mercoledì 16 gennaio 2013

l’Unità 16.1.13
Bersani: nelle urne non fate regali al Cav
Il leader Pd a Ingroia: in alcune Regioni chi non sostiene il Pd favorisce Berlusconi
di S. C.


«Tutti conoscono la situazione politica e la legge elettorale. E bisogna che tutti riflettano, che ciascuno si prenda le sue responsabilità». Pier Luigi Bersani risponde a una domanda sull’ipotesi di un patto di desistenza con Rivoluzione civile, ma non è solo pensando ad Antonio Ingroia che parla. Il leader del Pd sa che la partita si giocherà al Senato in tre regioni: Lombardia, Campania e Sicilia (il Veneto, dopo che si è rinsaldato l’asse Pdl-Lega, la strada è più in salita). Nella prima, a complicare le cose, c’è la «salita» in politica a tutto tondo di Mario Monti, che si è schierato a sostegno di Gabriele Albertini contro Umberto Ambrosoli. Nelle altre due regioni, ci sono le liste arancioni dell’ex pm che potrebbero far allontanare il premio di maggioranza dal Pd, che raggiungano o meno l’8% necessario per ottenere seggi a Palazzo Madama. E allora Bersani ha deciso di giocare la carta del voto utile.
Con Ingroia non ci sarà alcun «patto», fa sapere, perché troppo profonde sono le distanze politiche. Però il punto rimane, perché «esiste la politica ed esiste anche la matematica di una legge elettorale», spiega Bersani. In base al Porcellum il premio di maggioranza viene assegnato al Senato su base regionale. E le simulazioni fatte al quartier generale del Pd evidenziano che un governo stabile potrà esserci nella prossima legislatura soltanto se il centrosinistra vince in almeno due delle regioni chiave.
Così dal Nazareno partiranno presto lettere di Bersani in cui si chiederà agli elettori di Lombardia, Veneto, Campania, Sicilia di scegliere la «stabilità», alle urne, il 24 e 25 febbraio. Un concetto che il leader del Pd anticipa a voce, parlando non solo del rapporto con le liste arancioni. «In Lombardia se uno non sostiene Ambrosoli fa un piacere a Maroni. In Italia chi non sostiene il Pd, in particolare al Senato e in particolare in alcune regioni, fa un regalo a Berlusconi. Questa è matematica. Tradotto in politica vuol dire che il Pd e i progressisti reggono la sfida alla destra di Berlusconi e della Lega. Bisogna che tutti facciano una riflessione su questo, che ciascuno si prenda le sue responsabilità. C’è qualcun altro che può dire io da solo batto Berlusconi? Siamo noi che possiamo dirlo. Questo è il punto di questa campagna elettorale».
Non è un caso se Bersani tira dentro anche la vicenda delle elezioni regionali in Lombardia. Il sostegno di Monti ad Albertini «rende tutto più complicato in quella regione», è il timore confessato ai suoi dal leader Pd. Che non si capacita di come il premier possa muoversi in questo modo, conoscendo lui bene i meccanismi del Porcellum. Per di più, dopo che a Monti è stato anticipato che pur puntando al 51% il Pd agirà come se avesse preso il 49%. «Serve una solida maggioranza perché la prossima legislatura dovrà realizzare una ricostruzione economica, politica, sociale e ci vorrà un governo stabile è il ragionamento di Bersani e il centrosinistra farà una proposta larga e convergente». Per questo Bersani ha apprezzato certe aperture del premier verso il centrosinistra, ma invita anche a rivedere la strategia, perché rischia
di fare un favore soltanto a Berlusconi. «Prendo atto delle dichiarazioni di Monti che hanno un tono positivo. Sono contento di questo. In alcune situazioni non bisogna sottovalutare il centrodestra perché in diverse realtà è presente e usa le leve demagogiche e la potenza dei suoi mezzi. Non siamo indietro dice rispondendo a domande sulla situazione nelle regioni in bilico come la Lombardia o la Sicilia tuttavia la battaglia è difficile. Per questo invito ad una riflessione».
Ora Bersani farà partire la seconda fase della sua campagna elettorale, in giro per l’Italia insieme ai candidati parlamentari, con i leader e capi di Stato e di governo europei (l’8 e 9 febbraio a Torino), insieme a Matteo Renzi, che tornerà in televisione il 23, alla prima puntata delle Invasioni barbariche di Daria Bignardi. Come concordato con il segretario democratico in un pranzo di alcuni giorni fa, il sindaco di Firenze andrà anche in diversi talk show a sostenere la candidatura di Bersani a Palazzo Chigi. E anche per il leader Pd ora si intensificheranno le presenze televisive. Ieri a Ballarò, stasera il segretario democratico sarà l’ospiete della prima puntata di Italia Domanda, su Canale 5. Al contrario di Berlusconi, però, Bersani impiegherà le settimane che mancano al voto soprattutto facendo comizi nelle piazze e nei teatri, «sempre senza raccontare favole». Già, perché anche alcune recenti uscite del premier suscitano non poche perplessità tra i vertici del Pd. Dice Dario Franceschini: «Il Monti candidato propone di tagliare le tasse che non ha tagliato il Monti premier. Non si risponde al pifferaio suonando il piffero».

La Stampa 16.1.13
Bersani si appella al voto utile per battere il Pdl
Il segretario teme i centristi in Lombardia e “Rivoluzione civile” in Campania e in Sicilia
De Magistris non ci sta «Siamo noi la novità di questa gara elettorale Desistere è un errore»
di Amedeo La Mattina


A Bersani sono piaciuti i toni usati da Monti contro Berlusconi pifferaio e vecchio illusionista, ma il segretario del Pd non dimentica l’errore del Professore di sostenere Albertini in Lombardia. Una mossa che a suo avviso favorisce Maroni e il centrodestra. Il premier però non è dello stesso avviso, anzi pensa che l’ex sindaco di Milano sia una spina nel fianco al leader della Lega e del Pdl perché viene dal quel mondo, quello dei moderati.
Lo dirà il responso delle urne chi ha ragione. Una spina nel fianco dei Democratici sono sicuramente le liste di Rivoluzione Civile di Ingroia che potrebbero far mancare al Pd il premio di maggioranza in Campania e in Sicilia. Ma con l’ex magistrato non ci sono patti di desistenza da fare, come quelli sottoscritti da Prodi e Bersani nel ’96. Nè patti né inciuci: serve il voto utile degli italiani che non devono disperdere il loro consenso nei partiti minori se voglio fermare Berlusconi. Ecco Bersani ieri da Catanzaro ha lanciato questa offensiva che ha presentato sotto forma di «riflessione». ma è un vero e proprio allarme che lascia i nervi scoperti. «Il Pd e i progressisti reggono la sfida alla destra, a Berlusconi e alla Lega, e questo - precisa Bersani - è l’oggetto della campagna elettorale. Ciascuno deve prendersi le sue responsabilità. Qualcun altro può dire che da solo batte Berlusconi? No, solo noi possiamo farlo». E ancora: «Chi non sostiene il Pd al Senato, e in alcune Regioni, fa un favore a Berlusconi».
Il Cavaliere, insomma, è l’uomo nero da non sottovalutare perché «usa le leve demagogiche e la potenza dei suoi mezzi». Il centrosinistra, assicura Bersani, è ancora avanti nelle intenzioni di voto, ma non si nasconde che «la battaglia è difficile». Ora Ingroia e Monti dovranno calibrare bene le loro mosse. A Largo del Nazareno diffidano della disponibilità mostrata dall’ex Pm di Palermo ad alleanze, a discutere di programma. Il Pd vorrebbe l’eclissi di Rivoluzione Civile in Campania e Lombardia, ma così non sarà. L’unica via d’uscita è nelle urne con il voto utile al più grande partito della sinistra e al suo alleato, il Sel di Vendola. Ma Ingroia non ci sta a passare per il Cavallo di Troia del suo arcinemico Berlusconi. «Caro Pierluigi, parliamone. Senza di noi il tuo voto è inutile». Di Pietro propone un’alleanza programmatica di governo, se non prima almeno dopo le elezioni: «Il centrosinistra si ravveda dal proposito suicida di affidarsi ancora a Monti. Ma caro Pierluigi, hai la sindrome di Stoccolma? ». Altro che voto inutile, osserva De Magistris che in Campania spinge forte la lista a scapito del Pd, «Rivoluzione Civile è l’unica novità che c’è nel panorama politico. E facendo la desistenza la novità diventa qualcosa di ammuffito».
L’appello al voto utile serve a depotenziare anche Monti e rendere più facile la corsa in Lombardia di Ambrosoli che un sondaggio Ipsos dà in lieve vantaggio su Maroni, mentre per le politiche il centrodestra è avanti di un solo punto. Una distanza che il Cavaliere invece fissa al 4,5%.
Un gap preoccupante per i Democratici che porta D’Alema a dire che «grazie al Terzo Polo si rischia di regalare a Berlusconi 27 senatori e di lasciare quella Regione, insieme a Piemonte e Veneto, nelle mani della Lega». «Già - replica Casini - ho sempre saputo che D’Alema ama il centro ma lo vorrebbe piccolo piccolo, magari presidiato solo da Casini. Invece, noi vogliamo fare qualcosa di più grande di un centrino che conta poco».

Repubblica 16.1.13
Bersani: “Patrimoniale sopra 1,5 milioni e chi non vota Pd aiuta Berlusconi”
Impegno a riequilibrare l’Imu e a cancellare le leggi ad personam
di Giovanna Casadio


ROMA — Comincia con l’appello al voto utile la campagna elettorale del centrosinistra. Bersani è a Catanzaro — una tappa per le elezioni comunali suppletive. L’avvio ufficiale della campagna elettorale sarà domani, nella manifestazione con i giovani a Roma. Il segretario democratico lancia l’allarme: «Chi non sostiene il Pd, in particolare al Senato e in alcune Regioni, fa un regalo a Berlusconi, occhio alla matematica». Sul tavolo di Bersani ci sono due dossier aperti: il patto con Ingroia e i sondaggi, che segnalano forti rischi per i Democratici.
Il leader del Pd smentisce accordi con gli ingroiani. Però insiste sull’avviso di pericolo, spiegando che «esiste la politica ma anche la matematica della legge elettorale: in Lombardia se uno non sostiene Ambrosoli fa un piacere a Maroni, in Italia chi non sostiene il Pd, soprattutto in alcune Regioni, fa un piacere a Berlusconi ». Dirà poi, in tv a Ballarò: «Indebolire il Pd è un gioco masochista ». Ne sono consapevoli sia Ingroia che Monti? L’ex procuratore di Palermo tuttavia non ci sta ad accordi di desistenza, che significa evitare di presentarsi per il Senato nelle Regioni in bilico, così da non sottrarre voti ai Democratici. «Parliamone», afferma Ingroia. Il dialogo cioè non è precluso. Però ricorda di avere telefonato in passato, e il telefono squillava a vuoto, e mandato sms a Bersani. «Il nostro è il voto utile — contrattacca — e siete voi inutili senza di noi». Gli ingroiani sarebbero casomai disponibili a una trattativa politica. Lo è Di Pietro, che chiude: «Desistenza sarebbe cosa da Ponzio Pilato. L’ultima cosa che può e deve fare chi si accinge a compiere una rivoluzione civile, è fare un patto di desistenza con l’avversario». Provocatoriamente, Di Pietro chiede al leader democratico: «Luigi, ma che hai la sindrome di Stoccolma? », riferendosi alle avance rivolte a Monti. Al netto delle polemiche, ci sono i sondaggi. Tuttavia Bersani assicura: «Non temiamo la rimonta della destra, non corre per vincere ma per azzoppare la nostra vittoria ». E sul futuro programma del governo di centrosinistra, annuncia che introdurrà la patrimoniale. «Sì all’imposta sui grandi patrimoni immobiliari, da un valore catastale di 1,3-1,5 milioni», via invece tutte le leggi ad personam: «Ce ne sono un certo tot. La Cirielli va cancellata, la Gasparri da modificare, insomma ce n’è un po’ finché c’è la persona... ». La legge sul conflitto d’interessi sarà una priorità.
Sui sondaggi. Il centrodestra sbandiera quello in cui in Lombardia è dato in vantaggio. Ma il segretario regionale democratico, Maurizio Martina mostra il sondaggio Ipsos in cui tra Ambrosoli e Maroni per la presidenza della Regione è testa a testa, una sfida all’ultimo voto (39,8% per il democratico e 39,6 per il leghista), mentre alle politiche c’è un punto di stacco (Bersani al 33,8 e Berlusconi al 34,7, mentre Monti è dato al 15,1%). Ieri a Largo del Nazareno, la sede del partito, c’è stata una riunione su come organizzare la campagna elettorale lombarda tra Maurizio Migliavacca e Daniele Marantelli, il deputato di Varese. Il Pd punta a non sbagliare mosse, del resto è da Bergamo che parte il tour elettorale di Monti. E Bersani sarà a Milano sabato, nella seconda tappa della sua campagna.
Ai moderati montiani il Pd offre invece un’alleanza post voto sulle riforme. D’Alema bacchetta: «Monti rinunci all’antipolitica», però precisa che «una forma di collaborazione tra progressisti e moderati è indispensabile». Lo spiega in un capitolo appena aggiunto al librointervista con Peppino Caldarola («Controcorrente » Laterza), in cui parla della sfida tra politica e antipolitica. E agli «indecisi, arrabbiati e delusi dalla politica» sarà rivolta la campagna elettorale del candidato premier del centrosinistra. Bersani ieri ha fatto un punto con il suo staff, prevedendo una trentina di tappe in giro per l’Italia.

il Fatto 16.1.13
Franca Rame
Elezioni 2013, appello al Pd: “Via dalle liste gli impresentabili”
Pubblichiamo una lettera aperta di Franca Rame rivolta a tutti i cittadini affinché, con le loro firme, convincano il segretario del Partito democratico Pier Luigi Bersani a eliminare dalla competizione elettorale i nomi degli “indegni”: condannati, imputati, indagati, portatori di conflitti d’interesse e amici degli amici
di Franca Rame

qui
 

il Fatto 16.1.13
Impresentabili. Caro Bersani che fai, li cacci?
di Caterina Perniconi


Io non voglio entrare in casa d’altri, ma è una questione di credibilità delle istituzioni. Bisogna fare pulizia, basta impresentabili”. Antonio Ingroia e Pier Luigi Bersani continuano a dialogare a distanza. Un incontro ancora non c’è stato e i tempi per realizzare un patto di desistenza al Senato sono stretti, manca meno di una settimana alla presentazione delle liste.
LE CONDIZIONI sono molto diverse: il leader del Pd chiede agli arancioni di rinunciare a candidarsi per “senso di responsabilità”. Ingroia vuole invece parlare di accordi politici e, soprattutto, liste pulite. “Il nodo degli impresentabili è un problema serio – spiega l’ex procuratore – dopo i decenni di impunità imposta dal berlusconismo, deve iniziare la fase della responsabilità che non è solo penale ma è politica. Non devono restare fuori solo i condannati in via definitiva, ma anche chi ha nel suo curriculum illeciti gravi”. Da Crisafulli a Papania, da Capodicasa a Oliverio, oggi la Commissione di garanzia del Pd dovrà leggere le autocertificazioni dei candidati a rischio e valutare la loro possibile esclusione dalle liste. Ci sono criteri oggettivi – quelli richiesti dallo statuto e dal codice etico – e ragioni di opportunità politica a cui Luigi Berlinguer potrà appellarsi. “Il Pd ha deciso legittimamente di mettere un correttivo alle candidature con il listino per individuare delle personalità meritevoli di essere elette. Perché, allora, non è possibile fare il contrario? – chiede ancora Ingroia ai democratici – quando ci sono fatti che si impongono all’elezione, bisogna dire a un politico togliti di mezzo”.
UN ALTRO OSTACOLO sulla strada di un accordo tra il Pd e Rivoluzione civile è il parere divergente sulla sentenza della Consulta sul conflitto tra il Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, e i pm di Palermo arrivata ieri. “Il presidente della Repubblica deve poter contare sulla riservatezza assoluta delle proprie comunicazioni, non in rapporto ad una specifica funzione, ma per l’efficace esercizio di tutte” scrive la Consulta. Plaude il Pd con l’ex procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso che definisce la sentenza “chiarificatrice”.
Molto diverso il parere di Ingroia: “Da oggi cambiano gli equilibri tra i poteri dello Stato. La motivazione amplia le prerogative del presidente della Repubblica a discapito del controllo della legalità. Il potere giudiziario fa un passo indietro rispetto alla politica che rende i suoi vertici sempre più immuni e impermeabili ai controlli”.
Ingroia comunque non desiste. Né politicamente né nella speranza di un incontro con Pier Luigi Bersani. Ma nel movimento non tutti la pensano come lui: “Desistere? Piuttosto parliamo di Resistere – dice il sindaco di Napoli, Luigi De Magistris – se si dovesse praticare la desistenza non ci sarebbe il sostegno del Movimento Arancione alla Rivoluzione Civile. Ma dato che c’è un legame indissolubile tra Movimento Arancione e Rivoluzione Civile, ritengo che questa sia una proposta o un auspicio legittimo da parte del Pd, ma che per noi resta politicamente irrealizzabile”. Un messaggio chiaro all’ex inviato Onu in Guatemala: niente democratici o ti scordi i miei voti in Campania.
SICILIA E CAMPANIA sono infatti le casseforti di voti di Rivoluzione civile che in quelle due Regioni chiave è dato dai sondaggi in doppia cifra, tra l’11 e il 12 per cento con una media nazionale del 5 per cento. E per espugnare territori più difficili, Ingroia vorrebbe puntare su volti noti come il fotografo di gossip Antonello Zappadu in Sardegna, che non ha ancora sciolto la riserva. Immortalò lui Silvio Berlusconi a Villa Certosa in compagnia di varie ragazze. La prossima volta potrebbe fotografarlo in Parlamento, mentre fa il gesto delle manette a Ingroia, proprio come ieri negli studi di La7.

il Fatto 16.1.13
D’Alema: “Crisafulli? È bravo”
di Wanda Marra


Crisafulli? Ha fatto le primarie, ha vinto, è bravo, è giusto che ci sia. E querelerà il Fatto e vincerà”. Non si può dire che Massimo D’Alema sia uno che non ci mette la faccia. Ieri alla presentazione del libro intervista con Peppino Caldarola, Controcorrente, c’era una claque di affezionati. Tra loro, lo stesso Crisafulli. “Era qui? No, non ci ho parlato”. In effetti, è stato poco, è andato via prima della fine. Ma la scelta di presenziare è significativa: un modo di ribadire un’appartenenza. D’Alema, dal canto suo, nel libro mentre parla degli “arancioni” dice: il centrosinistra deve parlare agli elettori che chiedono “rinnovamento e rigenerazione della politica. Il qualunquismo e il giustizialismo sono estranei alla nostra cultura e alla nostra civiltà, non credo debbano esserci cedimenti”. Con buona pace di patti e desistenze. Una delle (tante) prese di posizione lapidarie del pamphlet. Che, chiarisce ieri il Lìder Maximo, “è un libro di battaglia politica. Mica le mie memorie. Con la rinuncia alla candidatura ho fatto la mossa del cavallo: mi sono riposizionato e mi sono riconquistato il diritto di parola”.

