la formazione aveva vinto dodici seggi all'esordio.
Meretz — ha spiegato Oz ai trenta accademici e intellettuali invitati a casa di amici — sarebbe l'unico partito a cogliere fino in fondo la questione esistenziale: «Ci saremo ancora e come saremo?». La strategia scelta da Netanyahu è la «più antisionista che questo Paese abbia mai subito», ha commentato secondo la ricostruzione di Haaretz: «Il suo governo sta facendo di tutto perché in questa regione non ci siano due Stati ma uno. Abbatte Abu Mazen un colpo dopo l'altro e rafforza Hamas un favore dopo l'altro. Bibi crede che gli ebrei possano comandare su di una maggioranza araba per molti anni. Nessuna nazione basata sull'apartheid ha resistito, sono tutte collassate. Se non nascerà lo Stato palestinese, qui non ci sarà uno Stato per due popoli, solo uno Stato arabo».
I sondaggi dei quotidiani Maariv e Yedioth Ahronoth concedono a Meretz tra i cinque e i sei seggi. Gli elettori indecisi sono ancora tanti, almeno il 25 per cento e in questi ultimi giorni sono corteggiati soprattutto dai tre partiti che affollano il centro (virato a sinistra) e che vorrebbero (per ora senza riuscirci) creare un blocco alternativo alla destra di Netanyahu. La laburista Shelly Yachimovich, Yair Lapid (da presentatore televisivo segue le orme del padre Tommy) e Tzipi Livni (tornata in politica con Hatnua, il Movimento) non sono riusciti a mettersi d'accordo.
Ognuno sospetta l'altro/a di prepararsi a entrare nella coalizione del vincitore quasi sicuro Netanyahu. È quel che teme anche Amos Oz. «Chi vi assicura che Tzipi non diventerà il ministro per gli Affari Sociali del prossimo Bibi? O Yair il ministro dell'Educazione? E che cosa possono modificare dall'interno? Lapid combatte perché gli studenti delle scuole rabbiniche prestino il servizio militare. Sono d'accordo, però non si rende conto che se andiamo avanti così non ci sarà più l'esercito dove arruolarli».
Quattro anni fa a Meretz non era bastata la campagna Internet in stile Barack Obama, importata dagli Stati Uniti. Due strateghi dell'allora neopresidente, David Fenton e Tom Mazzei, erano venuti a spiegare come far fruttare il meccanismo dei blog e dei network sociali come Facebook. Quattro anni fa non era bastato il sostegno pubblico di Amos Oz, David Grossman e Abraham Yehoshua, il sacro trio della letteratura israeliana.
Oz non cede davanti ai numeri del passato e a quelli futuri calcolati dai sondaggi: «Almeno noi saremo capaci di fare opposizione. Negli ultimi quindici anni i laburisti hanno strisciato sotto ai primi ministri del Likud. Hanno strisciato quando li guidava Shimon Peres, hanno strisciato quando il capo era Amir Peretz. Sono riusciti a rallentare le costruzioni negli insediamenti? Hanno fermato la catastrofe dell'abolizione di uno Stato per gli ebrei? No, essere al governo non ha portato nulla di buono».
Il romanziere, nato a Gerusalemme nel 1939, non ha fiducia neppure in Shelly Yachimovich, l'ex giornalista televisiva che dirige il labour da un paio d'anni: «Non capisce il pericolo che stiamo correndo. Ehud Barak ripeteva "non c'è soluzione", Shelly pensa "non c'è il problema"».

Corriere 12.1.13

Lo strano caso dei tre profeti Quando la scienza diventa poesia
Da Freud a Sacks, gli studi psicologici sopravvivono come letteratura

