martedì 22 gennaio 2013

l’Unità 22.1.13
Il coraggio costituente del Pd
di Alfredo Reichlin


PENSO CHE IL PD VINCERÀ LE ELEZIONI, MA LA CONDIZIONE È CHE IL MESSAGGIO che mandiamo al Paese sia alto e forte. Semplicissimo nella sua drammaticità. Dobbiamo dire meglio che cosa è in gioco. I programmi sono poca cosa se si dimentica che 15 mesi fa eravamo sull’orlo di una autentica catastrofe. Incombeva sull’Italia il seguente rischio: fallimento finanziario dello Stato, fino a mettere in forse il pagamento degli stipendi; inevitabile commissariamento politico del Paese da parte di una autorità straniera.
E inoltre: drastica riduzione del tenore di vita e del tessuto produttivo; ulteriore spaccatura tra Nord e Sud; impotenza del sistema parlamentare a reggere il peso del governo, e, quindi, spinte crescenti verso scorciatoie autoritarie.
Questa era la situazione: qualcosa di paragonabile a una grande slavina che rischiava di travolgere l’intero edificio dell’Italia repubblicana. L’abbiamo fermata, e non sto qui a parlare dei nostri meriti. Ma resta il fatto che le elezioni si svolgono in questo quadro. È vero che lo stiamo dicendo e che da qui partono tutte le nostre proposte sul fisco, sulle riforme dello Stato, sul rilancio dello sviluppo e dell’occupazione. Ma quanto mordono se non diventa più chiara nella sua semplicità drammatica la scelta che sta di fronte agli italiani? Una scelta che certo non è paragonabile a quella che fece la mia generazione mezzo secolo fa (Repubblica o monarchia) ma è in qualche modo anch’essa una scelta costituente. È il problema di come voltare una pagina della nostra storia moderna. Non si tratta solo di chiudere il disastroso decennio berlusconiano. È da più di venti anni che l’Italia perde colpi, non cresce e arretra in tutti i campi. Siamo quindi di fronte al problema di una ricostruzione. Non possiamo più sfuggire alle necessità di ricostruire su nuove basi morali e civili un Paese le cui strutture sia economiche che statali non reggono alla sfida del processo di internazionalizzazione. Al centro di tutto c’è l’Europa. La sfida di non finire ai margini della formazione di una nuova compagine europea. Il che significa che sono cambiati i luoghi del potere e le sue logiche, che sono diventati anacronistici i vecchi blocchi sociali e i vecchi compromessi che hanno finora tenuto insieme il Paese. Se non è qualcosa di simile al problema che si pose all’ex Regno di Napoli all’arrivo dei piemontesi, poco di manca.
Ecco, è il tema delle elezioni. Ed è su questa base che io misuro il ruolo fondamentale del Pd e l’enorme responsabilità che pesa sulle nostre spalle. Stiamo attenti. Questa sfida non è indolore. Metà del Paese non la capisce e la scambia con la cattiveria della signora Merkel, mentre gran parte delle forze dirigenti la temono e in realtà non la vogliono affrontare. Perciò fanno «cabaret». Non c’è nulla da ridere sull’eterno ritorno di Berlusconi. Costui non è solo un vecchio «clown» che ripropone il suo solito repertorio e ripete le «gag» che un tempo facevano ridere. Il consenso costui lo sta ricercando e in parte ritrovando nella contraddizioni e nella difficoltà di questo arduo passaggio storico. È un cinico gioco. Invece di spingere il Paese a ritrovare le sue speranze nelle nuove possibilità di sviluppo che si possono cogliere solo a livello europeo, Berlusconi fa leva sulle rabbie e le sofferenze della povera gente colpita duramente dalla crisi e le mescola con le paure di quei ceti che pensano di difendersi rifugiandosi nel localismo delle piccole patrie, nel populismo e negli egoismi sociali. Ciò mi convince sempre di più che spetta al Pd rappresentare non solo il lavoro dipendente ma quel vasto mondo delle imprese che rischiano e innovano.
Il problema è cruciale. La troppo bassa produttività del «sistema Italia» dipende da molte cose ma, tra queste c’è il peso di un capitalismo senza capitali che si organizza non sul mercato ma nei «salotti buoni» e nelle consorterie e che cerca la produttività nel taglio dei salari. Quando vedo che certi professori rischiano di regalare la Lombardia ai resti del leghismo, con la possibilità che le tre maggiori regioni del Nord possano unirsi in nome della follia di una secessione dall’Italia, viene voglia di rileggere le pagine famose di Gramsci sul «sovversivismo» delle classi dirigenti. Devo confessare certe mie illusioni. Al di là di tutte le riserve, avevo dato un grande significato all’operazione Monti. Lessi (e commentai sull’Unità) l’appassionato appello del prof. Riccardi a tutti i moderati, in nome di una ricostruzione del Paese. Detti grande peso agli appoggi del Vaticano e della Conferenza episcopale e ancora di più all’appoggio esplicito del Partito popolare europeo. Ci siamo, pensai. Ecco che di fronte al collasso anche morale della destra e alla disgregazione del partito di Berlusconi i moderati si impegnano finalmente a costruire anche in Italia una destra di tipo europeo. Ma finora, stando almeno ai sondaggi il risultato è deludente: Monti 15, Berlusconi 26. Dico questo non perché io pensi che Berlusconi vincerà. Ma perché le forze moderate di tipo europeo dovrebbero riflettere molto più seriamente sulle condizioni in cui si svolge la battaglia politica italiana. Quali sono le forze reali in campo? E quindi le alleanze possibili? Basti solo il fatto che la somma dei berlusconiani, dei grillini e di altre frattaglie che sono contro la europeizzazione dell’Italia si avvicina al 50 per cento. È impressionante.
Non c’è, dunque, nessuna esagerazione nel ritenere che il Pd rappresenta oggi il perno di ogni possibile alternativa democratica e che la sua forza è la sola garanzia che il Paese possa uscire dalle sofferenze della crisi e in positivo tornando a pensare a un futuro migliore. Siamo un grande partito di popolo, organizzato, con una larga base sociale anche di giovani, aperto al dialogo e all’ascolto degli altri. Non mi nascondo i nostri limiti e penso che siamo in ritardo rispetto alla necessità di ridefinire tante cose, e tra queste anche un profilo geo-politico dell’Italia di domani. Lo dico perché se noi possiamo tornare contare è perché siamo quella penisola dell’Europa che sta al centro del Mediterraneo e parla al mondo arabo e africano. Penso anche che dobbiamo cominciare ad avere un progetto di società senza di che è impensabile un’uscita dalla crisi di questa economia finanziaria.
Posso però concludere con qualche battuta più superficiale? Trovo ridicolo l’insistente tentativo del prof. Monti di spaventare i bambini dipingendo con orrore Nichi Vendola e Stefano Fassina. Si calmi. Trovo tristissima la decisione dei nostri critici più di sinistra di cancellare ogni parvenza ideologica per presentarsi alle elezioni dietro un simbolo in cui cui campeggia una solo parola: «Ingroia».

Corriere 22.1.13
E Bersani vara la «campagna tartaruga»
Poca tv, sì al «porta a porta», Renzi in campo in sei regioni
di Maria Teresa Meli


ROMA — Sono passati più di dieci giorni da quando Bersani ha pronunciato le fatidiche parole: «Siamo noi del Pd la lepre da inseguire in questa campagna elettorale».
Adesso però sembra che la situazione si sia ribaltata. Berlusconi e Monti la fanno da protagonisti e il leader dei Democrat appare schiacciato nella lotta mediatica tra i due. È un timore, questo, che nutre più di un rappresentante del Pd. Non Bersani, evidentemente. Che non sembra disposto a cambiare l'impostazione della sua campagna per attirare su di sé le luci della ribalta.
I sondaggisti sembrano dargli ragione. Gli esperti del settore, consultati dal Pd, infatti, hanno rivelato come gli italiani non si aspettino nel breve periodo una diminuzione delle tasse o altri «miracoli» del genere. «Quindi — spiega il leader ai suoi — raccontare favole per avere qualche titolo non paga. La mia campagna sembrerà noiosa ma è quella giusta. La gente vuole votare persone affidabili che abbiano idea di come uscire da questa situazione di crisi, non venditori di fumo».
Perciò adesso a ispirare Bersani sembra esserci un altro animale: la tartaruga della favola di Esopo. Sì, proprio quella che riuscì a tagliare il traguardo prima della lepre e che spiegò così la sua vittoria: «Non serve correre, bisogna partire in tempo».
In fondo è quello che dice il segretario quando spiega: «Questa campagna elettorale è l'esito di due anni di lavoro, il Pd è da tempo in marcia. E quando stai vincendo 3 a 0 devi gestire la partita per mantenere il risultato». A dire il vero è anche da più tempo che Bersani pensa a questa campagna: eletto segretario si è capito che già mirava in alto. E con la sua aria sorniona è andato avanti. Ha studiato anche il modo di evitare «l'effetto Unione»: «È una cosa che non si ripeterà mai più», è il suo ritornello. Per questo motivo ha deciso di limitare al massimo le uscite pubbliche con gli altri leader dell'Unione: Vendola, Nencini e Tabacci. La foto di gruppo dei big tutti appassionatamente insieme sul palco ricorda troppo la non felice esperienza dell'Unione. Meglio evitare al massimo questo rischio.
Bersani appare dunque tranquillo, eppure i sondaggi danno il Pd in costante calo. Secondo i dati diffusi ieri da Enrico Mentana al telegiornale de La7 il Pd si è attestato al 31,8 per cento, perdendo lo 0,6 in una settimana. Ma nemmeno questo dato sembra preoccupare il segretario: «Dopo le primarie per il candidato premier e per i parlamentari — spiega ai compagni di partito — un calo era fisiologico e prevedibile». Perciò neanche di fronte a questi sondaggi Bersani intensificherà la sua presenza mediatica che rispetto a quella di Monti e Berlusconi è di gran lunga più contenuta. Né tantomeno cercherà il confronto con il leader del Pdl: «Berlusconi — è il ragionamento del segretario — vuole a tutti i costi la rissa televisiva per evitare di parlare di programmi e di cose serie. Anche Monti in fondo punta molto alla propaganda. Noi no: noi vogliamo contrapporre a tutto questo il Paese reale». Con i suoi problemi, «ma anche — sottolineano dallo staff del leader — con le sue speranze».
Si, ecco, l'unica svolta, se così si può dire, di Bersani sarà quella di porre l'accento «sul futuro e sulla fiducia di farcela». Insomma, meno toni bui, come quelli dei manifesti che campeggiano da qualche giorno con la faccia non troppo ilare del segretario. Poi ci saranno gli spot nei cinema, ma non ne sarà il segretario il protagonista. E ancora, lontano dalle luci dei riflettori e dalle telecamere, in tre regioni chiave come Sicilia, Campania e Lombardia migliaia di volontari — quelli che si sono mobilitati per le primarie ma non solo loro — hanno cominciato il loro porta a porta, come si faceva ai tempi del Pci.
La cosa strana è che Matteo Renzi, che caratterialmente, culturalmente e politicamente è agli antipodi di Bersani sembra dare ragione al modo di agire del segretario: «Lui ha sempre giocato di rimessa, mandando gli altri avanti, e ha vinto, anche nelle primarie, perché non dovrebbe riuscirgli questa volta?».
Certo, si presenta in una veste insolita il sindaco di Firenze, ma per ora ha scelto questo stile: «Io sono a disposizione. E nessuno un domani potrà dire che non ho fatto per questa campagna tutto quello che potevo fare». Perciò Renzi farà tappa in Lombardia, Emilia, Veneto, Sicilia, Piemonte, e ovviamente, nella sua Toscana.
Bersani apprezza e si improvvisa c.t.: D'Alema gioca contro Monti, Vendola contro Ingroia e Renzi attrae voti che il segretario non riuscirebbe a ottenere. Perché, nonostante ostenti tranquillità, il segretario mantiene la testa sulle spalle: «Questa non sarà una campagna facile».

l’Unità 22.1.13
Così le liste Ingroia aiutano il Cav
di Simone Collini


Tutti i sondaggi sono concordi nel ritenere decisivi i voti di Rivoluzione civile in eventuali vittorie regionali del centrodestra
Finocchiaro: «Chi vuole evitare il ritorno a un passato sciagurato dovrebbe riflettere»

Per capire il motivo dell’insistenza del Pd sul voto utile bisogna dare un’occhiata ai sondaggi riguardanti le regioni che il centrosinistra deve conquistare per avere la maggioranza sia alla Camera (dove la vittoria e il relativo premio di maggioranza del 55% dei seggi sono assicurati) che al Senato.
Il centrodestra è avanti in Lombardia e Veneto, per la maggior parte degli istituti demoscopici, tra i 2 e i 4 punti percentuali, mentre per Ipr nella prima regione è di poco avanti il centrosinistra. In Sicilia la coalizione di Berlusconi è in vantaggio di un solo punto. Alcuni sondaggisti mettono tra le regioni in bilico anche la Campania, dove il centrosinistra è avanti tra 3,5 e i 5 punti (si tratta di ricerche effettuate prima dell’esclusione di Nicola Cosentino dalle liste del Pdl) e la Puglia, dove l’alleanza tra Pd, Sel, Psi e Centro democratico è in vantaggio rispetto a Pdl, Lega, Destra e Fratelli d’Italia di circa 4 punti percentuali.
Tutto ciò, mentre la lista arancione di Antonio Ingroia viene data in Lombardia, Veneto e Sicilia tra il 4 e il 5,5%, cioè nettamente al di sotto della soglia di sbarramento (che per le liste non coalizionate a Palazzo Madama è fissata all’8%) necessaria per ottenere seggi. I voti incassati dalla lista Rivoluzione civile, se nelle urne venissero confermati i sondaggi realizzati in queste settimane, sarebbero quindi ripartiti proporzionalmente tra tutti i partiti che abbiano invece raggiunto la soglia.
Per avere la maggioranza al Senato, il centrosinistra deve vincere in almeno due delle regioni chiave, e cioè Lombardia (dove il premio di maggioranza è di 27 seggi sui 49 totali), Campania (16 su 29), Veneto e Sicilia (rispettivamente 14 su 24 e 14 su 25). In caso di vittoria in Lombardia, Campania e Sicilia, l’alleanza tra Pd, Sel, Psi e Centro democratico potrebbe contare nella prossima legislatura su una maggioranza solida, cioè 178 su 315 seggi. In caso di sconfitta in Lombardia e vittoria in Campania e Sicilia la maggioranza scenderebbe a 164 seggi. Un risultato peggiore non consentirebbe invece al centrosinistra di avere i 158 seggi di maggioranza. Un quadro completo della situazione l’ha fornito Renato Mannheimer sul Corriere della Sera di ieri, ma gli scenari non cambiano molto se si consultano i sondaggi effettuati negli ultimi giorni da Swg, Tecnè, Euromedia research, Lorien Consulting.
Quest’ultimo per esempio fotografa un pareggio in Lombardia tra centrodestra e centrosinistra (entrambi al 31,5%) con Rivoluzione civile al 4%, e dà l’asse Pdl-Lega in vantaggio soltanto in Sicilia (grazie al 6,5% di Grande sud), con Ingroia al 6%. Sempre per quel che riguarda la Lombardia, Euromedia research dà il centrodestra al 35,4%, contro il 35,2% del centrosinistra, con rivoluzione civile al 3,6%. Scarto altrettanto esiguo è stato rilevato dalla Swg per il Veneto. E un sondaggio della Ipr diffuso ieri sera dal Tg3 ha mostrato che il centrosinistra è in vantaggio, seppur di poco, anche in Lombardia e Sicilia. Anche se, come emerge da ogni rilevazione, la quota degli indecisi è ancora troppo alta (attorno al 30%) per poter tirare il fiato.
E allora si capisce perché il Pd insista sul tasto del voto utile. Dario Franceschini guarda ai sondaggi e dice che «dimostrano che nelle regioni in bilico la lista Ingroia fa vincere la destra» e che «per questo non va sprecato un solo voto». Anna Finocchiaro attira l’attenzione sull’attuale legge elettorale, definita per ammissione del suo stesso autore, il leghista Roberto Calderoli, una «legge porcata». Era servita a impedire a Romano Prodi di avere la maggioranza a Palazzo Madama nel 2006, e oggi si conferma buona per tentare di azzoppare la vittoria di Pier Luigi Bersani. «Noi lavoriamo per vincere dappertutto ma, effettivamente, il Porcellum è una sciagura perché punta all’ingovernabilità al Senato», dice Finocchiaro. «Il nostro Ohio saranno la Lombardia, la Campania, la Sicilia e il Veneto. Le forze autenticamente responsabili, e che per davvero vogliono evitare il ritorno al passato di un ennesimo governo Berlusconi-Lega, dovrebbero riflettere». Un discorso che, dice la capolista del Pd in Puglia per il Senato, vale «anche per le liste di Monti». Anche se, riconosce la stessa Finocchiaro, un conto è una lista che supera abbondantemente l’8%, un conto liste che «non raggiungono il quorum ma regalano alla destra, con la loro presenza, un insperato successo».

Repubblica 22.1.13
Lo strano derby tra il pm e Nichi in ballo il tesoretto della sinistra
Rc e Sel ai ferri corti. “Ideali svenduti”. “Marketing politico”
di Goffredo De Marchis


ROMA — «Mi sono imposto un atteggiamento zen». Ma quanto durerà? Ogni mattina Nichi Vendola guarda i sondaggi e legge le dichiarazioni dei rappresentanti di Rivoluzione civile. Non sono positivi né i primi né le seconde. Ma delle rilevazioni, che registrano minimi cali per Sel e leggeri aumenti di Ingroia, non si fida. Le parole degli Arancioni invece sono importanti e lasciano intravedere a breve l’inizio della guerra a sinistra. «Rivoluzione civile è solo un movimento di testimonianza». «Sono contro la commissione d’inchiesta su Genova, contro il reato di tortura, contro le targhette di riconoscimento dei poliziotti.
Questa non è sinistra, è solo giustizialismo ». «Nel giorno in cui Cosentino resta fuori dalle liste del Pdl, Vendola evoca la camorra e il sindaco di Napoli De Magistris che fa? Preferisce attaccare Nichi ». Ecco le mille voci registrate dentro Sinistra ecologia e libertà. I primi segnali di un duello.
Vendola non vuole attaccare direttamente Ingroia. Aspetta che vengano fuori i veri azionisti di maggioranza della lista: Di Pietro, Ferrero, Diliberto, Bonelli. «Allora si vedrà quanto vecchiume c’è dietro l’operazione di marketing incarnata dal pm palermitano». Ingroia invece ha aperto il fronte, attaccando direttamente il governatore pugliese. Il leader di Sel non ha intenzione di seguirlo su questo terreno. Per il momento. Proverà, nei prossimi giorni, a verificare se funziona la formula di appiccare a Rc l’etichetta della testimonianza sterile, inutile. «Proponiamo una legge sulla cittadinanza simile a quella di Ingroia — spiega Nicola Fratojanni, braccio destro di Vendola e candidato in Puglia — . Vogliamo andare al governo per farla diventare realtà. Noi ci possiamo riuscire, Rivoluzione civile no. Quale voto pesa di più?». Gennaro Migliore garantisce che mai da Sel arriverà un richiamo al voto utile: «Conosco troppo bene la tragedia di quest’operazione per usarla contro qualcun altro», dice ricordando il dramma della lista Arcobaleno nel 2008. Ma la sostanza è quella. Chiosa Vendola: «Io voglio vincere le elezioni e portare al governo il centrosinistra. Ingroia dà una mano? Da che parte sta?».
È una domanda retorica. Perché la risposta del governatore e di Bersani è già molto chiara: Ingroia, Di Pietro, Ferrero, se ostacolano il centrosinistra, lavorano per far vincere la destra. Così lo scontro è destinato ad accendersi. A far emergere, ancora una volta, il vecchio vizio della sinistra italiana: contrastare e togliere voti a chi ti sta accanto lasciando spazio e consensi a chi sta lontano. Per questo Vendola preferisce non indossare l’armatura. Ma dall’altra parte l’obiettivo è proprio quello: la sfida senza esclusione di colpi nello stesso campo.
Sul suo blog Di Pietro ha inaugurato un nuove genere letterario: le lettere a Nichi. Ne ha già scritte due. Con la prima ha menato fendenti: «Hai svenduto i nostri ideali ». Con la seconda, pubblicata domenica, ha corretto il tiro: «So che terrai alta la bandiera del centrosinistra ». E al 24 febbraio manca un mese. Roberto Natale, capolista al Senato in Umbria per Sel, non ha dubbi: «Si confrontano due visioni storiche della sinistra: quella di pura testimonianza e quella di governo ». Ma i sondaggi dimostrano che la prima versione ha ancora un suo appeal. Migliore non è d’accordo: «Ingroia recupera il voto dell’Idv crollato dopo la puntata di Report sulle case di Di Pietro e tiene i voti della Federazione della sinistra. Non c’è travaso con i nostri consensi, siamo due campi di gioco diversi». Ma Sel non rischia di pagare la linea governativa e l’ipotesi di una futura alleanza con Monti? «Noi vogliamo vincere senza Monti. Dare i voti a Rivoluzione civile invece indebolisce le possibilità del centrosinistra. Quando dice che il pericolo è Monti, Ingroia si ricordi di questo », osserva Fratojanni. Vendola quindi non vuole rendersi più autonomo dal Pd. Anzi, la linea è darsi un profilo di governo ancora più netto. Dopodomani è fissata una conferenza stampa con Bersani. Per presentare tre tappe comuni Pd-Sel: a Milano, Napoli e Roma.

