lunedì 14 gennaio 2013

Repubblica 14.1.13
La parola di Gesù sul lettino di Freud
In una nuova edizione le originali tesi dell’analista Françoise Dolto
di Massimo Recalcati


Alla fine della mia lettura de I Vangeli alla luce della psicoanalisi di Françoise Dolto, ripubblicato dopo circa trent’anni da una nuova piccola casa editrice milanese et al./edizioni, ho pensato: “ecco un gioiello!”. A suscitare il mio entusiasmo diverse ragioni. La prima è la sua autrice: Françoise Dolto. Amica e allieva di Jacques Lacan, originalissima psicoanalista con una propensione particolare alla cura dei bambini, profondamente interessata ai processi di umanizzazione della vita e agli snodi principali dello sviluppo psicologico del soggetto (infanzia e adolescenza), sino alle angosce e alle responsabilità che investono i genitori, ma anche attenta alle trasformazioni della vita collettiva e ai virtuosismi del desiderio e alla sua declinazione femminile, Dolto non si è mai rifugiata in un linguaggio esoterico o specialistico, ma ha sempre cercato di rendere trasmissibile il proprio pensiero. La sua originalità nel mondo della psicoanalisi è consistita anche dal fatto che non ha mai nascosto la sua fede cristiana e la sua militanza cattolica. Fatto raro per uno psicoanalista che si rifaceva all’insegnamento di Freud, seppur ripreso da Lacan. Per il padre della psicoanalisi, infatti, l’uomo religioso è abbagliato da una illusione narcisistica. A partire da Freud – forse con la sola eccezione significativa di Lacan – la tradizione psicoanalitica ha sostenuto compattamente l’idea della religione come “nevrosi” o, addirittura, come “delirio dell’umanità”. L’uomo religioso è l’uomo che rifiuta la responsabilità di affrontare le asprezze reali della vita per rifugiarsi nella credenza illusoria di un “mondo dietro il mondo” – come direbbe Nietzsche – , regredendo allo stato di un bambino che trasferisce su Dio tutti quei tratti di infallibilità e di perfezione che prima attribuiva al proprio padre. Rispetto a questo schema Dolto rappresenta una importante alternativa.
È questa la seconda ragione del mio entusiasmo di lettore. Dolto non entra mai nel merito di una difesa di ufficio della religione contro la psicoanalisi. Ella pensa e ragiona da psicoanalista interessata non tanto al fenomeno dell’uomo religioso o della credenza religiosa – interesse che ha invece calamitato il pensiero di Freud – , ma alla lettura diretta dei Vangeli. Il suo discorso vira così da una psicoanalisi del sentimento religioso in generale alla parola di Gesù. La lettura dei Vangeli viene descritta come “un’onda d’urto” che mette a soqquadro la nostra rappresentazione ordinaria della realtà. Dolto mette con decisione l’accento su Gesù come maestro del desiderio: «Gesù insegna il desiderio e trascina verso di esso», verso quella che Dolto definisce provocatoriamente «una nuova economia dell’egoismo». Cosa significa? Gesù ci insegna a non avere paura di accogliere la forza e la trascendenza del desiderio che ci abita e che spinge la vita umana al di là del campo animale del soddisfacimento dei bisogni. L’egoista non è chi segue con fedeltà la chiamata del suo desiderio, ma colui che pretende che gli altri si uniformino al suo. Chi invece segue con decisione la chiamata del proprio desiderio, come fa, al limite della truffa, il fattore disonesto raccontato in una parabola dall’evangelista Luca, non è un egoista in senso dispregiativo, ma qualcuno che sa rendere la sua vita generativa. Per questo Dolto vede nel completamento cristiano della Legge ebraica una sovversione radicale del rapporto tra Legge e desiderio. La forma più alta e liberatoria della Legge non entra in conflitto repressivo col desiderio perché coincide in realtà con il desiderio stesso.
In questo senso Gesù insegna il desiderio, insegna a non rinunciare al proprio desiderio. Com’è liberatoria questa versione della parola di Gesù rispetto alla sua riduzione ad un ammonimento morale! Ecco allora l’ultima ragione – quella decisiva – per la quale la lettura di questo librogioiello mi ha entusiasmato. È il modo in cui Dolto ribalta le interpretazioni più canoniche delle parabole applicando l’arte dell’analista alla parola stessa di Gesù. Prendiamo come esempio quella nota a tutti del buon samaritano. L’interpretazione catechistica la riduce al fatto che tutti noi dovremmo dedicare del tempo a chi giace inerme e ferito sulla nostra strada, al nostro prossimo più sfortunato. Dolto invece identifica il prossimo non con lo sventurato che chiede aiuto, ma con chi offre in modo disinteressato il suo aiuto. Strabiliante!
Il prossimo è il buon samaritano!
Ed è per questo, per come ci ha soccorsi e donato il suo tempo senza esigere riconoscenza alcuna, né farci sentire in debito, che occorre amarlo, amare il samaritano come nostro prossimo. Per questa ragione l’amore cristiano non ha nulla di consolatorio, non è un rifugio illusorio, non è una negazione del carattere spigoloso del reale. L’amore in Gesù è – come avviene nell’incontro con il buon samaritano – una forza che ci scuote e che porta con sé la necessità dello strappo e della separazione. Nella celebre parabola del figliol prodigo tra i due fratelli il peccato più grande – il solo che conta – l’ha compiuto chi si aspettava che l’eredità fosse semplicemente una questione di clonazione, di fedeltà passiva al passato. Il figlio che resta accanto al padre è il figlio nel peccato perché non accetta la Legge del desiderio che è la Legge della separazione. Gesù è l’incarnazione pura di questa forza separatrice («Non sono venuto a portare la pace ma la spada!»). Molte delle parabole commentate da Dolto mettono il dito nella piaga mostrando il rischio che il legame familiare scivoli verso un legame incestuoso che impedisce lo sviluppo pieno della vita. È questo il caso dei racconti delle resurrezioni, come quella del figlio della vedova di Nain, della figlia di Giairo o dello stesso Lazzaro. La parola di Gesù risveglia dalla morte perché strappa la vita da legami mortiferi che non la fanno accedere alla potenza generativa del desiderio. “Vieni fuori!” – il grido che Gesù rivolge a Lazzaro – deve essere preso come un nuovo imperativo categorico che consegna la vita umana alla Legge del desiderio. “Vieni fuori!” significa: non stare nel riposo incestuoso, non evitare il rischio della perdita, non delegare il tuo desiderio a quello dell’Altro, non smarrire la tua più singolare vocazione!
È questo il volto di Gesù ritratto da Dolto che ribalta un altro luogo comune che vorrebbe liquidare la verità del cristianesimo come un evitamento dell’incontro col reale (la morte, il sesso, la malattia, l’angoscia, ecc). La lettura di Dolto rovescia anche questo pregiudizio mostrando come il reale scaturisca proprio dall’incontro con la parola di Gesù perché questa parola spinge ciascuno di noi ad assumere la Legge del proprio desiderio. Gesù non vuole proteggere la vita dalle ustioni del reale, non si offre come riparo consolatorio, né tantomeno pretende di guidare le nostre vite. Egli è l’incarnazione della Legge del desiderio;
non ci guida, ma ci attrae a sé.
È causa del desiderio e non emissario di una Legge sadica che opprime il desiderio.

l’Unità 14.1.13
Il centrodestra recupera dall’astensione
La coalizione di Monti supera (di poco) Grillo
Pdl in risalita Ma il Pd è avanti di dodici punti
di Carlo Buttaroni
Presidente Tecné

L’ultimo sondaggio di Tecnè per Sky Tg 24, effettuato all’indomani dell’intervista di Michele Santoro a Silvio Berlusconi, registra un incremento del Pdl e un contestuale calo dei consensi al Pd e alla lista Monti. Un effetto B, quindi, effettivamente c’è stato. Nel complesso la coalizione di centrosinistra è diminuita dello 0,8%, lo schieramento che fa riferimento a Monti dell’1,3% mentre Pdl e alleati sono cresciuti dell’1,6%. Nel complesso si accorciano le distanze tra il centrosinistra e il centrodestra ma i rapporti di forza rimangono sostanzialmente invariati, con quasi 12 punti percentuali che distanziano la coalizione di Bersani da quella di Berlusconi. Per il 42,5% degli intervistati sarà, comunque, la coalizione di centrosinistra a vincere le elezioni, mentre solo il 18,3% assegnerebbe, oggi, la «maglia rosa» a Berlusconi e il 17,4% a Monti. Insomma il tempo resta buono dalle parti del centrosinistra. Anche se tutto può ancora accadere e ciò che è interessante notare, nel sondaggio di Tecnè per Sky, è proprio come alcuni fatti influenzino, più di altri, gli orientamenti politici degli elettori.
Come tutti i fenomeni sociali, infatti, gli avvenimenti politici producono effetti che hanno un’intensità e una durata. Soprattutto quelli che trovano un’accelerazione nella comunicazione politica che tende a scendere in profondità.
La variazione misurata dal sondaggio (+1,6%) a favore del centrodestra è tanto o poco? La risposta a questa domanda dipende dall’unità di misura che si sceglie. Se la scala temporale è breve, l’oscillazione è indubbiamente indicativa di un fenomeno di grande intensità. Se si allunga la scala e l’unità di misura è in settimane, anziché in giorni, il fenomeno, molto probabilmente, tenderà a stabilizzarsi su valori diversi. Su quali valori, però, lo sapremo solo in seguito.
Bisogna tenere presente, però, che la variazione delle percentuali, in questo momento, non deriva dagli spostamenti da un partito all’altro o da una coalizione a un’altra, ma dai flussi da e per l’area dell’astensione e dell’incertezza. Gli elettori che più si muovono in quest’ambito sono prevalentemente poco informati, meno attenti alle vicende politiche quotidiane e meno influenzati da fatti specifici. Molti di loro probabilmente non hanno visto la trasmissione con Berlusconi e non hanno letto i giornali che hanno dato ampio spazio all’evento. Sono più sensibili al clima d’opinione generale. E nel mutamento del clima di questi giorni hanno avuto un ruolo gli elettori più attenti e i militanti di centrodestra, nei confronti dei quali la performance del leader del Pdl ha avuto sicuramente un effetto mobilitante.
Da quanto questi ultimi sapranno rendere favorevole il clima sociale intorno a Berlusconi dipende il punto di caduta finale in termini di consensi. Nel frattempo, però, altri fatti caratterizzeranno la campagna elettorale. Alcuni saranno meno importanti, altri lo saranno persino di più. Il monitoraggio quotidiano dell’opinione pubblica è particolarmente interessante proprio perché registra le oscillazioni in uno scenario in costante evoluzione.
IL VANTAGGIO DI BERSANI
In questo contesto bisogna anche tenere presente che la distribuzione dei pesi politici sul mercato elettorale non è ancora definitiva. Man mano che ci si avvicina alla data del voto è probabile assistere a un riequilibrio dell’articolazione dei consensi più vicina ai valori che tradizionalmente sono espressi nel nostro Paese. E il calo del centrosinistra sembra iscriversi proprio all’interno di questa dinamica. La coalizione guidata da Bersani per mesi ha fatto registrare un vantaggio molto ampio nei confronti del centrodestra. Ma ciò era determinato anche dalla crisi politica del centrodestra e dall’essere il centrosinistra l’unica vera offerta politica in campo. Oggi si registra una flessione in termini relativi perché la fase espansiva dei consensi ha fatto registrare un picco nei giorni delle primarie, mentre l’area d’incertezza e astensionista era rappresentata prevalentemente da elettori di centrodestra. Ora una parte di questi elettori sta rientrando nel mercato elettorale, assestando progressivamente i rapporti di forza tra i partiti su valori più simili a quelli registrati in altre elezioni, seppur con significative variazioni a favore del centrosinistra.
Ma proprio la lettura di queste dinamiche ripropone l’anomalia di un sistema politico che ancora non trova un punto di equilibrio. Si presenta apparentemente come una competizione tripolare tra una sinistra, un centro e una destra ma in realtà è un bipolarismo in apnea, subordinato alla «competizione nella competizione» tra Mario Monti e Silvio Berlusconi per la leadership del centrodestra. Da una parte il centrosinistra di Bersani rende fluida la sua offerta di governo, anche in virtù del primato di consensi che tutte le indagini gli attribuiscono da molti mesi a questa parte. Nel centrodestra (e nel centro) la scelta di un’opzione di governo, invece, lascia il posto al proposito di impedire che ci sia «un vincitore».
In questo complesso confronto le strategie comunicative richiamano indirettamente le parole di McLuhan. Per il grande sociologo canadese il messaggio non sta soltanto in ciò che si trasmette, ma anche in come si trasmette. E la comunicazione di questa fase pre-elettorale esalta la sopravvalutazione del mezzo, che finisce per rappresentare il messaggio stesso. Peraltro, l’evocazione di un possibile stallo di sistema suona anche come un avvertimento: votare potrebbe avere come effetto «nessun governo». Oppure, detto in altre parole, votare potrebbe servire soltanto a definire un equilibrio da spendersi, a tempo debito, nel futuro Parlamento. Cioè al di là del voto. Questa alterazione del paesaggio politico, dove si svolge la competizione elettorale, ha inevitabili conseguenze anche nell’area dell’incertezza e dell’astensione che, infatti, continua a rimanere insolitamente alta.
STRATEGIE COMUNICATIVE
Per quasi cinquant’anni la comunicazione politica ha avuto, in primo piano, gli orizzonti della società. Democrazia, lavoro, classi sociali, diritti, doveri, libertà di mercato, meriti, bisogni, solidarietà sono state parole alcune in sintonia, altre in conflitto che evocavano grandi matrici dell’immaginario collettivo, rappresentando le tensioni ideali del secolo scorso. Oggi di quelle parole non c’è che una vaga traccia. Ma sembrano eclissate anche le suggestioni e le promesse (per lo più irrealizzate e irrealizzabili) che hanno caratterizzato la comunicazione politica della seconda Repubblica. Al loro posto prevale l’ineluttabilità di un governo che forse non ci sarà. Lo show dell’«impatto zero» sugli assetti istituzionali ha preso il sopravvento. È naturale che, con questi paradigmi, il messaggio politico non abbia più bisogno di contenuti concettuali. Ci si può affidare solo a elementi extraverbali. Non contano gli argomenti, ma il modo in cui si è capaci di rendersi convincenti. Non quello che si dice, ma come si dice.
Ecco perché, in questa campagna elettorale, si usa un vocabolario di base, colloquiale, non ricercato, molto sfumato, che ha la sua metafora perfetta in una coalizione politica, quella di centrodestra, che ha un leader di riferimento ma molti candidati premier al suo interno. Anche le frasi sono ripetute spesso e più volte, perché la ripetitività è l’unico modo per memorizzarle senza perimetri definitivi. Soprattutto senza orizzonti.

Corriere 14.1.13
I sondaggi sono fotografie, non vaticini
di Renato Mannheimer

I sondaggi elettorali provocano spesso — soprattutto in questo periodo di evoluzione continua dell'offerta politica — un largo dibattito. Così è stato anche per i risultati della ricerca Ispo condotta in questi ultimi giorni sulla Lombardia, pubblicata sul Corriere della Sera di ieri.
Alcuni commenti, tuttavia, partono da una impostazione errata e pericolosa. Vale la pena, dunque, di sottolineare nuovamente come, specie nel corso di una campagna elettorale, i sondaggi non abbiano tutto quel valore previsivo che alcuni attribuiscono loro. Ma rilevino solamente lo stato delle opinioni in un certo momento, per di più con un margine di approssimazione statistico che in particolare comporta difficoltà nello stimare il seguito dei piccoli partiti. Occorre considerare che, in un periodo di diffusa indecisione e mobilità potenziale come l'attuale, alcuni eventi possono influenzare l'elettorato, mutandone le intenzioni di voto. A dicembre, ad esempio, il Pd vide incrementarsi notevolmente i suoi consensi ad effetto delle primarie e il fenomeno fu certificato dai sondaggi. Poi la crescita si è attenuata. Ancora, proprio in questi giorni, tutte le ricerche registrano una ripresa del Pdl, anche a seguito della presenza di Berlusconi in televisione, in ultimo da Santoro. E la stessa sondaggista di riferimento di Berlusconi, Alessandra Ghisleri, avverte che si tratta di una avanzata potenzialmente provvisoria.
Anche per il passato si tende a sostenere che un tale ricercatore avrebbe «azzeccato» il risultato futuro e che un altro avrebbe «sbagliato». Non è necessariamente così. Dipende dal momento in cui si è effettuata la ricerca e dalla evoluzione successiva della campagna. In diversi casi, la condotta e le scelte comunicative di un candidato hanno finito col sovvertire l'orientamento a lui o a lei favorevole.
Insomma, i sondaggi descrivono, com'è inevitabile, solo la situazione in un dato momento. Seguono e documentano la campagna elettorale, ma non possono, per loro natura, prevederne gli esiti. Il che suggerisce che le ricerche dovrebbero essere usate come strumento per la campagna, per sollecitare o correggere temi o iniziative, non tanto come previsione.
In definitiva, occorre considerare i sondaggi per quello che sono: fotografie, non vaticini.

