domenica 20 gennaio 2013

l’Unità 20.1.12
Bersani: «Siamo noi la sola alternativa alla destra»
Il leader Pd a Milano «Con Ingroia mai parlato di desistenza»
Ambrosoli: «Convinti di essere i più forti»
di Laura Matteucci

MILANO «Siamo alla sfida più alta, all’appuntamento storico per cui abbiamo lavorato per anni: portare il cambiamento alla dimensione del governo. E stavolta la vittoria è a portata di mano. La politica unita alla riscossa civica ci ha già fatto vincere, ci farà vincere ancora». Pier Luigi Bersani intende in Italia e in Lombardia, la regione chiave, quella che farà la differenza tra una vittoria certa e un rischioso pareggio: è a Milano prima e a Brescia poi insieme al candidato alla presidenza della Regione Umberto Ambrosoli, la prima di una serie di incursioni in terra lombarda in vista delle elezioni. La premessa del segretario del Pd è una riflessione: «I voti sono tutti utili: solo che alcuni lo sono come testimonianza, o come protesta, votare per noi invece è utile per battere la destra e vincere». Il riferimento è soprattutto al movimento di Ingroia Rivoluzione civile, col quale «non c’è mai stata né ci sarà l’ipotesi di un patto di desistenza». Perché «vince chi arriva primo in una logica di bipolarismo commenta Bersani Dunque a Ingroia dico “attenzione, sono i progressisti e il Pd che possono costruire un’alternativa alla destra”. Posizioni di radicalizzazione e di riduzione del tema della legalità su posizioni faziose, non favoriscono il cambiamento». Corollario: la rottura tra Ingroia e il Pd è a livello nazionale, perché per le regionali lombarde alcuni esponenti del movimento sono confluiti nella lista «Etico per un’altra Lombardia» che appoggia Ambrosoli.
Il segretario del Pd conferma anche l’intenzione di procedere con una legge sul conflitto di interessi: «Abbiamo già diverse proposte». E a Grillo che vorrebbe far sparire i sindacati replica: «Il qualunquismo parte da qualsiasi punto e poi arriva sempre a destra, a posizioni fascistoidi». Bersani conferma invece la possibilità di dialogo con Monti dopo le elezioni: «Siamo aperti al confronto con le forze antipopuliste, europeiste e costituzionaliste per un pacchetto di riforme. La nostra è una posizione chiara da due anni». Di sicuro però la politica economica, con una recessione che secondo Bankitalia è attribuibile alle misure correttive, dovrà cambiare: «Non si può rincorrere la recessione con manovre continue, che la recessione finiscono per aggravarla», dice Bersani. Sì, allora, a maggiori stimoli per gli investimenti e per il lavoro («se non si crea la convenienza alla stabilizzazione, non se ne viene fuori»), no ad altre patrimoniali oltre all’Imu, che va resa progressiva e affiancata ad un’imposta personale sui grandi patrimoni immobiliari. «Il resto, la ricchezza finanziaria continua Bersani va fatto emergere, perché il problema è che in Italia i ricchi non sappiamo chi siano».
LA LEGA E IL MILIARDARIO
Ma il punto ora è vincere in Lombardia. Regione ostica, dove, nonostante vent’anni di scorribande e lottizzazioni di Lega e Pdl, di Berlusconi, Bossi e Formigoni, ancora i sondaggi li danno pur lievemente in testa (anche se in realtà alle ultime amministrative il centrosinistra ha vinto quasi ovunque). Nulla di cui stupirsi, tantomeno scoraggiarsi: «La destra esiste», e Bersani e Ambrosoli invitano a «guardare il bicchiere dall’altro verso, perché loro hanno perso un sacco di consensi, e per la prima volta la sfida è aperta». «Tutte le promesse che fanno oggi attacca Ambrosoli le avrebbero potute realizzare in quasi 20 anni di governo. Invece niente, non ne hanno realizzata nemmeno una. E quella di trattenere il 75% dei proventi delle tasse in Lombardia l’avevano già detta anni fa». Il centrosinistra, continua Ambrosoli, oppone la «solidità» dei propri obiettivi di «rigenerazione» della politica, della Lombardia all’«ipocrisia di chi fa finta di non avere responsabilità per i vent’anni di un governo incapace di rispondere ai bisogni dei lombardi». In campo contro Ambrosoli, Maroni per la riedizione dell’alleanza Lega-Pdl (come dice Bersani: «leghisti, siete tornati col miliardario solo per un seggiolone in Regione»), Albertini per i montiani («il mio vero dispiacere commenta Bersani visto che Monti ha deciso di puntare su una scelta civica, più civico di Ambrosoli non c’è nessuno, e appogiare altri è una scelta che rischia di dare una mano di là»). E poi, i grillini: «Ma l’elettorato di Grillo è in forte diminuzione dice Ambrosoli anche per la capacità del centrosinistra di coinvolgere attraverso forme di partecipazione programmatica. Lo dico non perché pensiamo a quell’elettorato come ad una riserva indiana da conquistare, ma perché siamo convinti che la partecipazione sia un valore». Risorse finanziarie per la campagna elettorale non tantissime, anche perché Ambrosoli non intende usare fondi pubblici, voglia di vincere invece parecchia: «Siamo consapevoli di essere più forti. Siamo convinti di far proposte capaci di farsi carico dei problemi e dei bisogni dei cittadini e delle imprese, di dare risposte di lungo respiro, e anche immediate. Gli imprenditori ci chiedono di essere liberati da una burocrazia asfissiante, e questo per esempio lo possiamo fare subito».

l’Unità 20.1.12
Lavoro, immigrati, Imu, giustizia Pd, le leggi dei primi cento giorni
Già pronto un pacchetto di norme da approvare in tempi rapidi in caso di vittoria
In cima alla lista anticorruzione, conflitto d’interessi, cittadinanza
di Simone Collini

Cittadinanza per i figli degli immigrati che nascono in Italia, niente Imu per chi quest’anno ha pagato fino a 500 euro, reintroduzione dei reati di falso in bilancio, autoreciclaggio e voto di scambio, cancellazione delle norme ad personam come la ex Cirielli utile a tagliare i tempi di prescrizione. E poi conflitto di interessi, rappresentanza sindacale, diritto di partecipazione dei lavoratori alle scelte strategiche delle imprese.
Queste sono le principali leggi che approverà il governo Bersani nei primi cento giorni, in caso di vittoria della coalizione dei progressisti e dei democratici alle elezioni di febbraio. Il leader del Pd ha dato mandato ai responsabili dei diversi settori del partito di scrivere la parte del programma di loro competenza. I lavori sono pressoché terminati, ma al di là delle ultime limature sul testo complessivo, ci sono una serie di interventi già dati per assodati, che Bersani vuole portare a casa entro l’ estate. Interventi che nelle intenzioni del leader Pd servono a dare da subito il segno di quella «riscossa civica e morale» che deve chiudere il ventennio berlusconiano.
La prima legge che vuole approvare, come Bersani ha già detto in varie occasione, è quella per dare la cittadinanza italiana ai bambini nati in Italia da una coppia di immigrati residenti nel nostro Paese da almeno cinque anni. Una norma «di civiltà», per il leader Pd, che sarà affiancata dall’abrogazione del reato di immigrazione clandestina e della tassa sul permesso di soggiorno, dal superamento dei Cie (gli stranieri potranno essere trattenuti solo per il tempo necessario all’identificazione), da una nuova legge quadro sull’immigrazione alternativa alla Bossi-Fini e a quella Maroni-Berlusconi.
IL LAVORO AL CENTRO
Un capitolo sostanzioso riguarda le misure da approvare sul fronte del lavoro, che per Bersani dovrà essere messo «al centro» dell’attività del prossimo esecutivo. Tra le leggi che non hanno bisogno di particolari operazioni per garantire una copertura economica e che vengono giudicate fondamentali per il rapporto tra democrazia e lavoro c’è la modifica dell’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori. L’obiettivo è quello di garantire alle organizzazioni sindacali con significativa rappresentanza a livello nazionale la facoltà di costituire proprie rappresentanze sindacali aziendali, anche se non hanno firmato gli accordi applicati nell’unità produttiva. Si tratta di una legge che impedirebbe il perpetuarsi o il moltiplicarsi di casi come quello della
Fiom, che è esclusa in molti stabilimenti Fiat nei quali non ha firmato il contratto «modello Pomigliano». Bersani vuole però portare a casa in tempi rapidi anche un intervento sull’articolo 8 del decreto 138 del 2011, col quale l’allora ministro Sacconi ha introdotto la possibilità di derogare, nella contrattazione decentrata, a leggi vigenti e al contratto nazionale.
LENZUOLATE DI MORALITÀ
Ma nei primi cento giorni Bersani vuole anche approvare quelle che definisce delle «lenzuolate di moralità». In cima alla lista c’è la modifica della legge sull’anticorruzione, con la reintroduzione dei reati di falso in bilancio, di autoreciclaggio, di voto di scambio (bisogna andare oltre il solo caso di elargizione di denaro). Tra le leggi ad personam che Bersani vuole abrogare c’è la ex Cirielli, ribattezzata salva-Previti, che taglia i tempi di prescrizione, mentre più in generale sul fronte giustizia si partirà da norme che garantiscano il funzionamento del processo civile, un adeguamento degli organici del personale amministrativo e giudiziario, un processo di depenalizzazione per tutti i reati contravvenzionali, il rilancio delle pene alternative al carcere.
Tra le pratiche che Bersani vuole aprire subito, anche se la discussione non si chiuderà in soli cento giorni, c’è anche la legge elettorale: «Dal primo giorno ripresenteremo il doppio turno di collegio». E poi c’è invece un provvedimento che non vorrebbe dover approvare: una nuova manovra di correzione dei conti pubblici, «perché di manovra in manovra si finisce per aggravare la recessione».

La Stampa 20.1.13
Bersani ai tecnici: “Basta con manovre solo recessive”
“Ma il problema va posto in Europa, non riguarda noi e basta” E critica Monti: “La posizione sua e dei centristi non è chiara”
di Fabio Poletti

Sull’Imu: sia progressiva, e deve essere esentata per la prima casa
Ripete il no alla patrimoniale: «Tanto i ricchi non sappiamo nemmeno chi sono...»

Si chiama Cascina Cuccagna dove inizia il tour lombardo di Pier Luigi Bersani. Ma dopo l’allarme di Bankitalia per il 2013 c’è poco da festeggiare. Il segretario del Pd non fa promesse e un po’ guarda indietro: «Non possiamo inseguire la recessione con una manovra contenitiva dietro l’altra. Va a finire che aggraviamo la situazione economica. Ma il problema va posto a livello europeo perché il segno meno non ce lo abbiamo solo noi». L’allarme di Bankitalia non lo stupisce. Di sicuro è l’occasione per fare una riflessione sull’anno appena passato, quando il Pd di Bersani stava al governo con Mario Monti, impegnato ad ammaestrare lo spread ed evitare di far deragliare i conti.
Niente cuccagna ma nessun pentimento nelle parole del segretario del Pd. Eppure non sono pochi quelli che, nella base, gli contestano di avere
«subito» le decisioni lacrime e sangue di Mario Monti: «Il governo aveva le mani legate. Aveva il compito di non far cadere l’euro. E’ stato un governo di transizione che abbiamo sostenuto senza condividere tutto. Ma ci ha tenuto fuori dal baratro e abbiamo recuperato credibilità per merito suo. Adesso si tratta di far vivere qualcosa di diverso. Tocca a noi che siamo i soli a poter dire che questo paese ha davanti una traiettoria di ricostruzione. Senza di noi l’Italia sarebbe un problema per il mondo». E allora si volta pagina per il candidato più accreditato a finire a Palazzo Chigi, stando ai sondaggi. Si volta pagina pure con la coscienza pulita: «Una volta che abbiamo fatto il nostro dovere verso l’Italia noi siamo a posto. Ma questo governo non era più in grado di garantire il rilancio del Paese».
La ricetta del segretario del Pd arriva tra una fetta di torta, una flute di bollicine e Gianna Nannini di sottofondo in una sede del Pd alla periferia di Milano. Una ricetta nota ma Pier Luigi Bersani si sente in obbligo di ripeterla per l’ennesima volta ai giornalisti: «Smettetela di scrivere che sono favorevole alla patrimoniale... ». Niente scure indiscriminata sui grandi capitali allora. Almeno non direttamente: «Tanto i ricchi non sappiamo nemmeno chi sono e non possiamo far pagare più tasse a chi le tasse le paga già». Meglio andare sul sicuro. Colpire dove i soldi si vedono benissimo, fosse anche sotto forma di mattone: «Bisogna rendere progressiva l’Imu. Deve essere esentata per la prima casa. Ci vuole una imposta personale sui grandi patrimoni famigliari».
Che la ricetta possa essere condivisibile con altre forze politiche non è detto. Liquidato Antonio Ingroia con una battuta. Indicato come nemico numero uno Silvio Berlusconi. Adesso che la campagna elettorale è in corsa, Pier Luigi Bersani non fa sconti nemmeno a Mario Monti che di sicuro per «mancanza di terzietà» non vorrebbe al Quirinale: «La posizione di Monti e dei centristi non è chiara. Noi siamo fermi sulle nostre posizioni. Gli altri faranno ciò che ritengono ma confermo che siamo aperti al confronto con forze antipopuliste, europee e democratiche per fare le riforme». Quella sul lavoro che va migliorata. E poi fisco e diritti.
Ma tra le priorità del segretario del Pd c’è pure la conquista della Lombardia dove per il centrosinistra corre Umberto Ambrosoli contro Roberto Maroni. Una partita decisiva in quella che è già stato definito l’Ohio italiano. Come negli Usa di Obama chi se lo prende si pappa se non tutto almeno il Senato dove i giochi sono più difficili. La battaglia, assicura il segretario del Pd, si fa qui: «Basta propaganda della destra. Basta con i leghisti che sono tornati al servizio del miliardario per avere un seggiolone in Regione». Ma i sondaggi sono quelli che sono. Il testa a testa è al centesimo. Pier Luigi Bersani fa professione di fede: «Siamo pronti per vincere anche qui». Basta convincere quella che dall’aia gli grida che non è ancora tempo di cuccagna: «Per vincere però ci vuole più grinta».

La Stampa 20.1.13
“Evitare un’altra stretta” Lo strano asse tra Pd e Pdl
Fassina e Brunetta d’accordo. E Polillo: se l’Ue ci permette...
di Roberto Giovannini

Una manovra? Ancora? A stare a una lettura rigida degli impegni che l’Italia ha preso - la famosa lettera della Bce e il fiscal compact europeo - c’è poco da girarci intorno. Il nostro paese deve assicurare il pareggio di bilancio nel 2013, e se il buco esiste bisognerebbe tapparlo con nuove tasse o nuovi tagli. Che il buco ci sia, sembra abbastanza inevitabile: venerdì il sottosegretario al Tesoro Gianfranco Polillo aveva detto che «se rispettiamo le regole europee ma ci consentono un po’ più di deficit la manovra si evita». Ieri sempre Polillo a «La7» ha detto più chiaramente che lo stato di salute dei conti non è ottimale. Colpa della recessione, che ha ridotto le entrate fiscali e aumentato certe spese «sociali». Colpa di certe politiche di iperausterità che hanno aggravato la recessione, dicono molti in casa Pd e Pdl.
Aprire la legislatura con una nuova stangata - da 7 miliardi, si dice, forse più - non sarebbe certo il modo migliore di aprire la legislatura per i partiti che puntano a governare. I democratici, Bersani l’ha detto, non ci stanno. «Dobbiamo evitare di aggravare la situazione - spiega Stefano Fassina, responsabile economico del Pd - con ulteriori manovre di finanza pubblica». Per l’economista, che ricorda che le previsioni Ocse vedono recessione anche nel 2014, «chi oggi sostiene che è necessaria una manovra aggiuntiva vuole di fatto un ulteriore peggioramento dell’economia, dell’occupazione, e inevitabilmente del rapporto debito/Pil. Perché la via dell’austerità irresponsabile ha soltanto portato a un aumento dell’indebitamento pubblico». Ma gli impegni europei sottoscritti dall’Italia? «Aggraverebbero la situazione di finanza pubblica. Proprio perché sono impegni non realistici devono essere corretti per il ciclo», replica Fassina. Insomma, il nuovo governo deve andare a Bruxelles, e spiegare che «l’Italia è in pareggio di bilancio strutturale». E che l’obbligo di rispettare il fiscal compact, in pratica, equivarrebbe a un ulteriore aumento del deficit e del debito.
Una tesi, tutto sommato, su cui concorda anche il Pdl, a sentire l’economista ed ex ministro Renato Brunetta, ascoltato consigliere di Berlusconi. Che comincia ricordando innanzitutto che il governo Monti ha fatto «un errore del 500%» nelle previsioni di crescita del 2013, visto che Bankitalia prevede un -1% rispetto al -0,2 stimato nel Def. Insomma, il buco ci sarà. Che facciamo? «Se valgono i ragionamenti che sono stati usati contro il governo Berlusconi - è la replica - con cui Monti ha costruito la sua legittimità, allora bisogna obbedire al fiscal compact. E fare una manovra correttiva di circa mezzo punto di Pil. Oppure, vuol dire che la tempesta dell’estate 2011 è stato un imbroglio; che la lettera della Bce e l’anticipo del pareggio di bilancio e la manovra Berlusconi sono stati errori tragici; che la caduta del governo Berlusconi e il decreto SalvaItalia del dicembre 2011 di Mario Monti è un solenne imbroglio». E ci sono alternative, chiediamo? «Solo un governo di unità nazionale conclude Brunetta - potrebbe dire alla Germania “hai sbagliato politica economica, noi i conti li abbiamo a posto; forse ci manca qualcosa, ma non possiamo far morire il paese”. Ma dev’essere un governo di unità nazionale che venga fuori dalle elezioni, non un governo di emergenza».