Repubblica 22.1.13
Sfida di Bersani sul voto utile “La coalizione di Ingroia rischia di far vincere la destra”
“Il Cavaliere ha portato l’Italia sugli scogli”
di Silvio Buzzanca


ROMA — «Che sinistra è quella che rischia di fare vincere la destra? ». Pier Luigi Bersani pone lui il quesito a Ilaria D’Amico che lo intervista per Sky. Risponde così alla inevitabile domanda sul rapporto con Antonio Ingroia e il suo movimento. Risponde così al magistrato che aveva chiesto a Nichi Vendola «che sinistra è quella che governa con Monti?». Laconica la controreplica del leader del Rivoluzione civile che su Twitter risponde alla domada del segretario del Pd: «La tua».
Scambio di battute al vetriolo che il leader del Pd declina però subito in modo meno aggressivo, più politico. «Io ho certo idee della sinistra, - spiega Bersani sono riformista e se non c'è il tema del governo non è sinistra, Così come la legalità intesa nel nome di una fazione». Ragionamento che porta senza fronzoli alla porta chiusa per l’ex pm: «Mai dire mai, ma allo stato attuale Ingroia non è nel centrosinistra
riformista».
Ma i voti, anche quei voti, servono per vincere. Non a caso Bersani dice più volte di essere sicuro che questa volta «chi prenderà più voti nel paese governerà sia alla Camera che al Senato». E allora affronta il tema spinoso del voto utile. «Tutti i voti sono utili, - dice - è questione di gusti, tutti gli elettori sono rispettabili, ma se si cerca di battere la destra c'è solo quello di centrosinistra».
Alla fine esce fuori un’intervista dove il leader del Pdl cerca di “ritagliarsi” il ruolo di uomo di governo competente e affidabile. Che non prende impegni eclatanti, ma qualcosa dice. Come sul connubio fra ecologia ed edilizia per rilanciare le attività produttive. O sui diritti civili, dove rilancia la proposta di adottare la legge tedesca che prevede norme sulle coppie di fatto. Anche quelle gay. Parla anche di tasse e Imu, propone di eliminarla fino a 400/500 euro. Evoca le leggi ad personam da cancellare.
Non vuole creare altre polemiche con Monti. Ripete che non capisce le ragioni della sua salita, in campo. E fa anche l’esempio della Lombardia dove il Professore appoggia Albertini invece di Ambrosoli che è espressione autentica della società civile. Battaglia quella lombarda decisiva anche per il Senato. Dove un sondaggio Ipr Marketing per il Tg3 sostiene che il centrosinistra è in vantaggio in Lombardia, Puglia, Sicilia e Campania.
Polemizza con Bersani però Pier Ferdinando Casini che prende spunto dalla sua battuta sul «Monti che guarda la gente dall’alto». Secondo il leader dell’Udc «è una «bella trovata pubblicitaria. Ma la questione è che Monti che dà un immagine di diversità e di verità e deve continuare a darla».
Il leader del Pd parla anche di Berlusconi. «Non è un nemico dice - ma un avversario politico». Sul Cavaliere scherza. Dice che «è un mago, vedi come gli sono cresciuti i capelli...». Aggiunge che «è una personalità negativa, ma in grado di riproporsi con forza». Comunque, conclude Bersani «è il capitano che ha portato la nave sugli scogli». La D’Amico evoca subito Schettino e il segretario del Pd dice: «L’ha detto lei».
Bersani rivendica la “diversità” dal Pdl. Del caso Cosentino dice che «sta tra il grottesco e lo scandaloso. Non è questo un modo per presentare le liste. C’è una distanza stellare da come abbiamo proceduto noi». La D’Amico lo stuzzica anche sugli elettori del Pdl. E Bersani dice di «conoscerne tanti, di credere che «siano brava gente, a posto». Aggiunge però anche che Berlusconi alla fine «ha raccolto anche gli interessi di gente non a posto come quella che conosco io».

Repubblica 22.1.13
Alessandra Moretti: “Ognuno dei due ha il suo stile ma sono molto affiatati. Le primarie? Ho cambiato idea su di lui”
“Renzi determinante nel Centro-Nord Pierluigi lo sa, presto comizi insieme ”
di Simona Poli


Può essere decisivo per convincere chi non ha voglia di andare a votare e gli elettori moderati delusi da Pdl e Lega
Ha dimostrato di rispettare il risultato finale e di avere a cuore il bene del Pd. Deve stare in prima linea

FIRENZE — «Bravo e rispettoso. Renzi si sta dimostrando davvero una grande risorsa. Nelle regioni chiave del centro nord servirà a catturare i voti degli indecisi e, perché no, anche quelli dei delusi di Pdl e Lega». Parole di Alessandra Moretti, uno dei volti nuovi della squadra Bersani, sicuramente il più bello (la chiamano la Carole Bouquet del Pd), che dietro il dolce sorriso nasconde una grinta da militante dura e pura. Trentanove anni, avvocato e vicesindaco di Vicenza, famiglia comunista da sempre, Moretti non è stata per niente tenera con Renzi durante la campagna delle primarie, anzi. Ma ora la musica è cambiata.
Che aspetta Bersani a tirare fuori Renzi dal cilindro? Dopo il pranzo a Roma non si sono più visti.
«Ma si sentono spesso per telefono in questi giorni, stanno fissando le date per fare delle iniziative comuni. Credo che la prima sarà proprio a Firenze».
Sembrava che dovessero farsi vedere insieme dappertutto e invece ancora niente. Tra un mese si vota.
«Per ora hanno preso accordi tra loro, niente di ufficiale. E poi non è mica facile costruire l’agenda di due personalità determinanti del Pd che dovranno partecipare a molti eventi sparsi tra Toscana, Lombardia e Veneto. Saranno insieme là dove il ruolo di Renzi diventa più incisivo che mai. Ci vuole tempo».
Il tempo stringe e ormai tutti si aspettano di vederli in coppia. Avete già studiato la formula del comizio a due voci?
«Non hanno bisogno di studiare, sono già molto affiatati come si è visto quando sono stati fianco a fianco in pubblico, anche se ciascuno dei due ha il proprio stile, si sa. Faranno insieme le iniziative più importanti, hanno un’enorme responsabilità sulle spalle e tutti noi daremo una mano a loro e al successo del Pd. Siamo pancia a terra, concentrati sulla campagna. Renzi ha una funzione essenziale, dovrà dare un contributo decisivo per convincere chi ancora tentenna. Penso a tutti quelli che non hanno voglia di andare a votare, agli elettori moderati smarriti, ai delusi che la scorsa volta scelsero Bossi e Berlusconi».
Renzi a caccia dei voti del centrodestra? Non era per questo che veniva attaccato durante il tour delle primarie? Lei stessa più volte lo ha messo sulla graticola. Ha cambiato idea?
«Le primarie erano una battaglia diversa, in quel contesto eravamo chiamati a scegliere il candidato premier e resto convinta che il migliore fosse Bersani. Però Renzi ha dimostrato non solo di rispettare il risultato finale ma anche di avere a cuore il bene del Pd. Penso che sia una risorsa importante per il partito, uno che deve stare in prima linea, che ha grande senso di responsabilità. Il suo impegno accanto a Bersani dà quel segnale di rinnovamento che il paese si aspetta».
Un incontro nato dallo scontro. Funzionerà?
«Funzionerà nelle regioni in cui Renzi ha avuto i risultati migliori, è lì che adesso il Pd dovrà tirare fuori la capacità di attrarre quel tipo di elettori che in Lombardia e in Veneto avevano riposto speranze nel Pdl e nella Lega. La nostra proposta è quella di un partito affidabile che vuole rinnovare e cambiare l’Italia senza venir meno agli impegni presi in Europa».
Quindi Renzi è per Bersani la famosa marcia in più?
«Diciamo che sono complementari».

l’Unità 22.1.13
L’impotenza della volontà di potenza
di Vincenzo Vitiello

Filosofo

1989-1789: l’anno della caduta del muro di Berlino rinvia all’anno della Dichiarazione dei diritti dell’uomo. Due secoli nei quali s’è «consumata» l’idea che l’uomo sia capace di edificare la propria Città, controllando la violenza del vivere comune con la forza della Ragione.
Ma il 1989 spinge a guardare ben più indietro nel tempo, segnando simbolicamente non la fine della secolarizzazione ma il tramonto della teologia politica, che ha dominato la cultura europea ed occidentale lungo duemilaquattrocento anni di storia. Il tramonto dell’idea che la Città degli uomini, per essere ordinata secondo leggi che valgano per tutti, ha bisogno di un fondamento universale (quale che esso sia, la Ragione o Dio, non a caso spesso identificati).
Tramonto s’è detto, e non fine. Perché, purtroppo la «teologia politica» sopravvive al suo tramonto. E questa sopravvivenza ha prodotto e produce integralismo, fondamentalismo, fanatismo. Tra i seguaci dell’Islam, e non meno tra ebrei e cristiani. Perché è più feroce quel dio che, insicuro della sua potenza, non è in grado di esercitare misericordia sui vinti. Di questa insicurezza del potere, diciamo pure: di questa impotenza del volere e divino e umano il gran teorico è stato proprio il filosofo della volontà di potenza, Nietzsche. Basta leggere la Genealogia della morale, che si apre con l’esaltazione dei forti sui deboli, per chiudersi con l’affermazione che l’uomo, l’animale più malato e perciò il più interessante, preferisce «volere il nulla», piuttosto che «non volere»!
Nietzsche rappresenta al livello teorico più alto la fine del grande tentativo che ha caratterizzato la scienza, la filosofia e la politica dell’età moderna: la congiunzione di sapere e potere. Quella congiunzione che Hegel e poi Marx tenacemente perseguirono, con metodi e mezzi profondamente diversi. Di questa fine noi, oggi, sopportiamo le conseguenze. È bene esserne consapevoli, perché non ci si illuda di superare la crisi politica ed economica che stiamo vivendo con analisi teoriche e strumenti pratici che appartengono al medesimo universo concettuale e operativo che si vuole superare.
Le due crisi hanno un’unica origine: l’impotenza della volontà di potenza. La cosa balza agli occhi in politica, perché se alla mala politica è possibile far fronte con il severo rispetto delle leggi, che viene imposto dal duro esercizio del relativismo giuridico, alla crisi della polis, alla mancanza, cioè, di fondamento e quindi di potere dell’ordinamento giuridico, il relativismo non può sopperire, perché è esso stesso messo in questione. Dico di più: la mala politica si basa proprio sull’impotenza dell’ordinamento giuridico.
Meno evidente l’impotenza della volontà di potenza nell’ambito dell’economia. Qui sembra che sia vero l’esatto contrario: il potere economico è tale che non soltanto sa «volere il nulla», ma riesce a realizzarlo, a dar corpo al nulla. E non faccio qui riferimento alla creazione fittizia di ricchezza fittizia (bond argentini, azioni Parmalat, bolla edilizia, per fare qualche esempio abbastanza noto); mi richiamo a quanto Marx rilevava riguardo alla forza-lavoro nel sistema di produzione capitalistico: la forza-lavoro non è un «bene» in sé; lo è per il contesto produttivo in cui è inserita. È la produzione che crea la forza-lavoro, quella specifica forza-lavoro che il sistema economico richiede. Ma per alimentarsi questo sistema ha bisogno di produrre sempre di più, e per produrre sempre di più, è necessario consumare sempre di più.
La conseguenza è l’inversione del rapporto produzione-consumo. Un processo che la «ragione economica» non domina, essendone dominata. Il «consumo» oltre una certa soglia distrugge la possibilità stessa della «produzione». Basta considerare l’esaurimento delle fonti energetiche, la progressiva distruzione della foresta amazzonica, l’inquinamento atmosferico, l’alterazione dell’ecosistema. E si continua a parlare di «crescita». Ne comprendo le ragioni: bisogna far fronte al grave aumento della disoccupazione, al precariato, all’impoverimento del ceto medio, alla riduzione dei servizi sociali, alla chiusura o al trasferimento all’estero di molte attività industriali, alla pochezza dei fondi pubblici e privati destinati alla ricerca scientifica e tecnlogica, alla conseguente scarsa competitività dell’industria italiana sui mercati internazionali, al mancato investimento di capitali stranieri, etc.
Ma tutto ciò non toglie che il modello della «crescita» è tutto interno al sistema in crisi. Dalla quale si vuole uscire. Come? Limitando i consumi, controllando il flusso demografico, rispettando l’ecosistema in breve: riducendo la produzione di beni e servizi. Si tratta di porsi come compito, e non di accettare come destino, la diminuzione della ricchezza. Di tutti, ovviamente. In questa prospettiva l’«equità» è valore assoluto: il rifiuto della società dei consumi è possibile solo se è condiviso dalla stragrande maggioranza dei cittadini. Compito arduo, sommamente impolitico, ma necessario. Rinviarlo significa soltanto rendere più grave la crisi. O sperare in Dio. Nel dio buono della scienza e della tecnologia moderne. Tanto buono da averci portato in questa crisi.

l’Unità 22.1.13
«Cattolici, prima i valori sociali»
Nota dell’Azione cattolica sul prossimo voto. Nessun collateralismo

Invito
a sostenere chi è coerente con l’aspirazione all’equità e con il rispetto della vita
di Roberto Monteforte


Non c’è l’indicazione di un partito da votare. Non è proprio nel dna dell’Azione cattolica, la principale e la più «ufficiale» tra le associazioni del laicato cattolico. Ma nella «Nota» del consiglio nazionale tenutosi il 18 e 19 gennaio scorsi, dedicata alle prossime elezioni politiche, sono chiarissimi i richiami su scelte e valori che dovrebbero segnare l’agenda del prossimo Parlamento e l’azione del futuro governo. È la chiave per orientare il voto degli elettori cattolici.
Nella Nota che ha per titolo «Abbiamo a cuore il futuro dell’Italia» rivolta ai cattolici, ovunque abbiano deciso di impegnarsi, si dà priorità alle domande di cambiamento indirizzate alla politica e alle istituzioni dalla «gente comune», da chi in questo momento di grande incertezza si misura con una crisi sociale e valoriale gravissima. E si chiede l’avvio di una «nuova stagione».
In tempi di vero o supposto sostegno delle gerarchie ecclesiastiche all’attuale premier, Mario Monti, e al suo schieramento, questo documento si misura con il pluralismo delle opzioni politiche dei credenti. Si vedrà cosa dirà nella sua prolusione al Consiglio permanente della Cei di lunedì 28 gennaio, il presidente dei vescovi italiani, cardinale Angelo Bagnasco, ma intanto la più significativa associazione del laicato cattolico ha detto la sua, tenendosi lontana da ogni collatarelismo.
Non vi un richiamo ideologico ai valori non negoziabili, ma alla dignità della vita da tutelare. Sui «valori di riferimento» cui deve richiamarsi un politico, si esprime la disponibilità, al di fuori di ogni strumentalizzazione, ad «un dialogo sincero tra credenti competenti e non credenti aperti al confronto», che «non consegni il Paese al vuoto relativismo dei valori». Vengono richiamati, infatti, «il primato della persona e il principio della tutela e promozione della vita che impongono, oggi, di porre riparo a diseguaglianze e ingiustizie che la crisi finanziaria ha acuito». In questo quadro, insomma, viene posto il nodo della difesa della vita.
Per l’Azione cattolica la cosa più importante è «ripartire dalle persone». Nella nota viene sottolineata l’emergenza sociale determinata dalla crisi, che si scarica sempre più sui più deboli, sui giovani e sulle famiglie.
È sull’urgenza delle scelte sociali che insiste il documento. Lo fa fissando quattro assi fondamentali su cui costruire il cambiamento: responsabilità, sobrietà, equità e solidarietà. L’Ac chiede che la prossima legislatura coniughi il controllo dei conti pubblici con una diversa e netta rimodulazione delle priorità.
Le indica: «Prima vengono i giovani e le famiglie». Si punti con decisione sull’istruzione e la formazione, si favorisca l’occupazione delle giovani generazioni e delle donne, specie al Sud, si alleggerisca la pressione fiscale sui nuclei numerosi e con neonati, si innovi la rete dei servizi agli anziani e ai più deboli «perché nessuno resti indietro». L’Azione cattolica chiede anche che si dia spazio a politiche di vera integrazione per gli immigrati, anche attraverso un più agevole accesso ai diritti di cittadinanza e che l’Italia sia «ponte di pace verso il Mediterraneo».
Ma soprattutto vi è l’esigenza di far recuperare dignità e autorevolezza alla politica, dando seguito a quelle riforme istituzionali e di «partecipazione politica» non più rinviabili, a partire da quella elettorale «cancellando la vergogna del Porcellum». Si chiedono «interventi profondi per superare il bicameralismo perfetto, velocizzare l’iter legislativo, riorganizzare la presenza dello Stato sul territorio, snellire in modo drastico gli enti intermedi, chiarire funzioni e risorse di regioni e comuni». Ma l’Azione cattolica chiede soprattutto un «cambiamento strutturale nello stile di chi presta un servizio pubblico»: dal limite di mandati parlamentari a regole «ancora più ferree e incisive» per ridurre all’essenziale, e rendere trasparente, il finanziamento dei costi della politica.
L’associazione, presieduta da Franco Miano, invita a non cedere all’astensionismo o alla protesta fine a se stessa. A non cedere alla sterile antipolitica. L’elettore eserciti piuttosto il discernimento, «distinguendo persone e proposte». Scelga in base a questo. Ma senza limitarsi alla delega, perché va rafforzato l’impegno diretto per «il bene comune contro ogni approccio retorico o qualunquista».
Il documento lo sottolinea. Serve uno scatto di corresponsabilità tra cittadini e rappresentanti per «tenere unito il Paese» da Nord a Sud, giovani e adulti, partiti e società civile, «per restituire finalmente all’Italia normalità, pace sociale, sviluppo e benessere, quindi più vita per tutti».

Repubblica 22.1.13
Secondo le stime Cei sarebbero un milione e 700mila, cinquantamila più dei musulmani
Un boom legato alla massiccia presenza rumena. E ora si cerca un’intesa con lo Stato
Il sorpasso degli ortodossi, prima minoranza d’Italia
di Gregorio Romeo


ROMA — Un milione e settecentomila cristiano-ortodossi in Italia. Più dei musulmani, sono ormai la minoranza religiosa più consistente nel nostro Paese. Un boom innescato dall’arrivo di tanti migranti rumeni e rivelato dal fiorire delle chiese, molte concesse dalle diocesi cattoliche: oggi ce ne sono più di 300 sparse per la Penisola. «La crescita esponenziale degli ortodossi è il dato più rilevante degli ultimi anni», conferma don Gino Battaglia, direttore dell’Ufficio nazionale per il dialogo della Cei. «Anche se l’ultimo dato disponibile, il Dossier Caritas-Migrantes del 2012, riferito però all’anno 2011, dà i musulmani in leggero vantaggio, possiamo dire che sulla base dei recentissimi flussi migratori il sorpasso è ormai avvenuto». In Italia ci sarebbero dunque 50mila ortodossi in più rispetto ai fedeli dell’Islam.
La crescita si è impennata nel 2007, da quando la Romania è entrata in Europa. Oggi i rumeni (quasi un quinto dei 5 milioni di immigrati) sono la comunità straniera più consistente nel nostro Paese. «Facciamo parte della stessa famiglia cristiana. Anche il dialogo ecumenico, con la conoscenza reciproca, si è arricchito», spiega Monsignor Siluan Span, vescovo della diocesi italiana della Chiesa rumena. Al punto da registrare diverse conversioni, anche per via dei matrimoni misti. Ma c’è di più: «Stiamo lavorando per arrivare a un accordo formale con l’Italia».
Il punto delle intese con lo Stato resta il nodo centrale. La Diocesi ortodossa romena d’Italia è stata riconosciuta ufficialmente poco più di un anno fa. Questo primo passo giuridico le permette di godere di diverse agevolazioni fiscali, ma non comprende ancora un’intesa che la faccia accedere all’otto per mille. Come invece già avverrà dal 2014 per l’Arcidiocesi ortodossa d’Italia, che fa capo al patriarcato di Costantinopoli e ha
solide nel nostro Paese. Quanto all’insegnamento nelle scuole il vescovo Siluan ha già presentato tutte le pratiche necessarie al riconoscimento: «Per ora consigliamo ai nostri bambini di frequentare l’ora di religione cattolica, ma sarebbe giusto che imparassero i dettami della nostra confessione».
Al di là del caso degli ortodossi rumeni, per il teologo Brunetto Salvarani la questione resta complessa. «Tutte le minoranze in Italia stanno crescendo, senza però trovare un interlocutore che risponda alle loro esigenze di spazi e rappresentatività».