Corriere 16.1.13
Lo scontro interno sul Maggio Fiorentino fa tornare il gelo tra Renzi e Bersani
Gli assessori vicini al segretario contro il sindaco. «Allora non faccio campagna elettorale»
di Maria Teresa Meli


ROMA — Non è bastato un pranzo a favore di telecamere a riportare la pace in casa democratica. Matteo Renzi e Pier Luigi Bersani si erano lasciati ai primi di gennaio con la promessa di rivedersi presto per fare campagna elettorale insieme. Magari partendo da Firenze, dove da tempo il primo cittadino del capoluogo toscano aveva in animo di organizzare un'iniziativa insieme al segretario per dimostrare la sua «lealtà» alla causa del Pd.
«Ti do la mia parola d'onore: dimostrerò la mia coerenza», aveva detto il sindaco rottamatore al leader del Partito democratico che gli chiedeva una mano per evitare che i voti moderati prendessero la strada delle liste montiane lasciando a bocca asciutta il Pd.
Poi è calato di nuovo il silenzio tra i due. Chissà se a causa dei sondaggi. Infatti le ultime rilevazioni sono suonate come un campanello d'allarme. Ce n'è una, in particolare, assai inquietante. Attribuisce ai centristi il 10,5 per cento. Un po' pochino. Per carità, Bersani non vuole che Monti e i suoi si espandano diventando determinanti al Senato. Né è contento del fatto che il presidente del Consiglio, per cercare i consensi che gli mancano, da qualche giorno in qua si sia trasformato nel paladino dell'antiberlusconismo. Però teme anche il contrario. Ossia che i montiani ottengano una cifra sotto il 15 per cento, guadagnando una pattuglia ridotta di senatori. Il che li renderebbe ininfluenti e consegnerebbe le chiavi della maggioranza di palazzo Madama al centrodestra, a cui basterebbe vincere in due regioni chiave per diventare determinante al Senato. Il segretario del Pd sarebbe quindi costretto a trattare direttamente con il Cavaliere, o a chiedere il ritorno alle urne. È una prospettiva da incubo, questa per il Partito democratico. Assai peggiore di quella del cosiddetto pareggio.
Ma se Monti non è messo benissimo non c'è più quell'urgente bisogno di coinvolgere Renzi. Forse è per questo che la linea telefonica tra Bersani e il sindaco di Firenze si è momentaneamente interrotta. E da due giorni è accaduto anche di peggio. I bersaniani della giunta fiorentina hanno tentato di mettere sotto il sindaco. Prendendo a pretesto i licenziamenti di alcuni lavoratori del Maggio Fiorentino, di cui peraltro erano a conoscenza da tempo anche i sindacati perché erano stati decisi nell'estate scorsa. Nell'ordine del giorno presentato dai consiglieri del Pd fedeli al segretario si accusa Renzi di aver lacerato la maggioranza con questa mossa e gli si chiede conto delle sue intenzioni future. Quasi un preavviso di mozione di sfiducia. Che al sindaco, com'era ovvio, non è piaciuta per niente. «Siamo alla follia — ha detto ai suoi Renzi — io faccio la persona seria, accetto di partecipare alla campagna elettorale per dare un aiuto al Partito democratico, e queste sono le risposte!?».
I tuoni e i fulmini del sindaco di Firenze sono giunti fino a Roma. A largo del Nazareno è scattato lo stato d'allerta. Ma il segretario non si è fatto sentire. Non ha alzato la cornetta o digitato sul cellulare il numero del sindaco di Firenze. Nemmeno un sms. I soliti ambasciatori, però, si sono dati da fare per cercare di rimediare alla situazione. Soprattutto dopo aver sentito con le loro orecchie Renzi dire: «Vuol dire che dovrò rinunciare a fare la campagna elettorale per le elezioni politiche nazionali per occuparmi della crisi della giunta di Firenze». Parole, quelle di Renzi, che hanno fatto riflettere più di un dirigente vicino al segretario. Sarebbe quanto mai controproducente per il Pd, giunto in una fase così delicata, a due passi dalla vittoria, ma senza la certezza di raggiungerla veramente, mandare in scena l'ennesima divisione tra l'ala renziana del partito e la maggioranza bersaniana.
Perciò ieri sera, in fretta e furia, il segretario regionale Andrea Manciulli e quello cittadino Patrizio Mecacci, fedelissimi del leader nazionale, hanno convocato i bersaniani del consiglio comunale per cercare di addivenire a una soluzione ed evitare lo scontro con il sindaco, che in questo momento potrebbe solo nuocere a tutta la «ditta», come Bersani ama chiamare il Pd. Ma dal segretario fino a ieri sera nemmeno una telefonata.

Repubblica 16.1.13
I bersaniani di Firenze lo attaccano per i licenziamenti di 10 dipendenti del Maggio fiorentino e il sindaco s’arrabbia
Renzi minaccia di non fare campagna
di Massimo Valli


FIRENZE — L’ennesima sollevazione contro di lui nel bel mezzo del consiglio comunale. Una pattuglia di otto bersaniani, sempre gli stessi, che si oppongono stavolta ai dieci licenziamenti firmati dal sindaco Matteo Renzi per altrettanti dipendenti di un teatro del Maggio Fiorentino ormai al collasso, con i suoi 38 milioni di euro di debito consolidato. E alla fine Renzi perde la pazienza: «Se volete che io faccia la campagna elettorale a fianco di Bersani dovete dire ai vostri di non attaccarmi», è il messaggio che lunedì sera inoltra al quartier generale del Pd a Largo Nazareno. A Vasco Errani, l’uomo che ha curato la costruzione delle liste per conto del segretario. E direttamente anche a Bersani.
L’allarme è fulmineo. L’impegno di Renzi nella campagna è giudicato un tassello chiave, tanto più con un Berlusconi all’arrembaggio. Il tempo del duello Renzi-Bersani è alle spalle, non è il caso di riaprire fratture nel bel mezzo della campagna elettorale. Ed Errani telefona subito al segretario regionale Andrea Manciulli, candidato al secondo posto della Camera toscana dopo il rettore della scuola Sant’Anna Maria Chiara Carrozza. Neppure 24 ore dopo, il segretario convoca i consiglieri comunali dissidenti ottenendo alla fine un armistizio. Almeno fino alle elezioni: «Basta atteggiamenti pregiudiziali verso Renzi, serve una fase nuova nei rapporti interni al partito e alle istituzioni», chiede Manciulli.
In fondo, sono almeno un paio d’anni che quei 7-8 bersaniani eletti a Palazzo Vecchio rendono la vita difficile al Rottamatore. Lo accusano di spargere troppo “fumo”, di voler strapazzare i sindacati e, soprattutto, di decidere tutto da solo senza mai consultare coloro che i provvedimenti devono alla fine votarli. Sono otto, in gran parte donne come la presidente dell’Arci Francesca Chiavacci e la giovane “pasionaria”
Cecilia Pezza, come la paladina di sinistra Stefania Collesei o la militante ex Pci come Susanna Agostini. Per non dire dell’amministratore condominiale Andrea Pugliese. Sufficienti, se lo strappo diventasse irreversibile, a far naufragare la maggioranza di Palazzo Vecchio. Questa volta però i conflitti locali rischiano di causare guai sullo scenario nazionale.
Appena dieci giorni fa Renzi e Bersani hanno raggiunto l’accordo nel pranzo romano, offerto proprio dal sindaco. E non si può rischiare che l’opposizione di una pattuglia di bersaniani fiorentini metta a rischio quell’accordo e la ricomposizione interna.
Una parte della dirigenza del parto si attende e auspica che Renzi acquisisca un ruolo di maggiore visibilità e impegno nella campagna elettorale di fatto già partita. Si attende che il sindaco, come ha già fatto durante le primarie, riesca a mobilitare a favore del Pd frange di elettorato e di pubblica opinione che altrimenti potrebbero tenersi lontane.
Oggi il sindaco si sente l’alleato più importante di Bersani. Con i suoi 50 e passa futuri parlamentari ottenuti attraverso la gara delle primarie e il listino blindato, a dispetto di chi punta il dito sul suo silenzio dopo la sconfitta, si sente anche pronto a giocare un ruolo di primo piano nel dibattito post-elettorale. Dai temi del lavoro al fisco, alle politiche per le imprese. Proprio per questo però tollera sempre meno l’opposizione interna nella sua città. E anche lo stato maggiore bersaniano concorda con lui.

l’Unità 16.1.13
E gli arancioni si dividono tra irriducibili e «angosciati»
Ingroia: «Ci danno dieci senatori? Vediamo...»
De Magistris: non se ne parla. I dubbi di Ovadia
di Rachele Gonnelli


ROMA Ti piace perdere facile? Forse anche sì, sembrerebbe la risposta dentro Rivoluzione civile. L’angoscia per il mancato raggiungimento del quorum al Senato nella maggior parte dei collegi regionali, tutti quei voti sprecati, inutilizzabili in Parlamento non pare stiano portando più che tanto ad un ripensamento nel corpo dei militanti e degli attivisti.
Sui blog e sui social network piacciono le parole dure del sindaco di Napoli Luigi De Magistris: «Noi siamo per la resistenza e la riscossa, non per la desistenza. Quando si fa una lista che si chiama Rivoluzione Civile, non si può praticare alcuna desistenza. Quindi quella della desistenza è un'ipotesi che, per quanto mi riguarda, non è pensabile. Se si dovesse praticare la desistenza, non ci sarebbe il sostegno del Movimento Arancione alla Rivoluzione Civile». Per finire: «Se scegliesse la desistenza, la lista perderebbe il suo valore di novità e diventerebbe subito ammuffita». Anche se si può sperare di raggiungere la soglia dell’8 per cento solo in Toscana o poco più, e anche se al Senato non è possibile recuperare nessun altro seggio con il gioco dei resti, e anche se le percentuali più basse servissero a togliere i voti necessari al centrosinistra per avere una solida maggioranza (in Lombardia l’ultimo sondaggio Ipsos dà gli arancioni al 4). E anche in caso se ne avvantaggiasse il viejo verde espressione più guatemalteca che milanese di sempre. Antonio Ingroia l’ha incontrato ieri e l’ha trovato «simpatico».
Quanto agli allarmi di Bersani a scongiurare «un danno di proporzioni cosmiche» nei collegi senatoriali in bilico, l’ex pm di Palermo sostiene che «la frase si può anche rovesciare: chi non si accorda con chi potrebbe sostenere il Pd al Senato, è responsabile della vittoria di Berlusconi». E così all’invito di Franceschini a rinunciare a proprie candidature nelle regioni determinanti, ribatte ironico: «Ci poteva anche dire: potreste rinunciare a presentarvi alle elezioni». Tra una battuta e l’altra con Claudio Sabelli Fioretti nella trasmissione del mattino Un giorno da pecora su Radio2 comunque non esclude nulla. E se le dessero in cambio dieci senatori, è la provocazione. «Parliamone.Se mi chiamano, ma bisognerebbe parlare anche di programmi».
In verità non è poi così semplice scrollarsi dalle spalle la responsabilità. Non basta mettere le candidature più forti alla Camera si vedranno forse oggi le liste definitive per risolvere il dubbio degli elettori sul voto al Senato. Il professore Alberto Burgio, ex deputato di Rifondazione affida alle ultime righe di una articolessa pubblicata sul “Manifesto” di ieri una conclusione che dà da pensare alla luce dell’«egemonia culturale» da lui spesso invocata. Scrive infatti che «è cinque anni che la sinistra attende di uscire dalle catacombe» e che oggi «un’esigenza prevale su tutte le altre: unire le opposizioni di sinistra contro Monti e i suoi eredi più o meno progressisti». Concludendo, che si tratta di «una possibilità che sarebbe imperdonabile sprecare».
Rintracciato telefonicamente sulla desistenza unilaterale al Senato si inalbera: «Non si può dissotterrare la clava del voto utile dicendoci di fare 20 passi indietro per avere il male minore dopo essersi disinteressati delle critiche che arrivano da sinistra per 20 anni».
Moni Ovadia, uno dei più bei nomi tra i sostenitori della lista Ingroia, cercatore indefesso di verità spinose, ammette che l’angoscia c’è, «non si può far finta che il problema non esista» e si dice favorevole a una desistenza o a qualsiasi cosa le assomigli. «L’angoscia aggiunge non mi viene solo dalla ricomparsa di Berlusconi. Bersani è un galantuomo, apprezzo molto Vendola, vedo però una grande ambiguità nel rapporto con Monti. Vorrei che la sinistra-sinistra con tutti i suoi difetti non venisse criminalizzata. Vedo un Pd con una vocazione centrista sempre più forte mentre vorrei un centrosinistra forte, autonomo. E se al Senato non avesse i numeri? Che si fa? Avremo un Monti bis, un governicchio sempre sotto ricatto. E non riesco ad ammettere che l’Italia non possa cambiare».

Corriere 16.1.13
«L'ascesa del Pdl e il calo di Grillo sono entrambi effetti della tv»


ROMA — «In questi giorni notiamo due flussi di voto: la crescita del Pdl con il contemporaneo decremento del movimento 5 Stelle e una diminuzione degli indecisi, a favore di Pdl, Rivoluzione Civile Ingroia e Lista Monti». Antonio Noto, direttore di Ipr Marketing, fa il punto sui sondaggi in questa fase che precede la par condicio. La lista di Beppe Grillo, in soli 45 giorni, è scesa dal 16 al 12 per cento, mentre quella del Pdl è salita dal 13 al 18, percentuale alla quale si deve aggiungere l'1,5 di Fratelli D'Italia. Due fenomeni collegati, secondo Noto: «Il Cavaliere sta recuperando i voti di quella parte di elettorato che si riconosce in un leader che alza la voce. E che, di recente, aveva scelto Grillo». Nonostante le diversità ideologiche? «Certo. Sono scelte che prescindono dai contenuti e sono legate a una protesta, un po' qualunquista, slegata dall'appartenenza. Berlusconi ha una parte di elettori e una di pubblico, che lo vota perché gli piace la persona». La presenza in tv ha favorito la riconquista dei voti persi? «L'irruzione mediatica è stata decisiva, ma è difficile capire se l'effetto durerà». La tv è stata importante, paradossalmente, anche per Grillo, che nel piccolo schermo non ci vuole andare: «Quando Grillo era soltanto in rete era al 7 per cento. Quando è diventato una notizia e i talk show lo hanno ripreso, è arrivato fino al 19 per cento. Ora, con la campagna elettorale e la par condicio, la sua figura avrà meno fascino e potrebbe tornare a scendere». Un altro protagonista della tv di questi giorni è Mario Monti. Il premier ha dismesso il loden e indossato i guanti da combattente: «Ha fatto bene — spiega Noto —. Il Monti politico è molto più comunicativo ed efficace del Monti premier». La sua Lista è in crescita: «Voti presi in parte agli indecisi; in parte al Pd, che senza Monti era al 34-35 e ora è al 31; e in parte all'Udc, che prima valeva il 5,6 e ora 3,5 per cento». Bersani è stato tra i leader meno presenti in tv: «Ha scelto un metodo di campagna che è appannaggio tradizionale del Pdl: i cartelloni 6 metri per 3. Una scelta che, tutto sommato, non gli ha dato ragione, visto che il centrosinistra è in flessione». Chi sale è invece la lista di Ingroia: «Funziona perché riempie un vuoto dell'offerta politica. Ma i suoi sostenitori provengono solo per metà dalla sinistra radicale. L'altra parte non è fatta da estremisti di sinistra, ma solo da persone deluse da questo centrosinistra». Infine la Lega, che paga anche l'accordo con il Pdl e scende al 5 per cento. Quanto alle regioni chiave, l'Ipr vede in vantaggio il centrodestra nel Veneto (8 punti) e il centrosinistra in Campania (3 punti): «Quanto a Lombardia e Sicilia sono quasi pari: sarà un terno al lotto».
Alessandro Trocino

Repubblica 16.1.13
La forza della Costituzione
di Gianluigi Pellegrino


La funzione di garanzia che la Costituzione assegna al capo dello Stato non gli attribuisce solo il diritto, bensì il dovere assoluto di riservatezza delle sue comunicazioni. E qui il cuore della sentenza che chiude il conflitto. Non è un privilegio della persona, ma garanzia essenziale per il corretto funzionamento del sistema costituzionale e dell’equilibrio dei poteri che il Presidente deve garantire a beneficio delle nostre libertà. L’irresponsabilità politica non solo gli consente ma gli impone di evitare la diffusione delle sue personali considerazioni, e delle quotidiane comunicazioni sino a quando non sfocino nell’esercizio specifico di atti funzionali o pubblici messaggi. Noi cittadini, così come abbiamo il pieno diritto ad esercitare il maggiore sindacato possibile sui soggetti politici dell’ordinamento (a cominciare dal premier), dovendoli giudicare anche nella coerenza tra sfera privata ed atti pubblici, abbiamo un diritto in qualche modo uguale e contrario nei confronti del capo dello Stato. Quello di non conoscere le sue private valutazioni tanto più se inerenti alle funzioni di garanzia che la Costituzione gli assegna. Abbiamo il diritto che il suo alto magistero non risulti mai oggettivamente idoneo ad influenzare le nostre libere valutazioni. Per fortuna sono lontani e necessariamente criticati i tempi delle improprie “esternazioni”.
Ma c’è di più. Senza garanzia assoluta di riservatezza il Presidente della Repubblica non potrebbe svolgere nessuno dei suoi compiti, come Scalfari denunciò all’alba di questa vicenda.
Vale la pena di leggere per intero un passaggio della sentenza che sembra alludere alla recentissima cronaca politica. Il riferimento espresso è allo “scioglimento anticipato delle Camere” che presuppone che “il Presidente intrattenga nel periodo che precede l’assunzione della decisione, intensi contatti con le forze politiche rappresentate in Parlamento e con altri soggetti, esponenti della società civile e delle istituzioni allo scopo di valutare tutte le alternative costituzionalmente possibili sia per consentire alla legislatura di giungere alla sua naturale scadenza sia per troncare con l’appello agli elettori situazioni di stallo e di ingovernabilità. La propalazione del contenuti di tali colloqui in cui ciascuno degli interlocutori può esprimere apprezzamenti non definitivi e valutazioni di parte su persone e formazioni politiche, – chiosa la Corte – sarebbe estremamente dannosa non solo per la figura e le funzioni del capo dello Stato, ma anche e soprattutto, per il sistema costituzionale complessivo”.
Sembra qui quasi di leggere il riferimento all’esempio che Ezio Mauro aveva espressamente richiamato in agosto intervenendo nell’accesso dibattito sul tema, domandandosi quale successo istituzionale avrebbe mai potuto avere la laboriosa opera di Napolitano a cavallo della caduta del governo Berlusconi, se avessimo ritenuto accessibili i ripetuti contatti del Presidente con autorità nazionali e internazionali e con esponenti della società civile (come ora nota la Corte). Il fallimento sarebbe stato… garantito per l’esacerbarsi delle polemiche che ne sarebbe seguito, con gravissimo danno per il Paese.
Per tutte queste ragioni che rinvengono direttamente dalla Costituzione, avevamo scritto, e ora la Corte lo ha scolpito a lettere chiarissime, che le comunicazioni del capo dello Stato sino a quando è nella pienezza delle sue funzioni sono inviolabili anche dalla magistratura ordinaria. Perché il Presidente è fuori dai poteri e ne deve garantire l’equilibrio e reciproco controllo, come certo non potrebbe se uno di essi potesse invaderne le comunicazioni.
Per questo si era auspicato che a tali conclusioni giungessero spontaneamente anche i magistrati palermitani, almeno quando su loro stesso appello avevamo indicato nell’art. 271 del codice di procedura penale la “norma di chiusura” idonea a risolvere pacificamente il conflitto e che oggi la Corte ha puntualmente applicato.
Qui la sentenza, se pure giustamente riconosce la buona fede degli inquirenti con riguardo al carattere occasionale e fortuito delle intercettazioni, allo stesso tempo stigmatizza come apertamente violativo dei richiamati principi costituzionali oltre che contraddittorio, affermare che per procedere alla distruzione dei nastri si dovesse passare da un’udienza con ascolto delle telefonate e loro pubblicità nei confronti di un numero altissimo di soggetti e quindi inevitabilmente sui mezzi di comunicazione.
È stata qui e non già nella fortuita registrazione la causa scatenante il conflitto che Napolitano ha dovuto sollevare e ora la Corte facilmente risolvere a garanzia del complessivo sistema costituzionale e, a ben vedere, delle nostre fondamentali libertà.

