martedì 15 gennaio 2013

Repubblica 14.1.13
La parola di Gesù sul lettino di Freud
In una nuova edizione le originali tesi dell’analista Françoise Dolto
di Massimo Recalcati


Alla fine della mia lettura de I Vangeli alla luce della psicoanalisi di Françoise Dolto, ripubblicato dopo circa trent’anni da una nuova piccola casa editrice milanese et al./edizioni, ho pensato: “ecco un gioiello!”. A suscitare il mio entusiasmo diverse ragioni. La prima è la sua autrice: Françoise Dolto. Amica e allieva di Jacques Lacan, originalissima psicoanalista con una propensione particolare alla cura dei bambini, profondamente interessata ai processi di umanizzazione della vita e agli snodi principali dello sviluppo psicologico del soggetto (infanzia e adolescenza), sino alle angosce e alle responsabilità che investono i genitori, ma anche attenta alle trasformazioni della vita collettiva e ai virtuosismi del desiderio e alla sua declinazione femminile, Dolto non si è mai rifugiata in un linguaggio esoterico o specialistico, ma ha sempre cercato di rendere trasmissibile il proprio pensiero. La sua originalità nel mondo della psicoanalisi è consistita anche dal fatto che non ha mai nascosto la sua fede cristiana e la sua militanza cattolica. Fatto raro per uno psicoanalista che si rifaceva all’insegnamento di Freud, seppur ripreso da Lacan. Per il padre della psicoanalisi, infatti, l’uomo religioso è abbagliato da una illusione narcisistica. A partire da Freud – forse con la sola eccezione significativa di Lacan – la tradizione psicoanalitica ha sostenuto compattamente l’idea della religione come “nevrosi” o, addirittura, come “delirio dell’umanità”. L’uomo religioso è l’uomo che rifiuta la responsabilità di affrontare le asprezze reali della vita per rifugiarsi nella credenza illusoria di un “mondo dietro il mondo” – come direbbe Nietzsche – , regredendo allo stato di un bambino che trasferisce su Dio tutti quei tratti di infallibilità e di perfezione che prima attribuiva al proprio padre. Rispetto a questo schema Dolto rappresenta una importante alternativa.
È questa la seconda ragione del mio entusiasmo di lettore. Dolto non entra mai nel merito di una difesa di ufficio della religione contro la psicoanalisi. Ella pensa e ragiona da psicoanalista interessata non tanto al fenomeno dell’uomo religioso o della credenza religiosa – interesse che ha invece calamitato il pensiero di Freud – , ma alla lettura diretta dei Vangeli. Il suo discorso vira così da una psicoanalisi del sentimento religioso in generale alla parola di Gesù. La lettura dei Vangeli viene descritta come “un’onda d’urto” che mette a soqquadro la nostra rappresentazione ordinaria della realtà. Dolto mette con decisione l’accento su Gesù come maestro del desiderio: «Gesù insegna il desiderio e trascina verso di esso», verso quella che Dolto definisce provocatoriamente «una nuova economia dell’egoismo». Cosa significa? Gesù ci insegna a non avere paura di accogliere la forza e la trascendenza del desiderio che ci abita e che spinge la vita umana al di là del campo animale del soddisfacimento dei bisogni. L’egoista non è chi segue con fedeltà la chiamata del suo desiderio, ma colui che pretende che gli altri si uniformino al suo. Chi invece segue con decisione la chiamata del proprio desiderio, come fa, al limite della truffa, il fattore disonesto raccontato in una parabola dall’evangelista Luca, non è un egoista in senso dispregiativo, ma qualcuno che sa rendere la sua vita generativa. Per questo Dolto vede nel completamento cristiano della Legge ebraica una sovversione radicale del rapporto tra Legge e desiderio. La forma più alta e liberatoria della Legge non entra in conflitto repressivo col desiderio perché coincide in realtà con il desiderio stesso.
In questo senso Gesù insegna il desiderio, insegna a non rinunciare al proprio desiderio. Com’è liberatoria questa versione della parola di Gesù rispetto alla sua riduzione ad un ammonimento morale! Ecco allora l’ultima ragione – quella decisiva – per la quale la lettura di questo librogioiello mi ha entusiasmato. È il modo in cui Dolto ribalta le interpretazioni più canoniche delle parabole applicando l’arte dell’analista alla parola stessa di Gesù. Prendiamo come esempio quella nota a tutti del buon samaritano. L’interpretazione catechistica la riduce al fatto che tutti noi dovremmo dedicare del tempo a chi giace inerme e ferito sulla nostra strada, al nostro prossimo più sfortunato. Dolto invece identifica il prossimo non con lo sventurato che chiede aiuto, ma con chi offre in modo disinteressato il suo aiuto. Strabiliante!
Il prossimo è il buon samaritano!
Ed è per questo, per come ci ha soccorsi e donato il suo tempo senza esigere riconoscenza alcuna, né farci sentire in debito, che occorre amarlo, amare il samaritano come nostro prossimo. Per questa ragione l’amore cristiano non ha nulla di consolatorio, non è un rifugio illusorio, non è una negazione del carattere spigoloso del reale. L’amore in Gesù è – come avviene nell’incontro con il buon samaritano – una forza che ci scuote e che porta con sé la necessità dello strappo e della separazione. Nella celebre parabola del figliol prodigo tra i due fratelli il peccato più grande – il solo che conta – l’ha compiuto chi si aspettava che l’eredità fosse semplicemente una questione di clonazione, di fedeltà passiva al passato. Il figlio che resta accanto al padre è il figlio nel peccato perché non accetta la Legge del desiderio che è la Legge della separazione. Gesù è l’incarnazione pura di questa forza separatrice («Non sono venuto a portare la pace ma la spada!»). Molte delle parabole commentate da Dolto mettono il dito nella piaga mostrando il rischio che il legame familiare scivoli verso un legame incestuoso che impedisce lo sviluppo pieno della vita. È questo il caso dei racconti delle resurrezioni, come quella del figlio della vedova di Nain, della figlia di Giairo o dello stesso Lazzaro. La parola di Gesù risveglia dalla morte perché strappa la vita da legami mortiferi che non la fanno accedere alla potenza generativa del desiderio. “Vieni fuori!” – il grido che Gesù rivolge a Lazzaro – deve essere preso come un nuovo imperativo categorico che consegna la vita umana alla Legge del desiderio. “Vieni fuori!” significa: non stare nel riposo incestuoso, non evitare il rischio della perdita, non delegare il tuo desiderio a quello dell’Altro, non smarrire la tua più singolare vocazione!
È questo il volto di Gesù ritratto da Dolto che ribalta un altro luogo comune che vorrebbe liquidare la verità del cristianesimo come un evitamento dell’incontro col reale (la morte, il sesso, la malattia, l’angoscia, ecc). La lettura di Dolto rovescia anche questo pregiudizio mostrando come il reale scaturisca proprio dall’incontro con la parola di Gesù perché questa parola spinge ciascuno di noi ad assumere la Legge del proprio desiderio. Gesù non vuole proteggere la vita dalle ustioni del reale, non si offre come riparo consolatorio, né tantomeno pretende di guidare le nostre vite. Egli è l’incarnazione della Legge del desiderio; non ci guida, ma ci attrae a sé.
È causa del desiderio e non emissario di una Legge sadica che opprime il desiderio.

l’Unità 15.1.13
Intervista a Massimo D’Alema
«Il Prof rinunci all’antipolitica o rischia di favorire la destra»
I rapporti di forza vanno ormai visti in un’ottica europea
Solo in Italia esiste ancora una prevenzione verso la sinistra
di Peppino Caldarola

Pubblichiamo il “capitolo aggiuntivo” di «Controcorrente», il libro-intervista di Peppino Caldarola a Massimo D’Alema. «L’Italia ha bisogno di una fase nuova dopo il governo Monti. Senza chiarezza il centro rischia di favorire la destra».

«La politica dei conservatori europei è spregiudicata. Nel Ppe c’è anche l’ungherese Orban»
«Vendola? Quando ha fatto comodo è stato usato contro di noi, ora lo demonizzano...»

Oggi a Roma, ai Musei capitolini in Campidoglio, presenteremo un libro, “Controcorrente”, edito da Laterza, in cui affronti la politica italiana degli ultimi trent’anni, discuti sul rischio dell’antipolitica e sul futuro della sinistra. Il libro si chiude a ridosso dello scioglimento delle Camere. Monti allora era indeciso se restare super partes o salire-scendere in politica. Poi ha scelto. Questo passaggio è il capitolo mancante del libro e sarà l’ultimo capitolo della prossima edizione. “L’Unità” gentilmente ci ospita facendoci riprendere la nostra chiacchierata. Allora partiamo proprio dall’ultimo Monti.

«Abbiamo scritto un libro di politica e sulla politica a ferro ancora caldo. Non abbiamo preteso di scrivere la Divina commedia, quindi siamo nelle condizioni di proseguire il ragionamento per cercare di interpretare il cambiamento di scenario e in particolare per valutare la più grande novità: il venire in campo di un Terzo polo che ha un’ambizione che non ha mai avuto, quella di ridisegnare lo scenario politico italiano. Non so se l’obiettivo dell’operazione Monti, e delle forze che intorno a Monti si raccolgono, sia quella di creare le condizioni di un dominio centrista. Probabilmente la vera ambizione è quella di ridisegnare l’area moderata italiana in chiave europeista, con un più forte collegamento con le forze conservatrici democratiche europee, in particolare con i democristiani tedeschi, e di archiviare l’anomalia Berlusconi...»
Detto così il giudizio sull’intera operazione è positivo...
«È un’aspirazione positiva, ma c’è in Italia lo spazio per una grande forza maggioritaria democratica europeista che prescinda dalla sinistra? Nel passato è accaduto, ma nelle condizioni della guerra fredda. La Dc poté contenere forze, culture, passioni che, con la scomparsa di quel partito, si sono liberate da questo vincolo e si sono divise. Non a caso, le componenti riformiste e europeiste più coerenti hanno dato vita, insieme a noi, al Pd. Dall’altra parte, è venuta in campo una destra populista che ha trovato in Berlusconi e nella Lega il suo punto di riferimento. E non credo si tratti di un fenomeno transitorio. Oggi siamo di fronte a un mutamento che in qualche modo ci sfida, ma non vedo, nell’operazione Monti, l’inizio di una nuova egemonia moderata nel Paese. Penso che in qualche modo il centro, questo centro democratico europeista, sarà costretto a misurarsi con il Pd e la sinistra. Ecco perché Monti avrebbe potuto svolgere un ruolo diverso, essere punto di riferimento di un ampio arco di forze. Nel momento in cui, invece, ha scelto di diventare parte, capo di un partito, con tutto il peso dei compromessi, dei prezzi che una scelta di questo genere impone, è chiaro che il suo ruolo si ridimensiona. Dopo le elezioni ci sarà bisogno di un’opera non semplice di ricucitura».
Perché il Professore preferisce fare il capo-partito piuttosto che essere, come suggerisci nel libro, il punto di riferimento di un asse fra il centro e il centrosinistra?
«Probabilmente dietro la sua scelta c’è la convinzione che senza di lui questo Terzo polo non avrebbe assunto consistenza politica, non avrebbe avuto un peso tale da portarlo a un confronto con la sinistra. È evidente che questa operazione è concepita per condizionare il governo del Paese in un rapporto con il Partito democratico. Torniamo a un tema che ho affrontato nel libro: ci sono forze, fra quelle che hanno spinto Monti, che mantengono una riserva, una diffidenza nei confronti della sinistra. E quindi, pur dovendosi arrendere all’idea che essendo in democrazia con molta probabilità l’Italia sarà governata da noi, ritengono di dover condizionare il più possibile il processo politico in atto. Si tratta di forze espressione del mondo economico, di componenti del mondo cattolico, in particolare quelle più istituzionali, e del mondo conservatore europeo. Non credo che gli americani abbiano avuto un ruolo ed è infondato dire che questa scelta di Monti l’abbia voluta l’Europa tout court. Questa è una mistificazione».
La spinta viene dal Partito popolare europeo...
«Non c’è dubbio che i progressisti europei vedono con molto favore lo spostamento dell’asse in Italia, perché ciò inciderebbe sugli equilibri politici continentali. Non è “l’Europa per Monti”: sono i conservatori europei, in testa la signora Merkel, a dare la spinta. Preferiscono non avere un’Italia che entri nel campo progressista e scelgono di esercitare un condizionamento in senso conservatore. Oramai la battaglia politica e i rapporti di forze vanno visti in un’ottica europea. Questo i tedeschi l’hanno capito e infatti la loro politica non è provinciale. Da noi, invece, permane un elemento di provincialismo che porta a non vedere lo scenario nel suo insieme. La Merkel ha una visione europea in funzione della difesa di un’egemonia conservatrice che oggi è fortissima ed è chiaro che, in quest’ottica, Monti diventa riferimento per le forze moderate e conservatrici. D’altra parte, avevano bisogno di cambiare, di far dimenticare che fino ad appena pochi mesi fa il loro riferimento era Berlusconi. La politica dei conservatori europei è stata estremamente spregiudicata. Hanno imbarcato le forze peggiori, basti pensare che al tavolo dei moderati europei c’era l’ungherese Viktor Orban che noi definiremmo un fascista... È chiaro che oggi hanno bisogno di Monti».
Ci sono alcuni ambienti, anche interni al Pd, che sostengono che Monti c’è, e ci deve essere, perché il Pd è troppo spostato a sinistra, anche per la presenza ingombrante dicono di Vendola.
«Il Pd è una grande forza riformista europea. Il problema, come non mi stanco di ripetere, è che il nostro è un Paese in cui lo spirito conservatore e la prevenzione verso la sinistra sono particolarmente forti. È un dato italiano, in altri Paesi non è così. Non c’entra niente con l’accusa che saremmo troppo a sinistra. Trovo abbastanza intollerabile la demonizzazione di Vendola, il cui ruolo, fra l’altro, quando ha fatto comodo è stato enfatizzato contro di noi...».
Quando sembrava il vero competitor di Bersani...
«Allora Nichi andava benissimo, adesso invece è diventato il demonio. Ma così si cancella un dato politico innegabile: Vendola nasce in polemica con Rifondazione comunista, rifonda la sinistra radicale in polemica con l’estremismo. Tanto è vero che gran parte di questi partiti e partitini che erano con noi nel governo dell’Unione, oggi si riconosce nella coalizione arancione guidata da Ingroia. Si vuole imporre l’equazione Vendola uguale Bertinotti, secondo cui il centrosinistra, con Vendola, sarebbe uguale all’Unione. È una semplificazione propagandistica e falsa. Il centrosinistra è guidato dal Pd di Bersani, che oggi in Italia è l’unico grande partito saldamente al di sopra del 30% dei voti. Questa è la forza a cui spetta il compito di guidare il Paese, come è normale in una democrazia europea. Questa è la garanzia di una decisa e limpida impostazione riformista. Vendola va rispettato, ma non è lui alla testa dell’alleanza». Vogliamo dare uno sguardo alla coalizione che ha messo assieme Monti?
«Dal mio libro si capisce che ho stima di Monti e non ho cambiato opinione malgrado i motivi di dissenso che sono, ora, significativamente emersi. Tuttavia, ci sono alcuni aspetti dell’“operazione Monti” che rischiano di rendere difficile il cammino dopo le elezioni e la necessaria ricerca di una forma di collaborazione, che continuo a ritenere indispensabile, tra progressisti e moderati. Non mi piace la retorica sul fatto che destra e sinistra non esistono più. Non è vero, né in Italia né in Europa. E la pubblicità ingannevole non aiuta la chiarezza dei rapporti. Il vero problema è ricercare una convergenza nel nome dell’interesse nazionale e delle prospettive europee. La seconda questione riguarda la forte impronta antipolitica che caratterizza tutta l’“operazione Monti”. Immagino che questo crei, in realtà, non pochi problemi anche a quei gruppi politici che a Monti si sono uniti in una comprensibile ma credo sofferta – valutazione di convenienza. Ho letto, qualche giorno fa, che Monti avrebbe dichiarato di essere intento a “depurare” la presenza dei politici nelle sue liste, sulla base di una pretesa superiorità della cosiddetta società civile. Ma di quale società civile si tratta? In realtà, dietro Monti appare un robusto blocco di interessi che richiederebbe un’opera di “depurazione” non meno impegnativa. Noi abbiamo lamentato a lungo l’invadenza di Berlusconi nelle tv, ma l’invadenza di Monti nei giornali le cui proprietà figurano largamente tra gli sponsor e i sostenitori della sua lista, non è meno esorbitante. Nessuno nega a Montezemolo il diritto di fare politica, ma egli è anche il principale competitore delle Ferrovie dello Stato, e il giorno in cui un esponente del suo movimento dovesse diventare ministro dei Trasporti, si porrebbe più di qualche problema. Insomma, ci sarà pure una ragione per la quale normalmente nei Paesi democratici ci sono i partiti, proprio per rappresentare un filtro tra gli interessi particolari e l’interesse generale dello Stato. Quando la classe dirigente economica si fa partito, fenomeno che nel caso di Berlusconi è stato clamoroso, per quanto lo possa fare nel modo più anglosassone possibile, e sotto il controllo vigile del dottor Bondi, a pagare il prezzo è la trasparenza del potere. Meglio i partiti, quelli veri».
Stiamo parlando di Monti, mentre irrompe ancora una volta sulla scena mediatica, con un certo successo, Berlusconi...
«La battaglia per il governo è tra noi e Berlusconi. Credo che vinceremo noi, ma il patto di potere con la Lega consente a Berlusconi di tornare in primo piano. Purtroppo, l’obiettivo del Terzo polo sembra essere quello di impedire al centrosinistra di avere la maggioranza al Senato. Guardiamo a quanto accade in Lombardia, dove, grazie al Terzo polo, si rischia di regalare a Berlusconi 27 senatori e di lasciare quella Regione, insieme a Piemonte e Veneto, nelle mani della Lega. Parliamo di un partito che rappresenta poco più del 5% e che si troverebbe a governare, su una linea di tipo secessionistico, la parte più moderna e più ricca del Paese. Domando: può una simile prospettiva essere irrilevante per chi ha una visione europea democratica?».
Il rapporto con Monti dipende anche dal tipo di campagna elettorale che il premier e i centristi faranno.
«Non c’è dubbio. Noi vogliamo una coalizione forte nel Paese, che sia rappresentativa di un largo blocco di forze sociali, quindi dobbiamo costruire un accordo di governo. Sarebbe bene che questo se lo ricordassero tutti, anche nel nostro campo. Non è bene spingere oltre un certo limite la contesa politica, culturale, programmatica. Vorrei dare un consiglio di saggezza a tutti. La cosa più conveniente per l’Italia è che si governi insieme, progressisti e moderati. Questo è il tono che Bersani ha dato alla sua campagna elettorale. Naturalmente, è necessaria una forte nostra caratterizzazione: è evidente che l’Italia ha bisogno di una fase nuova rispetto al governo Monti, che proietti il Paese oltre l’emergenza, che metta al centro i temi del lavoro, della crescita, della riduzione delle diseguaglianze sociali, della lotta alla povertà. C’è un’agenda del centrosinistra per l’Italia e per l’Europa e con questa ci si dovrà misurare».

