lunedì 21 gennaio 2013

l’Unità 21.1.13
Bersani: «Monti vede tutto un po’ dall’alto, noi preferiamo guardare le persone all’altezza degli occhi»
di Simone Collini


Torna a Bettola per passare una domenica di pausa prima di entrare nel vivo della campagna elettorale, e ad accoglierlo trova una “lenzuolata” fatta apposta per lui: un drappo bianco steso sopra un balcone coperto di neve, con foto in bianco e nero e scritta in rosso «Bersani presidente». Il leader del Pd sorride e improvvisa un breve comizio in piazza, dice che «nei momenti importanti» gli piace partire da qua «per trovare le energie e per sottolineare che la formazione personale di un politico è nei luoghi», ricorda che anche come prima uscita della campagna delle primarie aveva scelto il suo paese natale «e ha portato bene»: «Non perché ho vinto io, ma perché abbiamo dimostrato chi siamo. Ora siamo tutti insieme a combattere per vincere le elezioni».
Tutti insieme, perché Bersani ha fissato in agenda per i prossimi giorni iniziative elettorali da fare insieme a Matteo Renzi, per quel che riguarda il Pd, e a Nichi Vendola, per quel che riguarda la coalizione dei progressisti e dei democratici. L’avversario da battere è Silvio Berlusconi, ma il segretario dei democratici sa che a rendere complicato il raggiungimento dell’obiettivo ci sono anche fattori non collocati soltanto a destra. «I voti sono tutti utili e vanno rispettati, poi c’è un voto utile per protestare, un voto utile per la testimonianza, ma se si vuole battere la destra e vincere c’è un solo voto utile, quello per il Pd e il centrosinistra». Nel mirino ci sono le liste arancioni di Antonio Ingroia, che ha chiuso a ogni ipotesi di desistenza, ma non solo. Bersani rimane convin-
to che solo il Pd può aspirare a vincere le elezioni e chiudere il ventennio berlusconiano, e che ogni altra operazione rischia soltanto di azzoppare il successo del centrosinistra. Da qui le due alternative: «O vinciamo noi, o vincono loro».
C’È CHI SI È SCELTO DA SOLO
Anche le operazioni al centro convincono poco Bersani. Il leader parla a Bettola mentre Mario Monti è a Bergamo per presentare i candidati della lista “Scelta civica”. E sul “Corriere della sera” c’è un’intervista al premier titolata «Dobbiamo togliere l’Italia dalle mani degli incapaci». Bersani, a chi gli chiede un commento sui movimenti di Monti, risponde abbozzando un sorriso: «Il programma è ambizioso ma il presidente del Consiglio tende un po’ a guardare le cose dall’alto. A me piace guardare di più all’altezza degli occhi della gente comune». Il termine «incapaci»? «Ci sono capaci e incapaci, ma soprattutto c’è tanta brava gente che ha bisogno di un cambiamento e di una politica che conosce bene e da vicino le condizioni della gente comune». E la «salita in politica» per il bene del Paese: «Non è il solo. Chi deci-
de di impegnarsi in un momento così non lo fa certo per sport». Poi il leader Pd ricorda che lui è il solo a non aver messo il proprio nome nel simbolo, «nonostante sia l’unico che potrebbe farlo, dopo le primarie con oltre tre milioni di votanti», mentre altri si sono messi alla guida di una coalizione «al se sarnì par lu», dice ricorrendo al dialettale. Cioè, essendosi «scelti da soli».
L’IMPEGNO DI RENZI
Ora Bersani vuole dimostrare anche nelle prossime iniziative elettorali che lui è il leader di un collettivo. «Per me anche quel “Bersani President” dice indicando il lenzuolo che gli hanno preparato a Bettola vuol dire che è una grande squadra che si è messa in cammino». In programma c’è tra le altre cose un appuntamento a Firenze insieme a Matteo Renzi, che ieri ha detto in un’intervista al “Messaggero”: «Tra tutti i candidati premier in campo, considero Bersani il migliore e spero che vada a palazzo Chigi. Il mio impegno in questa direzione è totale». Intervista di cui è rimasto molto contento il leader del Pd, e non soltanto per questo passaggio. Dice anche il sindaco di Firenze, riferendosi alle liste arancioni di Ingroia, che «il rischio che in alcune zone la sinistra radicale faccia perdere il centrosinistra, teoricamente esiste»: «Però penso sia un dovere da parte del Pd dire in primo luogo cosa ha in mente per l’Italia e non mettersi a rincorrere tutti per averli dentro salvo poi dividersi il giorno dopo le elezioni. Il Pd ha fatto una scelta precisa, quella della governabilità».
Renzi nei prossimi giorni tornerà in televisione e inizierà a girare le città del nord per fare campagna elettorale a favore della candidatura a premier di Bersani. Dopodomani sarà alla prima puntata delle “Invasioni barbariche”, poi ci sarà l’appuntamento fiorentino insieme al leader del Pd e una serie di tappe elettorali in Lombardia e Veneto. Queste ultime due sono regioni chiave per ottenere la maggioranza al Senato (dove il premio di governabilità viene dato su base regionale). Il 15 febbraio, a poco più di una settimana dal voto, il sindaco fiorentino farà un tour tra Belluno, Verona, Vicenza e Padova, incontrando lavoratori e imprenditori della zona. L’obiettivo è convincere a votare Pd elettori oggi indecisi che alle primarie di novembre e dicembre avevano votato per lui.

l’Unità 21.1.13
Sono oltre 8 milioni gli italiani che vivono al di sotto della soglia di povertà
Quanto peserà sulle elezioni il disagio sociale
di Carlo Buttaroni

presidente Tecnè

La cattiva notizia è che la crisi è ancora in corso e farà sentire ancora a lungo i suoi effetti. Quella buona è che sembra affermarsi la consapevolezza che politiche economiche eccessivamente restrittive rischiano di aggravarla. È questo il parere di molti economisti, tra i quali il premio Nobel Paul Krugman. Ultimo, in ordine di tempo, il capo economista del Fondo Monetario Internazionale, Olivier Blanchard, il quale ha recentemente dichiarato che le politiche del rigore richieste agli Stati con i conti pubblici non a posto, hanno prodotto la più grave crisi recessiva che si ricordi.
Per l’Italia l’anno si preannuncia dalle prospettive tutt’altro che rosee. Le stime, già negative, sono state corrette al ribasso e non è escluso che si presenti la necessità di una nuova manovra di aggiustamento dei conti pubblici già nel primo semestre, se il quadro economico dovesse mostrare i segni di un ulteriore deterioramento.
Il prezzo della crisi è salato: disoccupazione, riduzione del valore dei redditi da lavoro e delle pensioni, diminuzione del potere d’acquisto, aumento della povertà. E più passa il tempo, più affiorano le conseguenze drammatiche, che non riguardano soltanto gli indicatori economici tradizionali, come il Pil o la produzione industriale, ma anche quelli che rappresentano il cruscotto sociale, come la povertà e l’aumento delle disuguaglianze.
La questione sociale emersa con la crisi, si presenta con un quadro allarmante, i cui tratti provengono dalle statistiche economiche ufficiali, ma anche, indirettamente, dalla crescita del numero di persone che, nell’ultimo anno, hanno acceduto al sistema solidale, istituzionale e non. Aumentano le indennità di disoccupazione o l’inserimento in regimi di assistenza sociale e le stesse organizzazioni caritatevoli e non governative evidenziano, in generale, un aumento della richiesta di servizi d’emergenza, quali la distribuzione di beni alimentari, le mense per i poveri o i ricoveri per i senzatetto.
Per il nostro Paese, la crisi sembra essere sempre meno di passaggio e sempre più strutturale. L’Istat traduce in cifre le parole: le famiglie povere sono 2,8 milioni (in crescita) e complessivamente sono oltre 8 milioni gli individui al di sotto della soglia di povertà.
Rispetto ad altri Paesi europei le famiglie italiane sono le più colpite dalla crisi e quelle costrette a fronteggiare livelli d’incertezza più elevati. Basti pensare che, nel momento peggiore, la riduzione dei redditi delle famiglie è stata del 4%, a fronte di una riduzione del Pil del 6%. Nella maggior parte degli altri Paesi avanzati, invece, nonostante la contrazione del prodotto interno lordo, il reddito delle famiglie è cresciuto. È stato così in Francia (Pil -3% e redditi familiari +2%), in Germania e negli Stati Uniti (Pil -4% e redditi delle famiglie +0,5%). Questa dinamica coincide anche per quanto riguarda i trasferimenti sociali: nel 2007, la spesa sociale per la famiglia e per i bambini, per l’abitazione, per il sostegno delle persone in cerca di lavoro e per il contrasto dell’esclusione sociale, in Italia era inferiore al 2% del Pil, mentre nell’area Ue si attestava al 4,3% e a valori superiori al 5% in Francia e Germania.
Al momento, l’Italia sembra non avere riserve sufficienti per uscire dalle sabbie mobili. Servirebbero investimenti per sostenere l’offerta e una crescita delle retribuzioni per stimolare la domanda. L’aggiustamento dei conti pubblici sembra non bastare, almeno per il momento perché il Paese ha bisogno di recuperare terreno, sia sul fronte delle infrastrutture, che su quello delle retribuzioni. In un’ipotetica classifica degli stipendi, i lavoratori italiani si collocano solo al 23esimo posto, con circa 15mila euro l’anno, dopo Paesi come la Corea del Sud (28mila), Regno Unito (27mila), Svizzera (25mila), Usa (22mila), Germania (21mila), Francia (18mila) o Spagna (17 mila). Le retribuzioni sono inferiori del 17% a quelle medie dei Paesi Ocse, pari al 56% di quelle degli inglesi, al 71% di quelle dei tedeschi, all’83% di quelle dei francesi e all’88% degli spagnoli. Non che la vita costi meno. Al contrario, fatto 100 il costo della vita nei Paesi della zona euro, l’Italia è a quota 104.Ammodernare il Paese, investire in ricerca, stimolare le imprese anche intervenendo sull’accesso al credito: queste le leve per immettere nuova energia nel sistema e per uscire dalla crisi. Ma incrociare la ripresa potrebbe non essere sufficiente perché nel nostro Paese la “questione sociale” rischia di farci perdere il traino di Paesi che sembrano già mostrare i primi segnali d’inversione di tendenza.
Il clima di generale disagio che il nostro Paese sta vivendo, genera numerose domande, per le quali i cittadini attendono risposte. Domande “sociali” che necessitano risposte politiche nuove, in termini di equità e di riduzione delle disuguaglianze. S’impongono scelte di politica economica volte a rimettere in equilibrio l’asse sociale, oggi sbilanciato, e devono coinvolgere direttamente il nostro welfare. Un modello che ha rappresentato una storia straordinaria di progresso civile, che necessita però di un percorso di evoluzione e adeguamento ai cambiamenti che hanno interessato le società contemporanee. Un modello che va comunque tutelato, garantito ma anche ripensato, soprattutto nel momento in cui gli stessi meccanismi di protezione sociale soffrono a causa dell’impossibilità di continuare a finanziarli.
La questione sociale e l’adeguamento del modello di welfare rappresentano temi chiave intorno ai quali i partiti, alla prova del voto, devono misurarsi, perché è su di essi che si tracceranno le linee del nuovo modello di sviluppo post-crisi.
È proprio l’emergenza sociale a imporre nuove misure che non facciano più riferimento solo al Prodotto interno lordo quale indicatore dello stato di salute di un Paese, ma anche a un nuovo tasso di equità, capace di misurare il grado di ricomposizione delle fratture sociali ed economiche che sembrano oggi caratterizzare l’Italia. Non si tratta, cioè, soltanto di invertire l’andamento negativo del Pil, ma di accompagnarlo con una riduzione delle distanze economiche e sociali e con una nuova griglia interpretativa della società.
Nell’ambito delle politiche di welfare, la prospettiva della governance sociale dovrà necessariamente porre l’accento sulle ricadute dei programmi d’intervento e dei risultati che questi producono in termini d’impatto sul sistema economico. Un’impostazione, questa, in grado di produrre effetti positivi sulle politiche di contrasto alla povertà e sulle più generali politiche sociali. Resta da dipanare il nodo di come e soprattutto quanto il peso di questo sistema di welfare cadrà sulle spalle delle famiglie, che sembrano attori senza copione all’interno di una sceneggiatura ancora tutta da definire. Solo la politica adesso può dare risposte concrete, scegliendo con convinzione una strada piuttosto che un’altra. Perché il modo in cui verrà assemblato questo puzzle darà vita al modello economico e sociale del futuro per il nostro Paese.

La Stampa 21.1.13
L’Italia del 2013 3,5 milioni di senza lavoro
Quest’anno la disoccupazione arriverà al 12% E altri due milioni di lavoratori sono in “cassa”
di Paolo Baroni


L’Italia, come un aereo in caduta libera, continua a perdere posti di lavoro. Tutte le previsioni per quest’anno, nonostante le attese di una ripresa dell’economia a partire da metà anno, segnano un ulteriore peggioramento: la disoccupazione «ufficiale» arriverà al 12%, e toccherà il 12,4 nel 2014 stima Confindustria. In realtà, calcolando i lavoratori che sono in cassa integrazione a zero ore da mesi e mesi e quelli che beneficiano della cassa in deroga, ultimo stadio degli ammortizzatori sociali, l’indice «reale» fa segnare almeno un punto in più. Si arriverà «al 13,6%», ha calcolato il Centro studi Confindustria. Mentre la Uil parla di mezzo milione di disoccupati in più quest’anno, dato che ci porterà a toccare la non certo invidiabile quota di 3,5 milioni di senza lavoro.
La fotografia scattata a fine 2012 dall’Inps è impietosa: la crisi economica continua a bruciare migliaia di posti di lavoro ogni giorno. Duemila al giorno, ha denunciato venerdì Angeletti della Uil. E la montagna delle ore totale di cassa integrazione, quasi un miliardo e cento milioni di ore (+12,1% rispetto al 2011), spalmate su circa due milioni di lavoratori, conferma a pieno tutta la drammaticità della situazione. L’anno passato sono state 6.191 (-8,5%) le aziende che hanno fatto ricorso agli ammortizzatori sociali, in larga parte (55,6%) per effetto di crisi aziendali.
Il crollo del centro Italia La crisi del lavoro avanza. Ma mentre al Nord sembra perdere un poco velocità (col ricorso agli ammortizzatori che sale dell’8,1%, mentre in Piemonte cala dell’1,69%), al Sud cresce del 12,3% ed al Centro addirittura del +26%. Stando alle analisi dell’«Osservatorio Cig» della Cgil a pagare i costi della crisi sono soprattutto regioni come Umbria (+46%), Marche (+38,2) e Lazio (23,8%). In termini assoluti è sempre la Lombardia a guidare la classifica, con 238,3 milioni di ore (+7,4), seguita da Piemonte (143,1 milioni), Veneto (102,8) ed Emilia (92,5). Il Lazio però balza da 69,4 a 85,9 milioni di ore, leMarcheda27,6a38,2el’Umbria da 18,98 a 27,85 milioni di ore autorizzate, tra cassa ordinaria, cassa straordinaria ed in deroga.
A livello provinciale, in base ai dati elaborati dall’Ufficio studi Uil, i picchi di cassa si registrano a Bergamo (+34,1% a 33,6 milioni di ore), Cremona (+28,8%), Belluno (+56%), Imperia e Savona (+53%) e ancora a Livorno (+67,9), Ancona (+52,4%), Macerata (+51,6), Perugia (+50,5%), Foggia (+46,1%), Potenza (+64,5%, a 12,9 milioni), Palermo (+50,9) e Ragusa (+81,4). Ma soprattutto a Lucca (+118,9%, a quota 5,3 milioni di ore), Rieti (+75,7% a 1,99 milioni, Benevento (+116,6% a 7,6 milioni). Roma cresce «appena» del 18% ma sfonda i 50 milioni di ore arrivando a quota 53,3.
Commercio e costruzioni Ko La meccanica si conferma ancora il settore dove si è totalizzato il ricorso più alto allo strumento della cassa integrazione. Secondo la Cgil, infatti, questo comparto pesa per 349,7 milioni di ore, pari a 167.513 lavoratori coinvolti. Seguono il commercio con 169 milioni di ore (e 80.954 lavoratori coinvolti) e l’edilizia (107,2 milioni e 51.351 lavoratori). Male anche la chimica (+26%) e l’industria del tabacco (+62,2%), in «ripresa» tessile e pelle (-4%) pur mantenendo livelli molto alti di ricorso agli ammortizzatori.
«La crisi non ha toccato il punto più basso spiega il rapporto della Cgil -. C’è l’emergenza occupazione in generale e in particolare quella giovanile, e vi sono situazioni industriali in sofferenza con centinaia di migliaia di lavoratori in Cig attualmente senza prospettiva». A colpire sono soprattutto i dati sulla cassa in deroga, ultimo stadio degli ammortizzatori e segnale inquietante per molte attività giunte ad una sorta di «stadio terminale».
Boom delle «deroghe» La «Cigd», l’anno passato, ha toccato quota 354,7 milioni di ore autorizzate (+10,7%), un aumento che interessa tutti i settori di attività e che però tocca le punte più alte nei servizi (+75,5%), nell’edilizia (+63,86%), nei trasporti (+28,3%), nell’alimentare (+26,54%) e nel settore del legno (+12,4%). Da solo il commercio (con 134,7 milioni di ore, +36,18%) cumula ben il 35% di tutte le ore autorizzate di cassa in deroga, seguito dalla meccanica (71,2 milioni, +15,3%). Tra le regioni in testa il Lazio (30,7 milioni di ore, +62,4%), Lombardia (57,2 milioni, +10,04%), Veneto (39,6 milioni, +31,4%) ed Emilia Romagna con 42,1 milioni ore (+10,33%). Il picco più alto (+80,2%) si è avuto però in Sicilia; a livello provinciale il record spetta a Rieti (+358%), mentre la maggiore flessione è quella di Catanzaro (-77,5%). Sono queste le zone più a rischio nei prossimi mesi. Mesi che per molti si annunciano molto difficili.