Corriere 16.1.13
«Non uscite da sole» Accuse al procuratore per l'invito alle donne
Critiche da Pd e Pdl: resa al crimine
di Armando Di Landro


BERGAMO — Le polemiche per gli arresti domiciliari al facchino kosovaro accusato di violenza sessuale si stavano quietando, ma il procuratore di Bergamo Francesco Dettori ha aperto un altro fronte, provocando lo stupore e l'indignazione di molte donne, ieri, con un'intervista a L'Eco di Bergamo: «Le donne sono l'anello debole di una società in cui è parzialmente ancora inculcata l'assurda mentalità della femmina come oggetto del possesso. Lo dico con tutto il rammarico, ma sarebbe bene che di sera non uscissero da sole». Poi, precisando il suo pensiero, il capo dei pm bergamaschi ha spiegato: «Non voglio colpevolizzare la giovane che ha subìto violenza, anzi a lei vanno le nostre scuse per non aver saputo offrire la degna protezione. Ma a volte bisogna ragionare in termini realistici».
Parole che sono sembrate sale sulle ferite di una città che non ha mai avuto gravi problemi di sicurezza, per la quale un caso di violenza sessuale ai danni di una ragazza che esce da un locale notturno è un evento straordinario, capace di provocare un'onda emotiva difficile da contenere, con un corollario di fiaccolate e riflessioni. Voleva rassicurare tutti, il procuratore Dettori, ma quella frase, al contrario, è suonata come un allarme, a destra e a sinistra. «Così si rischia di tornare indietro di secoli e io non posso accettarlo», ha commentato la senatrice uscente del Pdl Alessandra Gallone, ricandidata da «Fratelli d'Italia».
«Mi pare che il compito di un procuratore non sia quello di arrendersi alla criminalità, ma di dare più sicurezza ai cittadini», ha aggiunto il consigliere provinciale del Pdl Matteo Oriani. Parole inaccettabili, quelle del capo della Procura, anche secondo le donne che siedono nella giunta del sindaco Franco Tentorio, il pidiellino con una lunga storia in Msi e An. O, nel campo opposto, per la giovane candidata in Regione del Partito democratico Elisabetta Olivari: «Lavoro spesso alla sera, dovrei forse rinunciare alla mia attività? — chiede in un suo intervento sul web — Da Lei (rivolta a Dettori, ndr) e dalle istituzioni, noi donne vorremmo sentire ben altre parole». Solo la parlamentare in pectore Elena Carnevali, candidata democratica in terza posizione nel collegio Lombardia 2 per la Camera, è uscita dal coro, ma senza esagerare: «Tra le righe mi è sembrato un invito alla prudenza».
Alle polemiche per quegli arresti domiciliari, chiesti dalla Procura che non ha osato pensare al carcere per l'aggressore della 24enne incinta, è quindi seguita una frase che di polemiche ne ha aggiunte altre, suggerendo quasi di starsene in casa o di trovarsi una guardia del corpo per evitare certi fatti.
E il «caso domiciliari» — dopo le bottiglie scagliate contro il portone di casa del kosovaro da parte degli ultrà dell'Atalanta, inneggianti alla giustizia sommaria — non è chiuso. Il questore di Bergamo Fortunato Finolli, infatti, si è rifiutato di partecipare a una conferenza stampa che il procuratore Dettori avrebbe voluto convocare sul caso, con la polizia al suo fianco. Ufficialmente, nessun attrito. Ma di fatto la questura non ha nascosto irritazione per la mancata richiesta del carcere, da parte della Procura, per il responsabile della violenza.

Corriere 16.1.13
Quel milione della Toscana al «profeta» arrestato per abusi
Già condannato, ma il tribunale gli mandava minori da recuperare
di Francesco Alberti


Abusi sessuali, «praticati e professati per liberare i ragazzi dal male». Umilianti «chiarimenti»: di fatto, una pubblica confessione durante la quale la vittima di turno, minorenne, veniva esposta a una sorta di «stupro psicologico» (viene ricordato il caso di un ragazzo costretto a mangiare a quattro zampe da una ciotola, neanche fosse un cane). Lavaggi del cervello talmente intensivi da sfociare nel plagio. E poi punizioni corporali, come quella di essere rinchiusi per ore nella cella frigorifera. «Il sesso permeava l'esistenza della comunità, i minori divenivano prede e ciò avveniva, non solo con il consenso collettivo, ma anche con quello dei genitori affidatari presenti in comunità». E ancora: «L'omosessualità era non solo permessa, ma addirittura incentivata: un percorso obbligato verso quella che veniva definita "liberazione dalla materialità"...». Sono solo alcuni dei passi della relazione finale della commissione d'inchiesta del consiglio regionale della Toscana che, dopo 4 mesi di lavoro, 23 sedute e l'audizione di 53 persone, sarà presentata oggi a Firenze dal presidente Stefano Mugnai (Pdl) e dal vice Paolo Bambagioni (Pd).
Tutto ruota attorno a Rodolfo Fiesoli, 71 anni, pratese, uno che amava farsi chiamare «il Profeta». Fino al dicembre del 2011, quando venne arrestato per maltrattamenti e violenza sessuale (ora è ai domiciliari), era lui il fondatore, il guru, l'anima, il capo indiscusso de «Il Forteto», che, oltre a essere una florida coop agricola (fatturato annuo di 15 milioni) adagiata tra i cipressi e i prati del Mugello, per quasi 30 anni è stata considerata da tutti (istituzioni, Regione Toscana in primis; sinistra con annessa «intellighenzia»; frange cattoliche; settori della magistratura, a partire dal Tribunale dei minori) una delle strutture d'eccellenza, un modello, nel campo delicatissimo dell'accoglienza dei minori in difficoltà. Un alone di ammirazione che si è tradotto per decenni in contributi pubblici, favori, coperture e sponde politiche. Un alone di ammirazione incomprensibile se si pensa — ed è questo che lascia sconcertati, al di là dell'inchiesta in corso da parte della Procura di Firenze (22 gli indagati, tra cui il cofondatore della comunità, Luigi Goffredi) e delle risultanze della commissione d'inchiesta regionale — che già nel 1985, a pochi anni dalla nascita de «Il Forteto», Fiesoli e il suo socio Goffredi furono arrestati e condannati per maltrattamenti e atti di libidine. Non solo, ma nel 2000 la Corte europea per i diritti dell'uomo sanzionò l'Italia al pagamento di 200 milioni di lire per i danni morali subiti da due bambini, figli di italiani emigrati in Belgio, affidati alla comunità.
Nonostante questi precedenti, il Tribunale dei minori ha continuato ad inviare minori: almeno 60 fino al 2009, quando le prime denunce, poi diventate un fiume in piena, ruppero un silenzio molto simile all'omertà. La commissione regionale, la cui relazione (anticipata dal Corriere fiorentino) è stata approvata all'unanimità, si chiede «come sia stato possibile tutto ciò», quali procedure e controlli siano saltati: chi, colpevolmente, abbia chiuso un occhio, se non tutti e due. Il presidente del Tribunale dei minori, Laura Laera, in carica solo dal giugno scorso, ha detto di aver trovato «dossier poco documentati sulla comunità e relazioni dei servizi sociali scarni». E a chi le ha chiesto come sia stato possibile che il tribunale abbia continuato ad affidare i ragazzi, ha risposto laconica: «Non dovete chiederlo a me».
Di certo, uno dei punti di forza di Fiesoli, che si è sempre dichiarato innocente, puntando il dito contro mai precisate «sette che vogliono distruggermi», erano le pubbliche relazioni. Tra libri, articoli, interviste e conferenze, dalla comunità si diramava un'attività comunicativa a dir poco intensa. Impressionante poi, secondo quanto ricostruito dalla commissione d'inchiesta, il numero di vip e politici passati da «Il Forteto»: da Piero Fassino a Susanna Camusso, da Rosy Bindi a Livia Turco, dall'ex governatore Claudio Martini ad Antonio Di Pietro. E poi magistrati del Tribunale dei minori, giudici onorari e non. Scrive la commissione: «Chi compie un passaggio in vista di prossime elezioni, chi per una stretta di mano con foto, chi scrive prefazioni...». Il Forteto era considerato una piccola cassaforte di voti per la sinistra: «Quando il politico andava lì, faceva magari il 10% di tre serate nel paese...» ha raccontato l'ex sindaco pci di Calenzano, Fabrizio Braschi. E dalla regione Toscana piovevano soldi che era una meraviglia: «Dal 1997 al 2010 — scrive la commissione — la comunità ha ottenuti contributi per 1 milione e 200 mila euro».

Corriere 16.1.13
«Io come un piccolo fiore». Il diario della bimba violentata
di Carlo Macrì


COSENZA — «Ti odio bastardo mi hai tolto da una m... e me ne hai dato un'altra peggiore». È uno degli stralci del «diario dell'orrore» che Ludovica (nome di fantasia) ha annotato nel corso dei dieci anni di violenza sessuale subita dal padre adottivo. Lui, un meccanico di 50 anni, è stato arrestato dai carabinieri di Cosenza con l'accusa di violenza sessuale aggravata e continuata. Oggi Ludovica ha 19 anni e forse un amore. Quello che il padre per tre volte le ha impedito di avere perché «geloso» di una figlia che doveva essere solo «sua».
«Non posso nemmeno avere un ragazzo perché devo avere paura che ammazzi me e poi non so cosa succederà a lui». Frasi scritte dapprima con grafia vacillante, poi con mano sempre più ferma da una bambina che già a nove anni s'è vista stuprata dal padre-orco che le aveva promesso una vita meravigliosa. Perché Ludovica e sua sorella, che di anni all'epoca ne aveva 10, nel 2003 erano state portate via da un orfanotrofio della Bielorussia dopo un iter piuttosto lungo in vista dell'adozione. Il meccanico e sua moglie vivevano a Cosenza: la voglia di poter completare la famiglia con un figlio li aveva spinti sino in Bielorussia. Le sorelline hanno vissuto con i futuri genitori adottivi un lungo periodo d'ambientamento nel loro Paese d'origine. Dormivano insieme con loro e credevano di avere trovato una famiglia.
«Avevo immaginato il mio futuro insieme a una mamma, un padre e a mia sorella. Sognavo di avere l'amore dei genitori. Sognavo una vita serena. Ma tu hai distrutto questi sogni solo per soddisfare te stesso», scrive la ragazza a gennaio 2008.
Ludovica non è più un'adolescente e lo si capisce anche dal modo in cui cura le parole e sfoga il suo disprezzo verso il padre. Le violenze sono quotidiane. La scusa per accompagnarla a scuola e poi riprenderla alla fine delle lezioni è l'occasione per abusare di lei. Nei campi, in auto. La moglie dell'orco non intuisce e non sospetta nulla. Ludovica è costretta a rinunciare al fidanzatino per tre volte. L'ultimo amore è un ragazzo più grande di lei. Il padre li scopre e anche questa volta utilizza la forza per allontanarlo dalla figlia. I due uomini litigano e il giovane ha la peggio. Il meccanico viene denunciato per lesioni. Ludovica si diploma, ma non ha ancora la forza di ribellarsi. «Cercasi vita», scrive a maggio dello scorso anno. Te la pago io una p... basta che non continui a distruggere la mia vita». Scrive ancora Ludovica nel suo diario tenuto segreto sino a novembre scorso: «Non ti basta il mio corpo? Perché mi picchi adesso?».

Corriere 16.1.13
Biblioteca dei Girolamini, al processo il ministero non c'è


NAPOLI — È iniziato ieri mattina il processo contro l'ex direttore della biblioteca dei Girolamini (nella foto sopra) Marino Massimo De Caro e quattro suoi collaboratori — Alejandro Eloy Cabello, Lorena Paola Weigandt, Viktoriya Pavlovskiy e Mirko Camuri — tutti accusati di peculato per la sparizione di importanti volumi antichi. E inspiegabilmente il ministero per i Beni culturali non si è costituito parte civile, né potrà più farlo nelle prossime udienze. Si è costituito invece il Comune di Napoli, a conferma delle indiscrezioni trapelate nello scorso dicembre circa la volontà del sindaco Luigi de Magistris. Per De Caro e gli altri imputati il procuratore aggiunto Giovanni Melillo e i suoi sostituti titolari dell'inchiesta, hanno ottenuto il giudizio immediato (che prevede sia saltata la fase delle indagini preliminari). La prima udienza davanti al gup della quarta sezione del Tribunale di Napoli è stata breve, giusto il tempo per la costituzione delle parti e perché i difensori di Viktoriya Pavlovskiy chiedessero che sia ascoltata come testimone Rossella Sacco, moglie di De Caro. Richiesta accolta dal giudice che ha fissato la nuova udienza per il prossimo 4 febbraio. La sparizione dei libri dalla biblioteca dei Girolamini è una vicenda che ha destato grande scalpore per lo scempio di uno dei più importanti santuari della cultura italiana fatto proprio da chi era stato messo lì per tutelare quell'inestimabile patrimonio. Molti volumi antichi sono andati persi probabilmente per sempre.
F. B.

Repubblica 16.1.13
Tagli alla scuola per 3,5 miliardi
ma aumentano i prof di Religione

Diminuiscono gli alunni che si avvalgono di questo insegnamento, con un taglio di oltre 90 mila cattedre in quatto anni. Ma i docenti della materia sono passati dai 19912 dell'anno 2007/2008 ai 23779 (dati parziali) del 2011/2012, anche se il ministero dell'Istruzione, nel periodo più basso, ne censiva 25633, per una spesa attorno ai 680 milioni di euro. Ma da qualche tempo, viale Trastevere ha smesso di fornire dati
di Salvo Intravaia
qui

il Fatto 16.1.13
L’eutanasia dei gemelli belgi per “sofferenze psicologiche”
I due, nati sordi e a rischio cecità, hanno ottenuto l’ok alla “dolce morte” dalle autorità mediche
di Roberta Zunini

La notizia è arrivata a un mese esatto dalla loro “buona morte”. Perché, anche in Belgio, dove l’eutanasia è legale dal 2002, la decisione dei medici di accordarla a due gemelli di quarantacinque anni, sordi dalla nascita e condannati alla cecità, avrebbe potuto scatenare le reazioni del mondo cattolico, ritardandone l’applicazione. “In genere l’eutanasia è richiesta da malati di cancro in fase terminale o da pazienti affetti da malattie degenerative incurabili e dolorose, quasi mai per malattie mentali e sofferenze psicologiche anche se, una volta giudicate incurabili, le prendiamo in esame”, spiega il neurologo e psichiatra Eric Picard che lavora come consulente anche per l’ospedale laico dell’università di Bruxelles dove si sono recati Marc ed Eddy Verbessem, di Anversa. L’iniezione letale era - a sentire i medici - l’unico modo per sollevarli dalla terribile sofferenza psicologica che li attanagliava da quando avevano saputo che sarebbero diventati presto ciechi.
PERMETTERLA è stato l’unico modo per far loro vivere ancora giorni sereni. Proprio per il fatto che erano gli ultimi. Sembra una contraddizione ma a quanto pare non lo è stata visto che prima di entrare nella stanza dell’ospedale si erano accomiatati dai genitori e dal fratello assicurandogli di sentirsi finalmente sereni e felici. “È stato un sollievo vedere la fine della loro angoscia”, ha detto il medico David Dufour al canale tedesco RTL TVI. “Hanno bevuto una tazza di caffè conversando con i parenti che li accompagnavano”. Proprio per non pesare sul fratello maggiore o per non finire in un ospizio per persone non autosufficienti, oltre che per poter parlare ancora tra di loro e con il mondo - essendo sordi leggevano dalle labbra per poter comunicare- i due fratelli hanno preferito la morte. Fino alla sentenza della loro imminente cecità, Marc ed Eddy avevano superato la loro sordità imparando a leggere attraverso i movimenti delle labbra di chi stava loro di fronte e grazie al forte legame, tipico dei gemelli: vivevano e lavoravano assieme, come calzolai. In Belgio la legge prevede che si possa richiedere l’eutanasia anche in caso di malattie mentali e gravi disagi psicologici. “La richiesta però deve essere reiterata e deve scaturire dalla presenza di malattie incurabili - ribadisce Picard-, ciò significa che un depresso non la può richiedere dato che la depressione non è una malattia incurabile”. In Belgio, l’unico Paese europeo assieme all’Olanda dove si può ricorrere alla “buona morte”, si sta discutendo anche di estenderla a pazienti incapaci di intendere e volere purché abbiano espresso in un testamento , prima di ammalarsi, di desiderarla in caso di malattie mentali inguaribili come l’Alzheimer. Mentre in Olanda può essere applicata anche sui minori in fase terminale, in Italia non c’è nemmeno una legge sul testamento biologico.
SECONDO l’ex chirurgo, oggi senatore del Pd, Ignazio Marino, conosciuto per le sue posizioni progressiste riguardo i cosiddetti temi sensibili “c’è comunque una differenza profonda tra sospendere terapie che hanno il carattere della straordinarietà o sono ritenute sproporzionate dal paziente, come può essere un respiratore meccanico, e porre volontariamente fine alla vita di un essere umano attraverso la somministrazione di un farmaco letale”. Marino però aggiunge che è necessario investire sulle cure palliative e su un reale investimento sul fondo per la non autosufficienza per assicurare ai pazienti una qualità di vita dignitosa. “Nel 2011 in Italia per la rete delle cure palliative è stato stanziato un milione di euro contro i 240 della Germania. Quel milione misero è bastato, forse, ad assistere 350 pazienti, lo 0,05% delle persone con una malattia terminale che ogni anno ci sono nel nostro paese”. Un dato che non ha bisogno di commenti.

l’Unità 16.1.13
Angelo Del Boca
Storico, saggista, è considerato il più autorevole studioso del colonialismo italiano È autore di una biografia su Gheddafi
«In Mali Parigi rischia un altro Afghanistan»
di Umberto De Giovannangeli