l’Unità 15.1.13
Bersani: con Monti patto per ricostruire il Paese
Il leader Pd al Washington Post: «L’austerità va accompagnata da una politica di crescita»
Anche Fassina sul Financial Times rassicura: «Non rimetteremo in discussione il Fiscal compact»
di Maria Zegarelli

ROMA Messaggi rassicuranti alla Casa Bianca e ai mercati mondiali: Pier Luigi Bersani e Stefano Fassina a poco più di un mese dalle elezioni scelgono il primo il Washington Post e il secondo il Financial Time per dire che il Pd al governo sarebbe affidabile tanto quanto il professore della Bocconi che resta «interlocutore privilegiato». Assicurazioni anche sulle riforme, partire dal quelle del mercato del lavoro e delle pensioni, non farne tabula rasa ma «ritoccarle» sì.
Una scelta politica studiata a tavolino: parlare lo stesso giorno con due diverse interviste a osservatori molto attenti allo scenario politico italiano quali Barack Obama e i mercati finanziari, soprattutto ora che Silvio Berlusconi è tornato in scena e non intende avere un ruolo secondario. «I mercati non hanno nulla da temere, purché accettino la fine dei monopoli e delle posizioni dominati», spiega il leader del centrosinistra, aggiungendo che l’«austerità dei bilanci deve diventare una regola ma in combinazione a politiche di crescita. Noi confermiamo l’austerità ma va accompagnata da una intelligente politica di crescita. È una questione che le forze progressiste stanno discutendo, lo stesso Obama ha chiesto all’Europa che guardi in questa direzione». Stefano Fassina parla all’Europa e assicura: «Non rinegozieremo il fiscal compact o il pareggio di bilancio in Costituzione. Se agissimo unitaleralmente, danneggeremmo il progetto europeo. Noi vogliamo più spazio per una politica fiscale anticiclica, ma a livello europeo».
Il Pd punta a rassicurare le diplomazie internazionali ben sapendo quanto in considerazione sia tenuto il premier uscente e come una sua scesa in campo sia stata caldeggiata anche all’estero. Per questo il leader Pd spiega che in caso di vittoria del centrosinistra non ci sarà un taglio netto con le riforme Monti, «ne aggiungerei delle altre dice applicando o apportando dei correttivi alle sue riforme che, devo aggiungere, sono state condizionate da un parlamento la cui maggioranza era ancora nelle mani di Berlusconi».
Offrirebbe il Quirinale a Monti? chiede il giornalista. «Siamo aperti alla collaborazione la risposta-. Non allo scambio di favori, ma a un patto per le riforme e la ricostruzione del Paese». Il professore, che quando si reca negli studi di Porta a Porta, ospite di Vespa, ha letto l’intervista, dalla domanda sulla possibilità di un governo insieme a Vendola (e quindi al Pd) risponde: «Trovo questi temi interessanti ma prematuri». Aggiunge anche che punta a vincere, che non vuole fare la stampella di nessuno, che ascolterà Bersani e poi si vedrà. Ma al Nazareno notano il cambio dei toni, «da competitor, certo, ma rispettosi e non più aggressivi». E in politica si sa, sono le sfumature a contare.
Nella sua intervista il leader Pd parla dei primi atti che intende portare sul tavolo del governo, a partire da una legge sulla corruzione (tema a cui in Europa e negli States sono molto attenti, soprattutto per gli investimenti nel nostro Paese, ndr), a quella sui partiti fino al tema dei diritti civili dei lavoratori e delle coppie di fatto, etero e omosessuali, e alla cittadinanza per gli immigrati. «Legalità, moralità e diritti di cittadinanza sono la nostra missione», dice nel giorno in cui in Italia si torna a parlare del processo Ruby che vede coinvolto Berlusconi, delle liste con gli impresentabili attorno a cui il Pdl si sta annodando perché proprio alcuni impresentabili sono pacchi di voti sicuri e controllati in regioni come la Campania e la Sicilia. La stampa estera torna a parlarne con sgomento, preoccupazione, divertimento o sufficienza e il rischio è che la credibilità conquistata a fatica nell’ultimo anno vada di nuovo in soffitta. Non a caso l’intervistatore chiede proprio degli scontri tra Berlusconi e Monti. «Berlusconi risponde Bersani è stato il responsabile della caduta anticipata del governo Monti. E a Monti non è piaciuto neanche un po’. Noi abbiamo mantenuto la promessa di sostenere Monti fino all’ultimo, l’abbiamo mantenuta anche se non era facile. Così ora stiamo a guardare».
FRANCESCHINI-ORLANDO
Se il Pd resta a guardare lo scontro tra l’ex premier e quello uscente, tutta altra storia sul fronte elettorale. Ieri Dario Franceschini sulle pagine de l’Unità ha invitato l’ex pm Antonio Ingroia e il sindaco di Palermo Leoluca Orlando a non presentare le proprie liste al Senato in Campania, Sicilia e Lombardia per non disperdere i voti del centrosinistra rischiano di aprire un’autostrada alla destra in Parlamento. Invito arrivato dopo che in realtà nei giorni scorsi c’erano stati già diversi contatti con Rivoluzione civile, su richiesta dello stesso Bersani, affinché si evitasse di frazionare il voto in quelle Regioni dove difficilmente gli arancioni potrebbero raggiungere l’8%.
Dura la reazione di Orlando: «Franceschini mi ha contattato questa mattina a nome del Pd e mi ha proposto un accordo di desistenza, cioè mi ha chiesto di non presentare le nostre liste in regioni chiave quali la Sicilia, la Campania e la Lombardia. Credo siano molto preoccupati per la continua crescita della nostra lista Rivoluzione civile». La risposta di Franceschini non si è fatta attendere: «Nessuna proposta di patto e nessuna desistenza. Ho fatto una semplice constatazione aritmetica più che politica: per come è fatta la legge elettorale al Senato, nelle regioni in bilico, come Lombardia, Sicilia e Campania, la presenza della Lista Ingroia rischia di far vincere la destra, rendendo il Senato ingovernabile». Secco Enrico Letta: «Nessuna trattativa, nessuna ambiguità». Sul punto Nichi Vendola fa sapere: «Non tocca a me decidere. Il leader della coalizione è Bersani», ma certo aprirebbe al dialogo.

il Fatto 15.1.12
I vincoli europei
Sui conti il Pd dice la verità solo all’estero
Fassina e Bersani parlano a FT e Washington Post
di Stefano Feltri

Tranquilli, tra il Pd e Mario Monti non c’è praticamente alcuna differenza. Il Partito democratico sta dividendo le sue energie tra cercare la vittoria in Italia promettendo rivoluzioni e rassicurare il mondo sul fatto che con Pier Luigi Bersani a palazzo Chigi cambierà poco. Ieri il segretario democratico interveniva con un’intervista al Washington Post, mentre il responsabile economico del partito, Stefano Fassina rispondeva al Financial Times.
Bersani spiega che si limiterà a fare “fine tuning” delle riforme di Monti, cioè a correggere qualche minuzia. E sottolinea che l’azione di un eventuale governo di centrosinistra, a parte attutire le conseguenze sociali della riforma delle pensioni, si concentrerà sui diritti civili (unioni gay, cittadinanza agli immigrati e così via). E quando parla di “politiche per la crescita” non spiega come pensa di finanziarle.
Sul Financial Times Fassina è ancora più esplicito: “Non rinegozieremo il fiscal compact o la modifica che introduce il pareggio di bilancio in Costituzione. Se agissimo unilateralmente, danneggeremmo il progetto europeo. Vogliamo avere spazio per una politica fiscale anti-ciclica, ma a livello europeo”. Mario Monti sottoscriverebbe, parola per parola. É stata esattamente questa la politica europea e di bilancio del governo dei tecnici in questo anno. La traduzione in politica economica di quello che dice Fassina è che il Pd perseguirà il pareggio di bilancio nel 2013 e la riduzione del debito secondo i vincoli europei, cercando di mantenere un avanzo primario (entrate meno spese, prima di aggiungere gli interessi sul debito) del 5 per cento all’anno. Come rispettare questi obiettivi se la crescita resta sotto le stime e se la ripresa non arriva (la produzione industriale a novembre crolla del 7,6 per cento sul 2011)? Con una manovra correttiva?
L’unica alternativa è rinviare il rispetto dei vincoli europei o provare a rinegoziarli. Ma Fassina e Bersani stanno promettendo ai giornali anglosassoni, e agli investitori che li leggono, che non è affatto questa la loro intenzione. Fassina suggerisce la soluzione di attuare politiche anti-cicliche a livello europeo – debito pubblico comunitario, investimenti per la crescita – ma al momento non ci sono le condizioni politiche. Anzi, si sta discutendo di tagliare il bilancio per gli anni 2014-2020. E il growth pact da 120 miliardi deliberato a giugno (riprogrammazione di fondi già stanziati) non decolla. E quindi? Bersani e Fassina rimandano le risposte definitive a dopo il voto.

Corriere 15.1.13
Lo scandalo Lazio e i nomi inopportuni in lista
Sei consiglieri democratici uscenti candidati per il Parlamento
di Sergio Rizzo

ROMA — Siamo sicuri che l'esistenza di Giuseppe Rossodivita non cambierà in peggio. Il suo mestiere è quello di avvocato, ed era impegnato in politica con i radicali ben prima di finire nel consiglio regionale del Lazio. Come sanno bene i molti che lo ricordano da tempo impegnato nella battaglia per restituire decenza alle carceri. Ma la notizia che né lui, né l'altro consigliere del suo partito Rocco Berardo sono nelle liste che sosterranno il candidato di centrosinistra Nicola Zingaretti suona effettivamente come una beffa. Senza l'iniziativa dei due radicali, che la scorsa estate hanno rivelato con la pubblicazione sul loro sito le dimensioni abnormi dei finanziamenti di gruppi consiliari della Regione Lazio, lo scandalo che ha poi travolto Franco Fiorito e Vincenzo Maruccio difficilmente sarebbe esploso con tanto fragore. Di più. Sarebbe continuato anche lo stesso andazzo in tutte le Regioni italiane, senza controlli della Corte dei conti e senza l'obbligo di dare trasparenza ai bilanci dei gruppi politici.
Beffa doppia, considerando che una bella fetta di quel consiglio regionale ha trovato posto sulle scialuppe di salvataggio predisposte dai partiti. Se la governatrice Renata Polverini resta fiduciosa circa la prospettiva di una candidatura in Parlamento nel centrodestra e il consigliere Francesco Storace ha pescato il jolly della candidatura a governatore, ben sei dei quattordici componenti del gruppo consiliare del partito democratico che ha partecipato con gli altri alla spartizione dei fondi sono già stati imbarcati con destinazione Montecitorio o palazzo Madama. A cominciare da Bruno Astorre, l'ex presidente del consiglio regionale che faceva parte dell'ufficio di presidenza nel quale si deliberavano gli stanziamenti sui quali è in corso una inchiesta della Corte dei conti. Mentre va ricordato che l'intero ufficio è sotto indagine da parte della magistratura per una proroga, ritenuta illegittima, dell'incarico dell'ex segretario generale. Astorre sarà candidato al Senato. Insieme ad altri quattro consiglieri democratici: Carlo Lucherini, Claudio Moscardelli, Daniela Valentini e Francesco Scalia. Non Marco Di Stefano, per il quale si è aperta invece la strada di Montecitorio. Un altro dei consiglieri del Pd più in vista, Claudio Mancini, ex assessore, è rimasto invece appiedato. Si consolerà con l'elezione della moglie Fabrizia Giuliani in Lombardia.
E il capogruppo Esterino Montino, il quale giustificò ad Alessandro Capponi una fattura di 4.500 euro spesi in una famosa enoteca, dicendo che si trattava dei doni natalizi per i bimbi delle famiglie disagiate? Escluso dalle liste per il consiglio regionale, dove fece la sua prima apparizione nel 1975, e dal Parlamento (anche lì era già stato), proverà il brivido di fare il sindaco. Il Pd lo candida a Fiumicino. Mentre sua moglie Monica Cirinnà andrà con ogni probabilità a Montecitorio.
Non ignoriamo i meccanismi della nostra politica. È chiaro che se Zingaretti avesse fatto posto ai radicali che hanno dato fuoco alle polveri, avrebbe dovuto fare qualche concessione anche agli esclusi del suo partito. Né, pur volendo, avrebbe potuto impedire che si aprissero per loro, come si sono aperti, tutti quei paracadute.
Ma resta il dubbio, anche a causa di questa vicenda, sulla portata del rinnovamento in casa democratica: dove anche le primarie (il sistema che ha consentito per esempio ad Astorre di rientrare in gioco al Senato) hanno fatto vittime illustri. Un nome per tutti, quello di Salvatore Vassallo, che si era battuto perché andasse in porto la legge che dopo 65 anni avrebbe definito finalmente la forma giuridica dei partiti. Battaglia ovviamente persa. E vittime si sono contate anche fra coloro che grazie alle tanto criticate deroghe per quanti hanno fatto più di tre legislature complete per 15 anni di mandato, avrebbero dovuto essere «recuperati». Regola che ha determinato situazioni curiose. Per esempio quella di Mauro Agostini, cui Walter Veltroni aveva affidato i cordoni della borsa del Pd ed era stato il primo a far cadere il tabù dei controlli «esterni» sui bilanci dei partiti. Quando era tesoriere affidò la verifica dei conti del Pd a una società di certificazione: adesso quello è per tutti un sacrosanto obbligo di legge. Avendo già fatto quattro legislature, per 17 anni di mandato, doveva essere teoricamente escluso. Ma aveva ottenuto una deroga, che però non gli è servita perché è rimasto fuori dalle liste. Non ha fatto le primarie e nessuno l'ha chiamato. Contrariamente al suo predecessore Ugo Sposetti, che ha alle spalle lo stesso numero di legislature ma con 14 anni di mandato anziché 17.

qui
http://www.scribd.com/doc/120434342/Corriere-15-1-13-Lo-scandalo-Lazio-e-i-nomi-inopportuni-in-lista

il Fatto 15.1.13
Per il Senato il Pd ci prova con Ingroia: “Desisti”
La richiesta di rinunciare a presentarsi in Sicilia, Campania e Lombardia
L’ex Pm: “Non mi hanno chiamato, è prematuro”
di Caterina Perniconi

È mattina presto quando suona il telefono di Leoluca Orlando. Dall’altra parte della cornetta c’è Dario Franceschini. “Hai letto la mia intervista all’Unità?” chiede l’esponente del Pd al sindaco di Palermo. Non ce n’è bisogno. Orlando sa già che la richiesta del “pontiere” non è quella di un dialogo in vista di un accordo elettorale o post elettorale con Rivoluzione Civile, come auspicato da Antonio Ingroia nella sua lettera a Pier Luigi Bersani. Bensì un patto di desistenza nelle Regioni chiave in cui il Pd rischia di “pareggiare” al Senato.
“CON QUESTA legge ci sono territori determinanti in cui si gioca la possibilità di avere la maggioranza. Per questo continuo a sperare che Ingroia e Orlando rinuncino a presentare la loro lista almeno in Campania, Sicilia e Lombardia” ha detto Franceschini nell’intervista. E lo ha ripetuto al telefono. Il sindaco di Palermo, dall’altro capo del filo, ha ascoltato gli auspici del democratico e poi ha avvertito i suoi compagni di avventura: “Hanno paura di non farcela, noi ora siamo più forti”. A questo punto la partita si è spostata dalla strategia alla politica. Come dimostra la risposta di Antonio Ingroia: “Non ho ricevuto nessuna richiesta dal candidato premier Bersani – ha dichiarato l’ex procuratore – non mi pare ci siano presupposti, in questo momento è prematuro. Di certo i nostri avversari politici restano i montiani e Berlusconi”. Tradotto: non chiudiamo le porte, ma non ci bastano due seggi in lista nelle Regioni dove rinunciamo alle candidature. Piuttosto vogliamo fare un accordo per un futuro governo che arruoli noi al posto di Monti.
Ma questo per il Pd è troppo. Bersani e Stefano Fassina si sono spesi in campo internazionale per garantire la loro volontà di governare con il Professore. Con cui “Rivoluzione civile” è incompatibile. “Mi pare fin troppo evidente come non vi sia alcuno spazio per un accordo politico con la Lista Ingroia, anche per rispetto delle legittime ma profondamente diverse posizioni politiche tra noi e loro” ha dichiarato Franceschini, smentendo la richiesta di un patto pre elettorale. Eppure gli arancioni non sono i soli ad aver ricevuto messaggi in bottiglia dal Nazareno. Anche Oscar Giannino, leader di “Fermare il declino” ha raccontato dell’offerta di “seggi sicuri” da parte di un emissario di Bersani, salvo ricordare al Pd di essere contrario alla patrimoniale che vogliono introdurre.
LA PAURA dei democratici è quella della dispersione dei voti nelle varie liste minori e sono già partiti gli appelli al “voto utile” di veltroniana memoria. Ma prima della presentazione dei candidati c’è ancora qualche margine di trattativa. Campania e Sicilia sono le casseforti elettorali di Ingroia, dove nei sondaggi vola oltre la doppia cifra, tra l’11 e il 12 per cento. Attestandosi sul 5 per cento a livello nazionale. Voti che Bersani sperava di non perdere, anche grazie al suo “scomodo ” alleato Nichi Vendola. “Nessun negoziato con Ingroia” sentenzia il vicepresidente del Pd, Enrico Letta, su Twitter. E stasera Bersani e l’ex procuratore di Palermo non saranno seduti vicino a Ballarò. Il leader democratico ha concesso un’intervista a Floris, ma ha declinato l’invito in studio. “Preferiamo evitare quel format” dicono dal suo staff. Ma considerando che Bersani è un habituè della poltrona di cartone di Raitre, non è difficile capire che è ancora presto per definire se è meglio stare dalla stessa parte di Ingroia o da quella opposta.