Repubblica 21.1.13
Landini (Fiom): i partiti studiano nuove forme di flessibilità, ma l’articolo 18 è stato già cambiato senza creare un solo posto
“La politica dimentica gli ammortizzatori non c’è un euro per la cassa integrazione”
intervista di Paolo Griseri


ROMA — Serve una nuova riforma dei contratti di lavoro? «Beh, oggi sono 46. Se se ne aggiunge uno per fare 47, non credo che serva a nessuno». Così il leader della Fiom, Maurizio Landini commenta le ipotesi di ulteriore modifica alle norme sul lavoro che starebbero studiando gli esperti vicini a Monti.
Landini, una riforma che renda progressiva la certezza del posto di lavoro, mano a mano che trascorre il tempo di impiego, non vi convince?
«Di ricette così ne abbiamo sentite tante. Ci convincono quelle che mettono al centro il contratto di assunzione a tempo indeterminato e che relegano in secondo piano le altre forme di assunzione».
Lo schema di cui si parla prevede per i primi due anni la licenziabilità senza intervento del giudice. Non sarebbe un incentivo per nuove assunzioni?
«L’articolo 18 è già stato modificato. E i risultati si vedono. Ci sono file di imprenditori stranieri smaniosi di investire in Italia? Non mi pare. Il risultato è che sono aumentati i licenziamenti perché adesso sono più facili. Era il pericolo che denunciavamo a suo tempo e di cui il ministro Fornero non ha tenuto conto».
Voi avete delle proposte di riforma sul mercato del lavoro?
«Noi chiediamo che da subito si faccia la riforma degli ammortizzatori sociali. Nei prossimi mesi non ci saranno i soldi per la cassa integrazione. Arriveremo al periodo più difficile della crisi senza ammortizzatori e con il rischio di una valanga di licenziamenti».
Il ministro Fornero non ci ha pensato?
«Non è un problema che riguarda solo il ministro Fornero. E’ tutto il governo che ci deve pensare».
Come se ne esce?
«Con una riforma che imponga anche a categorie come il commercio e l’artigianato di contribuire al fondo della cassa integrazione. Oggi questo avviene solo per i lavoratori dell’industria. Agli altri devono pensare le casse pubbliche».
Chiedete altri interventi alla politica?
«Chiediamo che venga finalmente varato il reddito minimo di cittadinanza. Non solo per garantire un minimo di sussistenza a chi perde il lavoro, ma anche per consentire ai ragazzi delle famiglie meno abbienti di proseguire gli studi».
Siete favorevoli alla riduzione del peso fiscale sui contratti?
«Gli incentivi fiscali andrebbero concessi alle aziende che praticano i contratti di solidarietà e le riduzioni d’orario. Invece oggi quei soldi sono spesi per la contrattazione aziendale che interessa una minima parte dei lavoratori».
Siete contrari alla contrattazione aziendale?
«Siamo il sindacato che contratta di più in fabbrica. Ma sappiamo che nei prossimi mesi il problema principale sarà la mancanza del lavoro. E’ lì che vanno concentrati gli interventi».
Siete fuori da un gruppo importante come la Fiat. Pensate di chiedere l’intervento della politica?
«Quello della rappresentanza in fabbrica è un problema di democrazia. Oggi sono i sindacati e non i lavoratori che decidono se un contratto va bene oppure no. E come se per il Parlamento votassero solo gli iscritti ai partiti. Questo non è accettabile».
Ci sono esponenti del suo sindacato, come Guglielmo Epifani e Giorgio Airaudo, che si candidano nei partiti di sinistra. Secondo lei sarebbe possibile per un iscritto alla Cgil fare propaganda per una delle liste di Monti?
«Il nostro è un sindacato libero. Ci sono stati momenti anche recenti in cui gli iscritti alla Cgil hanno votato per partiti lontani dalla sinistra. Questo è dovuto all’incapacità dei partiti della sinistra di intercettare il loro voto».

Corriere 21.1.13
Partita aperta in cinque Regioni. Il risiko della maggioranza al Senato
Ma i divari sono esigui. Al centrosinistra Campania e Puglia
Il centrodestra prevale in Lombardia, Veneto e Sicilia
di Renato Mannheimer


Come ormai tutti gli osservatori hanno riconosciuto, l'esito delle prossime elezioni si giocherà sul numero dei seggi senatoriali assegnati a questo o a quel partito. Per ciò che riguarda la Camera dei deputati, infatti, il responso delle urne è sin qui netto: la coalizione di centrosinistra ottiene in tutti i sondaggi di opinione la netta maggioranza. È vero che il centrodestra di Berlusconi appare, in queste ultime settimane, in ascesa — anche se secondo alcuni il trend si è esaurito — ma la distanza che lo separa dal centrosinistra è a tutt'oggi ancora relativamente ampia, tale da essere difficilmente recuperata (anche se, come suggerisce Ricolfi su La Stampa di ieri, forse una quota di elettori «nasconde» la propria preferenza per il Cavaliere, che quindi sarebbe sottostimato nei sondaggi). In questo momento è comunque ragionevole ipotizzare che Bersani conquisterà il ricco premio di maggioranza (55% dei seggi) che la legge elettorale assegna a chi raccoglie il maggior numero di consensi. Mentre per il Senato, come si sa, il meccanismo è completamente diverso e prevede l'attribuzione del premio di maggioranza su base regionale: chi vince in ciascuna Regione (con l'esclusione di Valle d'Aosta, Trentino-Alto Adige e Molise) ottiene il premio (più o meno ampio a seconda della popolazione e, quindi, dei seggi senatoriali attribuiti) di quella regione. Accumulando così seggi in Senato. Il numero di questi ultimi dipende dunque dal numero di Regioni che si conquistano, con le più popolose che contano di più.
I seggi decisivi
Bersani ha affermato di puntare alla vittoria in tutte le Regioni, in modo da assicurare alla sua coalizione la maggioranza di seggi anche in Senato. Si tratta di un evento possibile, ma tutt'altro che certo: è vero che in alcune regioni la vittoria del centrosinistra è praticamente sicura, ma in diverse altre l'esito è più indefinito o appare in questo momento favorevole al centrodestra. Di qui la grande importanza, agli effetti del risultato finale, della competizione nelle regioni che tuttora «in bilico» e che sono in buona misura anche quelle che assegnano più seggi.
Alcune sono tradizionalmente appannaggio del centrodestra, come il Veneto. Effettivamente questa regione vede ancora la coalizione di Berlusconi in vantaggio. Ma il divario si è ridotto in queste ultime settimane, a causa, probabilmente, dell'accordo Lega-Pdl. Fino a qualche tempo fa, la differenza tra centrodestra e centrosinistra era molto ampia, secondo alcuni, pari al 10% e anche più. Ma, di recente, si è manifestata un'insofferenza di una quota di elettori leghisti nei confronti del partito, a causa dell'alleanza con il Pdl. Ciò che ha portato alcuni a disertare il Carroccio e ad orientarsi verso altre liste. L'effetto è che oggi la distanza in Veneto tra centrodestra e centrosinistra risulta pari a meno di 4 punti. Il dato è sostanzialmente confermato anche da una rilevazione in corso da parte di Ilvo Diamanti (al quale, sembra, emerge una differenza ancora più modesta) e da un sondaggio (citato dal Gazzettino Veneto di venerdì e confermato dallo stesso Maroni) della Swg che stima il divario centrodestra/centrosinistra relativamente esiguo. Malgrado questo trend, comunque, appare altamente probabile che i 14 seggi (comprensivi del premio di maggioranza) del Veneto siano assegnati al centrodestra.
Ciò rende ancora più rilevante la lotta in altre tre regioni molto popolate quali la Campania, la Sicilia e la Lombardia.
Nella prima il centrosinistra è avanti, benché, anche qui, secondo alcuni istituti, il divario sia relativamente modesto. La rilevazione Ispo lo colloca a poco più del 4%. Ma quella Ipsos del Sole 24 Ore dell'8 gennaio la limita a 2 punti percentuali. La stessa distanza stimata in questi giorni da Euromedia. Allo stato attuale, dunque, i 16 seggi campani (comprensivi, anche in questo caso, del premio di maggioranza) dovrebbero andare al centrosinistra. Ma la competizione è aperta.
La sfida nell'isola
In Sicilia la lotta appare ancora più serrata. Secondo la nostra rilevazione, il centrodestra è avanti di 1 punto. Ma è necessario ricordare nuovamente che, in questo genere di sondaggi, vi è un margine di approssimazione statistica superiore a questo divario. Appare dunque arduo effettuare una stima. Anche i sondaggi degli altri istituti hanno risultati variabili e con differenze di consenso tra i due schieramenti egualmente modeste. Ipr colloca il centrosinistra davanti per solo mezzo punto (34% vs 33,5%). Ed Euromedia li stima alla pari (31,4 per il centrosinistra e 31,6% per il centrodestra). Molto dipenderà dalla partecipazione al voto. Che, per vari motivi, è stata assai modesta alle ultime regionali (che hanno visto la vittoria del centrosinistra), ma che dovrebbe essere maggiore per le prossime politiche, anche a causa del clima di mobilitazione che sembra caratterizzare l'isola e della attrazione esercitata da alcune liste di natura prevalentemente locale. Tutto ciò comporta l'impossibilità di assegnare oggi il premio di maggioranza (ben 9 seggi).
Il margine ridotto
Sulla Lombardia — che distribuisce complessivamente ben 49 seggi sui 315 complessivi del Senato e che quindi è determinante nella formazione delle maggioranze — i sondaggi sono altrettanto contraddittori. Secondo la nostra rilevazione, il centrodestra è in vantaggio di circa 2 punti (poco meno di quanto rilevato una settimana fa), ottenendo quindi i decisivi 27 seggi senatoriali. Ma, tenendo conto anche qui del margine di approssimazione, la distanza risulta assai modesta. Tanto che le due coalizioni vengono invece stimate alla pari da quasi tutti gli altri istituti di ricerca (Ipsos, Ipr, Euromedia, Lorien). A meno di improvvisi colpi di scena, qui la competizione si giocherà all'ultimo voto. Conteranno in particolare i voti di quanti dichiarano tutt'ora di essere indecisi. Non a caso, la Lombardia è stata definita l'Ohio italiano. Si può probabilmente affermare che l'esito di questa regione determinerà o meno la maggioranza per il centrosinistra al Senato.
Vale la pena, infine, di considerare il caso della Puglia, anche se in questa regione il vantaggio del centrosinistra pare più netto: quasi 4 punti percentuali. Secondo diversi osservatori, infatti, anche qui il divario è troppo esiguo da dare certezze.
In conclusione, la situazione complessiva del Senato appare oggi ancora molto incerta. Diversi elementi inducono a pensare che per Bersani non sarà facile godere di una maggioranza autonoma.

Repubblica 21.1.13
Campagna elettorale formato reality
di Ilvo Diamanti


Oggi, a un mese al voto, è come se fossimo ancora lì, dentro e davanti gli schermi, a interrogarci sull’attendibilità delle stime prodotte dai sondaggi. Che da troppo tempo e con troppo anticipo, hanno decretato il successo del centrosinistra e del Pd, guidato da Bersani. Oggi, come nel 2006, si teme – oppure si spera, a seconda dei punti di vista – l’idea della rimonta di Berlusconi. Alimentata da alcuni sondaggi, che registrano un avvicinamento tra il centrosinistra e il centrodestra. Tra Bersani e Berlusconi la forbice si stringe, è la voce che corre. Amplificata da Berlusconi, che, come highlander, affolla gli schermi, più volte al giorno, per narrare la leggenda del proprio eterno ritorno. E che è lì, addosso a Bersani. Anzi, l’ha praticamente superato. Sondaggi alla mano. I propri, naturalmente. Come nel 2006. Oggi, quel precedente incombe. E legittima ogni timore e ogni speranza. Tanto che Luca Ricolfi, sulla Stampa, autorevolmente, si chiede e chiede: “E se Berlusconi vincesse ancora?”. Tanto più dopo la performance a “Servizio Pubblico”, la trasmissione di Santoro. All’indomani, giornali e giornalisti, sondaggi alla mano, “hanno dato i numeri” del (presunto) recupero prodotto da quella prestazione.
Il problema è che mai come oggi i sondaggi sono apparsi tanto discordanti. A livello nazionale, infatti, il centrosinistra oscilla dal 33% a oltre il 40%. Il centrodestra dal 24% a 34%. Così tutto – ma davvero tutto – diventa possibile. La vittoria larga e schiacciante del centrosinistra. Oppure la rimonta di Berlusconi. Peraltro, questa carovana di sondaggi e di dati si snoda ovunque. In televisione e sui giornali. Non c’è emittente, tg e talk politico che non abbia il suo istituto demoscopico e il suo pollster di riferimento. Che fornisce i suoi numeri e le sue stime ogni settimana, a volte ogni giorno. La Rete, da parte sua, rilancia tutti i sondaggi, tutte le stime e tutte le statistiche. Così viviamo immersi in una sorta di reality a reti – e testate – unificate. Di cui tutti sono al tempo stesso attori e spettatori. D’altronde, i talk politici e di approfondimento stanno ottenendo indici di ascolto elevati. In particolare, quando va in scena Berlusconi. Possibilmente, in terreno nemico o comunque insidioso. Dove gli è possibile recitare la parte del Cavaliere di Münchausen. Che si risolleva, per miracolo, quando tutti lo danno per finito. Berlusconi: può contare sull’assuefazione al modello che egli stesso ha inventato e affermato – in Italia. La politica come marketing e come spettacolo. A cui è difficile sottrarsi. Non vi riescono neppure gli avversari. Per cui recitano, insieme a lui, nel teatro della (media) politica. Affiancati da altri attori. I conduttori televisivi, i giornalisti, gli esperti. I pollster. (Lo preferisco a “sondaggisti”). Nuovi protagonisti. Perché recitano la parte dei “garanti”. E dei giudici. Quelli che misurano il gradimento e il consenso dei partiti e dei politici presso l’opinione pubblica. Per cui traducono la competizione elettorale – che avverrà tra un mese oppure una settimana – in un plebiscito continuo. Che si rinnova e si ripropone ogni giorno e in ogni momento del giorno. Con il limite – oppure il vantaggio – che non c’è un solo risultato, un solo indice, una sola misura. Ce ne sono molte. Così nessuno vince e nessuno perde, in modo definitivo. Dipende dal momento, dal sondaggio, dalla trasmissione.
Naturalmente, l’approssimazione che caratterizza le stime dei sondaggi riflette alcune ragioni molto ragionevoli. Ne segnalo solo alcune, a cui ho fatto cenno in altre occasioni.
1. I sondaggi rilevano le opinioni degli elettori, che però cambiano, via via che il voto si avvicina. Gran parte degli elettori non si interroga sulla propria scelta a mesi e neppure a settimane di distanza. Anche per questo la quota degli indecisi è alta. E tende a ridursi insieme alla distanza dalle elezioni.
2. Le scelte degli elettori (sondati) dipendono dall’offerta politica. Fino a un mese fa solo il Centrosinistra era sceso in campo. Trainato, peraltro, dalle primarie. Tutto il resto era sospeso. Il ruolo di Berlusconi, l’alleanza fra Pdl e Lega. La presenza di Ingroia a Sinistra. E, in particolare, l’iniziativa e lo spazio di Monti.
Ciò spiega l’ampiezza dei consensi attribuiti al Pd e al centrosinistra. Fino a qualche settimana fa, soli in un campo politico confuso. Ma ciò spiega anche la “riduzione” della forbice registrata dai sondaggi, nell’ultima fase. Perché oggi il centrosinistra fa i conti con altri soggetti politici. Veri e definiti.
3. Tuttavia, la “misura” di questa tendenza è difficile da dimostrare. Perché manca ancora oltre un mese al voto e gli indecisi sono ancora circa il 30%. E molto può cambiare. Anche perché la campagna elettorale serve proprio a questo: a rafforzare oppure a modificare le tendenze rilevate dai sondaggi.
Infine c’è la questione fondamentale. I sondaggi, come ha sottolineato Nando Pagnoncelli, si sono trasformati “da strumento di conoscenza ed analisi … a strumento di propaganda e di previsione”. E, aggiungo, di spettacolo. Più che rilevare l’opinione pubblica, la mettono in scena e la costruiscono. Un’evoluzione particolarmente favorevole a Berlusconi. Che prima degli altri ha introdotto la politica come marketing. E meglio di altri ne controlla gli strumenti e le tecniche. Così, nella confusione demoscopica e nel reality della campagna elettorale, che oggi impazzano, il Cavaliere è riuscito a rilanciare il bipolarismo personale: Pdl-Berlusconi vs Pd-Bersani. Complice l’afasia di. Ha messo all’angolo Monti e la sua coalizione. Ma anche Grillo e la Sinistra di Ingroia.
È riuscito, inoltre a sollevare il dubbio: “E se vincesse di nuovo Berlusconi?”. Non importa se sia vero. Un altro autorevole analista di sondaggi, come Paolo Natale (su “Europa”), anzi, definisce la rimonta una “leggenda”. Ma sollevare il dubbio e perfino contestarne il fondamento, in fondo, significa legittimarlo. E accettare il gioco della (video) politica come marketing significa riprodurre il berlusconismo. Una recita ormai stanca e invecchiata. Come il protagonista. E come gli altri attori che lo assecondano, pur recitando la parte degli avversari. Come gli spettatori-elettori. Noi.
Che abbiamo l’occasione, tra un mese, di chiudere il reality show a cui partecipiamo da
vent’anni.