di Emanuele Trevi

Pubblicato nel 1964, I tre Cristi di Milton Rokeach è una pietra miliare negli studi sulla schizofrenia, ma non è questo il vero motivo per cui lo si ristampa e lo si legge, divertiti e commossi, come un'opera di grande poesia. Non è un caso che a firmare l'introduzione di questa edizione italiana sia un romanziere del calibro di Rick Moody, e non un'autorità accademica. Quella di Rokeach, in effetti, appartiene a una famiglia di opere che, nate dal desiderio di approfondire la conoscenza della psiche, con l'andare del tempo hanno rivelato altissime qualità estetiche, che ne hanno salvaguardato la durata e il fascino intrinseco, anche a dispetto del loro eventuale «invecchiamento» scientifico. Il capostipite di questa tradizione è ovviamente identificabile con la serie dei Casi clinici di Freud. Ma nell'elenco figurano libri memorabili come Arte e follia in Adolf Wölfli di Walter Morgenthaler, la Vita non romanzata di Dino Campana di Carlo Pariani, Il caso Suzanne Urban di Ludwig Binswanger, Le mani del dio vivente di Marion Milner. Questi medici-scrittori non si consideravano affatto degli emuli e dei concorrenti di Proust o di Joyce. Ma il loro lavoro, basato sull'analisi empirica di esistenze reali, rappresenta di fatto uno straordinario ampliamento dello spazio letterario, se per «letteratura» intendiamo, nell'accezione più vasta possibile, un'indagine per sua natura interminabile sui limiti, le possibilità, le aspirazioni più segrete dell'umano. E tutti quegli stati d'eccezione che compongono il lungo catalogo delle nevrosi e delle follie rappresentano, per chi sia capace di raccontarle, strumenti di conoscenza potenti come i miti, le favole, le visioni dei poeti. Bisogna anche aggiungere che oggi l'arte di raccontare un caso clinico, confrontata ai grandi esempi del passato, sembra attraversare una fase di irrimediabile declino. Il genio di Oliver Sacks troneggia quasi solitario, mentre infuria il gelido vento dello specialismo. E così le nuove Dore e i nuovi piccoli Hans, se non hanno perduto chi è in grado di curarli, non hanno più i loro romanzieri.
Milton Rokeach, americano di origine polacca, vissuto tra il 1918 e il 1988, è il tipico rappresentante di questa vecchia guardia di scienziati-umanisti che sto tentando di rievocare con il dovuto rimpianto. L'ispirazione dell'eccezionale esperimento di cui racconta nei Tre Cristi, durato dal 1959 al 1961, gli era venuta dalla lettura di un aneddoto storico raccontato da Voltaire in una nota a Dei delitti e delle pene di Beccaria. C'era un tempo in cui le vere scintille delle ricerche scoccavano da letture vaste e da scoperte casuali. Oggi questa è un'eresia, e lo stesso sistema di valutazione dei titoli accademici, le tanto lodate «quotations», non fa che scoraggiare ogni forma di libera avventura intellettuale, rinchiudendo gli studiosi nei loro asfittici loculi disciplinari. Ad ogni modo, Voltaire raccontava di un pazzo vissuto verso la metà del Seicento, che si credeva Cristo. Quest'uomo viene rinchiuso in un ospizio dove incontra un altro folle, che a sua volta si definiva il «Padre Celeste». Questo incontro turba tanto il supposto Cristo, da causare un temporaneo rinsavimento. C'era abbastanza materiale, nella pagina di Voltaire, per suscitare il più vivo interesse in uno psicologo come Rokeach. Chiunque ha avuto a che fare con forme di schizofrenia di tipo paranoide (il cui esempio più proverbiale è il paziente che si crede Napoleone) sa bene che è difficilissimo penetrare nella cortina di ferro di un delirio, per modificarlo anche solo in alcuni particolari. Si può dire che lo schizofrenico paranoide, murato nelle sue convinzioni, è la più solitaria di tutte le creature, mancando di ogni forma di empatia, e rendendo praticamente vano lo scambio linguistico. È una specie di irrimediabile ergastolo mentale.
Eppure, la storiella raccontata da Voltaire sembra indicare un modo diverso di osservare la questione. Evidentemente, in circostanze che si potrebbero definire «omeopatiche», si può verificare un cambiamento nei contenuti del delirio. Ciò potrebbe verificarsi, pensò Rokeach, mettendo a contatto dei pazienti dotati di convinzioni simili riguardo alla loro identità. Dopo un'attenta ricerca negli istituti psichiatrici del Michigan, vennero individuati tre casi abbastanza simili da permettere l'esperimento. Clyde Benson, Joseph Cassel e Leon Gabor (questi sono i nomi fittizi che lo psicologo gli attribuisce nel libro) erano tutti e tre convinti di essere Gesù Cristo. Invitati a vivere nello stesso padiglione e ad affrontarsi nel corso di riunioni quotidiane, vennero registrati e osservati da Rokeach e dai suoi collaboratori con la massima attenzione a tutti quei cambiamenti prodotti dall'interazione.
A partire dallo shock iniziale, che si può riassumere in una semplice domanda: se io sono Gesù Cristo, come è possibile che ci siano altre due persone in questa stanza che credono altrettanto di sè? Non breve, la cronaca dell'esperimento di Rokeach si legge tutta d'un fiato, tra i misurati interventi di riflessione dello psichiatra e le irresistibili, e a volte geniali, dichiarazioni dei pazienti, che a modo loro, e nonostante l'inevitabile competitività generata dal confronto, sviluppano il sentimento di appartenere a un gruppo privilegiato, distinto da tutti gli altri pazienti dell'ospedale. «Sono Dio e ho uno psichiatra», esclama a un certo punto Joseph, «ma sarò un Dio ben diverso quando avrò riottenuto il mio potere».
Gli ideatori dell'esperimento, per conto loro, non dimenticano mai lo scopo principale della ricerca, che è quello di mettere alla prova «l'incapacità di interessarsi dei sentimenti altrui» tipica della schizofrenia cronica. Non perché sia dotato di un qualche «bello stile», qualità sempre discutibile e opinabile, Roekeach ha dato prova di essere un vero scrittore nei Tre Cristi. Semmai, il suo talento e il suo sapere collaborano nel rendere i tre protagonisti del racconto esseri umani nel senso più pieno della parola: unici, vale a dire, e imprevedibili nei loro sentimenti. E se nessuno gli tolse mai dalla testa di essere Gesù Cristo, ognuno lo fece a modo proprio. Che è proprio quello che ognuno di noi può augurarsi dalle proprie personali follie.