«Hollande ha sottostimato le capacità militari, oltre che l’unità, dei Tuareg. Per questo il Mali rischia di trasformarsi nell’Afghanistan francese». A sostenerlo è il più autorevole storico del colonialismo italiano in Africa: Angelo Del Boca.
Qual è la vera posta in gioco in Mali?
«È la distruzione di questo gruppo di islamisti che detiene il potere nel nord del Mali; gruppo alleato di al Qaeda. Dal Mali questa presenza islamistasta-qaedista imperniata sui miliziani del Mujao (il Movimento per l’unità della Jihad nell’Africa dell’Ovest), alleati di Aqmi, al Qaeda del Maghreb e di Ansar Dine potrebbe estendersi a tutto il Sahel. Ecco perché Hollande ha portato il contingente francese da 600 uomini a 2500, e ha inviato un forte numero di aerei da combattimento, chiedendo contemporaneamente ai consueti alleati, Stati Uniti e Gran Bretagna, di fornire un valido aiuto. Attualmente la situazione è bloccata, perché i jihadisti hanno scatenato un’offensiva, dimostrando di possedere armi modernissime che i francesi avevano sottostimato. Non si tratta solo di armi....».
E di cos’altro?
«Questi mujaheddin che vorrebbero creare un loro Stato l’Azawad dispongono di una addestramento militare di prim’ordine, essendo stati, come Tuareg, alleati di Muammar Gheddafi e da lui protetti e armati».
Perché al Qaeda ha scelto il Sahel?
«Ha scelto questa area immensa che comprende praticamente tutto il Sahara, dal Marocco all’Egitto, dall’Algeria al Nigere e al Ciad, perché già da anni ha messo radici in questa zona, limitandosi però, finora, a prendere ostaggi o a impegnarsi in scontri circoscritti. La presenza dei Tuareg in questa ampia aerea, è sicuramente il dato più significativo perché tutti conoscono le loro capacità militari, un elemento che il presidente francese ha certamente sottovalutato».
Il Mali potrebbe essere l’Afghanistan francese?
«Questo rischio esiste certamente. Anche se le forze presenti sono più modeste non si possono fare rapporti tra le decine di milioni di afghani e poche decine di migliaia di Tuareg c’è da sottolineare che i Tuareg non sono divisi come gli afghani. E quindi sono terribilmente pericolosi».
In questo scenario, cosa dovrebbe o non dovrebbe dare l’Italia?
«A sentire Romano Prodi, inviato speciale dell’Onu per il Sahel che come tale ha potuto verificare molto bene la situazione, c’è da sperare che non si chieda all’Italia un intervento armato, anche se fosse limitato all’invio di aerei come durante la guerra in Libia. È bene ricordare che la nostra Costituzione proibisce di fare guerra».
Nel descrivere la situazione in Mali, lei ha fatto più volte riferimento alla Libia e al caos del dopo-Gheddafi. Quale ricadute regionali ha avuto questo «caos»?
«La caduta di Gheddafi è stata traumatizzante, perché fino a quando era rimasto al potere, il Colonnello aveva controllato l’armata infinita dei Tuareg, ai quali aveva promesso un aiuto sostanziale in riferimento al loro desiderio di avere una patria. E i Tuareg lo avevano appoggiato nella sua estrema difesa, durata 11 mesi. E solo dopo la caduta del raìs, avevano abbandonato la Libia raggiungendo i loro Paesi d’origine, carichi di armi e con propositi ben precisi di costituire la loro agognata patria».
Una soluzione politica è ipotizzabile o tutto resta affidato alle armi?
«Ci sarà sicuramente un lungo periodo in cui saranno soltanto le armi a decidere la situazione, anche perché molti Paesi dell’area, a cominciare dall’Algeria, temono questa guerra e per ora non hanno preso nessuna decisione. Ma poi si dovrà necessariamente aprire un tavolo negoziale e trovare una soluzione pacifica».
Questo non è colonialismo, questa è una Guerra giusta. Così Bernard-Henri Levy è sceso in campo a sostegno di Hollande. È lo stesso Levy che aveva sostenuto Sarkozy in Libia.
«A differenza della guerra in Libia, che era un attacco preordinato ad un Paese sovrano, la guerra del Mali è decisamente differente perché si tratta di ricostituire un Paese già esistente, come è il Mali. Si deve però comunque notare che anche i Tuareg sono alla ricerca di una patria da decenni, forse da centinaia di anni, e per ciò questa guerra contro di loro, ha degli aspetti di guerra neo-colonialista. Il che renderà il conflitto molto complicato e con un finale ancora tutto da immaginare».

La Stampa 16.1.13
Australia, il governo indagherà sui preti pedofili
Nominati sei commissari nel paese simbolo della purificazione anti-pedofilia avviata da Benedetto XVI
di Giacomo Galeazzi

qui

Corriere 16.1.13
La Bundesbank si riprende l'oro da Parigi e New York
Dalla Francia 374 tonnellate in lingotti, 50 dagli Usa
di Marika de Feo


FRANCOFORTE – «L'oro del Reno» torna a casa. Prima dalla Francia e in parte dagli Stati Uniti. Poi si vedrà. Lo ha fatto filtrare lunedì sera il presidente della Bundesbank Jens Weidmann, a un gruppo di giornalisti di Francoforte, mentre il responsabile per la delicata operazione, il consigliere Karl-Ludwig Thiele questa mattina farà luce su uno dei «misteri» ancora aleggianti sulle seconde riserve aurifere al mondo, dopo quelle degli Usa, composte di 3.396 tonnellate in lingotti d'oro, valutati all'incirca 130 miliardi di euro.
Nel giro di appena tre mesi, dopo la richiesta formale — suonata quasi come un allarme — fatta dalla Corte dei conti federale alla Bundesbank di redigere un inventario preciso delle riserve tedesche e rimpatriare almeno 50 tonnellate di oro da New York, la banca centrale tedesca ha reagito. Perché la crisi finanziaria, sia pure in via di miglioramento, continua a preoccupare. Finora la Bundesbank conserva soltanto il 5% del suo oro nei forzieri in Germania, fra Francoforte sul Meno (il 2%) e Magonza sul Reno. Ma il 45% dei preziosi lingotti è custodito nei caveau sotterranei della Fed di New York, mentre il 13% si trova nella Bank of England a Londra e il 12% nella Banque de France a Parigi. Troppo lontani, per i custodi tedeschi della moneta, che da anni non ricevevano notizie sullo stato di conservazione del loro «tesoro del Reno», senza poterlo vedere o valutare da vicino. Da qui la richiesta della Corte, preoccupata sull'effettiva esistenza dell'enorme ammontare dei lingotti, spalleggiata da un'iniziativa popolare volta a «riprenderci il nostro oro». In tempi di crisi, non si sa mai.
Ma per lanciare un segnale tranquillizzante, la Bundesbank ha già fatto filtrare ieri al quotidiano «Handelsblatt» il racconto di una visita del turista renano Peter Schmitz nel quinto piano sotterraneo del caveau della Fed di New York, a Manhattan, dove vengono custoditi 530 mila lingotti in oro di 60 Paesi del globo, incluse le 122.597 barre delle riserve tedesche. E dal racconto del turista tedesco col nome in parte alterato per ragioni redazionali traspare la delusione, per aver potuto ammirare soltanto un centinaio di lingotti disposti in bella mostra dietro massicce inferriate.
Domani la Bundesbank spiegherà come intende modificare la gestione del suo oro e dove vuole custodirlo in futuro. Secondo indiscrezioni, Weidmann intende riportare a casa tutte le riserve — 374 tonnellate — parcheggiate a Parigi per ragioni di sicurezza fin dai tempi della Guerra Fredda e della divisione fra le due Germanie. Ma ora la Francia è la principale alleata all'interno dell'eurozona, con la quale la cancelliera Angela Merkel si appresta a festeggiare i 50 anni del Trattato dell'Eliseo. Ormai, non c'è più ragione di conservare l'oro a Parigi.
Ma nel caso estremo di una crisi mondiale — anche se non lo ammette nessuno — potrebbe continuare a essere utile la custodia di parte dell'oro in diverse piazze finanziarie del globo, per poterle convertire in moneta sonante, nel caso di una necessità estrema, dettata da una crisi imprevedibile. Comunque sia, la richiesta e i dubbi della Corte sullo stato di salute del tesoro va esaudita. Anche se la Buba mette le mani avanti e attraverso il consigliere Andreas Dombret assicura che «in 60 anni non abbiamo avuto il più piccolo problema o il minimo dubbio», ad esempio, «sulla credibilità della Fed». Domani la Buba dovrebbe dimostrarlo con filmati e rapporti più dettagliati.

Repubblica 16.1.13
Parla l’ex premier Gordon Bajnai, speranza dell’opposizione in Ungheria contro le derive autoritarie
“Oggi la politica del governo di Budapest è contraria alla Ue: questo è un fenomeno rischioso”
L’uomo che sfida la destra di Orbàn “L’Europa ci aiuti”
di Andrea Tarquini


BERLINO «L’Ungheria è ancora una democrazia, ma molte decisioni hanno ferito lo stile occidentale di democrazia basato su checks and balances e sul governo della legge. Istituzioni e principi democratici hanno sofferto molto negli ultimi 2 anni, con molte nuove leggi». Lo dice Gordon Bajnai, il giovane ex premier tecnocrate, speranza dell’opposizione ungherese.
Non è tardi per restaurare una piena democrazia?
«Non è mai troppo tardi. Resteremo democrazia finché avremo elezioni libere e corrette,
come spero sarà nel 2014, sono ottimista sulla possibilità di un cambiamento. Se questo governo cadrà torneremo a una democrazia piena. Siamo un paese pieno di talenti, gente innovativa, buone infrastrutture. L’ostacolo è il governo attuale. Ma dobbiamo conquistare una forte legittimità. Occorre un programma aperto, per una Costituzione equilibrata, né di destra né di sinistra. L’unità dell’opposizione è necessaria per liberarci di questo esecutivo del mal governo, poi sceglieremo lo sfidante. La legge elettorale, scritta secondo gli interessi della Fidesz, fa sì che solo uniti potremo vincere».
Nelle riunioni del Partito popolare europeo, Orbàn è stato il solo a lodare Berlusconi, che significa?
«Sembra che sia stato impressionato dai successi passati del movimento di Berlusconi e dal suo approccio alla politica. La Fidesz ha spesso usato il modello Berlusconi di fare politica nell’azione di governo. Il sistema che tenta di costruire va verso una democrazia autoritaria. Non è conforme all’idea europea di democrazia. La differenza rispetto a Berlusconi è che da noi e in generale nell’Europa centro-orentale le radici della democrazia sono meno profonde, quindi i tentativi di Orbàn sono più pericolosi. Sentono una forte attrazione per tendenze autoritarie. Cerca di radunare in un unico campo destra moderata di tipo democristiano con destra radicale e razzista».
La Fidesz è nei Popolari europei, perché il Ppe non prende le distanze?
«Dovrebbe farlo, e capire che l’attuale leadership Fidesz non è democristiana: è destra radicale, si autodefinisce ‘rivoluzionaria’, respinge gli equilibri tra poteri essenziali in democrazia, demolisce valori e strutture democratiche. Praticano una politica economica statalista molto dannosa. Orbàn è scettico sulla Ue, spesso giunge a dire ‘come rifiutammo gli ordini di Mosca rifiutiamo gli ordini di Bruxelles’».
Quanto è contagioso il modello Orbàn?
«In politica il contagio è un fenomeno tipico: successi politici d’una linea in un paese la rafforzano in altre. E se in Ungheria il governo può imporre una politica contraria a principi e valori comuni europei, ciò spinge altrove le destre radicali a ritenere un tale processo vincente».
Quanto teme la deriva razzista?
«Il razzismo non è cominciato con Orbàn. Negli ultimi anni si è rafforzato e la crisi economica lo alimenta. Purtroppo scrive editoriali razzisti Zsolt Bayer, membro fondatore della Fidesz. Invano ho chiesto al premier di distanziarsi. Il problema spacca la Fidesz, è parte del suo pericoloso opportunismo. E il disastroso malgoverno in campo economico e sociale rafforza l’ultradestra».

Repubblica 16.1.13
Più controlli e un database il pugno di ferro di Obama contro la lobby del fucile
Record di americani che chiedono limiti alle armi
di Angelo Aquaro


NEW YORK — Barack Obama sfida i mercanti di morte: un decreto per fermare l’orrore delle armi, un “atto unilaterale” che la Casa Bianca è pronta a sfoderare da oggi di fronte all’inerzia colpevole del Congresso, almeno 19 ordinanze che il presidente può utilizzare per colmare i vuoti della legge più permissiva del mondo. Più controlli per chi acquista fucili e pistole. Misure più dure contro chi falsifica i precedenti o compra armi illegalmente. L’obbligo di segnalare — dall’Fbi alle agenzie statali — i nomi di chi viene bocciato per motivi mentali. Nuovi limiti all’importazione di armi dall’estero. Un database pubblico sugli effetti della violenza. Un’iniziativa senza precedenti accompagnata naturalmente dalla raccomandazione a Camera e Senato di muoversi subito su tre importanti direttive: bandire le armi d’assalto, limitare la capacità di acquisto di munizioni, obbligo di controlli universali e non più divisi tra stato e stato. Qui Obama non può arrivarci per decreto: ci vuole una legge e la legge deve passare dal Congresso. Ma come? Ma quando?
Sì, le mamme marciano sotto la neve di Danbury, un quarto d’ora da Newtown, il paese delle strage dei venti bambini, per protestare contro Walmart, il supermercato più grande d’America, che con un tempismo straordinario e un pochino sospetto proprio ora risponde alla campagna lanciata da Michelle Obama e promette di assumere mille veterani: basta vendere armi, chiedono i genitori in marcia, basta arricchirsi mettendo a rischio la vita dei nostri figli. Sì, l’ennesimo sondaggio firmato dalla tv Abc e dal Washington Post sostiene che il 76 per cento degli americani vuole più controlli: è più di quattro su cinque. Ma figuriamoci: la potentissima Nra, la National Rifle Association, ha già schierato i suoi lobbisti carichi di miliardi per fermare tutto. Dopo Sandy Hook il Comandante in Capo l’aveva promesso in lacrime: non possiamo lasciare morire così i nostri figli, entro fine gennaio voglio vedere delle proposte. E ieri la task force affidata al suo vice Joe Biden ha consegnato le raccomandazioni che già oggi Barack svelerà in un vero e proprio evento alla Casa Bianca, circondato dai tanti bambini che in questi giorni gli hanno scritto «per chiedergli di intervenire». Ma la commissione Biden non ha fatto che misurarsi con le difficoltà che una nuova legge troverebbe al Congresso: e le raccomandazioni sono diventate così un invito al presidente ad agire. Da solo.
Non è la prima volta che il presidente ricorre al suo potere discrezionale. L’ultimo scarto c’è stato sull’immigrazione. Di fronte alla latitanza del Congresso, incapace di approvare il Dream Act che permetterebbe la regolarizzazione dei figli dei clandestini già a scuola o al lavoro negli Usa, con una mossa anche elettoralmente felice Obama ha promosso per decreto il suo mini-Dream Act: regolarizzando a tempo (due anni) fino a 1.2 milioni di ragazzi. Certo il decreto-armi ora non potrà avere lo stesso effetto di una legge: ma che altro si può fare quando perfino Harry Reid, il capo del Senato in mano ai democratici, che viene dell’Arizona ed è lui stesso pro-armi, mostra tutto il suo scetticismo? Il punto della discordia è soprattutto il bando delle armi d’assalto deciso da Bill Clinton nel 1994 e scaduto dieci anni dopo: permettendo vendita e possesso di quelle macchine infernali come l’AR-15, la mitraglietta da guerra usata nelle ultime stragi — compresa quella di Newtown. Barack ha già detto di sostenere il bando: ma la proposta di legge della senatrice Dianne Feinsten è considerata un “suicidio politico” perfino dai suoi stessi colleghi democratici.
That’s America.
Ok, ci sono Stati all’avanguardia come New York, dove il governatore Andy Cuomo è riuscito a far passare la legge più restrittiva d’America (soprattutto sulle armi d’assalto e sui controlli sulla sanità mentale) giusto un mese dopo Newtown: quasi nel nome delle piccole vittime. Ma sempre in queste ore la lobby della armi ha lanciato l’aggiornamento della sua app “educativa” per iPhone e iPad: dove per allenarsi gli aspiranti pistoleri possono sparare sulle bare virtuali che scorrono sullo schermo. Un gioco per tutti: la NRA lo sconsiglia giusto ai minori di 4 anni. Le vittime più piccole di Newton ne avevano 6: per i mercanti di morte non è mai troppo presto.

Repubblica 16.1.13
Lo scrittore texano Lansdale
“Il business delle pistole è troppo grande. Daranno battaglia”


«OBAMA fa bene a intervenire per decreto: la legge glielo consente. Non riuscirà forse a vietare il commercio delle armi d’assalto, ma il suo sarà un primo passo importante». Richard Lansdale, pluripremiato scrittore texano, confida l’attaccamento alla doppietta ereditata dal padre, e però, dice, dopo la strage dei bambini un mese fa alla scuola elementare di Newton, «stavolta è davvero una questione di coscienza, per ripetere le parole del presidente. I bambini valgono più che le armi».
A Washington si preannuncia la battaglia più aspra fra Casa Bianca e Congresso in due decenni. Lansdale, è così?
«Proprio così. Mentre infatti la maggioranza degli americani si è espressa nei sondaggi a favore di un controllo, soprattutto riguardo alle armi automatiche, una minoranza di deputati al Congresso è pronta a dar battaglia per bloccare ogni misura. Ma non si tratta di difendere la tanto citata “cultura americana delle armi”. La verità è un’altra».
Qual è?
«Chi scende in trincea lo fa per difendere il Grande Business delle armi: un giro d’affari da capogiro di cui fanno parte anche imprese straniere, italiane e tedesche comprese. Basti pensare che negli Stati Uniti ci sono 300 milioni di fucili, e le armi automatiche sono una larga percentuale».
Perciò anche se Obama prevalesse, resterebbe un gigantesco arsenale attraverso il Paese?
«Non solo: alla vigilia del dibattito in Congresso, le vendite si sono impennate; si vedono file fuori dei rivenditori, di gente in attesa di acquistare migliaia di munizioni. Però, confido nel presidente e nella maggioranza dei cittadini: limitare l’uso dei fucili d’assalto, nati all’unico scopo di uccidere, è un fatto di puro buon senso. Obama forse non riuscirà a proibirne la vendita. Però spianerà la strada a un futuromigliore». (a.v.b.)

l’Unità 16.1.13
L’impero di Oshima
Addio al regista di Kyoto che turbò l’Occidente
Aveva 80 anni veniva da una famiglia di samurai ed è stato il più importante cineasta giapponese del XX secolo
Maestro nell’indagare il rapporto tra Eros e Thanathos
di Alberto Crespi