La Stampa 14.1.13
Il centrosinistra
“Sui temi etici bisogna favorire la libertà”

Nove pagine divise in sette punti, dal primo, «Europa», fino all’ultimo, «Responsabilità»: per scongiurare il rischio Unione - l’alleanza rimasta tristemente nota per l’alto tasso di litigiosità ora è scritto nero su bianco che chi entra in coalizione si impegna a «sostenere in modo leale e per l’intero arco della legislatura l’azione del premier scelto con le primarie». Il programma consegnato al Viminale dalla coalizione dei progressisti e dei democratici - Pd e Sel le due forze maggiori -, protocollato col numero 141 (su 215 simboli presentati) è la carta d’intenti già firmata e sottoscritta in occasione delle primarie per individuare il candidato premier. Dove si fa riferimento un paio di volte all’eterno nemico, ad esempio per dire che «negli anni del berlusconismo l’appello alla libertà è stato utilizzato a difesa di privilegi e vantaggi privati»: libertà è una parola che invece serve loro per dire (l’unica grande coalizione a farne esplicito richiamo) che «sui temi che riguardano la vita e la morte la politica deve coltivare il senso del proprio limite». E il legislatore intervenire sulla base di «un principio di cautela e laicità del diritto». Il programma spazia dall’Europa – con l’impegno a «promuovere un accordo di legislatura» con le forze del «centro liberale», sulla base «della loro ispirazione costituzionale ed europeista» – alla democrazia – con la promessa della «difesa intransigente del principio di legalità» e norme stringenti sul conflitto di interessi, legislazione antitrust e libertà d’informazione – fino al «Lavoro»: la proposta è quella di alleggerire il fisco sulle imprese «attingendo alla rendita dei grandi patrimoni finanziari e immobiliari». Firmato e timbrato anche l’impegno del primo provvedimento da approvare in caso di vittoria: una legge sull’immigrazione che renda italiani i bimbi nati e cresciuti in Italia da genitori stranieri.

La  Stampa 14.1.13
Dal Pd stop a Vendola: niente alleanza con Ingroia
Il segretario: “Abbiamo chiuso con Di Pietro, evitiamo i populismi di sinistra”
di Carlo Bertini

Con Ingroia «non esistono margini per un’intesa strutturale. La distanza è abissale sia rispetto al nostro programma sia per ciò che riguarda i comportamenti, a partire dall’attacco sconsiderato alla Corte costituzionale». Ecco, se questo post su facebook di un membro della segreteria vicinissimo a Enrico Letta come Marco Meloni, rispecchia l’opinione del numero due del Pd, si capisce come non sia piaciuta affatto ai vertici del partito la mossa di Nichi Vendola. Che in un colloquio con La Stampa ieri ha posto come condizione ad un dialogo con i centristi in caso di pareggio un’apertura a Ingroia.
Sul punto il pensiero di Bersani è riassumibile con un concetto che rimbalza dai suoi spin doctor: «Evitiamo aperture ai populismi che vengono da sinistra. E poi se avessimo voluto aprire a qualcuno allora lo avremmo fatto con Di Pietro». Tradotto, non potremo allearci con Ingroia dopo aver rotto la «foto di Vasto» con Tonino. E dunque, a fronte di un Ingroia che si compiace e ringrazia Nichi «per l’ulteriore segnale di attenzione e di apertura che spero possa favorire un clima di dialogo con il centrosinistra», fa da contraltare il gelo in casa Dem. «Magari apriamo pure a Grillo... », butta lì un altro lettiano, Francesco Boccia. Certo non sfugge a nessuno un punto messo in rilievo dall’ex senatore Pd Enrico Morando, sul fatto che «Sel sente la competizione della lista Ingroia» e dunque Vendola «deve accentuare i toni, ma così facendo rischia di indebolire la proposta di governo del Pd». Un timore, quello di dare l’immagine del caravanserraglio dell’Unione, che lo stesso Vendola prova a sopire, promettendo di non essere «colui che tirerà la giacchetta a Bersani mettendo in fibrillazione il quadro di governo». Ma al contempo Vendola continua a puntare i piedi: accendendo i riflettori sulla contraddizione tra la linea Pd di un accordo progressistimoderati e il suo slogan «non sarò mai in una maggioranza assieme a Casini». Insomma, «se il Pd sceglie Monti dovrà fare a meno di Sel», perché il centrosinistra ha diritto di governare senza ipoteche e badanti».
Sia Bersani sia Vendola però sanno che il rischio di un pareggio - e di dover scendere a patti con i centristi - resta, eccome. Amplificato dai sondaggi che danno il centrodestra in testa in Lombardia e in Sicilia. Proprio in Sicilia il consenso ad Ingroia può togliere voti preziosi a Vendola: e il leader di Sel, così come Bersani, ne è consapevole e dunque non può farsi scavalcare a sinistra, anzi prova a gettare ami ad un elettorato comune.
Ma dal quartier generale del Pd tendono a sdrammatizzare. Ricordando che «anche la Moratti era data in testa nei sondaggi e poi a vincere nelle urne fu Pisapia... ». E in ogni caso Bersani non crede che il Nord, con tutto quello che è successo in questi mesi in Lombardia, così come il Sud, che soffre di più il disagio sociale prodotto dalla crisi, «si metteranno in mano a chi ha fatto quei disastri».
E a quello che viene paventato dal Pd come «un ritorno al passato» si fa fronte cercando di aprire gli occhi all’elettorato moderato. Veicolando una serie di iniziative che diano il segno di una coalizione affidabile, un mix dirassicurazione e rinnovamento. Sperando che l’apporto dei centristi al Senato non si renda necessario, perché in quel caso si aprirebbe una trattativa su ruoli e poltrone dagli esiti imprevedibili. Lo voterete Casini presidente del Senato, chiede Maria Latella intervistando su Sky il leader di Sel.

Corriere 14.1.13
Vendola chiude: alternativo al premier
«Collaborazione sulle riforme, ma governeremo senza badanti»
di R. R.

ROMA — Apre a Mario Monti e Pier Ferdinando Casini, anche se solo per «collaborare alla riforma dello Stato». Ma apre anche ad Antonio Ingroia, perché «è una personalità con la quale discutere». Nichi Vendola, presidente della Regione Puglia e leader di Sinistra ecologia libertà, ieri ha spiegato a L'intervista di Sky Tg24 quale sarà il suo atteggiamento post elettorale. Fermo restando, ha ribadito, che «il centrosinistra si candida per vincere e governare». Però poi naturalmente in questa fase nessuna ipotesi può essere esclusa, e dunque bisogna sì dire «cose di sinistra», ma contemporaneamente anche rassicurare l'elettorato.
Dunque, dice Vendola, «se il centrosinistra sceglie Monti come alleato di governo, dovrà rinunciare al contributo di Sel. Io sono alternativo alla presenza dei conservatori». Per esempio, «sarà impossibile anche solo immaginare una maggioranza in cui siamo insieme io e Paola Binetti che, lo dico con tutto il rispetto, è la tipica espressione di una cultura integralista che disvela le ambiguità dell'alleanza radunata intorno al professor Monti».
Il modello Binetti, per chiarire, si opporrebbe drasticamente a estendere alle coppie gay la libertà di adottare un bambino. Ma anche Vendola in fondo si mostra cauto su questa materia: proporre una legge di questo genere «rientra nelle prerogative di un partito», però «non è nel programma di governo» e «non tirerò Bersani per la giacchetta. Non vivrò il mio ruolo come quello che, avendo sentito le parole di Bersani, dirà "più uno". Né sarò quello che metterà continuamente in fibrillazione l'esecutivo»: al contrario, afferma, gli italiani devono poter essere sicuri che «il centrosinistra garantisce stabilità». Insomma, «c'è un minimo comun denominatore fra Sel e Pd, il minimo che dobbiamo all'Italia è uscire dal Medioevo, dare riconoscimento alle coppie di fatto, dotarci di una legge contro la violenza omofoba». Il «massimo», invece, per il momento resta aleatorio.
Il presidente della Puglia continua sottolineando quanto sia importante il suo partito per la coalizione: «Ho fatto vincere il centrosinistra in luoghi dove aveva sempre perso, ho contribuito alla vittoria della Puglia e a Milano»; e ripete che il centrosinistra «ha il diritto di governare senza ipoteche e senza badanti. Il centrosinistra si candida per vincere e governare. Monti e Berlusconi si candidano per provare ad azzoppare la coalizione e per tentare di rientrare nella partita». Tutto ciò sapendo comunque sin da ora che nella prossima legislatura «bisognerà collaborare con Monti, con Casini e con le forze centriste e insieme occuparsi della riforma dello Stato, sulla quale occorrerà trovare dei punti di compromesso».
Inoltre, per quanto riguarda ancora Casini, Vendola non promuove l'eventualità che diventi prossimo presidente del Senato, però neppure la boccia: «Vedremo». Mentre, aggiunge, «non lo vorrei come ministro».
Dove colpisce senza mezzi termini è invece contro Silvio Berlusconi e Beppe Grillo: «Sono complementari e rappresentano un magma di subcultura populista. Ora con Grillo che apre a Casa Pound siamo di fronte all'epifania». Complementari, ma forse con la differenza che Berlusconi «è il fantasma dell'Opera», che «da decenni è un successo a Broadway» e perciò «attenti a non sottovalutare il fenomeno: non vincerà, ma sbaglia chi lo sottovaluta».
Toni del tutto diversi — si diceva — verso Ingroia, il candidato a Palazzo Chigi per Rivoluzione civile e considerato da Vendola come «personalità con la quale discutere». Un'apertura che viene accolta con soddisfazione dall'ex pm: «Ringrazio Nichi Vendola per l'ulteriore segnale di attenzione e di apertura, augurandomi che possa favorire un clima di dialogo con il centrosinistra. Ribadisco che per noi è aperta la porta del dialogo a sinistra con le forze che lavorano per la legalità e la giustizia sociale».

La Stampa 14.1.13
Le sindachesse anti ‘ndrangheta dimenticate da Bersani in Calabria
di Giuseppe Salvaggiulo

La Lanzetta doveva entrare nel listino del leader dopo l’arrivo della Bindi
Carolina Girasole Sindaco di Capo Rizzuto sarà in lista con Monti

«La gente si aspettava una proposta. Io non avevo chiesto nulla, ma da Roma, nel partito, si erano diffuse voci che una di noi sarebbe stata candidata. Invece niente». Maria Carmela Lanzetta, sindaco di Monasterace, è una delle donne calabresi che negli ultimi anni sono diventate un caso nazionale. Alla guida di giunte di centrosinistra, hanno sfidato la ’ndrangheta con atti amministrativi concreti, subendo minacce e attentati. A lei hanno bruciato la farmacia e sparato al portone di casa, costringendola alle dimissioni, «ritirate solo per senso delle istituzioni». Bersani l’ha sostenuta nei mesi scorsi, invitata alla festa nazionale del Pd, citata nel duello tv con Renzi. Un simbolo. E dunque, in Calabria davano per scontato che l’avrebbe candidata per rappresentare la speranza di una riscossa di legalità. Così non è stato. La Lanzetta non fa polemica e spiega che «non posso dire di essere stata fregata perché in realtà non ho mai ricevuto una proposta», ma a leggere gli sms che ha ricevuto in questi giorni e a sentire militanti del Pd, volontari antimafia ed esponenti della società civile di sinistra la delusione è forte.
Quando sono state indette le «parlamentarie» del Pd, militanti, associazioni, un pezzo della Cgil hanno firmato appelli perché una di queste «sindachesse coraggio», tutte vicine al partito anche se provenienti dalla società civile, si candidasse. La Lanzetta o Elisabetta Tripodi di Rosarno, che vive sotto scorta perché minacciata dal boss ergastolano Rocco Pesce dopo lo sgombero di una casa abusiva del clan, o Carolina Girasole di Isola Capo Rizzuto, alla quale hanno incendiato l’auto per la battaglia contro gli scempi edilizi.
Ma il Pd le ha ignorate. Anzi, ha catapultato da Roma Rosy Bindi, che stoppava qualsiasi candidatura femminile alternativa (infatti le donne l’hanno appoggiata). Nonostante ciò, dall’interno del partito, e in particolare da ambienti romani, venivano messe in circolazioni voci tranquillizzanti: le sindachesse saranno piazzate in cima alla lista nei posti riservati a Bersani. «Voci che mi hanno danneggiato racconta la Lanzetta - alimentando sospetti e gelosie, mentre io continuavo a ripetere: non so niente». Nei giorni decisivi per le candidature, di fronte al silenzio del partito, la Lanzetta manda una email a Bersani, chiedendo attenzione per candidati «che combattono ogni giorno sul territorio». Dallo staff del segretario nessuna risposta. Telefona invece il commissario regionale del Pd, Alfredo D’Attorre (capolista con la Bindi), promettendo un incontro. Mai fissato.
Il Pd non ha candidato le donne sindaco, inserendo alla fine nomi paracadutati da altre regioni. E così una di loro, la Girasole, che pure alle primarie aveva votato Bersani, ha accettato la proposta di Monti, e sarà seconda nella sua lista. «In una regione dove si rischia la vita spiega - fare tanti sacrifici per dare una speranza alla Calabria e non essere prese in considerazione lasciava l’amaro in bocca. Dunque, anche se mi sento abbastanza vicina alla sinistra, questa possibilità non potevo accantonarla».

l’Unità 14.1.13
Sinistra europea batti un colpo
di Paolo Soldini

LE DIFFICOLTÀ IN CUI SI TROVA LA SPD IN GERMANIA CON IL SUO CANDIDATO ALLA CANCELLERIA PEER STEINBRÜCK e l’evidente affanno dell’iniziativa politica di François Hollande pongono problemi che riguardano tutti gli schieramenti di centrosinistra in Europa, non esclusa, ovviamente, l’Italia. L’uso del plurale è già indicativo: indica icasticamente uno dei problemi, forse il principale. Nonostante qualche timido tentativo fatto in passato, quando poteva peraltro essere utile propagandisticamente nei diversi Paesi, non esistono né programmi né iniziative di respiro che caratterizzino la sinistra europea, e neppure un coordinamento che non sia solo episodico tra le varie forze nazionali.
La situazione politico-economica europea ha un aspetto paradossale: la strategia dispiegata per quattro anni dalla destra e dalle istituzioni europee è entrata in una crisi che viene (più apertamente o meno) riconosciuta anche nel suo stesso campo. La sorprendente uscita del presidente dell’eurogruppo Jean-Claude Juncker sulla disoccupazione testimonia una consapevolezza sui limiti di quella strategia che prima non c’era e, forse, anche l’esistenza di una divergenza di opinioni all’interno stesso del gruppo dirigente dell’Unione. Dal presidente del Consiglio europeo, per esempio, dichiarazioni di quel tenore non sono mai venute.
Ma di fronte a una montagna di certezze che si sgretolano in qualche modo, per così dire, anche «dall’interno», si fa molta fatica a individuare, dall’altra parte, certezze che si rafforzano. Esiste ancora, se pur messa in discussione, un’agenda europea per la gestione della crisi ma manca del tutto una contro-agenda di chi, fra qualche mese, potrebbe trovarsi ai posti di comando dei principali Paesi dell’Unione insieme con Hollande che ci si trova già dalla primavera.
L’elenco dei silenzi è abbastanza lungo, ma cominciamo dal punto più delicato. Con l’inizio del 2013 è entrato in vigore il Fiscal compact. Lasciamo stare i giudizi generali su uno strumento che dà perfetta sostanza alla logica dell’austerity fortissimamente voluta dalla Germania e fatta propria non solo dalle istituzioni di Bruxelles ma da tutti i governi della Ue fatta eccezione per quelli di Londra e Praga. Ci sono due obblighi prescritti dal patto sui quali è veramente incomprensibile la reticenza, o quanto meno l’estrema timidezza, dei vari partiti di sinistra europei. Il primo è l’obbligo «costituzionalizzato» al pareggio di bilancio, che è la negazione esplicita e radicale dei princìpi stessi delle politiche di intervento sociale. Il secondo è il rientro forzoso in venti anni dal debito dei Paesi che eccedano il 60% del Pil sancito (ventuno anni fa) dal Trattato di Maastricht. Dell’impatto tremendo che l’applicazione delle regole così come sono avrebbe sulle manovre di bilancio si è detto e scritto all’epoca della firma del Patto con il corollario consolatorio secondo il quale l’Italia avrebbe il diritto a considerazioni «particolari» nel computo del suo debito. Mario Monti lo sostenne esplicitamente, ma né da Berlino né da Bruxelles sono mai venute conferme in proposito. Fatto sta che, secondo calcoli approssimativi, il rientro prescritto potrebbe costare 40-45 miliardi l’anno, a cominciare da quello in corso. E il problema non è solo italiano. La Germania e la Francia hanno debiti superiori all’80%. Il che significa esborsi di circa 10 miliardi a partire da quest’anno e per i prossimi se il Pil non crescerà abbastanza: ipotesi abbastanza improbabile almeno per la Francia.
Qualcuno, nei partiti di sinistra e di centrosinistra europei, propone, se non la rinegoziazione del Fiscal compact, almeno la ridiscussione dei criteri di contabilità del debito? Che fine hanno fatto i discorsi che si fecero intorno alla cosiddetta «golden rule» (termine abusatissimo, che viene usato in tutti i campi quando c’è poco da dire) per cui si dovrebbero stralciare dal computo le spese per investimenti? Si può anche pensare che il Fiscal compact sia un’ipocrita finzione ideologica che non verrà mai tradotta in fatti perché non conviene neppure ai Paesi forti. Ma se nessuno scopre il gioco, le sinistre eventualmente al governo tra pochi mesi dovranno, in teoria, cominciare a preparare manovre del tutto insostenibili.
Non è l’unico silenzio che pesa, a sinistra. Che fine hanno fatto le proposte di condivisione europea del debito cui pure la Spd, non senza mal di pancia, si era unita con il sì agli eurobond? Chi parla più di Redemption Fond e di forme di mutualizzazione del debito? Esiste un giudizio comune della sinistra europea, o delle varie sinistre, sulla strategia della Bce di Draghi che vada al di là del sollievo, inevitabilmente momentaneo, per l’allentamento delle pressioni speculative sui titoli? Non sarebbe il caso di prendere qualche iniziativa comune transnazionale sulla regolamentazione dei mercati e sul controllo sulle grandi banche, magari sulla falsariga delle proposte avanzate dai socialdemocratici tedeschi?
L’idea di un programma comune della sinistra europea di lotta alla crisi, di una contro-agenda da proporre agli elettori e ai cittadini, non sarebbe così fuori dal mondo nel momento in cui si diffonde la consapevolezza che la strategia della destra sta portando solo recessione. È un obiettivo troppo ambizioso? In ogni caso è meglio del silenzio.