Paolo Sorbi, con Pietro Barcellona, Mario Tronti e Giuseppe Vacca uno dei soi-disant “marxisti ratzingeriani”, cioè uno degli infiltrati clerico-fascisti nel Pd definisce come “rischi del bipolarismo etico” la difesa della tradizione laica e anticlericale nella Sinistra
l’Unità 21.1.13
Si può distinguere tra «i valori non negoziabili»
Disaggregare non vuol dire separare
Ma il metodo proposto da Battista sul Corriere è interessante
Dobbiamo costruire un «umanesimo condiviso» e scongiurare il rischio del bipolarismo etico
di Paolo Sorbi


LA PROPOSTA DI PIERLUIGI BATTISTA DI RAGIONARE «PRAGMATICAMENTE» ATTORNO ALLA COMPLESSA TEMATICA DEI VALORI NON NEGOZIABILI (Corriere della sera,  di venerdì 18) mi sembra utile. Come uscire dalla stretta delle cosiddette «guerre culturali»? Innanzitutto Battista ben sa che noi, abitanti delle tardo-democrazie occidentali, siamo intrisi di pluralismi culturali in tutti gli stili di vita e nelle stesse procedure a tutti i livelli istituzionali. Viviamo quasi come naturali i gravi conflitti etici che scaturiscono proprio dalle complesse mutazioni della morfologia democratica e che connotano come irreversibili certe «differenze» nelle opzioni di vita. Abbiamo scritto insieme, con Pietro Barcellona, Mario Tronti e Giuseppe Vacca che, all’alba di questo nuovo secolo, crisi antropologica e crisi democratica sono legate indissolubilmente (Emergenza antropologica, Guerini editore, 2012).
Al tempo stesso in Italia, ma direi anche in molti altri Paesi europei cito ad esempio solo la più recente manifestazione di massa con circa ottocentomila persone a Parigi domenica 13 gennaio, in difesa del matrimonio eterosessuale giungendo rapidamente ad una frattura socio-culturale molto grave e foriera di pericoli per le stesse dinamiche di regolazione del bene comune nella democrazia. È necessario trovare metodi e contenuti per, gradualmente, elaborare un «umanesimo condiviso» tra credenti e non credenti.
Nella storia della sinistra europea del Novecento questa «spaccatura verticale» non le altre fratture economiche e sociali che definisco come «orizzontali» fu la sorgente di gravissime incomprensioni e lotte furibonde senza sbocco che portarono macerie spirituali dentro la comune storia sociale e politica europea. Pierluigi Battista sa bene di questi passati nefasti e propone di non ricaderci. Ora, però, c’è subito un elemento dirimente. I valori sono tutti «non negoziabili». Non possiamo ipotizzare un mercato dei valori quando si deve decidere sull’embrione o sulle unioni civili anche perché emergono, da subito, questioni collegate «a catena» come quelle delicatissime delle adozioni da procreazioni artificiali e così via.
È corretto, però, ipotizzare un metodo che possa «disaggregare» il complesso di tutele delle questioni eticamente sensibili secondo priorità condivise di necessità e urgenza. Cioè distinguere, ma non separare tra di loro, i valori non negoziabili, così come in questi anni opportunamente ha compiuto il comitato nazionale di bioetica. Certo, i percorsi saranno «scoscesi», a volte si dovrà applicare la virtù (altri direbbero «il metodo») della rinuncia anche su temi che ci premono. Negoziare, trovare ragionevoli compromessi è però questo. Saper indicare quel «punto di equilibrio instabile» che permetta a tutte le componenti culturali e politiche di «disaggregare», favorendo idee e percorsi che promuovano una comune antropologia superiore al livello minimale della libertà di coscienza individuale. È un minimo condiviso, oramai da molti decenni, tra tutte le forze democratiche radicate in Europa, ma che negli ultimi decenni, sotto la spinta delle potenze della scienza e della tecnica, si dimostra insufficiente. In specie nei programmi politici dei partiti, evidenti maggiormente nelle campagne elettorali non solo nel nostro Paese. Siamo ad un bivio, come su altre questioni economiche e sociali: le tardo-democrazie europee non possono permanentemente essere squassate da scontri socio-culturali diffusi che ci frammentano ancor di più ideologicamente. L’equilibrio democratico mostra crepe, prodotte da irrazionalismi, anche di segno laicistico, sempre più foriere di spinte antipolitiche ed autoritarie. Serve discernimento da parte di tutti i soggetti responsabili della traduzione dei rispettivi valori di riferimento in regole giuridiche che evitino i rischi del bipolarismo etico.


l’Unità 21.1.13
La beffa di Storace: «Nel Lazio nessun accordo con i Radicali»
Il leader della Destra li lascia a piedi per «problemi tecnici»
Pannella accetta le scuse e attacca il Pd
di Giuseppe Vittori


Naufragata l’operazione che doveva portarli a candidarsi insieme a Francesco Storace, i Radicali nel Lazio sono pronti a correre da soli e rilanciano la candidatura del loro consigliere uscente Giuseppe Rossodivita per la presidenza della Regione. Le liste andranno presentate oggi, e fino a ieri sera è andata avanti una frenetica attività ai tavoli di raccolta delle firme sotto il simbolo di Amnistia giustizia libertà.
A questo punto il rischio di restare fuori dai giochi, alle regionali come alle politiche, per i Radicali è alto. E Marco Pannella dice che «è in corso un 'genocidio' nei confronti dei Radicali». Viene attaccato soprattutto il Pd, che nel Lazio non ha voluto ricandidare i loro due consiglieri uscenti, ma il colpo di scena dopo giorni di polemiche è stato il mancato accordo con Francesco Storace.
STORACE FA SALTARE L’INTESA
A far fallire l’operazione, come ha raccontato lo stesso Pannella l’altra sera, è stato un problema tecnico. «Storace ha detto: apro la mia coalizione senza un vincolo come un taxi perché ritengo necessario il contributo di due consiglieri regionali che hanno mostrato le capacità che hanno mostrato. Perché scattasse l'eventuale accordo dovevamo avere il potere noi di disporre del simbolo della Destra perché per raccogliere le firme dovevamo mutare e rinunciare alle firme raccolte».
Purtroppo, ha raccontato Pannella, «non sono riusciti a portarci in tempo il loro simbolo. Storace mi ha trasmesso le scuse per non essere riuscito ad attuare quello che era necessario per il compiersi dell'accordo e mi ha detto: non ce la potete più fare a questo punto». Quindi «ci ha detto che se uno dei due consiglieri regionali Giuseppe Rossodivita o Rocco Berardo accetta lo mettiamo in condizione di elezione nella mia listà. I due hanno detto no. Non siamo noi ha concluso Pannella che ci siamo ritirati. Comunque accetto le scuse di Storace».
Effettivamente, ha raccontato il leader della Destra, il mancato accordo con i Radicali è dipeso da lui: «Siccome mi sono dovuto dedicare in queste ore alla liste nazionale del mio partito, ho tardato a compilare il simbolo della coalizione che mi porta alla candidatura alla presidenza della Regione Lazio. Me ne scuso, ma non ho avuto tempo. L'ho trasmesso solo oggi a Pannella ha raccontato la sera di sabato ma lui deve raccogliere le firme in calce a un simbolo con la mia candidatura e questo nel dibattito che si è creato può creare delle difficoltà. Mettiamo a disposizione le nostre forze per aiutare i radicali nella raccolta delle firme».
PANNELLA ATTACCA IL PD
Pannella però, che per il tentativo di alleanza con Storace ha anche prodotto una spaccatura nei Radicali (con Emma Bonino a guidare il fronte dei contrari all’accordo con la Destra), attacca il Pd: «Ci hanno trattato come il Pci trattava i trotkisti di m...». E Nicola Zingaretti, dice, «ha un vizio congenito ricattatorio di stampo comunista, fascista. Ha trovato degli alibi indecorosi per non presentare i due consiglieri radicali uscenti, che hanno illuminatol a sua base su come funzionava la struttura tecnicamente criminale della Regione Lazio. Meglio la posizione di un fascista travirgolette come Storace che dell'antifascista tra virgolette Zingaretti. L'obiettivo era un atto di giustizia contro il regime fascista».
Zingaretti aveva posto come condizione per l’accordo con i Radicali che non ricandidassero i due consiglieri uscenti: «Sul cambiamento alla Regione non transigo. È una garanzia per tutti, anche per i radicali che volevano proporre gli stessi consiglieri». Racconta il candidato del centrosinistra per la presidenza della Regione Lazio: «Ho chiesto a tutte le forze della coalizione di cambiare la rappresentanza. Così hanno fatto tutti i partiti, i Radicali no».
Ora i Radicali, che schierano per la presidenza Rossidivita con la lista Amnistia giustizia libertà, hanno di fronte due difficili sfide. La prima, raccogliere le firme necessarie per depositare entro stasera alle venti le liste elettorali. La seconda, superare la soglia di sbarramento che di fatto questa volta sarà anche più alta, visto che verranno eletti non più 70 ma 50 consiglieri. A meno di una svolta a sorpresa in queste ore (un canale di dialogo tra il Pd ed Emma Bonino è rimasto aperto) i Radicali andranno al voto di febbraio partendo da una posizione decisamente sfavorevole.
Intanto Storace dice che è pronto a riprendere da dove era rimasto. Al candidato presidente per il Lazio del centrodestra, risponde Jean Léonard Touadi: «Noi siamo rimasti ai 10 miliardi di buco della sanità, e dal disastro del governo Polverini». Il capolista del Pd alle prossime regionali dice che «Nicola Zingaretti è l'unico candidato alla presidenza della Regione Lazio a proporre un cambiamento vero, un'inversione di tendenza, sostenendo come il rinnovamento della classe politica sia l'unico modo per risanare una Regione allo sfascio come il Lazio».

l’Unità 21.1.13
E il «caso Gallinari» spacca gli arancioni


Claudio Grassi, dirigente di spicco della Rifondazione diretta da Paolo Ferrero, già nemico acerrimo di Nichi Vendola prima, durante e dopo la scissione del Prc è andato ieri a piangere, ad alzare pugni al vento, a fischiettare l’internazionale sopra la bara di Prospero Gallinari. Non essendo un tipo particolarmente appariscente né con un’immagine pubblica conosciuta dai più, forse pensava di non essere riconosciuto. In effetti la sua partecipazione ai funerali del carceriere di Aldo Moro non è stata pubblicizzata né dal sito della sua corrente interna a Rifondazione, «Essere comunisti», né dal quotidiano Liberazione, recentemente riaperto in edizione esclusivamente online sotto la direzione del «grassiano» Dino Greco. Invece la sua presenza alla cerimonia è stata notata.
Davanti alla bara coperta con un drappo rosso al cimitero di Coviolo, frazione di Reggio Emilia, una piccola folla di teste bianche e brizzolate. Oreste Scalzone, tra i fondatori di Potere Operaio, Renato Curcio, Barbara Balzerani, Bruno Seghetti e altri, più o meno noti alle cronache degli anni Settanta e Ottanta segnate dallo spargimento di sangue rivendicato dalle Brigate Rosse. Grassi ha dichiarato di essere andato solo perché conosceva Gallinari e pur «non condividendo nulla di quanto ha fatto».
È però vero che su Internet, appena è circolata la notizia della morte del più irriducibile degli irriducibili Gallinari, appunto, stroncato lunedì scorso a 62 anni da un attacco di cuore si era verificato un fenomeno di consacrazione postuma dell’ex brigatista con giudizi e onori politici improvvisati o cristallizzati e riesumati da quegli anni. Ieri il dirigente di uno dei partiti che sostengono Rivoluzione civile di Antonio Ingroia ha pensato di portare il suo testimone a questa riunione di nostalgici. Lo hanno notato i giornalisti presenti, accompagnato dal coordinatore provinciale di Rifondazione comunista di Reggio Emilia, Alberto Ferrigno. E la notizia ha creato qualche problema, pochi per la verità. Esprime «estrema perplessità e disappunto» Liana Barbati, presidente del gruppo Idv alla Regione Emilia-Romagna e coordinatrice provinciale del partito di Di Pietro a Reggio Emilia. «Chi ricopre cariche politiche o è candidato alle elezioni per rappresentare i cittadini scrive non dovrebbe, neanche a titolo personale, partecipare al funerale di chi ha rappresentato un periodo così buio e triste per la nostra Repubblica. Soprattutto in questo caso, in cui la compagine di elettori sarà composita e dichiaratamente non schierata a destra o a sinistra, ma semplicemente unita per ripristinare il rispetto delle istituzioni in nome del bene comune. Cosa che il periodo brigatista certo non rappresenta». Barbati dice che se Grassi «sarà eletto» in Emilia-Romagna «a titolo personale non mi rappresenterà». Si augura una smentita della sua candidatura e in caso manchi minaccia di mollare Rivoluzione civile. «O fa un passo indietro, o l’Idv uscirà dal comitato provinciale a sostegno della Lista Ingroia». Colpisce però che su questo caso, almeno fino a ieri sera, non si siano potute registrare altre reazioni. Né dell’ex pm Ingroia né degli altri leader della coalizione.

Corriere 21.1.13
Casalegno: i pugni chiusi segnano la loro sconfitta
Il figlio del giornalista ucciso: dov'è il regime?
«Va bene così. Quel funerale con tanti ex terroristi a pugni chiusi rappresenta comunque una vittoria della democrazia»
di Marco Imarisio


Andrea Casalegno, 68 anni, saggista e traduttore. Figlio di Carlo, azionista e partigiano, vicedirettore de La Stampa ucciso dalle Brigate rosse nel 1977. A quel tempo lui era un redattore dell'Einaudi, ex militante di Lotta continua. La sua intervista al quotidiano del movimento segnò per molti l'inizio della presa di coscienza a sinistra nei confronti del terrorismo. Poi molto silenzio. Fino al 2008, quando pubblica L'attentato, edito da Chiare Lettere, libro intenso che rievoca quegli anni terribili. Giudizi netti. «Non si diventa mai ex assassini» scrisse. Adesso ha qualcosa da dire sulle esequie di Prospero Gallinari e le celebrazioni dedicate in rete al terrorista delle Br appena scomparso.
Ma davvero c'è ancora bisogno di queste vittorie?
«Un regime, come quello che pensavano di combattere loro, avrebbe impedito il funerale, i cori, gli striscioni, persino la nostalgia online per quell'epoca di sangue. Invece è stata un'altra dimostrazione del loro grande errore: i terroristi combattevano contro uno Stato che dopo aver vinto, gli permette di onorare i loro morti, come vogliono, dicendo quel che vogliono».
Cosa non andava in quel funerale?
«La commozione degli amici per il defunto è più che legittima, ci mancherebbe altro. E gli aspetti rituali come il pugno chiuso e il canto dell'Internazionale non devono essere considerati peggio di altri. Io stesso ho partecipato all'estremo saluto di vecchi compagni di Lotta continua allo stesso modo. Ma se partendo da Gallinari si arriva a riesumare una mitologia rivoluzionaria che era già morta quando lui agiva, allora c'è un problema».
Non è una questione che riguarda solo pochi reduci che partecipavano a un funerale in un paese sperduto?
«Ho l'impressione che il ricorso sempre più diffuso alla mitologia rivoluzionaria stia diventando un modo per rivendicare fuori tempo massimo la giustezza di scelte eversive che hanno fatto solo del gran male alle forze progressiste e alla classe operaia».
C'entra qualcosa la biografia di Gallinari, brigatista mai pentito?
«Attraverso la sua figura si cerca appunto di giustificare certe scelte. Ma anche a isolarla come una storia individuale e non collettiva, la sua è stata un'ottusa aderenza a una visione sbagliata fin dall'inizio. Ci è sempre apparso chiaro: non si fa la rivoluzione ammazzando la gente».
Proletario, irriducibile, figlio dell'Emilia rossa. Gallinari come simbolo della «resistenza tradita» all'origine del terrorismo?
«Appunto. Gli elogi a quel che alcuni, spero pochi, vedevano in lui, rinnovano il presunto tratto mitologico del terrorismo. Gli conferiscono una patina di nobiltà che nei fatti non è mai esistita».
Molti terroristi si sentivano partigiani.
«Quella pretesa di parentela è sempre stata patetica dal punto di vista individuale, mostruosa da quello storico. I partigiani combattevano contro fascisti e nazisti, loro contro una democrazia, e nel farlo hanno contribuito alla fine della classe operaia che volevano difendere. Erano solo distaccati dalla realtà».
Oggi è chiaro a tutti, ma ieri?
«Questo distacco è sempre stato mascherato dalla simpatia ideologica che molti provavano per il terrorismo di sinistra. Le Brigate rosse, Prima linea e tutti gli altri si battevano per un obiettivo non realizzabile, soprattutto usando i loro mezzi. Un funerale non può essere lo strumento per affermare l'improbabile bontà delle azioni di chi è stato sconfitto non avendo mai avuto la possibilità di vincere».
La crisi, con la rabbia e la frustrazione sociale che genera, incide sulla visione idealizzata del terrorismo anni Settanta che ogni tanto appare su Internet?
«È possibile. Certo che Gallinari era un proletario, come ho letto su qualche bacheca. Ma non per questo le sue idee erano giuste. Colgo due elementi: da un lato una sorta di esibizionismo e dall'altro, anche se la categoria va usata con parsimonia, c'è la stupidità. Invece di semplificare la realtà e coglierne l'essenziale, si finisce con l'apprezzare la marginalità, producendo l'elogio della "nobile" sconfitta. Assurdo».
Resta la rabbia.
«In qualche modo si deve esprimere. "Bisogna sparare a tutti i politici", "In fondo i terroristi erano in buona fede". Alcune frasi si sentono anche per strada. Gallinari in buona fede? Anche molti fascisti lo erano, ma non per questo è il caso di mitizzare Salò. Un conto è lo sfogo. Ma sulla ricostruzione del passato occorre essere rigorosi».
Alcuni protagonisti di quella stagione sostengono che questo è il punto di vista dei vincitori.
«L'essenza della stortura è proprio questa. Non c'è nessun vincitore, perché non c'è stata nessuna guerra civile e quindi nessun partigiano. C'erano gruppi di poche persone, come Prospero Gallinari, che si erano autonominate combattenti. Hanno compiuto una lunga serie di assurdi omicidi, molti di essi generati della pura coazione a ripetere. Chi non c'è più riposi in pace. Ma non c'è proprio nessuna parabola da rivalutare».

l’Unità 21.1.13
Perché ho difeso la Procura di Palermo
Intercettazioni del Capo dello Stato: contesto l’articolo di Giovanni Pellegrino sulla sentenza della Consulta
di Alessandro Pace

Costituzionalista

GENTILISSIMO DIRETTORE, CON MIA VIVA SORPRESA E RINCRESCIMENTO ho letto, nell’articolo «La sconfitta giustizialista» di Giovanni Pellegrino apparso su l’Unità del 17 gennaio, che l’«atteggiamento prudente» dei pubblici ministeri della Procura della Repubblica «fu in seguito abbandonato nella linea difensiva assunta dalla Procura dinanzi alla Corte costituzionale, che fu invece di aperto e di ingiustificato attacco al presidente della Repubblica accusato di pretendere privilegi un tempo propri della regalità e quindi estranei ad una moderna democrazia».
Poiché ritengo offensivi sia il titolo che i toni usati dall’autore, mi consenta, in quanto componente del collegio di difesa, di spiegare le ragioni per le quali accettai di difendere la Procura di Palermo e i motivi per i quali nella memoria di costituzione fu evocato l’ordinamento monarchico spagnolo.
Le ragioni per cui accettai di difendere la Procura di Palermo sono le stesse di sempre. Non già un gratuito giustizialismo, ma la mia ferma convinzione del valore del costituzionalismo garantista, sempre attento a che il potere, quale che esso sia, non superi i suoi limiti.
Limiti, sottolineo, che devono essere difesi senza distinguere a seconda di chi li abbia violati. E poiché questa volta, a torto o a ragione, ritenevo, da costituzionalista, che quei limiti fossero stati superati dal presidente Napolitano che pure assai stimo e che in precedenza pubblicamente ho difeso -, decisi per il sì.
La tesi su cui si basava il ricorso presentato dall’Avvocatura generale dello Stato e cioè «le intercettazioni di conversazioni cui partecipa il presidente della Repubblica, ancorché indirette od occasionali, sono da considerarsi assolutamente vietate» costituiva infatti ai miei occhi un grave vulnus ai principi in favore dei quali in precedenza mi ero battuto nei giudizi sui lodi Schifano e Alfano, e cioè che le prerogative costituzionali devono fondarsi su una «enunciazione formale ed espressa» della Costituzione oppure devono emergere «in modo univoco dal sistema costituzionale». Ebbene, in nessun articolo della Costituzione, né in alcuna legge della Repubblica sta scritto che si possa vietare un’intercettazione casuale. Il «fatto fortuito» non può infatti costituire l’oggetto di un divieto.
E poi: come escludere, una volta riconosciuta una tale immunità al Capo dello Stato, che questa venga pretesa, in casi analoghi, dal presidente del Consiglio (un emulo di Berlusconi) e dai ministri, sulla base dell’esatto e indiscutibile argomento che, dal punto di vista «operativo», essi esercitano «poteri attivi» che invece non competono al presidente della Repubblica?
E qui viene in considerazione l’altro rilievo critico mosso da Giovanni Pellegrino. Per quanto paradossale sia la tesi che un fatto fortuito possa essere oggetto di divieto, mi sembrò doveroso, quanto meno per completezza, verificare come si comportasse al riguardo una moderna monarchia parlamentare come quella spagnola, nella quale la persona del Re è tuttora qualificata inviolabile. Contattai perciò tre eminenti cattedratici spagnoli ed ebbi da loro la seguente risposta che fu riportata nella memoria: «Una legittima intercettazione di una conversazione telefonica nella quale accidentalmente figuri il Re come mero interlocutore non equivale a “investigare la persona del Re”. E quindi la registrazione della conversazione ben potrebbe essere valutata dal giudice istruttore che ne ordinerà la distruzione solo se irrilevante ai fini delle indagini, mentre in caso contrario essa resterebbe agli atti qualora la sua distruzione possa danneggiare l’accusa oppure i diritti della difesa».
Mi consenta in conclusione di aggiungere una chiosa che certamente interesserà i suoi lettori. Diversamente da quanto generalmente rilevato all’indomani della sentenza, vi sono in essa tracce consistenti delle critiche mosse dalla Procura di Palermo. Infatti, a parte la statuizione che il divieto preventivo di intercettazione casuale «non è applicabile nella fattispecie (...) proprio per la casualità e l’imprevedibilità della captazione», la Corte nega che la distruzione delle registrazioni possa essere pressoché automatica, come preteso nel ricorso. Inoltre, fermo restando che le autorità che hanno disposto le indagini ed effettuato le captazioni hanno «l’obbligo di non aggravare il vulnus alla sfera di riservatezza delle comunicazioni presidenziali, adottando tutte le misure necessarie e utili per impedire la diffusione del contenuto delle intercettazioni», la Corte prescrive che il giudice, nel decidere o meno la distruzione delle intercettazioni e quindi dopo aver valutato il contenuto delle intercettazioni (ciò che il ricorso escludeva) «dovrà tenere conto della eventuale esigenza di evitare il sacrificio di interessi riferibili a principi costituzionali supremi: tutela della vita e della libertà personale e salvaguardia dell’integrità costituzionale delle istituzioni della Repubblica (art. 90 Costituzione). In tali estreme ipotesi, la stessa Autorità adotterà le iniziative consentite dall’ordinamento».
Con il che la Corte costituzionale ha fatto sua la preoccupazione della Procura, prospettata nella discussione orale, che l’immunità presidenziale potesse finire per «coprire» anche le conversazioni nelle quali lo stesso presidente della Repubblica risultasse coinvolto in un attentato alla Costituzione. A fortiori l’immunità così riconosciuta non potrà coprire eventuali reati extrafunzionali.