Repubblica 22.1.13
I diritti civili
Scomparsi o relegati in fondo alla lista. È una campagna elettorale che vira tutta sulle emergenze economiche
Eppure certe questioni sono la cartina di tornasole dell’arretratezza italiana, che ci allontanano dall’Europa
di Giovanna Casadio


Scomparsi o relegati in fondo alla lista. È una campagna elettorale che vira tutta su lavoro, Imu, fisco e integrazione europea per le emergenze economiche. Di unioni gay (la legge sulle coppie di fatto, i Dico, è naufragata con la caduta del governo Prodi nel 2008), di norme sul fine vita (l’ultimo tentativo nei mesi del “caso Englaro” nel 2009), di come cambiare la legge sulla fecondazione assistita (già modificata di fatto dalla
sentenze della Consulta) si parla poco o niente. Solo per qualche polemica tra i leader. Eppure sono la cartina di tornasole dell’arretratezza italiana, che ci allontana dall’Europa. Monti intende lasciarli al Parlamento e al voto secondo coscienza. Berlusconi e il Pdl chiudono. Il centrosinistra di Bersani ne fa però una bandiera. Soprattutto della legge sulla cittadinanza ai figli di immigrati. Su questo sono d’accordo i montiani.

Il Centrosinistra
Cittadinanza ai figli d’immigrati, vicini montiani e democratici
Fecondazione, fine vita e unioni gay partiti agli antipodi sui temi etici
Coppie di fatto e nazionalità già nei primi cento giorni di governo

VENDOLA ha assicurato che non tirerà per la giacca Bersani, candidato premier del centrosinistra e capo della coalizione dei Progressisti. Anche se il leader di Sel vorrebbe i matrimoni gay e le adozioni, e l’ha raccontato partendo dalla sua storia personale, la mediazione raggiunta nel centrosinistra è: partnership modello tedesco, no alle adozioni per le coppie omosessuali. Paola Concia, leader lesbo-gay, parlamentare democratica ricandidata, ironizza: «Voglio vedere Monti non votare il modello tedesco, lo faccio chiamare dalla sua amica Merkel...». Bersani ha anche detto che nei primi cento giorni del governo di centrosinistra i provvedimenti riguarderanno lavoro, norme anticorruzione e conflitto d’interessi, ma anche ai bimbi figli di immigrati e coppie di fatto. Il centrosinistra ha dedicato un capitolo del suo programma proprio al tema dei diritti civili. E il riferimento è alla Carta dei diritti fondamentali dell’Europa e al Piano Ue contro le discriminazioni. Sono previste, tra l’altro, modifiche alla legge sulla fecondazione assistita; una legge sul fine vita. Sono piuttosto gli ingroiani di “Rivoluzione civile” a proporre matrimonio gay e adozioni, la pillola del giorno dopo, piena libertà di ricerca scientifica. Attenzione a parte, va al capitolo carceri. Il centrosinistra di Bersani non è per l’amnistia, ma per svuotare le carceri rilanciando le pene alternative, abolendo l’ex Cirielli, modificando la Fini-Giovanardi sui tossicodipendenti in carcere.
Nella carta degli intenti di Pd e Sel la cittadinanza italiani ai bimbi figli di immigrati è la prima norma
COPPIE DI FATTO
Il centrosinistra è arrivato al compromesso: partnership modello tedesco
FINE VITA
Nella carta degli intenti del centrosinistra è prevista la legge sul testamento biologico
CARCERI
Pene alternative abolizione ex Cirielli Fini-Giovanardi modificata. No amnistia

I Montiani
I cattolici dell’Udc frenano pesa “l’infortunio” De Giorgi
CITTADINANZA
NELL’AGENDA Monti non c’è un capitolo sui diritti civili, si parla solo della ai bimbi figli di immigrati, che è del resto una delle battaglie della Comunità di Sant’Egidio, fondata dal ministro Andrea Riccardi e il cui portavoce Mario Marazziti è capolista dei montiani nel Lazio. Andrea Olivero, ex presidente Acli, candidato in Piemonte da “Scelta civica”, spiega che «non sono del resto questi i temi rispetto ai quali ci siamo ritrovati come lista». Il professor Monti è un credente che ha sempre rivendicato la propria laicità. Ma nella sua coalizione ci sono i cattolici dell’Udc di Casini che di aperture alle coppie gay e alle unioni civili non vogliono sentire parlare, sono disposti a riconoscere diritti individuali delle coppie di fatto. Nella lista montiana era stato candidato Alessio De Giorgi, gay, cooptato dall’ex democratico Pietro Ichino. Ma per ragioni di «opportunità», dopo alcune foto e riferimenti a siti hard, De Giorgi è stato convinto a ritirarsi. Olivero ammette che era in lista proprio per indicare il segnale di apertura. Monti ha dichiarato che «il matrimonio è tra uomo e donna, no ai matrimoni gay». Di testamento biologico, modifiche alla legge sulla provetta sarà il nuovo Parlamento a occuparsi. Sull’amnistia: il Professore ha riconosciuto l’importanza della battaglia per le carceri dei Radicali e di Pannella, però solo dopo una riforma della giustizia i montiani pensano a una discussione su un provvedimento di clemenza.
È l’unico punto nell’agenda di Monti. Marazziti (comunità Sant’Egidio) ne è testimonial
COPPIE DI FATTO
No ai matrimoni gay e alle adozioni. Monti: “Il matrimonio è tra uomo e donna”
FINE VITA
Tema da lasciare al dibattito parlamentare e alla libertà di coscienza al momento del voto
CARCERI
Prima riforma della giustizia poi un provvedimento di clemenza

Il Centrodestra
Il Cavaliere chiude su tutto ha vinto la linea dei falchi
CITTADINANZA
BERLUSCONI sembrava disposto a un’apertura sulle coppie di fatto incluse quelle gay. Ma sotto il fuoco di fila di Maurizio Sacconi, Eugenia Roccella, Gaetano Quagliariello e altri pidiellini è corso subito ai ripari: «No, niente nozze gay assolutamente. C’è stato un fraintendimento. Ho ricordato solo che abbiamo presentato un disegno di legge, a prima firma Giovanardi, per il riconoscimento dei diritti delle coppie di fatto anche quelle tra fratello e sorella oppure parroco e perpetua». Niente da fare quindi nel programma del centrodestra. Non previsto il testamento biologico su cui, nei giorni della morte di Eluana Englaro, il 9 febbraio 2009, il Pdl sferrò un attacco furibondo in Senato contro il centrosinistra. Chiusura totale alle modifiche della legge sulla fecondazione assistita. Roccella, sottosegretario alla Salute del governo Berlusconi, ha rivendicato la piena sintonia solo del Pdl con Benedetto XVI. Sulle carceri: negli ultimi mesi di governo Berlusconi era stato varato un piano per aumentare la capienza delle carceri, e istruiti alcuni appalti per trasformare gli ambienti comuni in aree di reclusione. Era stato anche ipotizzato dal centrodestra un fine pena ai domiciliari. No anche sullo “ius soli” (al posto del vigente “ius sanguinis”), per la ai bambini figli di immigrati nati in Italia, la Lega non ne vuole sentire parlare.
Chiusura sui diritti agli immigrati. Berlusconi: “La sinistra vuole aprire le frontiere agli immigrati irregolari”
COPPIE DI FATTO
No matrimoni gay, no adozioni ma riconoscimento dei diritti civili
FINE VITA
Non è prevista una legge sul testamento biologico ma sì a norme anti eutanasia
CARCERI
Più carceri: questa la filosofia alla base di un piano per nuove carceri. Fini pena ai domicialiari

l’Unità 22.1.13
Una storia collettiva per raccontare chi era Lucio Magri
Oggi a Roma viene presentato il libro con i suoi scritti e quelli di Castellina, Garzia, Anderson e Crucianelli
di Bruno Gravagnuolo


GIRAVA UNA LEGGENDA MALEVOLA SU LUCIO MAGRI A FINE ANNI SESSANTA Leggenda un po’ bugiarda e riduttiva, accredidata dall’alto del Pci. L’idea che quel quadro intellettuale, ex Dc di sinistra e cacciato da Fanfani a metà anni 50 fu segretario nazionale dei giovani dc fosse solo un rompiscatole «acchiappa farfalle». Che fa Magri? Chiedemmo una volta ad un autorevole dirigente. Risposta: «Sta studiando il Capitale....». Come a dire: è una vita che lo fa e senza grandi risultati. Ma era il 1969, a qualche mese dalla radiazione del gruppo del Manifesto, che si preparava a diventare rivista teorica per il comunismo e poi matrice di un quotidiano che ha segnato giornalismo e politica italiane. Bene, nel vivo dello scontro si può comprendere l’asprezza, ma le cose non stavano affatto come la diceria insinuava. Perché Lucio Magri era un vero intellettuale e autentico quadro militante. Rompiscatole, ma serissimo e consequenziale, malgrado i tratti di narcisismo che gli venivano rimproverati (amori, sport, l’eleganza e prestanza ben coltivate). Quei tratti, atipici nel mondo del comunismo italiano, erano in realtà un segno di coerenza e di vitalità. Il segno della capacità di reinvestire continuamente le energie e di pensare e far pensare in gruppo, con relazioni forti e in amicizia. E senza risentimenti, nel corso delle inevitabili rotture. Dall’avventura del Manifesto a quella del Pdup, al rientro nel Pci del 1984 e all’addio, quando tentò di contrastare la svolta di Occhetto nel 1989, finendo di nuovo battuto e poi in Rifondazione (e battuto anche lì nel 1995).
La lunga premessa è in realtà una conclusione. Quella alla quale siamo giunti dopo aver letto il volume a Magri dedicato, a più di un anno dal suo suicidio in Svizzera (28 novembre 2001). Il libro si intitola Alla ricerca di un altro comunismo. Saggi sulla sinistra italiana (Il Saggiatore, pp. 274, Euro 18,50). È a cura di Luciana Castellina, Famiano Crucianelli e Aldo Garzia e verrà presentato oggi a Roma alle 17, 30 alla Sala delle Colonne di Via Poli 18. Con gli autori vi saranno Miguel Gotor, Maurizio Landini, Mario Tronti e Walter Tocci. Ed è l’occasione per rivivere e rimeditare non solo ruolo e funzione di Lucio Magri nella storia del Pci e del post-Pci, ma tutta la parabola dell’ascesa e declino di quel Pci togliattiano, dall’apogeo alla scomparsa. E nel volume Magri si rivela testimone straordinario, attraverso i suoi saggi teorici a far data dal 1962, e
attraverso una ricca intervista biografica condota da Crucianelli e Garzia. Altro elemento essenziale del volume è il saggio introduttivo di Luciana Castellina, sentimentalmente vicina a Magri in una lunga fase, eppure saggio rigoroso e senza sconti, che fa chiarezza sulle idee e le battaglie di Magri. Dunque, di là del lato esistenziale del protagonista figlio di un aviatore scomparso in guerra e trasferitosi in Libia qual è la sua cifra politica di fondo. Eccola: l’ossessione di far da «ponte» tra partito nuovo togliattiano e movimenti di massa. E poi: l’idea di una transizione ad un’economia e a un sistema «altri» dal capitalismo, partendo dalla dinamica dei bisogni liberati dal neocapitalismo italico degli anni 60. In breve, un’idea di transizione e un’idea di partito-movimento-società. E nella direzione di un radicalismo egemonico gramsciano, a metà tra il Gramsci dei Consigli e quello dei Quaderni del Carcere.
Non erano innocue fantasie teoriche, perché su tutto questo Lucio Magri si gioca letteralmente la vita, dopo essersene giocata un pezzo nella battaglia dossettiana, anti-capitalista e anti-Nato dentro la Dc, da cui fuoriesce e viene allontanato (come Meloni-Fortebraccio, Giuseppe Chiarante e lo stesso Dossetti). E nel Pci lo scontro si fa via via più chiaro, proprio dai primi anni 60 in poi, fino al fatale XI Congresso (dove la sinistra interna viene emarginata) e al XII, dal quale poi verrà fuori la scissione del Manifesto. Tema dello scontro, lo si è accennato, è sempre la «transizione». Da una parte la sinistra ingraiana di cui Magri è «spin doctor» sottotraccia vede nella dinamica del nuovo capitalismo fenomeni dirompenti e fecondi, in grado di sospingere la società oltre i rapporti di produzione vigenti. E i fenomeni Magri li distingue bene fin dal 1962, con un saggio destinato a finire sulla rivista di Sartre, Les temps modernes. Tra di essi: mercificazione totale, finanza globale, massificazione, nuova classe operaia. E tecnica a servizio dell’estrazione di maggior valore dalla forza-lavoro. Dunque, l’avanzamento del capitalismo comandava per Magri lotte nuove e transizione. Sull’altra sponda invece c’è Amendola. No dice il capitalismo italiano è arretrato e va guidato allo sviluppo, «programmato». Con la politica. Su questo si consuma tutto lo scontro, con il 1968 che sembra dar ragione al radicalismo di Magri, il quale si batterà sempre per un’idea di alternativa anti-riformista e anti-estremista. Sarà contro il compromesso storico, ma a favore del fronte della fermezza sul caso Moro. E infine tenterà di far pesare il «no» nella lotta contro Occhetto. Finì diversamente, con una «svolta» inevitabile dopo la caduta del Muro, ma priva di baricentro identitario. E finirà con quelli del no dispersi o all’estrema sinistra. E tra i meriti di questo bel libro c’è anche questo: la critica al fronte del «no». Che rinunciò a ogni battaglia, risultando ininfluente.

l’Unità 22.1.13
Obama: «Il viaggio non è finito»
Il presidente giura a Washington davanti a 800.000 persone
L’appello all’unità del Paese e a una maggiore equità
L’agenda: equilibrio tra deficit e tutela dei servizi, clima, diritti per gli immigrati. «No alla guerra perpetua»
di Marina Mastroluca


Giura per il secondo mandato da presidente, poggiando la mano sulla Bibbia di Lincoln e su quella di Martin Luther King, le sue coordinate su una mappa di valori che lo ha portato fin là, convinto com’è e come ripete che «ciò che ci unisce come nazione non è il colore della nostra pelle né l’origine dei nostri nomi, ma che tutti gli uomini sono creati uguali e hanno diritti inalienabili». Giura, il presidente Obama davanti alle migliaia di persone arrivate a Washington per essere parte della storia, 800.000 rispetto ai quasi due milioni di quattro anni fa.
MENO EMOZIONE
Non c’è lo stesso entusiasmo di allora, il senso di una svolta epocale. Eppure il secondo mandato di Obama sembra per certi versi più importante: il segno che un presidente nero degli Stati Uniti non è stato un incidente del caso. E se allora a pervadere la folla commossa fino alle lacrime era quel «yes we can» che aveva ispirato una campagna elettorale dai toni quasi messianici, oggi le parole di Obama spaziano dal lavoro fatto a quello da fare ancora, senza esitare. «Il nostro viaggio dice non è finito». Non è mai finito il viaggio per affermare diritti che non sono, non possono mai essere questo è il filo conduttore solo di uno o di pochi. «Continuiamo oggi un viaggio senza fine dice Obama e possiamo farcela, finché siamo uniti». Una nazione, un popolo. «We, the people».
L’America del 2013 non è la stessa ereditata quattro anni fa. «Un decennio di guerre è finito, la ripresa economica è cominciata». Si riparte da qui, ma tenendo ferma la bussola sulla necessità di ancorare i principi e i valori della Costituzione alla concreta garanzia di opportunità per tutti. «Crediamo che la prosperità dell’America debba poggiare sulle spalle di una classe media in crescita. Questa generazione di americani è stata messa a dura prova da crisi che hanno rafforzato la nostra resistenza», dice Obama. Nel suo elenco di priorità elenca la necessità di fare dure scelte per ridurre il deficit e i costi della sanità, ma anche un sistema fiscale che garantisca i servizi e la tutela dei più deboli, senza dover scegliere tra vecchi e giovani. «L’impegno che prendiamo gli uni verso gli altri, attraverso Medicare, Medicaid e Social Security non ci rendono una nazione di persone che se ne approfittano, ma ci consentono di correre i rischi che rendono questo Paese grande».
Le telecamere inquadrano la figlia minore del presidente, Sasha, che sbadiglia, mentre lui parla di cose da grandi. Dei grandi temi a cui ancora il suo nuovo mandato. Cita i cambiamenti climatici e l’impegno per le generazioni a venire. Parla di pace e sicurezza che «non richiedono una guerra perpetua», conflitti che aumentano le distanze. «Siamo gli eredi di chi ha vinto la pace, non solo la guerra, di chi ha fatto diventare nemici acerrimi, amici fidati e questa è una lezione che dobbiamo ricordare dice Obama -. Bisogna cercare di risolvere le differenze in modo pacifico».
Tolleranza, opportunità, dignità umana e giustizia: sono questi i principi-guida elencati da Obama, validi tanto per le relazioni tra Paesi come per gli
esseri umani. «La libertà individuale è indistricabilmente legata a quella di tutti», dice il presidente, ricordando che il «nostro viaggio non è finito». Non lo è se non si riconoscono diritti agli immigrati, se alle donne non sarà riconosciuto un salario uguale a quello degli uomini, se le coppie gay non potranno sposarsi: un’agenda per il futuro. «Il nostro viaggio non sarà completo dice ancora Obama fino a quando i nostri bambini, dalle strade di Detroit fino alle tranquille strade di Newtown, non sapranno che sono accuditi, amati e sempre al sicuro dal dolore».
Si può agire, si possono cambiare le cose. «Voi e io», dice Obama, riallacciando un filo diretto ritrovato durante la campagna elettorale, tanto più indispensabile di fronte alle asprezze del Congresso ricordate anche ieri nel suo discorso inaugurale. «Non possiamo confondere l’assolutismo con i principi, sostituire la politica con lo spettacolo, o trattare gli insulti come un dibattito».
Quattro anni fa il discorso di Obama spaziava verso il mondo, tendeva le mani ai nemici, disegnava cambiamenti epocali soprattutto in politica estera. Quella grande speranza che aleggiava allora su Washington e nel mondo sembra aver messo i piedi per terra, senza perdere del tutto i suoi connotati: una speranza fatta di cose più concrete, più facilmente definibili, mentre il mondo sfuma in secondo piano. Così sfuma, fatta la tara agli appelli all’unità di un solo popolo e di un grande Paese, anche l’invito a superare le divisioni politiche tradizionali, a trovare una strada comune. Chris Cillizza, sul Washington Post la riassume così. «Il discorso di Obama in una frase: “Io sono il presidente, rendetevene conto”».

il Fatto 22.1.13
Israele. Il giorno dei falchi
L’ultradestra religiosa verso il trionfo
Netanyahu pronto al governo più estremista di sempre
Pacifisti e palestinesi col fiato sospeso
di C. Car.


La maggioranza dopo il voto sarà quasi certamente con l’asse ancora a destra.