Corriere 14.1.13
La Cgil
«Si può creare un milione di posti»
di Enrico Marro

Il piano per il lavoro Cgil: più investimenti e politica industriale, basta austerità
ROMA — Un grande Piano per il lavoro per rispondere alla crisi, cambiando il paradigma delle ricette di politica economica seguite finora. Non più solo il rigore, che ha avvitato in una spirale recessiva l'Europa e l'Italia in particolare, ma un forte rilancio della riqualificazione e della crescita del sistema produttivo, centrato su un mix di politiche keynesiane e schumpeteriane. Da un lato classici interventi di rilancio della domanda e dell'occupazione finanziati con spesa pubblica. Dall'altro una «politica industriale per riqualificare l'offerta», manovrando la leva fiscale e quella degli incentivi alle imprese, ma anche attraverso una «Banca nazionale per l'innovazione» a maggioranza pubblica.
Il Piano per il lavoro, che la confederazione sindacale guidata da Susanna Camusso sta preparando da quasi un anno, e che è sostanzialmente pronto nei testi e nelle slide (una ottantina) che li accompagnano, sarà al centro della Conferenza di programma, il 25 e 26 gennaio al Palalottomatica di Roma. L'appuntamento più importante della Cgil tra un Congresso e l'altro era stato programmato da tempo, ma ora assume maggior rilievo, svolgendosi nel pieno della campagna elettorale.
Una strategia per la sinistra
Il Piano per il lavoro, che si richiama all'analogo documento presentato nel 1949 dal carismatico segretario della Cgil Giuseppe Di Vittorio al congresso di Genova, punta anche questa volta a offrire un orizzonte strategico non solo al sindacato rosso ma a tutta la sinistra. Al Palalottomatica interverranno il candidato del Pd a Palazzo Chigi, Pier Luigi Bersani, e il leader di Sel, Nichi Vendola. E probabilmente anche Fabrizio Barca, ministro per la Coesione, destinato a un ruolo di spicco in un eventuale governo della sinistra o, in alternativa, ai vertici del Pd. Tutti interlocutori che non potranno non tener conto nei loro programmi delle proposte della Cgil.
Un milione di posti di lavoro
Per illustrare subito le conclusioni cui giunge il Piano, si può dire che, secondo la Cgil, se venisse adottata una nuova politica economica e fiscale, si potrebbe avere, al posto della recessione, destinata a durare anche quest'anno, una crescita del Prodotto interno lordo già nel 2013 dell'1,6% e poi dell'1,5% nel 2014 e dell'1% nel 2015. E l'occupazione, anziché continuare a diminuire quest'anno di un altro 0,4%, salirebbe dell'1,5%, qualcosa come 350mila posti di lavoro in più e così, più o meno, nei due anni successivi, per un totale di un milione di posti di lavoro nel triennio. Ma da realizzare, evidentemente, con ricette molto diverse da quelle berlusconiane.
La Cgil punta su un «Progetto Italia» per lo sviluppo e l'innovazione, su un «Piano straordinario per la creazione diretta di lavoro» e su un «Piano per un nuovo Welfare» che abbia come priorità quattro settori: «Infanzia, non autosufficienza, povertà e integrazione».
Patrimoniale e lotta all'evasione
Va subito detto che, per realizzare quel «Big push» sul «modello New Deal» di rooseveltiana memoria di cui si parla nel Piano e che ispirò anche quello di Di Vittorio, la Cgil propone una forte riforma del sistema fiscale capace di portare nelle casse dello Stato «almeno 40 miliardi di euro annui» in più di ora, attraverso una patrimoniale sulle grandi ricchezze, un aumento dell'imposizione sulle transazioni finanziarie, l'introduzione di tasse ambientali («chi inquina paga»), un «piano strutturale di lotta all'evasione fiscale, contributiva e al sommerso» che impiega oggi circa 3 milioni di lavoratori. Il nuovo Fisco dovrebbe pesare di meno su dipendenti e pensionati, per i quali si propone il taglio di due aliquote Irpef (la prima dal 23 al 20%) e la terza (dal 38 al 36%), l'aumento delle detrazioni specifiche e dei sostegni per i carichi familiari.
Accanto alla riforma fiscale, secondo la Cgil è possibile ridurre la spesa pubblica di 20 miliardi, tagliando tra l'altro 10 miliardi di incentivi alle imprese. E si potrebbero recuperare 10 miliardi da un miglior utilizzo dei fondi europei. Insomma, in un arco pluriennale (3-5 anni) l'obiettivo è raccogliere circa 80 miliardi di risorse da impiegare nella crescita.
Posti pubblici, incentivi privati
Dai 4 ai 10 miliardi annui dovrebbero andare agli interventi prioritari del «Programma Italia»: green economy, innovazione manifatturiera, efficienza energetica (smart grid), agenda digitale, infrastrutture, prevenzione antisismica, messa in sicurezza dell'edilizia scolastica, riorganizzazione del ciclo dei rifiuti, diffusione della banda larga, percorsi turistici integrati, trasporto pubblico sostenibile, sviluppo rurale. Come si vede, si tratta di un vasto programma di lavori pubblici e di incentivi alle imprese per promuovere innovazioni che altrimenti non verrebbero intraprese. Nel piano della Cgil tutto questo dovrebbe avvenire non solo dall'alto verso il basso, ma anche al contrario attraverso una forte azione di contrattazione territoriale tra istituzioni locali e parti sociali. Dai 15 ai 20 miliardi l'anno sarebbero invece destinati alla «creazione diretta di lavoro». Anche qui un mix di assunzioni nel pubblico, negli stessi programmi di cui sopra, e di incentivi alle assunzioni e alle stabilizzazioni nel privato. Con particolare attenzione all'occupazione giovanile e femminile. Si propongono quindi programmi di manutenzione, bonifica dei siti industriali inquinati, conservazione del patrimonio culturale, riqualificazione urbana, valorizzazione di parchi e riserve naturali. Tra i 5 e i 10 miliardi andrebbero al sostegno all'occupazione (stabilizzazione) e agli ammortizzatori sociali. Altri 10-15 miliardi al potenziamento del Welfare e 15-20 miliardi al taglio delle tasse su dipendenti e pensionati.
Una crisi che viene da lontano
A supporto della proposta di cambiare le politiche seguite finora il Piano per il lavoro contiene un'analisi delle cause del declino dell'Italia. Che sono di tipo strutturale e vengono da lontano. A partire dal nanismo delle nostre imprese, che le rende meno produttive e competitive sui mercati internazionali. Le «politiche neoliberiste, fondate sull'alleanza tra profitto e rendite a scapito del lavoro», hanno fatto il resto. La crisi finanziaria scoppiata nel 2008 ha trovato l'Italia più debole dei nostri concorrenti. E le politiche di austerità hanno prodotto una recessione più grave del previsto, come riconosce ora anche il Fondo monetario internazionale. È necessario cambiare. Coniugare politiche schumpeteriane di selezione e miglioramento qualitativo dell'offerta (innovazione prima di tutto) e politiche keynesiane di rilancio dei consumi è possibile, secondo la Cgil. Anzi è l'unica via per uscire dalla crisi. Che poi nell'Unione Europea ci siano gli spazi di manovra necessari è tutto da verificare. Ma è chiaro che il primo destinatario del Piano del lavoro della Cgil non è l'Ue bensì il Pd.

Corriere 14.1.13
Gli equivoci dell’antipolitica
di Ernesto Galli della Loggia

Tutto cominciò con «Mani Pulite». Poi Berlusconi terminò l'opera. Fu nel 1992-93, infatti, che in Italia, sull'onda della protesta contro la corruzione dei partiti, iniziò a diffondersi fino a dilagare un sentimento di disprezzo per la classe politica in quanto tale, un sentimento di avversione profonda per la politica come professione, direi per la dimensione stessa della politica e per la sua naturale (e aggiungo sacrosanta) pretesa di rappresentare la guida di una società. Giunto il momento di tirare le fila alle elezioni del '94, l'uomo di Arcore cavalcò l'onda da par suo. Mise insieme tutti gli ingredienti appena detti; li miscelò con il confuso antistatalismo ideologico prodotto dalla globalizzazione; e si presentò come il profeta di quella società civile che nel biennio precedente era stata osannata da tutti (in Italia qualunque idiozia, purché di moda, può contare quasi sempre su adesioni unanimi: il federalismo è un altro caso), osannata come la matrice per antonomasia del «nuovo» e dell'«onestà».
Da allora tutto il fronte antiberlusconiano non si stanca di denunciare l'«antipolitica» che rappresenterebbe l'anima del «populismo» del Cavaliere, di denunciarne ad ogni occasione i pericoli. Ma ciò nonostante proprio da allora, e forse non per caso, esso sembra spinto irresistibilmente a imitarlo. Da allora anche gli avversari di Berlusconi sono diventati sempre più inclini a vellicare i luoghi comuni dell'antipolitica. Come si vede bene oggi, tanto al centro che a sinistra, con l'inizio di questa campagna elettorale.
Dietro un omaggio di facciata (per carità, non sia mai detto «scendere», bensì «salire», in politica), in realtà l'intera piattaforma centrista di Monti si fa un vanto esplicito, ripetuto, insistito, della propria (reale?) estraneità alla politica: estraneità che neppure si sforza di nascondere la sua effettiva ostilità alla politica. Ne è espressione eloquente il bando comminato a chiunque abbia seduto alla Camera o al Senato per più di un certo numero di anni.
Monti e i suoi collaboratori hanno aderito all'idea — questa sì tipica di ogni populismo — che la politica non ha bisogno di persone esperte dei suoi meccanismi, persone pratiche del funzionamento delle amministrazioni, conoscitrici dei regolamenti delle assemblee parlamentari. No. Il nostro presidente del Consiglio — parlano per lui le procedure con cui ha voluto formare le liste dei candidati — sembra aver fatto proprio, invece, il pregiudizio volgare secondo cui il professionismo politico sarebbe il peggiore dei mali. Mentre un industriale, un economista, un professore universitario — loro sì, espressione della celebrata «società civile» — sarebbero invece per ciò stesso non solo onesti e disinteressati, e capaci di scelte giuste nonché di farle attuare presto e bene, ma anche in grado di soddisfare quella condizione non proprio tanto secondaria che è il consenso. Pure per questa via, insomma, affiora nell'insieme del montismo, se così posso chiamarlo, quell'opzione irresistibilmente tecnocratica che, se ne sia consapevoli o no, rappresenta essa pure un esito classico dell'«antipolitica».
La quale antipolitica poi, a ben vedere, alla fine non è altro che politica con altri mezzi. Lo dimostra quanto sta accadendo sempre in queste settimane stavolta a sinistra, nel Pd. Qui pure tutta l'operazione della designazione «dal basso» delle candidature elettorali è stata condotta — in maniera perlopiù non detta, ma comunque chiarissima — facendo leva sull'ostilità verso il professionismo politico, verso chi occupava da troppo tempo la fatidica poltrona. Come appare ormai evidente, si è trattato di una versione per così dire dolce della renziana «rottamazione», guidata però dall'abile regia della segreteria Bersani. La quale, facendosi forte del mito della «società civile» e del «rinnovamento» — reso in questo caso più perentorio dal comandamento del «largo ai giovani e alle donne» — se ne è servito per fare fuori buona parte della vecchia rappresentanza, a lei estranea, e sostituirla con «giovani turchi» e dirigenti interni vicini al nuovo corso. E quindi per rafforzarsi.
Ma naturalmente poche cose sono così sicure come il fatto che, al centro come a sinistra, coloro che risulteranno eletti con il crisma salvifico della società civile, anche loro, alla fine, si adegueranno disciplinatamente ai vincoli e agli obblighi della politica. Anche loro obbediranno a quella regola suprema della politica che chi ha più forza, più potere, comanda: e poiché la gran parte dei cosiddetti esponenti della società civile di forza propria ne hanno poca o nulla, proprio essi — c'è da scommetterci — risulteranno in definitiva i più obbedienti.
Ernesto Galli della Loggia

Corriere 14.1.13
I candidati «affidabili» che piacciono ai capi
di Gian Antonio Stella

«Non m'importa di avere un Nobel in lista, m'importa sapere se voterà una legge di cui non sa nulla», spiegò brutale, qualche anno fa, un cacciatore di teste arruolato da Claudio Scajola per individuare i candidati «giusti». I risultati, e non solo per la destra ma un po' per tutti, si sono visti. A forza di puntare su soldatini fedeli, allineati, obbedienti, il livello della classe politica italiana è via via calato a livelli spesso imbarazzanti. Lo dicono le interviste delle Iene a deputati e senatori che confondono il Darfur col fast-food («quella roba che si mangia veloce?») o non sanno cos'è la Consob: «Consob… sta per controlli... sob non so».
Lo dicono certi interventi in Aula come quello che spopola sul web dell'on. Eraldo Isidori: «Il carcere è un benidenziario, non è un villaggio di vaganza. Si deve scondare la sua pena, per scritta! Che gli aspetta. Lo sapeva prima fare il reato…». Lo dice il tracollo dei laureati: erano il 92% nella I Legislatura quando diventavano dottori 21 mila giovani l'anno, sono il 65% oggi che se ne laureano tredici volte di più. Umiliante, rispetto al 94% della Camera degli States, che pure non sono un Paese di svagati intellettuali umanisti.
Certo, non è quello il solo metro di giudizio: ci sono somari con due lauree e raffinati intellettuali senza. E il sale della democrazia è anche nell'avere in Parlamento persone che rappresentino la pluralità professionale e culturale della nazione. Il guaio è che, come spiega Antonio Merlo della Penn University di Philadelphia, questo sistema elettorale e i partiti che se ne servono hanno via via selezionato non i migliori a prescindere dallo statino universitario ma quelli più «affidabili», più solleciti nell'eseguire gli ordini, talora più ricattabili e dunque più facili da tenere in pugno.
E non solo non c'è affatto una pluralità di voci della società (troppi avvocati, giornalisti, sedicenti «dirigenti» ma pochi insegnanti, pochissimi artigiani, rarissimi operai per non dire della indecorosa emarginazione delle donne) ma il numero via via più ampio di mestieranti, attaché, body guard partitici, faccendieri, cognati, compari e amichette del tutto incapaci di avviare quella riforma delle regole che passa soprattutto attraverso la semplificazione, ha consegnato un potere esorbitante alla burocrazia.
La quale come tutte le burocrazie, spiega Max Weber, «si adopera per rafforzare la superiorità della sua posizione mantenendo segrete le sue informazioni e le sue intenzioni». Se l'autorizzazione al signor Bono Paolo di Gaggi ad allevare due cardellini comporta la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale siciliana di una arzigogolata delibera di 523 parole, il potere non è in mano ai cittadini e a chi li rappresenta ma ai burocrati. Che hanno tutto l'interesse, come hanno scritto Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, a mettersi di traverso a qualunque vera riforma che spalanchi il Paese al futuro.
Bisognerebbe investire sulle persone, per cambiare questo sistema dove ormai si impantanano in Parlamento perfino certe scelte passate in commissione all'unanimità. Persone di destra e di sinistra che abbiano idee, spirito d'iniziativa, creatività, spessore, voglia di cambiare. L'esatto contrario degli automi ligi alle direttive (e non sempre perbene) visti all'opera troppo spesso in questi anni. Sinceramente: ci hanno provato almeno stavolta, i partiti, nel selezionare i loro candidati, a darci una nuova classe dirigente più giovane, preparata, generosa? Mah…
Gian Antonio Stella

Corriere 14.1.13
Il conto misterioso da 40 milioni nel caso Vaticano-Bankitalia
Conto «sospetto» da 40 milioni dietro al blocco dei Bancomat
Ecco perché Bankitalia ha deciso l'ispezione sul Vaticano
di Fiorenza Sarzanini

Movimenta oltre 40 milioni di euro l'anno il conto in Vaticano nel mirino di Bankitalia che ha bloccato l'utilizzo di Bancomat e carte di credito. Si tratta di ben ottanta «punti vendita», dai Musei alla farmacia, e dall'inizio dell'anno i pagamenti possono avvenire soltanto in contanti.