Il libro di Milton Rokeach, «I tre Cristi. Storia dell'esperimento più pazzo del mondo» è pubblicato da Fandango Libri (pp.493, 19,50, traduzione di Manfredi Giffone).
Milton Rokeach (1918-1988) è stato uno psicologo sociale americano di origine polacca. Ha insegnato in molte università (nella foto Sigmund Freud).
Tra i suoi libri: «The open and closed mind» (1960) e «The nature of human values» (1973). Il libro «The three Christs» venne pubblicato in prima edizione nel 1964.

Corriere 12.1.13
Un quintetto per Wittgenstein

di Armando Torno

Nell'anticappella del Trinity College di Cambridge vi sono alcune targhe commemorative. Su una parete, dietro le statue di Newton e di Bacon e di altri eminenti che frequentarono questo istituto fondato da Enrico VIII nel 1546, vi è quella dedicata a Ludwig Wittgenstein. In limpido latino sintetizza una personaggio tormentato, profondo.
Le ultime due linee riassumono opere e vita: Verum adsequendo singulari integritate deditus/ obit MCMLI aetatis suae LXIII, cioè: «Dedito sempre, con singolare integrità, al perseguimento del vero, morì nel 1951 nel sessantatreesimo anno di età».
Di Ludwig Wittgenstein vedono ora la luce in italiano, a cura di Brian McGuinness e nella traduzione di Adriana Bottini, le Lettere 1911-1951 (pubblicate dalla Adelphi, pp. 608, 48). Rappresentano un documento essenziale per comprendere il lascito intellettuale di uno dei filosofi più importanti del Novecento. Da noi mancavano e, pur con i loro meriti, le raccolte precedenti pubblicate nella nostra lingua erano parziali.
D'altra parte, basti notare come la letteratura critica utilizzi tali documenti per orientarsi: il recente saggio di Hans Sluga, Wittgenstein (appena tradotto dalla Einaudi, pp. 242, 18), si basa su alcune missive per meglio definire la natura del Tractatus logico-philosophicus. Ma è sufficiente scorrere l'elenco dei suoi destinatari per rendersi conto di quanto siano importanti tali epistole: da Bertrand Russell a John Maynard Keynes, dall'antimetafisico George Edward Moore a Piero Sraffa.
In particolare, l'epistolario con Bertrand Russell mostra non pochi aspetti umani, oltre che filosofici. Prova ne è la lettera che quest'ultimo spedisce a Wittgenstein da Londra, dopo essere rientrato dalla Cina, il 5 novembre 1921. Gli comunica di essersi sposato con Miss Black, di attendere un bimbo e di aver comperato una casa dove «ci abbiamo messo i tuoi mobili di Cambridge». Aggiunge: «Il bambino nascerà probabilmente nel tuo letto. C'erano tantissimi libri tuoi, nonché vari scatoloni e pacchi spediti da studi tecnici di ingegneria che non avevi mai aperto. Se verrai a trovarci, ti restituirò qualunque libro tu desideri. Le tue cose valgono molto di più di quello che ho pagato».
Si scoprono i suoi interessi musicali. In una lettera del 5 agosto 1945 Moore ricorda all'amico che il Quintetto di Schubert è straordinario, «come avevi detto tu»; Wittgenstein gli risponde il 7 con un «peccato non poter ascoltare il Bruckner ora». Poi ci sono le teorie che avrebbero rivoluzionato la logica, il volontario esilio per ritirarsi a insegnare in sperdute scuole elementari della Bassa Austria, altro. Insomma, c'è Wittgenstein.