Gerusalemme. Dalle urne potrebbe uscire la parola fine a ogni ipotesi di pace con i palestinesi, l’ultradestra potrebbe infatti portare a casa una maggioranza assoluta di 66 seggi. E a quel punto il nuovo governo di Benjamin Netanyahu avrà il mandato di inasprire, Obama permettendo, tutti i conflitti aperti, da Gaza a Teheran.
Gli israeliani oggi sono chiamati a eleggere i 120 rappresentanti della Knesset. Il sistema proporzionale con sbarramento al 2% non ha mai reso possibile a un singolo partito di ottenere la maggioranza necessaria a governare. Saranno ben 34 in tutto le liste che si troveranno stampate sulle schede gli israeliani, ma solo una quindicina di queste avranno i numeri per ottenere una rappresentanza.
LA VITTORIA dell’ex primo ministro Benjamin Netanyahu è data per certa, anche se bisognerà aspettare lo spoglio dei seggi per capire come sarà formato il nuovo governo e soprattutto se peserà più verso la destra estrema, compromettendo qualsiasi ipotesi di processo di pace con i palestinesi. Il Likud, in lista unica con Yisrael Beytenu del falco Avigdor Lieberman, secondo gli ultimi sondaggi, dovrebbe arrivare a 33-34 seggi, arretrando di una decina di unità rispetto all’attuale parlamento, ma al sicuro in alleanza con la Casa Ebraica e gli altri partitini dell’ultradestra religiosa, dati in crescita da 21 a 33 seggi. E il volto nuovo delle elezioni sarà proprio Naftali Bennet, giovane milionario, che ha preso le redini di Bayit Yehudi, la Casa Ebraica, partito religioso sionista. Bennet dovrebbe riuscire a piazzarsi terzo con 16-15 seggi, a cui ne vanno aggiunti altrettanti degli altri piccoli partiti di ultra destra.
Intanto il Partito laburista va verso l’ennesima sconfitta. Nel novembre del 2011 dopo che Ehud Barak lasciò il partito per fondare una propria compagine politica, esperimento naufragato prima delle elezioni, la leadership è passata nella mani di Shelly Yachimovich, giornalista e deputata dal 2006. Solo 17 i seggi certi per il secondo partito del Paese (comunque in crescita rispetto ai 13 attuali) con nessuna prospettiva di alleanze per arrivare al governo del Paese. Meretz, la sinistra sionista, guidata da Zahava Gal-On, non raccoglierà più di 6 seggi. La Gal-On fondò l’ong B’Tselem, che si occupa di diritti umani nei Territori palestinesi occupati. Il centro liberale sparisce quasi del tutto, se i sondaggi saranno confermati dall’esito delle urne. Kadima, la formazione, nata per volere di Ariel Sharon in dissenso col suo Likud nel 2005, che nelle elezioni del 2009 fu il primo partito con 28 seggi, se non raggiungesse neppure il 2 per cento non otterrebbe seggi. Tzipi Livni, dopo aver perso le primarie lasciò Kadima per formare Hatnuah, data a 6 seggi. Ma il partito più forte al centro per i sondaggisti sarà il nuovo Yesh Atid, del giornalista televisivo Yair Lapid, accreditato al 9% (11 seggi). A rappresentare i circa 800 mila arabi israeliani, il 20% della popolazione, potrebbero essere 11 i parlamentari eletti nelle liste arabe, considerando che tra questi ci saranno anche gli esponenti comunisti e anti sionisti di Hadash, l’unico partito ad avere una componente mista di ebrei e arabi.
  
il Fatto 22.1.13
L’insediamento
Ariel, l’immensa colonia “sovietica” vota per gli ultra-nazionalisti
di Cosimo Caridi


colonia di Ariel (Gerusalemme) I tetti rossi di Ariel si vedono a chilometri di distanza. Con le sue villette tutte uguali e le auto parcheggiate nei via-letti sembra una cittadina della provincia americana, si trova invece nel cuore della Cisgiordania, in pieno territorio palestinese. Qui vivono circa 20 mila israeliani, in uno dei più popolosi tra gli insediamenti che lo Stato ebraico ha permesso di costruire dopo l’occupazione della West Bank nel 1967. Ariel, come tutti gli altri insediamenti, è considerato illegale dalla legge internazionale ed è tra questi 450 mila israeliani, residenti nelle colonie, che si trova la roccaforte dell’ultradestra, la cui vittoria alle elezioni di oggi viene data per certa da sondaggi e analisti.
“Sull’altra collina quelli vivono come bestie”
Per le strade tutte curve, della collina dove sorge Ariel, si vedono centinaia di manifesti con nomi, volti e slogan dei candidati, molti sono in russo. Circa il 50% della popolazione viene dall’ex Unione Sovietica. Per loro la scelta elettorale sembra quasi obbligata dopo che il loro candidato di riferimento Lieberman, leader del partito di ultradestra Yisraeli Beytenu, ha scelto di presentarsi in lista unitaria con il Likud, la formazione guidata dal premier Benjamin Netanyahu. Ma anche tra i residenti di lunga data sembrano non esserci dubbi: “Dobbiamo votare Bibi (diminutivo che tutti i supporter usano parlando di Netanyahu, ndr) e sai perché? – quasi urla questa sessantenne ben vestita seduta al sole davanti al suo negozio – Sull’altra collina ci sono gli arabi: vivono come bestie, non hanno l’elettricità, l’acqua corrente, niente. E mangiano il pane arrotolato. Qui invece la nostra vita è bellissima e non ci rinunceremo”.
C’è anche chi dice: ”Stiamo bene con gli arabi”
Michael e suo marito Jacob hanno un grande poster di Netanyahu sulla vetrina della loro agenzia immobiliare, sono arrivati ad Ariel 25 anni fa: “Per motivi economici. A quei tempi era molto conveniente, non c’era nessuna ideologia a spingerci. Poi con gli anni ci siamo trovati bene, gli affari sono andati per il meglio e ora non lascerei questo posto per nulla al mondo”. Il marito sorride e aggiunge: “Certo anche tra di noi si parla della soluzione dei due Stati, ma noi da qui non ce ne andiamo. Viviamo bene con gli arabi, vengono qui a lavorare. Hanno costruito la mia casa e tutte quelle dei miei vicini”. Una posizione simile ma per diverse motivazioni è quella di David Ha’ivri, nato negli Stati Uniti, ma diventato israeliano ancora adolescente. Ha’ivri, 45 anni, vive in una piccola colonia a pochi minuti d’auto da quella immensa di Ariel; porta la kippah, la tipica papalina ebraica, e i payot, i lunghi boccoli proprio sopra le orecchie. È la personificazione dello stereotipo del colono religioso, non menziona mai la Cisigiordania ne i palestinesi, ma si riferisce a loro parlando degli arabi che vivono a ovest del fiume Giordano: “Il concetto, l’idea di due Stati è primitiva e non è più accettata da nessun Paese al mondo”. Ha’ivri è il portavoce del Consiglio regionale della Samaria, un’area citata nella Bibbia, ma sulla quale, secondo i trattati di pace, Israele non ha nessun diritto: “Netanhayu può fare molto per quest’area, abbiamo bisogno che il governo costruisca nuovi abitazioni. Spero che in dieci anni ad Ariel ci siano 35 mila residenti e 45 mila in vent’anni”. Ovviamente per far questo lo Stato ebraico dovrà confiscare ai palestinesi la terra e incrinare i già precari equilibri con l’Autorità palestinese e la comunità internazionale.
Città fortezza tra cancelli e filo spinato
Per garantire la sicurezza di Ariel e degli insediamenti vicino ci sono cancelli e recinzioni che li circondano. Sono centinaia i militari che vivono nelle basi militari sparpagliate nella zona. La maggior parte di questi stanno svolgendo il servizio militare obbligatorio, 3 anni per gli uomini, 2 per le donne. Una dozzina di loro, tutti in divisa, aspetta i pullman che li porterà a casa per due giorni di permesso: “La situazione coi palestinesi è molto complicata, poi c’è l’Iran, costante minaccia – spiega un militare appena ventenne con un M-16, fucile d’assalto statunitense, a tracolla – Abbiamo bisogno di un leader forte, un primo ministro capace di vincere le sfide che ci aspettano”.

Repubblica 22.1.13
Israele al voto, la carica dei religiosi record di rabbini nella nuova Knesset
Netanyahu favorito, ma la star è il nazionalista Bennett
di Fabio Scuto


GERUSALEMME — Corre con la certezza che dal voto di oggi in Israele, otterrà il suo quarto mandato da premier Benjamin Netanyahu, ma non sarà quella vittoria trionfale che “King Bibi”, soltanto tre mesi fa, si aspettava. La sua formazione Likud-Beitenu, con il nazionalista Avigdor Lieberman, uscirà — ci dicono i sondaggi israeliani che però non azzeccano una previsione dal 1999 — come partito di maggioranza relativa con 33-35 seggi sui 120 della Knesset.
Un’erosione rispetto al 2009, quando i due partiti separati portarono a casa 42 deputati, provocata dalla forte aspettativa per la novità nella destra del panorama politico: “Focolare ebraico”, il partito nazionalista religioso animato dal milionario Naftali Bennett, ex capo dello staff di Netanyahu, si appresta a diventare il terzo partito con 14 seggi in Parlamento. Bennett, portavoce per anni dei coloni, fra le altre cose sostiene che sia «inevitabile» l’annessione del 60 per cento della Cisgiordania palestinese.
È con questa “nuova destra” e con i famelici partiti religiosi Shas e United Torah Judaism (15 seggi previsti) che Netanyahu dovrà trovare una maggioranza che affronti prima di tutto i seri problemi economici che attraversa Israele, come chiede la maggioranza degli elettori.
Sul fronte dell’opposizione risale, sull’onda delle grandi proteste sociali dell’estate 2011, il Labor guidato dall’ex giornalista Shelly Yachimovich (16-18 seggi) e “Hatnua” — il neo-partito guidato da Tzipi Livni (7-9). Ma anche con il sostegno dei tre partiti arabi un fronte anti-Netanyahu che unisca tutta l’opposizione sembra destinato a restare inchiodato ai 55-57 seggi.
Fino a ieri sera per tutti, da Netanyahu alla Yachimovich, è stata caccia all’ultimo voto, perché come titolava il quotidiano Haaretz ieri mattina c’è ancora il 15 per cento di indecisi. Una fetta elettorale che vale 18 seggi. Non può passare inosservata in queste elezioni la forte presenza di candidati religiosi.
Gli ebrei ortodossi hanno lasciato i partiti di nicchia per unirsi al Likud e agli altri partiti principali, sfidando il dominio laico fra i politici e infondendo alla politica israeliana un fervore religioso e certamente una linea più dura nel negoziato con palestinesi. Tutti i partiti, di destra, di centro e di sinistra, hanno candidato rabbini e personalità religiose ortodosse.
Le previsioni indicano che la 19esima Knesset avrà un record di 40 deputati religiosi, in quella uscente erano 25 e solo una ventina di anni fa si contavano sulle dita di una mano. Mentre alcuni settori della società israeliana gioiscono, ha molti timori invece la maggioranza laica. Perché la tendenza può alterare l’identità di una nazione che non ha mai segnato i delicati confini fra religione e Stato, e che al suo interno ha anche una sostanziale minoranza araba musulmana.
Una inchiesta condotta lo scorso anno indica che solo il 22 per cento degli ebrei israeliani si dichiara osservante — ortodosso o ultra-ortodosso — mentre ben il 78 per cento si dichiara laico. I religiosi si troverebbero a esercitare quindi un ruolo e un’influenza sproporzionata nella società israeliana.
Stando a molti sociologi israeliani i movimenti religiosi che cercano di espandere gli insediamenti ebraici nella Cisgiordania occupata e che negano ai palestinesi uno Stato, stanno soppiantando, come simbolo auto-dichiarato della missione di Israele, i potenti kibbutz di una volta. E quest’ascesa nella società israeliana è stata alimentata dalla diffusa disillusione sul negoziato di pace con i palestinesi, e dall’esito delle rivolte arabe che negli ultimi due anni hanno portato al potere gli islamisti, facendo sembrare fragile anche il trattato di pace di Camp David con l’Egitto del 1979.

Repubblica 22.1.13
Le ombre sulla Primavera araba
di Tahar Ben Jelloun


La «primavera araba» non finisce mai di sorprenderci. Ciò che sta accadendo da alcuni mesi nel Nord del Mali e nel Sud algerino è conseguenza di una serie avvenimenti occorsi più di vent’anni fa in Algeria, e più recentemente in Libia. La battaglia di Bengasi (marzo 2011) e il successivo linciaggio di Gheddafi (20 ottobre 2011) hanno lasciato allo sbando migliaia di soldati libici, oltre a numerosi mercenari e qualche Tuareg senza meta. Fuggiti verso il Sahel, questi sbandati hanno portato con sé ingenti quantità di armamenti prelevati da vari depositi. E nel deserto si sono aggregati ad altri avventurieri, come gli algerini del Gia (Gruppo Islamico Armato) che avevano preso parte alla guerra civile tra il 1991 e il 2001, i mauritani e i magrebini già passati per l’Afganistan, e altri tagliagole senza fede né legge, provenienti da vari Paesi della regione, e magari anche dall’Europa. Così il Nord del Mali è divenuto il punto d’incontro di banditi e assassini pronti a combattere qualunque battaglia, agli ordini di capi occulti, uomini velati e misteriosi, detentori di enormi patrimoni, che usano l’islam come insegna per i loro crimini.
Al Qaida, principale soggetto di riferimento, ha seguito con simpatia i fondatori di Aqmi (Al Qaida del Maghreb islamico), e vede di buon occhio il progetto di un Maghreb governato da un islamismo radicale, cioè salafista. Ma a contare è soprattutto il denaro. Per procurarselo, i principali metodi sono due: il narcotraffico e il sequestro di ostaggi. Un’altra fonte, seppure un po’ meno succulenta, è il traffico di migranti clandestini di provenienza africana.
Oggi gli obiettivi criminali sono assai più evidenti dei progetti ideologici e politici. Guidati da personaggi carismatici come Iyad Ag Ghali, leader storico della rivolta dei Tuareg e capo del partito Asar Dine; o come Mokhtar Ben Mokhtar, detto «il guercio», esponente di un movimento denominato «Coloro che firmano col sangue», salafista, ma soprattutto grande trafficante (ritenuto il cervello del sequestro di ostaggi all’impianto di In Amena, nell’Est algerino); o ancora come il mauritano Hamada Ould Khairou, che ora risiede nella città di Gao, questi terroristi, armati fino ai denti e ben addestrati, occupano un territorio immenso, sul quale sventola una bandiera nera con la scritta: «Allah è il solo Dio, e Maometto il suo messaggero». Tuttavia questi gruppuscoli non sono uniti. Ciascuno prende iniziative per favorire i propri interessi.
L’intervento francese in Mali (che secondo alcuni avrebbe l’obiettivo inconfessato di proteggere le miniere di uranio ai confini col Niger) è stato applaudito dall’intera classe politica in Francia, ma anche dalla popolazione del Mali, minacciata dall’avanzata dei gangster che nel Nord del Paese hanno già dimostrato di cosa sono capaci.
Per una volta l’islam non c’entra; su questo sono tutti d’accordo. I jihadisti, che applicano taluni precetti della sharia nel modo più barbaro, mozzando mani e piedi e lapidando le donne, non sono militanti di una nobile causa, ma innanzitutto narcotrafficanti; e quando sequestrano ostaggi lo fanno per estorcere forti somme di denaro. Ma al di là di questi fatti reali, molte domande restano in sospeso: chi finanzia questi criminali? Da chi ricevono tutte quelle armi? Chi si nasconde dietro questa barbarie che dilaga in forme sempre più internazionali? Bisogna che si sappia quali Stati sostengono questi «jihadisti» senza scrupoli, per denunciarli come promotori del terrorismo e nemici della pace. Perché dietro a questi gruppi vi sono non solo miliardari, ma Stati che sognano un «dominio islamico del mondo».
Fin dall’inizio di queste vicende, l’Algeria aveva mantenuto un prudente silenzio, decisa soprattutto a evitare un intervento militare. Solo dopo un impegno di Parigi in questo senso ha infatti consentito agli aerei militari francesi il sorvolo del suo spazio aereo. Inoltre ha chiuso i propri confini a Sud — cosa che però non ha impedito ai terroristi di mettere a segno, il 16 gennaio, una ritorsione contro l’aiuto prestato ai francesi: il sequestro, nell’impianto di Tigantourine, nei pressi di In Amenas, di 41 ostaggi di diverse nazionalità. Questa rappresaglia contro l’Algeria, sfidata sul suo stesso territorio, ha fatto precipitare il Paese in una guerra che non ha mai voluto. Ma come si spiega che i terroristi abbiamo potuto occupare indisturbati quell’impianto di produzione di gas, e sequestrare un così gran numero di persone? Come mai un sito così importante non era sorvegliato adeguatamente? C’è da chiedersi se i terroristi non abbiano fruito di qualche complicità locale.
Se è vero che il Mali aveva tutto l’interesse a un intervento della Francia e a quello di altri Paesi africani, per ricuperare parte del suo territorio, dal canto suo l’Algeria era decisa a non entrare in questo conflitto. Con le ferite della guerra civile ancora aperte, aveva resistito alla primavera araba; e non ha alcun interesse a farsi coinvolgere in un ingranaggio mirante a destabilizzare una parte dell’Africa. Ma il sequestro degli ostaggi ha costretto Algeri a uscire dal suo silenzio e a passare all’azione. Secondo alcune informazioni che circolano fin dal settembre 2012, i campi di Tindouf, dove erano parcheggiati i sahrawi appartenenti al Polisario, venivano utilizzati per l’addestramento di membri di Al Qaida. Gli Stati Uniti avrebbero chiesto allora agli algerini di accettare una soluzione politica al conflitto sul Sahara occidentale, che dal 1975 li contrappone al Marocco. Vi era stato effettivamente un negoziato, in una località nei pressi di New York, tra marocchini ed esponenti di quel movimento separatista, ma una soluzione seria non si era trovata.
L’Algeria ha rifiutato di trattare con i sequestratori. Senza avvisare nessuno, nel pomeriggio di giovedì 17 gennaio truppe algerine hanno fatto irruzione nel sito per riprendere il controllo dell’impianto occupato dai terroristi: questa linea di fermezza (di tipo russo) ha portato però a un esito sanguinoso: numerosi i morti, tra cui alcuni degli ostaggi.
Ad approfittare della primavera araba e a sfruttarla per i propri fini sono stati soprattutto gli islamisti di ogni risma, che hanno accolto come una manna il caos suscitato dai rivoluzionari in Libia — una terra senza Stato — e in Paesi come la Tunisia e l’Egitto, dove lo Stato esiste, ma è nelle mani dell’islamismo. Tutto ciò consente a Bashar Al-Assad di proseguire i suoi massacri nella più totale impunità. Perché la Russia e la Cina, escluse dal gioco libico, oggi rifiutano di abbandonare il dittatore siriano, facendo credere che un regime come quello di Assad sia comunque preferibile a una repubblica islamica, con i salafisti a tagliare le mani ai ladri. Ma le cose in realtà sono assai meno semplici.
Traduzione di Elisabetta Horvat

Repubblica 22.1.13
Smog. La sindrome cinese
La nuvola di Pechino
Lo smog sta oscurando le città della Cina. Per la prima volta il governo ammette il problema e annuncia misure contro l’inquinamento
di Giampaolo Visetti


PECHINO C’è davvero qualcosa nell’aria se il potere di Pechino osa infine l’inaudito: vietare gli “yangrou chuan”, gli adorati spiedini, che giorno e notte sfrigolano sopra griglie improvvisate lungo ogni strada del Paese. Leccornie popolari, per tasche di massa, imputate ora di una colpa imperdonabile: dopo secoli, il governo della seconda economia del mondo ha scoperto che, arrostendo sul carbone, inquinano. Si cela spesso del comico, nel tragico. E così, per impedire che un numero troppo imbarazzante di cinesi crepi a causa dello smog, assieme al bando contro il barbecue sbucano dalle nebbie metropolitane altre due singolari esortazioni: impedire agli scolari di passare la ricreazione in cortile e fare in modo che gli anziani, tappati in casa, non respirino vicino alle finestre. Chi possa verificare il rispetto di simili ingiunzioni, tanto più dentro un polverone che da giorni riduce la visibilità a meno di sessanta metri, in Cina ognuno lo sa: nessuno.
Ma le griglie costrette a spegnersi, come i bambini chiusi in classe e gli altri esseri viventi impegnati a contendersi le ultime maschere anti-gas, rivelano improvvisamente alla nazione che si sta prendendo il secolo, una parte essenziale di ciò che continua a significare il successo di quell’aspirazione che convenzionalmente chiamiamo crescita: il sacrificio della vita di chi viene incaricato di promuoverla. Non occorrevano del resto i dati impressionanti delle centraline, per suggerire ai cinesi che inalare aria è ormai «una necessità inadatta alla salute umana». Da dieci giorni Pechino, Shanghai, Chongqing e decine di metropoli industriali risultano scomparse dentro nuvole nere, grasse di olii che impregnano i capelli, di acidi che corrodono la gola e di polveri che bruciano gli occhi. Lo smog, che fino all’anno scorso le autorità chiamavano nebbia, è tale che centinaia di voli vengono cancellati per “invisibilità della pista”. Il muro tossico è causa di maxi-tamponamenti anche quando un disco grigio all’orizzonte indica che il cielo di per sé sarebbe sereno e nello Zhejiang per tre ore le fiamme hanno incenerito una fabbrica di mobili senza che nessuno potesse distinguere il fumo dall’aria.
L’altra faccia del cosiddetto sviluppo, in Cina come nel resto dell’Asia, è questa: quei lapilli che i tecnici indicano con l’asettica sigla PM2,5, ossia il particolato mefitico di un diametro fino a 2,5 micron, a Pechino hanno raggiunto la vetta inviolata di 993 microgrammi per metro cubo. È una quota quaranta volta superiore al limite massimo stabilito dall’Organizzazione mondiale della sanità, settantacinque volte più alta dei limiti imposti negli Usa. Gli scienziati avvertono che per non deteriorare la salute, la concentrazione di queste particelle deve restare sotto il livello  venti. È dunque comprensibile che un popolo convertito dalla ciotola di riso alla fuoriserie con concubina incorporata, sia sempre meno disposto a soffocare giovane, lasciando all’Occidente il lusso di respirare l’altrui ossigeno quasi in libertà. L’»operazione trasparenza», come il governo cinese l’ha definita non senza un certo gusto per il parodosso, nasce da qui: l’allarme non per gli 8500 morti di smog nel 2012, solo nelle dieci città monitorate, e neppure per il più 60% di tumori ai polmoni negli ultimi dieci anni, ma per quelle inequivocabili manifestazioni di rivolta anti-potere che contagiano i più numerosi nababbi del pianeta e la più sterminata classe media nazionale mai contata sulla terra.
Per la propaganda, lo strano “caso-smog” è un fulmine, si fa per dire, a ciel sereno. Fino a un anno fa, i dati agghiaccianti diffusi regolarmente dall’ambasciata americana di Pechino venivano definiti «indebita intrusione straniera in questioni interne». Versione ufficiale: «Tentativo di destabilizzazione». Oggi invece l’ordine di Stato è ammettere il problema, anzi denunciarlo, condannarlo, esaltarlo, fino ad annunciare il pugno di ferro contro chiunque osi ancora sporcare l’aria patria. Potenza dei moltiplicati colletti bianchi, vocati più a consumare che ad asfissiare, ma non solo. La potenza del secolo realizza che nell’infamante classifica delle dieci città più inquinate del mondo, appena stilata da Asian Development Bank e Tshingua University, sette sono cinesi: Taiyuan, Pechino, Urumqi, Lanzhou, Chongqing, Jinan e Shijiazhuang. Solo l’1% delle principali 500 città cinesi, vantano un’aria che per l’Oms «non attenta alla salute». I dati della Banca Mondiale mostrano poi che nel 2009 lo smog è costato alla Cina il 3,3% del reddito nazionale, schizzato a quasi il 5% lo scorso anno. La gente fa esplodere gli ospedali pubblici con malattie ai polmoni, al cuore, alla pelle e agli occhi. Impiegati ed operai si assentano da uffici e fabbriche, con i veleni sparati nell’atmosfera accusati di una perdita del 7% della produttività. Al resto dei danni economici ci pensano gli incidenti stradali, la cancellazione dei voli e perfino una durata inferiore di edifici e infrastrutture, valutata in media dieci anni. Può apparire spaventoso, ma nel nuovo paradiso di grattacieli, fabbriche e ferrovie ad alta velocità, l’inquinamento si vendica rosicchiando anche il cemento che dovrebbe custodire merci e persone.
L’insostenibile prezzo del veleno, economico e politico, è l’origine dell’inattesa “glasnost” che, grazie ai potenti mezzi dell’e-community, spinge dunque la rinnovata leadership comunista oltre le colonne d’Ercole della più collaudata censura. Il Quotidiano del Popolo
osa chiedere di «uscire al più presto dall’assedio soffocante dell’inquinamento », mentre la statale Cctv si spinge a stabilire che «l’emergenza ambientale è la priorità numero uno del nuovo segretario Xi Jinping». Nell’Inghilterra della rivoluzione industriale, “The Big Smoke” creò il color “fumo di Londra” un secolo fa, provocando 12mila morti solo nel 1952. Negli Usa del boom, l’Air Pollution Control Act è del 1955. Nella Cina della prima frenata degli ultimi trent’anni, con il Pil che scende e lo smog che sale, non c’è oggi ombra di leggi e per ora ci si affida a divieti e minacce. Sotto accusa, il carbone e i gas di scarico delle automobili, giunte al primato di un milione di nuove vetture al mese, solo a causa del numero chiuso.
A Pechino, dove monta la rivolta popolare contro funzionari immortalati nella razzia di costosi depuratori e contro leader del partito fotografati a ossigenarsi sulle Alpi giapponesi, si annunciano così «misure straordinarie»: chiusure di fabbriche, abbassamento dei riscaldamenti, blocchi al traffico e riduzione dell’illuminazione notturna. Tutti sanno che si tratta del dito infilato nella diga e lo stesso Li Keqiang, prossimo premier, ha ammesso che «la lotta sarà purtroppo un processo doloroso e lungo». Non solo Pechino, Shanghai, Shenzhen e Chongqing, con un Pil di poco inferiore a quello della Ue, rischiano di chiudere per esaurimento dell’ossigeno. Si aggiungono le regioni-cuore della “fabbrica del mondo”, tra cui Zhejiang, Jiangsu, Anhui, Mongolia Interna ed Hebei, dove le vittime per inalazione di derivati del piombo configurano quella che l’agenzia Xinhua denuncia come «inconfessabile strage nazionale». L’immagine non censurata dell’archistar dissidente Ai Weiwei, con il volto coperto da una maschera anti-gas, per milioni di cinesi diventa così in queste ore il certificato ufficiale della propria agonia, la prima contro cui non insorga l’Occidente e pure la prima che il partito-tutto autorizzi a condividere.
Il segnale è che non solo il costo della crescita ha superato i suoi ricavi, pregiudicando la sopravvivenza di chi ha la missione di produrre, ma che la nuova generazione dei leader cinesi, per salvare se stessa, è realmente decisa a cambiare al più presto “modello di sviluppo” e a investire in nuove fonti di energia. Nessuno stupore, ieri sera, quando il telegiornale, dopo i drammatici dati su un’altra giornata con 420 microgrammi di PM 2,5 per metro cubo a Pechino, ha trasmesso un servizio sulla “guerra per l’energia” nel Pacifico e uno sul boom dell’hitech nell’ex distretto manifatturiero di Canton. Lo smog cambia la Cina e la Cina, provando a pulire l’informazione con lo sporco del vento, vuole che il resto del mondo ne sia consapevole. Respirare, anche in Asia, oggi costa. C’è davvero qualcosa nell’aria, sopra la Città Proibita: non solo la rinuncia alla delizia di uno spiedino.