Corriere 15.1.13
«Vogliono la desistenza nelle Regioni decisive»
Tensione tra Ingroia e Pd. Torna l'ipotesi di un patto come nel '96
di Dino Martirano

ROMA — Il problema del «voto utile» al Senato per la sinistra lo ha segnalato il capogruppo del Pd Dario Franceschini che, con qualche ritardo, si è rivolto direttamente ad Antonio Ingroia, leader della lista Rivoluzione civile (sostenuta da Idv, Verdi, Rifondazione, Pdci), con un invito a fare un passo indietro «almeno in Campania, Sicilia e Lombardia» per non compromettere la vittoria di Bersani e Vendola in tutte e due le Camere. Ma nel quartier generale provvisorio degli arancioni — dove si sono susseguite molte riunioni, in attesa del trasloco nella nuova sede nel quadrante di Sant'Ignazio — Ingroia e i suoi giudicano «irricevibile la proposta del Pd» soprattutto dopo il gran rifiuto di Bersani di fare entrare nella coalizione dei progressisti la nuova formazione degli ex pm. Eppure i candidati forti della lista Rivoluzione civile (Ingroia, Di Pietro, Ilaria Cucchi, Margherita Hack e, da ieri, anche il giornalista tv Sandro Ruotolo) hanno optato per la candidatura più sicura alla Camera: non tanto per fare un piacere al Pd ma perché a Montecitorio la soglia di sbarramento è al 4% e non all'8%.
«Io non ho ricevuto nessuna richiesta da Bersani in questo senso» ha detto Ingroia. Anche se poi ha aggiunto: «Il nostro avversario sono l'affermarsi dei principi del contenuti nel berlusconismo e nel montismo, parlare di patti di desistenza mi pare prematuro». Eppure era stato il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, a raccontare di aver ricevuto una telefonata importante: «Franceschini mi ha contattato a nome del Pd e mi ha proposto un accordo di desistenza, cioè mi ha chiesto di non presentare le nostre liste in regioni chiave come la Lombardia, la Sicilia e la Campania». In altre parole, Orlando ha lasciato intendere che dal Nazareno era arrivata una proposta di scambio — do ut des, magari con qualche personalità vicina agli arancioni da inserire nelle liste del Senato del Pd — molto simile al patto di desistenza stabilito nel '96 tra Prodi (Ulivo) e Bertinotti (Rifondazione comunista). Ma in quel caso c'erano i collegi del Mattarellum che resero possibile l'operazione. Oggi invece — con il Porcellum — il Pd chiede agli arancioni di rinunciare per il Senato nelle roccaforti della Campania e della Sicilia. E non è un caso che il sindaco di Napoli, l'ex pm Luigi de Magistris, anche lui tra i soci fondatori degli arancioni, abbia messo le mani avanti: «Non esiste alcuna possibilità di raggiungere un accordo di desistenza».
La lista Ingroia, dunque, deve superare l'8% nelle singole regioni se vuole far eleggere i suoi senatori. Mentre al Pd — che accredita gli arancioni sotto la soglia di sbarramento al Senato ma sopra a quella della Camera (4%) — potrebbero mancare proprio i voti di Rivoluzione civile per battere il Pdl in Lombardia, Campania e Sicilia, e dunque assicurarsi i numeri per governare. Ma a ballare, segnala il leghista Roberto Calderoli, ci sono anche Veneto, Lazio e Friuli Venezia Giulia. Ecco allora che nella sede di Rivoluzione civile si faceva un ragionamento tattico: nessun accordo politico con il Pd è possibile ma perché candidare i nomi di prima linea al Senato se poi rischiano di restare a casa? Preferibile, allora, depotenziare le liste dei senatori dirottando i big alla Camera. E nella circoscrizione Milano 1 (capolista Ingroia, seguito da una donna e Di Pietro al terzo) a causa dell'affollamento alla testa della lista è scoppiato il caso di Vittorio Agnoletto che si è sentito tagliato fuori.
Alla fine — dopo che alcuni dirigenti storici del Pd si sono incontrati con Ingroia e i suoi — Enrico Letta e Franceschini hanno smentito Orlando e la proposta di un patto di desistenza inteso come scambio. Però, ha spiegato Franceschini, il problema del voto utile rimane: «Ci sono regioni determinanti in cui si gioca la possibilità di avere la maggioranza al Senato. Quindi dobbiamo spiegare agli elettori che un voto di protesta dato a Grillo o ad altri rischia di far vincere la destra. È una questione aritmetica non di politica. Per questo continuo a sperare che Ingroia e Orlando rinuncino a presentare la loro lista almeno in Campania, Sicilia e Lombardia». In caso contrario, al Nazareno stanno già preparando una campagna anti arancioni sul voto utile.

La Stampa 15.1.13
Le questioni che il Pd non può evitare
di Bill Emmott

A distanza di oltre un mese, forse non è sorprendente che il mondo esterno, sia in Europa che negli Stati Uniti, non abbia ancora davvero iniziato a prestare molta attenzione alle elezioni in Italia. Ma a questo osservatore straniero sembra che l’attenzione del mondo finora sia stata piuttosto contraddittoria. Da un lato, una sorta d’inorridita perplessità per l’invadenza della campagna di Silvio Berlusconi, insieme con una certa preoccupazione per la posizione apparentemente debole nei sondaggi del preferito dagli stranieri, Mario Monti. Ma d’altra parte, lo spread, un indice certo dell’umore degli investitori verso l’Italia, a livelli molto benigni e rassicuranti.
Sarà fondamentale non essere troppo rilassati o rassicurati dallo spread deliziosamente basso, se rimarrà così con l’approssimarsi del voto.
L’ Italia è stata favorita da una fase mondiale di ottimismo sui mercati finanziari, spinti soprattutto da pareri positivi sulle prospettive per l’economia degli Stati Uniti e da una risoluzione del braccio di ferro sulla politica di bilancio degli Stati Uniti, ma anche dai pareri positivi sulla stabilità dell’euro-zona. Ma i mercati finanziari sono volubili. Possono cambiare umore molto rapidamente. Questo cambiamento di umore potrebbe essere provocato dagli eventi in Grecia, in Spagna o in Germania, per esempio. O anche dalle elezioni italiane.
I media stranieri sono colpevoli quanto quelli italiani nella loro ossessione per Berlusconi. I loro titoli o i loro sommari sottolineano doverosamente come lui e i suoi fallimenti nel governo in oltre otto degli ultimi dieci anni siano al centro della situazione economica e politica in Italia. Ma poi il volume della loro copertura finisce per giocare a suo favore, dandogli l’attenzione che è stato così bravo a utilizzare come strumento politico. Malgrado le molte menzogne dette durante il suo incontro televisivo con Michele Santoro, ha raggiunto il suo obiettivo: attenzione.
Tutto questo è abbastanza prevedibile. Ciò che si sta rivelando più difficile da analizzare per gli osservatori stranieri è quello che dovrebbero capire esattamente dalla lista del senatore Monti e dei suoi sostenitori politici. E cosa dovrebbero fare di Pier Luigi Bersani, che si sentono obbligati a descrivere come un «ex comunista», e che tuttavia, se lo spread è, dopo tutto, un’indicazione, essi ritengono attuerà una politica fiscale responsabile.
Non si tratta solo degli osservatori stranieri, naturalmente. Ma, ancora, l’affermazione di Corrado Passera che non si candida a causa del modo in cui le liste vengono spartite ha catturato l’attenzione internazionale, perché, come ex banchiere di rilievo internazionale è abbastanza noto, soprattutto alla City e a Wall Street. E siamo preoccupati come molti italiani di ogni vicinanza politica al Vaticano. Il senatore Monti resta molto stimato all’estero, e sicuramente molti hanno ancora grandi aspettative su di lui. Ma c’è un po’ di delusione e di preoccupazione.
Bersani, per contro, è una figura ampiamente sconosciuta a livello internazionale e questo è probabilmente un vantaggio. Sappiamo che si è speso per una cauta liberalizzazione come ministro di alto livello nel governo Prodi del 2006-08. Sappiamo anche, e si noti, che la lista del Partito Democratico rispecchia la sinistra più di quanto non facciano il centro o il blocco Renzi. Quindi c’è una certa preoccupazione.
Questa preoccupazione sarà stata certo un po’ mitigata dall’intervista rilasciata da Stefano Fassina al Financial Times del 13 gennaio. Sembrava confe r m a r e che un’amministrazione Bersani sarebbe più centrista che di sinistra, favorevole al patto fiscale europeo e intenzionata ad «aprire il mercato delle assicurazioni, delle farmacie e dei servizi legali». Questo è un programma piuttosto limitato per la liberalizzazione, che riecheggia la riforma Bersani del 2006-08, ma è almeno un inizio.
Su La Stampa, il 4 dicembre avevo posto sei domande al signor Bersani, intese ad accertare se egli comprende veramente la natura dei problemi dell’Italia. Perché pensa che la crescita economica in Italia sia stata così lenta? Come si creano posti di lavoro? Perché tanti italiani emigrano? Capisce la responsabilità della sinistra per la distruzione della meritocrazia?
Ovviamente né lui né qualcuno del suo staff ha risposto. Ma le risposte a queste domande sono fondamentali se gli italiani e il mondo esterno devono avere fiducia in un governo guidato da Bersani. Sul sito web del mio film, www.girlfriendinacoma.eu domani inizierò un conto alla rovescia fino a quando il signor Bersani risponderà, almeno ad alcune delle mie domande. Fino a quando non lo farà e fino a quando le risposte non saranno convincenti, ci sarà un’ombra sulle prospettive per il prossimo governo, un’ombra sulla fiducia internazionale per Bersani medesimo.
Non è un caso che la non-così-segreta speranza internazionale sia che il senatore Monti esca bene dal voto, tanto da imporre il suo ritorno in Palazzo Chigi dopo il 24 febbraio. Come cresce la consapevolezza dell’improbabilità che ciò accada, cresce la preoccupazione su ciò che l’onorevole Bersani pensa davvero, sa e capisce.
"Traduzione di Carla Reschia"

La Stampa 15.1.13
Consigli non richiesti a Bersani
di Massimo Gramellini

Ricominci a pettinare le bambole. Il Bersani presidenziale, in gessato e ingessato, ha perso simpatia senza guadagnare carisma. Smaltita l’emozione delle primarie, il partito strafavorito sta iniziando a rinculare nei sondaggi. Servirebbero Renzi e il pullman dell’Ulivo: qualcuno o qualcosa che parli ai cuori e alle pance. Lei, Bersani, è un politico del Novecento (lo dico a suo merito), più credibile come amministratore pubblico che come seduttore appassionato. Il suo problema è che non dà mai un titolo. Invece le campagne vivono di slogan, messaggi semplici, frasi a effetto. «L’Italia giusta», col suo sorriso ammainato accanto, ha invaso le città come un preludio di quaresima: non ne parla nessuno, nemmeno per dirne male. Le sue interviste grondano buon senso e competenza, ma non contengono una sola idea concreta facilmente afferrabile. Lei non sta dettando l’agenda di queste elezioni. Va sui giornali con argomenti di politichese - l’accordo con Monti, la desistenza con Ingroia - o espressioni vaghe («confermeremo l’austerità, accompagnandola con intelligenti politiche di crescita») che rassicurano i mercati, non le famiglie con due disoccupati in casa. Spezzi il tran tran del vincitore designato, organizzi eventi che attirino l’attenzione. Ma cosa aspetta a coccolare lo spirito anticasta degli elettori, proponendo come primo atto del nuovo governo il dimezzamento del numero dei parlamentari e dei consiglieri locali?
Se non cambia rotta vincerà comunque, ma rischia di vincere male e per poco. Peccato, perché fra quelli in gara probabilmente è il migliore.

Corriere 15.1.13
Il piano del segretario per i «ruoli chiave» 
Pronto l'accordo: D'Alema agli Esteri Vendola vice, Saccomanni all'Economia
di Maria Teresa Meli

ROMA — Per il Pd l'esito delle elezioni è ancora incerto. A Largo del Nazareno c'è chi dà per perse, almeno al momento, due regioni come il Veneto e la Sicilia e per incerte la Lombardia e la Campania. Tant'è vero che ieri il capogruppo Dario Franceschini a nome del Partito democratico ha chiesto a Leoluca Orlando di convincere Ingroia a un patto di desistenza: «La vostra lista in Sicilia, Campania e Lombardia può farci perdere la maggioranza a palazzo Madama». Il Pd, che per ottenere la desistenza dovrebbe imbarcarsi tre esponenti della Lista Ingroia (questa almeno è la richiesta di Rivoluzione civile) avrebbe voluto che fosse Vendola a condurre la mediazione, ma il governatore della Puglia ha preferito lasciare il compito al partito maggiore della coalizione di centrosinistra.
Eppure, nonostante l'incertezza del Senato continui a gravare, a Largo del Nazareno si pensa già agli assetti del futuro. La speranza è che Ingroia alla fine abbassi la testa e le pretese. E se non dovesse accadere, allora sarà l'appello al voto utile a dargli il colpo di grazia. Perciò nei corridoi della sede nazionale del Partito democratico si rincorrono già le voci dei futuri organigrammi.
Il patto siglato mesi fa tra i maggiorenti del partito è saltato dopo l'apparizione di Renzi. Ma è stato subitamente sostituito da un altro accordo che dovrebbe accontentare un po' tutti. Intanto una poltrona sembra sicura: quella della presidenza della Camera. Andrà a Dario Franceschini. Al Senato la questione è più delicata. Anna Finocchiaro è in pole position, ma quel posto potrebbe essere usato nella trattativa con i centristi. Non a caso Pier Ferdinando Casini, che ha fatto qualche pensierino su quella poltrona, ha mostrato un certo stupore quando è venuto a sapere che Finocchiaro è candidata al Senato. Raccontano però che l'esponente del Pd nutra qualche ambizione in più e accarezzi l'idea di essere la prima donna al Quirinale. Questa però è un'altra casella ancora non definita. Il primo obiettivo di Pier Luigi Bersani è quello di «cambiare il Porcellum». «Non dovremo attendere cinque anni — è il ritornello del segretario del Pd — per mettere mano alla riforma elettorale: la prossima dovrà essere una legislatura riformatrice anche sul piano istituzionale». E il Colle potrebbe essere un posto chiave per allargare lo spettro delle forze politiche con cui siglare un'intesa per abolire il Porcellum. Perciò a questo punto appare improbabile che possano andarci Mario Monti o Romano Prodi, per quanto quest'ultimo abbia più chance del primo. C'è infatti chi giura di aver sentito Silvio Berlusconi dire che potrebbe votare il suo avversario di un tempo per mettere in difficoltà il Pd nei rapporti con i centristi. O comunque un altro esponente del centrosinistra sempre per mettere in imbarazzo i Democrat.
A palazzo Chigi gli scenari futuri sono assai più semplici da prevedere. Tutti scommettono che appena Bersani varcherà quella soglia chiamerà Vasco Errani. Sarà il presidente della giunta regionale dell'Emilia-Romagna il Gianni Letta del leader del Pd. Del resto, in questi giorni Errani ha assunto già le funzioni da sottosegretario del Consiglio perché è lui che sta portando avanti tutte le trattative per conto di Bersani. Con il segretario del Partito democratico al governo bisognerà dare una guida al Pd. In questo senso regge ancora l'ipotesi di affidare questo ruolo a Fabrizio Barca. E infatti tutti hanno notato come l'Unità da qualche tempo in qua stia dando spazio al ministro per la Coesione territoriale.
A fianco di Bersani, come vice premier, ci sarà Nichi Vendola, che alla stregua di Veltroni, dovrebbe prendere i Beni culturali. Mentre per un altro esponente di Sel, l'ex segretario di Rifondazione Franco Giordano, è previsto un posto di peso nel governo. Massimo D'Alema pensa all'Europa, ma si vedrebbe bene anche alla Farnesina. Per Fabrizio Saccomanni si parla del ministero dell'Economia, mentre per Laura Puppato di quello dell'Ambiente. Dovrebbe andare al governo anche Graziano Delrio. In questo caso è più che probabile che Matteo Renzi prenda il suo posto alla presidenza dell'Anci.