Corriere 12.1.13
Dubbi sulla pillola contraccettiva. Serve più lealtà verso chi la utilizza
di Adriana Bazzi

Il dibattito sulla pericolosità delle pillole contraccettive di terza e quarta generazione va avanti da mesi, anzi da anni. E in Francia, in questi giorni, ha raggiunto il suo culmine, dopo la denuncia nei confronti di un'azienda produttrice (la tedesca Bayer) da parte di una ragazza venticinquenne, Marion Larat, ora disabile per un ictus che lei attribuisce al contraccettivo. E intanto, come riferisce il British Medical Journal, ai medici francesi è stato chiesto di limitare la prescrizione di questi medicinali.
I farmaci anticoncezionali esistono fin dagli Anni Sessanta, contengono ormoni simili a quelli prodotti dalle ovaie (estrogeni e progestinici), bloccano l'ovulazione e mettono al riparo da gravidanze. I primi preparati prevedevano dosi piuttosto alte di ormoni e non erano esenti da effetti collaterali. Poi sono arrivate le pillole di seconda generazione, più sicure, e quelle di terza e di quarta, che contengono nuovi progestinici e sono sempre state propagandate come «ancora più sicure» delle precedenti. Ma le ricerche scientifiche dimostrano che non è proprio così: studi danesi e canadesi (del 2011) hanno denunciato un aumento del rischio di trombosi (coaguli di sangue nelle vene che possono provocare embolia ai polmoni o al cervello) per chi utilizza pillole con i nuovi progestinici e hanno dimostrato che i preparati di seconda generazione sono più sicuri di quelli più nuovi. Questi allarmi però non sono stati ascoltati. In Francia si discute, in Italia tutto tace (l'Aifa, l'Agenzia italiana del farmaco, interpellata da noi, non ha dato risposte). Ecco allora tre considerazioni. Queste vicende non devono scoraggiare l'uso della contraccezione ormonale che è una grande conquista delle donne. A un patto però (secondo punto): che le aziende farmaceutiche siano leali e non propagandino l'ultimo loro ritrovato come il migliore rispetto ai vecchi. Terzo punto: è indispensabile un controllo delle autorità sanitarie che dovrebbero fare riferimento ai risultati delle ricerche scientifiche e non al parere di opinion leader troppo «connessi» con le aziende farmaceutiche.

Repubblica 11.1.13
Fondata sull’Islam
Democrazia e Sharia
“Sia nella Costituzione”, “ No Lo Stato è laico”
Dialogo tra Ramadan e An-Na’im sul futuro delle Costituzioni arabe