ROMA — Si gioca su oltre 40 milioni di euro l'anno la partita tra Santa Sede e Banca d'Italia per l'autorizzazione a utilizzare Bancomat e carte di credito. È questa l'entità della movimentazione che risulta dai documenti contabili acquisiti dalla procura di Roma prima di segnalare quelle «anomalie» che hanno portato al blocco di tutti i Pos degli esercizi commerciali che si trovano all'interno del Vaticano. Si tratta di ben ottanta «punti vendita», dai Musei alla farmacia, passando per decine di negozi e anche per lo spaccio. Per loro il colpo subito è gravissimo visto che dall'inizio dell'anno i pagamenti possono avvenire soltanto in contanti e ciò — tenendo conto dei milioni di turisti e visitatori che arrivano costantemente — sta causando serie difficoltà e anche perdite economiche. Ma sembra assai difficile, se non impossibile, che il servizio possa essere nuovamente garantito. Anche perché quanto accaduto riporta in primo piano le «carenze» nel sistema antiriciclaggio dello Ior, l'Istituto per le opere religiose, già evidenziate dai pubblici ministeri titolari dell'inchiesta sulla correttezza delle operazioni bancarie effettuate sui conti intestati a religiosi. Sono gli atti a svelare che cosa è accaduto prima che si arrivasse a questa iniziativa senza precedenti.
Gli 80 Pos sul conto Deutsch
Secondo le relazioni dell'Uif, l'Unità di informazione finanziaria di Palazzo Koch, tutti i soldi acquisiti attraverso i Pos confluiscono su un unico conto intestato allo Ior e aperto presso una filiale della Deutsche Bank. Per l'installazione delle «macchinette» l'istituto di credito avrebbe dovuto chiedere una apposita autorizzazione, ma questo non è mai avvenuto. Un anno e mezzo fa era stato proprio il pool di magistrati guidati dal procuratore aggiunto Nello Rossi a segnalare l'anomalia e così era scattata l'ispezione di Bankitalia.
Siamo a settembre del 2011. Soltanto dopo l'avvio dei controlli l'Istituto di credito sollecita una «sanatoria». Gli accertamenti giudiziari che avevano determinato la segnalazione riguardavano un altro conto Ior sul quale erano stati depositati 23 milioni di euro dei quali si ignorava la provenienza. In questo nuovo caso bisognava stabilire se fosse invece possibile ricostruire il flusso del denaro.
Il saldo da 10 milioni
All'11 settembre 2011, giorno in cui parte la verifica, risulta un saldo di circa 10 milioni di euro. I documenti relativi alla movimentazione annuale consentono però di accertare che sono più di 40 i milioni transitati su quel conto negli ultimi dodici mesi. Soldi dei quali non si sa praticamente nulla, come ha evidenziato anche Bankitalia in una nota pubblicata due giorni fa per evidenziare i motivi che hanno indotto i vertici a sospendere i pagamenti con Bancomat e carte di credito.
I responsabili di palazzo Koch sottolineano come «per l'attività bancaria svolta dallo Ior con controparti italiane non è possibile applicare il regime di controlli semplificati previsto per i rapporti con le banche comunitarie, che consente a queste ultime di non comunicare i nomi dei clienti per conto dei quali sono effettuate le singole operazioni». Il nodo è sempre lo stesso: non si conosce l'intestatario effettivo del deposito aperto presso Deutsche e soprattutto chi ha la delega ad operare, dunque non è possibile applicare la normativa antiriciclaggio.
I conti di preti e suore
La stessa situazione era già emersa in altri casi esaminati dai magistrati di depositi intestati a religiosi che in realtà risultavano messi a disposizione di persone estranee al Vaticano. Il 6 dicembre scorso Bankitalia ha notificato la decisione di non concedere la «sanatoria», il 3 gennaio non è stato più possibile pagare con le carte.
È stato verificato che sul conto Ior affluivano ogni giorno decine di migliaia di euro, ma poiché la maggior parte dei Pos sono intestati a società con sede in Vaticano non è possibile sapere da dove arrivi effettivamente il denaro e soprattutto chi lo utilizzi poi in uscita. In particolare, nonostante i controlli disposti, non si sa che fine abbiano fatto, nel 2011, i 30 milioni di euro che risultano prelevati dal conto, né tantomeno chi abbia compiuto le operazioni di prelievo.

Corriere 14.1.13
L'Europa, la Santa Sede e quella promozione mancata
di Milena Gabanelli

Il signor Bruelhart, direttore generale dell'Autorità di informazione finanziaria della Santa Sede, nell'intervista pubblicata sul Corriere della Sera di ieri non capisce perché Bankitalia abbia deciso di bloccare i Bancomat della Deutsche Bank in Vaticano.
Come emerso nel corso di un'ispezione della Vigilanza della Banca d'Italia, Deutsche Bank Italia aveva stipulato una convenzione per lo svolgimento di sistemi di pagamento automatici (Pos) nell'ambito della Città del Vaticano, senza chiedere la prescritta autorizzazione alla stessa Vigilanza.
Autorizzazione chiesta successivamente, ma negata per le seguenti ragioni: 1) assenza presso la Città del Vaticano di un idoneo sistema di regole e controlli di vigilanza bancaria e, quindi, della possibilità di scambio di informazioni tra le rispettive autorità di controllo; 2) la Città del Vaticano non è presente nell'elenco degli Stati ritenuti equivalenti a quelli europei a fini antiriciclaggio.
Secondo il dottor Bruelhart invece lo Stato Vaticano avrebbe posto in essere adeguati sistemi di controllo, sia di vigilanza che antiriciclaggio, approvati lo scorso luglio nella riunione plenaria del MoneyVal (il Comitato di esperti per la valutazione di misure contro il riciclaggio di capitali del Consiglio d'Europa).
Per quel che riguarda la normativa e i controlli bancari, bisognerebbe credergli sulla parola, poiché al momento sono del tutto assenti. Quanto all'antiriciclaggio, non è vero che il MoneyVal abbia promosso il Vaticano. Al termine di una riunione, disertata dai rappresentanti dell'Uif italiana (Unità di informazione finanziaria) in quanto diffidati dal ministero delle Finanze dall'esprimere le proprie valutazioni negative, il MoneyVal si è limitato a dare un giudizio di «insufficienza», rinviando a una successiva riunione un'ulteriore valutazione, che dovrà tener conto non solo delle regole, ma anche della loro effettiva attuazione.
Sotto il profilo antiriciclaggio, la definizione di un Paese extra Ue come «equivalente» a quelli comunitari, vuol dire che le banche extra Ue effettuano sui loro clienti una adeguata verifica, e che tale verifica è considerata valida dalle banche italiane. In assenza di equivalenza, l'adeguata verifica dev'essere effettuata dalle banche italiane sulla base delle informazioni fornite dalle corrispondenti banche extra Ue. In tale contesto, lo Ior ha più volte rifiutato le informazioni richieste dalle banche italiane presso le quali aveva aperto dei conti, preferendo chiudere tali conti e trasferire i relativi fondi in altri Paesi più disponibili.
All'affermazione che l'Aif vaticana (l'Autorità di informazione finanziaria) ha stipulato protocolli d'intesa con altri Stati, si può replicare che l'Italia — come l'esperienza del passato dovrebbe aver insegnato — è l'unico Paese effettivamente interessato alla regolarità dei comportamenti delle istituzioni finanziarie vaticane. Va inoltre considerato il fatto che è quasi impossibile realizzare all'interno della Città del Vaticano strutture pubbliche di controllo realmente autonome ed efficienti, proprio per le piccole dimensioni del suo territorio. Ciò rende molto probabile che le regole astratte vengano vanificate da comportamenti distorti e opportunistici.

il Fatto 14.1.13
L’intervista a Luigi Cancrini
“I genitori devono farsi aiutare a capire i bambini feriti”
di Alessandro Ferrucci

Il neonato, il bambino. L’adolescente. Davanti una famiglia, nuova, motivata e desiderosa di intraprendere un percorso. “Il problema è che spesso, moglie e marito, non si rendono conto dell’impegno, della gravità della situazione. Di quanta pazienza, forza e preparazione ci vuole dietro”. Tono basso, pacato, riflessivo. Scandisce le parole, Luigi Cancrini, unisce i concetti a esempi pratici. Uno dietro l’altro. Lui, psichiatra e psicoterapeuta, in quaranta e passa anni di professione ha seguito centinaia e centinaia di casi legati alle adozioni e agli affidamenti. Per questo è considerato uno dei massimi esperti in Italia.
Parliamo di bambini che oltre al trauma famigliare, associano anche dei deficit motori e mentali perché sono stati trascurati.
È così. Spesso hanno difficoltà di linguaggio, magari non hanno mai svolto attività sportiva. Hanno problemi motori, quindi la necessità di un sostegno terapeutico. Insomma, bambini poco curati che quando arrivano nelle case famiglia devono anche subire le ristrettezze economiche, le stesse che non consentono un lavoro adeguato per recuperare i diversi ritardi.
Il pubblico non sopperisce...
Le racconto la vicenda di due bambine, di quattro e sei anni, cresciute nell’estrema periferia romana. Nonostante l’impegno del tutore e della curatrice, abbiamo chiesto un supporto alla Asl per un logopedista: la lista di attesa era tra i sei e i dodici mesi.
E come avete fatto?
A volte con i volontari. Ribadisco: sono bambini problematici. Pensate all’impegno che ognuno riversa verso un proprio figlio. In questo caso le responsabilità si moltiplicano, ci vuole una grande elasticità.
Come, in particolare?
Le faccio un esempio: se un adolescente ti rivela che si fa degli spinelli, l’errore più grande è mettersi in una posizione repressiva e chiusa. Si rischia di far vincere la provocazione.
E invece?
La questione è un’altra: la preparazione delle famiglie adottive o affidatarie.
A cosa si riferisce?
Al fatto che non si rendono conto di un aspetto: chi entra in casa è un bambino ferito da curare; bambini segnati duramente. Il terapeuta sa che a un certo punto il piccolo che ha subito delle violenze nel suo passato, può tirargli degli oggetti, o tentare di buttarsi dalla finestra. Ma il genitore è pronto a queste manifestazioni?
Il percorso per ottenere un bambino aiuta o no?
È come una scrematura.
Molti dicono eccessivamente dura.
Dovrebbe essere molto peggio. Gran parte di chi valuta la coppia, si accontenta di una stabilità economica o di una normalità comportamentale. Mentre bisognerebbe dire, a chi vuole ottenere un figlio, che avrà bisogno di aiuto.
Non è preferibile una famiglia “imperfetta” a una casa famiglia?
Una casa famiglia organizzata è un buon luogo, dove il bimbo non è solo.
Quali sono i disturbi principali che riscontra nei piccoli?
Fisici. Poi traumatizzati perché sono stati abbandonati, violentati.
Durante la crescita, è giusto raccontare o rivelare al piccolo da dove arrivano le sue sofferenze?
Il bambino deve essere aiutato a ricordare, a ricostruire quello che gli è accaduto e gli accade. Certo, nei limiti del possibile, nelle adozioni internazionali è più complicato.
In che modo?
Le spiego: al piccolo si possono dare due diverse letture di una medesima vicenda. O che la madre è una stronza che fa figli con chi gli capita, per poi abbandonarli. Oppure gli si può dire: se tu sei nato, c’è stata una donna che in condizioni difficili, per nove mesi, ti ha portato con se. Ed è un grande atto di amore. Questa persona è stata così brava a pensare a te, invece che a lei, e ha cercato una persona più adatta per crescerti.
Magari, da grande, il bambino riuscirà ad accettare anche la prima ipotesi.
Sono più partigiano sulla vericidità della seconda.
Quanto è alto il rischio di rifiuto dei genitori adottivi?
C’è. Eccome. Verso i quattordici, quindici anni. Soprattutto se la coppia non capisce che il figlio non è completamente loro, non accetta la sua storia, le differenze. Ancora di più nei casi di bambini adottati all’estero.

La Stampa 14.1.13
Attiviste di Femen fermate durante l’Angelus
In topless in piazza San Pietro

In topless in piazza San Pietro durante l’Angelus del Papa, con dipinta sul petto la scritta «In gay we trust» (Noi crediamo nei gay). È la protesta in favore dei diritti degli omosessuali messa in scena ieri mattina in piazza San Pietro da quattro attiviste del gruppo femminista Femen - due ucraine e due francesi - che si sono denudate al grido «Homophobe Shut Up» (Omofobo, taci!) rivolto al Papa. Subito bloccate e rivestite dalle forze dell’ordine, sono state portate in questura. «Manifestazioni di questo tipo squalificano da sole la stessa battaglia che viene portata avanti», ha commentato Don Mazzi. E il portavoce del Gay Center, Fabrizio Marrazzo: «Sicuramente è stata una forma di protesta un po’ estrema, ma ci auguriamo che le ragazze non vengano criminalizzate, è comunque una forma di protesta non violenta».

l’Unità 14.1.13
Nozze gay, 300.000 no a Parigi
In piazza la destra, i movimenti cattolici ma anche laici: «Siamo 800.000»
Un grande striscione d’apertura recita: «Tutti nati da un uomo e una donna»
Per il leader dell’Ump Copé la protesta è un test per l’Eliseo
Il presidente Hollande ammette: «Corteo consistente, ma andiamo avanti lo stesso»
Sostegno anche dai protestanti, dal gran rabbino di Francia e dal rettore della moschea
di M. Mo.

Il progetto di legge del Governo socialista di Francois Hollande su matrimoni e adozioni omosessuali scatena la protesta della destra e della chiesa francese. Ieri centinaia di migliaia di persone hanno sfilato per le strade di Parigi dietro un grande striscione con scritto «tutti nati da un uomo e una donna».Tra i manifestanti, 340.000 per la polizia, 800.000 per gli organizzatori, diversi rappresentanti della chiesa francese, della destra dell’Ump, tra cui il neopresidente Jean-François Copé, e dell’estrema destra del Front National, anche se mancava la leader Marine Le Pen. In un corteo separato hanno sfilato anche gli integralisti cattolici dell’associazione Civitas. «Un padre e una madre, è elementare» recitavano alcuni cartelli.
Già prima di vincere le elezioni presidenziali a maggio Hollande aveva promesso una legge su matrimoni gay e adozioni. In Francia dal 1999 esistono le unioni civili, i cosiddetti Pacs (Pacte civil de solidarité), che però non garantiscono gli stessi diritti dei matrimoni e soprattutto non permettono le adozioni. Per questo lo scorso 7 novembre il Governo ha varato il disegno di legge «Matrimonio per tutti», preparato dal ministro della giustizia Christiane Taubira, che dovrà iniziare ad essere discusso dal Parlamento a maggioranza socialista il prossimo 29 gennaio. Alcuni deputati socialisti avrebbero voluto inserire anche delle misure sulla procreazione assistita, ma alla fine l’esecutivo ha deciso di rimandare la questione. Contro la legge però si è levata l’opposizione della chiesa, che considera il progetto di legge «un attentato alla famiglia». Anche ieri l’arcivescovo di Parigi e presidente della Conferenza episcopale francese, il cardinale André Vingt-Trois, ha dato il suo «sostegno e incoraggiamento» ai manifestanti. Alla sua battaglia si sono uniti il gran rabbino di Francia, Gilles Bernheim, il rettore della grande moschea di Parigi, Dalil Boubakeur, e il presidente della federazione protestante di Francia, Claude Baty. La destra dell’Ump, dopo un primo momento di esitazione, ha deciso di cavalcare il movimento. La manifestazione è «un test per Hollande perché si vede chiaramente che in Francia di sono milioni di francesi che probabilmente sono preoccupati per questa riforma ha dichiarato ieri il presidente dell'Ump Jean-François Copé non si può imporre dall’alto senza alcun dibattito un progetto che sconvolge profondamente l’organizzazione della famiglia in Francia da un punto di vista giuridico».
«LA MANIF POUR TOUS»
A rispondere è stata la ministra degli Affari sociali, Marisol Touraine, secondo la qualei «indubbiamente ci sono stati meno manifestanti di quanto speravano gli organizzatori». Quanto alla legge sui matrimoni omosessuali, ha aggiunto il ministro, «è un impegno del presidente della Repubblica. Si tratta di far fare un progresso molto significativo alla nostra società riconoscendo l’uguaglianza di tutti». In serata un comunicato dell'Eliseo ha fatto sapere che nonostante la manifestazione «consistente» il Governo non modifica la sua volontà di avere un dibattito al Parlamento per permettere il voto sul progetto di legge. Il 17 novembre il movimento contrario alle nozze gay aveva tenuto una prima manifestazione con 70.000 persone a Parigi e altre 30.000 in altre città della Francia. L'associazione che tiene le fila dell’organizzazione si chiama «La Manif Pour Tous», la manifestazione per tutti, parafrasando il nome della legge di Hollande. A guidarla è un personaggio televisivo cattolico, conosciuta con il nome d’arte Frigide Barjot, un giovane omosessuale ateo fondatore dell’associazione «Plus Gay Sans Mariage», Xavier Bongibault, e un’insegnante che dice di aver votato per Hollande e di essere di sinistra, Laurence Tcheng, che ha dato vita al suo movimento «La Gauche Pour Le Mariage Républicain». Gli organizzatori ci tengono a prendere le distanze dall’estrema destra dei cattolici integralisti. «Avevamo chiesto alle autorità di farli sfilare dall’altra parte della Senna ma non ci hanno ascoltato», ha precisato all'Unità Caroline Bernot, una portavoce dell'associazione. «Noi chiediamo al governo un vero dibattito o un referendum ha spiegato nel diritto francese la famiglia è un'istituzione e non ha senso sposare due persone dello stesso sesso».