La Stampa 20.1.13
E se vincesse ancora Berlusconi
di Luca Ricolfi

Lo so, all’estero sarebbero increduli. E anche fra noi italiani, che ci conosciamo abbastanza bene, serpeggerebbero sorpresa e costernazione. Però, arrivati a questo punto, l’ipotesi non può essere scartata completamente: Berlusconi potrebbe vincere le elezioni. Improbabile, a tutt’oggi. Ma non impossibile. Vediamo perché.
I sondaggi, per cominciare. Non tutti se lo ricordano, ma è esistito un tempo in cui i sondaggisti accorti «correggevano» i sondaggi. Se nelle interviste la Dc raccoglieva il 35% dei consensi, il sondaggista esperto diceva al committente: qui bisogna aggiungere qualche punto, perché molta gente preferisce nascondere che vota Dc; certo, la voterà, al momento buono, ma non ama dirlo, nemmeno a uno sconosciuto intervistatore.
Se nelle interviste i Verdi prendevano il 4%, il sondaggista esperto dimezzava la percentuale, perché sapeva che la dichiarazione di voto ai Verdi era la tipica risposta-rifugio.
Quella risposta-rifugio che non ti fa fare brutta figura (che male c’è a votare verde?) ma intanto ti permette di non dichiarare la tua vera preferenza. Meno diffusa era un altro tipo di correzione, che comincerà a essere presa in considerazione soprattutto nella seconda Repubblica: se tutti credono che le elezioni le vincerà un certo partito, conviene potare un po’ i consensi del vincitore annunciato. Si sarebbe dovuto fare fin dal 1976, quando ci si aspettava il trionfo del Pci (che poi non ci fu), ma sarebbe stato bene farlo soprattutto nel 1994 e nel 2006, quando un po’ tutti erano sicuri di una schiacciante vittoria della sinistra, che di nuovo non ci fu. Quest’ultimo, negli studi elettorali, si chiama effetto winner: saltare sul carro del vincitore al momento del sondaggio, per poi scegliere quel che si vuole quando si va a votare davvero.
Che c’entra tutto questo con Berlusconi ?
C’entra, perché anche oggi, verosimilmente, operano le distorsioni di sempre. C’è un vincitore annunciato (il Pd di Bersani), ci sono liste momentaneamente imbarazzanti (tutto ciò che sa di Lega e Berlusconi), ci sono liste rifugio, con cui sei abbastanza tranquillo di non fare brutta figura (lista Monti). Il sondaggista esperto, se vuole indovinare il voto o dare informazioni attendibili al suo committente, dovrebbe aggiungere un po’ di voti a Pdl e Lega, toglierne un po’ a Bersani e Monti. Insomma dovrebbe «aggiustare» i sondaggi. Non sappiamo se qualche istituto lo fa effettivamente o se, più correttamente, i numeri che vengono pubblicati ogni giorno sono quelli veri, quelli che risultano ai sondaggisti prima di ogni correzione o ritocco. Se, come dobbiamo augurarci, i dati resi pubblici non sono ritoccati, dovremmo concludere che il distacco effettivo del centro-destra è sensibilmente minore di quello che viene indicato dai sondaggi. Diciamo, giusto per dare un’idea, che dovremmo aggiungere un paio di punti al centro-destra e toglierne altrettanti al Pd e alla lista Monti.
C’è poi un altro fattore che gioca a favore di Berlusconi. Nella seconda Repubblica il cosiddetto incumbent, ossia l’ultimo che ha governato, non ha mai vinto le elezioni. Gli italiani hanno sempre bocciato chi aveva governato, e hanno sempre scommesso su chi stava all’opposizione. Da questo punto di vista far cadere Berlusconi senza andare al voto è stato un grosso assist a Berlusconi stesso: ha concesso agli italiani il tempo di dimenticare la loro delusione per il duo Tremonti-Berlusconi e di convogliare tutta la loro rabbia sul governo Monti. Un anno fa Berlusconi era il governo uscente e Bersani era l’opposizione che si candidava a prendere la guida del Paese, oggi il governo uscente è quello di Monti, e l’opposizione è Berlusconi, non certo Bersani che con Monti e il suo governo è stato assai leale. Insomma lo svantaggio di essere l’ultimo ad aver governato ricade su Monti, e il vantaggio di essere l’opposizione – dopo lo strappo con Monti – è tutto di Berlusconi.
D’accordo, direte voi, ma sui programmi Berlusconi non è credibile. Qui occorre intendersi. Sui programmi nessuno è credibile, forse nemmeno Monti, la cui famigerata agenda ha già subito fin troppe giravolte (ad esempio su Imu e pressione fiscale). E naturalmente Berlusconi non fa eccezione, racconta di aver rispettato il «Contratto con gli italiani», ma non dice la verità, come sa chiunque abbia studiato seriamente le cifre (che fine hanno fatto le due aliquote Ires al 23 e 33%?). Però un conto è fare promesse credibili, un conto è apparire credibili agli occhi dell’opinione pubblica. Distinzione sottile, ma riflettiamoci su: fra Bersani, Monti e Berlusconi chi fa proposte che più facilmente possono essere credute?
Secondo me è Berlusconi che ha più probabilità di intercettare gli umori della gente. E spiego perché. Da almeno due anni, dunque da prima dell’avvento di Monti, i sondaggi segnalano che il problema delle tasse è diventato assolutamente prioritario, come non lo era mai stato prima. Di fronte a questo problema chi è più credibile? La sinistra, che le tasse e la spesa pubblica le ha nel suo Dna? Il governo Monti, che i mali dell’Italia li ha curati innanzitutto con maggiori tasse? O Berlusconi che promette di eliminare l’Imu sulla prima casa e l’ha già fatto con l’Ici?
E sul lavoro, l’altro grande problema degli italiani, chi è più credibile?
La sinistra, verrebbe da dire. Però guardiamo anche al linguaggio, alle parole che si usano per farsi capire dagli italiani. «Mettere il lavoro al centro», slogan ripetuto fino alla noia dai dirigenti della sinistra, non evoca nulla di preciso, di concreto. Dire che chi vuol assumere un giovane a tempo pieno potrà farlo senza pagare un euro di tasse e contributi («come fosse in nero», ha detto Berlusconi in tv), uno dei cavalli di battaglia del centro-destra, è una proposta che chiunque capisce, e chi ha un’attività apprezza.
Naturalmente ognuno può pensare che nulla di quel che dice Berlusconi sarà realizzato, o all’opposto che tutto sarà realizzato e proprio questo ci porterà al disastro. Ma resta il fatto che quel che vuol fare Berlusconi si capisce subito, mentre quel che vogliono Bersani e Monti si capisce meno, o appare lontano, astratto, difficilmente traducibile in misure concrete. Per dirla con Adriano Celentano, Berlusconi è rock, Monti è lento, come si vede bene in tv. Non sono categorie politiche, ma nella comunicazione sono cose che contano. E la politica è anche questo, comunicazione, energia, saper arrivare agli elettori. Tutte cose che in un mondo ben ordinato dovrebbero contare poco ma che, quando nessuno è veramente credibile, finiscono per contare molto.
Insomma, se fossi Bersani dormirei ancora sonni tranquilli. Non tranquillissimi, però.

il Fatto 20.1.13
Impresentabili voti Così il Pd ha fatto pulizia
Scelte non semplici e alcune amnesie
In Sardegna fa un passo indietro anche Milia. Altro caso campano
di Wanda Marra

“Ora sono molto sereno perché le nostre decisioni hanno seguito una linea di coerenza. Ma è stato un processo molto sofferto”. C’è sollievo e anche soddisfazione nelle parole di Luigi Berlinguer, il presidente della Commissione di garanzia che alla fine ha deciso l’esclusione dalle liste di Mirello Crisafulli, Antonio Papania e Nicola Caputo.
La Commissione, sette membri, tutti uomini del Pd, compreso il Presidente, si è dovuta inventare prima di tutto un metodo: non ci sono state audizioni formali con i candidati “sotto esame”. A ciascuno di loro – una dozzina di nomi perlopiù apparsi sulla stampa– è stato chiesto di presentare una memoria. Poi, è cominciata l’istruttoria. Carte processuali, articoli di giornale, molti degli esposti che negli anni l’avvocato Giuseppe Arnone ha inviato ai garanti per segnalare i casi di Crisafulli e anche di Angelo Capodicasa. Dall’inizio, si è capito che il segretario un segnale, prima di tutto all’opinione pubblica, voleva darlo.
DUE LE ARCHITRAVI fissate da Berlinguer: la salvaguardia “dell’immagine e dell’onorabilità” del Pd e il mantenimento del principio di non colpevolezza. Un crinale difficile. Nel quale si è tenuto molto conto della “opportunità politica”: non certo un metro di giudizio definito. I sette sono stati in seduta praticamente perenne per tre giorni (mercoledì, giovedì e venerdì). Ad alcuni non andava giù il principio di sostituirsi alla giustizia. A tutti sembrava pericoloso dover stabilire delle regole a posteriori. Si legge nella delibera finale: “Sono emerse situazioni relative a candidati nei confronti dei quali, per reati contro la Pubblica Amministrazione, è stata emessa sentenza di condanna oppure decreto di rinvio a giudizio”. Il codice etico del Pd non definisce incandidabile un profilo simile, e dunque si è dovuti arrivare ad individuare una nuova classe di reati.
CHE DIRE di Antonio Papania, che in realtà ha patteggiato ed è stato riabilitato da un Tribunale? A livello puramente tecnico ha pesato il fatto che il patteggiamento è una condanna, a livello sostanziale la sua situazione generale, a partire dal rapporto dei Carabinieri in cui si parlava di assunzioni e affari sui rifiuti da lui orchestrati. Crisafulli un rinvio a giudizio ce l’ha, ma soprattutto ha un’indagine della magistratura (per quanto archiviata) che parla dei suoi rapporti con un boss mafioso.
Tra i casi che sono entrati nell’esame, quello di Francantonio Genovese: ma non c’era proprio nulla a cui appigliarsi, hanno valutato i Garanti. Era stato segnalato da più parti, Ludovico Vico, intercettato nell’indagine sull’Ilva. Anche per lui non c’erano gli estremi. È arrivata all’ultimo momento la discussione su Rosaria Capacchione che a inizio marzo aspetta una sentenza per calunnia. Reato che non è stato valutato motivo d’espulsione. Qualcuno fuori dalle liste ci è finito quasi per inciampo: sul capo di Antonio Luongo, deputato potentino, pende da 12 anni un’accusa di corruzione. Il tribunale non decide. Racconta lo stesso Berlinguer che della pratica Luongo è venuto a sapere solo alla fine della sua istruttoria. E a quel punto, avendo stabilito una regola, non ha potuto che avvisarlo della situazione. Come, d’altra parte, ha fatto anche con tutti gli altri. Luongo, in un’ora, ha deciso di ritirarsi. Non senza provocare dubbi e malcontenti tra i Garanti. Che alla fine si sia arrivati a una decisione più esemplare che giusta? Nei giorni di discussione sono andate avanti due visioni parallele: da una parte, la volontà, di inserire anche qualche altro nome nel pacchetto degli esclusi, altrettanto dubbio dal punto di vista dell’etica e dell’opportunità; dall’altra, il timore che definire una nuova regola, generica, possa costituire un precedente.
IL PARTITO siciliano e quello campano poi si sono fatti sentire per chiedere la presenza in lista dei loro rappresentanti, pesi massimi locali e vincitori delle primarie. Alla fine ha prevalso la volontà di Berlinguer. “Ci siamo presi la nostra responsabilità. Non ci sto a fare il tribunale dell’Inquisizione, ma in questo momento il rinnovamento della politica passa per dei segnali di moralizzazione”. E poi, spiega: “Un principio che mi ha sorretto è quello che la candidabilità non è un diritto fondamentale secondo la Costitituzione”. Da Bersani è arrivato il via libera venerdì pomeriggio, con l’invito a formalizzare la decisione. A quel punto, la votazione è andata da sé, e la decisione è stata presa all’unanimità. Domani scade il termine ufficiale per la presentazione delle liste. È finita? Alla Commissione continua ad arrivare qualche segnalazione. Graziano Milia, ex presidente della provincia di Cagliari, una condanna passata in giudicato per abuso d’ufficio, era stato candidato e ha ritirato la candidatura per un effetto indiretto della decisione della Commissione ieri mattina. Ma qualche impresentabile in lista ancora c’è. Michele Caiazzo compare al diciannovesimo posto in Campania. Era vicesindaco di Pomigliano d’Arco quando fu sciolto per camorra, e sindaco, dieci anni dopo, quando fu richiesto nuovamente di scioglierlo per camorra. Prima di ieri i Garanti non ne sapevano nulla. Berlinguer è ancora al lavoro, ma sembra tardi per procedere.

il Fatto 20.1.13
Dopo l’appello
Franca Rame: Bel gesto, si può migliorare
di Si.T.

Scusi, e Umberto De Caro? E Olivero Nicodemo? E Vico, Rigoni, Lolli e Genovese? ”. Franca Rame guarda la neve che scende dietro le finestre di una Milano gelata mentre lavora al suo libro Fuggita dal Senato, titolo che fotografa piuttosto bene lo stato d’animo sui suoi diciannove mesi a Palazzo Madama: “Mi sono trovata male. Nessuno che preparasse politicamente i nuovi arrivati. Importante era il voto: ‘Vota rosso-vota verde’. Nessuna socialità. Il Senato è il frigorifero dei sentimenti. Sono stata molto a disagio. Ne ho viste di tutti i colori”. Nei giorni scorsi la senatrice aveva promosso l’appello contro la candidatura degli impresentabili nel Pd: in poco tempo oltre 21mila persone l’hanno sottoscritto e pure Pier Luigi Bersani deve avergli dato una sbirciatina, se ha deciso di escludere dalle liste Nicola Caputo, Antonio Papania e Vladimiro Crisafulli. Senatrice, è soddisfatta delle decisioni del segretario del Pd?
Voglio dire bravo a Bersani. Anzi: bravo, bravo, bravo! Ma non basta. Ci sono gli altri sei, che non dovrebbero occupare questa carica. Quelli che sono rimasti dentro sono persone che hanno sèguito, e certamente porteranno portano porterebbero tanti voti al partito. Ma, a mio modesto parere occorre un segnale forte a un Paese schifato dalla politica come il nostro: una vittoria vera, sarebbe stata il coraggio di escludere i sei con i loro “peccati più o meno mortali”.
Perché Bersani non l’ha fatto?
Vorrei fare una premessa: stimo Bersani, credo sia un politico capace e intelligente. Le elezioni sono una grande incognita. E lui probabilmente vuol contare su voti certi. Eppure io penso che il suo ragionamento avrebbe potuto essere anche un altro: quanti voti avrebbe guadagnato in più se avesse dato un segnale forte, tendendo fuori tutti gli impresentabili? Io credo molti più di quanti lui non immagini. La gente non ne può più di ruberie, scandali sui rimborsi elettorali, corruzione. Anche le ombre sono un rischio, da un punto di vista di consenso.

Repubblica 20.1.13
Il capo dei garanti Berlinguer
“Segnale dovuto Penati e Lusi pesano ancora”
di Giovanna Casadio

ROMA — Né giacobino, né giustizialista. Il “garante” del Pd, Luigi Berlinguer — il giorno dopo l’espulsione dalle liste dei capibastone siciliani del partito, Mirello Crisafulli e Antonio Papania, e del casertano Antonio Caputo — ci scherza su: «Sono in “partibus infidelium”, a Palermo per un convegno».
Professor Berlinguer, ha incontrato Crisafulli, Papania e il segretario regionale Lupo? Sa che c’è una rivolta del Pd siciliano?
«Nessun incontro. Ma quella che abbiamo fatto è stata una cosa seria. Si è appena ritirato anche Graziano Milia di Cagliari, come effetto indiretto della nostra delibera, avendo una condanna passata in giudicato. Abbiamo “zappato” per giorni e preparato l’istruttoria. Ci sono differenze tra il “caso Caputo”, a cui è stata annullata la deroga avuta in quanto consigliere regionale, e gli altri esclusi».
Non ve ne potevate accorgere prima delle primarie?
«Abbiamo fatto primarie con lo skipass, tra Natale e Capodanno, creando un’alta aspettativa sulla candidabilità. Molti si sono scoperti con il bastone di maresciallo nello zaino, hanno cioè detto “ma perché non posso candidarmi anch’io?”. È quindi salito il numero di chi è entrato nella competizione. Non c’è stato il tempo per tutti i controlli».
C’è chi sostiene che vi siete trasformati in un Tribunale d’Inquisizione?
«Proprio quello che abbiamo evitato. Ci siamo dati dei criteri, partendo dalla tutela del principio di non colpevolezza fino a condanna definitiva. Abbiamo operato in base al nostro codice etico, alle regole che è incandidabile chi è stato condannato e chi ha un rinvio a giudizio per reati contro la pubblica amministrazione, e alla necessità politica di dare un segnale. La vicenda Lusi ha lasciato una traccia nella vita del partito; il caso Penati lo paghiamo. Poi, lo sterco venuto fuori dai consigli regionali lombardo e laziale ha segnato profondamente la credibilità della politica in generale. Abbiamo fatto scelte giuste».
Su Crisafulli cos’è pesato davvero: il rinvio a giudizio per i lavori alla strada che porta alla sua villa, o la vecchia inchiesta archiviata per rapporti con la mafia?
«La foto in cui lui si è fatto vedere con gente implicata in attività mafiose, anche se lui non c’entrava, è un’immagine che danneggia, ma non è quella che ci ha indotto all’esclusione».
Crisafulli e Papania in Sicilia sono due macchine di consensi. Il Pd si troverà in difficoltà ancora maggiori per il Senato?
«Crisafulli è un vecchio militante, non ci è parso che volesse fare il voltagabbana. Papania ugualmente, credo. Abbiamo messo ogni elemento sulla bilancia, anche gli arrabbiati che ci avrebbero magari votato contro. Ma ci siamo convinti che il bisogno di un messaggio di moralizzazione avrebbe avuto la meglio».

il Fatto 20.1.13
L’ex procuratore Pietro Grasso
Il clientelismo si può rompere L’abbiamo fatto
di Marco Lillo

Un grande giorno per la democrazia. Così il Procuratore Grasso, saluta la decisione della commissione di garanzia del Pd di escludere Vladimiro Crisafulli, Antonio Papania e Nicola Caputo dalle liste. “Questa è una giornata importante: il 19 gennaio è il compleanno di Paolo Borsellino e Rocco Chinnici ed è stato davvero un bel regalo”.
Procuratore, c'è la sua manina dietro questa esclusione?
Avevo avuto la promessa da parte del segretario Bersani e da parte del presidente della commissione di garanzia Luigi Berlinguer che avrebbero esaminato con estremo rigore le posizioni segnalate. Ero molto fiducioso e ho avuto ragione.
Perché non ha rilasciato dichiarazioni pubbliche prima?
Sono stato in silenzio perché le cose vanno cambiate dall'interno. Non serve rilasciare interviste per fare pressione sul partito. Questa era una questione troppo importante. Il rinnovamento della classe dirigente è il tema che mi ha spinto a partecipare alla politica. Sono convinto che uno dei primi atti del governo Bersani sarà una legge che rendere più stringenti i requisiti per candidarsi.
Ne ha già parlato con Bersani?
Ci siamo scambiati dei messaggi e ne abbiamo discusso a grandi linee. Per lui il rinnovamento della classe dirigente è - insieme alla crisi economica - il tema fondamentale. Guardi che la scelta della commissione di garanzia ha una portata storica.
Addirittura
La formazione delle liste elettorali è uno dei momenti cruciali del rapporto politica-mafia. La legge consentiva la nomina dei parlamentari da parte della segreteria e invece il Pd ha fatto le parlamentarie in modo che i candidati fossero espressione del territorio.
Ma proprio il territorio ha scelto i candidati ora esclusi. Vuol dire che l'elettore siciliano e quello campano non sono in grado di scegliere da soli?
No diciamo che l’elettore vede la politica come scambio clientelare ed è abituato a cercare il candidato che gli può dare qualcosa a titolo individuale. Mi è capitato di arrestare un personaggio che aveva un pacchetto di 40 mila voti ed era in grado di spostarli a destra e a sinistra. Veniva dall'Istituto delle case popolari e da quella posizione aveva creato il suo consenso. Quando l'ho arrestato, il leader che lo aveva inserito nelle liste del suo partito disse: 'se non lo candidavo io quei voti li prendeva il mio avversario'. Bene io allora da pm dissi: questa politica non ha futuro.
Il Fatto ha pubblicato due rapporti dei Carabinieri sul senatore Papania e su Crisafulli nei quali si descrivono i sistemi usati per mantenere il consenso.
Ora lei cosa va a dire ai 12 mila cittadini che hanno scelto questi campioni alle primarie?
Dico che dobbiamo rompere il sistema clientelare. Questa decisione è un segnale al territorio: liberiamoci tutti dalle logiche di scambio. Noi ci impegniamo a rinnovare la classe dirigente ma anche i cittadini devono rinnovarsi.
Sì ma il senatore Papania - in modo scorretto secondo i Carabinieri - dava una risposta ai bisogni dei suoi elettori. Per esempio spingeva sulla società che raccoglieva i rifiuti per le assunzioni e per la sponsorizzazione della squadra di calcio. Lei cosa offre ai seimila orfani d Papania nel trapanese?
Se continuano a vedere il voto come un mero scambio, noi dobbiamo dire chiaro e tondo che è una posizione sbagliata. La politica sana mette tutti davvero sullo stesso piano di partenza. Invece io ho avuto più volte la sensazione che la politica punti a mantenere lo stato di bisogno dei giovani per poi creare aspettative in occasione delle campagne elettorali. In concomitanza con le elezioni nascono i call center e i corsi di formazione ma servono a creare consenso senza che si crei veramente lavoro. Io cercherò di far capire che con le clientele pochi si avvantaggiano per poco tempo ma tutti ci perdono nel lungo periodo.
Belle parole ma senza i voti di Crisafulli e Papania rischiate di perdere il Senato in Sicilia e il pareggio a livello nazionale
Io ho fiducia negli elettori e i voti clientelari che si perdono sono meno di quelli di opinione che si guadagnano.
L’esclusione di Crisafulli e compagni doveva agevolare l'accordo con Ingroia e invece ieri è arrivata la rottura. Perché?
Non sono questioni di cui mi occupo. Io so solo ch ho sempre cercato di unire e mai di dividere. Ho detto e continuo a dire che conosco Ingroia come magistrato valoroso e abbiamo bisogno di persone come lui. Ma dall’altro lato finora ho ricevuto solo schiaffi. Non mi sembra ci sia la volontà di dialogare.
Ingroia le contesta di essere diventato procuratore nazionale antimafia grazie a Berlusconi.
Basta leggere i verbali del Csm del 2005 per capire che le cose non sono andate così. Il centro-destra approvò effettivamente una norma per ostacolare Caselli ma non è corretto dire che la mia nomina sia avvenuta grazie a quella norma.