Corriere
Il sostegno leale per cinque anni 1 I partiti di centrosinistra — Pd, Sel, Psi, Svp, Megafono (Lista Crocetta), Centro democratico (Tabacci e Donadi) e Moderati di Portas — si sono accordati su un patto in virtù delle Politiche, impegnandosi a sostenere lealmente il nuovo governo, in caso di vittoria, per l'intera Legislatura

Martedì 15 Gennaio, 2013CORRIERE DELLA SERA© RIPRODUZIONE RISERVATA
Il ruolo del leader e della maggioranza 2 Il patto prevede anche una chiara indicazione delle prerogative spettanti al leader della coalizione, indicato nel segretario
del Pd Pier Luigi Bersani: spetterà a lui il compito
di scegliere i ministri della futura squadra di governo. In caso di controversie si deciderà a maggioranza

La Ue, il ruolo italiano e gli impegni presi 3 Anche il ruolo dell'Italia
in Europa è uno dei punti cardini dell'accordo a cui farà fede ogni singolo partito della coalizione: è stata infatti fissata la lealtà agli impegni presi dall'Italia in sede internazionale
e il sostegno alla moneta unica e di un governo più integrato dell'eurozona

La Stampa 15.1.13
Vendola non basta più, il Pd comincia a aver paura
Il partito (ri)scopre la lezione di Berlinguer: non si governa con il 51%
di Federico Geremicca

Si va materializzando lo scenario peggiore. E i sondaggi cominciano a essere univoci, se non nelle percentuali, certamente nel cambio di rotta degli umori elettorali. Sì, il Pd tiene e resta oltre il 30%: ma nessuna delle altre rilevazioni sembra confortare il partito di Pier Luigi Bersani. Nichi Vendola continua a vedere erosi i consensi a Sel dalla lista «rivoluzionaria» di Antonio Ingroia (che comincia a consolidare la sua presenza), il Centro di Monti (e di Fini e Casini) è arrivato al 15%. E soprattutto, continua la rimonta di Silvio Berlusconi: «Dopo Santoro, la sinistra ha cominciato a preoccuparsi davvero», ha annotato con malizia il Cavaliere. E non ha detto una bugia.
Due elementi, ieri, hanno dato plasticamente la misura dei timori che cominciano a serpeggiare nel quartier generale di Pier Luigi Bersani: la richiesta rivolta ad Antonio Ingroia di non presentare liste per il Senato in Campania, Sicilia e Lombardia, e l’offerta nuovamente avanzata a Mario Monti di un patto, di un dialogo, a elezioni concluse. Massimo D’Alema, in una intervista al Tg1, è chiaro: «Spero che Monti sappia misurare i termini dello scontro politico, perchè dopo le elezioni dovremo tornare a dialogare». E Bersani, spiegando al Washington Post il rapporto che intende instaurare col Professore, non lo smentisce: «Noi siamo pronti a collaborare. Non a uno scambio di favori, ma a stringere un patto per le riforme e la ricostruzione del Paese».
Le parole di Bersani e D’Alema sono magari diverse (patto, piuttosto che dialogo) ma il segnale pare univoco: è come se il Pd andasse maturando la certezza che l’alleanza con Vendola non sarà sufficiente per ottenere una solida maggioranza al Senato e quindi governare il Paese. «E’ una legge elettorale pazzesca quella per la quale un partito che vince in 17 regioni su 20 non ha poi la maggioranza al Senato per governare», lamentava ieri Claudio Burlando, governatore Pd della Liguria. Ma intanto così è: ed è con questo scenario che occorre fare i conti.
I vertici democrats osservano da qualche giorno con preoccupazione la lieve ma continua flessione dei consensi al partito di Nichi Vendola stimato, da alcuni istituti di sondaggio, addirittura sotto il 5 per cento. Cresce, invece, «Rivoluzione civile», la lista di Antonio Ingroia che - rispetto a Sel - sta sfruttando una rendita di posizione non irrilevante: radicalismo a piene mani e una linea di sinistra-sinistra, non avendo il problema di un accordo e di un programma di governo sottoscritto col Pd e assai vincolante in camapagna elettorale. Da qui, forse, l’idea (risultata impraticabile) di chiedere a Ingroia di non presentare liste al Senato nelle regioni in bilico.
«In Campania ci abbiamo provato spiega Enzo Amendola, segretario regionale Pd - ma con De Magistris in campo c’è poco da fare. La vittoria qui è in bilico, perchè il Pdl ha sdoganato di nuovo Cosentino, candidandolo naturalmente al Senato, e l’Udc - già forte grazie a De Mita e agli ex dc - schiererà Casini come capolista: naturalmente al Senato... ». Risposta analoga (cioè: no) alla richiesta di desistenza è arrivata dalla Sicilia, altre regioni in bilico. «E’ una proposta ha spiegato Leoluca Orlando - che fa seguito ai mille rifiuti del Pd a qualunque dialogo... Se è una proposta elettorale, ritengo sia molto modesta... ».
L’aria, insomma, si è fatta improvvisamente pesante: e giunti al punto cui si è, anche correggere la rotta è diventato difficile per il Pd. «Non mi sorprende che Ingroia possa sottrarre qualche consenso a Vendola - spiega Rosy Bindi -. Ma non è che noi adesso si possa abbandonare la linea del dialogo con Monti per cercare di fare il pieno a sinistra. Io credo che occorra chiarirsi con Monti sulle prospettive del dopo-voto e andare avanti così».
C’è un’altra ragione, infine, per la quale il Pdnon ritiene possibile interrompere il filo del dialogo con Monti: com’è pensabile governare l’Italia in crisi avendo all’opposizione i populismi di Berlusconi e della Lega, i radicalismi della sinistra-sinistra e anche la moderazione e le competenze del centro di Monti? «Non si governa il Paese con il 51% dei voti», disse a metà degli anni ‘70 Enrico Berlinguer di fronte ad un’Italia spaccata a metà tra Dc e Pci. Una lezione che Pier Luigi Bersani, evidentemente, non ha dimenticato...

l’Unità 15.1.13
«Antifascismo, Grillo attacca la Costituzione»
«Grillo dica se riconosce l’antifascismo»
Carlo Smuraglia, il presidente dell’Anpi:
«In questo Paese spesso si tenta di negare il fascismo come esperienza terribile Purtroppo il comico è in buona compagnia»
di Toni Jop

«I casi sono due: o Grillo non coglie che antifascismo e democrazia sono la stessa cosa, oppure vuole solo guadagnare voti e quindi la sua scelta non è commendevole»: Carlo Smuraglia sue queste parole -, presidente nazionale dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, è uno dei più tenaci pontieri che stanno cercando di traghettare nel prossimo futuro un Paese dalle mille anime ma solidale attorno ad alcuni principi fondanti per tutti. E l’antifascismo è, per diritto costituzionale tra l’altro, uno di questi principi. Il fatto è che il leader dei 5 Stelle si è in questi giorni meritato l’attenzione allarmata dei democratici italiani, e non solo, per un paio di scivoloni sventurati. Di cui il secondo «allestito» per sdrammatizzare il primo. In un video registrato davanti al Viminale, si vede e si sente Grillo argomentare con i ragazzi di Casa Pound. Qualcuno gli chiede se sia antifascista e lui risponde, pensandoci, «Non mi compete». E poi, offre ospitalità a quei ragazzi nel suo movimento, ché tanto afferma si fa fatica a distinguerli dai Cinque Stelle. Il giorno dopo, sempre Grillo, assediato dalla rabbia di molti dei suoi, tenta di correggere il tiro; precisa di non essere fascista e di non avere simpatie per il fascismo, e tuttavia non cancella il rifiuto dell’ombrello antifascista. Così è andata, male.
In quel rifiuto di Grillo, alla testa di un movimento che si presenta orgogliosamente non ideologico, si può leggere una interpretazione dell’antifascismo che sembra sconfinare nell’ideologismo, da qui quella presa di distanze. Forse.
«Allora sarà il caso di mettere sotto accusa la Costituzione, la nostra democrazia, la nostra quota di libertà. Perché la Costituzione è antifascista nella sua concezione, la democrazia è figlia della liberazione dal nazi-fascismo, la libertà relativa di cui godiamo ce l’hanno conquistata gli alleati, antifascisti, e i partigiani. Non si può non cogliere come la democrazia si sovrapponga nella nostra storia all’antifascismo, collimando perfettamente. Vede, il fatto è che non si può che essere antifascisti se si amano libertà e democrazia. Non se ne esce». Converrà fare i conti con una realtà indesiderata ma incontestabile: davanti alla platea nazionale, in tempo di elezioni, il capo assoluto di un grande movimento rigetta l’ombrello dell’antifascismo... «Purtroppo sì. Sta concorrendo per entrare in Parlamento qualcuno che pensa e dice così. Qualcuno che si pone con forza al di fuori di una concezione unitaria del nostro paese, al di là delle differenze ideologiche e programmatiche, appunto».
Un problema di memoria o, di nuovo, a dispetto delle migliori intenzioni, ideologico? «In questo Paese spesso si tenta di negare il fascismo come esperienza terribile. Questo avviene anche indirettamente, per esempio nei confronti di alcune festività che sembrano di rito solo a chi non ne condivide il ruolo identitario, unificante, non ideologico. Ricordiamo di quando si disse che del 25 Aprile si poteva fare a meno? Ecco che rendere indiscutibile il 25 Aprile significa essere d’accordo che l’atrocità dell’esperienza nazi-fascista non si ripeta. Ecco allora che rifiutare di riconoscersi nell’antifascismo appare una scelta, questa sì, ideologica».
Sotto questa luce, cosa si vede del leader dei Cinque Stelle?
«Non si riesce a definirlo compiutamente. Perché alcuni suoi richiami sono corretti, condivisibili. Ma conta lo sfondo su cui si manifestano. E quello sfondo racconta altro. Per esempio, si intravvede un preoccupante rifiuto della politica al pari di un contatto problematico con la democrazia ai cui principi non sembra ispirato quando risolve a colpi d’accetta i problemi interni alla sua parte. E’ sui “fondamentali” che appare debole e proprio questi contano più di una proposta programmatica».
Dobbiamo arrenderci alla frattura? Già Berlusconi alla domanda se si sentiva antifascista aveva risposto che aveva altro a cui pensare...
«Nemmeno il governo tecnico ha pronunciato le parole che avremmo voluto sentire. Un suo ministro ha provato a cancellare il 25 Aprile per motivi, giurava, economici. Quale cultura promuove una pulsione contabile di questo tipo?» Almeno non siamo soli: non c’è molta attenzione in Europa a quel che sta accadendo in Ungheria e in altre realtà dove razzismo, totalitarismo, antisemitismo cercano di riaffiorare e ci riescono... «Due cose. Nei prossimi giorni, come
Anpi pubblicheremo un manifesto che richiama tutti i competitori elettorali alla necessità di inaugurare un nuovo Parlamento senza pregiudicati ma ricco di etica , di buona politica e saldamente ancorato all’antifascismo. Per quanto riguarda l’Europa, e le sue disattenzioni, intendiamo promuovere incontri tra antifascisti. Una Europa unita e qualificata, finalmente autorevole nel confronto con banche e finanza, non può che passare da qui».

La Stampa 15.1.13
Sondaggisti concordi: il Cavaliere recupera
Orlando: “Franceschini ci ha proposto la desistenza”. “Non è vero”
di Francesca Schianchi

Nove punti e mezzo di distacco. Per qualcun altro otto. O forse addirittura quattro e mezzo. Arrivano sondaggi freschi dopo l’ospitata di Berlusconi da Santoro. E segnalano spostamenti nelle intenzioni di voto. Lo fa quello targato Emg presentato ieri sera al Tg de La7, con rilevazioni fatte all’indomani della puntata di «Servizio pubblico»: la coalizione di Bersani, al 37,4%, perde 2,9 punti rispetto a un mese fa; quella di Berlusconi, al 27,9%, ne guadagna 2,6. Morale, come spiega Fabrizio Masia di Emg, circa 5 punti recuperati rispetto a quattro settimane fa. «Ma, attenzione, bisognerà vedere se si tratta di dati definitivi: in questa fase, solo 70 su 100 sono voti stabili, mentre gli altri 30 sono volatili», spiega.
Di certo, la mobilità delle intenzioni di voto fa ben sperare Berlusconi: da cifre fornite dal fidato istituto Euromedia Research, le percentuali sono 38,7 per Bersani e i suoi alleati e 34,2 per lui, appena quattro punti e mezzo di differenza. Forbice un po’ più ampia, ma non troppo, secondo Ipr Marketing, nelle rilevazioni fatte per il Tg3: otto punti, 36,5 contro il 28,5. «Più che una lepre, come dice Bersani, il Pd è un leprottino… L’unico che può veramente sconfiggere Berlusconi è Grillo, ma solo se torna mediaticamente in campo», valuta un altro esperto di sondaggi, Roberto Weber della Swg: «Non credo in un vero rischio rimonta, ma di certo nel rischio di un Senato bloccato». Un’ipotesi non remota, stando ai sondaggi sulle regioni più popolose sempre di Ipr per il Tg3: in Lombardia Bersani è al 35,5 e Berlusconi al 35; in Sicilia sono 34 a 33,5. Con, in entrambi i casi, Monti al 13%. In Campania, 35 a 32, con Monti al 18%.
Tra i concorrenti che possono sottrarre voti al centrosinistra c’è Monti, come sottolinea Masia, «che un mese fa ancora non era in campo con la sua lista». Ma c’è anche Rivoluzione Civile di Ingroia, data in crescita: al 4% per Ipr, al 5,2 per Emg. Tanto «pericolosa» che, ieri, si è pure scatenata una polemica sulla sua presenza. «Franceschini mi ha proposto un accordo di desistenza, cioè di non presentare le nostre liste in regioni chiave quali Sicilia, Campania e Lombardia», denuncia Leoluca Orlando. Non è vero, insorge Franceschini, «ho fatto una constatazione aritmetica più che politica: per come è fatta la legge elettorale al Senato, nelle regioni in bilico la presenza della lista Ingroia rischia di far vincere la destra». Nessuna desistenza, assicura, «nessun negoziato», come garantisce il vicesegretario Enrico Letta. «Solo – aggiunge Franceschini - la descrizione di un quadro oggettivo rispetto al quale ognuno deve assumersi le proprie responsabilità». Un oggettivo rischio di Senato ingovernabile.

La Stampa 15.1.13
“No alla sospensione del Processo Ruby”
La sentenza arriverà prima del voto
I magistrati: soggetti solo alla legge, non vincolati alle ragioni di opportunità
Lo scontro frontale con i giudici preoccupa il Pdl
di Marcello Sorgi

Anche se non esiste una regola che preveda la sospensione in campagna elettorale dei processi che riguardano candidati, non promette nulla di buono lo scontro, che s’è riaperto, tra Berlusconi e i giudici di Milano, che hanno accolto la richiesta del pm Ilda Boccassini di far proseguire le udienze sul caso Ruby, per arrivare verosimilmente a sentenza all’inizio di febbraio. Un’eventuale nuova condanna, preceduta o seguita da un analogo e altrettanto probabile pronunciamento dei magistrati che devono giudicare l’ex-premier nella vicenda delle intercettazioni di Fassino per il caso Antonveneta, rischierebbero di infiammare una campagna elettorale già molto calda nelle settimane di vigilia del voto, previsto per il 24 e 25 febbraio. Ma già ieri, a giudicare dalle reazioni di tutta la prima fila del Pdl, i berlusconiani erano pronti a scendere in campo in difesa del loro leader e accusando i giudici di voler strumentalizzare i processi in campagna elettorale.
Soprattutto la sentenza sul caso Ruby preoccupa il Cavaliere. Ieri la ragazza marocchina, minorenne all’epoca dei fatti e protagonista della stagione delle feste ad Arcore, si è presentata in aula a Milano e ha consegnato una memoria scritta. Non ci sarà, anche per decisione del Tribunale, un pubblico interrogatorio. I timori del Pdl sono legati anche all’efficacia o meno su tutto l’elettorato del partito della linea di contrapposizione frontale con la magistratura. Che una parte degli elettori di Berlusconi siano sensibili all’argomento della persecuzione giudiziaria, che il Cavaliere ripete a scopo preventivo in tutte le interviste e i talk-show, è probabile. Ma che il complesso del suo elettorato la approvi, non è detto. In particolare nel caso Ruby, in cui la difesa è fondata sull’inverosimile affermazione di Berlusconi che sarebbe intervenuto sulla Questura di Milano perchè convinto che la ragazza fosse una nipote di Mubarak, per evitare una crisi internazionale.
L’ultima volta che la linea anti-giudici del centrodestra fu messa alla prova in circostanze elettorali fu nelle amministrative del 2011, proprio a Milano. L’esito fu negativo. Anche perchè, mentre Berlusconi entrava a Palazzo di giustizia tra ali di suoi sostenitori che inneggiavano contro i magistrati, la Moratti, candidata sindaca che poi risultò sconfitta, concluse la campagna con un attacco politico-giudiziario, rivelatosi ingiustificato, contro il suo avversario Pisapia, che finì per ricavarne un vantaggio.

il Fatto 15.1.13
Femen in Vaticano
I nostri seni nudi strumenti di lotta contro l’ipocrisia
di Andrea Rosi

ELVIRE DUVELLE, attivista francese ha protestato a seno nudo domenica insieme alle Femen ucraine durante l'Angelus del Papa. Le femministe hanno attaccato l'opposizione cattolica in Francia contraria al progetto di legge di Hollande, sul matrimonio gay e l'adozione da parte delle coppie dello stesso sesso.
“Il corpo svestito non è un'arma di seduzione, ma uno strumento di lotta. È mai possibile che al giorno d'oggi, un seno non coperto, mostrato nella pubblicità di un profumo, non susciti scandalo, mentre portato nell'arena politica faccia stracciare le vesti? Il seno non è parte genitale: pertanto non capisco la differenza tra seno e torace maschile. Non vedo alcuna contraddizione tra concetto alto di femminismo e seni scoperti in Vaticano”.
Come è andata esattamente?
Quando assisti alla stretta di mano tra il Papa e il presidente di uno Stato africano che ha proposto la pena di morte per i gay, lottare in difesa dei diritti non è duro abbastanza. Non si può legittimare solo la famiglia cattolica. Stiamo parlando di un modello culturale, uno dei tanti, non l'unico! Noi, Femen, siamo anche per la famiglia omosessuale, e non escludiamo quella cattolica. Basta all'ingerenza dell'istituzioni religiose nelle decisioni degli stati laici.
A quale scuola femminista vi rifate?
Non abbiamo illustri maestri. Ci ispirano le donne che non hanno voce in capitolo, ci toccano nel cuore le prostitute, le emarginate, le donne che subiscono violenza e non si ribellano.
Prima di un Blitz avete paura?
Prima dell'incursione, al timore subentra il sentimento di fare qualcosa di giusto. Da lì nasce il coraggio. Per concludere, sia chiaro il messaggio: noi, siamo per il matrimonio omosessuale e l'adozione, lo approviamo per una questione di uguaglianza. L'omosessuale non è un malato.
(oggi sul sito ilfattoquotidiano.it   il video dell’intervista completa)

il Fatto 15.1.13
Non solo ultracattolici contro le nozze gay a Parigi
Nella partecipatissima manifestazione di domenica è emersa anche una parte della Francia profonda e silenziosa
di Giampiero Gramaglia

