l’Unità 23.1.12
Bersani: taglierò gli F35
Il leader Pd: ridurre il piano militare, la priorità è il lavoro
di Simone Collini
Rivedere
le spese per gli F35, l’uscita di domani a Roma con Nichi Vendola e
Bruno Tabacci e poi la prossima settimana il comizio a Firenze insieme a
Matteo Renzi. Pier Luigi Bersani fa partire la fase due della sua
campagna elettorale. E lo fa con un annuncio che al quartier generale
del Pd spiegano essere frutto di un attento esame del bilancio della
Difesa, ma che di fatto è un chiaro segnale all’elettorato di sinistra e
a quanti (tanti) giudicano inopportune le alte spese per gli armamenti
in una fase di crisi economica come questa.
«Bisogna assolutamente
rivedere il nostro impegno per gli F35, la nostra priorità non sono i
caccia, la nostra priorità è il lavoro», dice Bersani intervistato dal
Tg2 della sera. Gli arancioni di Rivoluzione civile vanno all’attacco,
parlando di «lacrime di coccodrillo da parte di chi ha sostenuto un
governo amico delle lobby delle armi» (Antonio Di Pietro), della
necessità di «non solo rivedere ma cancellare completamente il programma
per gli F35» (Angelo Bonelli) e avanzando il sospetto che si tratti di
un’affermazione dettata più che altro da ragioni elettorali.
In
realtà chi ha parlato con Bersani nelle ore precedenti a quell’uscita
spiega che dietro quelle parole c’è una comparazione tra il bilancio
della Difesa (19,96 miliardi di euro, pari all’1,2% del Pil, nel 2012,
con prospettiva di aumento a 20,93 miliardi per il 2013) e gli ultimi
dati forniti dal ministero dell’Economia, del Lavoro, da Bankitalia e
anche dall’Istat. Dati relativi al tasso di disoccupazione giovanile
(ora al 29%, in aumento per il quarto anno consecutivo), famiglie in
condizioni di povertà (8 milioni di individui), previsioni di calo del
Pil per il 2013 (1% e non più come precedentemente calcolato 0,2%).
Ecco
perché ieri Bersani ha fatto capire che con lui premier, in caso di
vittoria, le spese per gli armamenti verranno limitate per poter
consentire maggiori investimenti per le politiche del lavoro e misure
per la crescita e lo sviluppo. E pazienza se dal fronte arancione
partono all’attacco con l’accusa di propaganda: al Pd ricordano che
venne presentata in Parlamento già il 28 marzo 2012 una mozione in cui
si chiedeva di rivedere la spesa (il governo Monti ha diminuito il
numero di veivoli da acquistare da 131 a 90) mentre Rosa Calipari
risponde a Di Pietro che i gruppi del Pd non hanno mai votato a favore
dell’acquisto degli F35. Uscire dal programma «Joint Strike Fighter»
(questo il nome ufficiale), a cui l’Italia partecipa da un quindicennio,
è impensabile visti anche gli investimenti che hanno fatto diverse
aziende italiane, ma non lo è limitare ulteriormente il numero dei
veivoli (ognuno costa circa 13 milioni), come hanno fatto diversi altri
Paesi coinvolti nel progetto.
Bersani liquida con un’alzata di
spalle le polemiche alimentate da destra (il presidente dell’Udc Rocco
Buttiglione dice che una diminuzione della spesa militare serve e però
vede in quest’uscita del leader Pd «sudditanza psicologica verso Vendola
e l’ala più radicale della sinistra») e manca, convinto com’è che «c’è
certamente un’offerta politica ampia e nuova, ma la novità più grande è
il Pd». L’unico partito che non ha sul simbolo il nome del leader e
l’unico in grado di vincere e chiudere il ventennio berlusconiano: «Chi
arriva primo al voto degli italiani in tutta Italia governerà alla
Camera e al Senato», ribadisce a uso e consumo di chi (come Pier
Ferdinando Casini) dice che per guidare il prossimo governo Bersani
dovrà vincere in entrambi i rami del Parlamento.