l’Unità 20.1.12
Zingaretti: «Sono i radicali che hanno detto no all’accordo»

«Non sono io ad aver detto no all’accordo, sono stati loro che hanno rifiutato. È sempre la stessa storia». Nicola Zingaretti, candidato del centrosinistra alla presidenza della Regione Lazio, risponde così a chi gli chiede cosa farebbe in caso di eventuali ripensamenti del leader dei Radicali, Marco Pannella, sull’alleanza con Francesco Storace. Parole raccolte a margine dell’incontro «Cinema e territorio, gli operatori di Roma e del Lazio per nuovi percorsi culturali», durante il quale Zingaretti ha sottolineato l’urgenza di riaffermare la «centralità della cultura» e si è impegnato a mettere al centro delle proprie politiche l’investimento culturale, che è utile, ha detto, non solo perché crea sviluppo ma perché risponde all'esigenza di coesione civile del Paese. Obiettivo, ribaltare la frase «con la cultura non si mangia, emblematica di un modello sociale che ha rovinato l’Italia», ha detto ancora Zingaretti, che intende «aprire una verifica» sul complesso degli eventi culturali di Roma, riprogrammandoli nel quinquennio. Secondo l’ex presidente della Provincia di Roma, i grandi eventi «sono figli di una stagione in cui la spesa pubblica lo permetteva», ma adesso «andrà fatta una riflessione per dare certezza al mondo culturale sulle risorse che esistono e dentro un piano pluriennale vedere la sostenibilità di tutti gli eventi che sono in capo al sostegno pubblico, perché altrimenti si impegnano le risorse per 2,3,4 anni e non si riescono a sostenere. Insomma, «è evidente che bisogna smetterla di fare promesse che poi non si possono mantenere o scaricare solo sui piccoli imprenditori culturali i disastri di una legge di bilancio dissennata». Esempio di come «non» fare, per Zingaretti, è ad esempio la Festa del cinema di Roma, per la quale ci si troverà di fronte a un «gigantesco problema tra cassa e competenza, perché in passato con la competenza si è gestita una politica degli annunci e si è fatta propaganda».

«Poi ci sono i Radicali: a sorpresa, l'accordo con Francesco Storace nel Lazio è saltato per un "disguido tecnico", ma Pannella continua a ringraziare il leader della Destra per l'offerta di un taxi e ad attaccare il Pd per l'esclusione»
dall'articolo di Annalisa Cuzzocrea
su Repubblica on line, qui

il Messaggero 20.1.13
Regione Lazio, salta l'alleanza fra Storace e Pannella
Il leader radicale: problemi tecnici
Poi attacca Zingaretti: «Ha un vizio congenito ricattatorio di stampo comunista fascista»
Il Pd: farsa grottesca
qui

il Fatto 20.1.13
Pannella con Storace, le nozze contro natura
di Furio Colombo

CARO COLOMBO, adesso non dirai che dai ancora ragione a Pannella. Io sto aspettando di leggere una smentita, o restituirò la mia tessera.
Lina

ANCHE A ME sarebbe piaciuto che si trattasse di uno scherzo, o di una provocazione per cambiare o ribaltare un gioco. Mi sarebbe piaciuto riconoscere lo stile del giocatore (non di azzardo per gli altri ma di rischio personale) che è tipico di Marco Pannella. Ritrovo, come in altri casi, il comportamento strano di una controparte che stimo, Zingaretti, da cui non mi aspettavo la trovata di escludere dalla sua coalizione i Radicali, con la motivazione che non sono “nuovi”. Infatti è una fortuna che non siano nuovi i due radicali che erano già presenti nella caotica assemblea della Regione Lazio e della letale Polverini. Sono i due che, da soli, hanno smascherato e fatto crollare il potere presuntuoso e vuoto che ha devastato tutto, del Lazio, a cominciare dalla Sanità. Ripeto, riconosco tutti i pezzi del gioco, che è il solito gioco ad escludere, una strana conta che alla fine punisce i Radicali. Ma c’è una seconda parte del gioco che non conosco e non capisco. Al punto che per continuare a raccontare mi manca la parola che collega, le due parti. Non posso dire “dunque”, non posso dire “perciò”, non posso dire “e allora”, non posso dire “infatti”. Perchè manca ogni nesso fra la giusta battaglia di Pannella e dei suoi per far valere il buon lavoro fatto in Regione (denuncia e distruzione dell’illecito) e le conseguenze che Pannella ne ha tratto, nonostante il fermo dissenso di alcuni dei suoi, un dissenso non da poco: Emma Bonino, e Matteo Me-cacci. Succede infatti che Pannella annunci un patto con Storace. I Radicali insieme a Storace è un fatto storico, politico, culturale, umano difficile da spiegare, che diventa più difficile per chi segue e capisce le battaglie, le denunce, gli scontri di Pannella, per chi spesso trova naturale stare dalla sua parte e comunque è sicuro di capire che cosa sta facendo e perché. Non questa volta. Storace è la stessa persona che ha offerto con sarcasmo le stampelle a Rita Levi Montalcini le notti in cui la senatrice a vita si ostinava a stare in aula per non far mancare il voto al governo di Prodi perennemente in pericolo (2007). Storace si è tenuto alla larga da Fini a mano a mano che Fini si accostava alla democrazia e persino a Israele. Ciò che è inaccettabile di Storace però non è il cordone ombelicale mai tagliato col passato, ma il modo rozzo e stonato di stare nel presente, portando un fardello di cascami (come l'ex console italiano a Osaka, cantautore del peggior falangismo del presente) e tutto ciò nel cuore di questa Europa sbagliata che Pannella conosce bene e descrive bene, dove personaggi antichi, sfocati e pericolosi continuano a farsi largo nella politica (Ungheria, Romania, Grecia, Austria, Danimarca, Norvegia). Chi ha e ha avuto solide ragioni di stima e amicizia per Pannella pensa che sia impossibile vederlo sfilare accanto a Storace, sia pure in taxi, si ostina a non crederci e aspetta di sentirsi dire che è stato uno scherzo di cattivo gusto.

Repubblica 20.1.13
Storace-Pannella, sfuma l’intesa “Ostacolo tecnico per le firme”
Il leader spiega lo stop ed evita la rottura con Bonino
di Mauro Favale

ROMA — Francesco Storace gongola in tv: «La sinistra è impazzita: fa più notizia l’ipotesi che i Radicali possano allearsi tecnicamente con noi e non che il Pd non lo faccia. Questo è lo scandalo». Marco Pannella ride alla radio: «È esploso il casino: in questo momento si chiama antifascismo il fascismo». Alle 10 di sera il leader della Destra e quello dei Radicali parlano (il primo a La7, il secondo sulla radio del partito) di un’alleanza che, alla fine, non si farà mai.
Sparano entrambi contro i Democratici ma pongono un problema «tecnico», così come «tecnico» doveva essere l’accordo che avrebbe portato i Radicali dentro la coalizione a sostegno di Storace alla presidenza della Regione Lazio. Lo spiegano a distanza di 10 minuti l’uno dall’altro: «I Radicali dovrebbero buttare le firme raccolte finora e raccoglierne altre sotto il simbolo della mia candidatura. E questo potrebbe non essere semplice», ammette Storace.
«Ci hanno portato il nuovo simbolo troppo tardi — racconta Pannella — e Storace si è scusato per non essere riuscito ad attuare il necessario affinché si chiudesse l’accordo». È durato 24 ore, insomma, il terremoto dentro i Radicali che ha diviso il partito, confuso la base e confermato la leadership di Pannella. «Sono fiero di questa battaglia», dice al termine di una conversazione in cui accusa: «Il Pd e il candidato che avremmo voluto sostenere ci hanno trattato come trozkisti di m...».
Storace, invece, prosegue il leader Radicale, «ha detto “apro la mia coalizione come un taxi, perché ritengo necessario il contributo dei loro due consiglieri regionali” ». Alla fine, ci sarebbe stata anche l’offerta da parte del leader della Destra, di inserire «in un posto sicuro» uno dei due Radicali alla Pisana, Giuseppe Rossodivita o Rocco Berardo, ma «tutti e due — confessa Pannella — hanno detto di no».
Dall’altra parte, in tv, Storace si scusa: «Siccome mi sono dovuto dedicare alle liste nazionali del mio partito ho tardato a compilare il simbolo della coalizione che mi porta alla candidatura». Al di là dei problemi tecnici che hanno fatto naufragare il matrimonio in vista delle Regionali, entrambi sottolineano «il dissenso» (dice Storace) e «il casino» (sottolinea Pannella) che si è creato in questi due giorni sul web (con decine e decine di commenti su Radicali. it, su Facebook e Twitter) ma soprattutto nel partito di Pannella. Ora, però, arriva «l’ostacolo tecnico» che potrebbe essere provvidenziale per ricomporre i dissensi pesanti, in primis quello di Emma Bonino. All’orizzonte c’è comunque il rischio, per la formazione di Pannella, di vedere ridotti i consensi in una difficile battaglia elettorale. «Pagheremo carissimo queste polemiche», ammette il leader Radicale che ci tiene però a far presente che «non siamo noi che ci siamo ritirati. La vera notizia è che il veto del Pd alla nostra presenza nelle istituzioni».
Ormai, però, con i Democratici il rapporto è deteriorato. In giornata Zingaretti aveva confermato la volontà di non tornare indietro sulla non candidatura degli uscenti: «Il rinnovamento è una garanzia per tutti, anche per i Radicali. Non sono io che ho detto no, sono loro che hanno rifiutato ». Lapidario il commento del segretario del Pd romano, Marco Miccoli: «Tra Pannella e Storace continua una farsa grottesca».

Repubblica 20.1.13
Il suicidio dei Radicali
di Giancarlo Bosetti

LA LEADERSHIP del Partito radicale è, nella figura di Marco Pannella – non c’è dubbio – di tipo carismatico, nel senso classico weberiano; è caratterizzata cioè da una devozione dei seguaci del genere che si dedica alle figure eroiche.
Le decisioni dei capi carismatici non sono pura politica, ma hanno l’aura della «rivelazione». Per questo lascia ammutoliti, seguaci e non, che l’ultimo ordine rivelato riguardi un’alleanza nel Lazio con la parte meno «post» del «postfascismo » nazionale, quella di Storace; una scelta che, nonostante l’imbarazzato e confuso dietrofront di ieri sera - “salta per questioni tecniche” - palesemente contraddice le battaglie laiche e libertarie che appartengono all’identità dei Radicali italiani. Per accogliere il paragone con Gandhi, che a Pannella non dispiace, è come se il Mahatma avesse revocato l’idea dell’indipendenza indiana, optando per un atto di sottomissione alla Corona britannica.
Pannella ha acquisito dei meriti nella storia politica e civile nazionale. È ben noto il ruolo delle sue battaglie, sopra tutte quelle per le leggi sul divorzio e l’aborto, che la sinistra storica ha raccolto trasformandole in pagine tra le migliori della prima repubblica, ed è anche vero che ha saputo condurle insieme a un gruppo dirigente, quello formato da donne come Adelaide Aglietta, Adele Faccio e Emma Bonino, e anche da valorosi uomini come Gianfranco Spadaccia e numerosi altri. Ma presto si è manifestata una tendenza, bene descritta già nel 1996 da Massimo Teodori, in un libro (Marco Pannella. Un eretico liberale nella crisi della Repubblica) privo dei consueti risentimenti di chi ha lasciato un sodalizio, anzi sobrio e simpatetico, nel quale però si individuava una specifica patologia, quella di un leader che sistematicamente impedisce la formazione di un gruppo dirigente stabile e destinato alla successione. Si è visto come i segretari del Partito siano stati nel tempo trasformati in precari, di breve durata, sotto la tutela del Leader Maximo. Unica eccezione a questa regola è stata Emma Bonino che ha conquistato una sua forte visibilità di leader, anche a livello internazionale, ed ha condiviso la intestazione delle liste elettorali in varie occasioni. Altro indizio in controtendenza: Radio Radicale. Pur sotto la tutela di Pannella, ha conquistato una sua forte legittimazione, come strumento di informazione efficace; e questo grazie al giornalismo intelligente e disinibito dei suoi direttori e della sua redazione, anche se la presenza incombente e spesso ossessiva del Capo Carismatico non ha mancato di provocare collisioni e crisi.
Ora sembra che non ci sia più spazio per le eccezioni. Aveva già fatto riflettere la decisione dell’ottobre del 2011 di offrire una ciambella di salvataggio, inspiegabile e inspiegata, al governo di Berlusconi, con una condotta parlamentare che – di conserva con il voto di Scilipoti – aveva prolungato l’agonia di quella maggioranza. È sorprendente in proposito che alcuni radicali si mostrino sorpresi del rifiuto Pd di rinnovare l’alleanza. Ma ora l’abboccamento laziale di Pannella rappresenta una tappa conclusiva e assai più grave nella escalation del narcisismo idiosincratico del Capo. Giusto, come suggerisce Michele Serra, porgere il nostro «cordoglio» a Emma Bonino. Dalla cannibalizzazione dei possibile eredi – tendenza già radicata, come da infiniti indizi – siamo passati al desiderio di autodistruzione, al suicidio del Partito radicale, come se Pannella non volesse che la storia del partito abbia un seguito dopo di lui. Perché ce l’abbia, se qualcuno vuole che ce l’abbia, dovrebbe separarla dal suo leader carismatico e dalla sua ultima verità «rivelata ». Se mai ciò fosse possibile.

l’Unità 20.1.12
Quelle parole degne del primo Mussolini
In una società complessa il regime democratico non può che basarsi sulla rappresentanza
di Carlo Sini

LE RICORRENTI MANIFESTAZIONI DI ANTIPOLITICA SONO TALORA GIUSTIFICATE COME COMPRENSIBILI REAZIONI ALLE COLPE della politica, alle sue inadempienze antiche e recenti, alle promesse disattese di revisione e di riforma e così via. C’è però un limite che, a mio avviso, sarebbe sbagliato non denunciare. Passare quel limite significa trasformare le reazioni di insofferenza in puro autolesionismo del cittadino, lasciato alla mercé di chi sfrutta cinicamente la situazione a fini elettorali propri.
Nel dire che i sindacati «vanno eliminati», Beppe Grillo (al pari di certi leghisti) ha pericolosamente varcato quel limite. In una società altamente complessa come la nostra il regime democratico non può che essere rappresentativo; immaginare e suggerire che i cittadini possano rappresentarsi da soli nel mercato del lavoro o in fabbrica, che possano direttamente (direttamente come?) decidere delle retribuzioni, delle tasse, delle norme economiche e sociali, delle questioni etico-giuridiche, delle libertà individuali ecc. è un inganno bello e buono che va prontamente contrastato e condannato. È un fatto che le strutture rappresentative possono non risultare soddisfacenti nella loro azione; possono certamente rendersi colpevoli di errori e di degenerazioni e quindi passibili di giudizi severi e di pressanti richieste di risanamento. Altra cosa però è fare intendere che tali agenzie rappresentative siano per loro natura viziose o superate e che quindi sia un bene eliminarle del tutto, sostituendole con una sorta di assemblea permanente della piazza, dell’officina o del computer. Questi sono errori e orrori che, dopo l’esperienza del fascismo e delle sue ben note sparate contro le aule sordide e grigie del Parlamento, accompagnate dalla riduzione del sindacato a mero strumento di regime, si pensavano superati per sempre. Non è così e bisogna paradossalmente ricordare che nessun lavoratore sarà più libero o più felice senza gli attuali sindacati: chi sostiene il contrario mente o è un pericoloso illuso. Di fatto costui non ha la benché minima idea di come si possano rappresentare gli interessi di chi lavora in modo giusto ed efficace e infatti non dispone di alcuna proposta teorica o pratica comprensibile: si limita a dimenarsi e a sbraitare contro tutto e tutti per il divertimento serale di chi non ha voglia di ragionare e preferisce invece sfogare la rabbia o farsi una bella risata.
C’è un altro modo palesemente truffaldino di sfruttare i sentimenti popolari dell’antipolitica. Esso consiste nello smarcarsi dai reali problemi della politica e dalla dialettica dei partiti per sostenere che, di tali problemi, i cittadini non sanno che farsene. A loro, si sostiene per esempio, non interessano le questioni morali, non interessa se i candidati alle elezioni debbano essere persone che non hanno subito condanne o che non hanno procedimenti penali in corso (ottima mossa per giustificarsi se, a propria volta, ci si allea con chi ha debiti con la giustizia o si propongono a propria volta personaggi che il buon costume politico suggerirebbe di non candidare). I cittadini, si dice, hanno ben altri motivi di preoccupazione ed è di questi che si promette di farsi carico una volta eletti. In proposito si fanno annunci altisonanti e suggestivi, senza confessare che non esiste alcuna possibilità di renderli effettivi. Anche qui si gioca sull’equivoco. È ben vero che chi ha perso il lavoro o non lo trova vive nel presente irresolubili situazioni di angoscia e mortificazione profonda. Il fatto di venire a sapere quanti condannati dai tribunali, quanti faccendieri rozzi e ignoranti, quanti professionisti e professioniste del malaffare siedono in Parlamento non porta sollievo alcuno alla sua situazione; ma fargli credere che tutto ciò non abbia nulla a che fare con le sue sventure, perché ci si può occupare di esse in modo diretto ed efficace senza passare per i tradizionali canali della politica nazionale, è un clamoroso inganno.
Quando giunge a questi e ad altri estremi l’antipolitica è solo l’anticamera di una qualche forma di fascismo. I diretti interessati mostrano indignazione di fronte a questa accusa. La respingono o la trovano antiquata e non pertinente; destra e sinistra, conservatori e progressisti: cose d’altri tempi, dicono. Ma basta ascoltarli e osservarli attentamente, basta non sottovalutare certe uscite o certe gaffes, e si ritrovano gli argomenti del primo Mussolini o i suoi dimenamenti isterici sul fatidico balcone.