C’era la Vandea della Francia, cattolica, lefebvriana, lepennista. Ma c’era pure la Francia profonda: religiosa, ma non bigotta; conservatrice, ma non razzista; tradizionalista, ma non omofoba. E c’era un’inedita alleanza tra francesi e cattolici, da una parte, e immigrati e musulmani, dall’altra, perché molti di coloro che vivono la fede in modo rigido sono contro i matrimoni omosessuali e l’adozione dei bambini da parte di coppie non etero, quale che sia il loro credo .
La manifestazione di domenica a Parigi contro i matrimoni omosessuali ha visto una partecipazione massiccia - 340mila persone, secondo le forze dell’ordine, 800mila secondo gli organizzatori: forte e chiaro il no al progetto di riforma del presidente socialista François Hollande, che resta però saldo nella sua idea.
ANCHE SE ARRIVANO relativamente tardi al cosiddetto ‘matrimonio per tutti’, rispetto ad altri Paesi, come i vicini Belgio e Olanda, la Francia e i francesi vi sono però preparati dall’ormai lunga esperienza dei Pacs, le unioni che non sono matrimoni, ma che quasi li valgono, fra coppie sia etero che omosessuali. Milioni di francesi ci sono passati e hanno contaminato, con il loro esempio e l’impatto positivo di quella formula all’inizio molto contrastata, una società di per sé non incline all’ipocrisia sessuale.
Secondo un recente sondaggio, il 63% dei francesi è favorevole al matrimonio aperto a tutti e il 56% al diritto di adozione e filiazione per gli omosessuali. E, in Francia, sarebbero 20.000 i bambini che vivono già con genitori dello stesso sesso: tanti, ma una percentuale minima della popolazione minorile francese. Gli under 15 sono Oltralpe un po’ meno di 12 milioni: 20 mila bambini ne rappresentano il 2 per mille circa, lo 0,2 per cento.
Intendiamoci. Come scrive sull’Ansa Tullio Giannotti, con la manifestazione di domenica la fetta di Francia, quasi la metà, che dice no alle nozze e all'adozione di bambini da parte di coppie dello stesso sesso ha vinto una sua battaglia, portando a protestare senza incidenti una marea di persone. Ma ‘manifestazione per tutti’, un titolo che faceva il verso a ‘matrimonio per tutti’, non è riuscita, nonostante il successo, a bloccare la legge. L'Eliseo ha riconosciuto la “consistenza” della protesta, ma ha ribadito che dal 29 gennaio il Parlamento discuterà la legge.
E, IN QUESTO CLIMA, ha avuto un’eco tutta particolare l’outing in diretta televisiva, domenica sera, dell’attrice americana Jodie Foster, che, ritirando il Golden Globe, a Los Angeles, ha dedicato il premio alla sua ex compagna di vent'anni, Cydney Bernard, e ai loro due figli, presenti in sala. La Francia seguiva già l’evento con un’attenzione speciale, perché il premio per il miglior film non americano è andato ad Amour, storia intensa e delicata su un altro aspetto controverso e doloroso dei diritti civili, quello a scegliere per sé e per i propri cari una fine dignitosa. La Chiesa e le parrocchie, la destra e l'estrema destra, i cattolici e gli integralisti, cittadini e famiglie venuti soprattutto della provincia: Frigide Barjot, un’ispiratrice della manifestazione, presentatasi alla marcia con un velo da sposa, dice che quella folla enorme “non può essere ignorata”. Ma, finora, l’unico risultato concreto, per altro già acquisito, è l’eliminazione dalla proposta di legge della possibilità di procreazione medicalmente assistita per le coppie di lesbiche.
Il motto era “Tutti nati da un uomo e una donna”. Gli striscioni dal sapore omofobo o “scorretti” sono stati fatti arrotolare da un servizio d'ordine efficace, 8.000 volontari in maglia gialla. Hanno sfilato il cardinale di Lione, ma non quello di Parigi; leader politici di centro e di destra, ma non Marine Le Pen, che giudica il problema “marginale”. E i francesi hanno manifestato anche fuori dall’Esagono: nei territori d'Oltremare, alla Reunion, o davanti alle ambasciate di Roma, Londra e persino al consolato di Gerusalemme.
Erano vent’anni, dal 1984, che la destra non portava in piazza tante persone a Parigi: allora, all’Eliseo c’era un altro socialista, il primo della V Repubblica, Francois Mitterrand; e, allora, la Francia conservatrice manifestò a favore della “scuola libera”.

il Fatto 15.1.13
La sentenza italiana sull’affido gay
Il diritto del bambino, regola d’oro più di religione e morale
di Bruno Tinti

La Corte di Cassazione ha affermato che è inammissibile il ricorso contro l’affidamento del figlio al genitore separato quando sia fondato esclusivamente sulla sua omosessualità. Dal che deriva che l’orientamento sessuale non costituisce motivo per negare l’affidamento. Il che rende implicito il riconoscimento giuridico delle coppie omosessuali e il loro diritto ad adottare bambini.
NON SI TRATTA di una decisione innovativa (Trib. Nicosia, ord. 12.12.10; Trib. Firenze, ord. 30.4.09; Trib. Bologna, decr. 7.7.08) ; e anzi i gravi pregiudizi nei confronti degli omosessuali sono stati ritenuti ragione sufficiente per dubitare della capacità genitoriale del genitore eterosessuale (Trib. minorenni di Catanzaro, decr. 27/5/08; Trib. Napoli 28/6/06, confermata in Appello e Cassazione). Gli stessi principi sono stati affermati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo: l'interesse del minore deve prevalere sui pregiudizi in materia di omosessualità dei genitori (CEDU, Salgueiro da Silva Mouta c. Pordeltogallo, 21/12/99) ; e, soprattutto, l’orientamento sessuale dell’adottante non può essere causa ostativa all’adozione da parte di single (CEDU, Grande camera, E. B. contro Francia, 22/1/08). Con buona pace di monsignor Domenico Sigalini (“non si può costruire una civiltà sui tribunali” - Repubblica 12.1.13), la civiltà di un paese si costruisce sul rispetto della legge; e non di questa o quella religione. Di più: la democrazia stessa si fonda sulla legge e non sulla religione; del che è incontestabile testimonianza qualsiasi paese arabo. E la legge tiene conto della natura umana, non la violenta con prescrizioni asseritamente divine.
C. SARACENO, in “Coppie e famiglie - non è questione di natura” (Feltrinelli, 2012) ha spiegato con chiarezza le motivazioni che sono alla base della presunta sacralità del matrimonio. Il motivo per cui famiglia e coppia sono tra le istituzioni sociali maggiormente regolamentate è di natura economica: la conservazione del patrimonio nel-l’ambito familiare. Ma questa esigenza, degna di tutela sul piano civilistico ma estranea a pretese leggi divine, è in contrasto con la tendenza disgregatrice propria delle pulsioni istintuali e sessuali della natura umana. Dunque, se qualcosa di “naturale” esiste nel rapporto familiare è il concetto di “famiglia di clan” e non quello di coppia esclusiva. Ecco perché è la legge che deve regolamentare la convivenza civile, tenendo conto dei necessari compromessi propri dei rapporti umani.
Tutto questo sul piano del diritto, positivo e naturale. Ma c’è molto di più in questa persecuzione che la religione condivide con dittatori sanguinari; e l’ha spiegato bene Christiane Taubira, ministro della Giustizia francese, rispondendo a un deputato, tale Bernard Perrut, che si opponeva al progetto di legge che legittimerà i matrimoni gay in Francia (andate su? ht  tp: //www.youtube.com/wat  ch? feature=player_embed  ded&v=8Ix9SE7VTWA?  , ne vale la pena). Madame Taubira ha detto: “Signor deputato non ci farà credere che vive in un igloo e che non conosce la diversità delle famiglie nel nostro paese; che non sa che c’è tanto amore nelle coppie eterosessuali quanto ce n’è nelle coppie omosessuali; che c’è tanto amore nei confronti dei loro bambini e che tutti questi bambini sono i bambini della Francia. Allora sì, signor deputato, il nostro testo di legge è di gran progresso, di generosità, di fraternità, di uguaglianza e di sicurezza giuridica per tutti i bambini di Francia. E io ne sono fiera”. Si possa domani essere così fieri nel nostro paese.

il Fatto 15.1.13
Italia, solo 40esima nella libertà

Un’indagine dell’Istituto Fraser - think tank canadese, cui ha contribuito il tedesco Liberales Institut e l’americano Cato Institute - ha stilato una classifica che vede la Nuova Zelanda al primo e l’Italia solo al 40° posto nel mondo quanto a libertà personali ed economiche. Ansa

La Stampa 15.1.13
Con 120 manifestazioni Berlino ricorda l’avvento del nazismo e le sue vittime

Con oltre 120 manifestazioni spalmate lungo tutto il 2013, Berlino ricorda quest’anno gli 80 anni dall’avvento del nazismo (30 gennaio 1933) e i 75 della «notte dei cristalli» (9 novembre 1938), l’inizio dei pogrom e le deportazioni in massa degli ebrei nei campi di sterminio. L’iniziativa, promossa dal Land di Berlino con la partecipazione di oltre 100 istituzioni e sponsor, vuole essere un segnale per «ricordare attivamente» e onorare la memoria delle vittime. «Come è potuto accadere», è la domanda che da generazioni i tedeschi si pongono, rilanciata ieri anche dal sindaco di Berlino, il socialdemocratico Klaus Wowereit (Spd) presentando l’iniziativa. Una decina di colonne rivestite di manifesti davanti alla Porta di Brandeburgo offrono una insolita inquadratura davanti al monumento simbolo della città: ma non sono manifesti pubblicitari, sono le biografie di personaggi chiave negli Anni 30, rimasti vittima del terrore nazista. A loro è dedicata la mostra principale: «Molteplicità distrutta -Berlino 1933-1938» al Museo storico tedesco (DHM) (31 gennaio- 10 novembre). Mostre, lavori teatrali, dibattiti, ogni aspetto delle repressioni naziste verrà messo in luce.

Corriere 15.1.13
Trentenni pessimisti e poco audaci è la generazione cinese dei figli unici
di Anna Meldolesi

I ragazzi cinesi venuti al mondo subito dopo l'introduzione della politica del figlio unico hanno poco più di trent'anni. Sono una moltitudine di giovani uomini e giovani donne (più maschi che femmine), nati e cresciuti per legge senza fratelli o sorelle. Un esperimento irripetibile per le scienze psicologiche e comportamentali. Com'è questa generazione? Una fotografia poco lusinghiera arriva da una ricerca appena pubblicata su Science. Rispetto ai connazionali nati poco prima del 1979, l'anno della svolta demografica di Pechino, i ragazzi dei primi anni Ottanta sono meno fiduciosi e fidati, meno competitivi e propensi a correre rischi, più pessimisti. Così risulta dai test di economia sperimentale e della personalità effettuati su centinaia di abitanti della capitale, che Science ha etichettato con il nomignolo di «piccoli imperatori».
Le conclusioni di Xin Meng e dei suoi colleghi australiani suonano clamorose per noi occidentali, abituati a considerare la Cina come una culla di studenti infaticabili e grandi lavoratori. Per chi vive lì, però, i nuovi dati non sono così sorprendenti. Nelle zone rurali, a molte coppie è stato consentito di avere due figli. I piccoli imperatori, dunque, non rappresentano la maggioranza della propria generazione. Talvolta capita persino di leggere «no figli unici» nelle offerte di lavoro, come se fossero meno dotati per definizione. Per quanti difetti caratteriali possano avere rispetto al golden standard cinese, comunque, non è detto che questi trentenni sfigurino rispetto ai coetanei occidentali. Anzi. L'etica del lavoro e l'altruismo tra familiari restano dei forti valori, fa notare Xin Meng al Corriere. Nemmeno la più folle politica demografica li poteva sradicare. Un'ultima riflessione: il fatto che la ricerca sia stata autorizzata rafforza la sensazione che il governo sia ormai vicino a un rilassamento delle regole varate per contenere la crescita della popolazione. Chissà che una piccola spinta non arrivi anche da questo studio. Dalla volontà di allevare nuove generazioni più combattive, che nessuno possa etichettare come bamboccioni.

La Stampa 15.1.13
Torino si arrende “Il cranio del brigante ritorni in Calabria”
Finita la lite sul reperto del museo Lombroso
di Emanuela Minucci

Un pezzo chiave per le teorie di Lombroso Sul cadavere del brigante calabrese Giuseppe Villella Cesare Lombroso fece il suo primo esperimento, nel 1872 dal quale iniziò a costruire la sua teoria basata sul rapporto tra comportamento e misure e dimensioni del cranio
Sulla restituzione del cranio del brigante Giuseppe Villella al suo paese d’origine e sulla presa di distanza fra la Città e il Museo di Antropologia criminale «Cesare Lombroso» si è spaccato pure il Movimento 5 Stelle (e sono solo in due).
Ma alla fine quella mozione che in pochi giorni ha fatto il giro d’Italia - ed è pure rimbalzata su parecchi siti stranieri presentata dal consigliere Domenico Mangone (Pd), è stata approvata da un Consiglio comunale che per metà si è astenuto, sindaco Fassino in testa. Ciò che importa però è che siano bastati sedici voti favorevoli perché passasse un documento unico nel suo genere che impegna «La Città a promuovere ogni iniziativa affinché si giunga alla sepoltura dei resti, anche attraverso la restituzione delle spoglie ai discendenti o alle amministrazioni comunali, trattenute nel museo di Antropologia Criminale Cesare Lombroso di Torino».
Lo scheletro nell’armadio Ci ha messo talmente tanta passione il calabrese Mimmo Mangone (si è presentato orgogliosamente così lui, ieri in Consiglio sottolineando l’importanza di quelle radici) presentando la sua mozione, - e ci hanno messo del loro pure un migliaio di cittadini che hanno spedito altrettante mail ai consiglieri comunali di Torino - che poco hanno potuto le parole dell’assessore alla Cultura Maurizio Braccialarghe («Il Museo è dell’Università, e visto che c’è una contesa giudiziaria in piedi il Comune aspetterà che si pronunci il tribunale): la Sala Rossa, dopo aver più volte premesso «che ci sono problemi più urgenti in questa città» alla fine ha lasciato che la mozione passasse. Ora starà alla giunta vedere come muoversi.
La storia Il museo, in via Pietro Giuria, di proprietà dell’Università riaprì i battenti il 27 novembre 2009. Contiene 904 crani, scheletri, cervelli e maschere in cera e trae origine dalla collezione privata che Cesare Lombroso allestì in seguito a interventi su individui ritenuti criminali, malati di mente, omosessuali e prostitute con lo scopo di dimostrare la relazione tra comportamento e misure di parti del cranio e del corpo. Proprio sul cadavere di Villella, che aveva avuto trascorsi da brigante, Lombroso fece il suo primo esperimento, nel 1872. Nell’ottobre dello scorso anno, una sentenza del Tribunale di Lamezia Terme, stabiliva con un’ordinanza la restituzione, da parte dell’Università, delle spoglie di Giuseppe Villella al suo paese natale, Motta Santa Lucia (Catanzaro). Mentre due giorni fa la Corte d’Appello ha accolto il ricorso del Museo Lombroso senza però entrare nel merito.
Un cranio da brigante Individuando un’anomalia nella struttura cranica, la cosiddetta fossetta occipitale, Lombroso giunse alla conclusione che tale conformazione non fosse presente negli individui «normali» ma solo nel cranio di criminali e pazzi. Ed è proprio su questo punto che l’avvocato Mangone ha dato il meglio della sua arringa finale: «Tralasciando l’aspetto razzistico della questione, sono qui a battermi perchè si dia degna sepoltura ad un cranio che è appartenuto a un brigante che ha rubato per fame e ha tuttora discendenti che lo reclamano. E ha aggiunto: «La mia mozione prevede che le spoglie restituite, se utili a finalità didattiche, siano sostituite con calchi o rappresentazioni multimediali».
L’assessore alla Cultura Di fronte al sì dell’aula l’assessore alla Cultura ha commentato: manderemo una lettera al Museo per evidenziare quanto emerso dall’aula: sorta di avviso di sfratto non tanto per il museo,, ma per alcuni suoi preziosi reperti. Va però detto che sia Braccialarghe sia parecchi suoi colleghi di giunta hanno spiegato che i reperti esposti al Museo Lombroso sono da considerare al pari di altre opere d'arte. Come le mummie esposte all’Egizio di cui il Cairo non ha mai preteso la restituzione.

Corriere 15.1.13
Lo sguardo di Hannah sul boia
La Arendt, la banalità del male e Eichmann in un film dal nostro corrispondente
di Paolo Lepri

BERLINO — Non è un obiettivo da poco quello che si è proposta Margarethe von Trotta nel raccontare Hannah Arendt. Ha cercato, come ha detto lei stessa, di «trasformare i pensieri in immagini» e ha provato ad entrare nella mente della filosofa ebrea tedesca, espatriata negli Stati Uniti per sfuggire al nazismo, i cui articoli sul processo Eichmann diventarono un libro, La banalità del male, che ha fatto la storia del Novecento.
Gli interrogativi che quel testo continua a suscitare, cinquanta anni dopo la sua pubblicazione, sono al centro dello sforzo della regista tedesca di fare rivivere la Arendt affidandosi ad un'attrice che è sempre stata quasi il suo doppio davanti alla macchina da presa, Barbara Sukowa (la Marianne di «Anni di piombo», personaggio ispirato alla terrorista della Raf Gudrun Esslin). Tutto questo nonostante il parere contrario dei produttori e chiedendo a Barbara Sukowa una immedesimazione totale con il suo personaggio. «Non farò questo film senza di lei», fu il suo ultimatum. Ed è stata una scommessa riuscita.
«La scelta di un'attrice che non ha nessun tipo di rassomiglianza fisica con la Arendt si è dimostrato un dono del cielo, perché ha eliminato qualsiasi empatia kitsch fin dall'inizio», ha scritto su «Der Spiegel» Elke Schmitter. Si tratta di un confronto fra tre donne, ad una delle quali è stato tributato un omaggio totale. E non è un caso che Adolf Eichmann, invece, appaia solo nelle immagini storiche del processo: nessun attore avrebbe potuto, dice la regista tedesca, interpretare la miseria morale e la mediocrità di quel burocrate dello sterminio, di quell'«impiegato» per il quale si prova solo disgusto.
«Barbara e Hannah si sono fuse insieme», ha detto Margarethe von Trotta, che racconta oggi di non sapere quasi più chi delle due è la donna che ha di fronte, tanto è stato intenso il lavoro di comprensione, di analisi, di ricostruzione, tanto è stata appassionata questa doppia irruzione nella storia. «Improvvisamente — ha aggiunto in una intervista al sito del Goethe Institut — qualcuno in carne ed ossa è davanti a me, con la sua voce, che non è quella di Hannah Arendt. Naturalmente si tratta di un'approssimazione, ma tuttavia è lei, il suo spirito, il suo intelletto, il modo con cui si muove e parla».
Parole appassionate, che spiegano il modo con cui è stato concepito un film che cerca di stabilire un legame totale con l'oggetto della narrazione. Ma l'idea di Margarethe von Trotta non è stata soltanto quella di narrare la storia di una persona, come aveva fatto per esempio con la Sukowa e Rosa Luxemburg. Il film, come si diceva, è una rimeditazione sul modo con cui Hannah Arendt ha elaborato le sue tesi su Eichmann, uno dei maggiori organizzatori della «soluzione finale», fuggito in Argentina, catturato dal Mossad e trasferito in Israele dove fu processato, condannato a morte e impiccato in prigione.
Siamo a Gerusalemme, nel 1961. L'allieva di Martin Heidegger (che compare brevemente in alcune scene dedicate al passato), arriva in Israele da New York, dove viveva con il marito Heinrich Blücher e si trova di fronte, nella gabbia di vetro dell'aula del processo, ad un uomo che non giudica un pazzo, un fanatico o un criminale. Eichmann le sembra un funzionario dell'orrore che ha applicato le istruzioni con diligenza, che non si è mai reso effettivamente conto di quanto stava facendo, perché privo di quei codici morali che dovrebbero guidare le nostre azioni. Un prodotto delle società dell'obbedienza.
Lei vuole capire e cercherà di farlo, anche se la sua lettura della personalità dell'imputato (e dello stesso modo con cui è stato organizzato il processo) contrasta con gli schemi di interpretazione di chi la circonda. Le conversazioni registrate in Argentina dall'olandese Willem Sassen dimostrarono, ricorda «Der Spiegel», che Eichmann «era un convinto antisemita, incapace di usare personalmente la forza, ma determinato a sterminare il popolo ebraico». La parte da lui recitata a Gerusalemme era stata soltanto un inganno, non tale però da togliere forza al nocciolo delle riflessioni svolte dall'autrice di Le origini del totalitarismo.
«Era una donna — afferma Margarethe von Trotta – che si adatta al mio modello personale delle donne di importanza storica che ho ritratto. "Voglio capire" era uno dei suoi principi-guida. Penso che valga anche per me e per i miei film».