Gli ultimi
sondaggi fanno comunque ben sperare, per il centrosinistra. Il Veneto
sembra la sfida più difficile, mentre l’ultima indagine dell’Ipr
Marketin dà la coalizione composta da Pd, Sel e Centro democratico in
lieve vantaggio anche per il Senato in Lombardia, Campania e Sicilia. È
proprio nelle regioni chiave per ottenere la maggioranza a Palazzo
Madama che si concentrerà ora Bersani (che però oggi sarà ad Albano e
Marino, in provincia di Roma). E come lui farà Renzi, che il primo
febbraio sarà insieme al segretario Pd al teatro Obihall di Firenze, per
poi andare a fare campagna elettorale anche in Lombardia e Veneto.
Anche
dopo la presentazione delle liste elettorali, Bersani è convinto che il
successo a febbraio non mancherà. L’esclusione di Nicola Cosentino
dalle candidature Pdl non servirà, secondo il leader Pd, a gettare nuova
luce sul partito di Berlusconi: «Se avessero applicato le nostre stesse
regole, sarebbero saltate ben altre candidature nel Pdl. Il meccanismo
di pulizia politica è la partecipazione, non si può decidere in una
stanza. Noi ci siamo messi in gioco e il 90% dei nostri candidati viene
dalle primarie. Credo che questa sia davvero la strada per ripulire la
politica».
La Stampa 23.1.13
Per la prima volta Monti distensivo verso il Pd
di Marcello Sorgi
Per
la prima volta da quando è cominciata la campagna elettorale, Mario
Monti mostra un atteggiamento distensivo verso il Pd e polemizza con
Berlusconi, che continua ad usare il pericolo comunista come argomento
di propaganda. E’ come se il presidente del Consiglio cominci a mettere
in conto la prospettiva, assai probabile, che centro e centrosinistra
debbano tornare alleati dopo il voto, per costruire insieme il prossimo
governo e una maggioranza anche al Senato, dove difficilmente Bersani la
potrà ottenere con i soli voti del Pd.
Monti tiene il punto sulle
difficoltà di collaborazione con Vendola: un freno, dal suo punto di
vista, alle riforme che l’Italia non può ancora rinviare. Ma anche in
questo caso senza più i toni pregiudiziali che gli avevano fatto
escludere, con Casini, l’ipotesi di entrare in un governo di cui potesse
far parte anche il leader di Sel. Una campagna elettorale, si sa, è
fatta di continui alti e bassi, e quindi è possibile che il premier o i
suoi alleati centristi tornino all’offensiva nei prossimi giorni. Ma al
momento sembrano aver preso atto - come in altri termini, e con molte
più cautele, ha fatto lo stesso Vendola nei giorni scorsi - che
l’incontro tra i due schieramenti sarà in qualche modo obbligato ed è
inutile continuare a darsele tutti i giorni, favorendo obiettivamente la
crescita di Berlusconi.
Un aggiustamento del genere potrebbe
essere legato anche agli ultimi sondaggi. Secondo i maggiori istituti di
ricerca infatti la distanza tra centrosinistra e centrodestra rimane
considerevole (da cinque-sei a otto-dieci punti a favore di Bersani), ma
la tendenza del centrodestra è al rialzo (e il taglio degli
“impresentabili”, malgrado le polemiche continuate ieri, con Cosentino,
dovrebbe dare i suoi frutti al Nord, come ha sottolineato il leader
della Lega Maroni). Mentre i trend di Monti e del Pd e dei suoi alleati
sono stabili. In queste condizioni - a meno di errori clamorosi del
Cavaliere o di imprevedibili colpi di scena che lo riguardino - il Pdl, a
giudizio dei sondaggisti, può ancora rimontare, ma difficilmente
provare a capovolgere il risultato, che dovrebbe vedere il Pd
aggiudicarsi il premio di maggioranza alla Camera.
Resta aperta la
partita del Senato, con Berlusconi in leggero vantaggio in Lombardia,
il centrosinistra avanti in Lazio e Campania, e la Sicilia in
equilibrio, ma con l’incognita, per Bersani, di una crescita del
movimento di Ingroia che corre da solo. Anche per questo il tentativo di
riavvicinare centro e centrosinistra rimane l’unica strada per evitare
che la nuova legislatura si apra nel segno dell’instabilità.