Corriere 20.1.13
«L'omosessualità si cura» Bufera sulla frase del prof

VENEZIA — «L'omosessualità è una predisposizione ma è reversibile, si può curare». La frase era contenuta negli appunti di un professore di religione di un liceo di Venezia. Immediate le reazioni. L'ex ministro per le Pari opportunità Mara Carfagna ha detto che è indispensabile che dell'omofobia si torni a parlare a scuola, dove «si forma la coscienza dei ragazzi». La parlamentare Pd Anna Paola Concia: «Solo in Italia un docente può permettersi di dire che i gay sono come malati e vanno curati». E Franco Grillini (Gaynet): «Sapere che esistono certi tipi di insegnanti non tranquillizza nessuno». Il caso era scoppiato sui giornali locali dopo la diffusione di un documento scritto a penna da Enrico Pavanello per i ragazzi del quarto anno del liceo Foscarini di Venezia. L'insegnante ha descritto l'omosessualità come una «elaborazione della psiche di modelli affettivi diversi da quelli verso cui la natura orienta», «una ferita dell'identità», per poi concludere che «questa tendenza è reversibile». Considerazioni che gli studenti hanno diffuso online. Gay Center ha chiesto «una risposta del ministro dell'Istruzione». Replica il Patriarcato di Venezia, con monsignor Valter Perini: «L'insegnante, conosciuto e stimato, non aveva alcuna intenzione di mancare di rispetto».

l’Unità 20.1.12
Pugni chiusi e cattivi maestri. «Addio Prospero»
Ai funerali di Gallinari molti volti noti della lotta armata
Adelmo Cervi: giovani, rifiutate la violenza
di Stefano Morselli

REGGIO EMILIA «Prospero è vivo e lotta insieme a noi, le nostre idee non moriranno mai». Slogan, pugni chiusi, qualche bandiera rossa. Alcune centinaia di persone, in buona parte provenienti da altre città, hanno dato ieri, nel cimitero di Reggio Emilia, l’ultimo saluto a Prospero Gallinari, morto a 62 anni per i problemi cardiaci di cui soffriva da molto tempo. C’erano molti coetanei, nomi noti – da Renato Curcio a Barbara Balzarani, da Piero Bertolazzi a Raffaele Fiore, da Bruno Seghetti a Gerardina Colotto, da Sante Notarnicola ai reggiani Loris Tonino Paroli e Lauro Azzolini per aver vissuto in prima persona la stagione delle Brigate Rosse e della lotta armata. Poi altri della vecchia galassia di estrema sinistra, tra i quali Oreste Scalzone, un tempo leader di Potere Operaio. C’erano anche parecchi giovani delle odierne aree «antagoniste», che di quella stagione e di Gallinari hanno solo sentito raccontare e ora ne parlano con accenti, se non di condivisione, comunque di attenzione e di rispetto. «Prospero – dice Vincenzo, torinese vicino al centro sociale Askatasuna ha compiuto una scelta che può piacere o no, ma bisogna dare atto che l’ha attuata con grande coerenza». Piero, che viene da Modena, annuisce: «Io in quei tempi non ero neanche nato. Penso che avrei avuto una posizione critica verso le Br, ma non bisogna dimenticare il contesto storico, che era quello di una guerra civile a bassa intensità. È una storia chiusa, solo certi magistrati e certi politici la strumentalizzano per criminalizzare le lotte di oggi».
Anche tra i militanti più anziani, il filo conduttore è analogo. «Siamo stati protagonisti di un conflitto che è esistito in quasi tutti i Paesi industrializzati – ribadisce Loris Tonino Paroli, 14 anni di carcere alle spalle per banda armata, ora apprezzato pittore, amico da una vita di Gallinari – Credevamo in valori di uguaglianza e dignità che, al di là della nostra sconfitta, erano e rimangono validi». E il sangue delle vittime del terrorismo? «Non eravamo terroristi, non mettevamo le bombe, terrorismo era quello dello Stato. Forse avremo fatto anche cose non condivisibili, ma combattevamo il capitalismo, che di vittime ne ha fatte e continua a farne molte di più, con lo sfruttamento e con le guerre».
La cerimonia funebre è un insieme di testimonianze, ricordi, poesie scritte negli anni del carcere. L’omaggio a Gallinari si intreccia a quelli per gli ex brigatisti caduti, o ancora in carcere. Oreste Scalzone cita Shakespeare: «La vita è fatta della stessa sostanza dei sogni». E loda il rigore con il quale «Prospero non si è lasciato estorcere nemmeno una dichiarazione di innocenza per l’uccisione di Moro. Pur non essendo l’esecutore materiale, volle sempre tener fede al’impegno di comune responsabilità che si era assunto con i suoi compagni». Parte il canto de «L’internazionale», la salma si avvia verso la cremazione.
Adelmo Cervi, figlio di uno dei sette fratelli fucilati dai fascisti nel 1943, scuote un po’ la testa. «Da giovane ero amico di Prospero, l’ho anche ospitato a casa mia. Stava per prendere quella strada, io non ero d’accordo, discutevamo accanitamente. Pur condividendo gli ideali del comunismo, ero convinto già allora che la lotta armata fosse sbagliata, dannosa per la sinistra e per l’Italia. Oggi, quando parlo con i ragazzi, non mi stanco di ripeterlo: ribellatevi, lottate, ma rifiutate la violenza».

Corriere 20.1.13
In mille ai funerali
Attorno alla bara ex br ma anche giovani dei centri sociali
Pugni chiusi, bandiere rosse e c'è chi canta l'Internazionale
di Giovanni Bianconi

I pugni chiusi. La bandiera rossa, con falce, martello e stella. E uno stendardo: «La rivoluzione è un fiore che non muore». Un funerale dell'altro secolo. Comunista e nostalgico, anche se richiamava una storia di morti, sequestri, agguati. La storia del terrorismo, degli «anni di piombo», celebrata dalla parte dei colpevoli. L'ultimo saluto al brigatista rosso Prospero Gallinari, uno dei carcerieri di Aldo Moro, morto d'infarto il 14 gennaio e sepolto ieri nel cimitero di Coviolo, Reggio Emilia, dove era nato e vissuto.

Una bara coperta di fiori, rossi. E una bandiera rossa, con falce, martello e stella. Una sciarpa con i colori della Palestina. E uno stendardo: «La rivoluzione è un fiore che non muore». In mezzo alla neve, i pugni chiusi, l'Internazionale intonata da pochi. Quasi un atto dovuto, più di appartenenza che liberatorio.
Un funerale dell'altro secolo. Comunista e nostalgico, anche se richiamava una storia di morti ammazzati, sequestri, ferimenti, agguati. La storia del terrorismo, degli «anni di piombo», celebrata dalla parte dei colpevoli.
Si sono radunati in qualche centinaio, forse un migliaio, per salutare il brigatista rosso Prospero Gallinari, uno dei carcerieri di Aldo Moro, morto d'infarto il 14 gennaio e sepolto ieri nel piccolo cimitero di Coviolo, alle porte di Reggio Emilia, la città dov'era nato e vissuto tra ricordi di vecchi partigiani ed evocazioni continue della «Resistenza tradita», prima di partire per la lotta armata nelle metropoli. Di entrare in clandestinità, partecipare a omicidi, rapine e altri «assalti proletari». Fino alla strage di via Fani, cinque agenti di scorta uccisi per rapire Moro, tenuto sequestrato per 55 giorni e restituito cadavere. E poi l'arresto, il carcere, la liberazione per malattia, un lavoro scandito da orari e prescrizioni.
A portare la bara di Gallinari, ieri, c'erano altri due ex br che quella mattina di 35 anni fa, 16 marzo 1978, spararono insieme con lui contro i poliziotti e i carabinieri sterminati per prelevare l'ostaggio: Raffaele Fiore e Bruno Seghetti. E un altro che, nove anni dopo, detenuto assieme a lui, con lui tentò di scappare dalla prigione scavando un tunnel sotterraneo: Francesco Piccioni. Più indietro altri ancora che parteciparono al sequestro Moro, come Barbara Balzerani, e ad altre «azioni». Il reggiano Tonino Paroli, brigatista della prima ora e dei primi arresti, che in carcere ha cominciato a dipingere quadri e continua ancora oggi. Vecchi mescolati a giovani che con quella stagione non c'entrano ma sembrano volerla accarezzare. Nella piccola folla, un migliaio di persone, c'è Renato Curcio, con i capelli radi e nessuna traccia della barba che riempiva i telegiornali in bianco e nero, emblema di una dichiarazione di guerra. E altri militanti di un periodo di violenza politica che non ha avuto eguali nell'Europa democratica: per intensità, numero delle vittime provocate e conseguenze istituzionali, accompagnate dalle stragi, dall'eversione nera e dai depistaggi.
In prima fila l'ex leader di Potere operaio Oreste Scalzone, che attacca l'Internazionale con il fischio, seguito dalla compagna di Gallinari e da altri. C'è chi è venuto per salutare l'amico, chi per tornare a sventolare l'idea «che non muore», chi da quell'idea s'è distaccato ma era rimasto affezionato a uno che si mostrava coerente, anche nelle scelte più tardi giudicate sbagliate e mai rinnegate.
Più tardi, però. Dopo tanti morti, e tanta galera. Gli ex br andati all'ultimo saluto ora sono liberi, ergastolani a cui lo Stato che volevano abbattere ha concesso di tornare a vivere e salire su una collina emiliana, un pomeriggio d'inverno, a rivendicare un pezzo di storia. Buia e violenta, che ha spezzato centinaia di vite. Seghetti si commuove e alla fine singhiozza «Onore a Prospero Gallinari». Parte qualche slogan: «Prospero è vivo e lotta insieme a noi/ le nostre idee non moriranno mai», «Il proletariato non ha nazione/ internazionalismo/ rivoluzione». Un'eco lontana degli anni Settanta, applausi, ancora pugni chiusi. Sulla Rete, i messaggi inviati via Twitter sotto le insegne #ciaoProspero e #ciaoGallo s'ingolfano in celebrazioni ed esaltazioni che paiono dimenticare non solo Aldo Moro ma tutte le vittime delle Brigate rosse.

Repubblica 20.1.13
I pugni chiusi degli ex br per l’addio a Gallinari
Da Curcio alla Balzerani, i reduci della lotta armata ai funerali
E Scalzone intona l’Internazionale
di Lorenza Pleuteri

BOLOGNA — L’Internazionale, un “classico” dei funerali comunisti, fischiata da Oreste Scalzone e poi cantata in coro da voci mature e voci acerbe. Applausi e pugni chiusi alzati verso il cielo, dopo un breve corteo sotto la neve, il feretro portato a spalla da Bruno Seghetti e Raffaele Fiore. La bara coperta da un drappo rosso con falce e martello e una stella del comunismo disegnati sopra, una bandiera della Palestina poggiata di traverso. Reduci degli anni di piombo a fianco di giovani e ragazzi, una voce sola nel gridare «onore a Prospero Gallinari» e «le nostre idee non moriranno mai».
Centinaia di persone — «migliaia », contano i tweet diffusi dagli amici — ieri pomeriggio hanno partecipato alla cerimonia laica organizzata per dare l’addio al brigatista Prospero Gallinari, uno dei carcerieri di Aldo Moro, morto lunedì a 62 anni nel garage di casa della sua Reggio Emilia, probabilmente per un infarto. Nella camera ardente e nella “sala dell’accoglienza” del piccolo cimitero di Coviolo si sono pigiati ex terroristi, conoscenti, ragazzi dei centri sociali e No Tav, gente del posto. C’erano la compagna Liliana, la sorella Carla, i nipoti. C’erano anche due sacerdoti, quello che aveva cresimato Gallinari e il prete di frontiera impegnato a fianco di immigrati e emarginati. Ma macchine fotografiche e telecamere erano tutte puntate sui volti e sul passato delle persone che hanno scritto la storia tragica della lotta armata.
Fiore, che con Gallinari prese parte al sequestro di Moro e alla strage di via Fani. Barbara Balzerani e Seghetti, anche loro coinvolti nel rapimento dello statista democristiano. E poi il fondatore delle Br Renato Curcio, l’ex leader di Potere Operaio Oreste Scalzone, Rocco Micaletto, Nadia Mantovani e Roberto Ognibene, la moglie di Mario Moretti e Loris Tonino Paroli, ex militante della colonna torinese delle Brigate rosse. Sante Notarnicola, il rapinatore anarchico diventato scrittore e icona del movimento antagonista, ha scandito alcune sue poesie.
Un giovane antagonista No Tav ha inneggiato alla rivoluzione, un coetaneo ha issato un cartello, un terzo ha letto un messaggio: «Ciò che ho capito è che Prospero non ha mai rinnegato le sue idee, assumendosi la responsabilità delle scelte, giuste o sbagliate che siano, mai rinnegate». Qualcuno ha notato e rimarcato «la prevalenza di compagni che non si sono mai dissociati o pentiti».
La cerimonia è stata seguita e raccontata in diretta da cinguettii e post rimbalzati sui siti d’area. Dolore. Commozione. Ricordi. Rabbia. E una nuova selva di commenti duri, nella scia di quelli che nei giorni scorsi hanno fatto indignare, dividere, commentare e gridare al passaggio di testimone tra cattivi maestri e nuove generazioni. «Negli anni si ricorderanno di Prospero, non dei suoi aguzzini», dice uno. «Prospero è un uomo che non si è mai fatto estorcere una confessione di innocenza», scrive Scalzone. «Noi eravamo ovunque nel combattere il capitalismo, con una dirigenza piena di donne», digita una mano femminile. E ancora: «Non eravamo terroristi, lo era lo Stato».
«Gli ex terroristi erano una minoranza dei partecipanti alla cerimonia funebre, per un terzo giovani — commenta a sera l’avvocato di Gallinari, Vainer Burani — Credo che la presenza di ragazzi, a questa commemorazione funebre, imponga la necessità di discutere di ciò che è successo nel nostro Paese». La salma di Prospero Gallinari, espiantate e donate le cornee, sarà cremata. La procura, che per scrupolo ha aperto una inchiesta conoscitiva, è in attesa dei risultati dell’autopsia.

Corriere 20.1.13
La Cina sperimenta in Africa la nuova fase della globalizzazione
di Federico Fubini

C'è chi la globalizzazione non la capisce neanche quando gli arriva sotto le finestre, e chi la vede arrivare in anticipo. L'intera filiera industriale del tessile abbigliamento in Cina rientra nella seconda categoria, ma non solo per la proverbiale vocazione a esportare jeans, magliette o calze dalla madre patria verso il resto del mondo. Quella era la «vecchia» globalizzazione dei decenni scorsi, quando i lavoratori della Repubblica popolare avevano un vantaggio di costo su tutte le altre aree integrate nell'economia mondiale. Ora invece sono lontani dall'essere i più economici e anche Pechino deve trovare a strategie per competere contro chi costa di meno.
Invece di farlo accusando gli operai cambogiani o bengalesi di concorrenza sleale, il settore cinese del tessile si è messo in cerca di opportunità. Anche quelle che implicano una dose più che modica di spregiudicatezza nel sistema globale degli scambi. L'occasione è arrivata quando l'amministrazione americana nell'anno duemila ha firmato l'Africa Growth and Opportunity Act (Agoa), un accordo preferenziale — riconfermato a più riprese da Barack Obama — che offre un trattamento preferenziale ai prodotti d'abbigliamento di un certo numero di Paesi sub-sahariani. I capi tessili dell'Africa nera possono accedere al mercato statunitense senza dazi né limitazioni di quote. Per Washington era un gesto di buona volontà a poco prezzo, perché il settore tessile è già tramontato da molto tempo in America e la produzione africana era comunque minima.
Invece in pochi anni è esplosa, e l'analisi di un gruppo di economisti di recente ha svelato perché: in Kenya, Lesotho e Madagascar hanno trasferito la produzione decine di grandi gruppi tessili cinesi. Il capitale e la materia prima vengono dalla madrepatria, ma la manodopera locale costa meno che a Shanghai o Canton e non c'è più alcun rischio di dazi, quote o sanzioni commerciali. Poi dicono che a delocalizzare siamo noi.

l’Unità 20.1.12
L’arte e la scienza figlie di uno stesso dio, parola di Feyerabend
«Contro l’autonomia» del filosofo viennese polemizza scagliandosi sulle specializzazioni delle scienze
di Teresa Numerico

SE C'È UN TESTO CHE INDIRETTAMENTE SEGNALA L'INSENSATEZZA DI CERTE PRATICHE DI VALUTAZIONE TECNOCRATICA E SETTORIALE DEL SAPERE SCIENTIFICO, molto in voga attualmente in Italia, questo è il volume di Paul Feyerabend (1924-1994) Contro l'autonomia, pubblicato da Mimesis, a cura di Antonio Sparzani (113 pp., 12 euro), che unisce due interventi di questo imprevedibile filosofo della scienza. Esso costituisce un vero e proprio J'accuse contro la tesi dell'autonomia delle discipline, da lui considerata solo una chimera. Feyerabend argomenta invece appassionatamente in favore dell'impossibilità di valutare un oggetto di ricerca senza metterlo in rapporto con l'esterno della disciplina che se ne occupa: «Nel suggerire un'argomentazione scientifica non conosciamo mai completamente il suo significato» (p. 85).
Nonostante le differenze di stile e di epoca dei due testi raccolti (il primo scritto a metà degli anni '60 del secolo scorso, l'altro un'intervista rilasciata alla sua ultima moglie Grazia Borrini, circa venti anno dopo), l'operazione editoriale è di grande raffinatezza intellettuale e dimostra la stringente attualità dell'opera del filosofo viennese, ferito durante la Seconda Guerra Mondiale, mentre militava, suo malgrado, nelle fila dei tedeschi. L'incidente, del resto, lasciò un segno indelebile sul suo corpo, costringendolo a zoppicare vistosamente per tutta la vita. L'autore di Contro il metodo si scaglia contro l'autonomia e la specializzazione delle scienze mostrando l'irrazionalità e l'ideologia dei fautori della coerenza e della rigidità interpretativa delle pratiche scientifiche per eccellenza, gli esperimenti. La sua posizione serve a segnalare il carattere di totale astrattezza e di vera e propria religiosità della presunta
«scientificità». Feyerabend sostiene che aver rifiutato l'autorità, la tradizione e la riflessione metafisica non abbia condotto ad un aumento di capacità critica nella scienza, ma ne abbia anzi irrigidito i confini impendendo un confronto vero con ciò che è esterno ad essa. Uno sguardo critico sulla scienza, al di fuori del dogma empiristico di baconiana memoria, mostrerebbe che non c'è nessuna sostanziale differenza tra scienza e arte perché «si sovrappongono in molti casi (...)se vi è una scoperta è che le suddivisioni non hanno senso e se guardi alle attività umane queste si fondano una sull'altra in quello che alcuni chiamano scienza, e da lì nelle arti» (p. 72). Insomma secondo il filosofo non esisterebbe alcuna precisa linea di demarcazione tra scienza e arte. Il teatro dalla fisica e così via. Ciò che esiste, invece, è piuttosto una grande discrepanza tra i percorsi reali degli scienziati per arrivare alle proprie scoperte e i modi in cui essi sono disposti a parlarne.
Il caso del teatro è, per Feyerabend, emblematico. Il palcoscenico offre la possibilità di provare in modo simultaneo diverse ipotesi sulla realtà, attraverso l'uso di un dispositivo complesso come la messa in scena, nella quale oltre alle parole contano i gesti, i volti, le luci, il tono della voce, e molto altro ancora. La macchina teatrale consente di dare conto della molteplicità e della compresenza dei punti di vista dei personaggi. Essa rende possibile il cambiamento, non come una conseguenza delle precedenti premesse, ma come uno dei tanti, caleidoscopici esiti immaginabili a partire dal confronto, dalla rappresentazione multipla, teorizzata da Bertolt Brecht (p. 57), con il quale il filosofo aveva collaborato da giovane. Prima di dedicarsi agli studi, subito dopo la II Guerra Mondiale, Feyerabend, infatti, aveva lavorato per il teatro. La scienza dunque come teatro delle ipotesi che si sfidano tra loro sul terreno dell' esperienza, degli esperimenti, ma anche su quello del benessere della società al quale gli scienziati non dovrebbero mai smettere di fare riferimento quando valutano i propri risultati. Studi umanistici e scientifici troverebbero in questo caso la loro piena integrazione.