Repubblica 15.1.13
Destra e sinistra esistono ancora
di Anthony Giddens


DESTRA e sinistra sarebbero concetti superati, obsoleti, privi di senso, come qualcuno ora sostiene nella campagna elettorale italiana? Non sono d’accordo. Norberto Bobbio diceva che il significato di destra e sinistra cambia continuamente, e non c’è dubbio che oggi entrambi i termini significano qualcosa di diverso rispetto al passato. Ciononostante restano due concetti politici profondamente differenti e continuano ad avere un valore specifico anche nell’odierno mondo globalizzato.
La destra tradizionale di oggi in Europa e in generale in Occidente crede nel libero mercato, in uno stato poco invasivo e contenuto, in un conservatorismo sociale nella sfera privata. La sinistra crede in un governo attivo più che nello statalismo, in una maggiore regolamentazione del mercato, nel liberalismo sociale. Le differenze tra i due schieramenti sono ben visibili, sebbene non siano più così nette come un tempo. A sinistra non c’è più l’utopia socialista. A destra possono esserci aperture in campo sociale, come dimostra David Cameron in Gran Bretagna schierandosi a favore del matrimonio gay, peraltro con forte opposizione e disagio tra molti membri del suo stesso partito.
Inoltre oggi ci sono questioni, come quella dell’ambiente, che non sono più “di destra” o “di sinistra” sulla base dei vecchi parametri: il cambiamento climatico è un problema grave, urgente e profondo, che travalica ogni schieramento ideologico, perlomeno se guardato senza paraocchi.
In parte è vero quel che Tony Blair ha scritto nella sua autobiografia politica, dopo avere lasciato Downing Street: oggi vi sono forze che si distinguono per la propria “apertura” nei confronti della società e altre che si distinguono per una contrapposta “chiusura”. Due diverse mentalità, due modi di affrontare la realtà: apertura verso l’immigrazione, le nuove tecnologie, i cambiamenti sociali, in contrasto con chi preferirebbe chiudere le frontiere, respingere le innovazioni, mantenere lo status quo. Ma questo contrasto non basta a definire la lotta politica. Rappresenta un programma e una visione troppo limitati. Ed è portatore di frequenti contraddizioni: vi sono partiti apertissimi quando si tratta di discutere di libero mercato, che vorrebbero privo di qualsiasi regola o laccio, e poi chiusissimi sul tema dell’immigrazione, senza comprendere che quest’ultima è una componente essenziale del liberalismo e che non può esserci un mercato “aperto” con una chiusura delle frontiere agli immigrati.
La discussione sul presunto superamento di concetti come “destra” e “sinistra” ha inoltre un difetto di fondo: induce a credere che, nel mondo di oggi, ci sia bisogno di meno politica di quello di una volta, ossia di meno ideologia, meno partiti, meno governo, come se tutto dipendesse dall’essere disponibili o contrari al cambiamento, inteso come generale progresso dell’umanità. Al contrario, ritengo invece che oggi ci sia bisogno di più politica di prima, perché i problemi globali, dalla drammatica crisi economico-finanziaria all’effetto serra, dimostrano che solo un intervento collettivo, programmatico, di sana governance internazionale, può mettere il nostro pianeta sulla strada giusta. Una migliore definizione del confronto politico odierno verterebbe allora su un termine diventato assai popo-lare, seppure utilizzato spesso a sproposito: reformer.
Oggi tutti o perlomeno tanti si autodefiniscono così. Ma chi è, cos’è, un vero riformatore o riformista? In Europa è colui che comprende la profondità della crisi che stiamo attraversando e si rende conto delle risposte radicali che sono necessarie per superarla. Oggi tutti i Paesi industrializzati sono fortemente indebitati. Tutti, chi più chi meno, hanno perso competitività sui mercati. Finora sono state indicate e discusse due vie d’uscita da questa situazione: incoraggiare la crescita economica con investimenti pubblici, oppure puntare sul rigore, sui tagli alla spesa pubblica, sugli aumenti delle tasse, in una parola sull’austerità. Ma riproporre l’alternativa tra il metodo keynesiano e il monetarismo potrebbe non bastare più. Certo, i tagli sono in qualche misura necessari. A mio parere, tuttavia, sono come le medicine: se non le prendi, ti ammali, ma se ne prendi troppe fai un’overdose e rischi di stare ancora peggio.
E allora che fare? Ciò che un autentico riformatore europeo dovrebbe porsi come obiettivo è una ripresa sostenibile. Una ripresa in grado di preservare un welfare state che richiede sicuramente tagli e accorgimenti per fare i conti con un nuovo scenario demografico e sociale; ma che al tempo stesso non indirizzi i principali benefici della crescita sullo 0,1 per cento della popolazione, sulle fasce più alte di reddito. Una ripresa sostenibile significa un modello economico che eviti di distruggere l’ambiente e la classe media: non credo che l’Occidente uscirà dalla crisi e diventerà più competitivo semplicemente vendendo sempre più automobili alla Cina, fino a quando i cinesi ne avranno tante quanto noi, o di più. Né continuando a indebitarsi, per poi aspettarsi che siano i giovani d’oggi, molti dei quali sono disoccupati, a pagare i nostri debiti quando saranno diventati adulti: sia i debiti in campo economico che quelli in campo ambientale.
Come realizzare un’impresa così immane e complessa? Io continuo a credere che sia possibile, attraverso un genuino riformismo di sinistra. Lo stesso spirito di quella Terza Via a cui ho dedicato una parte dei miei studi teorici, il cui primo artefice non è stato in realtà Blair, come si è talvolta indotti a credere, ma piuttosto Bill Clinton e il partito democratico negli Stati Uniti. Dunque un progressismo capace di conquistare consensi al centro, comprendendo le legittime preoccupazioni dei ceti medi su questioni come sicurezza, tasse e immigrazione, ma senza rinunciare alle aspirazioni di una società più giusta e più egualitaria, rese ancora più impellenti oggi dalle conseguenze del crack finanziario e dalle minacce del cambiamento climatico. La Terza Via va perciò adeguata ai problemi del ventunesimo secolo, ma anche alle nuove opportunità che il secolo appena cominciato lascia intravedere, non ultima quella di una nuova rivoluzione industriale e tecnologica, che sarà necessaria perché nessun Paese potrà veramente risollevarsi dalla crisi se non produce più niente. Tra queste opportunità vi sono quelle che può cogliere l’Europa: secondo vari studiosi la nostra Unione, oggi afflitta da lacerazioni e difficoltà, ha il potenziale per uscire da questo periodo non solo rinsaldata e rinvigorita, ma perfino più forte degli Stati Uniti. È uno scenario che richiede ottimismo, ma è uno scenario possibile: a patto di usare più politica, non meno politica. E di credere che “destra” e “sinistra” vogliano ancora dire qualcosa.

Repubblica 15.1.13
Addio Italia gli immigrati preferiscono i paesi del Nord
Per l’Istat sono 800mila gli stranieri “spariti” dal nostro paese
Molti di loro hanno abbandonato l’Italia perché la crisi gli ha tolto il lavoro
di Jenner Meletti


CI SONO mille storie di paura, in via Pisa e nelle altre strade dei quartieri Pio X e Santa Bona. Paura di non farcela, di tornare a casa la sera e ancora una volta dire alla moglie e ai figli che «non c’è nulla di nuovo, il lavoro non si trova». C’è un rumore diverso da prima, dentro tanti appartamenti. Non ci sono più cucina, sala con la tv, camere dei grandi e dei piccoli… Adesso, in ogni stanza c’è una famiglia diversa, e a volte si litiga per l’uso della cucina o della lavatrice. Appartamenti solo per donne e bambini accanto ad appartamenti solo per uomini. La crisi che pesa sulle famiglie italiane riesce a distruggere quelle famiglie straniere che erano arrivate qui per cercare “Lamerica” e l’avevano trovata. «Fra pochi giorni – dice Quasime, senegalese – io vado in Francia. Lavoravo come saldatore e da un anno non ho più una busta paga. Lascio qui moglie e tre bambini, ma per spendere meno l’ho messa con le mogli e i figli di due miei amici del Senegal. C’è anche chi ha fatto una scelta diversa, la famiglia torna in Africa e gli
uomini restano qui».
Ci sono mille storie di paura, in via Pisa e nelle altre strade dei quartieri Pio X e Santa Bona. Paura di non farcela, di tornare a casa la sera e ancora una volta dire alla moglie e ai figli che «non c’è nulla di nuovo, il lavoro non si trova». C’è un rumore diverso da prima, dentro tanti appartamenti. Non ci sono più cucina, sala con la tv, camere dei grandi e dei piccoli… Adesso, in ogni stanza c’è una famiglia diversa, e a volte si litiga per l’uso della cucina o della lavatrice. Appartamenti solo per donne e bambini accanto ad appartamenti solo per uomini. La crisi che pesa sulle famiglie italiane riesce a distruggere quelle famiglie straniere che erano arrivate qui per cercare Lamerica e l’avevano trovata. «Fra pochi giorni — dice Quasime, senegalese — io vado in Francia. Lavoravo come saldatore e da un anno non ho più una busta paga. Lascio qui la mia famiglia, moglie e tre bambini, ma per spendere meno l’ho messa con le mogli
e i figli di due mie amici del Senegal».

«C’è anche chi ha fatto una scelta diversa — continua Quasime — la famiglia torna in Africa e gli uomini restano qui, uno o due per stanza, così con cento euro al mese riescono a pagarsi l’affitto».
La crisi fa tornare indietro l’orologio di trent’anni. «Tornano a riempirsi — raccontano Ahmadou Tounkara, maliano, e don Davide Schiavon, operatore e direttore della Caritas di Treviso — anche le case coloniche abbandonate. Come negli anni ‘90, quando arrivò la prima grande immigrazione e non c’era un rudere vuoto. Gli uomini che restano qui da soli cercano di sopravvivere lavorando in nero in campagna o nell’edilizia, come allora. Questa è una crisi che spacca dentro e toglie le forze, perché travolge anche chi aveva assaggiato il benessere. Colpisce uomini che, arrivati dall’Africa o dall’Asia, avevano costruito qui le loro famiglie. In questa terra erano nati i loro figli. Operai ma anche imprenditori, con il mutuo per pagarsi la casa e con progetti precisi: restare qui in Italia per sempre e
tornare in Marocco o Bangladesh solo in vacanza, per salutare i parenti e fare vedere a tutti che la loro impresa era riuscita».
Per la prima volta, nell’anno che si è appena chiuso, al centro di ascolto della Caritas la richiesta di un lavoro ha superato quella di un aiuto, in viveri per mangiare o soldi per pagare una bolletta o un affitto. «Sono uomini e donne che si vergognano, quasi chiedessero l’elemosina. Chiedono anche consigli,su come comportarsi con i figli, che si sentono italiani e adesso ascoltano il loro papà che dice: torniamo in Ghana».
Storie tutte diverse e tutte piene di angoscia. «I miei figli — dice Amidou del Burkina Faso — sono ormai grandi. Quando ho detto che dovevano tornare a casa, mi hanno detto che non sono pacchi. Gli unici soldi adesso li porta mia figlia grande che ha trovato lavoro part time in un ristorante, gli altri due figli vanno a scuola. Io mi sto informando per andare in Germania, là le fabbriche sono ancora aperte». «La mia famiglia l’ho mandata in Senegal — racconta Ousmane — e io vivo in un appartamento con altri cinque messi male come me. Mi vergogno perché, a fine mese, non riesco a mandare un soldo a casa, ma in quest’ultimo mese ho lavorato come imbianchino solo quattro giorni».
Nascono le trafile, come un tempo per gli emigrati italiani. «Mio cugino — dice Abdelkabir, marocchino — ha trovato lavoro in Francia, come cameriere. Sta cercando un posto anche per me. Non ce la faccio più a tornare a casa senza aver guadagnato nulla. I miei figli non fanno nemmeno più domande. Mi guardano, capiscono e sono sempre più tristi». «E pensare — dice Abdallah Kherzraji, marocchino, vice presidente della Consulta regionale per l’immigrazione — che a noi marocchini la fantasia non manca. Visto che in Italia il commercio è in crisi, tanti si sono organizzati per andare a fare i venditori in Marocco. Ogni settimana, al martedì, venerdì e sabato partono da Genova, in nave, dai 200 ai 500 furgoni carichi di merce comprata in Italia. Vanno a vendere là dove il Pil nel 2012 è salito del 3,8%. Insomma, ci si arrangia. Ma molti sono quelli che hanno perso il lavoro in fabbrica, o hanno chiuso la piccola azienda, che tornano a casa prima di finire i risparmi di una vita o cercano un futuro all’estero. In Francia, Germania, Olanda e Belgio c’è ancora un welfare robusto. C’è un aiuto serio per trovare la casa e il lavoro. Per un anno, in attesa di una sistemazione, puoi contare su un contributo di 200 euro al mese per ogni bambino.
Insomma, chi ha due o tre figli riceve quasi un salario».
Abdallah Khezraji, arrivato in Italia nel 1989, ha fatto l’operaio e l’imprenditore e oggi è mediatore culturale e leader dei 90.421 stranieri presenti in provincia di Treviso. C’è però chi svolge la stessa attività ed è costretto comunque a una nuova emigrazione. «Faccio anch’io il mediatore culturale — racconta Hamadi Ben Mansour, tunisino con cittadinanza italiana e presidente di El Medina, associazione impegnata a Mantova nella mediazione socio culturale — ma non riesco più a mantenere la famiglia. Dovrò andarmene anch’io, come tanti miei amici. Io credo che queste partenze siano una perdita per la città che sentiamo come nostra. Sono già tornati in Tunisia o Marocco l’autotrasportatore che aveva anche dipendenti italiani, il commerciante di auto, l’amico che aveva tre macellerie (anche lui con dipendenti italiani) e tanti altri imprenditori e operai. Il ministero del Lavoro tunisino ha appena dichiarato che servono 120.000 operai, nelle nuove imprese. Chi potesse investire 50.000 euro, nel mio Paese, potrebbe aprire una piccola fabbrica e sarebbe un signore. Ma dopo 22 anni in Italia io non ho risparmi. Sono già stato in Belgio, Olanda e Germania a cercare
qualcosa da fare. Lascerò Mantova con l’amaro in bocca, è una città che mi ha dato tanto».
«Già dal 2004 — racconta don Giovanni Sandonà, responsabile regionale della Caritas in Veneto — a Vicenza organizziamo i rimpatri “mutuati”, cioè condivisi. Donne con figli ma anche uomini in situazione di esclusione sociale grave, come alcolisti, dipendenti da droghe. Con la collaborazione dei Comuni riusciamo a preparare un progetto vero, che permetta un futuro nella terra di origine. Gli immigrati sono stati i primi a essere colpiti dalla crisi e anche oggi stanno pagando più di tutti».
Uomini e donne che camminano sul filo del rasoio. «A Bologna — racconta Roberto Morgantini, che per anni ha guidato l’ufficio stranieri della Cgil e ora è vice presidente di Piazza Grande, associazione dei senza fissa dimora — tante famiglie si sono spezzate. Mohamed ha mandato la sua famiglia in Marocco, dopo avere perso il suo lavoro da metalmeccanico, ed è partito per la Francia. Se troverà un salario e una casa, richiamerà moglie e figli. Adamin, del Bangladesh, ha perso l’appartamento perché senza lavoro non riusciva più a pagare l’affitto. Ha messo i bambini in un istituto di suore e lui vaga per la città a cercare qualcosa fa fare. Come Piazza Grande, abbiamo “adottato” una di queste famiglie disperate, l’abbiamo chiamata “famiglia K”. Vogliamo raccogliere 6.000 euro — per ora ne abbiamo la metà — per pagarle un anno di affitto. Adesso vivono in un dormitorio pubblico, alle 8 del mattino debbono uscire. Non vogliono tornare nel loro Paese, il Pakistan, perché là non hanno più nessun legame. Quelli che, dopo il permesso di soggiorno, hanno conquistato la “Carta di lunga durata”, sono partiti per la Francia, la Germania, l’Inghilterra. Non cercano l’Eldorado, il salario è simile a quello che avevano in Italia. Ma là almeno il lavoro si trova».
Storie di dolore in quello che era il ricco Nord. «Il dramma più pesante — dice Gianmarco Marzocchini della Caritas di Reggio Emilia — è quello dei bambini e ragazzi che vengono tolti dalle scuole per andare nei Paesi dei genitori, che spesso non hanno mai visto». «Io ho mandato mio figlio di 8 anni — racconta Adnan C., albanese — a Scutari, con mia moglie. Da quando è là vuole sempre stare solo. E ha smesso di parlare».