La Stampa 23.1.13
Il premier: dal Pd nessun pericolo comunista
di Pao. Fes.
Replica a Berlusconi «Un peccato se la politica tradizionale tornasse a prevalere»
Un
voto per Berlusconi, un altro per Prodi. Mario Monti «consegna» le sue
scelte politiche, ma anche altro, a Barbara Palombelli a Radiodue.
Nell’intervista parla di partiti, di crisi e prospettive. Ammette di
aver avuto molta simpatia per Prodi «con cui ho lavorato molte bene a
Bruxelles, ma il voto, come gli archivi va aperto dopo un certo
periodo». Poi riafferma di non essere «massone, e non so neanche bene
che sia la massoneria». Quindi torna a ribattere alle accuse di
«favorire i poteri forti» e cita le sue battaglie da commissario europeo
nel contrastare «abusi di poteri forti» come Microsoft, o General
Electric. «Anche in quest’anno di governo - spiega il premier Monti -
l’incrocio delle cariche societarie tra banche e assicurazioni che era
l’ossatura dei salotti buoni della finanza italiana, lo abbiamo
bloccato». Una stella al petto, insomma. Così come quello di aver
avversato la crisi finanziaria. E ora? «Tutto dipenderà da cosa
succederà alle elezioni», insiste Monti. «Ora - spiega a Radiodue - c’è
una situazione di stabilità finanziaria, e si vede dall’andamento dello
spread e dei tassi, che è tutto il contrario di un anno fa e questo è
rassicurante», ma avverte il presidente del consiglio, «dopo una terapia
intensa, e anche al di là, questo è un Paese che da quindici anni
cresce meno della metà degli altri nell’eurozona». Un tema che spinge
Monti a tornare sul nodo della riforme, a considerare un «peccato se la
politica tradizionale tornasse a prevalere». Nelle osservazioni, poi,
non manca l’assolo sull’ex premier Silvio Berlusconi e sui rapporti con
l’ormai ex strana maggioranza e, i «due grandi poli». «Ma - sostiene
Monti - ha torto Berlusconi a dire che c’è un pericolo comunista. Il Pd
ha una storia gloriosa comunista dalla quale si è andato gradualmente
affrancando, all’inizio non ha appoggiato la costruzione europea, ma
dall’altra parte quella che doveva essere stata una rivoluzione liberale
non è stata né rivoluzionaria né liberale».
La Stampa 23.1.13
Il premier e i “gloriosi comunisti”
di Cesare Martinetti
Difficile
che sia nato da un suggerimento del guru americano David Axelrod,
impossibile che si tratti di un riflesso istintivo. E allora da dove ha
preso Mario Monti l’ispirazione per unire all’espressione «storia
comunista» l’aggettivo «gloriosa» come avrebbe detto un incanutito
reduce del Pci? Sono le imprevedibili mutazioni da campagna elettorale
alle quali il professore pare essersi perfettamente adattato.
Certo
è che il fatto è accaduto, ieri, a metà giornata, su Radiodue.
Intervistato da Barbara Palombelli, il professor Monti ha attaccato
Berlusconi, ormai il bersaglio principale della sua polemica. Il
presidente del Consiglio ha rivendicato la sua coerenza: «Le idee che
per anni ho espresso in articoli ed editoriali, negli ultimi anni le ho
viste affermarsi sul piano europeo con l’economia sociale di mercato».
In Italia non è avvenuto. La modernizzazione contro le tradizione
storica è “forzata”, ma il professore afferma di «apprezzare gli sforzi
che il Pd sta facendo da questo punto di vista».
Dall’altra parte,
invece, quella che doveva essere «una rivoluzione liberale non è stata
né una rivoluzione né liberale». Berlusconi ha torto «a dire che c’è un
pericolo comunista». Ed eccoci al punto. «Il Pd – ha aggiunto il
professore – ha una storia, e gloriosa, comunista dalla quale si è
andato gradualmente affrancando…».