ISLAM DEMOCRAZIA E SHARI’A “SIA NELLA COSTITUZIONE” “NO, LO STATO È LAICO” sull’ FONDATA NINA ZU FÜ RSTENBERG Tariq Ramadan e Abdullahi An-Na’im, due tra i più noti intellettuali e riformisti musulmani contemporanei, sono stati posti di fronte l’uno all’altro da Reset-Dialogues on Civilizationsper discutere della shari’a, la legge islamica, e se debba avere un posto e quale nelle Costituzioni delle nuove democrazie arabe. An-Na’im Per quanto riguarda i rapporti tra shari’a e diritto, ritengo che la legge dello Stato non debba mai configurarsi come shari’a. La legge dovrebbe essere laica e come tale deve essere riconosciuta. Solo così una legge può essere discussa e modificata senza intaccare le convinzioni religiose della popolazione. La shari’a non deve essere legittimata dallo Stato: come ordinamento normativo dell’Islam, vale a dire come somma dei doveri di un musulmano, la shari’a — e proprio questo è il suo valore aggiunto — deve poter essere praticata volontariamente. Introdurla nel sistema costituzionale e normativo di uno Stato equivarrebbe a imporla ai cittadini, travisandone la natura e il valore eminentemente religiosi. Temo una shari’a imposta da un’istituzione statale che può essere o diventare coercitiva. RamadanIl punto è questo: se da un lato per shari’a si intende un percorso verso la fede costituito da principi e obiettivi, dall’altro dobbiamo ricordare che tutto ciò che a essa si aggiunga in termini di leggi e di apparati normativi non è che una costruzione dell’uomo. Quando qualcuno mi dice che la shari’a è il suo principale punto di riferimento, la sua fonte di ispirazione, la domanda che io gli rivolgo è: ma quale tipo di ispirazione ricavi dalla shari’a, sono leggi da applicare o obiettivi da raggiungere? Se la risposta è “leggi”, allora il riferimento alla shari’a è destinato a non funzionare perché ne implicherebbe l’imposizione di tipo normativo sugli altri. Sarebbe la strada più breve verso una teocrazia, e non verso la democrazia. In Egitto è in corso un dibattito molto acceso sul significato di un “riferimento alla shari’a” nella Costituzione. I cittadini copti, giustamente, si chiedono in che modo un riferimento del genere nella carta costituzionale possa garantire loro gli stessi diritti, gli stessi doveri e la stessa libertà di tutti gli altri cittadini. [... ] An-Na’im Se la Costituzione cita la shari’a, e questo per te non fa alcuna differenza, perché farlo? RamadanPerché per il musulmano fa una differenza sapere che il rispetto per gli altri deriva proprio dal suo principale punto di riferimento. An-Na’im Ma non puoi dire che il riferimento alla shari’anon determinerebbe differenze tra copti e musulmani. Ramadan [... ] La differenza c’è, e sta nel fatto che in un paese a maggioranza musulmana non puoi convincere la gente a seguire un progetto politico se questo viene avvertito come estraneo al proprio ordine di riferimento. [... ] An-Na’imCi sono molti paesi a maggioranza musulmana, come il Senegal, il Mali e il Gambia, la cui Costituzione è esplicitamente laica. I musulmani in India, che rappresentano la seconda popolazione musulmana più numerosa al mondo, vivono in uno Stato laico. Non credo affatto che i musulmani si ribellino a uno Stato solo perché è laico. [... ] Ramadan Ma è la comunità che forma lo Stato ed elegge il governo, quindi è meglio affrontare in maniera critica il problema del riferimento alla shari’a nella sua interezza cercando di stabilirne una volta per tutte il significato profondo. Dirò di più: è proprio nel nome della shari’a che dobbiamo costruire un sistema legale che non faccia distinzioni tra i cittadini. “Siamo uguali in nome della nostra religione” è un’esortazione, un principio che nei paesi a maggioranza musulmana risulterà molto più efficace del modello che tu proponi. An-Na’im Se la inserisci oggi nelle Costituzioni essa sarà compresa nel suo significato attuale, e non in quello che le attribuisci tu. [... ] I musulmani che oggi convivono in uno Stato con altri non musulmani non sono i destinatari del comandamento che prevede le hudud, le pene corporali, un comandamento rivolto solo ai credenti ed estraneo al mondo attuale. È ovvio che non può essere applicato da un punto di vi- sta normativo in uno Stato in cui convivano musulmani e non. Le hududnon devono essere legittimate dallo Stato. La legge è laica e per questo deve essere un prodotto della ragione e del discorso civile, per cui respingo con forza il concetto di immutabilità. Se vuoi proporre una legge, devi difenderla e spiegarla in un modo che non si appelli all’autorità religiosa: non puoi pretendere di legittimarla affermando che “è così che deve andare perché è Dio che lo vuole”. Un crimine non è un peccato; un comportamento, da due punti di vista diversi, può essere entrambi, ma i due concetti non sono affatto equivalenti. RamadanÈ vero che la shari’a e tutte le regole annesse vengono interpretate dall’uomo, ma ci sono diversi livelli di razionalità giuridica, diverse sfumature e varianti interpretative. Il punto è dire ai musulmani “sì, nel Corano ci sono riferimenti alle pene corporali e a quella di morte, e nella tradizione profetica ci sono due o tre testi che parlano di lapidazione. Ma la nostra interpretazione deve basarsi non solo sul contenuto letterale, ma sull’essenza e sugli obiettivi del Corano stesso”. [... ] Da musulmano mi trovo ad affrontare testi che parlano letteralmente di “tagliare la mano dell’uomo e della donna”. Non può essere difesa l’applicazione di queste pene con la scusa che si sta rispettando il testo, non se si è fedeli al Corano e se si è compreso che i suoi obiettivi sono la giustizia, il rispetto degli esseri umani e la dignità, vale a dire l’esatto opposto della tortura. [... ] Quando mi rivolgo all’Occidente vorrei rimuovere fattori di ansia, ma quando mi rivolgo ai musulmani e ai paesi a maggioranza musulmana vorrei ritrovare in essi anche un certo senso di coerenza, apertura e benessere. Non credo che i musulmani saranno disposti ad ascoltarti se l’unico obiettivo è tranquillizzare l’Occidente. An-Na’imNon sto cercando di appagare l’Occidente. Dico le stesse cose al Cairo, in Indonesia o ovunque mi trovi. Che i musulmani siano la maggioranza o una minoranza non importa: la shari’a non dev’essere implementata dallo Stato. Ci sono venti milioni di musulmani che vivono in Europa, si tratta di una preoccupazione fondamentale per chi ci vive, musulmano o non. Traduzione dall’inglese Claudia Durastanti