l’Unità 14.1.13
Sylvie Guillaume
Europarlamentare del Ps, vicepresidente del gruppo Socialisti e democratici, da tempo impegnata sul tema dei diritti civili
La Ue condanna discriminazioni e omofobia, ma tocca ai singoli Stati decidere
«In gioco c’è l’uguaglianza La destra francese sbaglia»
di Marco Mongiello

La destra francese dell’Ump si è unita agli estremisti e ai cattolici integralisti per recuperare consensi. È questa lìopinione dell’eurodeputata socialista francese Sylvie Guillaume, vicepresidente del Gruppo dei Socialisti e Democratici al Parlamento europeo e membro della commissione per i diritti civili. Guillaume ha anche ricordato che in Europa oramai i matrimoni tra omosessuali sono riconosciuti anche da Paesi cattolici come Spagna e Portogallo e ha invitato la classe politica italiana ad avere «coraggio».
Come giudica la scelta dell'Ump di partecipare alla manifestazione di ieri contro il progetto di legge sui matrimoni omosessuali?
«Alcuni lo fanno per una sincera convinzione personale, ma penso che una buona parte stia cercando di sfruttare la situazione politica, visto che al momento l’Ump non è proprio fiorente. Giudico in modo molto negativo il fatto che in questa manifestazione la destra francese si sia ricompattata insieme all’estrema destra e a certe associazioni di integralisti cattolici. È un mix un po'... curioso. Quelle che hanno prevalso sono le forze più conservatrici dell’Ump. Nella manifestazione abbiamo ascoltato dei messaggi verbali a volte molto violenti. Alcuni ministri e il presidente della Repubblica sono stati abbondantemente insultati e nel dibattito sul disegno di legge “Matrimonio per tutti” è emersa l’omofobia della destra francese».
Però la leader del Fronte Nazionale Marine Le Pen non ha partecipato...
«Penso che lei stia cercando di far evolvere la sua immagine sulla scena politica francese per non sembrare troppo reazionaria sulle questioni sociali. Anche nella tradizionale manifestazione di quest'anno del Fronte Nazionale Marine Le Pen ha inviato dei chiari messaggi di riconciliazione verso la comunità omosessuale. Però va detto che la maggioranza del suo partito è molto ostile al disegno di legge “Matrimonio per tutti”».
A spaventare è soprattutto la questione delle adozioni. È per questo che il Governo ha deciso di andare oltre i Pacs?
«No, non penso che sia solo la questione delle adozioni alla base di questo progetto. Quello del matrimonio è una rivendicazione antica delle persone e delle coppie omosessuali. Si tratta di una questione di uguaglianza, prima ancora di una questione di figli e adozioni. Poi c'è il tema della donna. In Francia al momento c'è anche un grande dibattito sulla procreazione assistita, ma le cose fanno fatte per tappe...».
Qual è la situazione all'interno dell'Unione europea in tema di matrimoni e unioni civili?
«In Europa ci sono sei Paesi che hanno adottato una legislazione sui matrimoni aperti a tutti. Sono dei Paesi molto differenti tra loro, come la Spagna, il Portogallo e la Danimarca. Alcuni Paesi hanno deciso di andare più lontano e legiferare anche su adozioni, procreazione assistita e surrogazione di maternità. Altri, come il Portogallo, si sono fermati al matrimonio per tutti. Poi c'è una decina di altri Paesi che ha dei sistemi di partenariato civile come i Pacs in Francia. Infine c'è una terza categoria di Paesi che rifiuta qualsiasi legislazione sui matrimoni tra persone dello stesso sesso. Nelle istituzioni comunitarie questo è un tema che torna spesso, ma le questioni relative alla famiglia non sono di competenza europea. Ci sono delle dichiarazioni che condannano le diseguaglianze e l’omofobia ed esistono delle riflessioni sui diritti derivati. Ad esempio la libera circolazione è un diritto su cui ha competenza l’Unione europea e se una coppia omosessuale si sposa e poi va in uno Stato membro che non riconosce questo legame c'è un problema di libera circolazione e per questo è necessario far evolvere le leggi europee. Poi a livello di istituzioni comunitarie, e soprattutto di Parlamento europeo, ci occupiamo dei diritti patrimoniali relativi a matrimoni, divorzi e successioni, in modo che non ci siano discriminazioni tra coppie omosessuali e non».
In Italia le coppie omosessuali non sono riconosciute in alcun modo, anche se recentemente la Corte di Cassazione ha affermato il diritto alle adozioni. Come si spiega questo ritardo?
«Sicuramente è vero che l'Italia è un grande Paese con delle tradizioni cattoliche molto profonde che influiscono nelle convinzioni e nei comportamenti di cittadini e classe politica. Lo vedo al Parlamento europeo con i miei colleghi italiani, che hanno delle reticenze quando si deve votare su questioni relative alla laicità. Allo stesso tempo però la legislazione in materia si è evoluta anche in Paesi di tradizione cattolica come la Spagna e il Portogallo. Quindi ora spetta alla classe politica italiana avere il coraggio di prendere l'iniziativa quando la situazione lo permetterà».

Corriere 14.1.13
Ma non è una lotta tra giacobini e controrivoluzionari
di Massimo Nava

La Francia ha vissuto ieri una di quelle giornate che segnano la sua storia di rivoluzione e controrivoluzione e di passioni ideali che non possono essere facilmente compresse o conciliate quando la supremazia della legge pretende di codificare cambiamenti culturali e trasformazioni sociali in evoluzione.
Al Campo di Marte, luogo di storia e passioni per eccellenza, si è radunato in forze il fronte del no al «matrimonio per tutti», semplificato in «no al matrimonio gay» e stigmatizzato come deriva distruttrice della famiglia tradizionale e dei suoi valori.
Sono decine di migliaia, forse ottocentomila secondo gli organizzatori, molto meno secondo le forze dell'ordine, a difendere il buon diritto dei figli ad avere un padre e una madre e a non accettare che nel codice civile sia possibile scrivere soltanto «genitori», ovvero genitore 1 e genitore 2. E sono molti di più, pur senza scendere in piazza, ad auspicare un referendum sulla nuova legge (60 per cento dei francesi) e decisi a contrastare (55 per cento) la temuta tappa successiva, ritenuta probabilmente inevitabile in relazione al principio costituzionale dell'eguaglianza dei cittadini: il diritto all'adozione per coppie omosessuali e il diritto alla procreazione medicalmente assistita, ovvero la possibilità dell'utero in affitto.
Con l'intento di mantenere una promessa elettorale (come quella sulle tasse per i ricchi), il presidente Hollande e il governo socialista non hanno intenzione di arretrare di fronte alla piazza, agli appelli delle autorità religiose e agli inviti di numerosi esponenti dell'opposizione a «non dividere la Francia». La bandiera del progresso civile, della Francia libertaria e innovatrice, vuole rinfrancare il popolo della «gauche» deluso e fiaccato dalla crisi e tradurre in norma del codice civile il primato della cultura su natura e biologia, la molteplicità evidente dei modelli familiari, l'estensione di diritti della persona, considerati più importanti delle diversità sessuali. Del resto i diritti civili costano meno delle riforme economiche.
Stando a slogan e commenti di ieri, sarebbe facile delineare una Francia spaccata in due, la Vandea contro la Bastiglia, un fronte cattolico-tradizionalista-conservatore contrapposto a un fronte laico-moderno e progressista. Ma quando ci sono di mezzo l'etica e la coscienza, le posizioni sono ben più sfumate e complicate, persino all'interno delle minoranze omosessuali e religiose. Si differenziano per classi di età e condizione sociale, trapassano la divisione fra destra e sinistra e si ricompongono a seconda del grado dei diritti che si vorrebbero codificare. La Francia laica e repubblicana ha approvato a suo tempo le unioni civili (i pacs) e accetterebbe a maggioranza il matrimonio fra persone dello stesso sesso, ma s'interroga profondamente sul passaggio successivo del diritto all'adozione e alla procreazione assistita.
Ad infiammare gli animi contribuiscono come sempre i partigiani radicali, le minoranze intellettuali, i crociati per principio e gli errori di comunicazione che finiscono per strumentalizzare e semplificare ciò che semplificabile non è, come l'affermazione che al matrimonio per tutti debba seguire automaticamente il diritto all'adozione. Il fronte del no tende a denunciare un'immagine giacobina e materialista del governo, mentre il fronte del sì accusa gli oppositori di omofobia. Su una cosa sono tutti d'accordo: l'intolleranza che rimproverano agli altri.
Di sicuro, al fronte del no, il governo di Hollande ha dato la sensazione di decisioni irrevocabili, liquidando in una breve audizione collettiva il confronto con le autorità religiose e lanciando l'altolà alle scuole cattoliche affinché non entrassero nel dibattito. Dibattito che, in sostanza, si svolge sui giornali e nelle case in attesa di quello in Parlamento, dall'esito ovviamente scontato. Meglio sarebbe stato organizzare una grande conferenza sul matrimonio, la famiglia e molteplicità di modelli esistenti (compresa la poligamia nelle banlieues, il cui solo «diritto» è la casa popolare): uno di quegli «stati generali» così cari alla tradizione politica francese. E così utili alla tolleranza.

l’Unità 14.1.13
Cittadinanza a 11 milioni di immigrati
Obama punta al colpo grosso
di Roberto Arduini

Obama accelera sull’immigrazione. Il New York Times rivela l’intenzione del presidente statunitense di dare una soluzione definitiva alla riforma, con norme che permettano agli immigrati clandestini di regolarizzarsi, anche se dovranno pagare sanzioni e tasse arretrate. Nonostante le priorità legate alla situazione dei conti pubblici, Obama vuole imprimere un’accelerazione, mantenendo così una delle principali promesse della campagna elettorale. Il presidente Usa vuole spingere il Congresso ad agire rapidamente su una riforma che comprenda la cittadinanza per la maggior parte degli 11 milioni di clandestini nel Paese.
Secondo alti funzionari dell’amministrazione, Obama e i deputati democratici al Senato proporranno le modifiche in un unico disegno di legge, resistendo così ai tentativi di alcuni repubblicani di spezzettare la norma in tante proposte più piccole che riguardino separatamente i giovani immigrati clandestini, i braccianti e gli stranieri altamente qualificati: provvedimenti che così potrebbero essere più facili da accettare per molti membri riluttanti del loro partito. I democratici si oppongono anche a misure che non consentano agli immigrati che ottengono il primo livello dello status giuridico di diventare un giorno cittadini statunitensi.
Ma l’ambizione di Obama è più ampia. Entrambe le parti politiche ritengono che i primi mesi del suo secondo mandato offrano le migliori prospettive per il successo dell’iter legislativo della riforma. Un gruppo bipartisan di senatori è al lavoro su un documento unico, con l’obiettivo di introdurre una norma già da marzo per giungere a un voto al Senato prima di agosto.
Nelle prossime settimane il presidente dovrebbe esporre il suo piano, forse già nel discorso dello State of the Union dei primi di febbraio. La Casa Bianca sosterrà che la sua soluzione per gli immigrati illegali non è una sanatoria, come molti critici insistono, in quanto include sanzioni e il pagamento di tasse arretrate per gli immigrati illegali che vogliono ottenere lo status legale. Il piano del presidente potrebbe anche imporre la verifica a livello nazionale dello status giuridico per tutti i lavoratori neo-assunti, visti per alleviare i ritardi e permessi lunghi per gli immigrati altamente qualificati.

La Stampa 14.1.13
Contro le colonie
Gerusalemme sgomberata la tendopoli palestinesi
di S. N.

L’esercito israeliano ha sgomberato nella notte di sabato gli attivisti palestinesi che venerdì avevano eretto la tendopoli di «Bab al-Shams» (la «Città del Sole») nella zona E1, a ridosso di Gerusalemme Est, per protesta contro il progetto di costruire 3.000 nuove abitazioni per i coloni ebrei. Lo sgombero, condotto in forze dai militari, è stato ordinato direttamente dal primo ministro Benyamin Netanyahu, che ha espresso soddisfazione per un’operazione svolta «senza incidenti». Gli attivisti non hanno intenzione di arrendersi: «Continueremo - ha detto la portavoce Abir Kopty - a resistere pacificamente all’occupazione e a qualsiasi progetto di sottrarre territorio a noi palestinesi».

La Stampa 14.1.13
Corea del Sud. Epidemia di suicidi nell’Asia più trendy
Raddoppiati in 15 anni, 44 casi al giorno Si uccidono politici, pop star e manager
di Alessandro Ursic

Le luci del “Gangnam style” e dell’industria pop che domina in Asia distano pochi chilometri. Però è come se fossero ad anni luce dal ponte Mapo di Seul, dove l’anno scorso 150 coreani hanno deciso di farla finita: un’impennata che ha appena spinto le autorità della capitale a installare un sistema di telecamere pensato per fermare in tempo chi minaccia di gettarsi. Anche se dovesse funzionare, il problema va al di là dei ponti sul fiume Han: con un tasso di suicidi record in Asia e terzo al mondo, in Corea del Sud la questione è ormai dibattuta come un’emergenza nazionale.
Il fenomeno è in crescita da 15 anni, ma sta andando fuori controllo: in media, ogni giorno si tolgono la vita 44 persone. Se nel 1997 i suicidi erano 13,1 ogni 100 mila abitanti, oggi se ne contano 31,8: un tasso quasi cinque volte superiore a quello italiano. Il suicidio è diventato la prima causa di morte per chi ha meno di 40 anni, la quarta in assoluto. Negli ultimi anni l’hanno commesso anche diverse celebrità nazionali, compreso un ex presidente (Roh Moo-hyun) indagato per corruzione.
La decisione di dotare gli oltre 20 ponti di Seul di un allarme automatico che attiva una squadra di soccorritori conferma l’impotenza delle autorità. Proprio sul ponte Mapo, già lo scorso settembre avevano eretto cartelli di speranza («La parte migliore della tua vita deve ancora arrivare») e la statua di una persona che consola un disperato. Evidentemente non è bastato, come tutte le misure prese negli ultimi anni: l’aumento di psicologi e psichiatri, la chiusura di siti e chat che incoraggiavano a organizzare suicidi simultanei via Internet, o le barriere tra banchine e binari nella metropolitana di Seul.
Se c’è confusione sui rimedi, non è così per le cause. L’efficienza e la competitività per cui sono famosi i coreani creano pressioni immani in un Paese da 50 milioni di abitanti, che in meno di mezzo secolo è passato dalla povertà contadina all’élite tecnologica, e dove la classe media fatica sempre più a far quadrare i conti. L’ossessione del risultato sovraccarica di responsabilità i lavoratori delle grandi aziende che hanno diffuso il «made in Korea», spinge una donna di Seul su cinque alla chirurgia plastica per ricalcare i volti perfetti di attrici e cantanti della “Korean wave”, e obbliga persino gli studenti delle elementari a ripetizioni private fino a mezzanotte. Pesa anche un perdurante stigma sociale verso le malattie mentali, che porta a non curare gli stati di depressione.
E c’è poi l’effetto emulazione: è stato calcolato che per ogni celebrità che si toglie la vita, la copertura che i media nazionali danno al caso è responsabile di 600 suicidi in più. Anche per questo, gli esperti hanno esortato tv e giornali a non dare troppo risalto a morti eccellenti. Difficile però, se continuano a verificarsi. «La Corea deve fermare la marea di suicidi», ha scritto pochi giorni fa il quotidiano Chosun Ilbo dopo che Cho Sungmin, popolarissimo campione di baseball, è stato ritrovato impiccato in casa. Cinque anni fa aveva fatto lo stesso la sua ex moglie Choi Jin-sil, una delle più famose attrici sudcoreane, scioccando i suoi ammiratori. Già all’epoca si aprì un dibattito nazionale; ma da allora, il tasso dei suicidi è salito di un altro 15 per cento. "Sui ponti di Seul è stato installato un sistema di allarme per segnalare chi sta per buttarsi giù"

La Stampa 14.1.13
Nostalgia dell’Urss l’impero rivalutato
Sondaggio, per metà dei russi la vita era migliore vent’anni fa
di Mark Franchetti

Contro Putin Decine di migliaia di russi sono scesi ieri in strada a Mosca e in molte altre città del Paese per protestare contro la decisione del governo di vietare l’adozione di bambini russi da parte di cittadini americani, ritorsione alla legge Magnitzky varata dal Congresso degli Usa