FACCIAMO AUTOCRITICA: IL PUBBLICO ITALIANO HA SCOPERTO NAGISA OSHIMA CON IL MERAVIGLIOSO «LA CERIMONIA», NEL 1971, uno dei suoi primissimi film distribuiti da noi; e ha ingigantito la sua fama grazie a L’impero dei sensi, che nel 1977 fu uno dei più clamorosi casi di censura mai avvenuti nel nostro mercato (ed erano anni in cui i censori colpivano duro: eravamo reduci dai sequestri di Ultimo tango a Parigi e di Salò, Oshima divenne un ideale «compagno di strada» di Bertolucci e di Pasolini in una battaglia magari non dichiarata, ma molto aspra, per allargare i confini di quello che si definiva «il comune senso del pudore»). Nel 1983, poi, Oshima venne definitivamente sdoganato grazie a un film che costituiva una sorta di ponte fra Oriente e Occidente: in Italia lo battezzarono Furyo, il titolo internazionale (assai più bello) era Merry Christmas Mr. Lawrence. Raccontava le terribili esperienze di alcuni prigionieri dei giapponesi durante la seconda guerra mondiale (una sorta di «risposta nipponica» a Il ponte sul fiume Kwai) e sfoderava un cast davvero stravagante: Tom Conti, David Bowie, l’altro musicista Ryuichi Sakamoto (la cui colonna sonora diventò un tormentone di quegli anni) e un Takeshi Kitano ancora sconosciuto fuori dal Giappone – dove per altro, in quegli anni, era «solo» un popolare conduttore televisivo.
Questo è il percorso di Nagisa Oshima a cavallo fra gli anni ’70 e ’80, quando da cineasta giapponese di culto si trasforma in un autore di rilievo mondiale; percorso che non a caso sfocia, nel 1986, nel bizzarro Max mon amour nel quale Charlotte Rampling interpreta la moglie di un diplomatico che ha come amante... uno scimpanzé! Il film venne presentato in concorso a Cannes, dove avemmo occasione di vedere Oshima in una surreale conferenza stampa dove, in un inglese assai basico, si rilanciava battute demenziali con lo sceneggiatore Jean-Claude Carrière e il produttore Serge Silberman. Erano, costoro, tutti assidui collaboratori di Luis Bunuel, con il quale fioccarono ovvi paragoni. In realtà il film faceva pensare soprattutto a Ciao maschio di Marco Ferreri, un regista con il quale Oshima aveva sicuramente qualcosa in comune. Ma...
Ma, soprattutto oggi, bisogna sforzarsi di fare altri discorsi. Oshima se n’è andato, dopo una lunga malattia che l’ha costretto all’inattività nell’ultimo decennio della sua vita. L’ultimo film rimane Tabu-Gohatto, una splendente parabola sul mondo dei samurai realizzata nel 1999, quando il regista – nato nel 1932 – aveva appena 67 anni. È come se la sua filmografia avesse voluto ostinatamente fermarsi dentro il XX secolo, che Oshima aveva attraversato in tutti i suoi furori e le sue contraddizioni. Noi occidentali ci ritroviamo sempre a paragonare i grandi cineasti giapponesi a modelli per noi comprensibili: per cui Kurosawa è Ford più Shakespeare, Ozu richiama Dreyer e Bresson, Mizoguchi fa i piani sequenza come Antonioni... e Oshima, quando fece scandalo con L’impero dei sensi, veniva sempre messo in relazione a Bataille, oltre che ai suddetti Pasolini & Bertolucci. Tutto questo è comprensibile, ma è anche sbagliato. Tra la fine degli anni ’50 e l’inizio dei ’60, Oshima è stato protagonista di una feroce battaglia politica e
culturale tutta interna alla vita giapponese di quegli anni, anche se paragonabile (alla lontana) a quella combattuta in Francia dalla Nouvelle Vague. Esordisce nel 1959, a 27 anni, con Il quartiere dell’amore e della speranza, e ottiene successo l’anno dopo con Racconto crudele della giovinezza. Ma sempre nel ’60 arriva il film-svolta di quella fase della sua carriera, Notte e nebbia del Giappone. Il titolo allude a Notte e nebbia, il celebre film di Alain Resnais sui campi di sterminio nazisti; è un racconto senza pietà sull’occupazione americana del Giappone nel dopoguerra e sulle divisioni interne alla sinistra (divisa fra il partito comunista e il movimento studentesco Zengakuren). Era prodotto dalla Shochiku, una delle majors del cinema giapponese classico, che però lo tolse quasi subito dalla distribuzione giudicandolo «politicamente pericoloso».
A nemmeno 30 anni, con una carriera promettente davanti a sé, Oshima lasciò la Shochiku sbattendo la porta e propugnando, anche in roventi scritti teorici, la necessità di allontanarsi dai modelli classici (la triade Ozu-Kurosawa-Mizoguchi) e di realizzare film indipendenti. Come Godard e Truffaut in Francia, Oshima «uccise» il proprio cinema di papà, compì il classico delitto edipico (anche se i giapponesi, probabilmente, chiamano Edipo con altri nomi) e iniziò un percorso produttivamente travagliato, ma artisticamente rilevantissimo. I suoi film degli anni ’60 – soprattutto il bellissimo L’impiccagione, del ’68 – sono tra i più originali e dirompenti di quell’irripetibile decennio. Non a caso fu la Mostra di Pesaro, in una storica retrospettiva del 1972, l’unico festival italiano a render loro il dovuto omaggio.
Poi, come dicevamo, arrivò La cerimonia: un film elegante e ferocissimo, che certo ha qualcosa di bunueliano – in fondo lo vedemmo quasi in contemporanea al Fascino discreto della borghesia, era impossibile non fare paragoni – ma che in qualche modo chiude una fase e ne apre un’altra, quella suddetta, dell’Oshima più internazionale. Anche se L’impero dei sensi, nel suo inscindibile binomio di sesso & morte (forse un giapponese vi troverebbe anche l’amore, chissà), rimane un film dalla ritualità enigmatica e profondamente «orientale». Per quello che possiamo capire, noi poveri europei diseducati dal cristianesimo e dal cogito ergo sum cartesiano, dell’Oriente...

l’Unità 16.1.13
Chi ha paura dei gay?
Anche la psicoanalisi che è rimasta indietro
Secondo Paolo Rigliano le relazioni omosessuali mettono in forse l’intero assetto antropologico
di Delia Vaccarello


GLI PSICOTERAPEUTI POSSONO ESSERE UTILIZZATI COME MAGHI CON LA SFERA DI CRISTALLO? E agli attivisti gay sfugge la portata antropologica dei cambiamenti messi in atto? In Francia i toni della discussione sulle nozze gay sono roventi e registrano un pronunciamento degli psicanalisti che compare anche come petizione già firmata da quasi duemila professionisti. «Sosteniamo che non spetta alla psicanalisi mostrarsi moralizzatrice o portatrice di predizioni. Al contrario, nulla nel nostro corpus teorico ci autorizza a prevedere il futuro dei bambini, qualsiasi sia il tipo di coppia che li cresce. La pratica psicanalitica ci insegna da tempo che è impossibile trarre relazioni di cause e effetti tra un tipo di organizzazione sociale o familiare e un destino psichico singolare».
E in Italia? Il dibattito vero sembra chiuso nei sottintesi. Ha visto da una parte gli interventi di alcuni professionisti che invocano modelli vecchi dall’altra le tesi di attivisti gay che fanno fatica ad analizzare la complessità delle situazioni. «Occorre fare appello a un metodo scientifico in quanto tale perfettibile e revocabile sulla base di ricerche e controargomentazioni fondate su una verifica acuta di dati di realtà e di ogni passo metodologico, di ogni oggetto, di ogni assunzione del fare scienza », premette Paolo Rigliano, psichiatra e psicoterapeuta, dirigente di un centro psicosociale a Milano autore di numerosi testi sulla questione gay tra cui l’ultimo Curare i gay? (ed. Cortina, scritto insieme a Jimmy Ciliberto e Federico Ferrari).
Oltre che sulla premessa metodologica, essenziale se pensiamo agli assunti delle terapie riparative non dimostrabili e simili ad articoli di fede, e sulla precisazione «meglio parlare di professionisti di psicologia e psichiatria», Rigliano si sofferma sulle ricadute di vasta portata messe in atto dall’omosessualità tanto più da quella «moderna», vissuta cioè come dimensione centrale della vita a partire dalla quale compiere scelte e mette in campo progetti. «Il punto importante è il seguente: l’omosessualità mette in discussione un assetto antropologico. Dietro la levata di scudi contro le famiglie gay c’è la paura che l’assetto antropologico in cui siamo stati allevati da millenni si esponga a una incertezza piena di pericoli e di possibili danni».
Un’analisi presente in Curare i gay? dove si legge: «tutta la struttura sociale è interrogata, tutto l’ordine “naturale” e chiamato in causa dalla omosessualità» quali siano forma, legittimità, scopo del desiderio, cosa significhino la forma femminile e maschile, quali il valore, il potere, l’identità, il riconoscimento sociale, i diritti e i doveri , che rapporti abbia tutto questo con la filialità. Nel tono degli interventi di chi è contrario alle famiglie gay i timori, però, restano sottotraccia mentre affiorano gli anatemi.
«Lo ripeto, ogni cosa va dimostrata negli atti facendo affermazioni precise e portando dati di realtà altrimenti facciamo sermoni che sembrano “ipse dixit”», continua Rigliano. Gli attivisti gay, dal canto loro, sembrano concentrati soprattutto sulle conquiste da ottenere. «È un compito dei diversi farsi carico della vulnerabilità che c’è dietro i cosiddetti normali. La questione gay rimette in discussione il maschile e il femminile, cosa è il paterno e cosa il materno. Per affrontare i dibattiti occorre elaborare un pensiero altissimo capace di smontare gli assetti millenari e ricostruirne altri. Non si può eludere la dimensione antropologica annidata nel cuore del problema. Ai militanti gay dico di impegnarsi in uno strenuo lavoro culturale. Pretendere di saltare i passaggi della analisi e della costruzione sociale, simbolica, psichica e relazionale per arrivare alle leggi può essere un rischio che non permette una reale crescita collettiva».
Cosa suggerire ai professionisti della psicoterapia? «Di non chiudersi nelle proprie presunte certezze assumendo, invece, un atteggiamento attentissimo verso la realtà, creativo ed originale, confrontandosi con i dati che la scienza produce. Un atteggiamento aperto informato ed estremamente critico teso a capire con riflessioni a tutto tondo e privo di modelli vecchi che si sono mostrati obsoleti».

l’Unità 16.1.13
Osare la felicità, idea rivoluzionaria
La lectio che lo storico McMahon presenterà venerdì a Roma
Si apre domani all’Auditorium il festival delle Scienze quest’anno dedicato al tema della felicità
Un concetto relativamente moderno dal punto di vista della storia e che iniziò a prendere piede nell’800
di Darrin McMahon


INIZIERÒ LE MIE OSSERVAZIONI FACENDO UN'IPOTESI. IPOTIZZO CHE LA MAGGIOR PARTE DI NOI (SE NON TUTTI NOI)presenti in questa sala, voglia essere felice, e anzi ritenga che, da un certo punto di vista, noi abbiamo il diritto di essere felici. La maggior parte di noi crede, cioè, che la felicità sia un'aspettativa umana perfettamente ragionevole, qualcosa che tutti gli esseri umani dovrebbero raggiungere. Noi riteniamo dunque che gli uomini e le donne non solo hanno il diritto di perseguire la felicità, ma che dovrebbero essere realmente in grado di trovarla.
Penso che queste affermazioni suonino scontate ad orecchie moderne, specialmente in Europa e in Nord America, ma sempre più anche in molte altre regioni del mondo. E tuttavia uno dei punti che vorrei riuscire a farvi comprendere oggi è che quest'idea, quest'assunzione che la felicità sia una condizione umana naturale che «felici» è il modo in cui gli esseri umani dovrebbero essere è relativamente recente: il prodotto di un drastico spostamento delle aspettative umane che si è prodotto a partire dal diciottesimo secolo. Uno spostamento che può ben essere chiamato «rivoluzione».
LA GIOIA ANCHE IN TERRA
(...) Fu esattamente in questo periodo tra il tardo Settecento e l'Ottocento che uomini e donne occidentali osarono pensare alla felicità come qualcosa di più che un dono divino o una ricompensa ultraterrena, meno casuale della fortuna, meno elevata di una vita di perfetta virtù o di un sogno millenario. Per la prima volta nella storia dell'uomo, un numero relativamente grande di uomini e donne fu messo di fronte alla nuova prospettiva di non dover soffrire come per un'infallibile legge dell'universo, di potere (e dovere) aspettarsi la felicità intesa come sentirsi bene e provare piacere come un diritto dell'esistenza (e questo è in sé parte del cambiamento: il passaggio dal ritenere la felicità come misura della vita intera, o di tutta l'eternità, al ritenerla un tipo di sentimento, uno stato emotivo temporaneo).
Le cause di questa importante trasformazione sono molte. Spaziano dagli sviluppi interni della tradizione cristiana, che diede una maggiore approvazione al godimento terreno e levò enfasi all'impatto del peccato originale, ai nuovi comportamenti secolari nei confronti del piacere, dalla nascita della cultura del consumo, capace di offrire una gran varietà di oggetti di lusso a gruppi di popolazione sempre più vasti, alle nuove scoperte scientifiche che fecero apparire il mondo e la società umana molto più sotto il nostro dominio e controllo. Queste cause sono interessanti di per sé, ma ciò che io vorrei mettere a fuoco non sono tanto le cause quanto gli effetti. Essendo liberi di pensare alla felicità come a qualcos'altro rispetto alla lotta superiore di pochi, donne e uomini accordarono alla felicità sulla Terra il posto privilegiato che avevano un tempo dato alla felicità nell’aldilà. «Le Paradis est ou je suis», dichiara Voltaire all'inizio del diciottesimo secolo: «Il paradiso è dove sono io». Non nel passato, non nel futuro, ma qui ed ora. In questo stesso secolo l’Encyclopedie, la Bibbia dell’Illuminismo europeo, dichiara nella voce «Felicità» che ognuno ha il diritto di essere felice. Ed è in questo stesso secolo che Thomas Jefferson dichiara, nella Dichiarazione d'Indipendenza Americana, che tutti gli uomini hanno il diritto di perseguire la felicità, mentre il suo collega e amico George Mason, nella Dichiarazione dei Diritti dello Stato della Virginia, parla della ricerca e del conseguimento della felicità come una dote e diritto naturale.
Alla fine del secolo, questi sentimenti erano divenuti qualcosa di più che frasi felici: «La felicità è in realtà il solo oggetto della legislazione che abbia valore intrinsec»”, dichiara l'utilitarista inglese Joseph Priestly, e facendo eco alla rivendicazione di Voltaire, in una lettera del 1729 sentenziava che «la sola e unica preoccupazione è di essere felici». «Le bonheur est une idée-neuve en Europe» dichiara St. Just durante la rivoluzione francese. La felicità è un'idea nuova in Europa.
Ora vorrei sottolineare come questa nuova dottrina fosse liberatoria sotto vari aspetti. Cambiò il presupposto che la sofferenza fosse la nostra condizione naturale e sostenne che non dovremmo scusarci per i nostri piaceri qui sulla terra. Al contrario, dovremmo lavorare per aumentarli. Non era più un peccato godere dei nostri corpi. Non era ingordigia ed avidità lavorare per migliorare i nostri standard di vita. Non era un segno di lussuria e depravazione perseguire il piacere della carne. Il piacere è un bene, il dolore un male. Dovremmo massimizzare l'uno e minimizzare l'altro, cedendo il piacere più grande in cambio di un numero di piaceri maggiore possibile.
Perciò questo nuovo orientamento nei confronti della felicità era liberatorio sotto molti aspetti e, sul lungo periodo, ebbe successo. Tanto che il filosofo contemporaneo francese Pascal Bruckner può spingersi fino al punto di osservare che (la felicità) è divenuta «l'unico orizzonte delle nostre moderne democrazie». L'unico fine per il quale possiamo oggi immaginare di lavorare. A dire il vero, il trionfo di questa visione non fu facile né automatico c'è una lunga strada tra l’annuncio della più grande felicità possibile per il maggior numero di persone nel XVIII secolo e le nostre speranze di oggi su questi stessi temi, sono sicuro di non doverlo ricordare.
La conquista è stata, ovviamente, un processo graduale ed imperfetto. Se voi foste per esempio un africano portato nel nuovo mondo come schiavo, una contadina che vive al limite della sussistenza, un ebreo nel ghetto di fronte alla minaccia di un pogrom, o un operaio brutalizzato dall' industrializzazione, l'idea che dovreste essere felici potrebbe sembrare uno scherzo crudele. E tuttavia sebbene lentamente, e sebbene in maniera imperfetta, la promessa, una volta estesa, si è dimostrata difficile da contenere o negare.
CAMBIO DI PROSPETTIVA
(...) Nel IX secolo, troviamo i cittadini americani avviare azioni legali contro i governi statali e federali per aver impedito loro il perseguimento della felicità! E sempre nel XIX secolo troviamo socialisti utopisti e marxisti che lavorano per adempiere alle promesse emanate in Francia dalla Costituzione Giacobina del 1793, il cui primo articolo recita: «Le but de la société est le bonheur». Lo scopo della società è la felicità comune. La felicità, in altre parole, divenne nel mondo post-XVIII secolo un problema, un problema da risolvere, come non era mai stata prima.
Pensate a come è differente questa prospettiva rispetto al passato. Se tu puoi essere felice se questa è veramente la maniera in cui si pensa che dovresti essere cosa succede se non lo sei? Significa che c'è qualcosa di sbagliato in te? Che sei malato, che hai fallito, che gli altri ti hanno fato fallire, impedendoti di vivere come dovresti?
Nel Vecchio Mondo, dove la felicità non era considerata probabile o possibile per la grande maggioranza della gente, dove soffrire era la norma e la felicità una sorta di conquista straordinaria e sovraumana, non ci si doveva preoccupare della felicità nella stessa maniera. E se questo era un problema di per sé, contemporaneamente procurava una certa consolazione. La sofferenza era qualcosa che gli esseri umani dovevano aspettarsi. Noi moderni, al contrario, ci preoccupiamo quando non siamo contenti, e questa è una sofferenza peculiare del nostro tempo. Io la chiamo «l'infelicità del non essere felici».
La colpa, la rabbia, il risentimento che proviamo quando riteniamo di essere stati privati di un nostro diritto naturale, o peggio, di aver fallito, ci impedisce di ottenere la felicità che tutti gli esseri umani dovrebbero conoscere. «Cosa c'è di sbagliato in me – pensiamo Perché non sono felice?». E ci biasimiamo, o colpevolizziamo gli altri, per non sentirci come dovremmo sentirci.
(Traduzione di Edoardo Girardi)

Venerdì, 18 gennaio, Darrin McMahon terrà una Lectio Magistralis sulla Storia della felicità. Interverrà anche Ben Weider, Professor of History alla Florida State University (Usa) Introdurrà Fulvia de Luise, docente di Storia della Filosofia Antica all’Università di Trento

GLI INCONTRI
Amartya Sen parlerà di diseguaglianze ed economia

Ad inaugurare ufficialmente il Festival, domani in sala Petrassi, saranno Mark Williamson, direttore di Action for Happiness, e Sonam Phuntsho del Centre for Bhutan Studies. A tracciare la storia della felicità sarà Darrin McMahon, Di certo, è anche una questione di democrazia, come spiegheranno il giurista Gustavo Zagrebelsky ed Ezio Mauro. Venerdì l’incontro più atteso con Amartya Sen, premio Nobel per l’Economia nel 1998 che affronterà il tema del rapporto tra felicità e disuguaglianze. Tra gli altri
interventi quelli di Dan Haybron, il filosofo Salvatore Natoli, lo psicologo Thomas Bien e il chimico Pier Luigi Luisi si confronteranno su buddismo e scienza. Si parlerà anche delle gioie del sesso con Gillian Einstein, David Linden, Paul Bloom, Davide Coero Borga.