La Stampa 21.1.13
Missione negli Usa il Pd rassicura Obama su economia e Monti
Lapo Pistelli a Washington: «Monti è un nostro concorrente ma faremo un governo di coalizione anche se avremo il 51% al Senato»
di Maurizio Molinari


Invitata a partecipare all’Inauguration, una delegazione del Pd è impegnata in una maratona di 72 ore di incontri con amministrazione Obama, partito democratico, Congresso e centri studi per illustrare l’agenda del governo italiano guidato da Pierluigi Bersani che potrebbe uscire dalle urne.

È Lapo Pistelli, responsabile Esteri del Pd, che in una pausa dei colloqui, fra Dipartimento di Stato e governatori democratici, descrive la cornice della missione a tappe forzate: «Gli americani conoscono bene i numeri, sanno che fra poco più di un mese saremo noi al governo e siamo qui per spiegargli cosa abbiamo in mente di fare». Philip Gordon, vice di Hillary Clinton per l’Europa al Dipartimento di Stato, ha posto l’interrogativo sul futuro delle riforme del governo Monti e la risposta di Pistelli è stata duplice. Primo: «Le riforme sono state possibili grazie ai nostri contributi e voti in Parlamento» e dunque il Pd se ne sente titolare tanto quanto il premier uscente. Secondo: «L’Italia tocca il pareggio di bilancio, è il secondo Paese per avanzo primario e dunque è il momento di impegnarsi per la crescita, che ci sarà nel 2014». Agli interrogativi degli interlocutori americani sulla sorte politica di Monti, con cui l’amministrazione Obama ha avuto un rapporto stretto, Pistelli ha assicurato che «faremo un governo di coalizione anche se avremo il 51 per cento al Senato» e dunque vi sarà spazio per un’intesa con il premier uscente «sebbene la sua scelta di guidare una lista elettorale ne ha fatto un nostro concorrente». Il Pd non ritiene però di aver bisogno di Monti in termini di credibilità economica: «Bersani è stato governatore dell’Emilia Romagna e ha firmato le privatizzazioni nel governo Prodi dimostrando nei fatti quale modello economico persegue». Poiché l’ipotesi di un viaggio di Bersani a Washington prima delle elezioni si scontra con i tempi stretti e l’incrocio dei calendari istituzionali nelle due capitali, la visita della delegazione del Pd attira forte interesse. I consiglieri di politica estera di Nancy Pelosi, Harry Reid e John Kerry i leader democratici al Congresso hanno voluto un approfondimento sulle posizioni del Pd sull’Europa e Pistelli ha spiegato la coincidenza fra «sostegno al rafforzamento dell’unione monetaria e impegno per la crescita» che è poi anche l’auspicio dell’amministrazione Obama. Da qui lo scenario, di cui ha parlato al «Center for American Progress» Luca Bader, veterano dei rapporti fra Pd e democratici Usa, sulla possibile genesi di un’«agenda comune» fra amministrazione Obama, presidenza Hollande e futuro governo Bersani «perché è la prima volta dalla fine degli anni Novanta che ci sarà una coincidenza di tempi fra i governi progressisti a Washington, Parigi e Roma». Sulla base dei colloqui alla Brookings Institution, alla John Hopkins, alla Fondazione Carnegie, al Congresso e con i governatori, Pistelli individua i «punti di convergenza» fra Obama, Hollande e Bersani in «crescita economica, immigrazione e energia». Sul fronte della politica estera Gordon ha espresso l’auspicio di un’Europa sempre più «partner globale degli Stati Uniti» nelle aree di crisi e Pistelli si è detto a favore di un «maggior impegno dell’Ue a sostegno delle primavere arabe» oltre a concordare sulla necessità che l’Iran non abbia l’arma atomica. «L’amicizia transatlantica è una dato solido sottolinea Pistelli, che accompagnò Bersani a Washington e New York nel 2010 e questi incontri servono a definire un cammino comune». In tale cornice Gordon ha espresso l’auspicio per un maggior impegno dell’Italia a favore delle riforme in Russia ovvero un superamento dello stretto legame Berlusconi-Putin mai digerito da Washington. A dispetto di un’agenda mozzafiato, Pistelli e Bader hanno trovato il tempo per partecipare anche all’assegnazione del «Premio Machiavelli» a Jim Messina, l’architetto della rielezione di Barack Obama.

Corriere 21.1.13
Ora diteci chi paga le spese dei candidati
Scandali inutili, le spese dei partiti restano top secret
Budget e indicazione dei finanziatori Gli assenti della campagna elettorale
di Sergio Rizzo


In una campagna elettorale nella quale poco o nessuno spazio hanno i contenuti, rispetto alle chiacchiere su tattiche e alleanze, c'è un altro latitante speciale: le spese dei partiti. Anche se dopo quanto è accaduto, dalla storia dei rimborsi elettorali della Margherita agli spericolati investimenti dell'ex tesoriere della Lega Nord, fino agli scandali che hanno travolto i gruppi del consiglio regionale del Lazio, sarebbe stato lecito attendersi un cambio di passo.
Per esempio, la pubblicazione sui siti Internet dei budget dei vari partiti per le spese della campagna elettorale, con la contestuale indicazione delle fonti di finanziamento: pubbliche e soprattutto private. Informazioni che oggi è possibile conoscere, e non con la dovuta assoluta trasparenza, soltanto a consuntivo attraverso i bilanci e le dichiarazioni giurate.
I contribuenti privati, per esempio. Esiste, è vero, l'obbligo di comunicarli alla Camera, dove diventano di dominio pubblico: però con una procedura complessa, che prevede la presentazione agli uffici, e di persona, di una domanda scritta. Ma non c'è regola che impone la diffusione online dei finanziamenti liberali in tempo reale. Cosa che, crediamo, sarebbe doverosa.
Al di là degli obblighi di certificazione dei bilanci dei partiti, e dei controlli recentemente introdotti a furor di popolo dopo le sconcertanti vicende dei fondi della Margherita e della Lega Nord, questo consentirebbe ai cittadini di apprendere immediatamente (e prima del voto) quali interessi si materializzano dietro un candidato. Come negli Stati Uniti. Se prima delle elezioni del 2012 avreste voluto sapere quanti contributi avesse ricevuto il senatore del Massachusetts nonché futuro segretario di Stato americano John Kerry, per il fondo destinato alla sua campagna elettorale, sarebbe stato semplicissimo. Esiste un sito Internet con l'elenco dei lobbisti che hanno sostenuto lui e gli altri candidati, con le relative cifre. Nei due anni precedenti la campagna 2012 Kerry ha avuto 128.300 dollari da 56 persone: si va dai 9.600 dollari di Vincent Roberti ai 200 (circa 140 euro) di Edward P. Faberman. Chi è Roberti? Ancora più semplice. Basta cliccare sul suo nome per venire a conoscenza che rappresenta due società di lobbying, la Navigators global LLC e la Vincenti associated. I cui clienti sono At&t, Citigroup, Oracle America, General motors…
Tutto (abbastanza) alla luce del sole. E in Italia, dove non esiste nulla di tutto questo, di luce sulle fonti di finanziamento ne avremmo davvero bisogno. Soprattutto in una campagna elettorale nella quale alcuni contendenti non hanno avuto accesso in precedenza ai fondi statali. Mentre altri hanno letteralmente mandato in orbita anno dopo anno le proprie spese elettorali grazie proprio a «rimborsi» elettorali pubblici scandalosamente generosi. In occasione delle precedenti elezioni politiche del 2008 il Popolo della libertà ha investito la somma astronomica di 68 milioni 475.132 euro. Cifra ben 13,6 volte superiore rispetto a quella spesa nel 1996, dice il rapporto della Corte dei conti, da Forza Italia e Alleanza nazionale messe insieme. I contributi pubblici, al tempo stesso, sono passati da 18,6 a 206,5 milioni. Le spese elettorali del Partito democratico si sono attestate invece nel 2008 a 18 milioni 418.043 euro, contro i 7 milioni 839.653 euro investiti dodici anni prima da Ds, Margherita e Ulivo. Per contributi pubblici saliti da 17 a 180,2 milioni.
Numeri che fanno ben capire l'impazzimento verificatosi a partire da metà degli anni Novanta. E che non si è certamente esaurito con le elezioni politiche del 2008. Basta dare un'occhiata alle risorse messe in campo dai partiti per le elezioni regionali del 2010: più di 62 milioni. Il Partito democratico ha investito 14,2 milioni, una somma non troppo distante da quella spesa per le Politiche di due anni prima. Il Pdl ha sborsato addirittura 20,9 milioni. Per non parlare di alcune liste locali. Quella che ha sostenuto nel Lazio la candidatura di Renata Polverini ha speso la bellezza di cinque milioni e mezzo di euro. Cifra comunque pari alla metà dei contributi (circa 11 milioni di euro) assicurati a Letizia Brichetto Moratti dal suo consorte Gian Marco Moratti, industriale petrolifero, nella sfida elettorale perduta nel 2011 con Giuliano Pisapia per il Comune di Milano.

l’Unità 21.1.13
Malati di Cie. Tra i detenuti, senza cure
di Flore Murard-Yovanovitch


NEI CENTRI DI ESPULSIONE MOLTI TENTATIVI DI SUICIDIO. NON È GARANTITO IL DIRITTO ALLA SALUTE. LE TESTIMONIANZE DEI MIGRANTI

Al di là di quelle sbarre, le cure sono minime. Nei Centri di identificazione ed espulsione (Cie), come da capitolato d’appalto del ministero dell’Interno, l’assistenza sanitaria è di primo soccorso. Un approccio emergenziale che risale all’istituzione dei primi Cpt nel 1998, che però non è più adeguato ad un trattenimento dilatato fino a 18 mesi negli odierni Cie, perché interrompe de facto i percorsi terapeutici e le cure di medio-lungo periodo. Nel 2011, secondo i dati del ministero dell’Interno, sono stati 7.735 (6.832 uomini e 903 donne) i migranti trattenuti nei 13 Cie operativi in Italia. 7.735 persone, per le quali un diritto fondamentale come quello della salute, come emerge dal monitoraggio sistematico effettuato dall’ong Medici per i diritti umani (Medu), non è stato sempre garantito.
All’ingresso in quell’istituzione chiusa, il check-up iniziale è superficiale. Il personale sanitario delle Asl non ha accesso. I medici che ci operano sono privati, «chiamati» dall’ente gestore che gestisce il centro per conto dello Stato, e mancano spesso delle competenze specialistiche in ambiti come ginecologia e psichiatria. Inoltre scarseggiano i servizi di mediazione culturali e gli interpreti qualificati per le consultazioni medicali, come esige invece il Comitato europeo per la prevenzione della tortura (Cpt Standards). Se l’ente gestore assicura spesso di avere stabilito un buon collegamento con i servizi delle Aziende sanitarie locali (Asl), in realtà la maggior parte dei centri non ha stipulato protocolli. Cioè, non esiste alcun regolamento per l’invio dei pazienti a visite specialistiche o analisi di laboratorio, per la diagnosi e il trattamento di patologie infettive come Tbc, Hiv o epatiti.
Per una visita medica fuori dal Cie è obbligatoria la scorta di polizia. Ma la paura che il detenuto simuli o usi il trasferimento in strutture esterne per allontanarsi, porta spesso a sottovalutare la sua richiesta o sottostimare i sintomi denunciati. I pazienti lamentano la persistente disattenzione dei sanitari nei confronti delle loro patologie, e loro il timore delle simulazioni. All’interno di una struttura del tutto simile al carcere ma che non ne possiede i requisiti né le garanzie, viene quindi meno il normale rapporto di fiducia tra medico e paziente: sostituito da una relazione carceriere-sorvegliato.
DETENZIONE PEGGIORE DEL CARCERE
Se ti senti male, quindi, devi chiamare la guardia, che chiama l’ente gestore, che chiama il medico, e vieni inserito in una lunga lista d’attesa... Dall’indagine dell’International university college (Iuc) sul Cie di Torino emerge che i casi di gravi ritardi nella prestazione delle cure sarebbero numerosi. I detenuti hanno raccontato di un ragazzo che aveva ingerito un oggetto e che è rimasto per ore disteso a terra vicino al cancello, senza soccorso. Un altro, soggetto a crisi epilettiche, avrebbe dovuto essere ricoverato in ambito ospedaliero visto i gravi pericoli insiti nella patologia. A Omar, caso reso pubblico dall’Ong Medu e raccontato qui a fianco, i ritardi nella corretta diagnosi, sono stati devastanti, quasi fatali. Ma nei carceri per solo migranti, i casi di negazione delle cure potrebbero essere ancora per lo più sconosciuti e più numerosi.
Quando non è il corpo, in quelle «gabbie», è la psiche ad ammalarsi. La promiscuità totale. I percorsi di vita anche. Tra migranti appena giunti, persone che vivono e lavorano da anni in Italia, ex-carcerati, richiedenti asilo, persino cittadini dell’Ue (romeni), e categorie particolarmente vulnerabili come tossicodipendenti e vittime della tratta. Persone quindi che hanno esigenze diverse. La prospettiva di 18 mesi separati dai propri figli spesso nati in Italia e senza visite dei famigliari, è un incubo.
Mesi vuoti, obbligati in uno stato di ozio coatto, dove non è consentito ai cosiddetti «ospiti», per motivi di sicurezza, il possesso di un giornale, di una penna, di un pettine. Nemmeno di un libro. Un nulla spazio-temporale che il Rapporto della commissione diritti umani del Senato non esitava a definire «peggiore del carcere», per l’assenza delle garanzie offerte dal sistema penale. Una detenzione arbitraria e inutile, visto che meno della metà dei trattenuti viene rimpatriata, ma che ha invece pesanti conseguenze sulla loro vita.
Il profondo e diffuso malessere è testimoniato dai continui tentativi di suicidio e dalle numerose autolesioni inferte sui corpi. Viti, tubi, batterie, tutto va ingoiato o le vene tagliuzzate pur di essere trasferiti all’ospedale. Nel solo 2011, nel Cie di Torino, sono stati riscontrati 156 episodi di autolesionismo (100 dei quali per ingestione di medicinali e corpi estranei, 56 per ferite da arma da taglio). L’indicibile è poi denunciato dalle dirompenti perdite di peso, dall’insonnia, dalla depressione, dalle patologie ansiose e mentali.
Ma nei Cie non sempre è prevista la presenza di un servizio di sostegno psicologico, o è minimo e reattivo. Solo dopo i ripetuti atti violenti nel centro di via Brunelleschi a Torino sono stati introdotti degli psicologi, ma in altre strutture non ce ne sono sempre. Pur non essendo disponibili dati ufficiali, molti professionisti e volontari riferiscono di un ampio ricorso ai psicotropi a base di benzodiazepine. Ritrovil, Tavor, Talofen, ecc... Il problema: si somministrerebbe senza prescrizione o supervisione di un medico psichiatra specialista. «Mi danno 40 gocce di Minias e 30 di Tavor ogni sera», confessa una detenuta nel Cie di Torino. O come racconta un ragazzo diciottenne al 26 giorno di trattenimento: «Certo che prendo psicofarmaci, se non lo fai, vai fuori di testa qua». Difficile, poi in caso di sovraffollamento gestire tutti i casi.
Angoli bui, opachi, inquietanti della salute pubblica. Lasciati alla discrezionalità totale dalla parte degli enti gestori. Nei Cie, presidi sanitari, livelli igienici e di vivibilità degli ambienti e condizioni sanitarie degli stranieri detenuti non sono monitorati dalle autorità sanitarie pubbliche. I dati sanitari sono gravemente carenti per assente raccolta e sistematizzazione e non ci sono linee guida a livello centrale. I continui dinieghi del ministero dell’Interno di rendere disponibili a Medu o a Msf, a parte singoli casi, le convenzioni stipulate tra i singoli enti gestori e le Prefetture locali testimoniano di questa mancata trasparenza.
Oltre quelle mura, le veridicità delle condizioni di detenzione è raccontata, in silenzio, dai ripetuti scioperi della fame, incendi dolosi e atti di vandalismo, dalle continue rivolte e fughe raddoppiate rispetto all’anno precedente in quasi tutti centri visitati da Medu. Senza nominare le denunce di abuso punizioni, manganellate, quotidiane imposizioni, insulti verbali che costituiscono potenziali casi di trattamento inumano e degradante della persona umana.
«Qui è peggio di un carcere» è la frase che si capita sempre di sentire con più frequenza quando si ha accesso ad un Cie. «Vorrei che questo centro scomparisse e basta», dice un’altra trattenuta a Torino; altri si vedono come «corpi a disposizione totale della struttura». In 18 mesi, la mente e il corpo hanno tempo di ammalarsi e da quel luogo si esce in generale con condizioni peggiori di salute.