Vent’anni dopo il crollo dell’Urss ecco un sondaggio che potrebbe apparire sorprendente: quasi la metà dei russi rimpiange la sua fine. Che strano, potrebbero pensare in tanti fuori dalla Russia. Ma come? Non era un impero del male che opprimeva il suo popolo? Ma non volevano la libertà, i russi? Questo è l’errore fondamentale che l’Occidente, soprattutto l’America, continua a fare nell’analizzare la Russia. Tendiamo a pensare che vent’anni fa la Russia fu «liberata» dopo sette decenni di repressione comunista, e che adesso, ovviamente, vorrebbe diventare come noi. Per decine di milioni di russi la verità è molto diversa. Ammettono che l’Urss era piagata da tanti mali, ingiustizia e crudeltà. Era un Paese ben lontano dall’ideale. Ma era un impero, una superpotenza la cui influenza veniva pareggiata solo da quella dell’America. L’Urss era temuta e rispettata. Contava. Durante la guerra fredda provavamo un brivido a vedere le parate militari sovietiche attraversare la Piazza Rossa. La maggior parte dei sovietici ne andava fiera.
Difficile sopravvalutare il trauma psicologico che milioni di russi hanno subito nel perdere il loro impero. La popolarità da rockstar di Mikhail Gorbaciov in Occidente e l’antipatia viscerale con cui viene visto in patria ne sono il sintomo. L’Occidente lo plaude per il suo contributo alla fine dell’Urss. La Russia lo disprezza per lo stesso motivo. L’ironia della sorte sta nel fatto che Gorbaciov voleva soltanto riformare l’Urss, non ucciderla. E anche lui ne rimpiange il collasso. Ma nella nostalgia russa per il passato sovietico c’è molto di più che l’orgoglio nazionale ferito. In Occidente siamo succubi della nostra stessa propaganda della Guerra Fredda, pensando che tutto quello che era sovietico fosse nefando. Ma per quelli cresciuti con il comunismo, l’Urss era la patria, con la sua cultura, tradizioni, principi e ricordi d’infanzia.
La nonna di mia figlia Sasha ai tempi sovietici era un’anticomunista. Ma 20 anni dopo la fine dell’Urss quasi tutti i suoi ricordi di quel periodo sono positivi. La legge, l’ordine, la solidarietà, lo Stato sociale che garantiva un posto all’asilo, un lavoro, una pensione, cure mediche, accesso a una buona istruzione e alla cultura. Grazie alla privatizzazione post-comunista, lei oggi è proprietaria del suo appartamento, ma a 67 anni percepisce solo 300 euro di pensione al mese. Il suo disgusto nei confronti della Russia di oggi, con la sua corruzione e ingiustizia sociale, è tale che in soli 20 anni è passata dall’odiare i comunisti ad affermare che il suo Paese oggi ha bisogno di un nuovo Stalin.
Per quanto queste opinioni possano apparire sconvolgenti, un fatto è innegabile: per lei e per decine di milioni di russi travolti dalla transizione dal comunismo al capitalismo sfrenato, la vita in Urss era migliore. E questo è importante perché nel suo cuore Vladimir Putin, leader del Paese dal 2000 e ancora per molti anni a venire, è un sovietico. Anche lui rimpiange intensamente il collasso dell’Urss. E se si vuole capire meglio come la Russia vede se stessa e il resto del mondo nel 2013, bisogna accettare il fatto che le ferite psicologiche inflitte dalla perdita dell’impero sono ancora fresche. Milioni di russi, Putin incluso, guardano all’Occidente soprattutto all’America e alla Gran Bretagna - con un complesso sia di superiorità che di inferiorità. Il primo è dettato dal ricordo dell’impero che fu. Il secondo dalla sua morte. Eravamo una potenza, ora non più. La Guerra Fredda è finita più di 20 anni fa, ma i suoi pregiudizi persistono da entrambi i lati.
Molti in Occidente reagiscono alla Russia negativamente in maniera istintiva. Durante la sua campagna elettorale contro Obama, Mitt Romney è arrivato a dipingere la Russia come la maggiore minaccia estera per l’America. Dall’altra parte, in Russia, l’anti-americanismo è sempre più forte. Buona parte dei russi pensa che il suo Paese sia assediato dall’Occidente: «Ci vogliono deboli, vogliono il nostro petrolio». «Guardate come la stampa britannica parla male di Berlusconi», dissi una volta a un ufficiale dell’Fsb (ex Kgb), cercando di difendermi dalle accuse di parlare male di Putin sul giornale. «Ah - mi rispose - ma non ci è sfuggito che avete cominciato a perseguitare Berlusconi dopo che è diventato amico di Putin».
L’America ha accolto la fine dell’Urss con esultanza. Era naturale. Ma altrettanto ovvio era il risentimento con il quale i russi avrebbero accolto il suo trionfalismo e le sue continue prediche. Con il tempo il rimpianto per l’Urss non potrà che diminuire, man mano che cresceranno nuove generazioni nate dopo la sua fine. Resta da vedere quale sentimento rimpiazzerà la nostalgia. «Non potete capire la Russia con la ragione», dicono i russi con orgoglio, citando un loro poeta. È un loro vecchio trucco, insistere sul mito che la Russia sia troppo enigmatica e complessa per venire compresa. Non è cosi. Vent’anni dopo, questa è la chiave per capire la Russia di Putin. Sono passati solo vent’anni da quando la bandiera sovietica venne ammainata per sempre dal Cremlino. Per la storia, vent’anni sono un battito di ciglia. Non è una scusa, è un fatto.

Corriere 14.1.13
«Rimanete in casa» Nella grigia Pechino non si respira più
Record storico per il livello dello smog
di Paolo Salom

PECHINO — Il sole da giorni non sorge più. L'unica differenza tra il giorno e la notte, a Pechino, è la quantità di luce che riesce a farsi strada attraverso la fitta coltre di smog che avvolge la capitale, attutendo — e forse questo è l'unico effetto positivo quanto paradossale — l'inquinamento acustico, di solito il tormento quotidiano di gran parte delle città cinesi dall'alba al tramonto. Ora si ha nostalgia di quei rumori assordanti. Perché udirli significa avere il cielo sgombro e l'aria tersa e cristallina, come dovrebbe essere in un normale inverno pechinese.
Invece la Cctv, la televisione di Stato, ha appena lanciato l'«allarme blu»: significa che l'aria è immobile e sporca al punto che è rischioso per la salute respirarla, opportuno invece chiudersi in casa e non uscire, soprattutto «anziani e bambini». Allarme blu. Curiosa scelta di colore. Perché tutto quello che si riferisce allo smog dovrebbe essere grigio, grigio come l'asfalto che non si riesce più a distinguere dall'atmosfera che lo sovrasta. Kongqi wuran, l'aria fa schifo, dicono alzando le spalle i pechinesi. Chi può permetterselo si chiude tra le mura domestiche e, come il celebre giornalista e blogger Michael Anti, accende «al massimo i purificatori d'aria».
Basteranno? Intorno al centro della capitale ci sono dodici centraline che monitorano l'atmosfera, individuando ora per ora la quantità di particelle Pm 2,5 presenti in un metro cubo d'aria: tutte hanno da giorni superato ogni limite considerato «accettabile». Ieri gli apparecchi hanno segnalato un indice di inquinamento pari a 700 quando l'Organizzazione mondiale per la sanità ritiene che il limite ottimale per la salute sia di 25 parti per metro cubo. Una centralina, a Tongzhou, cioè alla periferia est di Pechino, ha addirittura raggiunto la misura di 950 parti per metro cubo. Di qui una realtà impossibile da nascondere. Se nel luglio 2009, il governo cinese aveva cercato di mettere a tacere le notizie sulla presenza dello smog diffuse su Twitter dall'ambasciata americana — l'unica allora a promuovere misurazioni autonome — oggi le informazioni, per quanto non proprio tempestive, sono comunque abbondanti.
Giornali, radio e tv comunque ripetono il mantra: «Non uscite di casa». Le Pm 2,5 (più piccole e più dannose delle Pm 10 in genere misurate in Italia) sono individuate dagli apparecchi installati nel giardino della rappresentanza Usa sulla scala che, per l'Agenzia per la protezione dell'ambiente di Washington, si ferma a 500, il «massimo concepibile». Invece quelli cinesi mostrano risultati anche sopra quel limite. Una situazione che non è difficile verificare: basta percorrere pochi passi all'esterno, resistendo a un odore acre di uova marce, per sentire bruciare la gola e avvertire un'immediata nausea, tutti sintomi che consigliano di girare i tacchi all'istante. «Gli stranieri sono un po' esagerati, noi siamo abituati», ci dice con un misto di scherno e fatalismo Xia Beizi, una manager che però, a una precisa domanda, subito risponde: «Io? Non sono uscita di casa, oggi, e non uscirò nemmeno domani». Molti cinesi, invece, sono più fatalisti. Forse perché non hanno scelta. «Sono uscita — ci spiega Zhao Meizi, cameriera in un ristorante —. Non posso stare sempre al chiuso. Ho poco tempo libero, ne approfitto per guardare le vetrine. Lo smog? Tanto non ho un'altra aria da respirare...».
L'atmosfera è in effetti pessima su gran parte della Cina, non soltanto a Pechino. Per cui non c'è molto da fare per difendersi. Grandi città come Shanghai, Chongqing, Wuhan hanno registrato in questa prima parte del 2013 problemi analoghi, con le particelle inquinanti che nelle 24 ore superavano costantemente i limiti. A Nanchino, con una misurazione di 200 (che nella capitale ora sembrerebbe una benedizione) le autorità municipali hanno pensato di provocare artificialmente la pioggia, per ripulire l'aria. A Pechino non piove da novembre. È caduta solo un po' di neve, già sparita dalle strade nonostante le temperature rigide. Su Weibo, il Twitter cinese, il Centro municipale di monitoraggio della protezione ambientale afferma che la situazione dovrebbe migliorare da domani. Non resta che trattenere il respiro.

Corriere 14.1.13
Gli indios del Maracanã, con l'arco contro la polizia
di Rocco Cotroneo

RIO DE JANEIRO — Una tribù di indios e lo stadio più famoso del mondo. Due simboli del Brasile, uno di fronte all'altro nel cuore di Rio de Janeiro, ma è una vicinanza ormai incompatibile con le regole del moderno show business chiamato calcio. Per questo gli indigeni devono sloggiare dai paraggi del Maracanã. Serve lo spazio, bisogna costruire i parcheggi, permettere che il celebre stadio sia in regola per i Mondiali del 2014. Ma loro resistono, e non è detto che alla fine non riescano a vincere la loro battaglia impossibile.
Il «Museu do Indio» è una bella palazzina a due piani di fine Ottocento, di stile vagamente coloniale. Per gli standard del nuovo mondo è un edificio storico, anche se le Belle arti carioca non lo includono tra i monumenti protetti e sta cadendo letteralmente a pezzi. Può dunque essere abbattuto, ed è di proprietà dello Stato. Un tempo ospitava proprio il museo nazionale brasiliano sulla cultura e le tradizioni indigene, poi nel 1978 si trovò una nuova sede più ampia in città e l'edificio venne abbandonato. Sei anni fa, infine, la palazzina venne occupata da una dozzina di famiglie di origini indie arrivate a Rio in cerca di un futuro migliore. Che da allora non si sono più mosse da lì.
Maracanã, a Rio, è il nome di un quartiere abbastanza centrale, densamente popolato e di classe media. Attorno allo stadio «Jornalista Mário Filho» — questo è il suo nome ufficiale, come Giuseppe Meazza sta a San Siro — la città è cresciuta senza controllo. Ci sono strade a tre corsie, viadotti, una scuola, benzinai, la palazzina degli indios e molti condomini residenziali. Dal 1950 quando fu costruito lo stadio, fino ad oggi, il problema di questo caos urbano senza pianificazione non è stato mai affrontato. Dopotutto a Rio nessuno o quasi usa l'automobile per andare alla partita, il Maracanã è vicino a una stazione di metrò e alle linee degli autobus, e persino dalle favelas dove vivono i tifosi più scatenati del Flamengo o del Vasco si scende a piedi fino allo stadio. Gli indios che nel 2007 decisero di creare la «tribù Maracanã», con l'idea di unire la necessità di un tetto gratuito alla creazione di un centro culturale, si trovano ora davanti a una necessità inderogabile, secondo le autorità pubbliche. Per i Mondiali lo stadio verrà privatizzato, e attorno dovrebbe sorgere un centro commerciale con tanto di parcheggio. Un bieco interesse privato, ribattono gli indios e gli oppositori alla demolizione della palazzina. «No, ce lo chiede la Fifa, serve spazio di mobilità e di sicurezza attorno allo stadio. E poi il palazzo non ha alcun valore storico», disse qualche tempo fa il governatore Sergio Cabral. Per poi farsi smentire dalle autorità del calcio mondiale: no, non è una nostra richiesta.
L'iter dello sgombero, intanto, va avanti. Tutto è in ritardo a Rio per i Mondiali e le Olimpiadi del 2016, e il Maracanã è un tema sensibile, per ovvi motivi di immagine. Sabato il governo ha mandato sessanta poliziotti, quelli del battaglione da guerra usato contro il narcotraffico, a circondare la casa degli indios. Appena con l'obiettivo di intimorirli, visto che l'ordine di sgombero non è ancora arrivato dal Tribunale. Gli abitanti hanno risposto tirando fuori dagli armadi archi, frecce e abiti tradizionali. La loro battaglia raccoglie simpatie tra chi non vuole la trasfigurazione dell'area attorno allo stadio. «Cos'è meglio per un turista? Vedere una palazzina coloniale o un fast food quanto esce dallo stadio?», ha protestato il deputato Marcelo Freixo. Una scuola media nelle vicinanze si è unita alla resistenza: anch'essa dovrebbe essere abbattuta per la costruzione dei campi di riscaldamento dei giocatori. Vari militanti di movimenti sociali hanno piazzato le loro tende nei giardini del «museu do indio» in segno di solidarietà.
Dopo lo spiegamento delle teste di cuoio, considerato eccessivo, adesso il governo di Rio sta rallentando. Prima di proseguire con l'istanza di sgombero ha deciso di fare un censimento delle 23 famiglie che vivono nella palazzina, anche per trovar loro una nuova casa.

l’Unità 14.1.13
Il mistero della nascita
Pratiche e riflessioni intorno al parto oggi
L’ultimo numero della rivista «Gli Asini» ospita un confronto fra neonatologi, ostetriche e intellettuali sulla venuta al mondo
di Manuela Trinci

ERANO GLI ANNI 70 DEL SECOLO SCORSO E PERSINO NEI PIÙ PICCOLI CENTRI DI PROVINCIA I «CORSI DI PREPARAZIONE ALLA NASCITA» INIZIAVANO A FARSI STRADA. Per la verità già dagli anni 50 circolavano e si moltiplicavano tecniche per «preparare» al parto; tecniche che avevano quale fine dichiarato la riduzione dei tempi del travaglio e del parto nonché l’attenuazione e l’eliminazione del dolore, sebbene non fosse difficile scorgere in tutto questo preoccuparsi la necessità di rispondere a eventi fisiologici in termini di produttività. Anche i primi libri sulla «preparazione al parto» erano per lo più scritti da ginecologi e per lo più così ricchi di imperativi, divieti e permessi nella vita della gestante da connotarsi alla fine come libri di patologia volgarizzata.
Sul tappeto, dunque, grandi temi e indubbiamente il viraggio che portò a parlare di «preparazione alla nascita» anziché al «parto» segnalò il desiderio di occuparsi di quella frattura che portava il segno del «doversi preparare» a un momento particolare della vita come se fosse scisso dagli altri momenti, tentando di dare voce al desiderio di un recupero della naturalità del parto, di un parto che pur non disconoscendo gli apporti offerti da scienza e tecnica per diminuire i tassi della mortalità materna e infantile fosse diverso da quello istituzionalizzato nei reparti di maternità, con una discussione serrata che non eludeva certo le questioni di potere delle figure sanitarie al parto preposte.
Nascere senza violenza (dal gettonatissimo libro di Leboyer, Bompiani,1975) fu dunque il motto delle donne di allora, allargando con questo il senso del nascere alla coppia e al proprio bambino.
Che cosa rimanga oggi di tanta rivoluzionaria e dissacrante fattività è il compito assunto da Benvenuto tra noi. Pratiche e riflessioni intorno al parto e alla nascita, l’ultimo numero della rivista Gli Asini (diretta da Luigi Monti, direttore responsabile Goffredo Fofi, Edizioni degli Asini, pagg.135, Euro 8,50; www.gliasinirivista.org).
È un confronto serrato quello proposto dagli «Asini», avviato da Sara Honneger e concluso sapientemente dalla montessoriana Grazia Honneger Fresco; un confronto che vede neonatologi, ostetriche ginecologi come pure intellettuali, dibattere con passione, tocchi d’ironia e talvolta delusione, in quale maniera «il misteriosissimo alieno» attraverserà il confine «tra la protezione totale del grembo materno e gli urti inevitabili» del vedere la luce.
Per prima cosa, annotano quasi all’unisono gli autori, fra i grandi cambiamenti che vanno dall’aumento dell’età delle future mamme sino all’altissimo numero di coppie che terrorizzate dallo spettro della sterilità fa ricorso alla procreazione medicalmente assistita, il filo rosso diviene il ruolo che la «programmazione della nascita» ha assunto nella nostra cultura. Così, contrariamente agli auspici anni 70, la mappa che si presenta oggi agli occhi della gente comune è connotata da enfasi del concetto di rischio insito nel parto, da un’adesione acritica alla diagnosi prenatale, da un uso del taglio cesareo (auspicato «parto del futuro») in percentuale tale che fa dell’Italia il paese d’Europa e il terzo nel mondo con il più alto tasso di cesarei. Le donne, dunque, hanno completamente assorbito l’idea che la tecnologia garantisca sicurezza, e fra «previsioni di rischio» prenatali e proposte di check-up, il bambino atteso già nel grembo materno è un portatore di rischi, che viene misurato e valutato in base alle sue potenzialità.
Fra i temi rilanciati da Gli Asini, non poteva mancare il «dolore nel parto», oggi quasi tramontato nel suo significato fisiologico, nella sua funzione di allenamento alla fatica di essere genitore; e non potevano mancare note amare su un dibattito al femminile anestetizzato e languido che si accontenta di «un diritto all’epidurale», senza riaffermare la necessità di operatori capaci di «assistenza» e non solo di «intervento», o senza riflettere sulla subdola cultura «eugenetica» che in filigrana ammorba l’attesa del bebè.
Perché, scriveva Hannah Arendt di fronte alla meraviglia del neonato, «questo nuovo inizio non è pianificabile o calcolabile... si verifica sempre contro la tendenza prevalente delle leggi statistiche e della loro probabilità...quindi è infinitamente improbabile...alla stregua di un miracolo».