Chi avrebbe mai detto che Mario
Monti, l’ex rettore della Bocconi, il temuto commissario europeo,
custode del mercato unico, lo spietato censore delle multinazionali
(Microsoft) e dei paesi (la Francia di Sarkozy) che attentavano alla
libera concorrenza, avrebbe definito “gloriosa” una storia “comunista”? E
poi, se davvero gloriosa è stata, che bisogno ci sarebbe di
affrancarsene?
A ventitré anni dalla caduta del muro di Berlino,
l’espressione non ricorre più nemmeno tra i reduci del pci. Era in voga
nei primi anni 90, le mutazioni successive del Pci in Pds, poi in Ds,
infine in Pd hanno sempre più scolorito quel riferimento, Veltroni fu il
primo e il più sfacciato arrivando a dire di «non essere mai stato
comunista». Era quella, semmai, la “gloriosa” – e camaleontica – storia
del pci: essere riusciti ad annebbiare la vicinanza con Mosca, storica,
continua, indebolita, ma mai davvero assopita nemmeno negli anni dello
“strappo” berlingueriano. E far passare l’immagine – vera anch’essa, in
realtà – di partito moderato, governante, pienamente democratico,
“costituzionale” nella bizzarra e unica nel contesto occidentale storia
italiana.
Epperò quell’aggettivo “gloriosa” che di sicuro non
avrebbero usato oggi né D’Alema (troppo scaltro e consapevole di quella
storia) né Bersani (troppo attento all’immagine di moderatissimo
governatore dell’Emilia e di audace liberalizzatore del governo Prodi)
sulla bocca di Mario Monti fa un certo effetto. Il guru americano David
Axelrod, novello consulente di campagna del presidente del Consiglio,
che come ci racconta Maurizio Molinari ha spinto i bianchi a votare per
un presidente afroamericano, è riuscito nell’impresa di far dire a Mario
Monti che la storia comunista del Pd è stata “gloriosa”? Forse. Ma non
prendetela come una rivalutazione storica. È semplicemente il
certificato di morte di uno spettro.
l’Unità 23.1.12
L’idea della storia congeniale al centrosinistra
di Giuseppe Cacciatore
NON
È CERTO UN CASO CHE, NEL GIRO DI 48 ORE, DUE AUTOREVOLI QUOTIDIANI
ITALIANI FACCIANO RIFERIMENTO ALLA STORIA e alla necessità di
ripristinare la sua necessaria e insostituibile funzione di offrire un
senso generale all’azione degli uomini.
Mario Pirani su la
Repubblica del 21 gennaio ricorda i tempi in cui l’adesione ad una
filosofia della storia non si riduceva soltanto a scelte di militanza
ideologica, ma anche e soprattutto alla ricerca del senso generale che
gli uomini immaginavano e costruivano per le proprie storie. È ben vero
che la crisi geopolitica, e poi economico-finanziaria del continente, ha
contribuito a rimescolare le carte in modo tale da prefigurare e
realizzare il passaggio, dice ancora Pirani, dalla filosofia della
storia al teatro dell’arte (con particolare riferimento, ovviamente,
alla tragicomica situazione italiana), ma è anche vero che una buona
parte del copione della messa in scena è solo e tipicamente nostrano.
Così il passaggio dalla storia alla rappresentazione teatrale invade
tutti gli anfratti della politica come dell’economia, della società come
della cultura, e si tratta di una rappresentazione della quale, secondo
la buona tradizione della commedia all’italiana, non si conosce l’esito
e neanche il copione. Di tutt’altro tono è invece l’intervento di
Massimo Adinolfi su l’Unità del 20 gennaio. Egli è filosofo di
professione, ma appartiene a quel genere di ragionatori che va al cuore
del problema, evitando circonlocuzioni barocche e filosofemi evanescenti
e incomprensibili, e si chiede se non sia il caso di ripensare alla
storia nel suo senso forte, non più solo di rivisitazione degli eventi
passati, e neanche di improvvisata ed inefficace riparazione di questo o
quell’intoppo, di questo o quel problema particolare. Senza aver paura
di usare le parole per quel che oggettivamente vogliono indicare, la
storia alla quale è necessario rivolgersi è proprio quella della storia
intesa secondo il suo concetto generale di trasformazione radicale della
realtà. Chi allora e sono fortunatamente in tanti ha guardato e guarda
con simpatia al progetto politico e culturale di rinnovamento della
società e della politica italiana proposto dal centrosinistra, è
motivato dal convincimento (riecco la filosofia della storia nel suo
senso buono e non ideologico) che si possa aprire un nuovo ciclo
storico, basato sulla ricostruzione del senso civico, sulla riduzione
delle diseguaglianze, sul ripristino delle regole della legalità e
dell’etica, sulla crescita economica e sul più ampio benessere per
tutti.