Repubblica 15.1.13
Per l’Istat sono 800 mila gli stranieri “spariti”, ma il fenomeno potrebbe essere più ridotto
Romeni e cinesi guidano l’esodo “È fuga dalla disoccupazione”
di Vladimiro Polchi


Abdellah e Khalid hanno comprato un piccolo autolavaggio a Rabat. Tre anni fa lavoravano a Torino in un’azienda di riciclaggio di pneumatici, per 25 euro al giorno. Con la crisi, il loro salario si è dimezzato e hanno preferito tornare in Marocco. Abdellah e Khalid sono i pionieri di un incessante movimento sotterraneo: la “fuga” degli immigrati dal nostro Paese. Qualche numero per capire: oltre 32mila stranieri si sono cancellati dall’anagrafe l’anno scorso. Altri 800mila sono sfuggiti al censimento 2011. Sono i nomadi del lavoro: migranti che fanno a ritroso il viaggio che li ha portati in Italia.
Il caso ha spinto qualche giorno fa a titolare: «Gli immigrati abbandonano l’Italia colpita dalla recessione». Tra le testimonianze, quella di Sonia Fen, ristoratrice a Roma: «Moltissimi cinesi stanno tornando a casa».

Già nel giugno 2009, secondo il sito web Maghrebia. com, nelle strade del Marocco si notavano sempre più auto con targhe europee e nei primi mesi del 2009 gli arrivi in aereo di marocchini erano aumentati del 38%. Quanto alle rimesse, secondo il direttore del Tesoro, Zouhair Chorfi, già nel 2008 c’era stata una flessione del 2% e nel marzo 2009 del 15%.
La novità, tutta italiana, è che dal confronto tra i primi risultati del 15° Censimento della popolazione (4.029.145 migranti nel 2011) e la fonte anagrafica, oltre 800mila stranieri risulterebbero non più residenti nel nostro Paese. Dove sono finiti? «Attenzione — risponde Franco Pittau, coordinatore del dossier Caritas/ Migrantes — sussistono forti perplessità nell’accettare che gli immigrati siano diminuiti quasi di un milione, si è invece propensi a ritenere che le operazioni censuarie non abbiano raggiunto l’intera popolazione straniera presente sul territorio, sia per motivi logistici (basti pensare a chi vive in località remote), che psicologici (la reticenza degli immigrati alloggiati in ambienti disagiati e sovraffollati) o ambientali (preferenza dell’anonimato in un contesto di crisi economica, con rischio di disoccupazione e conseguente permanenza non autorizzata)». Non è tutto: «Molti immigrati — prosegue Pittau — pur avendo perso il lavoro e di riflesso il permesso di soggiorno sono rimasti in Italia irregolarmente, sfuggendo quindi all’ultima rilevazione censuaria». Insomma cautela sui dati del Censimento, più affidabile è rifarsi ai dati anagrafici.
Nel 2011, secondo la stima Istat, si sono cancellati dalle anagrafi italiane poco meno di 33mila stranieri. Ma anche questo è un dato parziale: molti immigrati, quando decidono di chiudere l’esperienza migratoria in Italia, non effettuano la cancellazione anagrafica dal comune di residenza. Un ultima fonte: si può sapere qualcosa di più delle “partenze nascoste” attraverso lo studio dei permessi di soggiorno scaduti e non più rinnovati a distanza di un anno. L’archivio del ministero dell’Interno fornisce indicazioni precise del fenomeno. Ebbene, i permessi di soggiorno validi al 31.12.2010 e scaduti a distanza di un anno sono risultati ben 262.688.
Insomma il fenomeno dei “viaggi di ritorno” è senz’altro in corso, ma sui numeri nessuna certezza. Una spia della possibile “fuga” dei migranti dall’Italia può venire anche dalla lettura delle rimesse: nel 2012, dopo cinque anni consecutivi di crescita, sono diminuiti per la prima volta i soldi spediti all’estero dagli stranieri presenti in Italia, da 7,4 a 6,8 miliardi di euro, con una flessione dell’8%. «Molti immigrati stanno lasciando in questi mesi il nostro Paese a causa della crisi economica — conferma il direttore della Fondazione Migrantes della Cei, monsignor Giancarlo Perego — prima arrivavano da noi dalla Spagna, oggi dall’Italia vanno in altri Paesi».
È quanto accaduto a Mohamed Haddon, marocchino, in Italia dal 1989, muratore a Perugia, integratissimo con la sua famiglia di quattro figli e la moglie Fatima Zennir. Nel febbraio 2012, Mohamed (che nel frattempo aveva preso la cittadinanza italiana) è dovuto emigrare nuovamente, per colpa della crisi. Destinazione: Bruxelles. «L’idea che questi ragazzi e i loro genitori, innamorati dell’Italia, siano stati costretti a partire — dicono oggi i loro amici italiani — fa veramente male».
Ma chi sono i migranti che lasciano l’Italia? La Fondazione Leone Moressa traccia per
Repubblica l’identikit: oltre la metà è europeo, il 17% ha origini asiatiche e il 12,2% è africano. Più di 19mila cancellazioni dall’anagrafe sono infatti state richieste da persone provenienti da Paesi europei, di cui oltre un terzo romeno. Tra gli asiatici che lasciano l’Italia, il 30,2% è costituito da cinesi e il 19,1% da indiani. Tra gli americani invece sono soprattutto i brasiliani (21,5%) a tentare altre strade fuori dal nostro Paese. In generale, sembrano lasciare l’Italia quelle popolazioni provenienti da Paesi in via di sviluppo, per i quali si può ipotizzare una propensione al rientro in patria, oltre che allo spostamento verso altri Paesi. Stando sempre alla fondazione Moressa, le cancellazioni a livello nazionale nel 2011 sono aumentate del 15,9% rispetto all’anno precedente. L’incremento di coloro che lasciano l’Italia riguarda tutte le nazionalità, escluse poche eccezioni in cui si è registrata una diminuzione delle cancellazioni: come nel caso dei migranti dal Bangladesh (-16,9%).
Le cause dell’abbandono? «Una spiegazione — sostengono alla Fondazione Moressa — va ricercata sicuramente nell’effetto che la crisi economica ha avuto sulle condizioni occupazionali degli stranieri. Tra il 2008 e il 2011, infatti, il numero di disoccupati immigrati è praticamente raddoppiato, con un incremento di oltre 148 mila unità (+91,8%), mentre quello degli italiani è aumentato di 267mila».

Repubblica 15.1.13
Cominciata senza certezze, la separazione di velluto del 1993 è un successo di vite parallele prive di ostilità
I cèchi hanno ritrovato la loro antica potenza industriale, gli slovacchi hanno promosso riforme audaci
Praga e Bratislava, il divorzio felice “Vent’anni dopo ci amiamo di più”
di Andrea Tarquini


BRATISLAVA LA sera, lo struscio tra vinerie e locali di tendenza sul viale e sulle viuzze che portano all’Opera di Bratislava è tornato abitudine del nuovo ceto medio, come ai tempi degli Asburgo e poi dello Stato unito di Masaryk e Kafka. Ragazzi con l’abito buono e ragazze stupende si scrutano accennando sorrisi, a caccia di nuovi incontri, il centro storico della graziosa capitale in miniatura, restaurato a meraviglia, è specchio di nuova fierezza nazionale e cultura borghese ritrovata. L’Opera sembra una miniatura di quella viennese, i palazzi delle famiglie antiche evocano Praga. Fierezza nazionale, ma contro nessuno. Meno che mai contro i tutori di ieri. Di loro, i cugini cèchi, qui non è rimasto nessun simbolo tranne l’ambasciata. Eppure qui ci tengono a dirti che il loro Teatro nazionale è in tournée a Praga e vanta il tutto esaurito. Ecco Cèchia e Slovacchia vent’anni dopo. L’avventura della separazione consensuale, il “divorzio di velluto”, cominciò senza certezze, nell’Europa dove Milosevic preparava le guerre di pulizia etnica. Cèchia e Slovacchia, vent’anni dopo: quel flop matrimoniale è oggi un caso unico di divorzio riuscito. Vivono separati ma felici, senza arroganze leghiste né ostilità come tra fiamminghi e valloni. Tastiamo dunque il polso al “divorzio di velluto”, ascoltiamo i protagonisti di allora e di oggi.
«Fu una scelta triste ma inevitabile », mi dice passeggiando il drammaturgo engagé Milan Uhde, già braccio destro di Havel. «Mi sentii lacerato da sentimenti contrastanti dovendo, da presidente del Parlamento cèco, pronunciare il discorso ufficiale, dissi solo “Buon giorno, Repubblica cèca”». Conviene Pavel Vilikovsky, uno dei maggiori scrittori slovacchi, sorseggiando un irish coffee accanto all’Opera: «Io allora mi schierai contro la separazione, la maggioranza era con me, ma i politici nazionalisti nei due campi ebbero il sopravvento. Per fortuna, senza violenze, senza che volasse nemmeno uno schiaffo tra i cèchi più urbani e industriali e noi slovacchi più rural- tribali». «Penso in slovacco», continua, «ma con una mamma slovacca e un papà cèco, professore di Storia venuto qui da Praga, la mia identità nazionale è un sentimento contraddittorio ». Inutile andare a caccia di odii e rancori nei giovani dei due Stati. «Eppure», aggiunge Vilikovsky, «a lungo i cèchi li vedemmo inevitabilmente come fratelli maggiori ricchi. Tutori che ci inviarono insegnanti e amministratori, costruirono scuole e strade, allevarono anche le élite slovacche, ma tutori pur sempre. Persino sotto il comunismo, il mio professore di marxismo-leninismo alla scuola superiore, cèco, ortodosso fedele al regime, si lamentava delle “non buone relazioni” tra i due popoli».
Auto moderne, tedesche o coreane, più che a Roma, nuovi condomini di periferie ordinate, shopping center affollati, réclame di vacanze nei mari caldi. Oggi, se visiti i due ex coniugi, la nuova povertà (giovanile e non solo) di casa nostra sembra remoti. E se guidi sull’autostrada per Vienna, mèta proibita prima del 1989, devi sorpassare di continuo le bisarche di Volkswagen e Hyundai-Kia, che in Slovacchia hanno i loro siti più moderni. Difficile percepire che solo vent’anni fa gli uni vissero con entusiasmo la nascita d’una nazione, gli altri si rassegnarono a rimpicciolirsi. «L’armonia di oggi non era allora scontata», mi ricorda il filosofo Peter Michalovic: «Nella Praga di Havel la democrazia fu subito solida, qui da noi l’autoritarismo populista di Meciar ci isolò in Europa». Meciar, l’ex pugile e uomo forte dell’indipendenza, minacciava di diventare un Lukashenko sul Danubio, o almeno un Orbàn slovacco. «Rischiammo di venir tagliati fuori dall’Europa», ricorda l’economista Pavol Demes. Solo la coalizione delle forze democratiche lo rovesciò, e fu la svolta. «Da allora», ricorda Milan Uhde, ex braccio destro di Havel a Praga, «gli slovacchi hanno saputo trarre lezioni e profitto dalla separazione più di noi cèchi troppo spesso pessimisti: si sono lanciati in riforme economiche più audaci, con un boom hanno colmato il gap».
Entrambi, nella coppia divisa, si rimboccarono le maniche. Correndo fianco a fianco verso la Nato e l’Unione europea. I cèchi ritrovando anche con forti investimenti tedeschi la loro antica potenza industriale, gli slovacchi reinventandosi con le porte aperte della minitassazione ai big global players dell’auto e dell’elettronica, in sinergia con l’economia cèca. «Così nacquero da radici antiche due identità nazionali affiancate e tranquille, prive di animosità», nota Michalovic. Fu un successo di vite parallele, ma reso possibile anche dal gioco di squadra. «L’appoggio cèco fu vitale per il nostro ingresso nell’Unione e nell’Alleanza atlantica, nei miei anni a Praga non mi sentivo all’estero», confessa l’anziano ex ambasciatore Ladislav Ballek, inviato slovacco sulla Moldava negli annichiave. «Non dimentichiamolo mai, senza la Cecoslovacchia noi slovacchi non saremmo usciti vivi dalle tragedie dei nazionalismi estremisti del 20mo secolo», nota Ballek. Il ricordo di violenze e crimini dei gendarmi del dittatore ungherese Horthy è presente. «Perché abbiamo deciso di dividerci? Per amarci di più, e per tifare per due fortissime squadre di hockey sul ghiaccio anziché per una sola», aggiunge scherzando solo a metà.
Tutto luce e niente ombre, dunque? No, avverte il cèco Uhde: mentre in Slovacchia l’entusiasmo dell’indipendenza ha risvegliato una intelligentsia spesso passiva sotto il comunismo, a Praga gli intellettuali hanno perso il gusto dell’impegno politico. A differenza che in Polonia non hanno saputo coltivare tradizioni di élite, ciò rafforza il loro desencanto.
«Anche Havel ebbe le sue colpe: non seppe costruire rapporti tra il suo team di dissidenti con i nuovi partiti e la nuova economia di mercato. Eppure oggi, da divorziati felici, i valori costitutivi comuni — democrazia, libertà, economia all’occidentale — sono più vivi che mai».
Senza illusioni su nulla, i divorziati felici vanno avanti fianco a fianco. Col boom di feste giovanili al confine e coppie miste, con i programmi in slovacco della radio cèca per i “cugini” assunti dalle industrie boeme e morave, oltre la frontiera aperta. «Dopo il divorzio abbiamo saputo restare una famiglia, e guardando i cèchi noi ci vediamo in due specchi: come siamo e come vorremmo essere», sorride l’ex diplomatico Ballek. Spesso all’aeroporto di Lipsia, Germania, picchetti dei due paesi attendono insieme i vecchi cargo Transall della Luftwaffe che riportano a casa i loro caduti sul fronte afgano. Mitteleuropa, gennaio 2013: la gloriosa, forte Cecoslovacchia democratica di Masaryk e Dubcek, sesta potenza economica del mondo di ieri, è morta da vent’anni eppure, nell’amicizia dei “divorziati di velluto”, a suo modo vive.

Repubblica 15.1.13
Per il filosofo inglese bisogna valutare con sguardo compassionevole, “senza ricondurre a sé ogni cosa”
Roger Scruton
“Essere migliori significa essere all’altezza dell’arte”
di Franco Marcoaldi


LONDRA Molto più famoso all’estero che in Italia (secondo un giudizio del New Yorker, spesso citato, addirittura «il filosofo più influente al mondo»), Roger Scruton si autodefinisce un conservatore. Ha insegnato in diverse università inglesi e americane, collabora con New Statesman e Wall Street Journal, scrive musica e vive assieme alla moglie e ai figli nella campagna del Wiltshire. Nella sua variegata opera (che spazia dalla filosofia alla politica all’estetica, ivi compreso un libro sulla Bellezza edito da Vita e Pensiero), il filo rosso è rappresentato proprio dall’arte del giudizio, di cui Scruton rivendica il fondamento razionale.
«Tutti possiamo giudicare razionalmente, se impariamo ad astrarre dagli interessi e dai desideri individuali. In una corte di giustizia, il giudice sarà in grado di svolgere al meglio il suo compito solo osservando i dati di fatto in modo imparziale, senza alcun interesse personale. Ma proprio qui sta la difficoltà maggiore: non ricondurre a sé ciò che si deve giudicare. Le cose vanno sempre valutate con uno sguardo compassionevole, perché il mondo è molto più grande e più importante di noi. Se si fa propria questa attitudine, allora il giudizio torna ad essere possibile. E
sensato».
I postmodernisti, però, affermano che non essendoci una verità da raggiungere, il giudizio si riduce a un semplice gioco di opinioni, di gusti tutti ugualmente legittimi.
«Io penso che l’ortodossia postmodernista abbia intrapreso una strada totalmente sbagliata».
Peccato sia quella prevalente da svariati decenni.
«Per forza: è il cavallo di Troia di un individualismo trionfante. Sa, c’è una buona ragione per definirsi postmodernisti. È facile, vantaggioso: basta dire che ciascuno può fare ciò che vuole e nel modo che vuole. Ma è un completo nonsenso. Innanzitutto in termini logici. Se i postmodernisti affermano che non esiste alcuna verità da cercare, non si capisce come possano poi ritenersi i depositari della medesima».
Il giudizio cerca la verità e per farlo ha bisogno di autorità. Ma come ha scritto con icastica efficacia George Steiner, siamo passati dall’epoca dell’autorità a quella della celebrità.
«È un’immagine felice, che senz’altro vale per la cultura popolare: con la celebrità di turno che impone gusti, preferenze, comportamenti. Tutte cose abbastanza facili da smascherare in termini razionali. Ma non è vero che abbiamo perso il senso dell’autorità. Magari facciamo fatica a riconoscerla, ma nel nostro cuore ne avvertiamo la presenza. L’autorità divina, nel corso del tempo, è stata via via mediata da istituzioni come la Chiesa, la Monarchia, la Legge, che in tal modo si sono impadronite di quella eredità. Così anche oggi, pur portati a dubitare dell’esistenza dell’autorità divina, conserviamo comunque un’idea di autorità. Un buon esempio è offerto dalla Legge, specialmente qui in Inghilterra, dove è molto rispettata: riconosciamo che è creata dalle persone, ma riveste un’autorità che supera le persone. Ecco un altro punto su cui la teoria postmodernista e iper-individualista fa acqua. Di fronte a un criminale che attenta alla nostra incolumità, tutti, compresi i filosofi postmodernisti, invocano l’autorità della legge».
Per lei è centrale la figura di T. S. Eliot e quell’idea di «buon senso» che cerca di alimentare nel lettore.
«Eliot parla del “comune perseguimento del giudizio vero”. E si ritorna così alle cose di cui stavamo discutendo. Quando cerchiamo di fare qualcosa in comune mettendo da parte le pulsioni individuali, quando assumiamo il punto di vista dell’altro alla pari del nostro, scopriamo che il significato più profondo della vita umana è la ricerca dell’armonia. E l’arte è parte essenziale di questa ricerca. Ecco perché l’esercizio critico di Eliot spinge verso una forma di giudizio tesa al “giusto sentimento”: non perché vuole gli esseri umani identici gli uni agli altri, ma perché li vuole in uno stato di armonia. Così come dovrebbe accadere a una buona famiglia seduta per cena intorno a un tavolo».
Le chiedo: è ancora possibile definire uno standard comune del gusto?
«Più che altro mi sembra necessario tornare ai paradigmi della nostra tradizione. Se lei entra agli Uffizi e vede la Venere di Botticelli e poi torna a casa e ascolta una fuga di Bach, magari non saprà il come e il perché, ma sente che ha a che fare con delle cose straordinariamente belle. Questi veri e propri tesori andrebbero rimessi in movimento nel processo educativo, consentendo alle persone di stabilire con loro una relazione creativa: sulla base della propria esperienza, dei propri convincimenti, delle proprie associazioni mentali. Per tornare a distinguere, in modo immediato, ciò che è bello da ciò che non lo è. Ma è proprio questa immediatezza condivisa che manca. Mentre in determinati ambiti, penso al cibo, si assiste a un indubbio raffinamento
generale, forse non altrettanto si può dire dell’arte. Tra un’opera di William Kentridge e una di Damien Hirst per me c’è un abisso evidente, ma a giudicare dal successo del secondo la cosa non è affatto pacifica. E qui si torna al discorso sulla celebrità. Hirst si muove dentro quella logica e dunque propone delle “opere”, soi disant, che devono soltanto colpire, impressionare, scioccare. Non c’è niente di particolare da capire e non bisogna applicarsi più di tanto. Tutto è facile, come accade nell’universo delle celebrità. Il fatto è che un tempo, nei confronti dell’opera, c’era un autentico interesse estetico, volto a cercarne il suo senso spirituale, morale, politico. Ora tutto questo è scomparso, a vantaggio di un’occhiata distratta, la stessa che si può rivolgere a un’inserzione pubblicitaria».
Lei sostiene però che esiste un ambito in cui è facile per chiunque distinguere il buon gusto dal cattivo gusto: l’umorismo.
«Si immagini un mondo in cui si ride soltanto delle disgrazie altrui. Sarebbe un inferno. Se un bambino si diverte a scherzare offendendo il prossimo, il genitore lo riprende. Magari il bambino continua, perché i bambini, si sa, sono crudeli. Ma crescendo, imparerà a non farlo più. Imparerà a ridere in modo meno infantile. Più adulto. Prenda le commedie di Molière: se sono così meravigliose è perché mettono in burla degli aspetti umani che ci fanno davvero capire qualcosa di più su di noi. Mentre, viceversa, esistono delle farse grossolane che non ci insegnano nulla e indulgono inutilmente su istinti primitivi. Come vede, possiamo perfettamente distinguere tra humour educato o meno. E questo dovrebbe valere per l’intero l’ambito estetico».
Viviamo una stagione, lei dice, di profanazione dell’arte. Non pensa che questo accade perché non ci sentiamo all’altezza di ciò che la vera arte ci richiede?
«Confrontandosi seriamente con l’arte, ci accorgiamo che essa ci chiede di essere delle persone “migliori”. Ci chiede di vivere a un livello spirituale superiore. Lo si avverte bene confrontandosi con l’opera di Wagner, che invita a un ideale eroico rispetto al quale lo spettatore non si sente, per l’appunto, all’altezza. Perciò si preferisce ridicolizzare le sue opere, come avviene puntualmente in moltissimi allestimenti. Penso che parte del problema sia proprio questo: l’arte impone un confronto con modelli spirituali e morali che non riusciamo a sostenere».
A dire il vero, però, già i romantici inglesi parlavano di fascino della corruzione…
«Se è per questo anche Baudelaire. E poi Eliot nella Terra desolata.
Ma Eliot descrive ciò che è sordido con parole che rimandano all’esatto contrario. La vita, nelle sue forme più basse, infime, viene riscattata attraverso l’arte e la bellezza».
Oltre alla profanazione, lei indica come ulteriore nemico dell’arte, il kitsch. Quali sono i due differenti ruoli di queste figure?
«Il kitsch incarna una bellezza falsa, la profanazione invece rappresenta un attacco alla sacralità della bellezza. Il kitsch risponde a un desiderio ancora diffuso di raggiungere una certa idealizzazione umana senza pagare alcun prezzo. E così si trasforma in una falsa emozione. La profanazione è una vera e propria vendetta nei confronti della bellezza e della sua funzione di innalzamento spirituale. Perché la bellezza non passa soltanto attraverso i sensi, ma impegna tutto il nostro essere. Rappresenta una sorta di rivelazione di ciò che siamo e di ciò che il mondo è per noi: insomma, è la risorsa più grande di una vera e propria riconciliazione».
Lei però afferma che questa riconciliazione, questa felicità, non è figlia del piacere. È piuttosto legata al sacrificio, all’abnegazione.
«È il messaggio della civiltà cristiana. La felicità si lega alla capacità di riconoscere il nostro vicino, di amarlo come amiamo noi stessi. Non è forse anche questa una forma di disciplina dell’abnegazione? Mettendo noi stessi al di sopra di tutto il resto, non incontreremo nessuna soddisfazione, ne stia pur certo. Cancelleremo il prossimo e creeremo un vuoto intorno a noi. È una lezione molto semplice, ma molto profonda. I nostri nonni e i nostri genitori lo avevano imparato leggendo i Vangeli. Noi forse ci arriveremo percorrendo un’altra strada».
(6-fine)