La Stampa 14.1.13
Chiesa vietata, la Bonino attacca
“Non capisco perché ai funerali della Melato ho dovuto parlare all’esterno”
di Giacomo Galeazzi

Polemiche sull’addio a Mariangela Melato. Contrariamente a quanto annunciato in un primo momento, sabato pomeriggio il discorso di Emma Bonino in ricordo dell’attrice non è stato letto in chiesa ma in piazza del Popolo alla fine del funerale, in una postazione audio con microfono appositamente allestita. Mariangela Melato voleva infatti che in suo ricordo parlasse la vicepresidente del Senato. «Il parroco ha detto ad Arbore che le nuove disposizioni della diocesi prescrivono così - afferma Emma Bonino - Io non ho esperienza di cerimonie religiose né di orazioni funebri». E, aggiunge: «Venerdì mi ha chiamato Renzo per dire che Mariangela era morta e che ci teneva che fossi io a ricordarla: così sono andata al funerale alle tre meno un quarto, ma Arbore mi ha detto che il prete gli aveva spiegato che in chiesa parla solo il prete mentre tutti altri saluti si fanno fuori». Una giustificazione che non convince l’esponente radicale: «Mi hanno raccontato che il prete l’ha ripetuto anche durante l’omelia, però onestamente non so se queste disposizioni ci siano o meno ed era sorpreso anche Renzo».
Tra l’altro Arbore, a lungo compagno dell’attrice ma mai sposato con lei, non è stato citato nell’omelia pronunciata sull’altare. È stato menzionato nei saluti alle persone care con la sorella e un’ amica dell’attrice.
Quanto basta per far pensare ad un «veto» ecclesiastico «ad personam» contro un leader politico da sempre su opposte barricate rispetto alla Santa Sede sui temi bioetici. In realtà, assicurano in diocesi, «non c’è stata alcuna discriminazione nei confronti di Emma Bonino né di alcun altro». La famiglia dell’attrice, viene precisato, «aveva richiesto che le telecamere restassero fuori dalla chiesa per mantenere un’atmosfera di raccoglimento e preghiera». E, «come accaduto anche alle esequie nel duomo di Milano per Mike Bongiorno, si è mantenuta distinta la sacralità del momento religioso dal ricordo pubblico laico delle personalità amiche». Per non «alterare la liturgia» e, «in presenza del triplo della gente all’esterno della chiesa rispetto ai presenti alla cerimonia», si è deciso di «mettere un microfono all’esterno per il ricordo davanti al pubblico», chiariscono in vicariato.
Dunque in chiesa il funerale si è svolto secondo prassi. «È finito solo il primo atto, si è chiuso il sipario ma la vita di Mariangela continua - ha detto il rettore, don Walter Insero nella sua omelia - Il suo viaggio è stato in punta di piedi, lei è già nel palcoscenico dell’eternità». Durante la cerimonia è stata anche letta la Preghiera degli artisti, accolta da un applauso, e come tradizione della Chiesa si è fatta la raccolta delle offerte che «vengono devolute a qualche artista in difficoltà». Insomma nessuna eccezione alle regole né «oscuramenti» di presenze ingombranti. La vicepresidente del Senato ha esordito dicendo di essere «onorata che sia stato chiesto a me di ricordarla». E, nonostante non ci fossero state frequentazioni assidue con l’attrice, ha precisato di averla avuta a fianco «determinata e vitale in alcune sfide radicali apparentemente impossibili». Un ricordo a basso potenziale polemico, nulla che non potesse essere pronunciato in chiesa. E soprattutto nulla di anticattolico né di sconveniente, specie se si pensa che in una vicina chiesa romana al funerale di Riccardo Schicchi un mese fa sono saliti sull’altare per le orazioni funebri i suoi amici pornodivi. Quindi, sabato non è arrivata dalle gerarchie ecclesiastiche alcuna «interdizione» alla Bonino. Se non ha potuto prendere la parola in chiesa è stato soltanto «per separare liturgia da memorie personali». Nessun altolà a chi la pensa diversamente dal Vaticano su aborto ed eutanasia. E in diocesi esortano a «non scatenare bufere sul nulla» e a «non strumentalizzare politicamente l’ultimo saluto a una personalità luminosa della scena artistica italiana».

l’Unità 14.1.13
Vico e il rilancio della retorica
Esce un’edizione filologica della sua «Scienza nuova»
Non convince l’idea di accostarlo a Heidegger o a Walter Benjamin rispetto a Hegel e Croce
di Renato Barilli

Un’occasione per riflettere sull’attualità del filosofo accostandolo per esempio al giurista belga Charles Perelmann che predica una «nuova teoria dell’argomentazione»

LA BOMPIANI CI HA OFFERTO LA SCIENZA NUOVA DI GIAMBATTISTA VICO IN UN VOLUMONE (PAGINE 1.318, EURO 30,00) CHE COMPRENDE LE TRE EDIZIONI successive del capolavoro del filosofo napoletano, 1725, 1730, 1744. Nulla da dire sull’aspetto filologico dell’impresa, curato da una studiosa qualificata come Manuela Sanna.
Il punto che qui ci interessa è di chiederci se e quanto l’opera famosa può godere ancora oggi di attualità, come del resto deve essere per ogni capolavoro. È da accantonare la vecchia interpretazione dovuta al Croce, che pretendeva di fare del Vico un antesignano dell’idealismo, cioè di una posizione che dà al soggetto umano la facoltà di creare la realtà, secondo la via impostata soprattutto da Hegel. Si è tentato di rilanciare una eventuale attualità del pensiero crociano, approfittando dei 110 anni dalla sua morte, ma con esiti assai dubbi.
D’altra parte, il modo migliore per accordare al pensiero del Vico una rinnovata attualità non pare consistere nell’agganciarlo a nuovi idoli dei nostri giorni, come fa l’altro curatore del volume Bompiani, Vincenzo Vitiello, con una maxi-introduzione di ben 180 pagine. Non ritengo che sia un grande vantaggio se da Hegel e Croce passiamo agli a mio avviso ugualmente impropri Heidegger e Walter Benjamin. La via migliore per fornire un Vico ancora «con noi» mi sembra debba battere altre strade, indirizzandosi per esempio verso una figura, se si vuole, di basso o medio profilo come quella del giurista belga Charles Perelmann, da cui è pervenuta, alla metà del secolo scorso, una accanita predicazione a favore del rilancio della retorica, ovvero di una «nuova teoria dell’argomentazione».
LA DIFESA DELL’ANCELLA DEL SAPERE
Del resto, non dimentichiamolo, Vico fu prima di tutto un docente di retorica, considerata allora, fine Seicento, come una materia alquanto modesta, da cui non riuscì neppure ad accedere al livello superiore della giurisprudenza. Ma nella difesa dell’ancella del sapere sta forse il significato principale di tutta la sua predicazione, che lo vide combattere accanitamente contro una sua cancellazione radicale minacciata da Cartesio e seguaci. Dentro il nostro «cogito» il Renato francese credeva di ritrovare solo i rigori di una «mathesis universalis», numeri, geometria, tra cui le famose coordinate, pronte a recepire nei loro registri l’intero corpus della geometria euclidea. Di fronte a tanto rigore, impallidivano i pregi pur secolari delle discipline incerte e vaghe care agli umanisti, le vie dubbie dei dibattiti giuridico e politico, l’oscillazione dei giudizi estetici, legati a fattori momentanei e personalistici. Insomma, in una «scienza nuova» o moderna che si volesse dire, non trovava posto la retorica, troppo flessibile ed elastica, regno del vago e dell’incerto.
Ricordiamo subito che una simile lotta tra le «due culture» si è riaccesa proprio un secolo fa, quando si è istruito un processo contro le discipline umanistiche, declassate, ritenute indegne di partecipare allo statuto della scienza. La cosiddetta filosofia analitica ha battuto queste strade, trovando poi il forte appoggio della linguistica e della semiotica, con la loro pretesa di «raddrizzare le gambe ai cani». Roland Barthes ci ha provato perfino con la moda.
Contro tutte queste manovre punitive, si è levato appunto Perelmann, il Vico dei nostri giorni, a farci riflettere che ci sono ambiti della massima importanza per l’uomo, i tre già ben visti nei secoli da tutti i difensori della retorica, il politico, il giudiziario, l’estetico, in cui non è possibile raggiungere una verità perentoria, ma ci si deve accontentare del probabile, tentando di persuadere gli avversari a colpi di argomentazione, appoggiata anche a qualche incanto verbale, e alla forza dell’esempio, del caso concreto.
AMMIRATORE DI CARTESIO
Vico era un ammiratore di Cartesio e del suo metodo di fondazione rigorosa, ma voleva che esso riguardasse anche il campo del probabile, da qui l’innalzamento della retorica a un valore assoluto, da tutelare, da proteggere. Dentro di noi, non troviamo solo le vie dell’analisi «more geometrico», ma anche del dibattito probabilistico.
Nello stesso tempo Vico avvertiva pure la forza dei tempi, allora del tutto a favore del razionalismo, secondo una gerarchia che appunto collocava molto in basso la povera e titubante retorica, e allora accettò questo degrado, rivendicò sì il diritto della retorica a sedersi alla mensa superiore della logica e della matematica, ma mettendosi comunque in un angolino, come del resto accadeva allora ai precettori se ammessi alla tavola dei signori.
È giusto che la prima tappa del processo educativo sia affidata a coltivare i sentimenti, le emozioni, la poesia, di cui la retorica è valida amministratrice. Ma poi viene l’età adulta dei ragionamento analitico, e allora l’imprecisione della retorica deve scomparire. Questa collocazione «in basso» della vita emozionale è il motivo di cui l’idealismo romantico si impadronirà, l’aspetto nel Vico-pensiero che darà ragione a Croce nel volerlo additare come un suo precursore. Ma è anche l’impostazione da cui oggi abbiamo dovuto liberarci, sollevando il regno del dibattito retorico dalla sua collocazione degradata, portandolo a competere alla pari con le armi analitiche delle scienze fisico-matematiche.
Vico è con noi, ma solo con una parte della sua Scienza nuova.

La Stampa 14.1.13
Buchenwald il mistero del bambino nella valigia
di Mario Baudino

Torna, in versione integrale, il romanzo di Bruno Apitz basato su una storia vera, che mezzo secolo fa commosse il mondo. E vengono alla luce le reticenze dell’autore
Anche il premio Nobel Elie Wiesel, oggi 94enne, fu tra i 900 ragazzi internati a Buchenwald. Vi fu trasferito da Auschwitz nel gennaio del ’45, con la tristemente famosa «marcia di evacuazione» di cui parla anche Primo Levi. Venne liberato poco dopo, con l’arrivo degli alleati. Aveva 15 anni. Lo racconta nel romanzo autobiografico La notte.

Bruno Apitz (Lipsia, 1900-Berlino, 1979), autore di romanzi, racconti e opere teatrali, è stato tra i più noti intellettuali comunisti della Ddr. Internato dal 1937 al ’45 a Buchenwald, fu testimone della storia che raccontò nel romanzo Nudo tra i lupi

Stefan Zweig, il bambino ebreo polacco di tre anni al momento della liberazione dal Lager di Buchenwald l’11 aprile 1945. Nella foto sopra Zweig in una foto recente. Nel romanzo di Apitz il suo nome è cambiato in Stefan Cyliak. Otto anni fa l’uomo ha raccontato la sua storia in un libro uscito in Austria. Lo stesso aveva fatto prima di lui suo padre Zacharias in un libro, tradotto anche in Italia, che potrebbe essere una delle fonti a cui si è ispirato Benigni per il film premio Oscar La vita è bella

Voleva difendere i suoi compagni di prigionia, comunisti come lui, sospettati di collaborazionismo
Ebreo polacco, si salvò perché i deportati consegnarono alle SS al posto suo un piccolo Rom

Nel marzo del ’45, mentre una pioggia gelida infradicia i cappotti delle SS e le leggere uniformi degli internati, un convoglio arriva al campo di Buchenwald proveniente da Auschwitz, carico all’inverosimile di vivi e di morti. C’è anche un ebreo reduce dal ghetto di Varsavia, che stringe disperatamente una pesante valigia. Inizia così quello che è stato uno dei grandi successi letterari e mediatici della Guerra fredda, tradotto in tutto il mondo e usato dalla Ddr come un formidabile strumento di propaganda: Nudo fra i lupi, di Bruno Apitz, che a Buchenwald fu internato per otto anni.
Il romanzo uscì nel 1958 dopo una travagliata elaborazione, divenne un film, creò una storia esemplare e straziante, per lunghi anni «la storia» di Buchenwald: quella del piccolo Stefan Cyliak, il bambino salvato dall’inferno. Nella valigia c’era lui. Entrato clandestinamente in quel mondo di morte, si era salvato grazie a un gruppo di prigionieri, tutti comunisti, tutti appartenenti all’organizzazione segreta del partito, che rischiarono la vita per lui e pagarono un prezzo altissimo per poterlo consegnare sano e salvo agli alleati al momento della liberazione.
Ora, a distanza di quasi mezzo secolo, esce l’edizione per così dire originale del libro, condotta sui manoscritti, molto differente da quella che venne data alle stampe. Pubblicata in Germania un anno fa, ha fatto molto parlare alla Fiera di Londra. La traduzione italiana va in libreria oggi per Longanesi, a due settimane dalla Giornata della memoria: ed è una lettura affascinante per la prospettiva storica e per la sua stessa struttura: le parti reintegrate sono indicate tra parentesi, col risultato che il lettore, pur nell’organicità del racconto, ha davanti a sé due libri, due percorsi stratificati nel tempo. Bruno Apitz aveva un scopo preciso: voleva difendere dalle accuse del dopoguerra l’operato dei suoi compagni di prigionia, che in molti casi venivano considerati puri e semplici collaborazionisti visto che tra loro i nazisti sceglievano i «kapò» cui delegavano l’organizzazione del campo. Rivendicava il ruolo di cospiratori e di combattenti.
La vicenda del bambino nella valigia era perfetta, e aveva il vantaggio di essere quasi vera. Il piccolo Stefan si chiamava nella realtà Stefan Gerzy Zweig, deportato a Buchenwald nel ’44 col padre, un avvocato di Varsavia. La madre e le sorelle erano state uccise, loro due sopravvissero e alla fine della guerra si trasferirono in Israele. Non fu un caso unico: nel Lager - creato per i prigionieri politici e i criminali comuni, quindi non un campo di sterminio in senso stretto - c’erano moltissimi ragazzi, i più tenuti nascosti dagli stessi internati. Un recente filmato scoperto negli archivi svizzeri documenta anche la loro liberazione e il trasferimento in Svizzera.
Stefan però era il più piccolo: tre anni. Bruno Apitz ne fece un simbolo. Voleva raccontare non il bambino in sé, che infatti è una figura del tutto passiva, ma la lotta per salvarlo da un nuovo trasferimento, questa volta a Bergen-Belsen, che era a tutti gli effetti un campo di sterminio. Creò un quadro coerente per esempio ritardando l’ingresso del bambino per avvicinarlo al momento della rivolta e della liberazione - e semplificò una vicenda complicata. Si accorse però che la prima stesura era ancora troppo «vera»: alcuni dirigenti comunisti, per esempio, volevano assolutamente liberarsi del piccolo per non mettere in pericolo l’organizzazione. E allora emendò, a lungo, fino a far sparire per esempio il nome «maledetto» di Bergen-Belsen, o stemperare i contrasti fra i prigionieri.
Il risultato fu eccellente, soprattutto nella Ddr in pieno stalinismo. Ma c’era qualcosa che Apitz non sapeva, e che è emerso solo dalla ricerca storica successiva: nella realtà ci fu uno scambio. Il bambino ebreo venne salvato perché sul treno della morte fu fatto salire un piccolo Rom. Il protagonista della vicenda, Stefan Gerzy Zweig non ha mai accettato l’idea di essere vivo grazie a uno scambio di vittime, e di recente, dopo la ristrutturazione del mausoleo di Buchenwald, ha fatto causa al direttore che aveva tolto una lapide a lui dedicata sostituendola con una che ricorda i 900 bambini là sopravvissuti grazie agli internati.
Nudo fra i lupi è un libro tragico e bello, nonostante la retorica ideologica che fa parte ovviamente dei segni del tempo. Ma è anche una macchina narrativa che, a causa del successo, ha segnato i suoi protagonisti per sempre. Col successo del libro e del film, Stefan Zweig si ritrovò catapultato sulla scena pubblica. Rintracciato in Israele da un giornalista di Berlino Est, divenne una sorta di icona della Ddr, dove si trasferì e si sposò. Incontrò Apitz, ma i due non legarono. E dopo qualche anno lasciò il Paese, con la moglie tedesca e un figlio, riparando a Vienna. Il padre Zacharias raccontò a sua volta la storia in un libro, Il bambino di Buchenwald, tradotto anche in Italia, e ritenuto una delle fonti che ispirarono a Benigni il film La vita è bella .
Nel 2005 anche Jerzy pubblicò la sua versione dei fatti ( Tränen allein genügen nicht, che si potrebbe tradurre con «Le lacrime di per sé non bastano») difendendo i suoi salvatori dall’accusa di essere stati degli «stalinisti». Voleva fare i conti con la storia. Ma era la stessa battaglia che già Apitz aveva perduto.