Corriere 20.1.13
Fondi scarsi e pochi ricercatori Il record italiano che umilia gli scienziati
L'appello: portare i finanziamenti all'1,9 del Pil. Usa al 2,8, area Ocse al 2,38
di Gian Antonio Stella

Mettiamo il caso che Harvard fosse in Italia... «Magari!», direte voi. Mettiamo comunque che fosse in Italia: avrebbe senso fissare un tetto massimo ai suoi progetti di ricerca per dare soldi anche agli atenei di Baroniate o Villaclientela? È quanto chiede una dura petizione firmata da 2.067 docenti e ricercatori. Affiancati da un secondo documento firmato dai presidenti dei maggiori istituti scientifici che sferza tutti i politici: si impegnino a dare alla ricerca almeno l'1,91% del Pil. Cioè quanto la media europea tra la Finlandia e Cipro.
Obiezione: ma c'è la crisi! Lasciamo rispondere a Obama: «C'è chi dice che non possiamo permetterci di investire in ricerca, che sostenere la scienza è un lusso quando bisogna dare priorità a ciò che è assolutamente necessario. Sono di opinione opposta (...). Per reagire alla crisi oggi è il momento giusto per investire molto più di quanto si sia mai fatto». Risultato: oggi l'America mette nella ricerca il 2,8% del suo Pil, contro l'1,26 dell'Italia. E in Germania la Merkel ha lanciato la «Exzellenzinitiative» incrementando i fondi per la ricerca, in cinque anni, di 10 miliardi di euro.
Spiega una tabella elaborata su dati Ocse da Federico Neresini, curatore dell'Annuario scienza e società, che i Paesi che più investono in questo settore coincidono con quelli che meglio reggono all'urto dei colossi della manodopera a basso costo come Cina o India: se noi abbiamo 4 ricercatori ogni 1.000 occupati (la metà dell'Europa allargata: 7) la Norvegia ne ha 10,1, la Svezia 10,9, la Danimarca 12,6, la Finlandia e l'Islanda 17...
Lo stesso studioso dimostra che se dal 1981 al 1990, nella vituperata Prima Repubblica, siamo passati dallo 0,85% all'1,25 del Pil, da vent'anni non ci schiodiamo da quella miserabile percentuale. E intanto, mentre facevamo i bulli ai vertici G7, gli altri acceleravano. E gli Usa come detto salivano al 2,8% del Pil fornito alla ricerca, l'Europa dei 15 a 2,08, la Germania al 2,84, il Giappone al 3,26, la Svezia al 3,37, i paesi dell'Ocse al 2,38: il doppio di noi.
Non bastasse, per ogni euro che mette nel salvadanaio europeo destinato alla ricerca, l'Italia riesce a recuperare solo 60 centesimi a causa dei micidiali marchingegni burocratici: ogni progetto richiede una relazione in inglese di un centinaio di pagine con il prospetto delle spese, delle persone impegnate, dei carichi fiscali, delle combinazioni tra queste e quella legge nazionale e poi la privacy, l'impatto ambientale, le quote rosa… Direte: sono problemi anche degli altri. Giusto, ma le migliori università europee (ce ne sono 39 nelle prime 100 della classifica mondiale Time Higher Education e Qs: nessuna italiana) sanno che per Einstein o Majorana certe difficoltà burocratiche potrebbero essere insuperabili e sgravano i loro ricercatori da questi impicci di commi e codicilli. Noi no: ognuno deve fare da sé e conoscere sia la meccanica quantistica sia il decreto legislativo 626/'94 per la sicurezza sui luoghi di lavoro...
È in questo contesto che quei duemila docenti hanno scritto al governo contestando i criteri con cui saranno distribuiti i (pochi) soldi a disposizione della ricerca universitaria con il bando 2012 dei «Prin», Progetti di rilevante interesse nazionale. Cioè «una delle poche fonti di finanziamento accessibili agli studiosi per sviluppare liberamente le proprie ricerche e pubblicarne i risultati».
Secondo loro questi criteri sono infatti di «inaudita gravità» per vari motivi. Primo fra tutti: la legge prevede che la selezione nazionale dei progetti meritevoli di essere finanziati sia preceduta da una «preselezione» fatta al proprio interno da un comitato nominato in ogni università dal rettore. Procedura che, tradotta dal linguaggio «buro-accademico», consentirebbe a certi rettori di dare spazio ai loro famigli sbarrando la porta a eventuali geni ribelli.
Per non dire di un altro criterio: i progetti scelti per essere girati alla valutazione finale di Roma devono tener conto non solo degli aspetti scientifici ma anche degli «"aspetti di natura strategica", vale a dire politica o d'immagine, come le "possibili ricadute in termini di visibilità, attrattività, competitività internazionale" dell'ateneo o le eventuali "interazioni con soggetti imprenditoriali"». Traduzione: e se certe università, scartando il leopardiano «Dialogo di Malambruno e Farfarello» preferissero uno studio sui dialoghi tra Fiorello e Marco Baldini per finire sui giornali e attrarre più studenti incuriositi dagli studi «frizzanti»?
Punto sul vivo, il ministro dell'Università e della ricerca Francesco Profumo risponde ricordando non solo di essersi impegnato nel ripescare le risorse inutilizzate del 2010 «firmando un bando Prin per 175 milioni (che recuperava tutte le risorse 2010 e 2011) e uno Firb (fondo investimenti ricerca di base) per altri 58 milioni e mezzo». Ma insiste spiegando che la preselezione è necessaria per velocizzare le procedure riducendo «il numero dei progetti da sottoporre alla valutazione centrale (che due anni fa ha richiesto quasi due anni)» e spingere «le singole università a lavorare per operare una sintesi dei progetti che, a parità di punteggio assegnato dagli esperti Cineca, eviti il più possibile le disparità tra le diverse discipline di ricerca». Il tutto in linea con la «responsabilizzazione della singola università».
Quanto alla scarsità di soldi, proprio per le «incomprimibili esigenze di ogni comparto della pubblica amministrazione a partecipare solidalmente alla riduzione del debito» ha «voluto assegnare un numero maggiore di risorse attraverso bandi competitivi» per «allenare» i ricercatori in vista dell'«appuntamento del 2014, quando comincerà la partita serrata per guadagnarsi le ingenti risorse messe a disposizione dall'Europa, quasi 80 miliardi di euro».
Rispondono i promotori della contestazione, come Vittorio Formentin dell'Università di Udine, che in ogni caso per il 2012 sono stati stanziati (tra Prin e Firb) 69 milioni contro i 196 del 2009 e proprio il richiamo all'Europa è una plateale contraddizione. «Ho contribuito anch'io a fare le regole dell'European Research Council alle quali Profumo si richiama e posso assicurare che dalle altre parti non funziona così — conferma Salvatore Settis, che sedeva tra i 21 membri del consiglio con un altro italiano, Claudio Bordignon —. Mettere un tetto ai progetti che una università può proporre è una pazzia. A nessuno verrebbe mai in mente, in America, di stabilire che Yale o Princeton possono avere al massimo 41 o 76 progetti perché poi bisogna finanziarne 12 di un ateneo dell'Oregon e 16 di uno dell'Arkansas. Se paradossalmente meritassero di fare bottino pieno farebbero bottino pieno. Contano solo le eccellenze. I migliori vincono. Punto». «L'Italia sta facendo l'esatto contrario di quanto facciamo in Europa», ribadisce Bordignon, «L'Erc ha avuto un successo enorme distribuendo 7 miliardi e mezzo in sette anni proprio perché non ha mai sacrificato e non sacrificherà mai un solo progetto alle esigenze distributive».
Per capirci: fermo restando che ogni università nostrana, anche nella più sperduta delle balze prealpine o del Sud profondo può ospitare giovani straordinari che magari hanno intuizioni straordinarie da sviluppare, ha senso stabilire a priori che la Sissa di Trieste può preselezionare al massimo 11 progetti e l'«Aldo Moro» di Bari 33 oppure la scuola superiore Sant'Anna di Pisa 5 e l'Università del Molise 6 e la «Insubria» varesina 8? Siamo sicuri che dietro questa logica più che l'obiettivo di dare spazio alle eccellenze non ci sia quello di spartire una povera pagnotta rinsecchita dando una briciola a testa?

Corriere La Lettura 20.1.13
Il populismo si cura cambiando l'Europa
Con i demagoghi è inevitabile convivere: per batterli bisogna dire la verità agli elettori ed evitare di cadere nell'idolatria della Ue
di Dario Di Vico

Nel Vecchio Continente è considerato il moderno nemico delle democrazie. L'Unione Europea, sicuramente non abituata a iniziative di questo genere, ha addirittura messo in gestazione, su iniziativa di Herman Van Rompuy e Mario Monti, un'apposita manifestazione politica dei leader europei contro il populismo. Meeting che si sarebbe dovuto tenere a Roma se le elezioni politiche anticipate non ne avessero consigliato uno slittamento. Ma, come accade spesso in queste circostanze, l'enfatizzazione di un concetto conduce a una sua ipersemplificazione, a un'estensione indebita. Così nel discorso pubblico corrente, da una parte il populismo diventa un gigantesco alibi per governanti inetti o peggio corrotti, dall'altra un'insidiosa accusa politica da lanciare a mo' di strale contro gli avversari del momento. Proviamo dunque con il politologo francese Yves Mény, presidente emerito dell'Istituto europeo di Firenze, autore insieme al collega Yves Surel di un libro fondamentale (Populismo e democrazia, il Mulino, 2001), a delimitarne il perimetro e nel contempo indagare meglio il pericolo populista.
Cerchiamo quantomeno di dividere il populismo almeno in due componenti, quella strutturale, con le culture politiche che la alimentano, e quella congiunturale, legata a quello che lei ha chiamato «lo sconforto» degli elettori.
«Innanzitutto va ricordato che c'è una componente di estrema destra che esprime una radicata ostilità verso il sistema democratico. Il popolo è l'unica fonte positiva di legittimità ed è contrapposto alle istituzioni. Questo tipo di populismo ha dietro di sé la nostalgia di un potere assoluto e il culto del capo rivela in questo caso un fondo autoritario. Con questa componente i politici democratici fanno i conti da tempo e tutto sommato la conoscono».
Più recente è la nascita di un populismo che, con approssimazione, potremmo definire di sinistra.
«Sì, è decisamente più recente. I partiti comunisti occidentali hanno avuto per decenni la capacità di canalizzare il populismo presente nella classe operaia dentro una cultura di partito che aveva sue strutture e una sua ideologia. In questo modo sono stati in grado di coniugare pulsioni nobili con sentimenti meno nobili. Quando questa capacità si è attenuata, abbiamo visto in Francia contrapposizioni dirette e violente tra operai e immigrati che vivevano fianco a fianco nelle banlieue e avevano sviluppato un rancore reciproco che non conosceva mediazioni. Poi abbiamo constatato come una buona fetta del voto operaio si sia rivolto in Francia verso il Front National di Jean-Marie Le Pen (oggi guidato da sua figlia Marine) e in Italia verso la novità rappresentata dalla Lega Nord».
Quando nel dibattito politico italiano si accenna a un populismo di sinistra, ci si riferisce al movimento di Beppe Grillo.
«Il populismo è un fenomeno dotato di una grande mobilità, si sposta velocemente. Viene facilitato nei suoi slittamenti dalle sconfitte dei partiti quando non riescono più ad essere interclassisti, a mediare la domanda sociale. Quello di Grillo è un populismo particolare, che si basa sulla contrapposizione ai partiti, ma si nutre anche delle qualità tecniche di un comico nell'intrattenere la gente. Sono curioso di vedere se riuscirà ad avere un buon numero di eletti in Parlamento, perché a quel punto non potrà vivere più di barzellette, dovrà uscire allo scoperto. A Parma, dove i grillini hanno conquistato il Comune, è già così. La realtà ha già presentato il conto senza attendere quei due-tre anni che in genere rappresentano la luna di miele dei movimenti populisti che vanno al potere».
Una particolarità di Grillo è anche l'utilizzo ottimale delle potenzialità della Rete.
«Internet è neutra, anche Obama l'ha usata per essere eletto, ma ha effetti dirompenti per la politica. I vecchi partiti europei non sono abituati a usarla, mentre per i democratici americani è diverso. In fondo il populismo è consustanziale alla democrazia americana, lì i partiti sono macchine elettorali e non strutture permanenti. Sostituirli con un rapporto diretto tra il capo e la Rete è semplice. Comunque si può dire che la Rete nel tempo modificherà la politica e può favorire sia il populismo sia la personalizzazione».
Veniamo al cosiddetto populismo «da sconforto».
«La delusione nasce perché le politiche dei governi non sono state in grado di affrontare i problemi e la crisi ovviamente fa emergere questo deficit con maggior evidenza. Si manifesta uno scarto tra il discorso politico e la sua concretizzazione. Non sottovalutate poi la complicazione rappresentata dalla suddivisione dei poteri tra i governi nazionali e Bruxelles. Tutti gli esecutivi sono schiacciati tra livello di decisione sovranazionale e globalizzazione economica: ciò produce una forma di sovranità limitata che i partiti tendono però a nascondere. A livello nazionale si possono adottare politiche sociali differenti, ma nessun governo può permettersi di scegliere quelle più generose, perché per finanziarle dovrebbe aumentare le tasse e aprire la strada a vicende come quella che oggi vede l'Inghilterra di David Cameron mettere il tappeto rosso alle aziende che vogliono scappare dalla Francia di François Hollande. I partiti dovrebbero dire invece agli elettori che la famosa stanza dei bottoni non esiste».
Considera anche Silvio Berlusconi alla stregua di un leader populista?
«Berlusconi è stato abile nel combinare la presenza al potere con la critica del sistema, premier e tribuno insieme. Non conosco altri politici che siano riusciti a sopravvivere a lungo con queste contraddizioni, perché se è vero che i presidenti americani di matrice repubblicana in genere sono sempre molto critici verso la burocrazia, non si azzardano però ad attaccare la magistratura o la Costituzione. Se ne guardano bene».
Ma lo schema premier/tribuno si può ripetere all'infinito?
«Non credo e la difficoltà del suo governo ad affrontare la crisi economica lo dimostra. Se fosse stato lungimirante, Berlusconi avrebbe dovuto sfruttare il populismo per poi costruire una destra forte e autorevole, capace di pensare e attuare riforme di destra. Charles de Gaulle odiava i partiti, ma non era populista, le sue riforme economiche e istituzionali hanno avuto un grande impatto».
Alla fin fine lei ci sta dicendo che dobbiamo abituarci, specie in una stagione di grande crisi economica, a convivere con il populismo?
«Convivere è un'espressione forte e sicuramente farà storcere il naso a più di qualcuno. Ma, purtroppo, il populismo sarà un elemento presente nella dialettica delle democrazie moderne. Non può essere espulso e comunque è impensabile che ciò possa avvenire solo facendo riferimento alla retorica democratica».
Convivere ma lottando, spero. Dia allora un paio di consigli ai politici democratici per tentare di uscire vincitori da questa inedita sfida.
«Il primo consiglio che mi sento di dare è quello di organizzare un'operazione verità. Invece di infarcire le campagne elettorali di promesse che poi regolarmente non si potranno mantenere, un politico responsabile dovrebbe spiegare ai cittadini elettori qual è la mappa reale dei poteri tra livello nazionale e sovranazionale. Raccontare qual è la vera posta in palio delle elezioni. Se bara, se ne pentirà amaramente».
Il primo consiglio è abbastanza radicale. E il secondo?
«Altrettanto. Essere meno concilianti con Bruxelles. Sia chiaro: penso che la difesa delle istituzioni europee sia doverosa e sacrosanta, ma le singole politiche varate dalla Commissione possono essere tranquillamente contestate, è un esercizio che fa parte della dialettica e del conflitto democratico. L'accettazione cieca di qualsiasi cosa venga da Bruxelles aiuta il populismo, lo facilita nella costruzione delle sue accuse, nel gridare al tradimento delle élite. Si deve e si può dire agli elettori che la Ue ha smesso di far politica, per esempio, e che ha ristretto i suoi orizzonti all'economia e all'approccio tecnocratico».

Il politologo
Yves Mény (nella foto), studioso francese di scienze politiche e presidente emerito dell'Istituto europeo di Firenze, è autore con Yves Surel del volume «Populismo e democrazia», edito dal Mulino nel 2001. I suoi principali campi d'interesse sono la politica comparata e le politiche pubbliche europee
L'argomento
Tra gli studi recenti sul fenomeno populista pubblicati nel nostro Paese, vanno ricordati il saggio di Nicolao Merker «Filosofie del populismo» (Laterza, 2009) e quello di Marco Tarchi «L'Italia populista. Dal qualunquismo ai girotondi» (Il Mulino, 2003). Sul caso del Movimento Cinquestelle è appena uscito il libro di Giuliano Santoro «Un Grillo qualunque» (Castelvecchi)

Corriere La Lettura 20.1.13
Le tante versioni del populismo
Armato in Russia, rurale negli Usa Ma solo con Perón diventò un regime
di Giovanni Belardinelli

Da qualche anno il termine populismo viene utilizzato sempre più spesso per definire alcune tendenze e formazioni politiche presenti nelle democrazie europee contemporanee. Ma non è stata l'Europa, o meglio non è stata l'Europa occidentale, il centro dei populismi «storici». Il primo movimento populista nacque negli anni Settanta del XIX secolo in Russia, per opera di un gruppo di giovani intellettuali i quali consideravano l'immensa massa dei contadini come il vero soggetto rivoluzionario, che avrebbe consentito al Paese di modernizzarsi senza seguire il modello occidentale.
I populisti pensavano infatti che sulle comuni rurali ancora esistenti nelle campagne russe si potesse fondare una soluzione della questione sociale tale da non dover passare per lo sviluppo capitalistico. Animati da una grande fiducia nelle qualità anche morali del contadino russo, molti di loro andarono «verso il popolo»: si trasferirono nei villaggi come maestri, medici, bottegai, sperando di risvegliare chi vi abitava da un sonno secolare. Ma i contadini non sembravano affatto interessati alla loro predicazione; negli anni seguenti una parte del movimento populista puntò a combatterne la passività attraverso azioni esemplari di tipo terroristico contro il potere zarista. E nel 1881 un gruppo di populisti riuscì effettivamente a uccidere lo zar Alessandro II.
Un decennio dopo nasceva negli Stati Uniti il Partito populista (People's Party), protagonista di un movimento che condivideva con quello russo la centralità delle campagne, ma aveva per il resto caratteri molto diversi. Anche il populismo degli Stati Uniti esaltava il lavoro e l'etica del farmer come base della società americana. Ma soprattutto dava voce alla protesta degli agricoltori del Sud e dell'Ovest contro il potere industriale e finanziario dell'Est, contro le compagnie ferroviarie, contro il governo non abbastanza sollecito verso i problemi del mondo contadino.
Inizialmente il People's Party ebbe un grande seguito, tanto da far ritenere che potesse seriamente minacciare l'assetto duopolistico della politica americana: nelle elezioni presidenziali del 1892, nelle quali il presidente Cleveland riuscì eletto con cinque milioni e mezzo di voti, il candidato dei populisti ottenne la ragguardevole cifra di un milione di suffragi. Nel giro d'una decina d'anni il Partito populista sarebbe scomparso dalla scena. Ma nella sua piattaforma e nei suoi slogan si trovavano temi che da allora sarebbero più volte ricomparsi nella politica americana e non solo: dalla polemica contro Wall Street, vera padrona del Paese, alla denuncia della rovina morale della nazione, dalla battaglia contro i grandi monopoli alla necessità di combattere una politica intimamente corrotta. Il tutto in una miscela ideologica che affiancava spirito della frontiera e ideali democratici di stampo jeffersoniano a una forte diffidenza verso neri, ebrei e immigrati più recenti.
Nel corso del Novecento sarebbe stata l'America Latina la patria del populismo, che qui arrivò a caratterizzare non più soltanto dei movimenti, ma dei regimi politici, assumendo — a differenza dei populismi russo e statunitense — il carattere di un fenomeno in primo luogo urbano.
L'esperienza più significativa fu senza dubbio quella argentina di Juan Domingo Perón negli anni Quaranta e Cinquanta del secolo scorso. Per la centralità del rapporto tra il capo e le masse, per la presenza di tratti autoritari uniti a un forte consenso elettorale (nel 1946 Perón ottenne il 56 per cento dei suffragi), per la miscela di nazionalismo e politiche sociali, il peronismo è considerato infatti come l'idealtipo del populismo latinoamericano.
Quanto ai più recenti populismi europei, è indubbio che essi riprendano alcuni caratteri dei populismi storici: in primo luogo l'esaltazione del rapporto diretto tra il leader e le masse, la polemica contro la corruzione e contro il distacco tra governanti e governati. Si inseriscono però in un contesto radicalmente nuovo, che è quello dello svuotamento della democrazia rappresentativa di fronte alla globalizzazione, alla formazione di istituzioni sovranazionali, alla crisi dei partiti e delle ideologie che hanno caratterizzato gli ultimi due secoli. Per molti aspetti, dunque, il populismo contemporaneo non è solo un nemico della democrazia, ma anche la conseguenza delle trasformazioni, delle incognite, dei rischi che essa si trova a dover affrontare nel nuovo secolo.