Questa è la storia come dice giustamente Adinolfi che non è
il farsi di un’astratta morale giacobina, ma il realizzarsi della
razionalità umana nelle opere e nelle istituzioni. È sotto questa idea
di storia che deve essere rubricato il progetto politico e ideale del
centrosinistra. Se esso dovesse fallire non è certo perché abbia voluto
rilanciare la «grande» storia della trasformazione e del miglioramento, o
perché creda ancora che esistano una destra e una sinistra, ma perché e
non ce l’auguriamo avrebbero prevalso le «piccole» storie di chi ha
immaginato se stesso (il professor Monti) come l’ombelico della politica
italiana e come mero strumento d’ostruzionismo alla vittoria del
centrosinistra o di chi (il dottor Ingroia), ripercorrendo le fatali
sviste dei tanti estremismi da malattia infantile, sta fornendo a
Berlusconi l’arma dell’interdizione al Senato e creando le premesse per
una difficile, se non impossibile, governabilità.
Bisogna allora
difendere la storia, la grande storia come apertura infinita alle
possibilità del mondo, tanto meglio se queste possibilità si tingono di
nuovo e di migliore. Perciò la storia non è fatta soltanto, come diceva
in un suo libro Claudio Magris, di ciò che è successo, e certo ancora
meno delle alternative chimeriche e assurde, ma è fatta innanzitutto
delle potenzialità che stanno, più o meno visibili, in una determinata
situazione, di ciò che era o è possibile.
Corriere 23.1.13
L’economia del Prozac
di giovanni Sartori
Fino
all'Ottocento l'economia era soprattutto agricola. C'erano anche
l'artigianato (le botteghe) e i commerci; ma prima di tutto, tutti
dovevano mangiare. Poi arrivò, all'inizio dell'Ottocento, la prima
rivoluzione industriale con l'invenzione del telaio meccanico, e per
esso delle fabbriche tessili. La seconda rivoluzione industriale fu
quella della catena di montaggio delle automobili di Henry Ford, del
quale si ricorda il detto: comprate l'automobile del colore che volete
purché sia nero. Ma già negli anni Sessanta si profetizzò l'avvento
della «società dei servizi» che può essere considerata anch'essa una
rivoluzione industriale perché fondata sull'avvento dei computer.
Difatti il paesaggio esibì sempre meno fabbriche e sempre più uffici. Il
guaio della società dei servizi è che si è gonfiata oltremisura, e che è
diventata parassitaria nella misura in cui assorbe la crescita della
disoccupazione. Nel contempo abbiamo incautamente sposato una dottrina
sprovveduta della globalizzazione, che avrebbe inevitabilmente spostato
grosse fette delle merci prodotte in Occidente in Paesi a basso, molto
più basso, costo di lavoro.
Ma ecco la novità: è in arrivo una
quarta rivoluzione industriale che sembra ancora più radicale di tutte
quelle che l'hanno preceduta. Non ha ancora un nome ufficiale, ma io la
chiamerò «rivoluzione digitale». In questo contesto un prodotto viene
disegnato su un computer e poi stampato su una stampante 3D che a sua
volta produce un conforme oggetto solido fondendo assieme successivi
strati di materiali. Non chiedetemi di più. Sono troppo vecchio per
capirlo, e poi a me interessa che fine farà, in questo radioso futuro,
l'occupazione o meglio la disoccupazione.