Repubblica 21.1.13
“Uccisa dall’ex, coi musulmani finisce così”
Femminicidio in Brianza, vicesindaco leghista accusa gli stranieri. E scoppia la polemica
di Gabriele Cereda


MONZA — «Se non si vuole finire ammazzati è meglio evitare di farsi una famiglia con un musulmano ». Le parole sono di Stefano Tornaghi, vicesindaco leghista di Bernareggio, dopo che a pochi passi da casa sua è avvenuto l’ennesimo femminicidio. Ed è subito polemica.
Undicimila anime a 30 chilometri da Milano, la calma della cittadina è stata rotta alle 19.40 di sabato quando Mustafà Hashuani, marocchino, operaio disoccupato di 45 anni, è entrato in caserma per confessare l’omicidio dell’ex moglie, Antonia Stanghellini, 46 anni, da cui si era separato un anno fa. I carabinieri e i medici del 118 l’hanno trovata riversa a terra in una pozza di sangue nella cucina della sua casa. Il movente è quello della gelosia. «Non sopportavo che la nostra relazione fosse finita e che si potesse vedere con un altro uomo», davanti ai militari, l’assassino ha raccontato la sua verità, prima di essere rinchiuso nel carcere di Monza.
Ma per il vicesindaco leghista la verità è un’altra: «Capisco l’avventura, ma pensare di farsi una vita con un musulmano è utopia. Poi è normale che le cose vadano a finire così». Frasi che hanno scatenato la bufera e dalle quali ha preso le distanze il sindaco del Pdl, Emilio Biella: «Sono parole
che non rispecchiano il pensiero dell’amministrazione. Anzi, abbiamo partecipato alla marcia della pace organizzata da alcuni arabi residenti in città per portare la nostra solidarietà ai tre figli della coppia». Ma il militante del Carroccio è categorico: «Quello che dico lo penso e credo sia condiviso dal mio partito. Negli ultimi anni, Bernareggio è cresciuta a dismisura per colpa di un’immigrazione massiccia di stranieri. Abbiamo permesso a cani e porci di entrare nel nostro Paese, senza regolamentare nulla. La conseguenza è stato l’abbassamento della classe sociale con i risultati che oggi sono sotto gli occhi di tutti». Cultura, religione, usi e costumi diversi sarebbero le cause dell’omicidio. Un pensiero a senso unico, quello del vicesindaco, che rimarca: «Le cronache ci parlano di musulmani che scappano con i figli o che vietano di battezzarli. Trovo inconcepibile che una donna italiana possa pensare di avere una famiglia con questa gente».
Al contrario, per Enrico Brambilla, consigliere brianzolo del Pd in Regione Lombardia, «è proprio da questo tipo di cultura che traggono origine alcuni dei peggiori fenomeni della nostra società. Lo schema di violenza dell’uomo sulla donna non riconosce etnie, religione o cultura». Invita a non strumentalizzare l’accaduto il parroco. «Un fatto doloroso come questo non merita etichette. Il male non ha colore, nazione o religione», dice don Luca Raimondi, che da ieri non ha perso di vista un momento i figli più piccoli della coppia, di 12 e 16 anni, Josef e Nadia, che erano fuori di casa al momento dell’omicidio. E oggi rientrerà dall’estero anche Sara, la figlia di 20 anni in Spagna per motivi di studio, che la vittima aveva avuto da un precedente matrimonio.

l’Unità 21.1.13
Usa, torna l’incubo armi. Ragazzo uccide 5 persone
di Virginia Lori


Un giovane di quindici anni ha aperto il fuoco ad Albuquerque, negli Stati Uniti, uccidendo cinque persone. Il ragazzo è stato arrestato dalla polizia. Ancora ignoti i motivi della strage. Le vittime sono due adulti, un uomo e una donna e tre bimbi; due sarebbero i figli della coppia, il terzo è un bambino non ancora identificato. Il delitto è avvenuto all'interno di una abitazione della cittadina. Nella casa la polizia ha trovato un numero impressionante di armi, tra cui un fucile semi-automatico d'assalto simile a quello usato dall'Esercito americano. Albuquerque è il capoluogo della contea di Bernalillo e maggiore centro dello stato del New Mexico. È situata nella parte centrale dello Stato, a cavallo del Rio Grande. Aaron Williamson, portavoce per lo sceriffo della contea di Bernalillo, ha riferito che sulla scena del massacro sono state trovate molte armi, «incluso un fucile d'assalto (versione civile dei mitra impiegati dai militari)».
Il nuovo eccidio arriva poco più di un mese da quello di Newtown, dove un giovane ha ucciso 21 bambini e 6 adulti in un vero e proprio assalto ad un campus scolastico e mentre in Usa è in corso un durissimo scontro tra chi vuole la messa al bando delle armi automatiche e forti restrizioni alla diffusione di pistole e fucili e chi, invece, si appella al Secondo emendamento della Costituzione che dà il diritto di armarsi. Il presidente Barack Obama ha proposto un piano in 23 punti per limitare la diffusione delle armi e per frenare l'ondata di omicidi compiuti negli Stati Uniti. Il piano Obama, presentato come una riforma senza precedenti nel settore, negli ultimi venti anni, non avrà vita facile al Congresso, sempre più lacerato dalle divisioni e dall’incapacità di legiferare, dove alla dura opposizione dei repubblicani si affiancheranno anche i dubbi di molti democratici. Il Senato, secondo quanto riportato dal Washington Post, analizzerà il piano del presidente nella settimana entrante.

Corriere 21.1.13
Ancora una strage con armi d'assalto Un quindicenne stermina una famiglia
di A. Far.


NEW YORK — Nel giorno in cui nella capitale Washington il presidente «nemico delle armi» inaugurava il suo secondo mandato, l'ennesima strage da arma da fuoco annientava un'intera famiglia in New Mexico, a 2700 chilometri di distanza.
La mattanza si è consumata nella notte tra sabato e domenica, quando un giovane di quindici anni la cui identità non è stata resa nota dalle autorità ha aperto il fuoco in un'abitazione di Albuquerque, la pittoresca città sul Rio Grande — la più grande dello Stato — uccidendo cinque persone: un uomo e una donna e tre bimbi, due dei quali figli della coppia.
Il ragazzo è stato arrestato dalla polizia che sta ancora indagando sui motivi del massacro. «Nella casa abbiamo trovato un numero impressionante di armi», ha dichiarato Aaron Williamson, portavoce per lo sceriffo della contea di Bernalillo, «tra cui un fucile semi-automatico d'assalto simile a quello usato dall'esercito». «Stiamo cercando di capire», ha aggiunto, «a chi appartenesse quell'arsenale da guerra».
L'unica cosa certa è che l'arma usata dal baby-killer è la versione civile dei mitra impiegati dai militari che Obama vorrebbe mettere di nuovo al bando, come lo erano dal 1994 al 2004, prima che il presidente George W. Bush lo revocasse dietro pressioni della potente lobby degli armaioli Nra. Il quindicenne è stato accusato di omicidio e rischia l'ergastolo in uno Stato storicamente conservatore che alle ultime elezioni scelse il ticket Obama-Biden solo grazie alla crescita esponenziale del voto ispanico.
Il nuovo eccidio arriva poco più di un mese dopo quello di Newtown, in Connecticut, dove un giovane squilibrato aprì il fuoco in una scuola, uccidendo 21 bambini e 6 adulti. Da allora Obama ha proposto un piano in 23 punti per limitare la diffusione delle armi e frenare l'ondata di omicidi compiuti negli Stati Uniti, scatenando la feroce reazione della Nra, la quale si appella al Secondo emendamento della Costituzione che sancisce il diritto di armarsi.
Poco importa se quell'emendamento, firmato nel 1791, affonda le radici nell'occupazione degli Stati Uniti da parte dell'Impero britannico prima della guerra d'indipendenza americana, quando il possesso di un'arma da parte delle milizie cittadine era l'unico strumento che gli americani avevano per difendere territori, case e famiglie. La potente lobby vicina ai repubblicani si è mobilitata per difendere l'inviolabilità delle armi in un'America profondamente mutata dove, secondo le statistiche, servono solo a bagnare di sangue le strade (gli Usa hanno un tasso di omicidi quadruplo rispetto al resto dell'Occidente).
E sabato ha rischiato di finire in tragedia il Gun Appreciation Day, la giornata ufficiale delle armi, organizzata da un gruppo di Washington come risposta al dibattito sul controllo delle armi. Il bilancio: cinque persone ferite in diversi «Gun Show» che si sono svolti in Indiana, Ohio e Carolina del Nord.

Repubblica 21.1.13
Quindicenne spara, nuova strage negli Usa
Cinque morti in New Mexico: tre bimbi e due adulti. L’adolescente aveva un fucile d’assalto
di A. Aq.


Cinque morti, un altro eccidio, un nuovo orrore. Ancora una volta bambini. E stavolta non solo vittime. Perché a fare strage, adesso, è un ragazzino appena quindicenne. Sì, quando Barack Obama oggi disegnerà la sua nuova America, giurando davanti
al Campidoglio, l’ombra tragica della vecchia continuerà ad allungarsi sulla festa della sua seconda volta.
La nuova strage che gli Usa scoprono nel New Mexico lascia davvero senza fiato. Sulla scena, sabato sera, i poliziotti arrivati subito dopo l’allarme, in una zona rurale a 10 miglia a sud di Albuquerque, hanno trovato l’immancabile fucile d’assalto: come quello usato a Newtown, come quello usato ad Aurora, come quelli che Obama ha chiesto al Congresso di bandire, dopo che il loro divieto — condiviso anche da Ronald Reagan, stabilito da Bill Clinton — è scaduto dopo dieci anni nel 2004. Il vice sceriffo della contea di Bernalillo, Aaron Williamson, dice che un 15enne è stato arrestato e già incriminato con due accuse di omicidio e tre accuse di «violenza sui minori culminata nella morte ». Tutti i corpi erano crivellati di colpi e sul posto sono state trovate diverse armi. Un uomo e una donna sono le altre due vittime: presumibilmente il padre e la madre dei ragazzi. Gli investigatori fino all’ultimo sono rimasti abbottonatissimi sulle identità di vittime e assassino. Ma i conti purtroppo tornano. Peter Gomez, un falegname 50enne che vive a poca distanza, dice che in quella casa abitava una famiglia con due bambine e due ragazzini. Due piccine e un bambino sono stati trovati morti: e quello arrestato, in quel posto sperduto, è giusto un altro ragazzino...
È l’ennesima tragedia delle armi nel paese che il presidente nero vuole riportare alla civiltà: ma dove ancora sabato scorso, in decine di città, centinaia di manifestanti chiedevano libertà assoluta di portare fucili e pistole, spalleggiati dalla potente Nra, la lobby delle armi che ha dichiarato guerra al presidente. L’orrore del New Mexico fa ancora più pensare a 40 giorni dall’eccidio di Natale, i venti piccini e i sei adulti massacrati nella scuola elementare di Newtown, Connecticut. I predicatori delle libere armi in libero Stato sono già pronti a issare le giustificazioni di ordinanza: è una tragedia di famiglia, nessuna legge potrebbe fermare questa follia.
Ma come sono finite le armi nelle mani di un ragazzino di 15 anni?
Albuquerque, come scrivono i giornali locali, è un città apparentemente tranquilla: entrata fra l’altro nella storia della tecnologia perché proprio qui, più di trent’anni fa, un certo Bill Gates e il suo socio Paul Allen fondarono una società chiamata
Microsoft. Adesso questa strage. Proprio mentre in un altro pezzo d’America ferita a morte, più a nord, Colorado, i parenti delle vittime protestano contro la riapertura ad Aurora del Century 16, il cinema dove appena sei mesi fa c’è stata la strage di Batman: «Non avete nessuna pietà per i morti?».
Per la cronaca, il New Mexico è anche uno di quegli Stati che stanno discutendo la messa al bando delle tragiche armi d’assalto che Obama vorrebbe a livello nazionale. Da ieri, il presidente che mercoledì scorso ha firmato 23 ordinanze, nell’attesa che il Congresso diviso trovi il coraggio di una nuova legge, ha cinque tragici motivi in più.

l’Unità 21.1.13
Voto sorpresa in Bassa Sassonia: è pareggio
L’alleanza Spd-Verdi al 46% come la coalizione Cdu-liberali
La Cdu della Merkel cala al 37% ma resta il primo partito. I liberali al 9%
di Paolo Soldini


Quarantasei per cento per la coalizione attuale cristiano-democratica e liberale, quarantasei per gli sfidanti: la Spd e i Verdi. Settantatre seggi agli uni, altrettanti agli altri. Quando le tv e le agenzie hanno dato i primi exit-poll sul voto in Bassa Sassonia, verso le sei di ieri sera, lo stallo è apparso plateale. Nessuna previsione era possibile: la continuazione del governo Cdu-Fdp capitanato dall’ultramerkeliano David McAllister valeva quanto l’ipotesi del cambio rosso-verde sotto la guida del borgomastro socialdemocratico di Hannover, Stephan Weil. Qualche ora dopo pareva che si profilasse un leggerissimo vantaggio per il centro-destra, ma era più questione di sensazioni che di fatti e di numeri. Nel momento in cui scriviamo, il futuro del Land, uno dei più importanti della Germania con i suoi 8 milioni di abitanti, è del tutto incerto e bisognerà attendere il calcolo dei «supermandati», complicato istituto delle legge elettorale tedesca per sapere chi avrà più seggi.
LA SORPRESA
Molto chiari, invece, sono i segnali venuti dalle urne. Il primo è la resurrezione di liberali. Fino a una decina di giorni fa la Fdp era data per moribonda, lontana dalla fatidica soglia del 5% sotto la quale in Germania non si eleggono parlamentari. L’altro ieri i sondaggi li davano proprio a cavallo. Ieri hanno preso quasi il 10%, molto di più di quello che gli stessi esponenti del partito avevano osato sperare. Merito del presidente, il contestatissimo Philipp Rösler? Il miracolo, più probabilmente, è da spiegare con l’intuito politico di molti elettori cristiano-democratici, i quali hanno capito che era meglio «prestare» il loro voto ai liberali. Infatti la Cdu ha perso voti (è scesa dal 45,2 al 37%), ma Angela Merkel, ieri sera, aveva tutte le ragioni per essere soddisfatta. La Fdp rediviva allontana, per ora almeno, lo spettro che più inquieta la cancelliera: una scomparsa dei liberali a livello federale la priverebbe della maggioranza con cui governa e conta di continuare a governare dopo le elezioni di settembre.
Il secondo segnale, altrettanto significativo, è la conferma della crisi dei socialdemocratici e del loro candidato alla cancelleria Peer Steinbrück. La Spd guadagna qualcosa (dal 30,1 al 33%), ma è ben lontana dall’exploit che era preventivato fino a qualche settimana fa e che l’avrebbe portata sicuramente al governo del Land insieme con i Verdi. Le chances di farcela erano ieri sera tutte sulle spalle proprio dei Verdi, i quali passano dall’8,2 al 13,5%, per niente insidiati dallo scarso 2% dei Piraten, delusi dal flop delle loro istanze di rivoluzione partecipativa informatica. Anche la sinistra radicale della Linke esce dalla consultazione con le ossa rotte: manca la soglia del 5% e non tornerà nel parlamento regionale, dov’era entrata trionfalmente nelle elezioni precedenti.
Se i socialdemocratici dovessero fallire la conquista di Hannover, buttando alle ortiche una vittoria che appariva scontata in tutti i sondaggi, la delusione proietterà una bruttissima ombra sulla loro campagna per le elezioni federali di settembre, che saranno precedute da altri due importanti voti regionali, in Baviera e in Assia. E intanto la Spd perderebbe la chance di assicurare alla sinistra la maggioranza assoluta di 36 seggi al Bundesrat, la Camera alta in cui sono rappresentati i Länder. Questa ha un potere decisivo sulle leggi di spesa e perciò un ruolo fondamentale nella politica economica e nella strategia contro la crisi del debito.
Quanto delicata sia la situazione in casa Spd è testimoniato dalla cronaca di ieri sera. Mentre la segretaria organizzativa del partito Andrea Nahles smentiva ogni ipotesi di cambio di candidatura per la cancelleria, fonti giornalistiche riferivano di un incontro «riservatissimo» tenutosi, prima ancora della chiusura delle urne in bassa Sassonia, tra Steinbrück, il presidente Sigmar Gabriel e forse altri dirigenti della Spd. Quando sono uscite le indiscrezioni, Gabriel e Steinbrück hanno escluso che si sia parlato della corsa alla cancelleria e anche esponenti della sinistra hanno assicurato sostegno al candidato attuale. Ma il tema è, in ogni caso, sul tappeto e lo ha riconosciuto la stessa Nahles parlando apertamente di «un insufficiente sostegno» del vertice di Berlino alla Spd della Bassa Sassonia. In realtà, al di là delle debolezze d’immagine del candidato Steinbrück, che ha sofferto molto la campagna mediatica contro certe sue disinvolture in fatto di introiti collaterali e sulla sua attitudine alle gaffes, i problemi attuali dei socialdemocratici dipendono piuttosto dalla vaghezza delle loro proposte in campo economico. Nella campagna in Bassa Sassonia, per esempio, la Spd ha messo sul tappeto soltanto l’ipotesi di ridurre le tasse scolastiche e universitarie, un aumento dei posti negli asili-nido e controlli più severi sul sito per lo stockaggio delle scorie nucleari di Gorleben. Un programma non proprio rivoluzionario.

l’Unità 21.1.13
Israele, alla vigilia elettorale la destra teme gli indecisi
di Umberto De Giovannangeli


Una rincorsa a destra. A chi dimostra di saper incarnare meglio dei competitori una politica «muscolare». Una rincorsa che potrebbe però generare una reazione opposta. Israele domani va al voto. Un voto destinato a incidere sul quadro regionale. Nessun smantellamento degli insediamenti illegali dei coloni in Cisgiordania se vincerà le elezioni. È la promessa fatta dal primo ministro, Benjamin Netanyahu, a pochi giorni dal voto. «I giorni in cui i bulldozer sradicavano gli ebrei sono finiti. noi non abbiamo smantellato alcun insediamento, anzi li abbiamo fatti espandere», ha detto Netanyahu in un’intervista al quotidiano Maariv, ricordando che il suo governo è stato quello che ha realizzato la prima università all'interno di un insediamento, quello di Ariel in piena Cisgiordania.
SFIDA TRA FALCHI
«Nessuno può darmi lezioni di amore per Israele o di impegno in favore del sionismo e degli insediamenti», ha aggiunto il premier in carica dopo che un sondaggio ha mostrato che il suo partito potrebbe perdere voti e seggi in favore dell'estrema destra del partito Iewish Home, che promette un' estensione della presenza dei colini nei territori palestinesi. Nei giorni scorsi è stato pubblicato uno studio della ong israeliana Peace now, secondo il quale sotto il governo Netanyahu è approvato il numero record di 8.730 costruzioni per nuovi insediamenti nella zona «E-1», compresa tra Gerusalemme e l’insediamento israeliano di Ma’aleh Adumin. Ma’aleh Adumin si trova a dieci chilometri da Gerusalemme e, secondo i palestinesi, il suo allargamento nella zona E1 creerebbe una continuità territoriale per Israele, ma taglierebbe in due la Cisgiordania.
Alla vigilia delle elezioni politiche si riduce il divario tra la coalizione di destra che include Likud-Beytenu, Habayit Hayehudi e Otzma LeYisrael, e l'opposizione di centrosinistra che riunisce Partito laburista, Yesh Atid, Hatnua, Meretz e Kadima. Secondo un sondaggio pubblicato, quattro giorni fa, dal sito web dello Yedioth Ahronoth, i due blocchi otterrebbero lo stesso numero di seggi, 46. Insieme ai partiti ultraortodossi.
LA CAMPAGNA ELETTORALE
La coalizione di destra, guidata da Netanyahu, dovrebbe conquistare 63 seggi alla Knesset, contro i 57 delle formazioni di centrosinistra e i partiti arabi. Il sondaggio, realizzato dall’istituto Dahaf, rivela che la lista congiunta formata dal Likud di Netanyahu e dal partito nazionalista Yisrael Beytenu di Avigdor Lieberman continua a perdere consensi: nelle elezioni dovrebbe conquistare 32 seggi, uno in meno di quello previsto dal precedente sondaggio. Anche il Partito laburista è in calo di popolarità e perde un seggio, attestandosi a 17. Nonostante il voto sia imminente, il 15% degli elettori è ancora indeciso su chi votare.
L’ultima settimana di una campagna elettorale unanimente giudicata tra le più noiose nella storia d’Israele, è stata ravvivata dallo scontro tra Netanyahu e Barack Obama. «Penso che tutti sappiano che i cittadini di Israele sono i soli che possono decidere chi rappresenta fedelmente i vitali interessi dello stato», ha tuonato Netanyahu, replicando a quanto riportato da Jeffrey Goldberg, editorialista di Bloomberg, secondo il quale il capo della Casa Bianca avrebbe spesso ripetuto ai suoi collaboratori che «Israele non sa quali sono i suoi veri interessi» e che Netanyahu è «un codardo politico», «manovrato dalla lobby degli insediamenti» che condurrà il Paese al «totale isolamento». «Negli ultimi quattro anni», ha proseguito Netanyahu, «abbiamo subito tremende pressioni e continueremo a lottare per gli interessi di Israele e la sua sicurezza». Dure critiche a Obama sono giunte anche da altri dirigenti del Likud, il partito di Netanyahu, che giudicano l’intervento del presidente americano come una «vendetta» per l'aperto sostegno fornito dal premier israeliano al rivale delle ultime presidenziali per la Casa Bianca, Mitt Romney.
Il nervosismo dell’entourage di Netanyahu dà conto di una situazione in movimento: il «trionfo di Bibi» non è scontato.