Repubblica 22.1.13
Rifkin: “Il futuro premier ha scelto la Terza Rivoluzione industriale”
“Rinnovabili e auto pulite la svolta è già iniziata”
di Antonio Cianciullo


«La Cina è a un punto di svolta perché i danni che sta producendo la seconda rivoluzione industriale sono ormai superiori ai vantaggi. A che serve costruire i grattacieli più belli se per passare dall’uno all’altro bisogna riempirsi i polmoni di veleni? Il dramma ecologico di Pechino è l’emblema del disastro collettivo a cui rischiamo di andare incontro proseguendo nella vecchia strada. Ma la terapia che il governo cinese sta mettendo a punto indica il futuro dell’economia». Jeremy Rifkin, presidente della Foundation on Economic Trends, guarda con crescente attenzione al nuovo corso di Pechino.
Lei parla di riconversione, ma lo scenario è apocalittico: città con l’aria irrespirabile, deserto che stringe d’assedio la capitale, riserve idriche himalayane in declino per colpa del cambiamento climatico, agricoltura a rischio. Il lungo boom economico ha spazzato via i vecchi problemi ma ne ha creati di nuovi.
«È vero, e l’elenco delle città in cui i valori degli inquinanti superano di dieci volte il limite di sicurezza fissato dall’Organizzazione mondiale della sanità è lungo. Una catastrofe che produce conseguenze paradossali: una parte dei vantaggi ottenuti in termini di allungamento dell’età media viene risucchiata nel gorgo dell’inquinamento».
Quindi ha ragione chi indica la Cina come l’inquinatore numero uno.
«Ha ragione se parla guardando al passato. Ma se osserviamo quello che succede oggi e ragioniamo su quello che sta per accadere vediamo uno scenario completamente diverso. Nel campo delle fonti rinnovabili la Cina è diventata leader globale. Il piano quinquennale per la protezione ambientale prevede un investimento di 450 miliardi di dollari. Nel 2015 si arriverà a produrre un milione di auto elettriche».
Ma una buona parte dell’energia cinese viene ancora dal carbone: l’equilibrio al momento è incerto.
«Come ha sottolineato anche Bloomberg Businessweek, il futuro premier Li Keqiang ha annunciato di voler seguire la linea della Terza rivoluzione industriale, quella basata su cinque pilastri: fonti rinnovabili, capacità di immagazzinamento dell’energia attraverso l’idrogeno, smart grid, edifici capaci di produrre più energia di quella che consumano, mobilità a bassissimo impatto ambientale. La Cina inoltre diventerà non solo il più grande produttore ma anche il più grande mercato di installazione del fotovoltaico nel mondo: i nuovi impianti previsti per il 2013 dovrebbero consentire al paese asiatico di superare la Germania».
Ritiene che sarà questo uno dei fronti principali della competizione Stati Uniti — Cina?
«Mi sembra un punto di vista troppo ristretto. C’è un terzo attore in campo, ed è un attore molto ben piazzato: l’Unione Europea. Se il presidente Barroso riuscirà ad accelerare il cammino iniziato con la dichiarazione con cui nel 2007 il Parlamento europeo ha sposato il progetto della Terza rivoluzione industriale, il vecchio continente avrà ottime possibilità di guadagnare per primo il traguardo della nuova economia».
Prima della Cina?
«Magari lavorando assieme alla Cina. Anche l’Europa del resto ha ottimi motivi per spingere sulla leva della green economy. Quasi un terzo degli abitanti delle sue città è esposto a concentrazioni eccessive di polveri sottili: l’inquinamento atmosferico provoca mezzo milione di morti premature all’anno e danni per 630 miliardi di euro. Cifre che, secondo l’Agenzia europea dell’ambiente, potrebbero più che dimezzarsi entro il 2020 passando alla mobilità elettrica e applicando misure anti inquinamento».
Lei è convinto che prevarrà la green economy?
«Guardando a quello che è successo in Italia negli ultimi due anni, con lo spostamento di attenzione e di risorse dalle fonti rinnovabili ai combustibili fossili, direi di no. Ma più in generale la risposta è sì. La svolta di Pechino può modificare il trend generale. Anche in Europa, come abbiamo potuto misurare nel lavoro svolto assieme al direttore europeo della Foundation on Economic Trends Angelo Consoli, la sensibilità è cresciuta. E le immagini dei cinesi con la mascherina, sepolti dallo smog, sono la migliore prova della mancanza di una alternativa: la seconda rivoluzione industriale è arrivata al capolinea ».

l’Unità 22.1.13
Bobby Sands trent’anni dopo
Una serie di romanzi e di pellicole sullo storico leader dell’Ira
di Rock Reynolds

Sono stati definiti «Troubles» i disordini dell’Ulster, l’Irlanda del Nord che, nell’ ‘81, con lo sciopero della fame dei militanti repubblicani, cambiarono per sempre il volto della storia

SONO TRASCORSI SOLO PIÙ DI TRENT’ANNI, MA SEMBRA CHE SOTTO I PONTI DI ACQUA NE SIA PASSATA MOLTA DI PIÙ. ACQUA TORBIDA E IMPETUOSA, PER GIUNTA. TALVOLTA MACCHIATA DI SANGUE. Per molti versi, il 1981 fu lo spartiacque di uno degli ultimi veri conflitti europei, bollato come poco più di una scaramuccia locale dal governo britannico, timoroso di santificarne lo status ufficiale di guerra, e invocato dai simpatizzanti della causa repubblicana come vera e propria guerra di liberazione. Stiamo parlando dei cosiddetti Troubles, i disordini dell’Ulster, l’Irlanda del Nord. Alcuni dei principali protagonisti della scena pubblica di quei giorni non ci sono più. Bobby Sands, capintesta dello sciopero della fame che nel 1981 fece saltare il tavolo su cui il governo britannico era convinto di avere pieno controllo, fu il primo martire del nuovo corso irlandese. Margaret Thatcher, la «Lady di Ferro», nemica giurata della causa repubblicana e allora primo ministro britannico, è ancora in vita, ma una malattia progressiva l’ha trasformata in una pallida immagine della donna dal polso d’acciaio e dallo sguardo glaciale che tormentava il sonno di molti leader mondiali del tempo. Altri personaggi ancora, che erano ricercati come terroristi o detestati e perseguitati in quanto esponenti di bracci politici di organizzazioni terroristiche, oggi occupano ruoli di primo piano nelle istituzioni nordirlandesi. Martin McGuinnes, per esempio, temuto e odiato vicecomandante della Brigata di Derry dell’Ira, oggi è vicepremier del governo semi-indipendente dell’Irlanda del Nord.
Ma torniamo a quel fatidico 1981. La lotta irredentista della comunità cattolica nordirlandese, ormai rassegnata a non ricevere il minimo aiuto dai fratelli della Repubblica di Irlanda, era giunta a una posizione di pericoloso stallo. Due fatti quasi contemporanei cambiarono per sempre il volto della storia: la clamorosa protesta dei membri dell’Ira e di altre organizzazioni paramilitari repubblicane rinchiusi nel carcere di Long Kesh che invocavano lo status di prigionieri politici a cui la Thatcher oppose il secco rifiuto che portò alla decisione di dare vita a uno sciopero della fame a oltranza e la decisione conseguente di candidare il leader della protesta, Bobby Sands, alla poltrona di membro del parlamento per la circoscrizione di Fermanagh e South Tyrone lasciata vacante. La determinazione, l’abnegazione e la disperazione di Bobby Sands e dei suoi compagni di protesta, da un lato, e la scelta oltranzista di Margaret Thatcher, dall’altro, furono il fuoco della campagna elettorale che portò alla elezione di Sands, che peraltro non valse a salvare la sua vita e quella di altri nove militanti. Sands non si accomodò mai sugli scranni del parlamento. Per ironia di una sorte che aveva in larga parte il volto beffardo di Margaret Thatcher, le rivendicazioni di Bobby Sands e compagni ebbero soddisfazione solo dopo la loro morte e la fine dello sciopero della fame. Il 5 maggio 1981, alla notizia della morte del «parlamentare britannico» Bobby Sands, la lady di ferro ebbe a dire, di fronte alla Camera dei Comuni: «Il signor Sands era un criminale. Ha scelto di togliersi la vita. Una scelta che la sua organizzazione non ha concesso a molte delle sue vittime». Invece, fu proprio quello sciopero della fame a decriminalizzare la figura del militante repubblicano persino agli occhi di una parte dell’opinione pubblica britannica.
Un periodo storico così complesso ed emozioni così forti hanno dato la stura a una serie di ottimi romanzi e pellicole intense. L’ultimo in ordine di tempo è La bambina dimenticata dal tempo (Uovonero, pagine 328, euro 14) della compianta Siobhan Dowd, già autrice dello splendido Il mistero del London Eye. La vicenda si svolge sul duplice binario della contemporaneità (nella fattispecie, i giorni dello sciopero della fame del 1981) e del passato (duemila anni prima). Il cadavere mummificato di quella che sembra una bambina viene rinvenuto in una torbiera, sul confine sfumato tra Repubblica di Irlanda e Ulster, da Fergus, diciottenne cattolico, insieme allo Zio Tally. John Lennon, idolo di casa, è morto da un anno, ma a preoccupare la bella famiglia di Fergus è la decisione del fratello Joe, in carcere a Long Kesh per la sua appartenenza all’Ira, di unirsi allo sciopero della fame. In un crescendo di emozioni, sfumate dalla tonalità mai eccessiva scelta dall’autrice forse anche per rendere la storia adatta anche a un pubblico più giovane, la vicenda personale di Fergus, i suoi turbamenti sentimentali, le difficoltà e le speranze della sua generazione in un paese che sembra non poter mai vedere il sereno, si incrociano con la storia che noi tutti conosciamo, con il contrappunto delle pagine che rievocano la vicenda della bambina dimenticata dal tempo, una sorta di anticipazione funesta del tragico destino di un popolo. C’è pure un colpo di scena finale, come si conviene a un buon romanzo di suspense. C’è tanta umanità, come si conviene a una vicenda autenticamente irlandese, in questo romanzo e leggerlo potrebbe essere un buon viatico per approfondire le circostanze che hanno fatto dell’Irlanda del Nord uno degli ultimi baluardi della violenza settaria nell’Europa Occidentale.
Non mancano altri romanzi interessanti sull’argomento. La primavera dell’odio di Louise Dean è la storia di Kathleen, madre frustrata e repressa con due figli giovani da crescere in un ambiente difficile, un marito pusillanime e un figlio rinchiuso nel famigerato carcere di Long Kesh. È anche la storia di John, ex-militare, ora guardia giurata, con una coscienza civile e forti difficoltà ad accettare gli orrori del carcere duro. Siamo a Belfast, a pochi mesi dal famoso sciopero della fame. Anche in questo caso, aleggia sull’intera vicenda il terrore di una madre di fronte all’ipotesi che il figlio si immoli sull’altare del martirio per emulare le gesta dei compagni di prigione. Un libro sincero e poco solare, che però sa ricreare il clima di quei giorni. I romanzi Eureka Street di Robert McLiam Wilson e Resurrection Man di Eoin McNamee non si occupano strettamente di Bobby Sands e dintorni, ma offrono uno sguardo lucido sulla società nordirlandese degli anni bui della guerra civile, con un substrato di cieca violenza settaria che poco ha a che vedere con la causa.
Quanto ai film, Una scelta d’amore di Terry George, per quanto un po’ di maniera, descrive bene il dramma delle famiglie dei militanti repubblicani partecipanti allo sciopero della fame, le terribili condizioni di vita in carcere e la profonda spaccatura sociale che si venne a creare tra le famiglie di chi andò fino in fondo e quelle che decisero di far intervenire l’equipe medica del carcere, salvando il proprio caro da morte certa. La bravura di Helen Mirren e Fionnula Flanagan fa il resto. Hunger, film del 2008 votato miglior opera prima al festival di Cannes, ha quasi il piglio del documentario e lascia davvero poco all’immaginazione. D’altra parte, come ebbe a dire Laurence McKeown, che portò avanti il digiuno assoluto per settanta giorni, prima che la famiglia richiedesse l’intervento dei medici, «Hai molto sonno e sei molto stanco...Non c’era niente di coraggioso o glorioso...la morte sarebbe stata una liberazione...È letteralmente come scivolare nella morte».

Corriere 22.1.13
Cultura I sommersi e i salvati della caccia agli eretici
L'Inquisizione non fu soltanto tortura e roghi
di Paolo Mieli