È vero che, in
condizioni normali, l'economia «tira» di più se siamo ottimisti. Questo
principio è stato consacrato negli Stati Uniti dalla formula della
consumer confidence, la fiducia del consumatore, e del positive
thinking, del pensare positivo. Ma la severissima recessione di gran
parte dei Paesi benestanti oramai incrina questa fiducia nella fiducia.
Un libro molto letto, oggi, nelle università americane, è Prozac
Leadership di David Collinson: un titolo che dice tutto, e cioè che il
crac è figlio di una cultura che «premiando l'ottimismo ha indebolito la
capacità di pensare criticamente, ha anestetizzato la sensibilità al
pericolo». Come si sa, il Prozac è la pillola della felicità; e dunque
il testo di Collinson si potrebbe anche intitolare «l'economia del
Prozac». E un indiano rincara la dose: «Se non vedi le cose negative del
mondo che ti circonda vivi in un paradiso per idioti» (Jaggi Vasudev).
Bankitalia
ha testé peggiorato le stime sul Pil (Prodotto interno lordo) che nel
2013 scenderà dell'1% e altrettanto scenderà l'occupazione. Che in
verità scenderà di più, perché le statistiche non contano gli
scoraggiati, chi non fa nemmeno domanda di lavoro. E il livello della
nostra disoccupazione giovanile è davvero intollerabile.
Le
imminenti elezioni non ci illumineranno su niente di tutto questo. Ma
urge lo stesso occuparsene. Da noi vige ancora la corsa per fabbricare
«tutti dottori». Ma il grosso dei dottori che produciamo e che andremo a
produrre saranno inutili. O anche peggio, perché abbiamo troppe
università scadenti, di paternità clientelare, che andrebbero chiuse.
Alle nuove generazioni occorrono istituti tecnici e scuole di
specializzazione collegati alla «economia verde», al ritorno alla terra,
e anche alla piccola economia delle piccole cose. Altrimenti saremo
sempre più disoccupati.
Repubblica 23.1.13
I 19 reintegrati raccontano i disagi che stanno vivendo. Il Lingotto: sono dipendenti in addestramento, tutto regolare
“Ci hanno rinchiusi dentro un recinto 8 ore in piedi e neanche una sigaretta”
di Stella Cervasio
POMIGLIANO
D’ARCO — Reintegrati, ma messi “in formazione” da due settimane, con
una fascia verde al polso. I 19 operai della Fip, ex Fiat di Pomigliano
d’Arco prima collocati in mobilità poi riassorbiti per la sentenza del
giudice che li ha riconosciuti “discriminati” come iscritti Fiom,
sarebbero «trattati come gli ebrei sotto il nazismo». L’ha detto
Maurizio Landini in un intervento agli attivi dell’Emilia Romagna.
«L’azienda — denuncia il segretario — gli ha messo un braccialetto con
scritto “operai in formazione”. Uno può anche ridere — ha aggiunto, di
fronte alla reazione divertita del pubblico — ma a me questo ricorda le
cose che facevano contro gli ebrei».
Per l’azienda, invece, il
contrassegno fa parte di una procedura standard: «Non solo i 19 Fiom —
informano fonti aziendali Fiat — ma tutte le oltre 2000 persone assunte
dalla Fabbrica Italia Pomigliano utilizzano o hanno utilizzato una
fascia per segnalare che si tratta di dipendenti che stanno completando
un percorso di addestramento. «Fosse solo quello — dice Sebastiano
D’Onofrio — ci hanno messo in un recinto chiamato
“pilotino” in
piedi otto ore al giorno, con due sole pause di dieci minuti alle 10.30 e
alle 12.30 senza neanche il tempo di fumare una sigaretta e con un
vigilante che non ci perde mai d’occhio e ci gira intorno tutto il
tempo».