Repubblica 16.1.12
La non ricerca della felicità
Ho scoperto che non c’è nessun segreto da scoprire
Il filosofo Daniel M. Haybron, autore di “The Pursuit of Unhappiness”, spiega perché ogni criterio per valutare il grado di soddisfazione o successo individuali sia un fallimento
di Daniel M. Haybron


Prima di poter dire che cosa ci rende felici, dobbiamo dire con chiarezza che cosa intendiamo con la parola felicità. Non esiste un’unica definizione corretta, ma alcune delle cose per cui questa parola viene usata sono più importanti di altre. Una visione diffusa identifica la felicità, approssimativamente, con una sorta di giudizio: essere felici è essere soddisfatti della nostra vita nel suo complesso. Una cosa buona di questo approccio è che sembra collocare la felicità all’interno della sfera di controllo dell’individuo: se vuoi essere felice, non devi far altro che pensare positivo e seguire gli altri piccoli accorgimenti illustrati in questo libro, e sarai soddisfatto! Una cosa meno buona è che sembra collocare la felicità troppo all’interno della sfera di controllo dell’individuo.
Quasi chiunque può trovare buone ragioni per essere soddisfatto della vita, perché i criteri per emettere il giudizio sono estremamente vaghi. La vita è piena di cose dolci e cose amare e dare un giudizio sulla somma delle une e delle altre inevitabilmente è come tirare una moneta. Pensate a tutti i pro e i contro della vostra vita e cercate di sintetizzarli in un numero, come se steste giudicando l’esibizione di un ginnasta. È più un 4 o più un 7? Forse potrebbe essere sia un 4 che un 7, e quindi tanto vale essere positivi: che senso ha lamentarsi se non ce n’è necessità?
Un secondo problema è che la soddisfazione per la vita implica giudicare se la nostra vita è bella abbastanza per noi. Non è chiaro dove vada fissata l’asticella per ritenere una vita riuscita. Diciamo che avete realizzato il 73 per cento delle vostre aspirazioni: è un risultato soddisfacente? Oppure avreste dovuto… cosa, rispedirla indietro e chiedere una sostituzione? Sospetto che la maggior parte di noi abbia una più che salutare carenza di opinioni al riguardo: non disponiamo di parametri precisi su quanto bella dovrebbe essere la nostra vita per ritenercene soddisfatti. Andiamo a un funerale e pensiamo: beh, per quanto mi vadano male le cose adesso, di sicuro è meglio che essere morti. Oppure leggiamo un libro su una persona di successo e al confronto la nostra vita ci appare insignificante, e ci sentiamo insoddisfatti.
Sintetizzando, gli approcci che identificano la felicità con la soddisfazione hanno un collegamento distorto con la realtà. Anche quando le cose vanno male, è sempre possibile essere soddisfatti della propria vita, basta pensare che è bella a sufficienza. «Sono disoccupato, divorziato e mi sento depresso, ma almeno sono in buona salute. Sono grato per ciò che Dio mi ha dato».
Possiamo chiamare tutto questo felicità, se vogliamo: non è una forzatura linguistica. Ma in questo caso il fatto che siamo felici o che non lo siamo non sembra comportare granché. Quando i ricercatori dicono che le persone sono felici basandosi su studi relativi al grado di soddisfazione per la propria vita, non è necessariamente un’informazione significativa.
Vuol dire che le ricerche sul grado di soddisfazione per la propria vita sono inutili? Niente affatto: le persone che dichiarano di essere più soddisfatte in media se la passano comunque meglio di quelle che dicono di essere meno soddisfatte. Perciò questi studi possono dirci chi se la passa meglio senza dirci se la gente se la passa effettivamente meglio (o senza dirci se è felice, secondo una qualunque accezione rilevante del termine).
Un’altra concezione molto diffusa della felicità combacia meglio, a mio parere, con l’idea che la felicità sia una faccenda seria. Si tratta della visione che identifica la felicità con la situazione emotiva generale di un individuo, in sostanza il contrario dell’angoscia o della depressione. Essere felici non dev’essere confuso con l’emozione, molto più limitata, del sentirsi felici. È uno degli elementi, ma nella condizione emotiva di un individuo c’è molto di più: c’è il sentimento di energia o di vitalità, o lo stato sospeso in cui si entra quando si è assorbiti da un’attività coinvolgente. Forse l’aspetto più importante della felicità è quello che potremmo chiamare “sintonia”: un misto di tranquillità, sicurezza ed espansività emotiva che segnala che vi sentite pienamente a vostro agio con la vita. Immaginate il contrario dell’angoscia, dello stress, di un senso di schiacciamento o di un sentimento di insicurezza o provvisorietà. Non c’è bisogno di condurre una vita posata per sperimentare la sintonia: gli atleti di vertice sembrano godere di questo stato, sembrano trovarsi perfettamente a proprio agio in se stessi, rilassati nello spirito. E in effetti l’attività fisica spesso rasserena e acquieta la mente.
Intesa come benessere emotivo, la felicità sembra più che mai difficile da perseguire. Pensare positivo e altri metodi racimolati dai manuali di auto-aiuto sicuramente possono risultare utili. In generale, a quanto sembra, diventiamo più felici conducendo una vita migliore: sottraendoci alle pressioni di quel capo che vuole controllare anche i minimi dettagli, allentando le esigenze per lasciarci un po’ di respiro, passando più tempo con persone che ci piacciono e di cui ci fidiamo, esercitando le nostre capacità in un lavoro significativo e in generale entrando in contatto con le cose e le persone che contano.
Le fonti della felicità, in buona parte, sono qualcosa che va ricercato insieme. Non necessariamente attraverso lo Stato, anche se è una delle possibilità. In una democrazia, lo Stato non può semplicemente imporre uno stile di vita che procuri felicità ai suoi cittadini, senza curarsi di quello a cui tengono. La cultura probabilmente è più importante: il libero scambio delle idee e quel po’ di influenza che ognuno di noi esercita su chi gli è vicino attraverso le sue scelte in materia di stile di vita. I nostri assetti sociali probabilmente non possono cambiare se non cambiano le nostre priorità collettive.
La ricerca della felicità per certi aspetti è la più privata e personale delle imprese, eppure sotto altri aspetti è una faccenda molto sociale. Una parte la facciamo da soli, ma il grosso, sospetto, dobbiamo farlo insieme. Se non c’è un gran bisogno di ricercare la felicità può essere un segnale che indica che siamo in presenza di una società valida: la gente può seguire i propri sogni, fare i soliti errori che fanno gli esseri umani e nonostante questo avere buone possibilità di essere felice. Forse lo scopo che ci dobbiamo prefiggere è la non ricerca della felicità.
Traduzione Fabio Galimberti

l’Unità 16.1.13
La scienza è un teatro
Due saggi di Feyerabend contro l’autonomia dei saperi
Secondo il filosofo viennese non esiste nessuna demarcazione tra il sapere scientifico e l’arte:
si tratta di punti di vista diversi sulla realtà che possono integrarsi
di Teresa Numerico


ROMA SE C’È UN TESTO CHE INDIRETTAMENTE SEGNALA L’INSENSATEZZA DI CERTE PRATICHE DI VALUTAZIONE TECNOCRATICA E SETTORIALE DEL SAPERE SCIENTIFICO, MOLTO IN VOGA ATTUALMENTE IN ITALIA, questo è il volume di Paul Feyerabend (1924-1994) Contro l’autonomia (a cura di Antonio Sparzani, pp. 113, euro 12, Mimesis), che unisce due interventi di questo imprevedibile filosofo della scienza. Esso costituisce un vero e proprio J’accuse contro la tesi dell’autonomia delle discipline, da lui considerata solo una chimera convocata a difesa della presunta integrità e oggettività dei metodi adottati dalle scienze. Feyerabend argomenta invece appassionatamente in favore dell’impossibilità di valutare un oggetto di ricerca senza metterlo in rapporto con l’esterno della disciplina che se ne occupa: «Nel suggerire un’argomentazione scientifica non conosciamo mai completamente il suo significato».
Nonostante le differenze di stile e di epoca dei due testi raccolti (il primo scritto a metà degli anni ’60 del secolo scorso, l’altro un’intervista rilasciata alla sua ultima moglie Grazia Borrini, circa venti anno dopo), l’operazione editoriale è di grande raffinatezza intellettuale e dimostra la stringente attualità dell’opera del filosofo viennese, ferito durante la Seconda Guerra Mondiale, mentre militava, suo malgrado, nelle fila dei tedeschi. L’incidente, del resto, lasciò un segno indelebile sul suo corpo, costringendolo a zoppicare vistosamente per tutta la vita. L’autore di Contro il metodo si scaglia contro l’autonomia e la specializzazione delle scienze mostrando l’irrazionalità e l’ideologia dei fautori della coerenza e della rigidità interpretativa delle pratiche scientifiche per eccellenza, gli esperimenti. La sua posizione serve a segnalare il carattere di totale astrattezza e di vera e propria religiosità della presunta «scientificità». Feyerabend sostiene che aver rifiutato l’autorità, la tradizione e la riflessione metafisica non abbia condotto ad un aumento di capacità critica nella scienza, ma ne abbia anzi irrigidito i confini impendendo un confronto vero con ciò che è esterno ad essa.
Uno sguardo critico sulla scienza, al di fuori del dogma empiristico di baconiana memoria, mostrerebbe che non c’è nessuna sostanziale differenza tra scienza e arte perché «si sovrappongono in molti casi (...)se vi è una scoperta è che le suddivisioni non hanno senso e se guardi alle attività umane queste si fondano una sull’altra in quello che alcuni chiamano scienza, e da lì nelle arti». Insomma secondo il filosofo non esisterebbe alcuna precisa linea di demarcazione capace di separare sensatamente la scienza dall’arte. Il teatro dalla fisica e così via. Ciò che esiste, invece, è piuttosto una grande discrepanza tra i percorsi reali degli scienziati per arrivare alle proprie scoperte e i modi in cui essi sono disposti a parlarne. Solo se gli scienziati fossero onesti si potrebbe davvero agire un processo critico, mettendo in discussione le ipotesi di partenza delle ricerche analogamente a come si interrogano le osservazioni sulla poetica di un autore a partire dalla sua opera.
Il caso del teatro è, per Feyerabend, emblematico. Il palcoscenico offre la possibilità di provare in modo simultaneo diverse ipotesi sulla realtà, attraverso l’uso di un dispositivo complesso come la messa in scena, nella quale oltre alle parole contano i gesti, i volti, le luci, il tono della voce, e molto altro ancora. La macchina teatrale consente di dare conto della molteplicità e della compresenza dei punti di vista dei personaggi. Essa rende possibile il cambiamento, non come una conseguenza delle precedenti premesse, ma come uno dei tanti, caleidoscopici esiti immaginabili a partire dal confronto, dalla rappresentazione multipla, teorizzata da Bertolt Brecht, con il quale il filosofo aveva collaborato da giovane. Prima di dedicarsi agli studi, subito dopo la II Guerra Mondiale, Feyerabend, infatti, aveva lavorato per il teatro.
La scienza dunque come teatro delle ipotesi che si sfidano tra loro sul terreno dell’esperienza, degli esperimenti, ma anche su quello del benessere della società al quale gli scienziati non dovrebbero mai smettere di fare riferimento quando valutano i propri risultati. Studi umanistici e scientifici troverebbero in questo caso la loro piena integrazione.

La Stampa 16.1.13
Famiglia, la rivoluzione silenziosa
di Daniele Marini


La famiglia è un tema politicamente (ed eticamente) sensibile. Anzi, scottante. È necessario evocarlo come dimensione di valore (ovviamente centrale) nei programmi elettorali. Ma senza scendere nei particolari. Giacché è un argomento sensibile, meglio rimanere sul vago, per non scontentare alcuno prima del voto. Certo, poi durante la legislatura si farà spazio per qualche iniziativa o manifestazione pubblica (è rimasta qualche traccia dei «family day»?). Qualche proposta di legge (chi rammenta i Dico, il Cus o i DiDoRE?) o dichiarazione altisonante alimenterà un dibattito che spesso trascenderà in scontro virulento. Ma, com’è accaduto finora, alla fine senza passi concreti per la costruzione di una politica per le famiglie, di interventi volti a sostenere la natalità o la creazione di opportunità per le giovani coppie che intendano formarsi. La famiglia, analogamente a quello del lavoro, è un tema che nel nostro Paese è spesso affrontato esclusivamente dal punto di vista dei principi, della dimensione di valore. Dunque, diventa tout court argomento di scontro ideologico. E quando il confronto assume tali connotazioni, diventa impossibile, trascende la realtà oggettiva, perde di vista gli orientamenti reali e i comportamenti della popolazione.
Si è generata così una progressiva forbice fra le dichiarazioni di principio che rimbalzano ampiamente nei mezzi di comunicazione e i modi di agire dei soggetti. E ciò non riguarda solo gli esponenti della politica e dei movimenti associativi che si occupano di questi aspetti, ma anche le stesse gerarchie della Chiesa cattolica. Ai fermi richiami di valore, corrisponde poi una pratica più attenta al discernimento nelle diocesi. D’altro canto, ricerche dimostrano come, fra le giovani coppie che frequentano i corsi di preparazione al matrimonio delle parrocchie, la maggioranza sia composta da quanti già convivono. Gli stessi recenti dati dell’Istat sulla popolazione evidenziano la siderale distanza che esiste fra l’idea di famiglia presente nel dibattito politico e i comportamenti reali. Una rapida scorsa a quei numeri racconta di come sia già avvenuta in Italia una «silenziosa rivoluzione culturale»:
- i tassi di natalità sono in lento declino: passano dal 9,6 del 2008, al 9,1 del 2011;
- anche il numero di figli per donna, che dal 2000 era leggermente cresciuto grazie all’apporto delle popolazioni migranti, dall’avvento della crisi è in costante calo: da 1,42 (2008), a 1,39 nel 2011;
- gli stessi tassi di nuzialità conoscono un decremento costante: dal 4,1 (2008) al 3,4 (2011).
E, per converso, la quota dei divorzi sale al 18,1% (2009), dall’11,5% (2000).
Oltre a tutto ciò, va evidenziato come stiano mutando gli itinerari nella costituzione delle giovani famiglie. Diversamente da un tempo recente, si è diffusa la pratica della convivenza che precede un’unione sancita legalmente. Le coppie che coabitano prima di sposarsi passano dall’11% nel decennio 1990-99, al 27% del decennio 2000-09. Nel (ex) tradizionalista Nord-Est si raggiunge ben il 47%. In definitiva, il percorso medio è il seguente: complice la crisi e la difficoltà a trovare un lavoro stabile, due giovani vanno a convivere poco prima dei 30 anni (per chi può, in un’abitazione di proprietà dei genitori o con il loro aiuto economico), fanno un figlio verso i 32, quindi si sposano, ma in misura crescente civilmente e meno in chiesa. Nel 2004 le unioni civili erano il 31,9% dei matrimoni, nel 2011 il 39,2% (NordOvest: 50,2%; Nord-Est: 52,3%).
Forse è venuto meno il valore assegnato alla famiglia? No, le ricerche dimostrano come la famiglia continui a rimanere un elemento fondamentale nella vita delle persone. Muta, però, il modo di costruirla concretamente. Anche solo questi scarni dati raccontano della «rivoluzione silenziosa» operata dalla popolazione e dalle giovani coppie. Una volta di più, l’(in) azione della politica scarica sulle famiglie un sovraccarico di funzioni, che con la crisi diventa ulteriormente oneroso. Il futuro dell’Italia si gioca ovviamente attraverso l’economia e la sua competitività. Ma non va dimenticato che le famiglie svolgono un ruolo fondamentale sia sul piano della coesione sociale, che su quello economico. Fra le riforme da realizzare, c’è una politica ancora tutta da costruire: quella per le famiglie (al plurale). Sarebbe utile, anche per avvicinare la politica alla vita quotidiana, ascoltare proposte concrete per favorire la natalità, la conciliazione famiglia-lavoro. L’idea di futuro passa anche (soprattutto) da qui. Speriamo che qualcuno se ne ricordi.

Repubblica 16.1.13
La famiglia moderna mamma, papà e tutti gli altri
Allargate, ricomposte, tradizionali. Ma anche single con figli, coppie gay e parenti adottivi. Ecco tutti i modi di dire “famiglia”
di Natalia Aspesi