Tutti ricordiamo i nomi dei grandi martiri dell'Inquisizione romana creata il 21 luglio 1542 ai tempi di Paolo III (Alessandro Farnese): Pietro Carnesecchi, Giordano Bruno, Francesco Pucci o i marrani di Ancona. Ma a pochi vengono in mente con immediatezza quelli di altri (Mario Galeota, Dionisio Gallo, ad esempio) che pure subirono accuse di eresia dello stesso tenore di quelle mosse a Carnesecchi, Bruno e Pucci, e però ebbero un diverso destino. In molti casi, sentenze apparentemente pesanti furono, dopo un po', commutate in pene decisamente lievi.
Già Adriano Prosperi — con Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori e missionari (Einaudi) — anni fa aveva sfatato la tesi, tramandataci dalla storiografia anticlericale, secondo cui l'Inquisizione romana fu nient'altro che un «tribunale sanguinario». Adesso Christopher Black con la Storia dell'Inquisizione in Italia. Tribunali, eretici, censura (Carocci) documenta meticolosamente come le sentenze di morte furono «relativamente poche» se confrontate a quelle di quasi tutti gli altri tribunali italiani, la tortura «più rara», e si diedero ai «rei» concrete opportunità di «patteggiamento della pena». Quella che riguarda l'Inquisizione, prosegue Black, non fu «una storia così macabra come le leggende e i pregiudizi possono suggerire», né si può dire che assomigli «alle immagini dedicate da Francisco Goya alle ultime fasi dell'Inquisizione spagnola». Dopo il Medioevo, nell'area in cui operava l'Inquisizione, la tortura era in larga parte «più selettiva, fisicamente meno aggressiva e meno raccapricciante e fantasiosa» di quella che è oggi praticata in molti Stati moderni, o di fatto accettata, attraverso «misure legislative straordinarie di estradizione che violano in vario modo le convenzioni internazionali e i diritti dei prigionieri».
John Tedeschi, in Il giudice e l'eretico. Studi sull'Inquisizione romana (Vita e Pensiero), ha efficacemente raccontato come l'Inquisizione romana sia stata tutt'altro che «una caricatura di tribunale», un «tunnel degli orrori», un «labirinto giudiziario dal quale era impossibile uscire». E la storica Anne Schutte ha spiegato, con molti validi argomenti, che quel sistema inquisitoriale ha «offerto la migliore giustizia criminale possibile nell'Europa dell'età Moderna». La Schutte ha anche invitato a riflettere sul fatto che ci furono Papi, come Paolo III e Pio IV, i quali ebbero un approccio «morbido» a questi temi; che un discreto numero di vescovi tra il 1520 e il 1570 abbracciarono idee di «riforma», e altri si batterono per «porre un freno alla severità degli inquisitori e limitarne l'intrusione nelle credenze personali».
Tra episcopato e inquisitori si ebbe, in altre parole, un rapporto più che dialettico. A fronte dell'ala più intransigente dei cardinali, Gian Pietro Carafa e Michele Ghislieri (successivamente Papi con i nomi Paolo IV e Pio V), ci furono eminenze, per così dire, meno risolute (i cardinali Scipione Rebiba, Giulio Antonio Santoro, Giovanni Garzia Millini). E si riesce perfino ad individuare una «tolleranza talvolta ambivalente degli inquisitori locali»: quella di Marino da Venezia, portato in giudizio per eccessi di indulgenza; quella di Antonio Balducci, che a Bologna «distribuiva sentenze lievi o severe come dettavano le convenienze»; quella di Eliseo Masini, cui si deve un manuale per inquisitori a suo modo garantista; quella di Dionigi da Costacciaro e Agapito Ugoni, che seppero smontare le tesi di importanti accusatori. L'universo dell'Inquisizione fu assai composito. E i sistemi inquisitoriali furono diversi tra loro. Molto diversi.
Per questo Christopher Black si arrabbiò allorché l'edizione originale di questo libro fu intitolata The Italian Inquisition, quasi il volume si occupasse di un universo privo di articolazioni e sfaccettature. Ma ancor più a Black dispiacque che Diarmaid MacCulloch su «The London Review of Books» gli muovesse l'accusa di non essere stato abbastanza severo nei confronti di quei tribunali religiosi (anche se MacCulloch aveva argomentato «in modo abile e divertente», come dovette riconoscere lo stesso Black). MacCulloch — si era difeso Black — aveva messo in risalto «alcuni passi non privi di ambiguità e decontestualizzandoli», allo scopo di dimostrare l'eccessiva mitezza di The Italian Inquisition a fronte delle «nefandezze» compiute sotto l'influsso di Carafa, Ghislieri e dell'ala più intransigente della Chiesa. Per parte sua, l'autore afferma di condividere le argomentazioni di Adriano Prosperi e Simon Ditchfield secondo cui «l'Inquisizione romana, nonostante il suo lato oscuro, è stata anche una forza creativa ed educativa, che ha contribuito a definire e influenzare la cultura italiana almeno fino al XIX secolo».
Al contrario di Delio Cantimori e dei suoi primi epigoni o, in tempi più recenti, di Massimo Firpo, Black non crede «che il fallimento di una Riforma italiana sia stato disastroso per lo sviluppo e la modernizzazione dell'Italia, né che la vittoria della Chiesa cattolica abbia da sola impedito l'unità e la democratizzazione del Paese». Tra l'altro la frammentazione politica e la varietà dei movimenti di riforma rendevano una vittoria protestante in Italia «quasi impossibile». I singoli Stati, i principi e le oligarchie politiche non avevano «un'autorità sufficiente per imporre una Riforma italiana… e una rottura definitiva con le tradizioni della Chiesa romana poteva significare la perdita di molti privilegi». L'affermazione del calvinismo «non sarebbe stata accolta dalla maggior parte degli italiani meglio di un cattolicesimo ancor più rigido». In conclusione però, autoironicamente, Black si sente in dovere di mettere così le mani avanti: «Correggendo le esagerazioni della "leggenda nera", spero però di non alimentarne una "rosa" o "grigia"».
Nei secoli che precedettero il Cinquecento c'era stata, a partire dal XII, un'Inquisizione medievale impegnata nella lotta ai catari e ai valdesi. La prima Inquisizione moderna fu, poi, quella spagnola, nata su suggerimento del priore domenicano di Siviglia Alonso de Hojeda ai regnanti Ferdinando d'Aragona e Isabella di Castiglia e approvata da Papa Sisto IV con una Bolla del 1478. Gli inquisitori, per lo più domenicani, erano nominati dalla Corona. Nel 1488 fu creato il nuovo Consiglio per la Castiglia, detto la Suprema, con funzioni di coordinamento, presieduto da un inquisitore generale, all'inizio Tomás de Torquemada. Le prime condanne al rogo furono eseguite il 6 febbraio del 1481. L'Inquisizione spagnola si estese ad alcune regioni d'Italia in particolare dopo il 1559 quando, con il trattato di pace di Cateau-Cambrésis, la Corona di Spagna (Filippo II) fu riconosciuta sovrana del Regno di Napoli, del Ducato di Milano, di Sicilia e Sardegna.
Ed è in queste terre che attecchì la dottrina sospetta di Juan de Valdés, fratello di Alfonso, segretario di Carlo V e in rapporto di corrispondenza con Erasmo, il quale nel 1529, per sfuggire all'Inquisizione spagnola, si trasferì prima a Roma e poi a Napoli. Qui ebbe come seguaci Nicola Maria Caracciolo, vescovo di Catania, Pietro Carnesecchi, Bernardino Ochino, generale dei cappuccini (costretto a fuggire in Svizzera), e Giulia Gonzaga, che dopo la morte di Valdés (1541) fece pubblicare una delle sue opere più famose: Alfabeto cristiano. Estimatori di Valdés furono Reginald Pole, divenuto in seguito cardinale d'Inghilterra (dopo essere stato ben due volte considerato un probabile possibile Papa), Michelangelo Buonarroti e la poetessa Vittoria Colonna. Le città più «infettate» da Valdés furono Siena, per via della predicazione di Bernardino Ochino (che aveva fatto proseliti anche in Sicilia), e Bologna. I cardinali Giovanni Morone e Tommaso Badia furono i più inclini al dialogo con luterani e valdesiani. Gli agostiniani furono i primi a essere processati perché accusati di diffondere le idee di Lutero.
Gli storici ortodossi ci hanno raccontato per secoli che si dovette al rigore dei cardinali Carafa e Ghislieri se fu «sventata» una Riforma italiana. Ma Silvana Seidel Menchi ha ampiamente dimostrato in un libro da lei curato assieme a Diego Quaglioni, Trasgressioni (Il Mulino), che il protestantesimo italiano fu un «non fatto», un «fenomeno marginale» che «non impensierì nessun organo statale, né sotto il governo di un principe, né sotto il controllo di un'élite politica», a differenza di quel che accadde invece «in molti Stati tedeschi, in Inghilterra e in Scozia». Anche «nelle città più influenzate dalle nuove idee, appena lo 0,2% della popolazione era completamente convinto, mentre circa il 2% dimostrava un vago interesse o una simpatia per le dottrine protestanti». I primi casi di un certo rilievo sottoposti all'esame dell'Inquisizione furono quelli dei vescovi di Capodistria Pier Paolo Vergerio e di Chioggia Giacomo Nacchianti. Vergerio, protetto dai patrizi veneziani, tra cui il podestà Donà Malipiero, riuscì a fuggire e nel 1550 fu «bruciato in effigie». Nacchianti fu detenuto a Roma nel plesso di Santa Maria sopra Minerva (una delle sedi dell'Inquisizione), ma venne poi rilasciato così che poté essere attivo durante il Concilio di Trento. È accertato, scrive Black, che «il primo periodo dell'Inquisizione romana fu caratterizzato da atteggiamenti fluidi … e procedure ancora inefficienti». Tra l'altro Giulio III (Giovanni Maria del Monte), il nuovo Papa eletto nel 1550, «non si fidava dell'intransigenza di Carafa ed era memore dei suoi attacchi in conclave contro il cardinale Reginald Pole, con i quali aveva di fatto posto il veto alla sua elezione». Da parte sua Carafa rimproverava al Pontefice di essere eccessivamente blando nei confronti dei supposti eretici. Secondo la testimonianza di un membro del Sant'Uffizio, Carafa «aveva spesse volte contraddetto a Papa Giulio III per le cose dell'Inquisitione e mostratoli che non bisognava andare freddamente». Un altro testimone racconta che Papa del Monte ben presto «ne ebbe fin sopra i capelli dell'incostanza e delle fantasie di Carafa» e della sua «natura fastidiosa». Riferisce Girolamo Muzzarelli, confidente di Giulio III, che il Pontefice era «irritato continuamente contra l'officio della santa Inquisitione» che agiva, a suo avviso, «per malignità et invidia del papato».
Lo scontro divenne esplicito nel maggio del 1551 quando Papa del Monte ordinò il rilascio del vescovo di Bergamo Vittore Soranzo dalla prigione di Castel Sant'Angelo, mentre era in corso il processo intentato dalla Congregazione contro di lui. Fu un caso clamoroso che si concluse con uno dei primi patteggiamenti della moderna storia giuridica. Il capo della Chiesa convinse Soranzo ad ammettere di aver sostenuto «idee vicine alla dottrina luterana» e il vescovo se la cavò con poco. L'Inquisizione poi, avuto sentore delle iniziative del Pontefice a favore degli indagati, procedette in segreto contro i cardinali Reginald Pole e Giovanni Morone, sensibili alle idee di riforma. Giulio III riuscì lo stesso ad entrare in possesso delle carte di quelle indagini e le fece avere di nascosto all'imputato Morone. Che, grazie a quella rivelazione di segreto, si salvò. A fare le spese di queste intricatissime trame fu un frate, Giovanni Buzio da Montalcino, che non credeva nelle indulgenze e nel Purgatorio, ma non aveva niente a che fare con quelle lotte tra Papa e inquisitori. Sui di lui si accanì la Congregazione, che impedì a Giulio III di venire in suo aiuto. Nel 1553 Buzio fu condannato e giustiziato. E fu il primo ad essere mandato a morte a dispetto del Pontefice. Trascorsero poi 26 anni e, nel 1579, un seguace di Buzio, Giacomo Saliceti, fu impiccato e bruciato a sua volta. Nel frattempo Giulio III era morto (1555) ed erano ascesi al soglio pontificio i due vincitori di questa contesa: Carafa (1555-1559) e Ghislieri (1566-1572). Con essi fu il trionfo dell'Inquisizione. Anzi, delle Inquisizioni. Con qualche distinguo, però.
In Toscana Cosimo I de' Medici non ebbe grandi problemi con gli inquisitori. Si assicurò la reputazione di «collaboratore» dando l'assenso all'estradizione del già citato Pietro Carnesecchi — il quale fu poi processato (e giustiziato) a Roma — in cambio del riconoscimento a lui stesso del titolo di granduca e della garanzia che non fossero indagati altri suoi uomini, ancorché considerati di «dubbie posizioni». In virtù di questi accordi, Cosimo non consentì all'Inquisizione di invadere le sue prerogative, come era successo in Spagna, mettendo in chiaro, per esempio, che i propositi di Carafa di perseguire gli ebrei come usurai, erano a Firenze «inaccettabili».
In Piemonte, regione molto esposta alle infiltrazioni ereticali dal Nord che avrebbero potuto riaccendere le ceneri dei movimenti dei secoli precedenti (valdesi e catari), il duca Emanuele Filiberto accettò nel 1559 la piena operatività dell'Inquisizione, pur ponendo limiti per quel che riguardava la Savoia. Poi, nel giugno del 1561, lo stesso duca Emanuele Filiberto siglò a Cavour un trattato che consentiva ad alcune comunità valdesi di vivere indisturbate. Nel secolo successivo i Savoia aumentarono gli ostacoli alle attività dell'Inquisizione, a tutto vantaggio della propria autorità. Vittorio Amedeo II diede prova del definitivo distacco da Roma quando, con un preavviso minimo, espulse tre inquisitori (da Saluzzo nel 1698, da Torino nel 1708 e da Alessandria nel 1709). La Chiesa accusò il colpo e diede un segnale di resa: dopo l'espulsione dell'inquisitore di Alessandria, rinunciò a nominarne uno nuovo, preferendo il ricorso a vicari minori.
Anche a Venezia lo scontro fu assai aspro. Lì il tribunale era guidato da tre ecclesiastici e da tre nobili laici. Tra il 1565 e il 1566 ci fu conflitto tra religiosi e non: questi ultimi accusavano l'inquisitore di stabilire arbitrariamente il calendario delle udienze e degli incontri con i testimoni per ostacolare, appunto, i membri laici della giuria e vanificare la loro influenza sul processo. La città si distinse poi per quello che oggi definiremmo un alto tasso di garantismo. Uno dei primi processi terminò con un verdetto «piuttosto insolito» di innocenza. Un francescano conventuale, Bonaventura Clozio da Casalmaggiore, fu indagato nel 1547 per una presunta irregolarità contenuta nei suoi sermoni. Arrestato a Padova e interrogato a Venezia dal primo inquisitore, Marino Venier (anch'egli francescano), fu rilasciato dopo tre mesi di carcere con la motivazione che le accuse venivano da un predicatore suo rivale.
L'atteggiamento indulgente di fra Marino Venier fece sì che, nel 1551, finisse lui stesso sotto inchiesta inquisitoriale. Due testimoni, un domenicano e un francescano, sostennero che aveva sparlato dell'Inquisizione romana. Lo si accusò di aver permesso, nel 1543, la pubblicazione in volgare di un'opera di Lutero e di aver concesso, nel 1547, la licenza alle parafrasi di Erasmo del Vangelo di Matteo. Gli si imputava anche di aver fornito copertura agli eretici e di aver sostenuto il vescovo Pier Paolo Vergerio nelle circostanze di cui si è detto poc'anzi. Il governo veneziano riuscì a far chiudere il caso attraverso il suo ambasciatore a Roma e fra Marino poté tornare a svolgere i propri uffici sacerdotali dopo aver ricevuto, nel dicembre del 1561, una pubblica assoluzione. Fra Marino, scrive Black, garantì «nei confronti delle eresie una condotta indulgente che lasciava ampio spazio alla riconciliazione e alle punizioni lievi». Roma capì l'antifona e da quel momento privilegiò gli inquisitori domenicani al posto dei più morbidi francescani.
Più complicato il caso di Milano. Qui il governatore Alfonso d'Avalos, pur obbedendo agli ordini di Carlo V, negli anni Trenta (del Cinquecento) aveva avuto qualche predilezione per Bernardino Ochino (e sua moglie l'aveva avuta ancora più forte nei confronti di Juan de Valdés). Poi, però, nel 1541 Alfonso si era mostrato più rigido e aveva fatto arrestare alcuni studenti dell'Università di Pavia, sospettati di eresia. Da quel momento furono le autorità cittadine ad essere più attive su questo fronte, anche perché la Chiesa locale (soprattutto francescani e agostiniani) aveva un atteggiamento di apertura alla Riforma. Furono così gli ufficiali laici — e non i vicari episcopali o gli inquisitori che facevano riferimento ai vescovi — a ricorrere alla pratica della tortura (in alcuni casi efferata, come a Casalmaggiore nel 1547). Allorché un inquisitore di Como si decise a lanciare una campagna antieresia, trovò l'opposizione dell'ausiliario del vescovo e dei consiglieri cittadini, perché non erano stati consultati. Quando poi lo stesso inquisitore nel 1549 fece arrestare un prete, fu contestato dai canonici della cattedrale. Venne allora sostituito, ma nel momento in cui il suo successore (Michele Ghislieri) confiscò dodici sacche di libri proibiti, i canonici protestarono in modo così duro che anche Ghislieri dovette lasciare la città. Se erano gli inquisitori a prendere l'iniziativa, come a Cremona nel 1550 e nel 1551, «il giudice locale, il podestà, e gli altri organi cittadini cercavano di moderare la caccia agli eretici che fuggivano nei Grigioni o a Ginevra e di persuadere il Senato di Milano a sottrarre i processi in corso dalle mani degli inquisitori e dei vicari episcopali».
Nel 1563 Filippo II decise l'insediamento di un tribunale spagnolo a Milano. Il cardinale Carlo Borromeo informò il Concilio di Trento e si oppose con forza all'iniziativa del re. La ebbe vinta, grazie a un vasto movimento popolare, anche se in un certo momento Papa Pio IV (tra l'altro zio di Borromeo) sembrò cedere alle pressioni spagnole. Dal 1566 Borromeo organizzò a Milano un sistema inquisitoriale sotto la sua diretta sorveglianza, convinto di godere dell'appoggio della Congregazione. Ma le cose non stavano così. E Borromeo, un combinato di «entusiasmo, rigore e intransigenza», si trovò da un lato a lottare con gli ufficiali spagnoli di stanza a Milano, dall'altro a confliggere con diverse personalità del Sant'Uffizio. Nel 1569-70 l'arcivescovo di Milano mandò a processo con l'accusa di stregoneria diverse donne originarie di Lecco, sei delle quali furono condannate a morte. Il Senato di Milano protestò, con l'appoggio della Congregazione romana, criticando la «procedura sommaria» e la «qualità» delle prove su cui si basavano i processi. E, con grande disappunto di Borromeo, riuscì a salvare dal rogo le presunte streghe. L'arcivescovo ebbe una rivincita nel 1583 quando mandò a processo 106 persone nella Val Mesolcina, al confine con i Grigioni. La Lombardia, ricorda Black, «era vulnerabile alle infiltrazioni protestanti dai Grigioni, dalla Valtellina e dalla Val Chiavenna, con i loro legami con Ginevra… Dalla Lombardia passavano le vie di comunicazione fra la Savoia e il Veneto e la minaccia era esacerbata dal desiderio degli ugonotti di reclutare sostenitori — militari e religiosi — all'interno del territorio italiano». Stavolta, forse anche per i motivi di cui abbiamo appena detto, Borromeo ottenne l'appoggio delle autorità cittadine e la condanna a morte di sette donne dedite (secondo l'accusa) alla stregoneria. Le sette «streghe» furono arse vive.
La Repubblica di Lucca, per evitare ingerenze da Roma, aveva creato nel maggio del 1545 un suo «Officio sopra la Religione», guidato da un gonfaloniere di giustizia e da tre cittadini eletti dal consiglio generale della città. Idea che, però, non piacque all'Inquisizione. Nel 1555 il cardinale Carafa, divenuto Papa Paolo IV, confidò all'agente lucchese a Roma il proprio timore che «la collera divina avrebbe colpito la città di Lucca a causa dei ripetuti errori commessi in materia di religione». Anche se, preoccupato di destabilizzare la Repubblica, Paolo IV raccomandò di trattare con i guanti i sospetti di estrazione nobiliare. Il compromesso fu che a Lucca «si adottò un sistema inquisitoriale di tipo quasi medievale», in cui i vescovi e i consigli cittadini tentavano di cooperare tenendo a distanza Roma. Lucca fu l'unico territorio italiano ad avere un tribunale secolare per i crimini contro la fede. Furono sì emesse sentenze capitali, ma nessun eretico fu mai giustiziato. Unica eccezione può considerarsi quella dell'ottantacinquenne Crezia di Agostino Mariani, processata come strega nel 1571 e morta sotto tortura, al cui cadavere fu comminata la pena capitale. A Lucca venne adottata una norma assai importante contro l'accanimento della memoria, quella che imponeva ogni cinque anni la distruzione dei registri.
Un caso davvero particolare fu quello della Calabria, dove l'inquisitore, il domenicano Valerio Malvicino, diede vita nel 1561 ad una «crociata» contro gli eretici che Black definisce «una delle ultime vaste azioni in stile medievale contro le comunità valdesi». Ottantasei persone furono uccise con il taglio alla gola, i bambini sotto i quindici anni furono tolti ai genitori «eretici» e assegnati a famiglie cattoliche. Sempre nel Sud fu spietato il domenicano Giulio Pavesi. In merito all'attività di Pavesi, il cardinale di Salerno Girolamo Seripando prese atto del fatto che in Calabria era difficile trovare persone «non infettate dall'eresia» e chiese a Ghislieri se non fosse il caso di sterminare tutti («no sarà sufficiente remedio a pigliarne dieci o vinti, ma in tutto bisogneria brusarli»). E tuttavia lo stesso Pavesi fu anche un raffinato umanista, in rapporti con Giulia Gonzaga, seguace di Juan de Valdés.
Nel 1559, per una decisione riconducibile a Paolo IV (l'ex cardinale Carafa), l'opera di Valdés era stata messa all'indice. Un suo adepto in stabili rapporti con il cardinale Morone e altri alti rappresentanti della Chiesa, il nobile fiorentino Pietro Carnesecchi, nel 1567 fu mandato a morte. Invece Mario Galeota, «un amico di Carnesecchi, dal profilo ereticale piuttosto simile», fu sì condannato, ma poté poi condurre una vita normale e morire, molti anni dopo, tranquillamente nel suo letto. Un intreccio pressoché inestricabile tra inflessibilità e duttilità.
Stesso discorso vale per Sicilia e Sardegna, dove erano state insediate, nel 1487 e nel 1492, succursali dell'Inquisizione spagnola. A Palermo la repressione fu particolarmente dura, tant'è che nel 1507 scoppiò un'insurrezione che mise in fuga il viceré Juan de Moncada e l'inquisitore Mateo Cervera. Poi nel 1543 la violenta opposizione dei siciliani impedì l'adozione della pratica spagnola di far indossare nelle chiese il sanbenito (una tunica che ricordava a tutti la condanna per eresia di chi era costretto a portarla). A Cagliari l'eresia protestante fu combattuta con vigore. Al punto che l'ugonotto Gaspar Poma's, per ottenere una sentenza più mite, si fece passare da ebreo. In Sardegna fu costante l'abuso di denunce «politiche». Come quella nei confronti di Giovanni Antonio Arquer, consigliere del viceré Antonio de Cardona, accusato, nel 1543, di negromanzia e rilasciato dopo 13 mesi di detenzione. Diversa la sorte di suo figlio, Sigismondo, al quale, a dispetto del sostegno di Filippo II (o forse proprio per questo), fu addebitato di essere a contatto con le dottrine di Valdés: fu messo al rogo nel 1571. In entrambi i casi è accertato che l'Inquisizione volesse colpire gli ambienti politici a cui gli Arquer facevano riferimento.
Il quadro dipinto da Black — come si vede — non è certo idilliaco. Tuttavia ciò che più colpisce è che quello delle diverse inquisizioni appare come un mondo sfaccettato, incoerente, a tratti persino contraddittorio. Del quale restano impressi gli intrecci tra giustizia e politica, che si presentano assai simili a quelli tornati alla luce cinque secoli dopo.