La cosa peggiore per i 19 ex delegati Fiom è l’incertezza
del futuro: «Abbiamo oltre vent’anni di esperienza, non abbiamo le idee
chiare sulla formazione a cui ci stanno sottoponendo — osserva D’Onofrio
— il corso durerà 24 giorni, siamo al diciottesimo e ancora non
conosciamo il futuro quale sarà». Sulla fascia al polso l’azienda
specifica che per imparare il montaggio della nuova Maserati
Quattroporte nella fabbrica di Grugliasco (Torino) gli operai portano
sulla tuta una targhetta. Ma i dipendenti riammessi si considerano in
una singolare quarantena: «Ci sentiamo messi sulla graticola. Volevano
toglierci anche il cellulare ma ci siamo opposti — dice Maurizio Rea —
l’ho sempre tenuto spento, ma devo poter controllare se c’è un’emergenza
in famiglia. Un mio collega aveva le mani in tasca, nel reparto si
congelava (appena l’abbiamo fatto notare i riscaldamenti sono stati
accesi al massimo, ora nel nostro bunker fa fin troppo caldo) ed è stato
rimproverato severamente».
Una polemica che si accende proprio
nel giorno del rigetto da parte del Tribunale di Roma del ricorso Fiom
contro la mobilità di 19 lavoratori annunciata con il reintegro dei 19
vincitori del primo ricorso anti-discriminazione. Il giudice ha respinto
la nuova denuncia Fiom.
Corriere 23.1.13
Il Guardian
«Ecco l'impero immobiliare del Vaticano»
di G. G. V.
CITTÀ
DEL VATICANO — «Come il Vaticano ha costruito un impero segreto di
proprietà immobiliari usando i milioni di Mussolini». Così il quotidiano
The Guardian titolava ieri un'inchiesta sugli immobili della Santa Sede
a Londra — tipo il locale che ospita Bulgari a Bond Street —,
patrimonio sconosciuto e fondato sul «gruzzolo di Mussolini» che il
Duce, si legge, avrebbe consegnato «in cambio del riconoscimento papale
al regime fascista nel '29». Da Oltretevere replica padre Lombardi:
«Sono esterrefatto, sembra che vengano da un asteroide, si parla dei
Patti Lateranensi e di cose note da ottant'anni...». L'articolo parla di
«segretezza delle origini fasciste» del patrimonio. Ma quei soldi, in
realtà, non sono segreti né del Duce né il prezzo del «riconoscimento»
del fascismo: se ne parla nella «Convenzione finanziaria» dei Patti
Lateranensi, dove «l'Italia si obbliga a versare» un miliardo e 750
milioni di lire. Si chiude la «Questione romana» e la Santa Sede, nel
'29, riceve la somma come «indennizzo» dopo l'annessione di Roma
all'Italia. Così Pio XI chiamò il banchiere Bernardino Nogara e gli
affidò l'«Amministrazione speciale» dei fondi. Titoli, azioni, oro,
immobili. Il Guardian calcola che il patrimonio immobiliare (da una
società «offshore» del 1931) arrivi oggi a 650 milioni di euro e faccia
capo a una società inglese controllata da una svizzera a New York. La
Santa Sede replica che la Sezione straordinaria dell'Apsa, che gestisce
il patrimonio, «si trova pure sull'elenco telefonico».
il Fatto 23.1.13
Chiesa spa e il tesoro segreto regalo di Mussolini
650 milioni di euro investiti in banche e proprietà
di Caterina Soffici
Londra
Nello stile del miglior giornalismo investigativo britannico, il
Guardian di ieri ha scodellato uno scoop coi fiocchi. Con i soldi
ricevuti da Mussolini, pare in cambio della firma dei Patti Lateranensi
nel 1929, il Vaticano ha costruito un enorme patrimonio segreto offshore
e possiede un impero immobiliare in Svizzera, Francia e a Londra.
I
tre cronisti sulle tracce dell’oro vaticano del Duce, hanno scoperto
per esempio che l’edificio di Bond Street dove c’è la gioielleria di
Bulgari, appartiene alla Santa Sede. E anche la sede della banca di
investimenti Altium Capital, all’angolo tra St. James Square e Pall Mall
(praticamente dalle finestre si vede Buckingham Palace). Edifici in uno
dei distretti più cari ed esclusivi della capitale britannica.