L’ALTRA sera su Sky hanno trasmesso I ragazzi stanno bene, film americano diretto da Lisa Cholodenko, carico di premi e di candidature Oscar 2011. Trama: una coppia con due figli adolescenti sta passando un momento di crisi e ci scappa un tradimento, figli indignati, partner arrabbiatissimo, poi l’intruso viene scacciato e la famigliola si ricompone come se nulla fosse successo. Come capita quasi sempre. Trama più approfondita: due signore lesbiche di mezza età vivono con i figli che ognuna di loro ha avuto per inseminazione artificiale (dono dello stesso ignaro e allora giovane maschio) con il tradizionale, anche se ormai inesistente, ruolo dispari di coppia, una fa il medico e mantiene tutti, l’altra cerca con poco successo di inventarsi un lavoro: i due adolescenti, pur contentissimi di aver due mamme, son curiosi di sapere il lato virile del loro concepimento e, scoprendolo, non potrebbero trovar di meglio: uno bello e dolce, e sia pure con amante, ancora single! Di colpo lui si sente babbo, loro un po’ figli, poi la lesbica più carina finisce a letto con il doppio donatore che sta per innamorarsi di lei, e sono guai, come sopra detto.
Un film nato con il nobile intento di dimostrare come le diaboliche coppie dello stesso sesso siano uguali anzi meglio di quelle etero, e allevano figli belli, equilibrati, ubbidienti e studiosi, rivisto oggi un po’ innervosisce: perché comunque quello che conta per il film, più che perbenista, è che la famiglia non si spezzi, qualsiasi siano i suoi componenti: roba da family-day. Più ironico e terreno, l’attore inglese Ian McKellen, il Gandalf anche dell’ultimo The Hobbit, attivista gay, confida all’americano Time: «Ho sempre pensato che uno dei vantaggi dell’omosessualità fosse non essere obbligato a sposarsi, ma chi lo sa? Se qualcuno me lo chiedesse in ginocchio, forse non saprei resistere». E Sancho Maria e il fidanzato Melchor nel El especialista de Barcelona di Aldo Busi? Stanno per sposarsi davanti al sindaco, quando irrompe tra gli in- vitati “il qui presente Erramun Peli Aramburuzabala, perché la legge spagnola permette sì il matrimonio gay, ma la bigamia non ancora”. E dallo stesso romanzo, un pietoso pensiero alle donne, “Poverette, che si sposano con un uomo e poi devono accontentarsi del pressappochismo anche nel fare le lesbiche con lui per restare almeno incinte e essere proclamate mamme senza mai essere state femmine con nessuno e per nessuno! ”
In ogni caso, con la dichiarazione di lesbismo, tardiva (ma non è mai troppo tardi!) di Jodie Foster (mamma di due figli, la sua “modern family” come l’ha definita), si chiarisce che ormai dirsi lesbica, ancor più che omo, è molto contemporaneo, anche se non politicamente impegnato come negli anni in cui, per femminismo, ragazze molto etero praticavano l’amore tra loro come forma di liberazione dal maschio oppressore, non sempre con paradisiaca soddisfazione. Si sa che attorno al sesso, libero o proibito, benedetto o peccatore, si è sempre fatto gran rumore, e se ne sono sempre occupati troppo tutti, dal clero ai legislatori ai ficcanaso, e per esempio nella Londra del XVII secolo, una donna e un uomo accusati di fornicazione senza essere sposati, venivano minimo frustati ma talvolta anche condannati a morte.
Adesso si riempiono le piazze, come a Parigi domenica scorsa, sempre per ragioni di sesso e sentimento senza ragione, anche di migliaia di persone soprattutto giovani,
tipo nipoti di nonne che negli anni ‘70 manifestavano per ottenere l’interruzione di gravidanza; questa volta per impedire il matrimonio monosesso, in una Francia dove da anni sono consentiti i Pacs senza particolare spargimento di sangue. E in Italia dopo la sentenza di conferma dell’affidamento di una bambina alla madre convivente con un’altra donna, sono scoppiati i soliti scontri giuridicovescovili- liberal-moralistici, sempre uguali sia di qua che di là, mai un passo avanti o indietro da nessuna parte. In difesa della famiglia tradizionale, a Parigi si compiva una immensa gaffe inalberando cartelli che mostravano le sagome di un uomo che teneva per mano una donna e lui teneva per mano un maschietto e lei una femminuccia: confermando come in queste circostanze non si abbia la minima idea di cosa sia e sia sempre stata la famiglia. Per esempio: vedova con tre figli non è una famiglia, e due nonni maschi, uno per parte con un nipote, non sono una famiglia, una coppia più due zie e sei bambini non sono una famiglia, e due sorelle non sono una famiglia, e io orfana di padre con mamma e sorella e una zia vedova con un figlio e una figlia non eravamo una famiglia?
Si fa per dire, ma anche i simboli hanno un senso. E poi certo, la famiglia come la raccontano i vescovi e Giovanardi ed altri, esclusivamente etero e tutto reciproco amore, è meravigliosa, oltre che pilastro della società. Però sia permesso ricordare, non sempre. E per esempio un sondaggio Ipsos rivela che in Francia, nel 2009, più di 2 milioni di bambini sono stati vittime di incesto perpetrato da padri su figli soprattutto femmine: non si andrebbe più sul sicuro con niente babbo e due mamme? O una con due babbi e niente mamma, come nei casi di cui racconta il Sunday Times, con foto e tutto, di figliolini annegati, soffocati, anche incendiati da mamme (etero e regolarmente sposate) della cui follia nessuno si era accorto? Casi limite per fortuna: però le poste del cuore da noi pullulano di storie di famiglie rigorosamente etero ma sfasciate, di padri assenti, di madri che se ne sono andate, e la realtà di figli superprotetti, viziati, allevati come tiranni, impreparati alla vita: da un babbo e da una mamma, a cui non basta essere un uomo e una donna per assicurare amore e crescita equilibrata ai figli.

Corriere 16.1.13
Intellettuali francesi e despoti russi, l'attrazione fatale
Non c'è solo Depardieu
Dagli illuministi a Sartre un legame che neppure Napoleone potè spezzare
di Armando Torno


Da qualche secolo è in corso un'attrazione fatale tra Francia e Russia. Il fenomeno interessa cultura, arte, costumi e anche altro. Il caso di Gérard Depardieu, che porta la sua residenza dalle rive della Senna a quelle della Moscova per salvarsi dalle aliquote da infarto, è l'ultimo di una lunga storia. La quale cominciò seriamente nel secolo dell'Illuminismo, in quel Settecento che vedeva personalità come Voltaire e Diderot al soldo della zarina Caterina II. Al primo pagava una sorta di consulenza per avere consigli; al secondo elargiva uno stipendio vero e proprio con l'«obbligo» di comperare libri che, dopo la sua morte, sarebbero passati alla biblioteca imperiale.
Non è un mistero: Pietro il Grande consultò non pochi artisti francesi per creare San Pietroburgo e gli architetti giunsero da Parigi anche dopo la sua dipartita: il caso più noto fu quello di Richard Montferrand, chiamato dallo zar Alessandro I per sostituire una precedente struttura di Antonio Rinaldi. Napoleone, poi, incarnò il sogno francese di conquistare quell'immenso territorio e a Mosca portò anche la Comédie française, insieme al cognac e a qualche capriccio gastronomico. Di contro, i russi riuscirono ad adorare per oltre un secolo i loro invasori, ne adottarono la lingua (non soltanto tra i nobili) e tutti i possibili costumi. Un esempio tra i mille possibili: Guerra e pace di Tolstoj, il romanzo per eccellenza della letteratura mondiale, comincia con parole francesi. E a Parigi, allorché giunsero gli eserciti dei vincitori di Napoleone, i russi furono tra i più graditi. Addirittura i cosacchi inventarono il bistrot, poiché sfilando per le vie della capitale chiedevano da bere aggiungendo «bistro» (in russo significa «presto») e i francesi chiamarono in tal modo osterie e piccoli caffè.
Per tutto il secolo romantico, la Francia guardò con ricambiato amore la Russia. Una passione che si incarna in personaggi come Théophile Gautier che nel 1858 è a Mosca ed è anche l'autore del libretto di Giselle, balletto che verrà immortalato soprattutto nelle stagioni russe di Parigi e che entrerà nell'immaginario con interpreti quali Tamara Karsavina, Olga Spessivtseva, Galina Ulanova, Natalia Makarova o Anna Pavlova. Del resto, l'Ottocento si chiuse sulla Senna con l'inaugurazione del ponte Alessandro III: collega il Grand e il Petit Palais all'Hôtel des Invalides. La prima pietra la pose lo zar Nicola II. Si proponeva di suggellare l'alleanza tra Francia e Russia.
Nemmeno il periodo comunista riuscì a chetare la passione. Di essa fece parte il Nobel Romain Rolland, che soggiornò diverse volte nella dacia di Lenin. E Sartre. Il celebre Jean-Paul si impegnò, dal 1952, a concretizzare l'antico amore. Nel novembre di quell'anno partecipava al Congresso nazionale della pace a Vienna, voluto dall'Urss, e la sua presenza diede risonanza mondiale all'incontro. Nel 1954, al ritorno da un viaggio in Russia, pubblicò sul quotidiano comunista Libération sei articoli che illustravano la grandezza del sistema sovietico. Di più: nel 1955 scrisse la pièce teatrale Nekrassov che strigliava la stampa anticomunista. Si possono aggiungere Aragon, del quale basterà dire che fu Premio Lenin per la pace nel 1956; o Gide, che nel 1936 accettò l'invito delle autorità sovietiche per un viaggio in Urss (tornò deluso dal totalitarismo non certo dalla Russia). Il caso di Simenon, anche se belga, deve essere ancora chiarito: non soltanto ebbe in dono una pipa da Stalin, ma fece viaggi in Urss organizzati dal Kgb. Negli archivi di Odessa degli ex servizi segreti sono conservate carte che provano la sua collaborazione con il mondo sovietico, anche se per molti il padre di Maigret è ancora un uomo di destra.
A tutti gli altri possibili casi aggiungiamo quello di Henri Barbusse, lo scrittore francese vincitore del Premio Goncourt che morì a Mosca ed è sepolto sotto le mura del Cremlino. Fervente stalinista, anzi nel 1935 pubblicò anche una biografia del Piccolo Padre, la sua novella Le Feu (Il fuoco) del 1916 fu anche l'unico libro venato di erotismo permesso nelle scuole sovietiche. I ragazzi lo divoravano. E non per le sue qualità letterarie.

La Stampa 16.1.13
Museo Lombroso. Questo cranio s’ha da restituire?
di Marco Neirotti


Il “Lombroso” di Torino è deciso a tenersi il teschio del pastore calabrese Giuseppe Villella Il direttore Montaldo: “Non è un ricordino, è un pezzo di storia delle scienze, errori compresi”

Rubò cinque ricotte nel parco del ricco. Era il 1843. E 170 anni dopo, il pecoraro calabrese Giuseppe Villella, ladro recidivo morto nel 1864 nel carcere di Pavia, «torna» nelle aule di giustizia con vesti diverse: patriota contro l’invasione coloniale di Garibaldi, disgraziato che merita pietoso funerale, reperto scientifico per la storia dell’antropologia. Quel che resta di lui, cioè il suo cranio, è al Museo Lombroso di Torino, dedicato allo studioso che su di lui eseguì l’autopsia, fondante per ricerche e teorie sull’atavismo criminale. I revisionisti del Risorgimento ne fanno emblema del «nazismo» sabaudo contro i meridionali, il sindaco del suo paesello, Motta Santa Lucia, lo reclama come figliolo, il consiglio comunale di Torino vota una mozione per restituirlo, ma non lo può fare perché la testa di Villella è dell’Università cui appartiene il Museo. Il Museo aspetta quel che deciderà la Corte d’Appello il 5 marzo.
Il consiglio comunale di Torino ha simbolicamente «sdoganato» il brigante, mozione votata da metà consiglio con l’altra metà astenuta (sindaco Fassino compreso). Il direttore del Museo, il professor Silvano Montaldo, non si scompone: «Ne prendiamo atto, con rammarico, ma aspettiamo il pronunciamento dopo che è stato accolto il ricorso presentato dall’Avvocatura dello Stato».
Scusi, professore, e tenervi gli studi di Lombroso insieme con un calco? «Non è un ricordino, è un reperto [con la data dell’autopsia scritta allora con il lapis sull’osso, ndr], custodito in base al Codice dei Beni culturali». Va da sé che non lo studiate di nuovo, è superato: «Non lo studiamo di nuovo, comunque non certo per apprendere il presente.
Ma è un pezzo di storia delle scienze, errori compresi. Ce ne sono pochi al mondo, uno è il cervello sul quale lavorò Paul Broca, custodito a Parigi». E dopo Villella? «Sarebbe un precedente inquietante per la protezione dei Beni culturali. In base a questo principio si potrebbero svuotare i musei».
Gli fa eco l’International Council Museums, che elenca articoli del Codice: «Le collezioni anatomiche, quando entrano in un museo, acquisiscono uno status nuovo e diverso rispetto a quello originale di cadaveri umani: sono beni tutelati e la loro dispersione sarebbe la negazione di ogni etica museale». E poi: «La restituzione dei resti, non consentita dal Codice, disperderebbe del tutto una memoria, certamente dolorosa, che fa parte della travagliata storia del nostro Paese».
C’è tutto e di più in questa vicenda, l’unico elemento vago resta la biografia del ladro di ricotte, cacio, pane e capretti, nonostante le accurate indagini di una ricercatrice dell’Università di Padova, Maria Teresa Milicia, su scarni documenti dell’epoca. Due anni fa, a Torino, mentre si preparavano i festeggiamenti per l’Unità d’Italia, sfilò un corteo che, al grido di «Lombroso razzista, Mazzini terrorista», deponeva fiori sotto il cartello che indica il Museo. E Domenico Scilipoti (allora Idv, prima della folgorazione sulla via di Arcore) presentò un’interrogazione parlamentare per la cancellazione di Lombroso dalla toponomastica nazionale (arrivando secondo dopo podestà fascisti e truppe naziste armati contro la memoria del medico ebreo).
Villella è insieme una questione di principio, un grimaldello contro il criminologo nato a Verona nel 1835, morto a Torino nel 1909, perfino contro l’Unità d’Italia, o solo uno sventurato defunto? Alla richiesta presentata da Comitato No Lombroso e Comune di Motta Santa Lucia con il sindaco Amedeo Colacino, il Tribunale di Lamezia Terme con ordinanza del 3 ottobre 2012 ha disposto la «restituzione». Al cranio quale testimonianza degli errori di Lombroso, il giudice Gustavo Danise replicava che il ragionamento «darebbe corpo all’ipotesi per cui un individuo che per errore giudiziario sia condannato alla pena della reclusione per numerosi anni, sia lasciato in carcere quale testimonianza degli errori che può commettere la giustizia statale».
L’Università degli Studi e il Museo hanno presentato ricorso e la corte d’appello l’ha accolto: «È meritevole di tutela l’interesse dell’appellante, atteso che l’esecuzione dell’ordinanza impugnata, che accoglie la domanda volta ad assicurare la tumulazione del cranio di Villella, appare pregiudicare gravemente l’interesse dell’Università appellante». Udienza il 5 marzo. Sul sito «No Lombroso», il teschio gioca d’anticipo: «Grazie per avermi liberato».

La Stampa 16.1.13
Ma è ora di dare sepoltura agli orrori di quel museo
Un brigante molto presunto vittima di un medico folle che ha posto le basi per i preconcetti anti-meridionali
di Mimmo Cangemi


La fossetta occipitale mediana, riscontrata nel cranio del brigante Villella - brigante molto presunto, essendosi distinto per furti di ricotte, di pezze di formaggio e di capretti - divenne per Cesare Lombroso la caratteristica strutturale che avvalorava la teoria del delinquente per nascita, dell’atavismo criminale. Lo studio diede a Lombroso gloria in vita, e derisione postuma quando esso fu bollato inconsistente e privo di fondamento scientifico. Ma causò preconcetti nei confronti dei meridionali, giudicati geneticamente inferiori, dimentichi, i detrattori, che quel popolo dissertava di filosofia e del teorema di Pitagora quando altrove vestivano pelli di orso e tracciavano sulle pareti delle caverne i contorni di un montone.
Sono ragioni bastevoli per eliminare le tracce di un’idea che ha lasciato sulla gente del Sud un discredito e un odio razziale basati su niente, che ha rallentato il senso di patria comune e contribuito ad alimentare rigurgiti di secessione e di razzismo. È pertanto doveroso sia dare sepoltura a Villella, e a ciò che ha rappresentato per troppo tempo il suo cranio esposto, sia al museo degli orrori - oggetto di una recente e costosa ristrutturazione e da poco aperto al pubblico, dopo essere stato disponibile ai soli studiosi - sia all’immeritata fama di un medico folle, sia alle strade a lui intitolate, persino nel Sud vilipeso, dove dovrebbero affrettarsi a passare una pesante mano di vernice nera sulla targa di un uomo che non merita onori.
La vicenda potrebbe diventare spunto per riscrivere la storia, osservandola anche dall’ottica dei vinti, e rendere ufficiale che il brigantaggio fu spesso guerriglia per fedeltà alla patria perduta, che la legge Pica giustiziò innocenti, che il Sud fu una conquista, a volte sanguinaria.
Mantenere invece le testimonianze delle strampalate tesi lombrosiane soccorre chi ha interesse a conservare certe tare e fornisce spunto per sottili insinuazioni - testuale da Marco Travaglio a Servizio pubblico giovedì u. s., riferito a Cesare Previti, reggino: «Facile scambiarlo per un buon avvocato, se non hai letto Cesare Lombroso»; forse non intendeva il senso letterale, e però… A riguardo, è illuminante che la Lega Nord abbia votato no alla mozione presentata in consiglio comunale a Torino per la restituzione delle spoglie trattenute nel museo Lombroso.

La Stampa 16.1.13
Addio allo psicoanalista Pontalis


È morto ieri a Parigi, nel giorno del suo 88 compleanno, JeanBertrand Lefèvre-Pontalis, il «grande vecchio» della psicanalisi che ha indagato il linguaggio in ogni sua forma, famoso come autore della Enciclopedia della psicoanalisi , tradotta in 32 lingue. Allievo di Sartre, poi seguace di Lacan, intraprese la professione di psicanalista, per tornare alla filosofia e rivolgersi infine alla letteratura, entrando a far parte della Gallimard, dove dal 1979 faceva parte del comitato di lettura.

Corriere 16.1.13
Pontalis
Le radici nascoiste della nostalgia
di Lella Ravasi Bellocchio


È morto a Parigi a 89 anni Jean-Bertrand Pontalis. È stato uno psicoanalista tra i più interessanti, allievo di Lacan e Sartre, coautore della celebre Enciclopedia della psicoanalisi, ma quello che sempre mi ha catturato di lui era la capacità di narrare, far parlare l'inconscio, il suo essere uno scrittore, un narratore che prende per mano e muove nei territori della fantasia, del sogno, con una libertà totalmente al di fuori degli schemi interpretativi di scuola, oltre le appartenenze.
Non a caso il libro per cui — in Italia almeno — è più conosciuto è Finestre, un testo bellissimo, denso di evocazioni: ogni pagina uno scavo poetico dentro l'inconscio, tra memoria e oblio, tra parola e immagine. Così si lavora, non per trattazioni teoriche comprensibili solo tra adepti, ma appunto aprendo finestre, spalancando sul mondo orizzonti senza sbarre. Ripenso ad alcuni spunti: ad esempio parlando del rapporto con la madre riesce a pronunciare in poche parole la necessità della riparazione. Quando Pontalis si interroga sull'immagine di Ersatz, alla lettera «surrogato», scrive: «Lugubre Ersatz, di cui deve accontentarsi il vinto. Ersatz che segue la sconfitta, l'umiliazione, la vergogna». E poco dopo aggiunge: «Ma ci sono sostituti materni? Per quanto insoddisfacente sia stata è unica. Mi dico che il solo essere insostituibile, e ancor meno interscambiabile, forse addirittura immortale, è (se non la nostra) la madre, e a mia madre minuscola, attribuisco, dò, la maiuscola».
Possiamo vivere una realtà trasformativa e forte quando la maternità è luogo radicale di cambiamento anche quando la madre che ci ha messo al mondo confinerebbe nella miseria della vergogna il nostro passato, lugubre terra di vinti. Se è così non se ne esce. Dice Pontalis, e questo davvero cambia il lavoro analitico, che per andare avanti ci tocca andare oltre, perdonarla, comunque, darle la maiuscola. È un bel modo per dirlo: la minuscola diventa maiuscola, unica, insostituibile. Allora la vita di ciascuno di noi non è ricattata, ma riscattata per il solo fatto di riconoscerne l'unicità, a partire dalla madre. Così come, prosegue Pontalis, è alla terra madre che siamo profondamente legati, al luogo della appartenenza che non va tradita, ma riconosciuta come base per tutte le ricerche per terre lontane, dentro e fuori di noi.
Parla dell'esilio come di qualcosa che ha l'impronta della nostalgia, del passato e del futuro, della memoria come materia che fonda la traccia delle radici, e in questo senso fa della psicoanalisi la scienza delle tracce, forse. Ma sono sue le parole più importanti, che mi rimangono impresse: «Nome comune della nostalgia: male del paese. Ammalarsi perché si è stati separati dal paese natale. Sofferenza dell'esilio. Sogno di un ritorno non assicurato. E il ritorno non manterrà le promesse attese. Sì, ma che cos'è questo paese natale per noi che parliamo di nostalgia facendo riferimento a un tempo, più che a uno spazio o a un luogo? Nostalgia del tempo passato, del nevermore. Dolore del non-ritorno, rifiuto del cambiamento per ciò che esso distrugge, rabbia impotente davanti al tempo devastatore, al tempo che non si limita a passare, che annienta».
La nostalgia forse è il nevermore dove vanno a finire i nostri lutti, le nostre perdite, e cambiano colore ad ogni orizzonte. Scrive ancora Pontalis, in quella sua lingua che è poesia, immagine, e novità interpretativa, libera di usare parole e visioni che poco per volta ci conducono al suo progetto che si srotola davanti a noi, un pensiero nuovo: «Non è il passato che il nostalgico idealizza, non è al presente che volta le spalle, ma a ciò che muore. Il suo augurio: poter trovare ovunque — che egli cambi continente, città, mestiere, amore — il proprio paese natale, quello dove la vita nasce, rinasce. Il desiderio che la nostalgia reca in sé non è tanto il desiderio di un'eternità immobile ma di nascite sempre nuove. Allora il tempo che passa e distrugge cerca di mutarsi nella figura ideale di un luogo che resta. Il paese natale è una delle metafore della vita».
Metafore della vita. Luoghi dove la nostalgia si anima di una rinascita che anche nei sogni è materia viva, e aiuta a resistere, a durare, a cambiare. I luoghi che ci fa balenare Pontalis sono dimora di nostalgia e di Ombra, e là dove è nato il male di vivere e la sofferenza e il dolore, fino alle zone più oscure della patologia, là, lui ci dice, si trovano anche i possibili orizzonti di rinascita.