Repubblica 22.1.13
I nuovi Machiavelli
Perché “Il Principe” è diventato la bibbia degli spin doctor
di Giancarlo Bosetti


Mentre da ogni parte si invoca il ritorno della politica per fronteggiare le sfide globali, dalla crisi economica all’effetto serra, i cinquecento anni del Principe di Machiavelli sono un’eccellente occasione per riaccendere la secolare disputa sulla “vera” essenza del suo pensiero, quella disputa che — diceva Croce — non si esaurirà mai. In attesa di una mostra, il prossimo autunno al Vittoriano, di una nuova edizione critica dell’opera (a cura di Giorgio Inglese) e di una Enciclopedia machiavelliana Treccani nel 2015 (a cura di Gennaro Sasso), bisognerà comunque rassegnarsi all’idea che l’aggettivo “machiavellico” non diventerà mai un complimento. Ma certo Machiavelli non è solo il crudo messaggio del realismo politico.
C’è ben altro. La grandezza del Principe sta nella scoperta, ben vista da Gramsci nelle sue Noterelle dal carcere, e raccontata da Isaiah Berlin in uno stile più drammatico: i conflitti più difficili non sono quelli tra il vizio e la virtù, ma tra due tipi diversi di virtù, quella che eleva l’essere umano alle altezze della morale e della santità e quella che lo eleva alle altezze delle grandi costruzioni politiche, principati, imperi (o democrazie). Per Gramsci quella contenuta in nucenelle dottrine del Machiavelli era una grande «rivoluzione intellettuale e morale»: l’autonomia della politica. Per Berlin è un terremoto che fa crollare lo schema monista della philosophia perennis; non esiste più una sola risposta vera a tutte le nostre domande, entriamo nell’era del pluralismo; e prendiamo atto di una separazione definitiva tra la salvezza nell’al di qua e quella nell’al di là, tra due tipi di vita che sono incompatibili.
Chi sta oggi sulle orme del Machiavelli? Per rispondere bisogna prima di tutto sapere che la politica, fatta e pensata, era la materia prima di Niccolò, era lei che alimentava le sue notti all’Albergaccio, era lei il contenuto delle sue conversazioni «nelle antique corti delli antiqui uomini», era «quel cibo che solum è mio e che io nacqui per lui», di cui alla celebre lettera al Vettori. Ed era la politica in atto della costruzione degli Stati, non pura téchne al servizio dei tiranni. Si sapeva muovere tra Roma, Parigi, Venezia e la Germania e il suo policy- making era insieme cura delle relazioni internazionali, degli armamenti, del consenso. Ma aveva sullo sfondo anche un disegno unificante, nel quale si intravede l’impossibile progetto dell’unità italiana. C’era in lui di che alimentare l’idea del politicus come il virtuoso di una virtù totale e autonoma, quella stessa per cui, tre secoli e mezzo dopo, Napoleone III avrebbe definito Cavour, il «sardo Machiavelli».
Per trovare i Machiavelli di oggi, dovremmo cominciare dalla differenza e varietà dei compiti in un’epoca in cui gli Stati sono fatti (con qualche eccezione lacerante), ma stanno perdendo la presa sulle rispettive società nazionali, mentre i sistemi democratici scompongono il mestiere del politico in due distinte professioni: quella di vincere le elezioni e quella di governare. Difficile unificarle: se gli italiani possono tenere cattedra sul tema da due decenni, Obama lo ha imparato a sue spese. Per condurre la campagna del 2008 (capolavoro assoluto di arte politica) si è servito di David Axelrod, che ha poi parcheggiato alla Casa Bianca come consulente, ma lo ha rimesso nel ruolo di strategist nel 2012 (secondo capolavoro). Nello stesso modo Bush aveva fatto con Karl Rove, il duro dei “lavori sporchi” che aveva intrecciato la campagna per la rielezione con la guerra in Iraq, gli spot elettorali con le portaerei e i top gun.
Una volta al governo, poi, al Principe democratico serve un complesso ventaglio di politiche alle quali lavorano istituzioni e think-tanks, non geni solitari. Il segretario fiorentino se la dovrebbe vedere oggi con i sondaggi, ma era un vero Segretario di Stato (nel senso americano di ministro degli Esteri) e oggi starebbe sulla scena internazionale. Allora il problema del tempo era per lui l’alleanza coi francesi per piegare Pisa, oggi sarebbe quello delle alleanze per chiudere la crisi siriana e pacificare il Medio Oriente. Pane per i denti di un Machiavelli è la discussione di questi giorni sulla crisi cubana dei missili nel 1962: è vero cospiegano me sostiene Graham Allison (Foreign Affairs) che il successo di J. F. Kennedy (un errore poteva costare 100 milioni di morti in un conflitto nucleare) dipese dalla forza della sua minaccia nucleare contro Kruscev? O invece fu essenzialmente il risultato dell’accordo segreto sul ritiro dei missili americani dalla Turchia, come sostiene James Nathan? La discussione storica sulla crisi che segnò la fine della fase ascendente del comunismo contiene fattori — come piaceva scovarne al Machiavelli nelle sue conversazioni con il passato — che le ragioni delle vittorie e dei fallimenti, e gettano luce sulle decisioni da prendere nel presente. Il dibattito su Cuba si riflette infatti sull’Iran di oggi: per disinnescare il rischio nucleare funzionerà meglio la minaccia o il negoziato?
L’opera di Ser Niccolò voleva stabilire «come si acquistono» e «si mantengono» i principati (e «perché e’ si perdono»). Oggi lo vorremmo vedere all’opera, anziché su Cesare Borgia e Papa Giulio II, su come e perché il “principato” di Gheddafi sia durato quarantadue anni, quello di Ben Ali venticinque, e come e perché «e’ si son perduti». E ragionando su di loro, e su Assad a Damasco, si potrebbero ripescare quei passaggi del Principe che colpirono il machiavellico Lenin, quando scrisse in una direttiva, segreta, a Molotov, nel 1922: «Un intelligente scrittore di questioni statali » sostiene che «se per attuare un certo fine politico è necessario commettere una serie di crudeltà, bisogna commetterle nel modo più energico e nel più breve termine poiché una prolungata applicazione di crudeltà non è tollerata dalle masse popolari ». Parlava naturalmente di Machiavelli senza nominarlo. Anche al “realista” Hegel (la storia «calpesta più di un piccolo fiore ») piaceva molto questo libro. Ma c’è modo e modo di “calpestare fiori” e le prolungate crudeltà fanno saltare i dittatori, specie in tempi di digital media e smartphone.
Qualcuno cercherà gli eredi di Machiavelli tra i numerosi “consiglieri del principe” o spin-doctor che affiancano i leader politici: dai più famosi Mandelson, Campbell, Gould della leggendaria squadra di Tony Blair, fino agli eredi nostrani del mestiere che fu inventato in America da Edward Bernays, e cioè i Casaleggio, i Gori, e le più defilate agenzie che stanno dietro a singoli candidati. Ma quello è solo un segmento dell’arte che si è nel tempo diversificata. Il segmento maggiore dell’eredità professionale è da cercare nella lista dei veri colleghi di Machiavelli, i segretari di Stato americani da Thomas Jefferson (poi presidente) a George Marshall, da Henry Kissinger a Hillary Clinton.
Quanto può la forza che incute timore? E quanto l’influenza di un potere che si fa amare? Di questo si occuperebbe oggi il Machiavelli. Sospetto che avrebbe insistito più sulla forza: tra l’essere amati e l’essere temuti, dovendosi scegliere, suggeriva ai principi la seconda via, data la natura degli uomini. Ma avrebbe certo apprezzato che i più attenti continuatori della sua scuola di pensiero si trovino alla John Kennedy School of Government (Harvard), dove Joseph Nye è noto per l’uso che fa del Principe nelle sue lezioni e per sostenere l’idea del “soft power” (ascendente culturale) contrapposta allo “hard power” (coercizione) e per aver infine perorato, proprio commentando quelle pagine di cinquecento anni fa, la necessità di un equilibrato mix tra i due, ovvero lo “smart power”, il potere intelligente che trae beneficio da entrambe le risorse: armi, alleanze, e una rete di istituzioni che accrescono influenza, legittimazione e stabilità del principato. Del resto la Firenze tra Quattrocento e Cinquecento si può ben paragonare alla maggiore potenza di oggi. Esercitarsi con una vera Segreteria di Stato europea è purtroppo fuori della nostra portata. Ci prova, con ardimento, talvolta Bernard-Henry Levi, prima sulla Libia poi sul Mali, con molte ragioni, e sospingendo all’impresa armata prima Sarkozy poi Hollande, ma l’allievo di Sartre preferisce citare a sostegno delle “guerre giuste” Grozio e San Tommaso. Il Principe rimane troppo scopertamente realista sull’ordine che si stabilisce con la violenza delle armi, troppo “machiavellico”.

Corriere 22.1.13
La solerte riabilitazione dei docenti razzisti
di Michele Sarfatti


Il documento del luglio 1938 «Il fascismo e i problemi della razza», noto anche come Manifesto del razzismo fascista, ebbe dieci firmatari, tutti universitari. I loro nomi sono noti: Lino Businco, Lidio Cipriani, Arturo Donaggio, Leone Franzì, Guido Landra, Nicola Pende, Marcello Ricci, Franco Savorgnan, Sabato Visco, Edoardo Zavattari. Verrebbe spontaneo ritenere che, cessata la Seconda guerra mondiale, sconfitto il fascismo, debellato l'occupante nazista, abrogata la legislazione antiebraica e razzista, quei dieci studiosi siano stati, se non puniti, almeno espulsi, rimossi, allontanati dal sistema educativo italiano.
Barbara Raggi ha scritto il saggio Baroni di razza. Come l'università italiana ha riabilitato gli esecutori delle leggi razziali, (Editori Internazionali Riuniti, pp. 216, € 22,90) per comprovare e ricordarci che così non è stato. Che quei dieci e molti altri protagonisti italiani di vario livello dell'ideologia e della propaganda antisemita e razzista sono rimasti o rapidamente rientrati al loro posto di insegnamento e di ricerca, o comunque sono stati assolti, amnistiati, perdonati, restituiti a una incredibile condizione di sostanziale innocenza.
È accaduto che, nei singoli procedimenti di epurazione (prima e indipendentemente dall'amnistia generalizzata), di uno si tacquero o si declassarono gli articoli pubblicati sulla rivista «La difesa della razza», di un altro si omise la partecipazione all'Ufficio razza del ministero della Cultura popolare. Un terzo venne prosciolto già in istruttoria, senza che ce ne siano pervenute le motivazioni. Di altri si evidenziarono (a difesa) i soccorsi dati ad alcuni ebrei al momento della deportazione, come se l'antisemitismo non omicida cessasse di essere un delitto, un reato, una pugnalata inferta all'intera società.
Di tutti si negava o si taceva l'azione e/o l'intenzione razzista, sì che, verso la fine dell'illustrazione delle vicende individuali, così Barbara Raggi sarcasticamente sintetizza la situazione: «I docenti universitari italiani sono stati gli unici intellettuali europei ad aver manifestato il proprio dissenso contro le politiche antiebraiche, praticate negli Stati di cui erano cittadini, accettando di lavorare negli organismi che le promuovevano».
L'autrice si interroga anche su chi furono i riabilitatori di questi antisemiti. Alcuni erano fascisti e antisemiti come gli imputati. E difendevano loro per difendere se stessi. Molti erano mossi dallo spirito di casta: non volevano che questioni «esterne» all'università prevalessero sulle regole eterne del corpo accademico. Tra questi ultimi vi erano anche persone nettamente antifasciste, affette — scrive Raggi — da un vero e proprio «strabismo corporativo». Un professore (Cotronei) ammonì i colleghi della facoltà di Scienze della Sapienza che «un nostro voto di conferma al prof. Zavattari viene inevitabilmente ad avere il significato di un atto di solidarietà; significa in altre parole che noi non disapproviamo particolarmente dottrine della natura di quelle sopra ricordate», ma la discussione del Consiglio di facoltà si concluse con 11 voti a favore dello zoologo razzista, 7 contrari e una scheda bianca.
Tutto ciò ovviamente si innestò sulle strategie di difesa tecnica degli imputati e l'insieme produsse un altissimo risultato di permanenze o rapidi riaccoglimenti dei docenti antisemiti nel sistema educativo superiore (risultato che inoltre fu ben superiore a quello relativo al reingresso in servizio dei professori ebrei espulsi nel 1938, come è stato ricostruito da Roberto Finzi e altri storici). E questi pieni riaccoglimenti furono (e spesso sono tuttora) accompagnati da curricula e biografie mutile, colme di omissioni: come se essi non avessero mai agito con la testa e con la penna contro ebrei e neri.

Il libro di Barbara Raggi «Baroni di razza», viene presentato oggi, alle ore 18, alla libreria Claudiana di Milano (via Sforza 12), da Pasquale Chessa e Michele Sarfatti

La Stampa 22.1.13
Non si può insegnare la Shoah ai bambini
Nell’anniversario della liberazione di Auschwitz, domenica 27 gennaio si commemorano le vittime dell’Olocausto. Parla lo storico Bensoussan
Di questa tragedia si parla troppo perché se ne parla male, in maniera compassionevole per le vittime
Invece si tratta di una grande questione politica e antropologica che rappresenta una cesura, una rottura nella civiltà occidentale
di Alberto Mattioli


In libreria
Molti, come sempre, i titoli che gli editori mandano in libreria in occasione del Giorno della Memoria. Tra gli altri segnaliamo: Hans Keilson, Commedia in minore , Mondadori (p.136, € 10); Bruno Apitz, Nudo tra i lupi , Longanesi (pp. 461, € 18,60); Sam Pivnik, L’ultimo sopravvissuto. Una storia vera (Newton Compton, pp.326, € 9,90); Janusz Korczak, Diario del ghetto (Castelvecchi, pp. 118, € 14); Francesco Roat, I giocattoli di Auschwitz (Lindau, pp. 294, € 19,50); Lia Levi, Lungo il cammino delle stelle e Maria Konopnicha, Mendel di Danzica (entrambi Sipintegrazioni); Lena Muchina, Il diario di Lena (pp. 372, € 16,50); Léon Poliakov, Storia dell’antisemitismo (Bur, pp. 350, € 14,50); Fabio Amodeo e Mario José Cereghino, La lista di Eichmann (Feltrinelli, pp. 201, € 16); Göran Rosenberg, Una breve sosta nel viaggio da Auschwitz (Ponte alle Grazie, pp. 354, € 15,80); Sami Modiano, Per questo ho vissuto. La mia vita ad Auschwitz-Birkenau e altri esili (Rizzoli, pp. 280, € 18). Infine torna in versione fumetto, realizzato da Vincent Bailly e Kris e con prefazione di Walter Veltroni, il romanzo di Joseph Joffo Un sacchetto di biglie ( Rizzoli Lizard, pp. 128, € 15).

Storico e responsabile editoriale del Mémorial de la Shoah di Parigi, Georges Bensoussan è l’autore di una sintetica ma assai ben fatta Storia della Shoah che La Giuntina ha appena tradotto e pubblicato in Italia (pp. 168, € 12).

Professore, il 27 è la Giornata della Memoria. «È importante celebrarla. Ma bisogna avere ben chiaro che in realtà l’Unione Europea l’ha istituita per celebrare la rifondazione dell’Europa. L’unità europea è stata costruita sull’antinazismo e il simbolo del nazismo, ciò che lo differenzia dall’altro grande totalitarismo, il comunismo, è appunto la Shoah. È la Giornata della Memoria europea, non ebrea. È l’Europa dei lumi contro la notte della ragione».
Sulla memoria, la Francia ha ancora del lavoro da fare?
«L’idea della complicità di Vichy, dunque dello Stato francese, è recente. Nel ’73 fu uno storico americano, Robert Paxton, a pubblicare i primi studi sull’argomento. Ormai la tradizionale visione binaria Resistenza-collaborazionismo non regge più. In mezzo c’è una vasta zona grigia. All’inizio della persecuzione, la maggioranza dei francesi, e le élite in particolare, non protestarono affatto. Anche se è difficile valutare l’evoluzione dell’opinione pubblica in un regime dittatoriale, la svolta avvenne nel 1942 quando iniziarono le rafles, le retate. La caccia all’ebreo indignò molti francesi. Ma, in generale, è sbagliato avere una visione monocolore. La Francia non è stata solo Vichy e non è stata solo la Resistenza. E per fortuna circa tre quarti degli ebrei francesi si sono salvati».
Perché?
«Intanto perché la Francia è grande e fatta anche di foreste e di montagne. E poi non dimentichiamoci che la Francia del Sud, la cosiddetta zona libera, fu occupata solo per venti mesi. Infine, parte di questa zona fu occupata dagli italiani. I documenti tedeschi sono pieni di lamentele contro gli italiani che proteggono gli ebrei e addirittura li sottraggono alle retate della polizia francese».
Lei ha polemizzato con Nicolas Sarkozy che aveva proposto che ogni bimbo francese ricostruisse la storia di un bimbo ebreo deportato.
«Semplicemente, da storico ho fatto presente che l’idea era benintenzionata ma assurda. Non si può insegnare la Shoah ai bambini, non si può mostrare loro Treblinka. Perché è una memoria troppo pesante, troppo dura da portare e finisce per colpevolizzarli. Si può, anzi si deve, insegnare loro cosa c’è intorno alla Shoah, cosa sono il razzismo o l’intolleranza. Alle elementari puoi parlare di Anna Frank. Delle camere a gas, no».
Sulla memoria, c’è qualcosa che si potrebbe fare e non si fa?
«Forse avere ben presente che, dal punto di vista storico, la memoria è una trappola. La memoria non è la storia, è una religione. E non serve a ricordare, ma a dimenticare, perché è fatalmente selettiva. Per questo lo storico è disincantato e deve esserlo. Mi spiego con un esempio che non c’entra con la Shoah. Nel 1985 furono ricordati con grande riprovazione i 300 anni della revoca dell’editto di Nantes, quello che aveva concesso agli ugonotti la libertà di culto. Tre anni dopo, lessi il Code noir, cioè l’insieme delle leggi che regolavano la schiavitù nelle colonie francesi. Bene. Sa in che anno Luigi XIV l’aveva promulgato? Nel 1685. Solo che il suo terzo centenario non l’aveva ricordato nessuno».
Insomma, della Shoah si parla troppo?
«Se ne parla troppo perché se ne parla male. Cioè se ne parla in maniera compassionevole per le vittime, mentre la Shoah è un’enorme questione politica e antropologica. Politica, perché pone il problema di come un popolo civilizzato abbia scientemente deciso di eliminarne un altro. Antropologica, perché rappresenta una cesura, una rottura nella civiltà occidentale. Lo capirono per primi certi intellettuali cattolici del dopoguerra, come Maritain, Claudel o Julien Green. Poi il tema è stato ripreso dagli Anni 70 con uno studio della Shoah che si è giovato di nuovi strumenti, per esempio la psicanalisi».
Ma a livello mediatico, lei dice, è troppo presente.
«C’è una saturazione della memoria. Il discorso sulla Shoah, sui giornali, nei film, in televisione, è talmente invadente e basato soltanto sul pathos da diventare banalizzante. La nostra è una società compassionevole, dove lo status di vittima è quello più ambito. Dunque ognuno vuole avere la sua Shoah. E Auschwitz viene continuamente evocato per situazioni completamente diverse. Fino al paradosso di paragonare sulla questione palestinese i nazisti di ieri agli israeliani di oggi, che è una bestialità».
Ultima domanda e anche personale. La Shoah non è un soggetto troppo duro per dedicarle la vita intera?
«È sicuramente un soggetto sconvolgente. Ci si salva con un humour nero che per i non addetti ai lavori potrebbe risultare scandaloso, politicamente molto poco corretto. È lo stesso che hanno i medici o chi è tutto il giorno e tutti i giorni alle prese con la sofferenza. Però vivere quotidianamente a contatto con la Shoah ti rende anche molto acuto sulla realtà di oggi. Ti si drizzano le antenne, stai più attento a quel che senti. E capisci che le parole sono sempre la prima tappa della tragedia».