“Cosa direbbe Herzl, il fondatore del sionismo cresciuto in una laica casa tedesca e ispirato dal nazionalismo europeo, di fronte alla sua creatura cooptata dalla destra religiosa?”
La Stampa 21.1.13
Israele alle urne con la paura della destra
Un’intesa con i palestinesi non è più all’ordine del giorno «L’economia conta di più»
La sorpresa è Naftali Bennett 40enne imprenditore che difende gli insediamenti
di Francesca Paci


«Laggiù, oltre quelle case, c’è Qalchilia: se dipendesse da loro la regaleremmo ai palestinesi, ma la novità è che ora devono fare i conti con noi». «Loro» sono i politici israeliani che, come oltre il 70% della popolazione, sostengono, almeno a parole, la soluzione «due popoli, due Stati».
Dagli ortodossi ai giovani laici Israele si riscopre di destra Alle elezioni il favorito Netanyahu dovrà fare i conti con politici più “falchi” di lui
«Noi» significa Otzma Israel, il piccolo partito d’iperdestra che alle 19esime elezioni parlamentari di domani avrà il voto di Shira Kadishson, 51 anni, 4 figli, psicologa dell’età infantile, una passione per l’architettura di Gehry traboccante dalle pareti piene di libri. Se non fosse per la bandiera con la stella di David sulla veranda con vista su Ramat Aviv, quartiere verde di Tel Aviv dove ha sede l’università, Shira con i capelli sale e pepe e l’ostentata avversione per la tv sarebbe un’icona di sinistra. Guida il sabato in barba ai precetti religiosi, difende il welfare orgoglio del socialismo nazionale e non s’appassiona affatto al capitalismo americano, vanta amici laburisti e arabi, ma non parlatele di Oslo: «I palestinesi hanno già unapatria, laGiordania. Ipoliticiisraeliani, a cominciare da Bibi, stanno svendendo la terra dove secondo la Bibbia e il Corano vivevamo prima di tutti, ma gli alberi senza radici muoiono». E che piaccia o meno ai laici, osserva Steven Cook del Council of Foreign Affairs, le radici d’Israele sono anche religiose: «Dopotutto, cosa c’entra Tel Aviv con l’ebraismo?».
Otzma Israel, fondato da nostalgici del rabbino fondamentalista Kahane e dell’omologo partito messo al bando nell’88, è una realtà marginale che può sperare in 2, massimo 3 dei 120 seggi della Knesset. Ma la sua eredità, scrive Ami Pedahzur nel saggio «Il trionfo della destra isaeliana», ha seminato nella politica nazionale, compreso nel Likud. Israele sta davvero svoltando a destra? Di certo quando un paio di mesi fa il premier Netanyahu si è associato all’ultranazionalista Lieberman fondendo il Likud con Israel Beitenu (e tirando dentro gente provocatoria come Feiglin, sostenitore dei riti ebraici sulla spianata delle moschee) ha palesato l’urgenza di fortificarsi a destra, dove una galassia di nuove e vecchie formazioni legate ai coloni o agli ultraortodossi (dallo Shas al gruppo del rabbino Amnon Yitzhak) minacciano il suo potere in stile Tea Party assai più della sinistra che, nella sprezzante analisi del portavoce della Knesset Danny Danon (Likud), «è una specie in via d’estinzione».
Lo smottamento a destra però è iniziato da tempo. Dal ’67 per storici. Dagli anni ’80 replicano i politici.
«Se nel 2005, quando Sharon si è ritirato da Gaza, il rapporto con i palestinesi fosse migliorato, oggi le cose sarebbero diverse» ragiona Meron Bitton, 26 anni, laureando in economia, mentre sorseggia vino nel pub Hamezog, un ritrovo di studenti vicino a Rabin square dove una quarantina di under 35 attendono il ristretto comizio di Naftali Bennett.
Bennett, 40 anni, vanto dell’high tech israeliano, fan dell’eroico fratello di Netanyahu Yoni, del gelato al pistacchio e del film «Le ali della libertà», è la grande sorpresa (ormai consolidata) di queste elezioni. Con la kippa piccola alla maniera degli ortodossi moderni, il linguaggio da commilitone con cui chiama gli elettori Aki (fratello), il pedigree nel Likud, sta rosicchiando consensi a Bibi e potrebbe guadagnare una quindicina di seggi. Non se l’aspettava neppure lui, come dimostra l’ingenuità di aver messo al numero 14 uno come Jeremy Gimplel, che oggi suggerisce di far saltare la spianata delle moschee. Ma rivolgendosi ai ragazzi del pub sembra a suo agio nel ruolo di chi tra 4 anni s’immagina premier. «Obbligherò gli haredim (i religiosi) a fare il militare ma poco alla volta» promette, sapendo di toccare uno dei temi più cari all’auditorio. Non è qui che spende l’altro suo cavallo di battaglia, la politica filo-coloni sintetizzata dallo slogan «la terra è nostra». I giovani di Tel Aviv, quelli che l’anno scorso hanno manifestato sul modello di Occupy Wall Street e diversamente dagli abitanti di Gerusalemme o dalla Sderot sotto il tiro di Hamas hanno sempre preferito il dialogo, hanno accantonato le speranze di pace e vedono in Bennett solo un imprenditore di successo.
«L’economia conta più della pace, specie dopo l’avanzata degli islamisti seguita alle primavere arabe: 4 anni fa un appartamento a Tel Aviv costava 700 euro al mese, oggi se sei fortunato ne spendi 1100» spiega l’avvocato 27enne Varoit Wolferman. Non ha ancora deciso per chi votare come un quinto degli oltre 5 milioni di elettori, ma le sue simpatie, come quelle di molti coetanei in bici lungo Rothschild, vanno a Bait Yehudi, il partito di Bennett.
Cosa direbbe Herzl, il fondatore del sionismo cresciuto in una laica casa tedesca e ispirato dal nazionalismo europeo, di fronte alla sua creatura cooptata dalla destra religiosa? La leadership israeliana è storicamente laica e lo stesso Bibi lavora di sabato.
«La provincia coloniale sta prendendo il sopravvento sulla madrepatria» scrive su Haaretz Ari Shavit. Il punto però, nota l’informatico 25enne David Toshkabho, è che nell’ultimo mezzo secolo Israele legge sempre meno la stampa «illuminata». «I media parlano per pochi intellettuali percepiti come distanti dalla gente, non credo che gli israeliani siano razzisti ma si preoccupano più della propria vita che del Paese» continua Ari. A confermarlo è Ghassam Khatib di Peace Now: «Oggi più che contro l’occupazione ci battiamo contro l’indifferenza».
La sinistra si lecca le ferite e punta tutto sul welfare, i palestinesi sono divisi tra chi teme il peggio e chi pianifica la terza intifada, l’America è lontana. «E’ la speranza di pace che gonfia il vento in poppa alla destra» ripete l’ex enfant prodige di Olmert Tzipi Livni, oggi candidata di HaTnua’. Da queste parti però, dare qualcosa per scontato si è sempre rivelato un errore.

Repubblica 21.1.13
Israele, il voto e la destra hi-tech
Israele va alle urne domani. Il protagonista della campagna elettorale Naftali Bennett leader dell’ala radicale dei conservatori laici ex ufficiale, ha fatto fortuna con Internet e ora vola nei sondaggi con proposte asciutte ed estreme: Niente processo di pace, estensione delle colonie, solo qualche città autonoma ai palestinesi ma sotto rigidi controlli di sicurezza
Una ricetta che sta conquistando un Paese che vuole nascondere le sue paure
di Bernardo Valli


NON uscirà primo ministro dalle urne, domani sera, ma Naftali Bennett è stato il protagonista della campagna elettorale appena conclusa. La conferma di Benjamin Netanyahu come capo del governo è annunciata con troppa insistenza per dubitarne.

Viaggio nel Paese al voto. Naftali Bennett, leader dell’ala radicale dei conservatori laici, è il protagonista della campagna elettorale

TEL AVIV Non uscirà primo ministro dalle urne, domani sera, ma Naftali Bennett è stato il protagonista della campagna elettorale appena conclusa. La conferma di Benjamin Netanyahu come capo del governo è annunciata con troppa insistenza per dubitarne, anche se non sono mancate le sorprese nei precedenti diciotto voti legislativi dalla nascita dello Stato di Israele. Dunque la destra nel suo insieme dovrebbe conservare fra poche ore la maggioranza dei centoventi seggi della Knesset, il Parlamento. E ci si chiede se non sarà lui, Naftali Bennett, a darle un’impronta più intransigente, più severa rispetto al bloccato processo di pace con i palestinesi, più integralista sul piano religioso e più ferma nell’aspirare al Grande Israele. Egli è emerso negli ultimi mesi come il leader di un’estrema destra ricca di avvenire politico. Direi post moderna, se è possibile azzardare la formula. Si pensa che Naftali Bennett sottrarrà un sostanziale numero di elettori a Benjamin Netanyahu, al punto da ridimensionarne la vittoria personale, e creare una certa frustrazione nel suo partito, il Likud, imparentato per l’occasione con quello dell’ex ministro degli esteri, Avigdor Liberman, forte nella comunità russa, ultra nazionalista.

È senz’altro singolare il profilo di Naftali Bennett, il nuovo eroe estremista, fondatore di Habayit Hayehudi, il Focolare ebraico, terzo partito nazionale nei sondaggi. È anzitutto rivelatore dell’attuale tendenza della società. Quindi merita un’attenzione particolare. Pochi elementi nella sua biografia o dettagli nel suo aspetto, e scarsi toni nel suo linguaggio, pesante nei significati ma non troppo nello stile, rispecchiano quelli tradizionali di un capo religioso prigioniero di dogmi, comunque di certezze. È ovviamente ben lontano dall’immagine degli haredim, con le trecce e gli abiti e i grandi cappelli neri. Loro sono immersi in una religiosità totale. Lui è ben piantato nella realtà. È un quarantenne sbarbato, avviato alla calvizie, vestito con trasandata semplicità, come i giovani che gremiscono la Dizengoff, un venerdì pomeriggio, un’ora prima dell’inizio del sabbath, e sulla grande strada della metropoli non sembrano preoccupati per l’imminente rituale riposo. Al contrario appaiono in preda a un’indifferenza laica.
«Naftali?», dice l’amico che mi accompagna, chiamando per nome, come usa in Israele, un uomo politico che non conosce di persona, e che in questo caso detesta. «Naftali è l’estrema destra high tech». Scherza naturalmente. Ma c’è del vero in quel che dice. Siamo seduti al tavolo di un caffè all’aperto, confortati da un sole da tarda primavera mediterranea, in mezzo a edifici più di vetro che di cemento. Dai marciapiedi trabocca una folla più cosmopolita di quella di Manhattan e dei parigini Campi Elisi. Gli abitanti ebrei non nati in Israele provengono da più di cento paesi diversi: e penso che sulla Dizengoff, nel venerdi pomeriggio, ne scorra un ampio campionario. Le macchie color carbone, che si muovono a scatti, sempre di fretta, nevrotiche, mi riferisco agli ortodossi vestiti di scuro, incrociano ragazze in blujeans, spesso tatuate sulle braccia nude abbronzate; giovani con la kippah di varie dimensioni e di foggia ben distinta, secondo il grado di religiosità, sono confusi tra coetanei senza segni particolari nell’abbigliamento e quindi in apparenza laici; e non mancano gli africani, etiopi che il mio amico sa precisare se ebrei o non ebrei. Lo spettacolo non è certo banale. Non credo ci sia nel Mediterraneo una città più dinamica e variegata di Tel Aviv.
Naftali Bennett rappresenta l’estrema destra high tech perché lui stesso è un esperto di quell’industria sofisticata, orgoglio di Israele. Con una company internet security, la Sayota, ha fatto fortuna. Quando ha cambiato attività l’ha venduta per centoquarantacinque milioni di dollari. Dopo la Silicon Valley, Israele ha la più alta concentrazione al mondo di high tech, e chi ha contribuito a crearla ne trae prestigio.
Naftali Bennett sa rivolgersi a una società giovane (età media ventotto anni), con un discorso religioso ma non bigotto, e con proposte politiche espresse con apparente asciutta razionalità. Nonostante il loro estremismo. Egli dice: niente processo di pace con i palestinesi, estensione delle colonie nella Cisgiordania occupata, e soltanto qualche città autonoma per i palestinesi, sotto il controllo della sicurezza israeliana. Al tempo stesso predica un dialogo con i laici. La sua più stretta collaboratrice nel partito è una giovane bella donna, Ayelet Shaked, che si dichiara appunto laica. La famiglia Bennett, polacca di origine, viene dagli Stati Uniti, dove era contro la guerra in Viet Nam, e alcuni suoi membri avevano idee di sinistra, maturate a Berkeley. In Israele c’è stata la svolta.
Naftali Bennett è stato anche ufficiale in unità speciali, distinguendosi in varie operazioni. Questo suo passato gli consente di esortare senza troppi guai alla disubbidienza i militari nel caso fosse ordinato di demolire le colonie israeliane nei territori occupati. Lui è stato per anni il responsabile dello Yesha Council, l’associazione dei coloni. Dei quali è uno strenuo difensore. La condotta esemplare come ufficiale e l’aperta difesa dei coloni accentuano la sua influenza in due settori forti della società più conservatrice: i quadri subalterni dell’esercito (non gli alti gradi, che sanno essere critici con il potere politico) e gli abitanti degli insediamenti nei territori occupati, dai quali tenenti e capitani provengono. Un tempo gli ufficiali venivano dai kibbutz, allora roccaforti dell’Israele laburista. A dargli ulteriore credito è l’esperienza accanto a Benjamin Netanyahu, del quale è stato uno stretto collaboratore, e del quale è adesso un insidioso concorrente. E domani, probabilmente, un suo ministro. Con la speranza di sostituirlo un giorno come capo del governo. Sara, l’attenta e invadente moglie di Netanyahu, ha avvertito presto, e quindi diffidato, della forte ambizione di Naftali Bennett. Il dissenso tra Sara e Naftali, e la troppo bella Ayelet, ha alimentato i gossip a Tel Aviv e a Gerusalemme.
Al contrario di quel che mi aspettavo il problema palestinese e l’irraggiungibile accordo di pace non hanno dominato la campagna elettorale. Le parole “palestinese” e “pace” non sono state quasi mai pronunciate. Eppure un paio di mesi fa si combatteva e si moriva a Gaza. E la Palestina dell’Olp, quella di Cisgiordania, occupata dagli israeliani, è stata riconosciuta da un voto plebiscitario come un Stato osservatore dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite. È stata una sconfitta diplomatica per Israele, ed anche un segno del suo isolamento. Eppure non se ne è quasi parlato. Netanyahu ha reagito, ma non troppo, alle critiche di Barack Obama per i nuovi insediamenti decisi come una provocazione subito dopo il voto dell’Assemblea generale. Questo non significa che i problemi non siano sentiti, e non siano destinati a pesare sul voto di domani. Il successo attribuito all’estrema destra high tech di Naftali Bennett è un chiaro sintomo. Sui manifesti, sotto il ritratto di Netanyahu con un piglio severo, c’è scritto: «Un uomo forte per un paese forte». Non c’è bisogno d’altro. Sono parole che rassicurano.
La paura è invisibile, dice Manuela Dviri, che ha avuto un figlio soldato ucciso in Libano. Lei è una donna coraggiosa. Si prodiga per far curare i giovani palestinesi ammalati, è favorevole a uno Stato palestinese e contraria alla costruzione di nuove colonie. La paura? Lei dice che non la vedi e non la senti perché ci si vergogna di provarla. Ma c’è ed è robusta. È la paura di ogni cambiamento: dei palestinesi e di ciò che il governo potrebbe fare ai palestinesi; degli iraniani e di ciò che il governo progetta contro gli iraniani; dell’isolamento e al tempo stesso della tendenza all’isolamento; di Hamas e degli Hezbollah; di quel che sta succedendo in Siria, di quel che è accaduto in Egitto e di quel che può accadere nel resto del mondo arabo; ed anche della Turchia adesso ostile; oltre che delle critiche dell’alleato americano. È partendo dalla paura, sfruttandola, coltivandola che il governo di Netanyahu, e l’estrema destra vincono le elezioni.
È una paura ben nascosta perché stando al tasso di felicità calcolato dall’Onu nei paesi membri, Israele è al quattordicesimo posto, mentre ad esempio l’Italia è al ventottesimo. Prendo spunto da uno scritto di Peter Beinart per avviare un discorso chiave. Secondo il professore di scienze politiche alla City University di New York, appartenente alla vasta e frammentata comunità ebraica americana, a Ovest della Linea verde, cioè della frontiera precedente alla guerra del 1967, Israele è una democrazia imperfetta ma autentica, mentre a Est, nella Cisgiordania occupata, è un’“etnocrazia”. E per etnocrazia Beinart, ex redattore capo di New Republic, una rivista di sinistra, intende un luogo in cui gli israeliani, ossia i coloni, usufruiscono dei diritti di chi ha una cittadinanza, diritti negati ai palestinesi.
Questa situazione logora la democrazia israeliana e alimenta le tendenze ultranazionaliste e razziste. È come un veleno che insidia la società, che la ferisce in profondità ma i cui effetti non sono esibiti. Sono nascosti. Le idee di Peter Beinart, autore di “Crisi del sionismo”, hanno suscitato numerose reazioni. Jonathan Rosen, sul
New York Times, ha riconosciuto che è degradante, faticoso e pericoloso per lo Stato ebraico trascurare la vita di milioni di palestinesi senza Stato, ma ha accusato Beinart di manicheismo semplicistico. Il problema è assai più complesso. Perché è tanto complesso i partiti impegnati nella campagna elettorale non l’hanno quasi affrontato? Qualche eccezione, e di grande rilievo, in verità c’è stato. Shimon Peres, il presidente della Repubblica, grande figura del vecchio partito laburista, ha dichiarato apertamente, in pieno clima elettorale, la necessità, anzi l’obbligo di avviare un dialogo costruttivo con Abu Mazen, per arrivare alla creazione di uno Stato palestinese. Anche la maggioranza degli israeliani accetta la soluzione di due Stati, ma poi aggiunge che non si fida degli interlocutori palestinesi. È come se riconoscesse che la morte esiste, è inevitabile, senza ovviamente desiderare che arrivi.
Persino la dinamica, intelligente Shelly Yechimovich ha quasi schivato l’argomento. È la leader del Labour in declino e per rianimarlo ha puntato sull’economia con un certo successo, poiché il partito dovrebbe essere il secondo per numero di deputati nella prossima legislatura. La situazione non va troppo male rispetto all’Europa: la disoccupazione è al 7 per cento e la crescita oscilla tra il 2-3 per cento. Ma le sperequazioni nei redditi sono fortissime, e hanno provocato nel 2011 grandi manifestazioni di protesta. Shelly Yechimovich ha cercato di recuperare i giovani israeliani che le hanno promosse, ignorando quasi la questione palestinese. Ad affrontarla con decisione è stata Zahava Gat-On, leader di Meretz, il partito goscista, e la centrista Tzipi Livni, ex ministro degli esteri, che ha creato un suo partito (Hatnuah). Le donne sono state più audaci.