Repubblica 15.1.13
Le radici della crisi delle forze progressiste e i valori su cui rifondare il futuro raccontati in un saggio di Carlo Galli
New new deal
Ecco perché la sinistra deve ripartire dal lavoro
di Guido Crainz


Dove affonda le sue radici la crisi profonda della sinistra, il suo apparente ritrarsi in un passato ormai perduto? Rinvia solo alla dimensione della memoria quel vasto universo di differenti sinistre laiche o “di classe”, quell’«orizzonte di esperienza e di speranza, di soggezione e di ribellione, di ragioni e di passioni, di vittorie e di sconfitte » che è parte costitutiva della nostra storia? Dove trae origine quell’apparente inversione di ruoli nello scontro fra “vecchio” e “nuovo” che sembra talora confinare la sinistra a un ruolo “conservatore”? Qual è infine la specificità italiana, con quali modalità si sono prodotte da noi le lacerazioni del neoliberismo, si sono accumulate le sue macerie, si sono quasi dissolti gli anticorpi possibili? E, soprattutto, quali possono essere gli strumenti analitici e i contenuti di una rifondazione della sinistra capace di innescare nuovi percorsi e di dar corpo a un nuovo progetto?
Da domande come queste prende esplicitamente avvio l’ultimo libro di Carlo Galli,
Sinistra. Per il lavoro, per la democrazia(in uscita oggi da Mondadori), con l’altrettanto esplicita “avvertenza” che si tratta di un saggio «provocatorio e inattuale, perché parla di politica come di una cosa seria, sottratta al ghigno e al vituperio». Ne parla intrecciando gli strumenti della politica e della storia a quelli della filosofia. Rinviando costantemente, ad esempio, ai filoni del razionalismo, del pensiero dialettico e di quello negativo, pur avvertendo che nell’intreccio con la filosofia la politica «corre il rischio di essere plagiata [...], di svanire in una astratta e geometrica necessità». Un rischio, certo: eppure quell’approccio intellettuale offre illuminazioni e aperture, suggerisce “spiazzamenti” e talora rovesciamenti di prospettive. In primo luogo nel delineare le differenti forme in cui la sinistra si configura (e si rappresenta): sinistra come soggetto, come parte di una società ma anche come orientamento che essa vuol imprimere all’insieme, al tutto.
Altrettanto utile è poi la periodizzazione proposta, che al Novecento come “secolo breve” di Eric Hobsbawm, concluso dalla fine del comunismo, sostituisce una sorta di “secolo lungo” che si inoltra in quello successivo ed è scandito da “quattro rivoluzioni”: quelle segnate dal comunismo, dal fascismo, dallo Stato sociale e dal neoliberismo. Lo sguardo si concentra soprattutto sulle ultime due, analizzate nei loro contorni generali e nelle modalità con cui investono e trasformano il nostro Paese. A partire dal traumatico passaggio dall’una all’altra, dalla metà degli anni Settanta, quando iniziano a venir meno alcuni presupposti delle politiche dello Stato sociale: una fase espansiva dell’economia, un’idea forte e condivisa di uguaglianza e di progresso, e così via. Nella rivisitazione di Galli si snodano differenti tappe e “rotture”: la crisi petrolifera, la fine del fordismo, la diffusione della produzione flessibile e l’avanzare dei processi di globalizzazione; il trionfo del neoliberismo, a partire dall’Inghilterra di Margaret Thatcher e dagli Stati Uniti di Ronald Reagan, con l’attacco frontale allo Stato del welfare e con processi colossali di polarizzazione della ricchezza, di disaggregazione e di tendenziale distruzione dell’ampio corpo sociale (ceto medio, in senso ampio) che si era modellato sin lì.
E con le narrazioni che accompagnano l’affermarsi di quella “rivoluzione conservatrice”: il primato dell’economia, dell’individuo e dell’“utile”; l’affermarsi di un «mondo euforico dell’eccesso» in cui tutto sembra possibile; il ripudio (ideologico, e in realtà tutto “politico”) della politica, con il contemporaneo trasformarsi di essa in «spettacolo o egemonia carismatica […] una sorta di populismo dall’alto». E poi la “fine delle ideologie” e la presunta obsolescenza delle categorie di Destra e Sinistra. Con una specificità italiana: la “modernizzazione” degli anni Ottanta, annota Galli, si presenta da noi sotto la più accentuata forma dell’euforia sociale e della corruzione politica, appannando quegli stessi elementi che altrove inducono comunque innovazione, se non progresso. E la seconda Repubblica, con la sua forte impronta berlusconiana, appare così l’espressione più compiuta della “rivoluzione neoliberista”, in qualche modo la “prosecuzione con altri mezzi” degli anni Ottanta.
Si consuma in questo percorso anche l’esperienza del più grande partito comunista dell’Occidente, nel suo tradizionale porsi come cardine della nostra democrazia e al tempo stesso come asse di un possibile superamento di essa, o dei suoi limiti. Tensione irrisolta, nella prima Repubblica: fase coincidente, sostanzialmente, con quella costruzione concreta del welfare di cui il Pci non fu — storicamente non poteva essere — protagonista diretto. Ma se da quella fase il Pci è “sfidato”, annota Galli, dal neoliberismo è sconfitto, e la periodizzazione appare indubbiamente convincente. Con l’irrompere degli anni ottanta crollano davvero alcuni suoi architravi essenziali: l’“egemonia della classe operaia”, ad esempio, viene sostanzialmente “espulsa” dal discorso pubblico a partire dalla marcia dei quarantamila della Fiat, nel 1980 (ma era stata messa in discussione già prima, sul versante opposto, da alcuni tratti del “movimento del ’77”). Vi è al tempo stesso il cupo tramonto degli ultimi miti internazionali, o la crescente messa in discussione — sull’onda dello shock petrolifero — dell’idea stessa di sviluppo. Infine, nel degradare del “sistema dei partiti” affonda
la vecchia idea togliattiana — riproposta in nuova forma da Berlinguer — dell’“alleanza fra i tre partiti di massa” come cardine della trasformazione possibile. Ce n’è d’avanzo: il Pci si trova a navigare nei flutti impetuosi dell’ondata neoliberista senza più rotta, e alla sua scomparsa lascia una sinistra disaggregata e flebile. Inadeguata e “senza parola”, poi, di fronte allo stesso tramontare di quella fase, nel nuovo secolo e nel vivo di una acuta crisi internazionale: con il passaggio «dall’economia del desiderio all’economia del debito, dal dinamismo alla stagnazione, dal progresso alla recessione».
Siamo così all’oggi, e vi sono pagine molto illuminanti sulla temperie culturale e politica più recente, ad esempio sulla divaricazione fra una sinistra riformista e i diversi filoni della sinistra radicale (pallida riproposizione di antiche fratture). O, anche, sulle forme nuove di antipolitica e sulle differenti modalità dell’astensione e della protesta. Si inserisce qui la proposta fondativa del libro, volta a rovesciare le “sofferenze” e le lacerazioni maggiori degli ultimi trent’anni, i guasti più profondi del neoliberismo. La proposta cioè di rilanciare in forme nuove, e in un quadro europeo molto più coeso dell’attuale, quel nesso fra lavoro e democrazia che la Costituzione sancisce e che è stato l’idea guida della difficile e contraddittoria costruzione del welfare in Italia. La delineazione, in altri termini, di una sorta di new New Deal, a partire da politiche pubbliche volte ad accrescere la forza, il peso e la dignità materiale e culturale del lavoro: nella piena convinzione che «una società migliore per il lavoro è una società migliore per tutti».

Repubblica 12.1.13
L’illusione economica
Finito il mondo di Stranamore e degli scudi spaziali, è la Borsa il luogo dove si definisce la verità
Qualunque dottrina che volesse presentarsi come collezione di nudi fatti si ridurrebbe a mero arbitrio
di Maurizio Ferraris

Nel Conflitto delle facoltà (1798) Kant mette in scena una contesa tra, da una parte, la medicina, la giurisprudenza e la teologia, che definisce "facoltà superiori" (perché offrivano sbocchi di lavoro, compresa la teologia che avviava alla professione di pastore) e, dall´altra, la "facoltà inferiore" rappresentata, manco a dirlo, dalla filosofia. Kant si augurava che sarebbe venuto il giorno in cui la facoltà inferiore avrebbe preso il sopravvento. Non poteva sapere che un suo contemporaneo, Adam Smith, professore di filosofia morale a Glasgow, con l´Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni (1776) aveva gettato le basi di quella che oggi è la facoltà superiore per eccellenza, che detta legge anche al diritto, alla medicina e alla teologia: l´economia.
In un certo senso, la storia degli ultimi due secoli è la vicenda della ascesa politica di questa scienza, i cui cultori diventano consulenti del sovrano e poi sovrani essi stessi. Ancora per tutto il Novecento, si direbbe che la tecnica propedeutica alla politica rispetti la tripartizione delle funzioni della tradizione indoeuropea studiata da Dumézil: guerrieri, sacerdoti (ossia anzitutto tutori delle leggi) e agricoltori. Tolti gli agricoltori (per i quali solo i fisiocrati e Tolstoj avevano immaginato un posto di comando), la leadership va naturalmente alle prime due categorie. Si pensi ai responsabili della politica all´inizio del secolo scorso. Ai vertici c´erano ancora dei sovrani per diritto ereditario e soprattutto molti militari. Accanto a loro c´erano i giuristi, che traevano il loro potere dall´essere insieme uno strumento tecnico dell´attività legislativa sia un´istanza di controllo, tanto a livello nazionale, quanto – in organizzazioni come le Nazioni Unite – internazionale. Così, tra i presidenti della Repubblica italiana (compreso De Nicola) abbiamo sette laureati in giurisprudenza, due in economia, due in lettere. La prevalenza dei giurisprudenti si ritrova anche tra i presidenti Usa del dopoguerra: sei laureati in legge, quattro militari, un attore, un economista.
Ma non è difficile prevedere che fra qualche anno molti dei premier e dei capi di stato saranno economisti. Forse possiamo anche datare il momento della svolta. Correva l´anno 1992, durante la campagna di Clinton contro Bush padre, e lo slogan clintoniano era: «The economy, stupid!». Solo tre anni prima non sarebbe stato uno slogan praticabile: perché non c´era nessuna possibilità di universalizzare l´economia, vista l´ovvia persistenza dei due blocchi, uno dei quali subordinava apertamente l´economia alla politica. Scomparso quel blocco, sembra che non si possa fare politica senza economia, e soprattutto l´economia è diventata ciò con cui la politica deve misurarsi come di fronte a una oggettività ineludibile.
Perché il punto è proprio questo. L´economia non trae prestigio dalla propria efficacia terapeutica (come avviene, poniamo, per la medicina), ma dall´idea che è lei a stabilire il principio di realtà con cui si devono misurare i politici e i cittadini. Finito il mondo di Stranamore e degli scudi spaziali, della competizione a colpi di razzi e astronavi, finito il mondo del diritto internazionale come alternativa alla guerra, il luogo in cui si definiscono i valori, a partire ovviamente da quello pregiato della oggettività, della realtà e della verità è il mercato finanziario. Un mercato, che, per inciso, è stato l´autentico veicolo della globalizzazione: un impero in cui letteralmente non tramonta mai il sole. Nel 1886, in Al di là del bene e del male, Nietzsche aveva scritto che «i veri filosofi sono coloro che comandano e legiferano: essi affermano "così deve essere!", essi determinano in primo luogo il "dove" e l´"a che scopo" degli uomini (…) Il loro "conoscere" è creare, il loro creare è una legislazione, la loro volontà di verità è – volontà di potenza». Questi filosofi non si sono fatti avanti, e in tutta sincerità non ne sentiamo la mancanza. Ma – nell´epoca dello spread e delle agenzie di rating – molto di quello che dice Nietzsche sembra applicarsi al ruolo dell´economia come principio di realtà dell´epoca contemporanea.
Tuttavia siamo sicuri che l´economia sia il candidato più attendibile a incarnare il principio di realtà? Se c´è un ambito in cui vige il principio "non ci sono fatti, solo interpretazioni", questo è proprio la sfera dell´economia. Così, in Creare il mondo sociale (Raffaello Cortina, 2010), il filosofo americano John Searle non esita a dire che la recente crisi economica dimostra come il denaro sia frutto di una massiccia immaginazione. Come dire che se c´è un campo in cui i fatti sembrano di gran lunga superati dalle interpretazioni, questo non è, come un po´ futilmente sostenevano molti epistemologi del secolo scorso, la fisica, ma l´economia. Un ambito in cui si dice, per esempio, che "non ci si può più permettere lo stato sociale" con la stessa sicurezza con cui diremmo che la terra ruota intorno al sole o che la fotosintesi produce glucosio e ossigeno, sebbene (lo ricorda recentemente Federico Rampini in Non ci possiamo più permettere uno Stato sociale. Falso!, Laterza) si tratti, molto più che di un fatto, di una interpretazione.
Ora, esattamente come il diritto (cioè come il suo immediato predecessore in quanto tecnica e principio di realtà della politica), l´economia ha a che fare con degli oggetti sociali, ossia con oggetti che dipendono dai soggetti. In fondo, come ricorda a giusto titolo Giuseppe Zaccaria in La comprensione del diritto (un altro illuminante libro uscito recentemente da Laterza) la giurisprudenza sarebbe un mero arbitrio se si volesse presentare come una collezione di nudi fatti non accompagnati da interpretazioni. Così, nessuno certo si sognerebbe di negare che esista una realtà economica, proprio come esiste una realtà giuridica. Ma è anche necessario sapere che questa realtà, così come tutti gli ambiti in cui si assiste alla produzione di oggetti sociali, deve essere sistematicamente interpretata e relativizzata. È qui, e non nel mondo degli oggetti naturali, che c´è un grandissimo bisogno di ermeneutica, ed è singolare che ce ne sia così poca, dopo tutto il turbinio di interpretazioni che ha caratterizzato la filosofia del secolo scorso.