Corriere La Lettura 20.1.13
È finito il sogno del governo globale: «L'Onu oggi conta meno di Bill Gates»
Lo storico Mark Mazower denuncia il tramonto dei sogni kantiani «Anche l'America ha perso fiducia in se stessa e le Ong non bastano»
di Lorenzo Cremonesi

C'era una volta, non troppo tempo fa, radicata nelle menti degli uomini, la speranza che si potesse organizzare un governo del mondo capace di evitare le guerre. Non soltanto l'antico sogno romano e poi cristiano dell'armonia universale, non le utopie buoniste di una società perfetta di cui è costellata la storia, piuttosto l'idea kantiana della pace perpetua concepita e costruita pragmaticamente sulla Terra da politici illuminati. Ma tutto questo negli ultimi anni si è come spento, assopito, esaurito. «Purtroppo si è smesso di pensare e progettare in grande. Sia sul piano nazionale sia internazionale, in genere le nostre società hanno perso la fiducia che si possa realmente incidere sugli eventi in modo positivo. Non crediamo più che la sfera politica sia in grado di risolvere alla radice i problemi pubblici generali» sostiene Mark Mazower sintetizzando il suo ultimo libro appena uscito in inglese, Governing the World. The History of an Idea (Penguin).
Nato in Inghilterra nel 1958, docente di storia alla Columbia University di New York, autore di opere importanti tradotte anche in italiano come Le ombre dell'Europa. Democrazie e totalitarismi nel XX secolo e l'affascinante Salonicco, città di fantasmi. Cristiani, musulmani ed ebrei tra il 1430 e il 1950 (entrambi editi da Garzanti), Mazower non nasconde il suo rimpianto per il passato recente delle forti tensioni ideali collettive. «Guardo con una certa nostalgia all'antica fiducia che la politica potesse arricchire le nostre esistenze e persino cambiare le cose per il meglio. Non sono passati molti anni. Ancora Bill Clinton ne era convinto: gli anni Novanta del Novecento furono improntati all'ottimismo dell'azione politica. Persino George W. Bush ha lanciato la guerra in Iraq nella certezza, poi rivelatasi errata, di estirpare alla radice la violenza e il fondamentalismo fanatico in Medio Oriente. Poi è cessata qualsiasi tensione progettuale. Ma i miei modelli li cerco ancora tra gli uomini che contribuirono a ricostruire il mondo dalle ceneri della Seconda guerra mondiale. Non ultimo l'italiano Altiero Spinelli, l'autore nel 1941 del Manifesto di Ventotene, che idealizzava l'Europa unita» racconta seduto a un tavolino di un piccolo bistrot di Saint-Germain-des-Prés. Mazower è venuto nella capitale francese a completare le ricerche per il suo prossimo lavoro sul rapporto Grecia-Europa e qui lo abbiamo incontrato.
Partiamo dalla frase finale del suo ultimo libro: «Il sogno di governare il mondo è diventato un sogno di ieri». Ciò significa che si sarebbe eclissata anche la speranza di pacificare il pianeta?
«Io prendo in esame i due ultimi secoli di storia, le grandi costruzioni intellettuali dell'Ottocento e l'ottimismo creativo del primo Novecento: dal marxismo all'utilitarismo di Jeremy Bentham, che pensava a un sistema perfetto di leggi fondato sull'esperienza, alla fede nella scienza come base dell'armonia sociale, arrivando a personaggi del calibro del belga internazionalista Paul Otlet, convinto che la conoscenza messa a disposizione di tutti tramite un gigantesco archivio universale fosse la chiave per risolvere le diseguaglianze; oppure ancora agli apostoli dell'esperanto, la lingua franca destinata a superare le difficoltà di comunicazione. Ebbene, è la loro fiducia pragmatica nel valore dell'agire che sembra perduta, non il sogno antichissimo della pace universale, che venga da Dio o dall'Impero. Quello non svanirà mai».
Il passaggio dall'ottimismo diffuso in Occidente sulle potenzialità dell'azione politica al pessimismo pare quindi sia stato recente e molto rapido. Come mai?
«Le cause sono tante: lo shock dell'11 settembre 2001; i fallimenti delle speranze di incidere profondamente in Afghanistan e Iraq grazie alle invasioni militari; le ricchezze facili dell'economia globalizzata tradite dalla crisi finanziaria. Persino il ricorso sempre più massiccio agli aerei senza pilota per azioni militari al posto degli eserciti inviati sul territorio tradisce il senso del limite. Si fa la guerra senza dichiararla, la confusione, anche dal punto di vista del diritto internazionale, cresce nell'ambiguità. E comunque svela la recente e profonda sfiducia dei governi nella possibilità che i propri soldati possano realmente mutare uno scenario».
Lei racconta il fallimento dei tre maggiori modelli di concerto internazionale negli ultimi due secoli: il Congresso di Vienna dopo la sconfitta di Napoleone; la Lega delle Nazioni e le Nazioni Unite. Dove siamo ora?
«Il concerto europeo incentrato sulla cruda Realpolitik, incarnata da Metternich e Talleyrand, generò il proprio opposto. Contro gli interessi degli Stati si schierarono i socialisti internazionalisti, ma anche Giuseppe Mazzini e i liberali. La Prima guerra mondiale spazza via l'eurocentrismo: Woodrow Wilson, che tra parentesi era un grande ammiratore di Mazzini, impone il meglio dell'idealismo americano, ma poi la crisi del 1929 vanifica la Lega delle Nazioni. Mancano i fondi. Nel 1930 le casse della Lega valgono meno di un trentesimo di quelle dell'Onu oggi. Soprattutto mancano truppe internazionali. Per esempio, non ci sono soldati per scacciare l'Italia dall'Etiopia. La Lega diventa un leone sdentato, fallisce specialmente sui temi della sicurezza».
Come l'Onu ai nostri giorni?
«L'Organizzazione delle Nazioni Unite venne ideata anche per garantire gli interessi delle nuove superpotenze emerse dopo la Seconda guerra mondiale. Da tempo però gli Stati Uniti si sentono traditi, criticano il potere dell'Assemblea generale, preferiscono intervenire usando altri organismi, per esempio il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale. La passività dell'Onu lascia un vuoto di intervento. Provano allora a riempirlo le organizzazioni umanitarie non governative (Ong). Tacciono le grandi agenzie Onu e crescono quelle tipo Save the Children, Oxfam o Amnesty International. Oggi la fondazione di Bill Gates è più importante e meglio finanziata dell'Organizzazione mondiale della sanità».
Le Ong possono sostituire l'Onu?
«Direi di no. Mancano spesso di una visione globale, sono finalizzate a obiettivi specifici. Soprattutto agiscono su base volontaria, caso per caso. Hanno pochi archivi istituzionali completi e accessibili, non devono rendere conto a un proprio elettorato. E non è affatto detto che siano abbastanza professionali per gli scopi che si prefiggono. Per molti aspetti la nuova rilevanza delle Ong riassume il dramma del fallimento della politica: in un mondo sempre più globalizzato agiamo in modo sempre più localistico».

Corriere La Lettura 20.1.13
Critiche al Silenzio di Pio XII

«Personalmente — scrive Sergio I. Minerbi a conclusione del saggio Pio XII e il 16 ottobre 1943, in uscita sul prossimo numero di "Nuova Storia Contemporanea" — io mi salvai rifugiandomi nel collegio mariano di San Leone Magno. A quell'epoca il preside della scuola era don Alessandro Di Pietro, che accolse venti ragazzi ebrei e una dozzina di antifascisti italiani adulti. Gli è stato reso onore il 30 gennaio del 2002, quando gli hanno conferito il titolo di "Giusto fra i popoli"». L'esperienza personale raccontata con onestà e gratitudine e l'ammissione del fatto che migliaia di perseguitati, dopo la razzia del 16 ottobre, trovarono rifugio nelle chiese e nei conventi (secondo Robert Leiner si trattò di 2.775 ebrei e di 992 persone di altra religione) non attenua agli occhi di Minerbi, storico ed ex diplomatico israeliano, le responsabilità per quel che viene chiamato, dai tempi del dramma di Hochhuth Il Vicario (1963), il «silenzio di Pio XII». La domanda aperta ancora oggi che è stato avviato il processo di beatificazione secondo Minerbi è perché il Papa non protestò con i nazisti apertamente né prima né dopo la razzia nel ghetto durante la quale furono catturati e mandati ad Auschwitz 1.022 ebrei. Altri 1.069 furono catturati dopo il raid e 75 caddero alle Fosse Ardeatine. Minerbi è convinto che Pio XII sapesse quel che stava per accadere grazie agli avvertimenti dell'ambasciatore presso il Vaticano Ernst Weizsäcker, ma decise di tacere per evitare la minacciata occupazione nazista della Santa Sede. Un piano che prevedeva anche il rapimento del Papa e il suo trasferimento in Liechtenstein. Pio XII sperò fino all'ultimo in una soluzione negoziale del conflitto, con il Vaticano nel ruolo di mediatore tra gli Alleati e la Germania, e l'Unione Sovietica isolata. Non è poi vero, argomenta lo storico, che la scelta del Papa consentì di salvare molte più vite umane. Una dichiarazione pubblica e forte, secondo Minerbi, avrebbe probabilmente potuto salvare dalla deportazione gli ebrei che dopo la cattura rimasero per tre giorni all'interno del collegio militare di Roma.

Corriere La Lettura 20.1.13
Il trash secondo Žižek: cattivo gusto ma con stile
'estetica del «senza-qualità» in un volume del filosofo
di Vincenzo Trione

Spazzatura. Volgarità. Eccessi. Effetti facili. Cattivo gusto. Degrado culturale. Immagini del sottobosco della società dello spettacolo. Per noi, il trash è innanzitutto questo. Ma è anche altro. Diversamente dal kitsch — che è pratica della citazione disinibita, riutilizzo del già-fatto, trionfo dell'inautentico — è il senza-qualità. È una forma di imitazione fallita. Espressione di un ritardo, si basa sul principio dell'emulazione: replica e degrada modelli preesistenti. Siamo dinanzi a una categoria estetica e sociologica difficile da definire. Un fenomeno su cui si interroga Slavoj Žižek, tra i più controversi (e sopravvalutati?) filosofi di oggi, in un piccolo libro Trash sublime (in uscita da Mimesis, a cura di Marco Senaldi, pp. 48, 3,90), che raduna due saggi precedentemente pubblicati: il primo (inedito) è stato redatto nel 1999; il secondo è il testo di una conferenza sull'architettura tenuta a New York nel 2009.
Affidandosi a una scrittura spesso involuta, Žižek — che talvolta rischia di rendere davvero «incomprensibile» il senso dell'arte contemporanea — conduce in un itinerario teorico segnato da alcune intuizioni. Attingendo a un solido armamentario psicoanalitico e marxista, disegna una piccola storia del trash. Che muove da L'Origine du Monde di Courbet: ritratto iperrealista di un pube femminile, ripreso in primo piano. È il capolavoro di un profanatore, sapiente nel determinare il collasso della «struttura della sublimazione»: vi si attua «il rovesciamento dell'oggetto sublime in (…) un aberrante, nauseante pezzo (...) di melma». Il corpo della donna è a tal punto attraente da risultare repellente.
Questo collasso si compirà definitivamente nella stagione delle avanguardie. Che Žižek suddivide in due momenti: astrattismo e concettualismo. Da un lato, Malevic, autore, con il Quadrato nero, di un monocromo che è «enfatizzazione pura del vuoto»: si separa la superficie dipinta dall'ambiente circostante. Dall'altro lato, Duchamp, il quale, con i ready made, preleva cose di uso comune, le trasporta in contesti espositivi istituzionali, attribuendo loro uno statuto estetico, «per dimostrare che l'arte non si fonda sulla qualità dell'opera (...), ma esclusivamente sullo Spazio che essa occupa, in modo che qualsiasi cosa, anche la merda, possa diventare oggetto artistico se si trova nel Luogo giusto».
Dunque, da una parte, il profeta di uno stile aniconico, impegnato a reagire contro coloro che vogliono rendere l'arte un evento «vile». Dall'altra parte, il padre degli scenari poetici attuali, nei quali si «culturalizza» il mercato. Ci troviamo in paesaggi dominati dai post-duchampiani, i quali tendono a esporre «cornici senza quadri, mucche morte e loro escrementi, video di interiora del corpo umano (gastroscopie e colonscopie), esalazioni di odori». L'arte, per loro, non si pone più come costruzione alternativa. Non si dona più come «cosa esclusa dal circuito dell'economia quotidiana». L'avanguardia viene normalizzata. È assorbita dal sistema. Integrata nell'establishment, fino a farsi rassicurante.
In sorprendente sintonia con i critici anti-moderni (Hughes, Clair, Fumaroli), Žižek afferma che, nel nostro tempo, «la perversione non è più sovversiva». Non fa nomi, ma sembra alludere alle opere di Orlan e di Serrano, di Hirst e della Emin, nelle quali si sgretolano i margini che separano «lo spazio (...) del bello sublime dallo spazio (...) dei rifiuti e degli scarti». Gallerie e musei vengono violati da detriti o addirittura da feci. Si eleva a «ideale di Bellezza una volgare figura comune, (...) uno squallido oggetto escrementizio». Non ci sono più differenze tra il Graal e il trash: il sublime è diventato rimasuglio, ricettacolo disgustoso.
Gli artisti, secondo il filosofo di Lubiana, si sforzano disperatamente di salvare la «logica della sublimazione». Ma non vi riescono, perché oramai non esiste più alcun ordine simbolico da tutelare. Siamo alla fine del mondo: è l'apocalisse del gusto. Vittime di una «confusione comica», siamo portati a confondere frammenti consunti o semplici gesti con autentiche opere, e viceversa. Si rifletta, ad esempio, su quel che è accaduto qualche anno fa a Berlino, in Postdamer Platz. Decine di gigantesche gru hanno composto una sorta di danza. Una performance. Che molti, però, alla fine hanno interpretato come un'ordinaria attività di manutenzione edilizia cittadina.
Quanti equivoci. Sono i medesimi equivoci che ritroviamo in «Toilet Paper», la rivista ideata nel 2010 da Maurizio Cattelan e Pierpaolo Ferrari, i cui numeri sono stati raccolti in un recente volume (Toilet Paper, Damiani, pp. 232, 50). Un regesto da the day after: immagini di matrice pubblicitaria, che, tuttavia, non reclamizzano nessun prodotto. Sequenze di trucchi, dense di richiami agli artifici di Oliviero Toscani. Giochi tra tragedia e comicità: una torta di fragola si fa distesa di mozziconi, uno scoiattolo si diverte a sniffare cocaina, e tanti altri frames. Ma davvero il trash è solo «carta igienica», volgarità, miserie, degenerazioni?
A differenza di quel che sostiene Žižek, in arte, trash non è affatto sinonimo di compiacimenti equivoci, di mistificazioni velleitarie e di bassezze culturali. Al contrario, è un topic che rimanda a violenze, a fragilità, a nostalgie, a lacerazioni, a drammi. È traccia della dimensione tragica sottesa alla modernità, come aveva rivelato un'esposizione, intitolata proprio Trash, curata da Lea Vergine (al Mart di Rovereto nel 1997). Un sofisticato itinerario volto a dimostrare come, nel XX secolo, i protagonisti delle avanguardie e delle neoavanguardie abbiano avvertito con forza il bisogno di dialogare con il trash, inteso nel senso letterale della parola: come spazzatura.
Alcune tra le più alte voci del XX secolo — come Picasso, Schwitters, Cornell, Burri, Rauschenberg, la Bourgeois e Hirschoorn — ricorrono a raffinate strategie per consegnare ai rifiuti una vita diversa. Li risemantizzano. Li usano come feconde occasioni visive, per intraprendere avventure linguistiche. Propongono diverse ipotesi di ri-sacralizzazione. Elaborano un'estetica del post-sublime: il loro è un sublime tormentato, ansioso. Acquisiscono carta straccia, pezzi di giornali, biglietti da viaggio e rottami, per far nascere sintassi inattese. Recuperano materie povere, per evocare angosce. Utilizzano scarti, per ironizzare sulla civiltà dei consumi. Trattano l'«immondizia» come un'epidermide da aggredire e sceneggiare. Nelle loro installazioni, accumulano detriti: li enfatizzano, li mimetizzano, li contaminano. In cataloghi ossessivi e saturi, accatastano macerie strappate alla dissoluzione. Realizzano opere attraversate da apparizioni e da metafore, che oscillano tra sentimenti distruttivi e catarsi mondane. Sono laiche cattedrali di spoglie desolate e di memorie clandestine. Discariche discontinue, che possono trasmettere brividi metafisici.
Architetti di queste dissonanti sinfonie sono inquieti archeologi del presente, che sembrano comportarsi come il netturbino elogiato da Baudelaire. Tendono a impreziosire gli «avanzi», rendendo quasi religioso ciò che è immondo. A differenza di quel che dice Žižek, essi non fanno saltare le frontiere tra il Graal e il trash: le rimodulano, le ripensano. Sanno che, quando viene lavorato e modellato, il trash può trasformarsi in qualcosa di prezioso. Dal letame possono nascere i fiori.