Corriere 21.1.13
La Cina ora si ispira a Tocqueville per non finire come l'«Ancien Régime»
di Paolo Salom


Alexis de Tocqueville sbarca anche in Cina. Ma non per parlare di libertà. Né di democrazia. Non almeno nel senso in cui il pensatore francese le immaginava nel corso dei suoi viaggi e in particolare quello negli Stati Uniti della prima metà dell'Ottocento. Nei giorni scorsi il Quotidiano del Popolo, voce principale del regime, ha pubblicato un editoriale citando i «consigli di lettura» di Wang Qishan, uno dei nuovi magnifici sette del Politburo, responsabile dell'importante Comitato per la disciplina. Ebbene, cosa suggerisce Wang di leggere? Non le opere di Mao o di Deng Xiaoping — come sarebbe lecito aspettarsi — ma L'antico regime e la rivoluzione, imponente saggio che l'aristocratico francese votato al liberalismo pubblicò nel 1856 (quindi dopo La democrazia in America).
«Il contesto sociale della Francia alla vigilia della rivoluzione — dice tra l'altro l'articolo, citando le parole di Wang Qishan — è simile a quello cinese, anche se il nostro attuale è senz'altro molto più complesso». Wang spiega poi quanto gli sia piaciuto il saggio, tradotto in cinese da alcuni anni, e si sofferma su un aspetto di quella Francia in pieno fermento che evidentemente colpisce il suo immaginario: «Gli aristocratici, comunque — dice il leader entrato lo scorso novembre nella ristretta oligarchia che conta a Pechino — non si erano accorti di quanto fosse cambiato il mondo in cui vivevano». Errore fatale, che portò poi agli avvenimenti «inevitabili» del 1789.
Perché citare questo libro e consigliarne la lettura (sta già sparendo dagli scaffali delle librerie)? Non si può escludere la semplice passione per la storia (difficile). Più probabile invece che si tratti, nello stile parabolico tipico del Celeste Impero, di un avvertimento ai «principi rossi», i discendenti dei Grandi della Rivoluzione (di Mao) immersi nelle loro vite privilegiate. Da notare, infine, che Wang Qishan, pur avendo sposato una «principessa rossa», non è parte dell'aristocrazia rivoluzionaria, almeno per sangue, ma si è «fatto da sé». Meglio ascoltarlo.

La Stampa 21.1.13
Mali, in marcia con i francesi per riconquistare Diabaly
La città è in mano agli islamisti ma ormai è assediata dalle truppe speciali
di Domenico Quirico


Il mattino era puro come se non ci fosse guerra. E invece era il minuto in cui per loro, francesi e maliani, la guerra incomincia. Non c’è nome per designare la sensazione di andare verso il nemico; eppure è tanto specifica, tanto forte, come il desiderio sessuale e l’angoscia. L’universo diviene una indifferente minaccia. Sarà oggi che dovranno morire? La guerra era là oltre il ponte sul canale, non c’era altro che seguire quella strada, fino a Diabaly, la spina che i ribelli e i jihadisti hanno piantato, a sorpresa, lunedì scorso nel fianco dell’operazione per riconquistare il Nord. Abu Zeid, «il macellaio», l’emiro del deserto, sa bene giocare le sue carte. Per liberarsi di Diabaly i francesi hanno dovuto fermare l’operazione sul fronte Nord, verso Gao e Timbuctu. Troppo esigue ancora le forze, per dividersi a grande distanza.
Hanno scelto bene per colpire. Questa è zona wahabita, qui le tombe dei santoni riveriti da secoli richiamano pellegrinaggi e fervori. Qui parte della popolazione simpatizza per la guerra santa. Gli uomini di Abu Zeid si battono casa per casa, con ferocia, determinazione, abilità. La città che i francesi davano «ufficialmente» libera da tre giorni è ancora incerta, i sessanta chilometri che collegano Niono e Diabaly sono terra di nessuno.
I jihaidisti si sono tagliati la barba, hanno nascosto le divise sotto i barracani, scivolano tra la popolazione dei contadini e dei mercanti. Ieri sera due di loro sono stati arrestati a un centinaio di metri dalla casa dove ho dormito: erano venuti a comprare carne pane viveri.
Una dopo l’altra le sezioni dei blindati francesi e dei pick up maliani salpano sottoilsoledelmattino. Semprelastessastradafiancheggiatadaipovericampi di canna da zucchero e l’asfalto stanco sotto le ruote dei carri. La noia dei convogli sulle strade di pianura. La nostra, la loro ultima strada di noia: ormai oltre il ponte sul canale all’uscita da Niono sarà l’esaltazione o la paura. Andavamo, dunque, verso il nemico. L’attenzione, dopo una, due ore di attesa, si è smorzata sotto la cappa di polvere di calore e il ronfare dei motori che sembrano pestare in testa oltre che sulla strada. Riconoscevo quei visi quando uscivano dai blindati dopo una lunga tappa, i visi flaccidi negli occhi che sbattevano come dopo una mazzata, sotto gli elmetti da moderni lanzichenecchi.
L’arrivo dei francesi ieri nella sera a Niono: tutti i simboli e le sfaccettature di questa storia. Quando li hanno annunziati, in lunga colonna, davanti i pick-up maliani ad aprire la fila, la via principale iniziava la sua vita sonnambula attorno alle botteghe di frasche, di lamiera e di canne, illuminata da una luce di altri tempi, con le sue viuzze perpendicolari di polvere e immondizia dove lucignoli tremolano in fondo all’Africa eterna. Si spengono a poco a poco i dischi dei venditori di musica, nei caffè semivuoti avventori un po’ accasciati dividono l’attesa tra la partita di Coppa d’Africa e quella dei moderni, liberatori mostri guerra.
Che guerre diverse quelle di questi strani alleati, i maliani e i francesi. I blindati francesi sono alti come cattedrali, trasformano con le ruote in grumi di sangue caprette incaute che traversano la strada. I mezzi dei maliani: quelli hanno strane mimetizzazioni azzurre da sembrare quadri astratti, e ruote bianche come le Cadillac degli Anni 50. Trabondano di pentole, di sedie, di masserizie come se andassero non a una guerra ma a una migrazione. E i volti: i francesi sono vitaminici, allegri, sorridenti; la guerra, questa guerra, si vede bene, non li spaventa, ma li eccita li tenta. I maliani hanno volti tristi, inconfondibili e indimenticabili. Impacciati nelle divise nuove perché sono nuove e nelle vecchie perché sono sporche. È come se ognuno fosse sprofondato nella sua privata amarezza. Ah, che la vittoria rimanga a quelli che la guerra hanno fatto senza amarla.
Abu è un piccolo soldato maliano. Era a Diabaly e mi racconta, con gli occhi bassi, quel giorno: «Sono arrivati alle sei del mattino, i jihadisti. C’erano degli abitanti della città che li avevano informati, sapevano tutto. Che i francesi arrivati per visionare il terreno e preparare le difese se n’erano appena andati. Alle sei si sono infiltrati in città, dappertutto. Erano più numerosi di noi, più armati. Il nostro comandante ci ha detto: scappate, inutile farsi ammazzare. E così abbiamo ripiegato». La sua bocca si sporge in avanti, i sopraccigli si alzano e pare che, strappata la maschera di guerriero, si sveli di colpo la sua anima incurabilmente infantile.
Il tenente francese incaricato di aiutare i giornalisti è una ragazza con i capelli biondi e il viso scaltro del tipo che ti guarda tranquillo dallo sfondo scuro di certi quadri fiamminghi. I suoi occhi azzurri sono pieni di calore e di umorismo quando ti racconta piccole bugie per non farti muovere da alcuna parte «per sicurezza» e nel suo racconto mette altrettanta malizia quanta gaiezza.
Finalmente qualche civile si affaccia. Un anziano ha indossato sul bubu una enorme bandiera francese e grida «Viva Hollande». I francesi sfilano lesti, sorridono, fanno segni di vittoria. La colonna la chiude un’ambulanza, maliana, come nelle corse ciclistiche amatoriali.
Due «rafales» ci sorvolano bassissimi, non più di duecento metri, diretti verso Diabaly. Ah la guerra senza contraerea, senza rischi! Con i suoi baobab ramificati come vene, l’universo mattutino della campagna è pieno e misterioso come un giovane corpo. I contadini alzano appena gli occhi dalla gleba a guardare gli aerei, indifferenti.
Che guerra facciamo qui, che guerra fa la Francia? I colonizzati applaudono i moderni meccanismi omicidi e salutano come «liberatori» i vecchi padroni: liberatori che hanno spolpato per un secolo queste terre, che vivono ancora delle rendite sequestrate a questa miseria. Mettendo gli uni contro gli altri, nordisti e sudisti, neri e tuareg. Un maliano, un maestro, ascolta queste tesi terzomondiste, mi risponde con il silenzio, con simpatia assente, come se contemporaneamente guardasse oltre.
Ora siamo oltre il ponte, Diabaly ci aspetta. Un uomo grosso grida «Viva la Francia»; e poi aggiunge: «Stavolta non limitatevi a cacciarli, sterminateli tutti».

La Stampa 21.1.13
Prove tecniche di teletrasporto
di Piero Bianucci


TELETRASPORTARE UNA PERSONA richiederebbe un tempo 100 volte più lungo di quello trascorso dal Big Bang a oggi

Un sogno da fantascienza, anticipato da Primo Levi, al centro di un libro del fisico Anton Zeilinger: per ora è realizzabile solo in minima parte, in futuro chissà Il fisico autriaco Anton Zeilinger, 67 anni, con il dispositivo laser che usa negli esperimenti di teletrasporto quantistico
La radio teletrasporta i suoni, la tv le immagini. Un apparecchio che teletrasporti cose e persone esiste solo nei film di Star Trek. Non mancano però prove tecniche di teletrasporto. Per ora ci si accontenta di teletrasportare le proprietà della luce (cioè dei fotoni che la costituiscono), in futuro chissà. Già oggi queste ricerche hanno applicazioni che ci riguardano da vicino: possono rendere più sicuri i pagamenti via Internet, darci supercomputer, tutelare la privacy.
Mago di questi esperimenti è il fisico austriaco Anton Zeilinger. Nel 2004 con un laser a fibra ottica è riuscito a teletrasportare le proprietà di alcuni fotoni per 600 metri scavalcando il Danubio attraverso un sottopassaggio dove passano le fogne di
Vienna. Professore all’Università di Vienna, 67 anni, potenziale premio Nobel, Zeilinger sa anche scrivere buona divulgazione. La danza dei fotoni. Da Einstein al teletrasporto quantistico è il suo ultimo libro (Codice Edizioni, pp. 325, € 15,90).
Stiamo parlando di un testo di fisica: chiaro, scorrevole, persino divertente, ma pur sempre adatto a un pubblico con solide conoscenze scientifiche. La cosa curiosa è che alcune intuizioni del teletrasporto hanno nobili radici letterarie che risalgono agli anni 60 del secolo scorso.
Dopo i grandi libri di testimonianza Se questo è un uomo eLa tregua, nel 1966 Primo Levi esordì come narratore puro sotto lo pseudonimo Damiano Malabaila con Storie naturali, una raccolta di 15 racconti. A prima vista sembra un libro di fantascienza. In realtà è molto di più. Il pretesto dei racconti è di solito una trovata tecnologica avveniristica. Ma Primo Levi dà il pretesto per scontato e la fantascienza si ferma lì. Ciò che gli interessa è costruire storie filosofiche e mostrare l’ambiguità di certi progressi tecnologici. Il tutto esercitando il suo speciale umorismo, tanto più efficace quanto più è dissimulato.
Alcune applicazioni del Mimete è una di queste «storie naturali»: nelle sue pagine si prefigura, sia pure indirettamente e su scala locale, nel chiuso di una stanza, un teletrasporto, e più ancora un problema filosofico a esso collegato. Che cosa sia il «Mimete» Primo Levi lo spiega nel racconto precedente: è una macchina per duplicare oggetti, una specie di fotocopiatrice tridimensionale. La duplicazione avviene dentro una scatola sigillata attingendo i materiali necessari da un «pabulum», letteralmente «pascolo», «cibo», «nutrimento«, una sostanza informe che contiene tutte le sostanze esistenti o anche solo possibili.
Gilberto si procura un Mimete di grandi dimensioni e lo usa per duplicare sua moglie Emma. L’operazione riesce perfettamente. Le due donne sono indistinguibili, al punto che Gilberto per non sbagliarsi deve contrassegnare Emma II con un nastro bianco tra i capelli «che le conferiva un aspetto vagamente monacale». Ma, benché identiche, con il passare dei giorni originale e fotocopia un po’ per volta incominciano a differenziarsi, a divergere. Per esempio Emma II si busca un raffreddore. Il guaio è che Gilberto a poco a poco si allontana da Emma I per affezionarsi a Emma II. Come è facile capire, la questione si fa seria. Gilberto però ne esce con un colpo di genio: duplica se stesso, dà come compagno a Emma I la propria fotocopia e lui si unisce felicemente a Emma II.
Quasi mezzo secolo fa questo racconto di Primo Levi sollevava uno dei problemi del teletrasporto: non basta riprodurre a distanza un oggetto (o se volete una persona: tanto fantasticare è gratuito). Perché non si tratti di semplice (semplice?) duplicazione ma di teletrasporto autentico, non deve rimanere traccia dell’originale. Il nuovo originale – paradossalmente – sarà la copia, perché le particelle elementari sono tutte identiche e il teletrasporto non presuppone lo spostamento a distanza di materia, ma soltanto delle informazioni necessarie per assemblare altra materia nel luogo di arrivo. Materia che sarà un insieme di particelle corrispondente al «pabulum» informe immaginato da Primo Levi.
Torniamo a Zeilinger: il suo libro ci spiega come il teletrasporto – anticipato in modo sottile da Primo Levi e più grossolano da Gene Roddenberry, ideatore di Star Trek – sia scientificamente possibile. Il segreto sta nel fenomeno quantistico dell’«entanglement», che possiamo tradurre «intreccio» o correlazione tra particelle, anche lontane tra loro. Tralasciando i particolari tecnici, succede che in determinate condizioni è possibile generare particelle (fotoni, elettroni, protoni o anche nuclei atomici) che condividono una stessa proprietà (per esempio la polarizzazione o lo spin) in modo correlato. È questa proprietà l’«informazione» che caratterizza la particella, e che viene teletrasportata istantaneamente a distanza. Se poi la polarizzazione o lo spin vi sembrano proprietà troppo esotiche, vi sbagliate. Possiamo paragonare lo spin a una rotazione della particella e la polarizzazione si applica negli occhiali da sole: i fotoni che costituiscono la luce vibrano in tutte le direzioni, ma il rivestimento delle lenti lascia passare soltanto i fotoni che vibrano in una direzione precisa.
Quante informazioni servirebbero per riprodurre una persona come ha immaginato Primo Levi? Il calcolo è scoraggiante. Poiché siamo costituiti da 10 alla 28 atomi, ognuno dei quali per essere descritto richiede un centinaio di bit, bisognerebbe rilevare, memorizzare e riprodurre 10 alla 30 bit. Per elaborarli, il più potente calcolatore attuale impiegherebbe un tempo 100 volte più lungo di quello trascorso dal Big Bang a oggi. No, non c’è speranza per il teletrasporto su scala macroscopica alla Primo Levi o alla Star Trek, e quindi non dobbiamo preoccuparci di eventuali duplicazioni. Avremo invece calcolatori quantistici ultrapotenti e tecniche per criptare messaggi, compreso il numero della carta di credito. Non è poco.