La Stampa 14.1.13
The show must go on
Woody Allen “Meglio nevrotico che repubblicano”
di Martina Carnesciali

«Meglio ipocondriaco che Repubblicano». È un Woody Allen al meglio del suo spirito caustico quello che sul New York Times ripercorre il suo difficile rapporto con malattie e morte.
«Nessun modo di morire è accettabile per me», scrive sull’inserto domenicale Week in Review il regista di Manhattan, «se non quella di essere calciato a morte da una coppia di camerierine seminude». Interpellato dal giornale per raccontare cosa significhi essere un malato immaginario, Allen, che ha infarcito di momenti ipocondriaci i suoi film più famosi, prende immediatamente le distanze e si dichiara piuttosto «un allarmista».
In pratica «siamo tutti e due nella stessa categoria di matti, o meglio, nello stesso pronto soccorso. Però c’è una differenza fondamentale. Io non soffro di malattie immaginarie, le mie malattie sono reali. Quel che distingue la mia isteria è che all’apparire dei più piccoli sintomi, ad esempio un labbro scrostato, salto immediatamente alla conclusione che devo avere un tumore al cervello. Oppure un cancro al polmone. In un caso, era la Mucca Pazza».
Sempre sicuro che gli stia per arrivare qualcosa di terribile, Allen va dal medico «per esser rassicurato che ogni piccolo sintomo non finirà in un trapianto di cuore». Visite al pronto soccorso tengono sveglia la notte anche la moglie Soon Yi. E poco importa che il regista sia consapevole di avere buoni geni: «Mia madre e mio padre sono vissuti a lungo ma si sono rifiutati categoricamente di trasmettermi il loro Dna convinti che ricevere un’eredità spesso rovini i figli».
L’allarmismo (o l’ipocondria) di Allen è legata al terrore della morte: «Ho sempre avuto una paura animale di morire, seconda solo a dover sedere in fondo a un concerto rock». E se la moglie gli ricorda che c’è poco da fare, che tutti prima o poi dobbiamo morire, «quando me lo dice alle tre del mattino mi fa scappare gridando dal letto, accendere tutte le luci di casa e suonare la mia registrazione di Star and Stripes Forever a pieno volume fino al sorgere del sole».
Ma ci sono, per Woody Allen, cose ancora peggiori della morte. Il regista è solo in parte ironico quando elenca le possibilità: «Finire in coma e non riuscire a dire all’infermiera di spegnere la Fox» - dice riferendosi alla tv di Murdoch - oppure trovarsi attaccato a mille tubi con i parenti intorno che dibattono se staccare la spina. E sentire la moglie che dice agli altri: «Facciamolo adesso, sono già passati 15 minuti, altrimenti arriveremo tardi per la cena».

La Stampa 14.1.13
Nawal, la donna delle rivoluzioni
El-Moutawakel punta alla presidenza Cio, carica conservatrice e maschilista
Nell’84 fu la prima africana (e musulmana) a vincere un oro ai Giochi

Persino una donna abituata alle rivoluzioni come Nawal el-Moutawakel considera l’idea di una presidenza femminile al Comitato olimpico internazionale come una frontiera. È lì, in quel mondo tradizionalista, maschilista e decisamente conservatore, che il tempo si muove con ritmi diversi, le parole pesano sempre tantissimo, soprattutto quelle non dette, le alleanze sono eterne, quasi come i mandati.
Otto presidenti in più di 100 anni, ovviamente tutti uomini e quasi tutti europei, tranne un’unica eccezione, l’americano Avery Brundage che non è passato alla storia per una visione democratica del mondo. Era capo del comitato Usa quando gli Stati Uniti decisero di sostituire alcuni atleti ebrei nelle gare di Berlino 1936, era capo del Cio quando buttò fuori dal Villaggio olimpico Tommie Smith e John Carlos per il pugno guantato di nero. Dopo di lui, e dopo la tremenda orazione funebre per i morti nella strage di Monaco 1972, il parlamento dello sport è tornato al rigore assoluto e il vertice è sempre stato occupato da un uomo del vecchio continente, possibilmente di destra, prima un militare, poi un franchista. Jacques Rogge, impassibile e imperscrutabile belga, rappresenta già quanto di più progressista quel ruolo abbia mai visto. E se lui, ex sportivo, abile mediatore, attento a rispettare le posizioni e le strategie, è considerato uno stacco rispetto al passato figurarsi come può suonare la candidatura, ancora ufficiosa, di una donna, africana e musulmana.
Nawal el-Moutawakel ha già cambiato la storia nel 1984, la sua e quelle di tante altre donne che fino a quell’oro nei 400 ostacoli non si sarebbero mai sognate di poter gareggiare. Vincere era verbo proibito, privilegio dei maschi e pure Nawal, protagonista di quei Giochi, non era partita con l’appoggio del Marocco: il Paese si vergognava di lei fino a quando l’ha vista sul gradino più alto del podio. Il re Hassan II le ha telefonato dopo la premiazione: «Per festeggiarti, tutte le bambine nate oggi si chiameranno come te». Da cattivo esempio a icona, dimensione che non ha mai lasciato e che oggi rinnova con l’azzardo più spericolato: «Capo del Cio? Perché no. È ora che le donne facciano questo passo, il futuro dello sport è femmina. Guardate Londra, uguaglianza in tutte le discipline, compresa la boxe, squadre a maggioranza femminile e sto parlando degli Usa e della Germania».
I contendenti non sono ancora usciti allo scoperto, altra regola del Cio, tanto attento al protocollo: non si delegittima un presidente in carica con una campagna elettorale quindi i nomi si sapranno solo a giugno, con il voto a inizio settembre, ma è chiaro che le manovre sono partite e visto che Nawal, membro del comitato internazionale dal 1998 e vicepresidente dal 2012, sa benissimo come comportarsi ha fatto la sua mossa. Ha parlato dal Brasile, coordina la commissione che vigila su Rio 2016 (ha avuto una carica simile anche per l’edizione 2012) e proprio nella sede delle Olimpiadi che saranno gestite dal prossimo presidente ha lanciato la sfida: «So che i candidati sono molti e che c’è ancora tanto tempo per decidere, ma mi sento portavoce di un movimento». Non parla solo delle donne, la lobby che la sostiene cresce e anche se Rogge non si può schierare, ha sempre promosso il lavoro di el-Moutawakel.
Se decidesse di correre davvero per il posto non sarebbe di certo la favorita. Davanti a lei tre uomini perfettamente in linea con il passato. Il più forte è il braccio destro di Rogge, Thomas Bach, tedesco, oro nella scherma a Montreal 1976, ha 60 anni, è il giurista del Cio e ha presieduto quasi tutte le commissioni a tema doping puntando sulla linea dura. Il fronte antibari funziona, negli ultimi Giochi alcuni positivi (tra cui l’italiano Alex Schwazer) non sono neanche arrivati in Inghilterra e certi, anche medagliati, sono stati sospesi a tempo record. Il secondo uomo pronto a subentrare si chiama Richard Carrion, 60 anni. È a capo del Banco Popular, la banca più importante di Puerto Rico ed è l’economista del gruppo, in pratica il tesoriere, gestisce il fondo Cio e firma i contratti: è lui che ha strappato alla Nbc 4,38 miliardi di dollari. L’emittente resta broadcaster e il comitato si arricchisce. Terzo in graduatoria, Ng Ser Miang, 63 anni, leader dell’Asia in costante crescita nelle geopolitica sportiva. Appena fuori dal cerchio dei più quotati, ha ottimi appoggi e ha avuto successo con il progetto delle Olimpiadi giovanili che ha fortemente voluto, tanto che la prima edizione è andata a Singapore, casa sua. In coda alla triade ci sono almeno altri tre uomini che ambirebbero a farsi avanti e poi c’è lei, la donna che può stravolgere questo strano e potente universo.
Da quando si è ritirata dall’atletica è passata alla politica, da ministro dello sport del Marocco, nel 1993, si è inventata una 10 km rosa: «Courir pour le plaisir». Non esisteva nulla di simile e adesso, ogni anno, a Casablanca, 30 mila ragazze corrono davanti a mariti, padri e fratelli che fanno il tifo per strada, non poco per una nazione a maggioranza musulmana. Lei crede nella diplomazia, la scuola Cio le ha insegnato a muoversi con astuzia e raffinata calma, ma lo sa bene che il solo ammettere l’interesse per la presidenza fa rumore. Ha i pronostici contro e anche una lista di predecessori che non le somigliano per niente. Dovrebbe prendere il posto che fu del barone Pierre de Coubertin, l’inventore dei Giochi moderni e anche il convinto sostenitore delle Olimpiadi al maschile: «Vedere una donna qui sarebbe inappropriato» e si riferiva alle gare non alle poltrone. Molti dei votanti la pensano ancora come lui, ma Nawal ha saltato ben altri ostacoli.

Corriere 14.1.13
Lincoln e Darwin, due rivoluzioni
Nati lo stesso giorno, contribuirono a plasmare il clima morale della modernità
di Livia Manera

C'era una volta un'America in cui per sedurre, imporsi e guadagnare consensi alla più impervia delle cause — una causa capace di spaccare il Paese, precipitandolo nell'abisso della guerra civile tra Nord e Sud — un presidente aveva quasi soltanto la parola. Ma che parola. A quasi centocinquant'anni dalla morte di Abraham Lincoln, alcuni passaggi dei suoi discorsi più significativi, primo tra tutti quello per i caduti della battaglia di Gettysburg del 1863, continuano ad avere per gli americani la familiarità che le parole «Nel mezzo del cammin di nostra vita…» hanno per noi italiani. Ma Lincoln, l'avvocato autodidatta figlio di contadini del Kentucky che riuscì ad abolire la schiavitù e pagò con la sua vita, non era soltanto un leader capace di appropriarsi delle parole di Amleto per arricchire la propria oratoria.
Era un politico spregiudicato, che sapeva tradurre il proprio amore per la letteratura nel più efficace degli strumenti per parlare alla coscienza di una nazione e al cuore dei suoi singoli individui. Così, almeno, lo ha interpretato Tony Kushner, il più geniale degli sceneggiatori americani, in Lincoln, il film diretto da Steven Spielberg in uscita a breve in Italia. E così, come un intellettuale d'azione a un tempo spietato e moralmente ineccepibile, lo descrive Adam Gopnik nel Sogno di una vita (Guanda), un libro che mette insieme due saggi scritti per il «New Yorker», uno su Lincoln e uno sul padre dell'evoluzionismo Charles Darwin: due straordinari protagonisti del XIX secolo, uniti dalla data di nascita condivisa, 12 febbraio 1809.
Concentriamoci dunque su Lincoln. Se quello tratteggiato da Gopnik si presenta come un'inquieta figura a metà tra lo statista e l'uomo di legge, quello di Tony Kushner, autore di questa sceneggiatura candidata all'Oscar e giocata sulle infinite sfumature e stratificazioni di un dibattito politico serrato, è un'interpretazione del più amato e più enigmatico dei presidenti americani, che lascia ampio spazio di discussione agli storici. Il solo fatto che la questione della schiavitù sia al centro della storia raccontata dal film testimonia il rifiuto da parte di Kushner di sposare le tendenze revisioniste secondo cui sarebbero stati altri fattori — come il contrasto tra il capitalismo industriale del Nord e l'economia agricola del Sud o il divario tra le rispettive culture — le vere cause della guerra civile.
Dal canto suo Gopnik, che nel suo libro si concentra sulla «lingua» di Lincoln — la lingua della giurisprudenza in cui individua «il cuore e lo spirito della sua vita» —, arriva a sostenere che nel caso di quest'uomo eccezionalmente motivato e appassionato nel perseguire il progresso della democrazia, «la retorica e la scrittura hanno avuto un peso altrettanto essenziale delle azioni, gli ordini e le elezioni». Secondo Gopnik, per un raffinato e inflessibile uomo di legge come Lincoln, la ribellione degli Stati del Sud che diede il via alla guerra di Secessione, nel 1861, «non era soltanto sbagliata, ma illegale». E dunque, se possibile, ancora più grave: una questione capitale, di alto tradimento.
Dicono che Kushner abbia consegnato a Spielberg un malloppo di cinquecento pagine: la vita di Lincoln dalla nascita nel 1809, in una casa dal pavimento di terra battuta, alla morte per mano di un oppositore all'abolizione della schiavitù, nell'aprile del 1865. E che Spielberg abbia sforbiciato più di quattrocento di quelle pagine per raccontare qualcosa di più della vita di un grande uomo: un'epoca in cui la democrazia era l'idea controversa di una frangia di radicali, con un futuro assai incerto e legato a un'impresa spericolata come affermare la parità di diritti tra neri e bianchi.
Il risultato è il racconto delle prime cinque settimane del 1865, che separano Lincoln dall'approvazione del Tredicesimo Emendamento alla Costituzione americana, quello che assicurerebbe per sempre l'abolizione della schiavitù, a condizione che la guerra civile non finisca prima. Un political thriller, dunque: che ripercorre la corsa contro il tempo di Lincoln per raccogliere i voti bipartisan di oltre due terzi dei membri di un Congresso diviso ed esasperato dalla guerra, prima che la sconfitta dei confederati riporti all'ovile gli Stati del Sud. Con i loro rappresentanti, infatti, il Congresso non avallerebbe mai l'abolizione definitiva della schiavitù che Lincoln aveva già avviato con il «Proclama di emancipazione», emanato il 22 settembre 1862 ed entrato in vigore il 1° gennaio 1863. In sostanza, il dilemma che si trova ad affrontare il presidente è se accelerare la fine di una guerra che ha già causato infinite sofferenze e seicentomila morti, o prolungarne il corso per metter fine a un'ingiustizia sociale che rappresenta un ostacolo insormontabile al cammino della democrazia.
Tra il Lincoln nazionalista a sangue freddo descritto dal grande critico letterario Edmund Wilson nel suo classico testo Patriotic Gore (1962) e il genio del compromesso del libro Team of Rivals (2005) della storica Doris Kearns Goodwin (a cui si è ispirato Kushner), che disegna la figura di un presidente malinconico, incupito anche dalla perdita di due figli che ha precipitato la moglie nella depressione, il Lincoln di Spielberg è un uomo dal viso scolpito nel legno e dall'indole solitaria, che porta sulle spalle un senso di responsabilità come un macigno e assiste ai dibattiti politici con l'aria assente di chi resta rinchiuso in se stesso, quando in verità è il più astuto degli ascoltatori.
Le sue risposte spiazzano gli interlocutori, o perché sono vaghe e raccontano storielle senza senso, o perché gelidamente motivate, precise e senza assoluzione. Ma il film ci restituisce anche la figura di un presidente pronto a qualunque cosa, quasi pure alla corruzione, per guadagnare i voti necessari a cambiare la storia americana. E in questo senso si presta a essere letto come un messaggio al presidente Barack Obama, che dice che i bei discorsi non bastano e, quando la posta è alta, bisogna sapersi sporcare le mani.
Adam Gopnik invece è contrario all'idea di un Lincoln genio del compromesso come quello descritto da Doris Kearns Goodwin in Team of Rivals. Al contrario, nel Sogno di un uomo quest'uomo misterioso è presentato come un idealista intransigente, che lascia il compromesso ai presidenti che lo hanno preceduto e che non sono stati capaci di risolvere una questione primaria per il progresso della democrazia come l'abolizione della schiavitù.
Come ha ribadito Gopnik in questi giorni sul «New Yorker», partecipando al dibattito degli storici: «Era un uomo che non cedeva di un millimetro, disposto a tutto, anche a sponsorizzare una violenza inimmaginabile; il fatto che abbia pagato il prezzo più alto per i nobili principi morali in cui credeva è una delle cose che rendono la sua storia ancora oggi così eccezionale».