Corriere La Lettura 20.1.13
Matisse: il genio crea. Non copia mai
I paesaggi della Provenza, Notre Dame e le modelle «Alla maniera» degli impressionisti e del cubismo
di Barbara Rose

Ogni occasione in cui si possa esibire un gruppo delle migliori opere di Henri Matisse è una buona occasione. Matisse: in search of true painting (Metropolitan Museum di New York, fino al 17 marzo) pone l'accento sul processo creativo di Matisse (1869-1954) e sul suo desiderio di portare forma e colore alla perfezione. E l'idea di raggruppare dipinti dallo stesso tema eseguiti in periodi diversi (partendo da Luxe, calme et volupté, 1904, realizzato nel sud della Francia, dove Matisse trovò a lungo rifugio) rende la retrospettiva particolarmente efficace.
In mostra ci sono circa 50 dipinti, molti dei quali sono versioni successive dello stesso soggetto provenienti da collezioni differenti e qui riunite per la prima volta. Questo consente di confrontarle e individuare le modifiche apportate da Matisse nel tempo. L'esistenza di versioni multiple rivela che per Matisse il soggetto era solo un pretesto per arrivare a una maggiore raffinatezza formale, essenzialità, purezza del colore e luminosità. Anche se dipinse parecchie versioni dello stesso soggetto, Matisse non era un pittore seriale, affascinato come Monet dalla cattedrale di Rouen o dalle ninfee. Ripeteva un tema non per reinterpretarlo, quanto piuttosto per affinarlo e ridurlo alla sua essenza. Era fondamentalmente un idealista, non un realista o un empirico. La fedeltà alla natura o alla rappresentazione esatta della realtà non era il suo fine. Quel che gli interessava non era raggiungere la somiglianza, ma la perfezione, un obiettivo (dunque) assai lontano da quello dell'impetuoso Picasso, che non cercava l'armonia e l'equilibrio spirituale, ma la forza fisica e l'intensa espressione emotiva.
Sia Picasso che Matisse partirono dalla lezione di Cézanne, ma ben presto presero direzioni diverse. Matisse associava alle sue piatte superfici modelli decorativi, tessuti, manoscritti e ornamenti architettonici mentre Picasso aveva iniziato dalle proiezioni tridimensionali della scultura africana, che trasferiva in forme bidimensionali in cui il volume era suggerito dall'uso del chiaroscuro.
Nel 1906, nel villaggio francese di pescatori di Collioure, Matisse dipinse un marinaio con le pennellate libere e i colori vivaci del fauvismo. Poi fece un secondo dipinto in uno stile molto più piatto. In seguito utilizzò fotografie dei suoi dipinti per valutarne i progressi. Lo fece in molti casi, come per il sensuale dipinto Il sogno (1940), e queste immagini servono appunto a documentarne lo sviluppo creativo. Al Met i tre ritratti del 1916-1917 della modella italiana Laurette, avvolta in una vestaglia verde, seduta in posa meditativa su una poltrona rosa contro uno sfondo nero, sono seguiti da una serie di camere luminose dipinte a Nizza nell'inverno e nella primavera del 1917-18. Perché è vero che Matisse fuggì da Parigi durante la Seconda guerra mondiale e andò a dipingere in pace sulla riviera che amava (mentre la moglie e la figlia, attive nella Resistenza, furono arrestate dalla Gestapo), ma è altrettanto vero che la sua mente era più rivolta alle eterne cose dello spirito e non tanto al momento storico.
Ora sappiamo quanto Matisse fosse impegnato a documentare il suo processo creativo, perché ne conservò le varie fasi facendole fotografare. Negli Anni Trenta incaricò un fotografo di riprendere le fasi esecutive di alcuni suoi dipinti. Così invece di mettere da parte una tela e ricominciare a dipingere su una nuova delle stesse dimensioni, come faceva nei primi vent'anni del Novecento, Matisse iniziò a usare le fotografie per testimoniare i vari stadi del proprio lavoro.
Nel dicembre del 1945 la Galerie Maeght di Parigi espose sei nuovi dipinti di Matisse accostati a grandi fotografie incorniciate che ne documentavano l'evoluzione. Le fotografie non mostravano opere simili, ma illustravano il percorso creativo del dipinto a cui si riferivano. Matisse voleva mostrare il suo lavoro «in progress», confutando in questo modo chi pensava lavorasse di getto. Dichiarò che il vero motivo della mostra alla Maeght di Parigi era presentare «la progressiva realizzazione delle opere d'arte nei loro diversi stadi fino ad arrivare a conclusioni definitive e segni precisi».
Rendendo pubbliche le fotografie, Matisse riconosceva la loro importanza nel far comprendere e apprezzare al pubblico il suo lavoro. Al Metropolitan le fotografie sono esposte accanto ai dipinti che le hanno ispirate, facendoci comprendere assai meglio gli obiettivi e le motivazioni di Matisse. E proprio quel grande impegno profuso nel raccogliere le diverse versioni di uno stesso soggetto ha permesso non solo di illuminare il processo creativo di Matisse, ma anche di penetrare nella mente del maestro.
(traduzione di Maria Sepa)

Corriere La Lettura 20.1.13
Il Codice a metà fra Cielo e Terra
di Marco Ventura

La riforma del diritto canonico in conformità al Vaticano II ha avviato un umile lavoro di tessitura per dare omogeneità a un ordinamento in cui coesistono residui assolutistici e spazi di libertà. Lo scandalo della pedofilia e il timido intervento curiale per cambiare pene e procedure

Il varo
L'attuale codice di diritto canonico (in latino codex iuris canonici) è stato promulgato da Papa Giovanni Paolo II (nella foto) il 25 gennaio 1983 ed è entrato in vigore il 27 novembre dello stesso anno
La struttura
Il codice di diritto canonico comprende sette libri:
I-Norme generali;
II-Il popolo di Dio; III-La funzione di insegnare nella Chiesa; IV-La funzione di santificare nella Chiesa;
V-I beni temporali della Chiesa; VI-Le sanzioni nella Chiesa; VII-I processi. I canoni (cioè le singole norme) sono in tutto 1752
I precedenti
Il codice vigente ha sostituito quello promulgato nel 1917, che era stato elaborato sotto i pontificati di Pio X e di Benedetto XV. In precedenza non esisteva un codice, ma un complesso di norme definito «Corpus iuris canonici»

Si odia o si ama la Chiesa di Roma, amando o odiando il diritto canonico, che regola tutti gli aspetti della sua attività. Nel rogo delle decretali pontificie, Lutero volle bruciare l'eresia papista, e suscitare dalle ceneri un nuovo cristianesimo. Diede l'esempio opposto, negli stessi anni, Thomas More: il quale amò da giurista la Chiesa dei canonisti, e difese fin sul patibolo le prerogative pontificie dalla prepotenza del re d'Inghilterra Enrico VIII, illegittimo capo di vescovi orfani dell'autorità romana. Per i filosofi dei Lumi i canoni — le norme del codice della Chiesa — simboleggiavano l'arbitrio e la diseguaglianza; per i preti che rifiutarono di giurare fedeltà alla rivoluzione francese, e che furono perciò giustiziati, la legge della Chiesa toccava la coscienza e valeva la vita. Il diritto liberale relegò il diritto canonico nel ripostiglio in cui la filosofia aveva rinchiuso la teologia: dove lo Stato moderno tutelava diritti, i canoni sancivano soprusi, dove l'autorità sovrana incontrava limiti, l'autorità ecclesiastica comandava a discrezione. Il sistema canonico era al cuore della farragine di leggi e tradizioni che Beccaria definì «uno scolo de' secoli i più barbari».
Il tempo ha poi stemperato lo scontro. Il diritto canonico s'è lavato via gran parte dello spirito assolutistico che lo abitava ancora un secolo fa; a suo modo, la Chiesa ha persino codificato i diritti dei fedeli. Dal canto loro, giuristi e filosofi sono divenuti più tolleranti verso la diversità giuridica incarnata dai diritti religiosi e dal diritto canonico in particolare. Sappiamo ormai che senza i canonisti non avremmo il principio maggioritario, l'imputabilità del reo, la collegialità, la soggettività e il consenso. Dobbiamo a giuristi anglosassoni come Harold Berman, inclini alla simpatia verso i papisti perseguitati e coraggiosi, la consapevolezza che la sfida della sovranità pontificia all'imperatore, e ai sovrani assoluti, fu cruciale perché il diritto occidentale potesse sviluppare la propria dinamicità.
Fu soprattutto resistenza all'onnivoro Stato moderno e dimostrazione dell'autosufficienza e della perfezione giuridica della Chiesa, il primo codice canonico della storia. Ne deliberò la preparazione il Concilio Vaticano I, con le truppe italiane alle porte di Roma, e fu promulgato nel 1917, mentre l'apparizione della Vergine a Fatima e di Lenin a Pietrogrado annunciavano lo scontro epocale con il nuovo Anticristo secolare. Ancora oggi i canoni presidiano la sovranità e la libertà della Chiesa, ne preservano unità e identità: contro il governo cinese, che vuol farsi i vescovi da sé, contro i cattolici tedeschi, che non vogliono pagare le tasse alla Chiesa, o contro i seguaci di monsignor Marcel Lefebvre, che si ritagliano una disciplina indipendente dall'autorità di Roma. Il diritto canonico è dunque nei grandi momenti delle scomuniche, dell'elezione del Papa, della nomina dei vescovi, ma è soprattutto nella vita quotidiana dei fedeli: l'ordinazione o la rimozione di un sacerdote, il matrimonio, il battesimo, la liturgia, il consiglio parrocchiale e i beni diocesani. Nella vita ecclesiale le norme canoniche accompagnano le crisi e l'ordinario, il frastuono e il fruscio.
La storia della Chiesa è la storia del suo diritto. È sviluppo di regole, istituti e meccanismi; formazione di un sapere; scrittura delle fonti. Di questa storia celebriamo il 25 gennaio il più importante capitolo contemporaneo: la promulgazione nel 1983 del vigente codice di diritto canonico. Nella costituzione apostolica che presentava il codice, Giovanni Paolo II collegò la data alla storia della nuova codificazione e al suo senso. Il 25 gennaio 1959, ricordò il papa polacco, Giovanni XXIII diede l'annuncio della celebrazione di un Concilio ecumenico che avrebbe condotto «all'auspicato e atteso aggiornamento del codice di diritto canonico». Il rinnovamento conciliare, spiegò Giovanni Paolo II nel 1983, è la fonte storica e teologica di quella che il Pontefice definì la «riforma» del codice. In equilibrio tra novità e tradizione, il nuovo codice condivideva con il Concilio, scrisse il Papa, «la stessa nota di fedeltà nella novità, e di novità nella fedeltà». Fatta salva la «continuità» col passato, il Pontefice elencò gli elementi del codice nei quali risaltava in particolare modo «l'immagine vera e genuina della Chiesa» proposta dal Vaticano II: la Chiesa come popolo di Dio, i cui membri «nel modo proprio a ciascuno, sono partecipi del triplice ufficio di Cristo: sacerdotale, profetico e regale». Donde il riconoscimento dei doveri e dei diritti dei fedeli, e particolarmente dei laici; l'autorità gerarchica «proposta come servizio»; il principio di «comunione», in particolare tra Chiese particolari e Chiesa universale, fra vescovi e Papa; e l'impegno della Chiesa per l'ecumenismo.
Nei suoi tre decenni di vita il codice del 1983 ha testimoniato la ricerca d'un equilibrio tra vecchio e nuovo, tra autorità e libertà, tra vertice e base, tra unità e diversità. Quando l'idolatria del dogma ha oscurato la realtà, quando si è usato il perdono di Dio per giustificare il peccato, il diritto canonico è servito solo alle carriere, alla prepotenza e all'opportunismo. Viceversa, quando i credenti hanno denunciato le incoerenze e si sono fatti carico dei conflitti, il diritto canonico ha sostenuto la fatica di stare responsabilmente nel mondo e nella Chiesa. È stato infatti necessario un umile lavoro di tessitura per dare unità a un codice in cui coesistono residui assolutistici e spazi di libertà, garanzie procedurali e deleghe in bianco, autonomie e centralismo. In cui la peculiarità di un diritto religioso dalle fondamenta antiche coabita con le conquiste moderne del diritto laico.
Trent'anni dopo il 25 gennaio 1983, il lavoro di interpretazione e ulteriore riforma del diritto canonico, dentro e fuori il codice, è lungi dall'essere concluso. Di fronte alla crisi della pedofilia ecclesiastica, molti credenti hanno invocato chiarezza e confronto sui fallimenti canonistici e teologici. La timida riforma curiale delle norme su pene e procedure ha soddisfatto solo i superficiali. Il divario è aumentato tra, da un lato, credenti e comunità che domandano trasparenza e rigore, in ciò esigendo un migliore diritto della Chiesa, e chi invece, dall'altro, manovra le norme per preservare l'intoccabilità di individui, clan e movimenti.
La scienza del diritto canonico ha avuto un ruolo cruciale nel preparare il codice del 1983 e nell'accompagnarne l'applicazione. Tra canonisti d'ogni Paese, hanno avuto gran parte gli italiani: gli uomini di curia, gli esperti delle università pontificie, i maestri delle facoltà giuridiche italiane. Il compito dei canonisti non è certo meno decisivo oggi, di fronte ad un cattolicesimo diviso in isole teologiche, culturali, territoriali e politiche, unite solo in apparenza dall'efficacia post-moderna dei leader carismatici, dei riti di massa, della mediatizzazione di Dio e del consumismo religioso.
Cade millesettecento anni dopo l'editto costantiniano del 313, l'anniversario del codice del 1983, e il nodo del rapporto tra religione e politica, tra potere sacro e profano, è ancora il più delicato. Si può amare o odiare la Chiesa, e il suo diritto canonico, perché tesi al servizio della coscienza e della comunità, in un mondo che è tutto potere, o perché monumento all'autorità e all'ordine, in un mondo dove regna il caos. Si può amare o odiare il diritto canonico perché pone un limite ai governi, perché resiste all'onnipotenza dei sovrani e dei potenti, oppure perché la Chiesa, come si dolse Pasolini, «è lo spietato cuore dello Stato».

Repubblica 20.1.13
Tutti i segreti degli Egizi per risolvere le moltiplicazioni
di Piergiorgio Odifreddi

Una rubrica che si intitola “Tabelline” usurperebbe il proprio nome, se non si interessasse ogni tanto di tabelline, appunto. Le quali, ovviamente, hanno torturato i bambini di ogni generazione, costretti a imparare alle elementari le filastrocche di quelle dei numeri da 2 a 9. Gli Egizi erano più magnanimi coi loro scolari, perché insegnavano loro soltanto la tabellina del 2. Senza, naturalmente, che questo pregiudicasse la loro capacità di fare qualunque moltiplicazione. Per capire come facessero a cavarsela comunque, basteranno un paio di esempi.
Supponiamo di voler moltiplicare 7 per 9. Anzitutto, gli Egizi trovavano la prima potenza di 2 che superasse il primo fattore: in questo caso, 8. Poi, notavano che le potenze precedenti permettono di ricostruire il numero in questione: in questo caso, 1 più 2 più 4 fa appunto 7. Infine, raddoppiavano il secondo fattore per quelle potenze, ottenendo rispettivamente 9, 18 e 36. Infine, sommavano il tutto, ottenendo 63. E infatti, come noi abbiamo imparato a memoria da bambini, 7 per 9 fa 63. Se avessimo voluto moltiplicare 6 per 8, bastava notare che 2 più 4 fa appunto 6, e procedere
analogamente. Nascosto dietro questo semplice procedimento per la moltiplicazione, sta il fatto che qualunque numero si può scrivere come somma di potenze di 2: detto altrimenti, gli Egizi usavano, invece che la base 10 come noi, la base 2 come i computer! E avevano scoperto il sistema binario non solo tre millenni prima di Leibniz, che credeva di averlo inventato nel 1679, ma anche due millenni prima dei Cinesi e uno prima degli Indiani. A dimostrazione che non c’è niente di nuovo sotto il Sole: o meglio, sotto Aton-Ra.

Repubblica 20.1.13
Quando Dio rimane senza l’arte
Il contemporaneo “usa” il sacro solo per provocare
La Chiesa tenta di tornare committente del bello
Ma la nuova estetica laica, intanto, cancella il canone occidentale rendendo illeggibili le opere di ieri
di Maurizio Ferraris

Come immaginate il vostro funerale? Pensiamo a una cerimonia civile: discorsi, più o meno improvvisati, magari degli applausi, ricordi commossi, ma probabilmente prevarrà l’estemporaneo: non ci sarà un rito organizzato, una forma che renda sopportabile il dolore. Passiamo ora alla cerimonia religiosa: siamo sicuri che le cose oggi andrebbero in modo diverso? Pensiamo al rito, alle parole, ai gesti consolidati da tradizioni millenarie. Però pensiamo a quello che c’è intorno: una chiesa brutta, con brutti arredi, brutti addobbi, brutti paramenti. L’esperimento del funerale è un modo un po’ estremo, ma che alla fine (è il caso di dirlo) riguarderà tutti, per vedere le difficoltà dell’arte sacra confusa in un’arte profana che, a sua volta, non attraversa momenti felicissimi.
Da cosa dipende? Camille Paglia, in Glittering Images: A Journey Through Art from Egypt to Star Wars, parla di una crisi dello spirito. Sono passati i tempi delle cattedrali e la religione non è più un tema dell’arte. Questo si manifesta a livello macroscopico, secondo Paglia, come oblio del canone (non riesci a leggere un’annunciazione o una fuga in Egitto perché non sai di cosa si parla). A questo aggiungerei un cambio di committenza, dalla Chiesa alle amministrazioni pubbliche, per cui gli artisti devono simulare degli interessi sociali proprio come un tempo dovevano simulare degli interessi religiosi. E il pubblico non vede più l’arte in chiesa, ma nelle mostre, richiamato dai media. Il risultato è che le uniche occasioni in cui si parla di sacro nell’arte è nella provocazione, dal Piss Christ di Serrano, alla rana crocifissa di Kippenberger, al Wojtyla schiantato da un meteorite di Cattelan.
Per contrastare questa tendenza la Chiesa cattolica cerca di recuperare un rapporto con l’arte che non sia di subalternità o di mimesi, progettando un padiglione del Vaticano alla Biennale di Venezia o facendo intervenire artisti contemporanei nelle chiese antiche, come l’altare di Parmeggiani nel duomo di Reggio Emilia, la sedia vescovile di Kounellis, il candelabro di Spalletti. Con risultati non garantiti, perché le difficoltà di un’arte sacra sono il sintomo più acuto di una difficoltà dell’arte in generale che — come hanno sottolineato recentemente commentatori autorevoli ancorché conservatori come Marc Fumaroli, Jean Clair o Roger Scruton — sembra realizzare in grande stile la profezia di Nietzsche sull’umanità dopo Copernico, che «rotola via verso la x», senza un fine e senza un orientamento.
Ora, non ci vuol molto a vedere che molti settori dell’arte contemporanea sono in crisi, così come non ci vuol molto a vedere che il “ritorno alla religione” di cui si è parlato da vent’anni a questa parte è stato sotto molti aspetti un fuoco fatuo, a cui non è corrisposto nulla, per esempio, nel cambiamento del costume e delle credenze, che rimangono in tutto e per tutto secolari. Tuttavia, trovo troppo semplice e riduttivo stabilire (come fa Paglia) un rapporto diretto tra crisi spirituale e cristi estetica. La relazione c’è, ma, semmai, è inversa: è proprio l’iper-spiritualizzazione dell’arte, diventata concettuale, che ne ha causato la crisi estetica. È un fenomeno che aveva colto molto bene Hegel: mentre con l’arte classica degli antichi si sviluppa una «religione estetica» caratterizzata da una piena corrispondenza tra forma e contenuto, nell’arte romantica dei moderni il contenuto (lo spirito, il concetto) prevale sulla forma. Cristo in croce non è bello a vedersi, importa per il suo significato spirituale, ed è qui, in questa estrema concettualità, che abbiamo il più potente antefatto di Duchamp.
Tutta l’arte romantica, e i suoi eredi, le avanguardie, che non a caso hanno luogo in larghissima prevalenza nel mondo cristiano (non ci sono avanguardie islamiche, ebraiche, confuciane, taoiste o induiste, che io sappia) sviluppano questa vocazione arci-spirituale. Sostenere, come fa l’arte visiva contemporanea, che la bellezza non è al centro dei suoi pensieri, è una dichiarazione di iper-concettualità. Non è vero, come sempre si ripete a partire da Benjamin, che nell’epoca della sua riproducibilità tecnica l’arte ha perso l’aura derivante dall’unicità. Quello che è successo è esattamente il contrario, l’opera d’arte è oggi essenzialmente opera d’aura, il risultato di una consacrazione tutta spirituale per cui un oggetto qualunque si trasforma in opera, i musei si trasformano in templi, e i visitatori in pellegrini e penitenti.
Assumere, come nel ready made, che qualunque cosa, se esposta in un luogo propizio e con la ritualità adatta, può diventare un’opera d’arte, significa trasferire nella produzione artistica la transustanziazione, dove l’artista consacra l’oggetto qualunque, trasfigurandolo in opera, attraverso la lettura di un testo devozionale scritto dal cri-
tico. Dunque è vero che non c’è più arte sacra (dove si intenda: di soggetto sacro) e che non si sanno più costruire delle belle chiese. Ma nelle nuove e spesso bellissime cattedrali, i musei, si assiste a una adorazione perpetua.
So bene che a questa interpretazione si potrà sempre obiettare che “concettuale” non equivale a “spirituale”, che lo spirito può essere mistero e rivelazione, mentre il concetto è trasparenza, chiarezza, spesso anche gioco futile. E che l’aura delle opere concettuali è un’aura di plastica. Certo, ma il problema è che per restaurare il mito, magari per creare una “nuova mitologia” come sognavano due secoli fa i romantici, non basta la volontà, buona o cattiva che sia. In fondo, la storia è già tutta scritta in Guerra e pace: alla vigilia della battaglia di Borodino, Napoleone, l’imperatore borghese e illuminista, contempla il quadro di suo figlio, il Re di Roma. Il suo avversario, Kutusov, si inginocchia di fronte alle icone. L’esito della battaglia sarà incerto, quello della guerra disastroso per Napoleone. Ma alla lunga, nei due secoli che ci separano da Borodino, sono stati proprio i princìpi di Napoleone ad aver avuto la meglio. Siamo oggi più in grado di vedere i limiti di quei princìpi, nell’arte come nell’economia e nella politica, così come nell’incoerenza e nella scissione che attraversa la vita di tutti noi. Ma siamo anche consapevoli (o almeno questa è la mia fermissima convinzione) che la spiritualità e il divino di cui si invoca il ritorno sono legati a una potenza arcaica che dobbiamo riconoscere, ma con cui non possiamo conciliarci se non in forma illusoria, sacrificando i valori, i meriti — e ovviamente anche i dolori — della modernità.