Corriere 21.1.13
E la tecnica fondò la modernità
Come la Francia di Napoleone III seppe usare i nuovi materiali
di VIittorio Gregotti


La figura politica e intellettuale di Napoleone III è certamente assai discussa, tanto da essere definita da molti «cesarismo democratico». Figlio di Hortense Beauharnais, nato nel 1808, giovane rivoluzionario in Europa viene espulso dalla Francia, ove rientra nel 1848 e viene eletto presidente della nuova Repubblica. Nel 1851 diviene, con un colpo di Stato, imperatore e resta sino alla sconfitta con la Germania nel 1870. Poi, nuovamente esule, muore in Inghilterra nel 1873.
Eppure sotto il suo regno la Francia, e Parigi in particolare, è protagonista di una eccezionale fase di modernità e, nel nostro caso, proprio anche nel campo dell'urbanistica e dell'architettura. È il ventennio della grande «esposizione universale» del '67, della diffusione delle costruzioni in ghisa e in acciaio (dopo il ventennio della costruzione dei passages all'inizio del secolo), della realizzazione delle Halles di Baltard, di quelle di altri grandi architetti come Hector Horeau o Louis Auguste Boileau, dell'impresa Maison Eiffel fondata nel 1867, della fabbrica di cioccolato di Saulnier del 1869, del museo di Histoire naturelle di Jules André del 1877 e della riforma urbana e infrastrutturale di Eugène Haussmann. Nonché di Viollet-le-Duc, che pubblicherà nel '68 il suo Dictionnaire raisonné de l'architecture française du XI au XVI siècle.
Vale la pena riscoprire queste figure, su alcune delle quali, come Victor Baltard, si è accesa nuova attenzione (si è svolta una mostra al Musée d'Orsay). Baltard visse esattamente negli anni del grande Henri Labrouste, ed ebbe un'analoga carriera professionale e istituzionale. Allievo di Percier, fu maestro di Charles Garnier (che edificò l'Opera di Parigi) e costruì, oltre a molte chiese tra cui quella di St. Augustin, l'Hotel de Ville; ma è soprattutto famoso per la costruzione, tra il 1843 e il '53, delle Halles (purtroppo distrutte nel 1959), della Gare du Nord del '63, e di una riforma del Louvre.
È in questo contesto, oltre che come anticipatore di alcuni ideali del Movimento moderno, che deve essere guardata l'opera di Labrouste, il più importante architetto di quegli anni, a cui è stata di recente dedicata un'altra bellissima mostra (con un importante catalogo) alla Cité de l'architecture et du patrimoine al Palais de Chaillot, in cui le sue qualità di architetto vengono messe in luce.
Labrouste è organico rispetto al suo tempo (era figlio di un deputato dell'assemblea legislativa), un professionista colto, con una precisa carriera di insegnante. Nato nel 1801, entra a diciotto anni come allievo all'Académie des Beaux Arts, vince il Prix de Rome e va a Roma a Villa Medici, rimane in Italia sino al 1829. Importanti e discusse sono le sue proposte di restauro su Paestum (influenzate dalle teorie di Jacques Hittorff sull'uso del colore nel monumento antico). Tra il 1830 e il '35 partecipa a molti concorsi, tra i quali quello delle carceri di Alessandria in Piemonte e dell'ospedale di Losanna.
A partire dal 1830 ha il primo atelier di insegnamento, mentre promuove, insieme con Victor Hugo ed Eugène Delacroix, un rinnovamento delle arti che essi giudicano eccessivamente «accademizzate». Nel 1838, lasciato l'insegnamento, viene incaricato del progetto di quello che sarà il suo capolavoro: la biblioteca di St. Geneviève (oggi biblioteca dell'Università di lettere) che viene iniziata nel '43 e terminata nel 1850. La straordinaria coerenza dell'insieme, dall'impianto complessivo ai dettagli, alla organicità della grande sala di lettura e deposito libri, in cui le strutture metalliche, utilizzate senza alcuna esibizione nonostante la novità tecnica, in modo coerente alla tipologia dell'edificio, costruiscono il capolavoro dell'architettura francese della prima metà del XIX secolo.
Il progetto della «biblioteca pubblica», a partire dal celebre modello della Bibliothèque Royale di Boullée del 1785, sembra essere, nella prima metà del secolo, una specie di atto politico di fede nel progresso della Francia democratica con cui molti architetti si cimentano e che trova la sua realizzazione compiuta nei due progetti di Labrouste, sia di St. Geneviève che in quello, assai più complicato, della risistemazione e completamento della Bibliothèque Nationale, che sarà al centro del suo lavoro tra il 1854 e la fine della vita dell'architetto nel 1875.
In questo secondo caso è soprattutto la complessità spaziale dell'interno delle sale di lettura a costruire un ambiente magico nella sua apparente combinazione tra leggerezza e complessità. Se si pensa al difficile momento di incertezza tra eclettismo e rinnovamento tipologico e strumentale, tra le incertezze prodotte dall'accademismo, alla decadenza del pensiero classico e al desiderio di accedere a un'architettura capace di descrivere i successi dello sviluppo economico industriale della borghesia (una situazione di incertezze che fanno pensare alle difficoltà in cui si muove l'architettura dei nostri anni), la qualità di naturale equilibrio dei due progetti di Labrouste appare miracolosa.
Essa giustifica in pieno la grande influenza che, almeno sulla tipologia della biblioteca, il lavoro di Labrouste ebbe poi negli Stati Uniti sul progetto della biblioteca di Boston di McKim Mead and White, su quello di Richardson e sullo stesso Sullivan, oltre che in Europa sull'architettura dei Paesi Bassi, operata attraverso alcuni dei suoi diretti allievi come Van Dam e Lehman, e sulla biblioteca reale di Stoccolma di George Dahl del 1875.
Le fer tuera la pierre scriveva il giovane Émile Zola nel 1873, entusiasta della modernità. Questo non è affatto avvenuto, anche perché in arte non bisogna mai confondere i mezzi con i fini. Proprio il lavoro di Henri Labrouste dimostra come si possa proporre una grande architettura utilizzando in pieno le possibilità offerte dalle nuove tecniche al fine nobilissimo di mettere in forma compiuta l'idea di un pubblico accesso alla cultura civile.

Corriere 21.1.13
Di destra o di sinistra: quando i numeri sono un'opinione
di Raffaele La Capria


Nel Paese della politica anche i numeri sono politici: il numero uno, il due, il cento, il mille, da che parte stanno? Sono di destra o di sinistra? In matematica la regola sarebbe che «cambiando l'ordine dei fattori il prodotto non cambia». Da noi ogni giorno si fa politica cambiando l'ordine dei fattori, perché ognuno «dà i numeri» a modo suo e come gli conviene per dimostrare la propria tesi. Anche per noi che ascoltiamo confusi dalla girandola dei numeri, delle addizioni e delle sottrazioni che ci vengono proposte, «il risultato non cambia», perché non c'è da parte del cittadino nessuna possibilità di controllare quei numeri. Tra l'altro la fretta con cui ci vengono comunicati rende la cosa impossibile per chiunque, si dovrebbe avere al posto del cervello un calcolatore. Se a dare i numeri è uno di destra, il cittadino pensa che quei numeri servono alla destra, e dunque rimane perplesso e poco convinto. Se uno è di sinistra a dare i numeri per dimostrare la tesi opposta, pensa che quei numeri servono alla sinistra. Insomma non è mai successo, come oggi, che la verità fosse ridotta a una pallina impazzita che rimbalza nella roulette tra il rosso e il nero. Dove si fermerà? Uno dice coi numeri una cosa, un altro coi numeri il contrario. Loro, quelli che danno i numeri, sono gli esperti, ma si contraddicono, obbligandoci a essere soltanto spettatori del loro gioco.
Mai il Paese si era trovato in una condizione simile coi numeri di destra che lottano coi numeri di sinistra. Si dice che la matematica non è un'opinione, ma da noi sì, la matematica è diventata un'opinione. Noi dovremmo essere tutti bravi ragionieri, commercialisti, contabili, amministratori, per capire attraverso i numeri che ci vengono frettolosamente propinati dagli esperti le ragioni degli uni e degli altri, del dare e dell'avere, del rubare e somministrare, della copertura e mancanza di copertura, del debito e del credito, e ancora la percentuale da ricavare, la somma accreditata e quella sottratta, il profitto e la perdita, così via, fino alla perdita di coscienza. Dovremmo trovarci sempre pronti davanti ai conti della spesa, senza nessuna idealità, senza nessun sogno, nessuna speranza di redenzione futura. Numeri e cifre e conti della spesa ci costringono a volar basso.
La verità è che i numeri hanno perso la loro funzione, si è perso il valore che davano alle cose, ai ragionamenti, alle dimostrazioni. E hanno oggi uno strano rapporto con la vita della gente comune, perché si parla di pensioni da 30, 40 mila euro al mese, di appannaggi da 200 mila, di risarcimenti da 500 milioni, di evasioni e ruberie miliardarie. I numeri frullano, ballano, e soprattutto quando si tratta di denaro mal guadagnato, impazziscono, sono numeri che appartengono a un ceto privilegiato, numeri che non ci riguardano. In questo periodo di crisi, quando si conosce la disperazione dei conti che non tornano, si sentono volare nell'aria cifre favolose da mille e una notte.
Quest'uso indecente dei numeri fa perdere di vista la realtà, che diventa astratta come i numeri, e ci conferma che il nostro è un Paese dove la verità non esiste, un Paese senza verità. Non fate dei numeri l'unica forma di comunicazione, perché cominciamo a odiarli i vostri numeri e quel che ci nascondono, non vogliamo più numeri che diventano spread, grafici, dimostrazioni, oroscopi, sondaggi; aspiriamo a qualcosa di più spirituale e alto, che possa sollevarci dalla meschinità di quei conteggi incontrollabili di cui la televisione ci fa fare ogni giorno indigestione.

Repubblica 21.1.13
Guida metafisica alla realtà
Tradotta l’opera del filosofo australiano D. M. Armstrong
di Franca D’Agostini


Un antico aneddoto taoista racconta che un tizio chiese a un saggio: «che cosa è la realtà?», e il saggio rispose dandogli un pugno in faccia. Evidentemente, il saggio aveva due obiettivi. Il primo era segnalare che la realtà è appunto pugni in faccia: è ciò che urta i sensi, la vita, i pensieri degli esseri umani, e su di essa non c’è granché da dire, c’è piuttosto da “sentirla”, e “viverla”, e se è il caso riferirne in modo veritiero. Il secondo era rendere noto al visitatore che la domanda era importuna, se non implicitamente offensiva: tu chiedi «che cosa è la realtà?», ed è come se chiedessi: «con quale bastone picchi tua moglie?».
Ora il saggio era visibilmente un antimetafisico (più che un antirealista), ossia una persona che ritiene che la domanda sulla realtà non abbia risposte teoriche (che non siano ovviamente le risposte particolari ed empiriche della scienza); oppure: che sia una domanda insensata, mal formulata, o di per sé fuorviante (come appunto le domande multiple sottilmente denigratorie: non hanno risposta, e offendono chi le riceve).
La prima posizione è tipica dei neokantiani, e di coloro che ad essi più o meno direttamente si sono ispirati. La seconda è tipica dei neopositivisti, in una certa epoca. Il saggio si era formato presumibilmente a Marburgo, o a Vienna. Il divieto neokantiano e neopositivista di occuparsi di metafisica, ossia di indagare la natura della realtà con strumenti che eccedono quelli della scienza empirica, e di chiedersi come sia fatto, realmente, ciò che chiamiamo “esistente” o “reale”, ha agito pesantemente nella tradizione filosofica, tanto analitica quanto continentale. Tanto è vero che ancora oggi c’è chi associa alla parola “metafisica” l’idea di una ricerca insensata o mistica, che rincorre vanamente la trascendenza e prende sul serio i sogni dei visionari, oppure
vuole sostituirsi alla scienza nell’indagare i fenomeni.
Ma da alcuni decenni è in atto una controtendenza, specie nella filosofia analitica, dove la metafisica, di nome e di fatto, è decisamente rifiorita. In Italia ne ha dato conto Achille Varzi, in varie opere, e in modo definitivo con la raccolta Metafisica. Classici contemporanei (Laterza, 2008). Qui si vede bene anzitutto che la metafisica contemporanea ha trovato negli strumenti della logica moderna (proprio quelli elaborati dalla tradizione nominalmente più antimetafisica) nuove risorse di metodo: tanto che si potrebbe parlare di una vera e propria “rinascita della metafisica dallo spirito della logica”. E si vede bene anche che la scienza non è una rivale della ricerca filosofica sul reale, ma anzi, oggi come sempre, ha bisogno di metafisica, ossia riflessione critica sui concetti fondamentali di cui si serve (tempo, spazio, causalità, movimento, ecc.).
Un contributo importante al metaphysical turn è stato offerto dal realismo australiano, una prospettiva che inizia a profilarsi negli anni Settanta dello scorso secolo, e il cui massimo esponente è David Malet Armstrong. Nato a Melbourne nel 1926, e autore di opere straordinariamente influenti, Armstrong è piuttosto noto in Italia tra i filosofi, ma ad oggi non esistevano traduzioni italiane dei suoi libri. Va dunque accolta con favore la pubblicazione delle principali opere metafisiche di Armstrong, tradotte da Annabella d’Alatri, con il titolo complessivo Ritorno alla metafisica (Bompiani, pagg. 2016, euro 40).
L’edizione comprende i due volumi del 1978 sul realismo scientifico, in cui l’autore con una mossa per allora sorprendente mostrava che la scienza non soltanto non è contraria all’esistenza di entità universali, vale a dire le proprietà delle cose, come “rosso”, “alto 6 metri”, “ruvido” (le quali sono condivise da tutti i rossi, o alti 6 metri, o ruvidi, che ci capita di incontrare), ma addirittura lavora con gli universali, studiandone i rapporti ed esprimendo questi ultimi nelle formule delle leggi di natura.
Le tesi sono riprese poi nelle opere successive, e la raccolta include anche What is a Law of Nature?, del 1983, A World of States of Affairs, del 1997, e Truth and Truthmakers, del 2004. (Mancano solo Universals del 1989 e Sketch for a Systematic Metaphysics, del 2010). È particolarmente felice la decisione di includere il testo a fronte, perché il lettore possa apprezzare lo stile di Armstrong: stile tipicamente “australiano”, per la natura diretta, risoluta, e argomentativamente stringente. Di fronte all’importuna domanda «che cosa è la» realtà? », la risposta di Armstrong è di aristotelica semplicità: la realtà è fatta di “stati di cose”, ovvero combinazioni di entità particolari con le loro proprietà universali. Gli stati di cose, o fatti, sono ciò che rende vero (o falso) quel che diciamo.
Troppo semplice? Solo in apparenza: le implicazioni di questo ritorno in grande stile di Aristotele sono inaspettate, e di importanza cruciale. D’altra parte, come sosteneva un altro metafisico contemporaneo, David K. Lewis, compito dell’analisi filosofica non è complicare le cose, ma rendere ragione della loro semplicità: chiarire perché dall’estrema e aggrovigliata complessità del mondo deriva la nostra straordinaria capacità di conoscere la realtà, e darne conto in modo utile e veritiero.

Repubblica 21.1.13
Filosofia della Storia o Teatro dell’Arte?
di Mario Pirani


UN TEMPO, non poi così lontano, le scuole politiche si contendevano l’interpretazione dei fatti e dei pensieri: materialisti e idealisti, empirici e illuministi detenevano cattedre come trincee donde muovere all’assalto o a difesa di azioni non sempre cruente ma che talvolta sfociavano in bellici confronti, all’interno degli Stati o fra nazionalismi ribollenti lungo le frontiere.
La democrazia, laddove prevalse, impose regole per chi vinceva e per chi perdeva. La scansione tra gli uni e gli altri assumeva, ad opera degli intellettuali di opposta parte, un significato che dava un senso generale alle storie che gli uomini andavan costruendo, le militanze si nobilitavano in ideologie, talvolta si sublimavano in filosofie della Storia. Allo svolgersi degli eventi del passato, del presente, del futuro previsto e/o auspicato, venivano imposti aggettivi che ne qualificavano la natura sulla base dei punti di vista. Così “fascista”, “demo-plutocratico”, “nazionalista” “cosmopolita”, “illuminista” assumeva un significato diverso o opposto a seconda di chi lo pronunciava. Anche questo aiutava la comprensione del racconto storico o della qualifica politica. I tempi attuali furono accompagnati da dialettiche più incerte con il disgregarsi dell’impero sovietico e dell’ideologia socialista; come anche con l’emergere degli Stati del Terzo mondo. La risistemazione geopolitica dei continenti non è ancora compiuta. Anche la vecchia Europa ha mutato i suoi profili e confuso i significati di appartenenza. Le nuove mappe politiche non sono ancora tracciabili. Le mescolanze sono prive di senso.
Le crisi emettono dissonanze intraducibili. Quale buon traduttore, infatti, si attaglierebbe a interpretare la nostra, che è giunta persino a mettere in forse l’italica aggettivazione per preferirgli la padanica? L’anno appena trascorso parve infine ordinarsi attorno ad un governo tecnico, orchestrato da un saggio di diritto cattedratico di durata annua. Il singolarissimo personaggio che fino allora per alcuni lustri ne aveva disordinatamente ricoperto con inappropriatezza palese i ruoli, immemore di antiche
regole, si risolse al ritiro con generale sollievo. Il Presidente, detentore degli ultimi simboli del Potere, seppe tradurli in un progetto di riordino condiviso, ad eccezione delle masnade popu-liste, ognor più irresponsabili. Un lampo di Ragione parve, comunque, prevalere ma ne fu breve la durata. Il Cattedratico, che tutti davano come prossimo inquilino del Quirinale, contro ogni attesa, subì l’improvvisa attrazione per la politica in proprio, con nome e cognome, come usa oggi. Tirò fuori un programma, simile ad altri, ma soprattutto si dichiarò pronto a vidimare eventuali sodali decisi a rappresentare, con accorti disegni scenici, la fino allora dispersa borghesia dei buoni tempi andati.
L’ultima scena, ancora imprevedibile, dovrebbe svelarsi il giorno delle elezioni. Gli incerti agglomerati tendono a darsi un logo o un nome d’arte, magari da suddividersi in condominio, ad esempio promettendosi un prossimo riaccostamento fra chi si era disaccortamente allontanato (montiani e bersaniani?). Di fronte alla stanchezza del pubblico si fanno avanti nuovi attori e il vociante Grillo è spintonato dal mutante indossatore di costumi vagamente osceni: ieri giudice corsaro all’orizzonte dei Caraibi, oggi travestito in aspirante premier. Il teatro dell’Arte prosegue, come è naturale, senza copione. E senza presumibile finale. Qualche minima indicazione ci è data da letture filosofiche (Le passioni della filosofia, II Ciclo, Italianieuropei, Aut. Vari): “La pietà interrompe l’economia del soggetto, la sua propensione all’accrescimento continuo di sé. Ora cos’è questo ‘accrescimento continuo’ se non un altro nome della pleonèxia platonica? Non è la pleonèxiala radice umana della dismisura? E non è allora fondamentale che il filosofo (Cassano ndr) ci aiuti a riconoscere il tragico significato antropologico di questa dismisura, per comprendere come sia ardua la sfida che in quelle pagine viene proposta, di immettere nella vita associata dosi robuste di ‘pietà obbligatoria’, per costruire un equilibrio etico-politico che tuteli l’eguaglianza tra gli uomini contro i sistemi dell’egoismo? ”.

Repubblica 21.1.13
Il regista portoghese è influenzato e ha una malattia cardiaca
De Oliveira, 104 anni un altro ricovero in ospedale


LISBONA — Il regista portoghese Manoel de Oliveira, che ha compiuto 104 anni (è nato l’11 dicembre del 1908), è stato nuovamente ricoverato in ospedale ad Oporto per le conseguenze di un’influenza. Lo ha riferito la figlia del regista, Adelaide de Oliveira Trêpa, l’ultima dei quattro figli che Oliveira ha avuto dalla moglie. «I medici hanno deciso di ricoverarlo per una semplice misura precauzionale in seguito alla febbre alta, ma va bene» ha dichiarato la figlia parlando con un giornalista del quotidiano portoghese Publico.
Il regista, che soffre di una malattia cardiaca cronica, nell’ultimo anno è stato ricoverato più volte.
Considerato il più importante cineasta portoghese vivente, nonché uno degli autori più significativi della storia del cinema europeo, Manoel de Oliveira è ancora in attività nonostante i suoi guai di salute e l’età decisamente molto avanzata: all’ultima mostra del cinema di Venezia ha presentato un suo cortometraggio Metropole conquistadora, conquistada, mentre (seppur tra mille interruzioni) proseguono le riprese del suo prossimo film, A missa do galo, ispirato a un racconto dell’autore brasiliano Antonio Machado.