La Stampa 22.1.13
Incontro all’orrore con la valigia in mano
In un saggio Bruno Maida racconta la persecuzione dei piccoli ebrei in Italia dalle leggi razziali ai forni crematori
di Elena Lowenthal


I bambini non dovrebbero mai entrare nei libri di storia. La storia, quella con la maiuscola all’inizio, non è cosa per loro ma per gli adulti. Quando i bambini vi entrano, è perché c’è qualcosa di sbagliato. Non in loro, naturalmente, ma nella storia fatta dagli adulti.
Allo Yad Vashem, il memoriale alla Shoah che occupa una collina di Gerusalemme, c’è un luogo diverso dagli altri. E’ un edificio ottuso, completamente buio. Un’unica fiammella di candela, grazie a un invisibile gioco di specchi neri, produce milioni di riflessi baluginanti. Il visitatore entra e deve tenersi al mancorrente per seguire il percorso cieco, non vede nulla altro che quegli innumerevoli riflessi di candela. Intanto, una voce scandisce dei nomi e delle date di nascita. Sono i nomi di un milione e più di bambini sterminati. Non sono tutti perché tanti mancano all’appello. La voce ci mette due anni, a dirli tutti. E poi ricomincia.
Lo sterminio dei bambini, spiega Bruno Maida in un libro che non avremmo mai voluto leggere ma che era necessario scrivere, La Shoah dei bambini. La persecuzione dell’infanzia ebraica in Italia 1938-1945 (Einaudi, pp. 345, € 29) non era un corollario della soluzione finale. Era invece la fase cruciale e determinante dello sradicamento di questa presunta razza – «I bambini crescono e diventano schifosi ebrei», rispose l’ufficiale tedesco responsabile della strage di Meina a qualcuno che gli chiedeva ragione di quella assurdità. Ammazzando i bambini si cancellava il futuro, oltre che il presente. E questa impresa fu metodica, drastica. «Nel carcere femminile di Varese, la tredicenne Liliana Segre entrò sola, fu fotografata, le vennero prese le impronte digitali e una secondina la gettò in cella senza una parola»… «Elena, sei anni, venne arrestata con la mamma Francesca, malgrado fosse figlia di un matrimonio misto»…
Bruno Maida ripercorre la storia dei bambini italiani in quegli anni in tutte le sue fasi, via via incontro all’orrore. Settecentosettantasei di loro arrivarono ad Auschwitz. «Non posso vedere i bambini che vanno in fila in qualche posto», racconta Ida. «”Vedi i bambini che vanno al circo? ”, le chiese il figlio. “Io vedo bambini che vanno al crematorio per mano”, rispose Ida». Ma la Shoah per i bambini ebrei italiani non fu soltanto Auschwitz. Fu l’infanzia rubata a partire da quel 1938 che li marchiò di un’infamia incomprensibile. Le leggi razziali stabilivano, va detto, che bastava un quarto di «sangue» ebraico per essere inclusi nei provvedimenti: da un giorno all’altro si trovarono respinti dall’Italia anche insospettabili famiglie cattoliche con qualche vago antenato ebreo. E i bambini, espulsi da scuola, cacciati dal mondo, dovettero fare i conti con il torto di essere diversi e spregevoli, con il terribile nascondimento del proprio nome, con il rifiuto da parte di tutti gli altri. «Per i genitori era assai difficile spiegare i motivi della persecuzione e quindi l’unica cosa che potevano dire era vietarci di dire di essere ebrei. Non dirlo mai, negarlo di fronte a ogni evidenza, sebbene poi potesse significare interiorizzare gli stereotipi più diffusi».
Prima delle persecuzioni e dei treni merci, infatti, per i bambini ebrei d’Italia ci furono anni di terribile grigiore, di un’esclusione che in loro non destò rabbia o ribellione, magari l’avesse fatto perché sarebbero stati un poco più salvi, ma consapevolezza di un’inferiorità capace di meritarsi quel trattamento da parte del mondo. A tutti loro fu imposta un’identità «sconosciuta e incomprensibile» fondata sulla colpa di essere quello che erano. Poi vennero l’abbandono e la paura, e un silenzio tenace, spaventoso. Se gli adulti cominciarono a parlare, i bambini lo fecero molto più tardi, decenni dopo. «Probabilmente la prima bambina deportata dall’Italia che ha testimoniato fu Arianna Szoreny, nel 1979, all’età di quarantasei anni».
Maida ripercorre queste esistenze, segue con competenza ed estrema delicatezza il viaggio dei bambini dentro quegli anni. Dopo le leggi razziali, la guerra e, se andava bene, l’abbandono del proprio mondo per una clandestinità salvifica. Anche questo fu un trauma: «Le valigie sono rimaste, nella memoria infantile, un segno fisico di quella condizione di sospensione nella quale gli ebrei si trovarono». Le valigie, gli oggetti cari lasciati a casa con la quasi certezza di non rivederli più. E le fughe quando i tedeschi erano vicini, le cantine buie dove aspettare che se ne andassero, gli arresti, la prigione, gli appelli nel campo di raccolta, i treni merci e le settimane di viaggio verso l’ignoto. E la piattaforma di Auschwitz, la selezione, le finte docce che schizzavano gas. E i forni crematori e quel fumo che usciva dalle ciminiere. E continua a uscire, da allora, per tutti quelli che sono rimasti e che sono venuti dopo.

La Stampa 22.1.13
Su Radio3, dal D’Azeglio di Torino

Per il Giorno della Memoria, domenica 27 gennaio Radio3 propone, dalle 19 alle 21,30, La Memoria del futuro , una trasmissione condotta da Marino Sinibaldi dal liceo D’Azeglio di Torino, dove hanno studiato Leone Ginzburg e Primo Levi. Porteranno la loro testimonianza Ugo Sacerdote e Liliana Treves, e interverranno tra gli altri Anna Bravo, Alberto Cavaglion, Daniele Segre, Carlo Ossola, Andrea Bajani. Infine verrà presentata una nuova candidatura a Giusto di Israele con la storia di Carlo Antonielli d’Oulx e Enrico Loewenthal.

Repubblica 22.1.13
Quei sabotatori della Costituzione
di Salvatore Settis


I becchini della Costituzione non perdono occasione per difenderla (a parole) mentre le scavano alacremente la fossa. Si perdono in elogi estetici o nostalgici (“è proprio bella”, “ma quanto erano bravi i Costituenti”), ma coprono di insulti chi si azzarda a difenderla sul serio. Benigni, naturalmente, “è solo un comico”, ergo avrebbe dovuto tacere; se poi chi prova a difendere la Costituzione è un cittadino qualsiasi, allora sarà certamente “un conservatore”. Si diffonde intanto la chiacchiera da bar secondo cui la prossima legislatura (i cui senatori e deputati saranno scelti mediante il Porcellum) dovrebbe, Dio sa perché, segnare una “fase costituente”. A dirlo, delegittimando la Costituzione vigente, non sono solo Berlusconi e Calderoli, ma anche ministri che pur le hanno solennemente giurato fedeltà. Insomma: è lecito lodare la forma della nostra Carta fondamentale, purché si dia per scontato che i suoi contenuti sono obsoleti, che è un oggetto di antiquariato da riporre in soffitta. La riforma dell’art. 81, che la “strana maggioranza” di Monti ha approvato, unanime, lo scorso aprile, è stato un abile ballon d’essai.
Secondo la versione ufficiale, il nuovo testo ha introdotto l’obbligo del pareggio in bilancio: col che si insinua che il vecchio testo autorizzasse ogni debito e ogni spreco. Ma allora perché Luigi Einaudi, grande economista, poté scrivere nel 1955 (quando era Capo dello Stato) che l’art. 81 «costituisce il baluardo rigoroso ed efficace voluto dal legislatore costituente » per «il pareggio sostanziale fra entrate e spese»? Quelle pagine di Einaudi (in una lettera al ministro del Tesoro Pella) sono state opportunamente riproposte in appendice al suo classico studio sulle Entrate pubbliche dello Stato sabaudo (Vitale & Associati, 2011). Esse dimostrano che l’art. 81 fu pensato dai Costituenti per «affermare l’obbligo di aumentare le entrate e diminuire le spese sì da giungere al pareggio ». Il nuovo art. 81 non sarebbe piaciuto a Einaudi: esso infatti cancella il divieto di «stabilire nuovi tributi e nuove spese con la legge di approvazione del bilancio » che c’era nel vecchio testo; anzi, favorisce «il ricorso all’indebitamento al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e al verificarsi di eventi eccezionali». Insomma, a ogni terremoto o alluvione il debito pubblico crescerà, ma in compenso verranno aumentate le tasse.
Visto il successo del ballon d’essai, solerti carpentieri stanno già costruendo più d’un cavallo di Troia per contrabbandare ulteriori riforme. Forse saremmo contenti di ridurre il numero di deputati e senatori (il che richiede la modifica degli art. 56 e 57). Ma che diremmo se nello stesso “pacchetto” si insinuassero altre modifiche proposte di recente? Per esempio, quella che abolisce l’obbligatorietà dell’azione penale (art. 112) ; o un’altra che stravolge l’art. 33 («Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole e istituti di educazione senza oneri per lo Stato »), togliendo le parole “senza oneri per lo Stato»: infatti, secondo l’on. Volontè, esse sono «un alibi costituzionale» per non finanziare la scuola privata. Per non dire dell’idea ricorrente di violentare l’art. 41: esso già dice che «l’iniziativa economica privata è libera», ma prescrive che «non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana», ma ai neoliberisti de noantrinon basta. Bisogna abolire ogni vigilanza pubblica, proclamare che «è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge», ammettendo semmai qualche controllo ex post, relegare al margine quello che ora è il cuore dell’art. 41: l’utilità sociale e la difesa del lavoro. Queste e simili meraviglie ci aspettano nella “fase costituente” che bolle in pentola: mandare al macero quel che non piace a Lorsignori, bollandolo come “alibi costituzionale”. La Costituente, per loro, è stata una fabbrica di alibi.
La Carta fondamentale sta diventando un collage di coriandoli, un’accozzaglia di articoli sconnessi, da disfare uno per uno. Si perde la coscienza (storica, giuridica, etica) che l’orizzonte dei diritti disegnato dai Costituenti è uno solo, e che togliere una ruota dall’ingranaggio ne indebolisce l’insieme. Che tutela del lavoro e utilità sociale dell’economia sono, per la Costituzione, baluardi della democrazia e della libertà. L’accordo bi — e tri-partisan nell’approvare la riforma dell’art. 81 e il concorde cinguettio su una “fase costituente” sono segnali sinistri di una perversa fase (in realtà) de-costituente. All’indomani delle elezioni, sarà ancor più attuale la domanda che Stefano Rodotà ha posto in queste pagine (20 giugno 2012): «può un Parlamento non di eletti ma di nominati mettere le mani in modo incisivo sulla Costituzione?».
Oggi è più importante che mai parlare di Costituzione. Parlarne da giuristi, ma anche da cittadini. Parlare dei suoi contenuti, e non solo lodarne la bellezza. Roberto Benigni, con lo stesso empito civile con cui ha non solo recitato, ma spiegato Dante in tutte le piazze d’Italia, potrebbe anzi entrare nel merito degli articoli della Costituzione, mostrare da par suo che essi ci riguardano da vicino. Un solo esempio: la difesa dei suoli agricoli. La proposta di legge del ministro Catania, che si spera riemerga nella prossima legislatura, può essere assai migliorata, ma già contiene l’intento di arginare lo scellerato consumo di suolo. È un tema di grande rilevanza costituzionale: difendere i suoli agricoli vuol dire infatti tutelare il paesaggio, vuol dire proteggere e promuovere la produzione di cibo (lo ha scritto in queste pagine Carlo Petrini). L’inquinamento ambientale danneggia il corpo, le devastazioni del paesaggio e del patrimonio artistico provocano disagi e malesseri della mente: perciò la tutela dell’ambiente è un valore costituzionale primario, per la convergenza dell’art. 9 (tutela del paesaggio) e dell’art. 32 (tutela della salute «come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività»).
Nulla difende il paesaggio e l’ambiente quanto un’agricoltura di qualità. Il nostro paesaggio agrario è segnato da una millenaria civiltà contadina, intrecciata con la cultura delle élites: il paesaggio plasmato dalla vanga è lo stesso che fu celebrato da poeti e pittori. L’intima fusione di paesaggio e patrimonio culturale ha nell’uso agrario dei suoli il suo punto di sutura, in un equilibrio che fece dell’Italia il giardino d’Europa. E se il rispetto dell’ambiente è la fonte primaria della nostra salute fisica e mentale, la promozione dell’agricoltura di qualità ha un enorme potenziale economico, nel rispetto del diritto al lavoro (art. 4 Cost.). Per citare ancora Luigi Einaudi: «La lotta contro la distruzione del suolo italiano sarà dura e lunga, forse secolare. Ma è il massimo compito di oggi se si vuole salvare il suolo in cui vivono gli italiani». Questo “massimo compito” ha una suprema garanzia: la Costituzione.

Repubblica Salute 22.1.13
Psicoterapie
Ansia, fobie & Co. bastano 10 sedute per guarire?
In libreria da giovedì il primo “Dizionario internazionale”
di G. Castelnuovo e altri


IN BASE ALLE RICERCHE SCIENTIFICHE, MODELLI (E DURATA) CHE FUNZIONANO MEGLIO NEI VARI CASI
LAVORO DI UN TEAM DI 360 ESPERTI: DIVERSI APPROCCI E UN’APPENDICE CHE INDICA,

Negli ultimi cinquant’anni la ricerca in psicoterapia ha conosciuto un particolare sviluppo giungendo a dimostrare con migliaia di studi l’efficacia e l’efficienza di molti trattamenti psicoterapeutici per un’ampia gamma di problematiche psicologiche. (...) Per costruire il ponte fra la ricerca e la pratica in psicoterapia (...) sono soprattutto due gli approcci più comuni tra ricercatori e clinici. Da un lato è possibile notare lo sviluppo dei cosiddetti ESTs (Empirically Supported Treatments), che si basano su RCTs (Randomized Controlled Trials) sulla scia della EBM (Evidence Based Medicine); dall’altro lato si sottolinea il sorgere di studi relativi alla prospettiva dei “fattori comuni”, tesi alla conferma del cosiddetto “verdetto di Dodo” (l’uccello di “Alice nel Paese delle meraviglie” di Lewis Carroll, che afferma “tutti hanno vinto e tutti meritano un premio”: per dire che diversi trattamenti sono tutti egualmente efficaci, ndr)
(...) Molti approcci di psicoterapia hanno reagito difensivamente di fronte alla Medicina basata sulle evidenze (EBM). Per esempio, l’approccio psicoanalitico si è tradizionalmente basato sull’assunto che i principi teorici potessero essere sviluppati solo con studi di casi individuali in setting clinici non controllati. (...) Dagli anni Novanta, grazie a un’iniziativa dell’American Psychological Association (APA), si è creato un elenco delle terapie riconosciute come scientificamente (nel senso di sperimentalmente) testate per la loro efficacia: si tratta, appunto, dei trattamenti supportati dall’evidenza scientifica (...)
Vi sono moltissime critiche a un approccio di questo tipo (...) Problematiche relazionali,
familiari, di coppia, ma anche esistenziali, evolutive ecc. non solo non possiedono un’etichetta diagnostica tale da essere inclusa nei manuali nosografici ufficiali, ma difficilmente vengono considerate e misurate con gli strumenti tradizionali utilizzati nella ricerca con i trial clinici. (...) Prima di tutto gli studi in psicoterapia non possono essere ciechi nello stesso senso degli studi con il placebo in medicina (...) Infatti il terapeuta deve conoscere la natura del trattamento selezionato per poter seguire e applicare un certo protocollo clinico. (...) Grazie all’uso di disegni di ricerca e metodi statistici sofisticati, tornano a essere considerati dai ricercatori gli studi sul caso singolo, ponte di collegamento fra pratica clinica e ricerca; questi (....) possono addirittura fornire una stima sul numero di sedute necessarie a raggiungere un miglioramento per quanto concerne lo stato di salute del paziente: una buona ricerca, non implica necessariamente l’impiego di un grande numero di soggetti. (...) Il “Dodo Bird Verdict” è divenuto una metafora atta a rappresentare lo stato della ricerca in psicoterapia e «un simbolo di una aspra controversia relativa al privilegio di specifici approcci, per specifiche patologie basati sugli RCTs» (le terapie cognitivocomportamentali meglio si prestano alla misurazione e ai trial clinici, ndr)(...)
Lambert nel 1992 identificò 4 fattori terapeutici come i principali elementi per ottenere miglioramenti in psicoterapia: fattori extraterapeutici, fattori comuni, aspettativa o placebo, tecniche. (....) ma è bene evitare eccessiva enfasi sulla tecnica con il rischio di cadere in un possibile nuovo tipo di riduzionismo: la tecnica è importante ma non è tutto. (...) Bisogna anche considerare che alcuni passaggi della psicoterapia sono più legati ad applicazioni “cucite” in base a intuizioni e percezioni personali (anche con una percentuale di “mistero” e di questioni inspiegate e inspiegabili) piuttosto che alla ripetizione di tecniche ben apprese. (...) Una delle principali risorse metodologiche usate all’interno della prospettiva dei “fattori comuni” è la metanalisi. (...) Durante gli ultimi anni, lo strumento della metanalisi è stato criticato. Tali critiche principalmente emergono da quelle metanalisi mal condotte che generano risultati senza pre-specificare le ipotesi o che si limitano a combinare diversi studi. Metanalisi ben pianificate, al contrario, hanno una crescente influenza nella ricerca clinica. (...) Nella tabella (
qui nel disegno centrale della pagina, ndr) vengono riportate le principali psicoterapie
o gli interventi di psicologia clinica risultati più efficaci per ciascuna condizione problematica (frutto di molteplici fonti, ndr).
(...) Quando si utilizzano i farmaci, il clinico si deve sempre porre una questione: la “stampella chimica” rappresenta alla lunga un vero cambiamento terapeutico? La riduzione farmacologica dei sintomi è un segnale effettivo di cambiamento psicoterapeutico? C’è dunque una differenza sostanziale fra alleviare un sintomo, inibendolo chimicamente, o, al contrario, lavorare sulla persona per diminuirne il disagio psicologico e condurla a trasformare il suo modo di gestire la realtà. (...) Riteniamo, inoltre, importante rimarcare che, come hanno evidenziato Assay e Lambert, un buon 50% delle patologie psicologiche e comportamentali, grazie alle evoluzioni tecniche della psicoterapia, può essere risolto con un trattamento di durata non superiore alle 10 sedute; un altro 25% richiede un trattamento che non supera le 30 sedute, mentre solo il restante 25% circa dei disturbi necessita di una terapia prolungata nel tempo. (...)

DIZIONARIO INTERNAZIONALE DI PSICOTERAPIA
a cura di G.Nardone A.Salvini 704 pagine 35 euro Garzanti

Repubblica 22.1.13
Esperienze e libri per bambini e adolescenti, ma non solo: psicologi e cartoon
Così i Puffi e Dylan Dog aiutano a vincere le paure
di Valeria Pini


Dylan Dog aiuta ad affrontare gli incubi. Olivia affascina le adolescenti perché, con la sua figura sottile e poco femminile, le rassicura. I Puffi stimolano la capacità dei bambini a gestire le relazioni. Vampiri, morti viventi e alieni, ci raccontano le nostre paure. Perché in ogni fumetto, c’è un messaggio che può essere utile nelle diverse fasi della vita. E le strisce possono diventare uno strumento terapeutico per psicologi e psicoterapeuti. Esperienze che si rivelano positive soprattutto quando i pazienti sono bimbi o adolescenti. Perché le vignette aiutano a crescere e a gestire paure e debolezze. Sarà per questo che leggere Topolino, Paperino e Qui Quo Qua piace ai più piccoli. «Attraverso il meccanismo d’identificazione il bambino può così elaborare il conflitto edipico e squalificare le figure genitoriali dalle quali dipende. Questo tipo di elaborazione è funzionale in tutte le società occidentali. I fumetti giapponesi, come Dragon Ball, stimolano lo spirito competitivo». spiega Marco Minelli, autore del Manuale di Psicologia del fumetto (Psicoline edizioni), che ne ha parlato all’associazione Buen Vivir di Milano.
Dal 2006 l’associazione Barbablù di Cesena organizza laboratori di comics con bambini fra i quali molti con difficoltà cognitive, lievi forme di autismo, dislessia o disgrafia. Attraverso lo studio dei personaggi, psicologi e logopedisti hanno verificato quanto sia più facile per gli allievi concentrarsi e acquisire concetti. Di fumetto come strumento di terapia si è occupato Guido Crocetti, docente di Psicologia Clinica a Roma e autore del libro Conoscere l’adolescenza - Il fumetto come strumento per la diagnosi e la terapia
(Edizioni Armando), che ha coordinato dei laboratori in 250 scuole italiane: «Abbiamo scoperto che i ragazzi esprimono facilmente i loro pensieri disegnando fumetti. È un modo per sperimentare le diverse strategie di gestione degli affetti e delle pulsioni, in particolare dell’aggressività e della sessualità », spiega Crocetti, «raccontare l’avventura di un animale disegnando un fumetto è diventato uno strumento per comunicare con i teen ager, soprattutto quelli molto chiusi».
Fumetti che però possono anche essere utili in età adulta: segue questo filone il Quaderno d’esercizi per affermarsi e imparare a dire di ‘No’ e quello Per una coppia felice (edizioni A. Vallardi). Perché a volte una vignetta aiuta a sdrammatizzare situazioni complicate, come nel caso dei conflitti di coppia.



l’Unità 22.1.13
L’inconscio si fotografa
Una mostra a Roma


FINO A MERCOLEDÌ A ROMA È POSSIBILE VISITARE «SI PUÒ FOTOGRAFARE L'INCONSCIO?" la mostra del Dream-Slave Group formato dalle artiste Giuliana Polenta e Silvana Petrucci. Un evento curato dall'organizzazione artistica Tartaglia Arte in collaborazione con il Casc-Bi e che si tiene presso la sede della Banca d'Italia a Roma, in via del Mandrione, 190.
Questo è il secondo di una serie di eventi che, grazie alla disponibilità del Casc-Bi, la Tartaglia Arte sta organizzando in questo nuovo spazio espositivo dove, di volta in volta, saranno creati connubi tra le diverse forme d'arte.
Si può, dunque, fotografare l'inconscio? Questa è la domanda alla quale Giuliana Polenta e Silvana Petrucci intendono rispondere attraverso la loro sfida al mondo delle immagini comuni. Durante un'esperienza realmente onirica, vissuta insieme, si confrontano sul sogno e, entrambe psicoanaliste, si trovano proiettate in un cammino che sfocia in una ricerca a più livelli. Già dal nome che hanno scelto, Dream-Slave Group, si evince che il sogno è il protagonista principale di questa nuova ipotesi artistica. Le due autrici procedono con le immagini del sogno per trovare punti di realtà che si sviluppano con l'aiuto dell'immaginazione fotografica e la ricerca di elementi simbolici che occupano lo spazio della pellicola, ma, non pienamente appagate, ecco che accanto alle immagini fanno apparire la parola scritta sotto forma di versi poetici.
Subito, a contatto con le loro opere, ci si sente in un ambito di ricerca assai complessa e coinvolti in un percorso la cui traiettoria diviene via via la nostra traiettoria, in un progressivo dischiudersi di meandri interiori, dove ciò che vediamo trova un'esatta corrispondenza di immagini e di stati d'animo. Lo spettatore diventa un' estensione dell'opera o viceversa? Si compie così un'esperienza che ci ri-mette in contatto, ci fa ri-conoscere ciò che già sapevamo, secondo la teoria di C.G. Jung sull'inconscio collettivo così ben descritta nel testo di Giuliana Polenta.