Repubblica 20.1.13
Perché la religione può ancora salvare la nostra cultura
Le fedi sono vasti sistemi di simboli che parlano di noi
Da qui le arti visive devono ripartire, evitando il kitsch
di Camille Paglia

L’arte è un matrimonio tra l’ideale e il reale. La creazione artistica è una branca dell’artigianato. Gli artisti sono degli artigiani, più vicini ai falegnami e ai saldatori di quanto non lo siano agli intellettuali e agli accademici, con la loro gonfia retorica autoreferenziale. L’arte usa i sensi e parla ai sensi. Affonda le sue radici nel mondo fisico tangibile. Il post- strutturalismo, con le sue origini linguistiche francesi, ha l’ossessione delle parole e per questo è incompetente a illuminare qualsiasi forma artistica al di fuori della letteratura. Il discorso sull’arte deve avvicinarsi ad essa e descriverla nei suoi stessi termini. Bisogna trovare un delicato equilibrio tra il mondo visibile e quello invisibile. Chi subordina l’arte all’agenda politica contemporanea è altrettanto colpevole di rigido letteralismo e di propaganda quanto un qualsiasi predicatore vittoriano o un burocrate stalinista.
Una delle ragioni dell’odierna marginalizzazione delle belle arti è che gli artisti si rivolgono troppo spesso ad altri artisti e hanno perso il contatto con la gente comune, di cui disprezzano e sbeffeggiano i gusti e i valori. La maggior parte degli artisti americani sono dei progressisti che hanno un contatto minimo se non nullo con chi la pensa in modo opposto al loro. Il progressismo militante anti-establishment e sostenitore della libertà di espressione degli anni Sessanta (con il quale mi identifico fortemente) si è trasformato nell’utopico mondo ideale della classe dei professionisti agiati, con i suoi vaghi impulsi filantropici e una strana passività nei confronti di un governo tronfio e autoritario.
Un’ortodossia monolitica ha abbandonato gli artisti in un ghetto di opinioni scontate e li ha tagliati fuori dalle idee fresche. Nulla è più trito del dogma progressista secondo il quale un valore scioccante conferisce automaticamente importanza a un’opera d’arte. L’ultima volta in cui è stato vero fu forse alla fine degli anni Settanta, con le fotografie omoerotiche e sadomasochistiche di Robert Mapplethorpe. Ma la cultura è andata avanti. Nel Ventunesimo secolo, cerchiamo il significato, non il suo sovvertimento.
Anche i conservatori, a loro volta, hanno peccato contro la cultura. Nonostante i loro squilli di tromba per un ritorno dell’educazione al canone occidentale, si sono comportati come dei filistei di provincia rispetto alle arti visive. Anche se ci sono molti critici d’arte sofisticati tra gli urban conservatives, lo slancio del movimento conservatore americano si è alimentato soprattutto nelle regioni agrarie in cui prospera il cristianesimo evangelico. Il protestantesimo ha una storia di iconoclastia: durante la Riforma nel nord Europa, le statue delle chiese e le vetrate colorate furono sistematicamente distrutte in quanto idolatriche. Rispetto al cattolicesimo romano, così ricco d’arte, il protestantesimo americano tradizionale è visivamente impoverito. Le sue immagini di Gesù come buon pastore sono spesso artisticamente così deboli da rasentare il kitsch. La maggior parte dei conservatori opera in un clima che è indifferente o ostile nei confronti dell’arte. I principali scrittori e critici conservatori sembrano ciechi davanti all’intricata interconnessione di arte e politica nell’antica Grecia che inventò la democrazia. Il nudo, basato sullo studio scientifico dell’anatomia, è stato il grande simbolo dell’individualismo occidentale che ci hanno lasciato in eredità i greci, ma i conservatori cristiani non permetterebbero mai di esibire nelle scuole pubbliche gli eroici nudi dell’arte occidentale. Il puritanesimo americano indugia nel sospetto conservatore che ci sia una stregoneria nella bellezza.
D’altro canto, una quantità enorme della migliore arte occidentale è stata intensamente religiosa e i progressisti, i quali hanno voluto che si togliessero i presepi dalle piazze, obietterebbero a loro volta sull’istruzione dottrinale necessaria per presentare l’iconografia cristiana nella scuola pubblica. Per questo l’educazione artistica viene ostacolata negli Stati Uniti, vittima del fuoco incrociato della politica. Benché io sia atea, rispetto tutte le religioni e le prendo seriamente, come vasti sistemi di simboli che contengono una verità profonda sull’esistenza umana. Anche se nel suo nome si è fatto del male, la religione è stata una forza enorme di civilizzazione nella storia del mondo. Schernire la religione è una cosa puerile, sintomatica di un’immaginazione rachitica. Eppure, questa posizione cinica è diventata di rigore nel mondo artistico, un ulteriore motivo della banale superficialità di tanta arte contemporanea a cui non è rimasta nessuna grande idea.
(Traduzione Luis E. Moriones) Excerpt from the “Introduction” of Glittering Images: A Journey Through Art from Egypt to Star Wars. Copyright © 2012 by . Translated by permission of the author

Repubblica 20.1.13
La falsa innocenza degli italiani durante il fascismo
di Nello Ajello

L’umanità dei nostri connazionali – benché fascisti – e la bruta violenza degli scherani di Hitler: assoluzione da un lato, demonizzazione dall’altro. È questo stereotipo, legato alla seconda guerra mondiale, che lo storico Filippo Focardi affronta nel libro che ha firmato per Laterza, Il cattivo tedesco e il bravo italiano.
Una simile generalizzazione – che pure contiene “un forte nucleo di verità” – è servita a rimuovere tante nostre colpe. Un elenco nel quale figurano i crimini dell’imperialismo fascista, la guerra di aggressione contro le “potenze democratiche”, la persecuzione antisemita (non sempre, si precisa, “imposta da Berlino”) e le violenze commesse ai danni di “nazioni inermi” sottomesse all’Asse. Al seguito del proprio assunto l’autore percorre ampi sentieri del Novecento, dagli anni Trenta e Quaranta, esaminando i commenti di osservatori ed esponenti politici non soltanto italiani. A partire dal giudizio emesso da Winston Churchill nel dicembre 1940: l’entrata in guerra dell’Italia fu l’errore di un “uomo solo”, Mussolini.
A questo autorevole precedente si collega, in gran parte, quella distinzione fra italiani e fascismo che ispirerà l’Intelligence e il giornalismo anglosassone: si ricordino, ad esempio, le trasmissioni-radio del “colonnello Stevens”, cui qui da noi arrise durante il conflitto un notevole, quanto clandestino, ascolto. Non meno recise erano le perorazioni propagandistiche che rivolgeva agli italiani, dalla stessa Radio Londra, l’antifascista esule Umberto Calosso.
La requisitoria di Focardi è severa. L’itinerario che egli compie, in cerca di testimonianze, fra discorsi, giornali e riviste, rende vivaci molte pagine del libro, salvandole dalle strettoie di una ricerca accademica. Spicca, tra i personaggi evocati, quel Benedetto Croce che richiamò l’attenzione dei vincitori sull’avversione dei suoi connazionali al regime littorio, e alla «guerra empia accanto alla Germania». Un’oratoria più colorita adoperava Carlo Sforza, nel riferirsi alla «vera Italia silente sotto la pazzesca imbavagliatura del fascismo».
A una visione della Resistenza come “lavacro” di ogni indegnità pregressa si è poi attenuta la sinistra nostrana. Esemplari, in campo azionista, furono Piero Calamandrei – che, nel giudicare impensabile, anche in futuro, la cessazione dell’ostilità mentale fra italiani e tedeschi – definì questi ultimi «Unni calati dai paesi della barbarie», mentre Francesco Flora li qualificava «biechi figlioli d’Arminio e del Barbarossa». Assai più attento di quanti non fossero gli esponenti del partito d’Azione, al tema della “riconquista”, in un domani, dei fascisti pentiti, Palmiro Togliatti si era richiamato fin dal 1942, dai microfoni di Radio Mosca, alle tradizioni di libertà del Risorgimento – da Mazzini a Garibaldi – invitando il popolo italiano, a partire dagli “ufficiali del regio esercito” a «rivoltarsi contro Mussolini, a chiedere la pace, a porre fine alle angherie tedesche».
L’evocazione del Risorgimento sarà poi assai invasiva nella propaganda del Pci, sulle ali di un patriottismo giudicato di sicuro impatto popolare.
Gli antifascisti di destra come Croce, dunque, e quelli di sinistra. A queste categorie, Focardi ne aggiunge una terza: quella degli anti-antifascisti, assai diffusa, nel nostro dopoguerra, fra i conservatori. A capo della consorteria, che farà numerosi proseliti fra gli adepti – illustri e meno illustri – del “revisionismo”, viene eletto Indro Montanelli. Fu lui a inventare l’espressione «il buonuomo Mussolini». (è questo il titolo di un suo saggio del ’47), nella quale si compendiava il senso di una dittatura «all’acqua di rose, roboante ma non crudele », a differenza di quella nazista. Un’invenzione che sarebbe stata adottata con fortuna da certi rotocalchi a forte tiratura.
Sono le varie facce dei quella nostra supposta innocenza storica, che Focardi giudica «un mito autogratificante e consolatorio ». E perciò da rimuovere. Ma forse, a differenza che in Germania, un’elaborazione meno illusoria del nostro passato non sembra, a molti, né opportuna né utile.

Repubblica 20.1.13
I grandi misteri dell’alchimia nella Firenze dei Medici
Agli Uffizi in mostra il laboratorio delle meraviglie dei granduchi
Lo raccontano una sessantina di opere con reperti e rimedi del tempo
di Paolo Russo

FIRENZE Don Antonio de’ Medici, figlio di Francesco I, portava un pendente di perla all’orecchio sinistro. Curava così, secondo la medicina del Cinquecento, una malattia agli occhi. I denti di squalo bianco macinati erano invece usati contro epilessia infantile e morso dei serpenti, usati come dentifricio e, incastonati in ciondoli, ambìto talismano per la salute tout court. Come il bezoar, bolo intestinale di peli, fibre e resti di cibo, recuperato in vari animali, ritenuto inoltre un potente antiveleno. Mentre dalle ghiandole perianali dello zibetto, mammifero africano poi qua allevato in grandi serragli, si estraeva un’essenza che deliziava Francesco I, dame e gentiluomini d’ogni dove.
Sono solo pochissimi esempi di cosa potesse sortire dalle ingegnose ed esoteriche, confuse e truffaldine ricerche alchemiche che nel XVI secolo impazzavano in tutta Europa. Concentrate sulla trasformazione della materia, inseguivano il mito della mutazione dei metalli in oro, tuttavia cogliendo talvolta utili risultati: gli
antiveleni prodotti con la macerazione di scorpioni vivi, utensili e processi per la lavorazione di vetri, metalli, maioliche, pietre. Dai tempi di Cosimo I, che volle il suo Studiolo, ovvero la prima “fonderia” (i laboratori alchemici cui concorrevano abilissime maestranze e sapienti d’ogni disciplina e nazionalità) con annessa collezione personale di mirabilia, in Palazzo Vecchio, i Medici (ai quali si deve, in quell’epoca, pure il primo disciplinare farmacologico della storia) furono, una volta di più, modello profetico e inimitabile. Che gettò le basi, insieme a quelle d’arte, delle future raccolte scientifiche. Nelle fonderie si facevano fusioni e distillazioni segretissime, e vi si svolgevano quegli esperimenti – con teatro e nascente opera i mega show dell’epoca, in cui l’alchimista era come una rock star – che, talvolta aperti a un pubblico di privilegiati, cercavano di stupirlo al massimo grado. Al pari delle attigue, sterminate raccolte di “mirabilia, pretiosa et naturalia” (inclusive di mummie egiziane, da cui si credeva di estrarre un potente tonico) accumulate in base a stranezza e rarità dell’oggetto. In entrambi i casi ottima comunicazione per il mecenate.
Di questo narra nella Sala delle Reali Poste (fino 3 febbraio, ingresso gratuito, 055 285610) la nuova edizione de “I mai visti”, mostra annuale di pezzi non esposti degli Uffizi, dal titolo Arte ed alchimia. La Fonderia degli Uffizi: da laboratorio a stanza delle meraviglie.
Ben curata, come il catalogo, da Valentina Conticelli, e organizzata da Ente Cassa di risparmio e Amici degli Uffizi, l’associazione che dal 1993 ha raccolto per il museo ben 4 milioni di euro.
Una formidabile avventura scritta e praticata con indefessa passione da tutti i granduchi, oggi rievocata in sessanta opere (dipinti, sculture, disegni, rimedi farmaceutici) e reperti. Inclusi alambicchi, ampolle e preparati, un rostro di pesce sega, una mascella di squalo bianco pescato a Livorno, una preziosa cassetta di medicamenti che i Medici mandavano in dono a sovrani e potenti, e un pesce palla, osannato dallo sceltissimo pubblico della Tribuna degli Uffizi.
Ultimo mirabolante approdo di un viaggio che, dopo Palazzo Vecchio, trasferì il cuore alchemico della corte medicea nel Casino di San Marco. Fu, la Tribuna, la cattedrale della vocazione alchemica di famiglia ove si celebrava la scienza come sete di sapere ma anche segno di rango inarrivabile e fonte di meraviglia da esibire al mondo: l’anticamera, per così dire, della wunderkammer. La Tribuna ebbe il suo prodigioso cantiere nello stesso luogo e momento, il 1581, in cui gli Uffizi diventavano sede delle favolose collezioni quattrocentesche e classiche di Francesco I. Una convergenza prodigiosa che, fino alla seconda metà del Settecento, resterà unica e unita. Per poi generare con la loro separazione, nella vicina Specola lorenese l’archetipo del futuro museo scientifico, e negli Uffizi quello d’arte. E sempre nel Cinquecento, a onor del vero, e dei Medici, con Galileo prima, l’Accademia del Cimento e Francesco Redi poi, l’alchimia cedeva il passo alla scienza sperimentale. Che decollava da Firenze verso il futuro. Per giungere fino a noi.

Corriere 20.1.13
Duetto Veltroni-Bertinotti. Gli ex rivali recitano Gaber
«Qualcuno era comunista» in tv, ballata a due voci
di Maria Volpe

MILANO — Non capita tutte le sere di vedere Fausto Bertinotti e Walter Veltroni sulla scena. Insieme. E non per tribune elettorali o dibattiti e talk show, ma per ricordare Giorgio Gaber, nello speciale «Che tempo che fa», in onda domani sera su Rai3, condotto da Fabio Fazio.
Ricordi, canti, emozioni. E il clou della serata con «Qualcuno era comunista»: a recitarlo, come due attori, l'ex segretario di Rifondazione e l'ex segretario del Pd. Loro due che negli ultimi anni hanno avuto scontri, hanno polemizzato soprattutto per la prima caduta del governo Prodi nel '98 proprio a causa di Rifondazione comunista. Un atto che Veltroni non ha mai perdonato a Bertinotti. Ma ora, così lontani dalle luci della ribalta politica, sembrano quasi due vecchi amici, sognatori e (forse) un po' delusi. A Paolo Rossi spetta il compito di cominciare a recitare «Qualcuno era comunista», brano mai presentato per intero in televisione.
Poi tocca a loro due, che si dividono il testo. In piedi, davanti al microfono, inizia Fausto: «Qualcuno era comunista perché aveva capito che la Russia andava piano, ma lontano». E Walter: «Qualcuno era comunista perché Berlinguer era una brava persona». Ancora Fausto: «Qualcuno era comunista perché Andreotti non era una brava persona». Chiude Walter: «Qualcuno era comunista perché pensava di poter essere vivo e felice solo se lo erano anche gli altri». Con il finale, triste e privo di speranza, recitato da Paolo Rossi.
Commenta Walter Veltroni: «"Qualcuno era comunista" è la più bella descrizione poetica della anomalia rappresentata da un Partito comunista occidentale che era riuscito a raggiungere il 34% dei voti. Le banalizzazioni tristi e neoideologiche di oggi cancellano la incredibile quantità di ragioni che spinsero milioni di persone, anche non ideologicamente comuniste, a sostenere il Pci. Questo brano descrive come meglio non si potrebbe la grande, magnifica speranza che quel partito fu per milioni di persone». Meno politica e più gaberiana la riflessione di Fausto Bertinotti: «Mancava soltanto Gaber, e ci mancava tanto. Sul palcoscenico allestito da Fazio e dai suoi, tutto parlava di lui. A un tavolo sedeva Luporini e ti aspettavi, allora, che Giorgio, ad un certo punto, apparisse a quel tavolo e sedesse anche lui per riprendere un dialogo, forse, mai interrotto. "Qualcuno era comunista" è la cosa più intensa che sia mai stata scritta sul Partito comunista italiano dopo il suo scioglimento. Walter Veltroni ed io abbiamo prestato la voce a quella ballata che racconta di uno straordinario mondo scomparso. È difficile immaginare persone più diverse per farlo. Eppure veniva tutto naturale. La magia della ballata stava semplicemente facendo il suo cammino».
E tra i piccoli «miracoli» della serata, dopo la «riunificazione» Fausto-Walter, la presenza di Sandro Luporini, co-autore storico di Gaber. In 82 anni di vita non è mai stato in televisione «perché — dice — si va all'inferno». E poi aggiunge: «Ma chi va da Fazio va in purgatorio». Ha accettato dopo mesi di insistenze da parte di tutta la Fondazione Gaber di andare in tv, ma strappando una promessa: «Vado, ma non parlo». È stato sempre in scena, muto, seduto, un tavolino davanti. Lì sopra, appoggiato il libro scritto da lui, dove racconta di sé, di Gaber e di come sono nate tutte le loro canzoni. Fazio che si avvicina più volte nella serata, ne legge dei brani, guarda negli occhi Luporini. Che tace. Tutto molto gaberiano.
Come lo sono stati i tanti artisti presenti che hanno voluto rendere omaggio al Signor G.: da Bisio che ha aperto la serata con «Far finta di essere sani», a Papaleo, da Luca e Paolo a Iacchetti, da Vecchioni a Emma, da Marcorè a Patti Smith che ha cantato «I as a person». Fino ai piccoli cantori di Milano che hanno chiuso con un medley di canzoni di Giorgio.