Repubblica 16.1.13
Monsieur Pontalis e il dottor Freud
È morto a Parigi l’autore dell’“Enciclopedia della psicoanalisi”
di Umberto Galimberti


Adieu Jean-Bertrand Pontalis. La tua morte, ieri a Parigi, proprio nel giorno del tuo ottantanovesimo compleanno, mi addolora perché, tra ortodossi ed eretici della psicoanalisi, tu non ti sei schierato né con gli uni né con gli altri. Hai inseguito le parole di Freud dal tronco dove sono nate, ai rami dove si sono confermate o deviate. Per te le parole non potevano oscillare, cercavano di fissare quel mondo infero che Freud ha chiamato “inconscio”. Quando i successori di Freud, sia quelli che ne seguivano la traccia, sia quelli che se ne allontanavano per cercare un briciolo di originalità, nella vana speranza di consegnare alla storia il loro nome, tu ne inseguivi i percorsi, scandagliando, nelle novità linguistiche, se c’era davvero qualcosa di nuovo.
E poi caro Jean-Bertrand, e insisto sul tuo nome e poi vedremo perché, fissando in parole chiave tutta l’architettura del pensiero di Freud che, grazie alla sua struttura ossessiva e paranoica, che in questo caso sono due pregi, già offriva una fissità linguistica che non concedeva troppe oscillazioni, sia quando Freud parlava di Io, Es e Superego, sia quando, in quella che i commentatori chiamano «seconda fase», parlava semplicemente di amore e di morte. Lasciando intendere che la vita riesce a vivere finché amore la circonda e poi, quando questo più non accade, è lo spessore opaco e buio della materia che ruba alla vita la sua forza di vivere.
Ora che la vita è stata rubata anche a te, per quella forza che l’inorganico ha sull’organico, come tu avevi ben precisato in quella splendida Enciclopedia della psicoanalisi (edita in italiano da Laterza) che hai scritto insieme a Jean Laplanche, fornendo un testo base che tiene fermo il linguaggio di Freud al di là di tutte le oscillazioni che il gioco delle interpretazioni non cessa di tradire, lasciami ritornare a quell’incontro del 1987 quando, in un caffè di Parigi, ti chiesi alcune interpretazioni delle tue voci e in particolare tra “pulsioni” e “rappresentazione delle pulsioni” dove in Italia acceso era il dibattito con le più stravaganti letture. Era l’epoca in cui per la Utet stavo scrivendo il Dizionario di psicologia, e non c’era modo di essere terminologicamente precisi su Freud, se non ricorrendo a te. Ho vivo ancora il ricordo di quell’incontro. Poi non ci siamo più sentiti, come sempre mi capita quando incontro figure importanti che assumono ai miei occhi figure di icone, con cui non si può avere confidenza, neppure in quella forma abusata ed impropria che si chiama amicizia.
Ma tutto non è finito lì. Un bel giorno Raffaello Cortina pubblicò in Italia un tuo bellissimo libro che aveva per titolo Limbo. Un piccolo inferno più dolce.
Parlavi di quelle anime incompiute che non sono né sante né dannate, di quei frammenti di esistenza che sono gli amori di una stagione senza fedeltà, ma con la memoria della loro intensità, le decisioni mai prese, i sogni infranti, i progetti accennati e mai realizzati, e quel sognare tutte le esistenze possibili che dimorano dentro di noi e che non vedono la luce, perché la dura realtà spesso ti obbliga a vivere la vita che non sei.
In fondo, dicono i resoconti su di te, che avresti voluto fare il camionista, oppure il maestro elementare in un villaggio, oppure l’attore, oppure prestare la tua voce ai microfoni di una radio. Tutte vite non vissute. Vite da limbo. Esistenze solo accennate che non hanno raggiunto il loro nome. Come è capitato a te in Italia che, quando per intero si scriveva il tuo nome, non era mai Jean-Bertrand come ti chiamavi, ma Jean-Baptiste. Anche tu un abitante del limbo, come se la tua vita, che Sartre e Lacan hanno tanto apprezzato, non fosse l’unica che potessi vivere.
Hai fatto lo psicoanalista, non in quel modo codificato di chi tace e ascolta chi parla. Non col disinteresse che rende esangui le parole che, come dicevano i Greci, non vengono dal cuore, ma con quella partecipazione che rende vera la parola, non perché in quel modo esiste un criterio di verità, ma perché esiste quell’incerto errare che, quando intercetta il sentiero dell’altro, fa verità.
A differenza della Francia, in Italia abbiamo codificato questa professione, derubricando la psicoanalisi a psicoterapia, con l’intento di reperire criteri oggettivi che ne garantissero le professione. Tentativo inutile e dannoso, perché non c’è nulla di oggettivo quando si ha a che fare con la soggettività. Per questo alla regolamentazione tu preferivi l’anarchia, che come tu dicevi, in nessun caso è pericolosa, perché chi soffre sa se la parola che giunge lo riguarda. Il criterio non è l’oggettività, è la risposta del dolore. Una risposta incontrovertibile. Inevitabilmente sincera. Oggi caro Jean-Bertrand, abbi nel mio sentimento una delle tante memorie che quanti ti hanno conosciuto conservano come cosa preziosa.

La Stampa TuttoScienze 16.1.13
L’altruismo è raro: il mistero svelato dai circuiti del piacere
E lo scanner cerebrale dà ragione a Kant
“Ecco perché è così difficile diventare un Buddha”
di David Linden

Johns Hopkins University

Traduzione di Carla Reschia
David Linden Neuroscienziato: È PROFESSORE DI NEUROSCIENZE ALLA JOHNS HOPKINS UNIVERSITY DI BALTIMORA (USA) IL SITO : HTTP://NEUROSCIENCE.JHU. EDU/DAVIDLINDEN.PHP"

La maggior parte delle esperienze che consideriamo speciali - siano vizi illeciti o rituali socialmente codificati oppure, ancora, realtà tanto diverse tra loro come l’esercizio fisico e la meditazione - attivano un’area del cervello, anatomicamente e biochimicamente definita, nota come circuito del piacere.
Orgasmo, apprendimento, alimenti altamente calorici, gioco d’azzardo, preghiera, balli sfrenati, giochi su Internet: tutte queste attività generano un segnale neurale che converge su un piccolo gruppo di settori cerebrali, connessi tra loro, e chiamato in gergo «circuito del piacere del proencefalo mediale», nel quale un neurotrasmettitore - la dopamina - gioca un ruolo cruciale. È proprio in questi piccoli agglomerati di neuroni che viene percepito il piacere. Questo circuito attivato dalla dopamina può essere anche «cooptato» da alcune, anche se non tutte, sostanze psicoattive, come la cocaina, la nicotina, l’eroina o l’alcol.
Il collegamento con l’evocazione del piacere che avevo notato da ragazzo, osservando a Santa Monica, in California, lo slogan «Dona, finché ti sentirai bene», ha assunto via via maggiore significato anni dopo, quando ho cominciato a esaminare i nuovi sviluppi della ricerca sul cervello, quelli che potrebbero aiutarci a capire meglio ciò che motiva la beneficenza.
Una serie di studi è stata condotta da William Harbaugh, professore di economia presso l’Università dell’Oregon, e da alcuni colleghi. L’obiettivo era capire come il circuito del piacere nel cervello reagisse a situazioni diverse, dal donare fino al pagare le tasse. Una teoria sostiene che ci siano individui che fanno beneficenza spinti dall’altruismo. Provano soddisfazione nel fornire un bene pubblico, come l’assistenza ai bisognosi, e si preoccupano soltanto dell’effetto e non del processo che lo genera. Il modello implica che queste persone dovrebbero provare un certo piacere anche quando il trasferimento di ricchezza è obbligatorio, come avviene con la tassazione. Una seconda teoria, invece, nota come «luce calda», sostiene che le persone amino prendere la decisione consapevole di donare. Traggono piacere dal senso della loro azione, più o meno allo stesso modo in cui le persone preferiscono tirare i dadi durante un gioco ed estrarre personalmente i numeri della lotteria. Ecco perché in questo altro modello la tassazione obbligatoria non appare in grado di produrre una «luce calda». Una terza teoria, poi, ipotizza che per alcune persone il piacere di dare nasca dalla valorizzazione del loro status sociale. Si compiacciono di essere considerati ricchi e generosi dai loro pari.
Tutte queste teorie, naturalmente, non si escludono a vicenda. Qualcuno potrebbe essere motivato dall’altruismo e dalla «luce calda» della scelta consapevole e del desiderio di approvazione sociale.
Harbaugh e il suo team hanno ideato il loro esperimento per indagare le prime due teorie, ma non la terza. Hanno quindi reclutato 19 giovani donne nella zona di Eugene, nello Stato americano dell’Oregon, e hanno chiesto loro di eseguire una serie di operazioni di tipo economico, monitorandole con uno scanner cerebrale. Erano state informate che nessuno, nemmeno gli sperimentatori, avrebbero conosciuto in anticipo le loro scelte (ed era vero: le loro decisioni sono state registrate direttamente sul computer e codificate automaticamente prima dell’analisi).
È presumibile che la struttura di questo esperimento elimini la motivazione del miglioramento del proprio status sociale. E, infatti, ogni soggetto aveva ricevuto su un conto personale la somma di 100 dollari, che sarebbero poi stati ripartiti in varie quote a una «banca del cibo». Se in alcune delle prove i soggetti avevano la possibilità di fare la propria donazione, in altri, invece, non avevano scelta: erano «tassati». In altre prove, poi, avevano ricevuto il denaro senza alcuna condizione.
L’indagine è stata condotta nel modo seguente: ai soggetti è stata presentata una somma di denaro su uno schermo, 15 oppure 30 dollari. Appena pochi secondi dopo venivano informati della destinazione: se la somma era un regalo, una tassa sul loro conto oppure, ancora, un’offerta da destinare in beneficenza. Potevano accettare o rifiutare, semplicemente premendo un pulsante.
I risultati ottenuti con la scansione del cervello hanno mostrato che, proprio come il ricevere soldi, sia le tasse sia la beneficenza attivano alcune regioni, quasi sovrapposte, appartenenti al circuito del piacere. Tuttavia, in media, i gesti di beneficenza producono una maggiore attivazione di questa area rispetto a quanto induce la tassazione. I risultati, quindi, supportano sia il modello del «puro altruismo» sia quello della «luce calda» come motivatori del dare di tipo caritatevole.
Naturalmente questo non significa che i volontari sorridessero compiaciuti, mentre compilavano i modelli per il fisco. E non significa neppure che il cervello di tutti risponda sempre ed esattamente allo stesso modo in queste specifiche condizioni. Circa la metà dei soggetti dello studio, infatti, ha mostrato una maggiore attivazione del centro del piacere quando ha ricevuto una somma di denaro e minore quando la regalava. E allo stesso tempo l’altra metà ha rivelato risultati opposti. Non a caso, chi dimostrava più piacere nel dare ha effettivamente scelto di dare molto più in beneficenza rispetto all’altro gruppo.
A questo punto nasce una domanda filosofica: se il dare, anche in modo obbligatorio e in forma anonima, attiva i centri del piacere del cervello, questo significa che, in realtà, il «puro altruismo» non esiste? In altre parole, se i nostri istinti più nobili ci danno piacere, questo fatto li rende meno nobili?
Vale la pena ricordare che le motivazioni dei comportamenti altruistici sono stati un argomento di grande interesse in molte tradizioni filosofiche e religiose. Kant, per esempio, ha scritto che gli atti indotti da sentimenti di simpatia non sono veramente altruisti e, quindi, non meritano lodi, perché fanno sentire bene chi li compie. E questo non è soltanto un freddo concetto nordeuropeo: un’idea simile si trova nel concetto buddhista di «dana», vale a dire l’altruismo distaccato, il dare separato dalla ricompensa (anche interiore), che è un attributo fondamentale del Bodhisattva illuminato. Gli esperimenti di Harbaugh suggeriscono che l’altruismo del tutto puro - il dare senza piacere - è un comportamento molto innaturale e difficile da raggiungere.

Corriere 16.1.13
Pasolini, il vero pittore è un poeta
«Il contatto con l'ineffabilità di Dio crea immagini della sua bellezza»
di Andrea Cirolla


Nel Fondo Pasolini dell'Archivio Bonsanti di Firenze è conservato un saggio inedito dal titolo Se la pittura odierna possa stimarsi un genere poetico. La sua datazione è dubbia, ma riferimenti al filosofo francese Jacques Maritain, pressoché identici a quelli presenti nel lavoro di laurea su Pascoli, portano alla primavera del '45, quando fu conclusa la stesura della tesi (Le frasi che seguono tra virgolette, che provengono dall'inedito, si propongono di superare la frammentarietà del testo, e sono autorizzate da Graziella Chiarcossi).
Il saggio muove da alcune pagine di Maritain sulla poesia come esperienza spirituale, dove — scrive Pasolini — «ho trovato espresso quanto da tempo mi lampeggiava nella mente». La poesia è riconosciuta «come il frutto di un contatto dello spirito con la realtà in sé ineffabile e con la sua sorgente la quale, in verità, è Dio medesimo, nei movimenti d'amore che lo portano a creare immagini della sua bellezza». «Boccaccio non aveva già detto che "poesia è teologia"? In ogni caso è ontologia, perché, se autentica, essa scaturisce dalle misteriose sorgenti dell'essere».
Pasolini applica il discorso al campo pittorico, distinguendo tra una pittura poetica e una pittura pura. Si riscontra lo stesso criterio in alcuni articoli pubblicati sul «Setaccio» tra marzo e maggio '43. In Giustificazione per De Angelis il pittore ischitano è associato più a «un gusto poetico, che ad un piacere schiettamente e puramente pittorico»; il Commento allo scritto di Bresson parla di un'«aria poetica espressa con mezzi unicamente e coscientemente pittorici che tante volte i nostri Carrà, Morandi, De Pisis ecc... hanno saputo realizzare». L'inedito tenta una teorizzazione: «Anche la pittura è poesia, se per questa s'intende, col Maritain, un'esperienza spirituale. E così, io credo, l'intendono i grandi pittori da Giotto all'Ottocento. L'Impressionismo dei francesi ne è la prima cosciente reazione. Psicologia e poesia (...) si arrendono dinnanzi alla purezza della pittura (...) ma la loro eternità risiede in un colpo di pennello, in un'ombra, in una luce, in un colore». «Era una posizione che non si poteva mantenere a lungo senza vacillare»; già di fronte alla pittura di Van Gogh «il sentimento è certamente più poetico che pittorico. Noi cogliamo subito quello che egli ha voluto darci, cioè della lirica. Una lirica, o un brano di diario, che nella Camera dell'artista vogliono esprimere una desolata solitudine». Quella «cameretta è un faro situato, e volutamente, alle sorgenti dell'essere, nel luogo ancora inesplorato e terribile che è dentro di noi». Sono immagini tipiche del giovane Pasolini, di matrice esistenzialistica. Nel saggio postumo I nomi o il grido della rana greca ('45-46), scriveva di «chi avverte o sente in sé quell'infinito, dentro l'esteso deserto che è la sua vita», laddove nell'inedito si legge dell'«esteso deserto che è la nostra vita interiore ove ci avventuriamo da soli».
Il testo prosegue con analisi di opere del filone «poetico»: Picasso (Chitarra e violino), Carrà (L'amante dell'ingegnere), De Pisis. Picasso «ci fa assistere a una poetica decomposizione del senso delle cose, e ci porta a un inspiegabile disagio, ad una febbrile indisposizione, cioè ad uno stato poetico (...) un improvviso grido di ironica angoscia». «Carrà nell'Amante dell'ingegnere, vuol giungere senza indugi a quella fermezza ed eternità che sono l'inaspettato esito della grande pittura (...). Era uno sbaglio, un'illusione. Tuttavia poiché solo gli sbagli e le illusioni nutrono il poeta, queste cadono; l'opera vuole restare; e non è detto che la Moglie dell'ingegnere (sic!) non sia una pittura davvero poetica (quella sua strana solitudine, quel suo pauroso silenzio). Anche tecnicamente è un quadro senza storia, cioè senza una storia particolare (...) un colore inaspettato, un segno o una sporcatura fantastici... un'improvvisa linea che si interna nello spazio, segnano le date visibili, drammatiche di un'ideale cronologia (...). In questa Amante dell'ingegnere che io prendo come esemplare di pittura antimpressionista, o poetica, dove l'eterno e l'ineffabile sono per se stessi ricercati, quella storia manca; la perfezione vi affiora indifferente e accesa (...). La mortale solitudine di quell'orizzonte da diluvio, un chiarore temporalesco, della testa deforme contro il buio impossibile dello sfondo, l'abbandono maligno e significativo di quell'oggetto oblungo, che sferzando tutte le linee orizzontali e verticali della composizione sembra puntare indifferente senza una dimensione mai scoperta ed atroce... vogliono essere un linguaggio desolatamente preciso, dichiaratamente poetico».
In tredici fogli manoscritti emergono tracce di diverse esperienze. Idee sulla poesia e sulla pittura sono appuntate in modo piuttosto slegato, e non suscitano forte interesse se considerate isolatamente, ma assumono valore in rapporto alla biografia. Una curiosa corrispondenza lega queste pagine inedite, sospese tra poesia, arte e filosofia, alle tre tesi che Pasolini progettò tra l'agosto '42 e il marzo '47. Della prima, concordata con Roberto Longhi sulla pittura italiana contemporanea, scrisse brevi capitoli dedicati a Morandi, Carrà e De Pisis, poi persi in una fuga da disertore verso Casarsa dopo l'8 Settembre. Dunque, com'è noto, riparò su Pascoli. Di una terza tesi, in filosofia, dà notizia l'epistolario: «I rapporti tra esistenzialismo e poetiche contemporanee». Ma non fu scritta, o almeno non se n'è mai avuta traccia.
Tale varietà di interessi conferma fin dall'inizio non l'eclettismo, ma il «relazionismo» di Pasolini, sempre disciplinato dall'urgenza di poesia. Enzo Paci, filosofo a lui caro lungo gli anni Quaranta, scriveva: «Di fronte al mistero della poesia come comunicazione nel tempo, di fronte all'accadere ed al realizzarsi di questo fatto impossibile (...) noi ci domandiamo: che cosa ho sentito? che cosa sento? che cosa è avvenuto e che cosa deve avvenire in me?».