Quello
che stupisce gli inglesi è la segretezza delle operazioni che hanno
portato all’acquisizione di un immenso patrimonio (secondo le stime del
Consiglio d’Europa si tratta di 650 milioni di euro) ma soprattutto come
è stato possibile mantenere il segreto per così tanti anni. Non sono
molto abituati a trattare di cose vaticane, evidentemente. E non hanno
letto il libro di Gianluigi Nuzzi (Vaticano Spa), forse. Sennò si
stupirebbero meno. Ma sono super reporter investigativi e hanno fatto
una vera caccia al tesoro, per scoprire quanto segue. I palazzi
appartengono a una compagnia chiamata British Grolux Investments Ltd. La
registrazione alla Camera di Commercio locale non permette però di
risalire alla proprietà e non menziona il Vaticano.
I due
prestanome sono due importanti banchieri cattolici, John Varlery (ex di
Barclays) e Robin Herbert. Entrambi non hanno risposto alle domande
inviate per lettera dai cronisti del Guardian su chi sia il vero
intestatario della società. Il segretario è un contabile di Reading,
John Jenkins: anche lui si è rifiutato di rispondere: “Non sono
autorizzato dai miei clienti a fornire alcuna informazione”. Così i
cronisti hanno fatto una ricerca negli archivi di Stato e hanno trovato
il bandolo della matassa, che porta dritti agli anni Trenta e a una
società di nome Profima, con sede a New York presso la banca d’affari JP
Morgan e costituitasi in Svizzera. La Profima appartiene al Vaticano
dai tempi di Mussolini e già durante la Seconda guerra mondiale i
Servizi segreti inglesi la accusarono di “attività contro gli interessi
degli Alleati”. E lì si risale all’origine di questi soldi: erano stati
investiti da Bernardino Nogara, avvocato che agiva come finanziere del
papa e che gestì investimenti pari a 50 milioni di sterline attuali
(circa 65 milioni di euro) provenienti dalle casse del fascismo.
Seguendo la scia di questi soldi si trovano transazioni poco chiare,
fondi neri e conti segreti a Ginevra.
Insomma, i soldi di
Mussolini furono “drammaticamente importanti” per le finanze vaticane.
Il Guardian ha anche interpellato lo storico di Cambridge John Pollard,
che dice: “In quel momento le finanze pontificie sono state messe al
sicuro e non si sono più impoverite”.
Attualmente tutti gli asset
sono controllati da Paolo Mennini, a capo di una speciale sezione del
Vaticano chiamata Apsa, Amministrazione del Patrimonio della Sede
Apostolica. Il nunzio apostolico a Londra, l’arcivescovo Antonio
Mennini, è stato interpellato sulla vicenda e anche sui motivi della
segretezza degli investimenti londinesi. La risposta è stata un secco
“no comment”. “Fedeli alla tradizione del silenzio”, chiosa il Guardian.
Che con questa inchiesta ha fornito a Dan Brown (quello del Codice da
Vinci) materiale per almeno altri due best-seller.
La Stampa 23.1.13
Quegli immobili pregiati del Vaticano a Londra
Il «Guardian» pubblica un articolo sulle proprietà in Gran Bretagna. Lombardi: «Cose note da ottant’anni»
di Andrea Tornielli
qui
http://vaticaninsider.lastampa.it/vaticano/dettaglio-articolo/articolo/vaticano-vatican-vaticano-21576/
Repubblica 23.1.13
“Vaticano, il tesoro segreto coi soldi del Duce”
Il Guardian: a Londra e Parigi un impero immobiliare grazie ai fondi del regime fascista
di Enrico Franceschini
LONDRA
— A chi appartiene il locale che ospita la gioielleria Bulgari a Bond
street, più esclusiva via dello shopping nella capitale britannica? E di
chi è l’edificio della Altium Capital, una delle più ricche banche di
investimenti di Londra, all’angolo super chic tra St. James Square e
Pall Mall, la strada dei club per gentiluomini? La risposta alle due
domande è la stessa: il proprietario è il Vaticano. Ma nessuno lo sa, o
almeno non si sapeva finora, perché i due investimenti e centinaia di
altri in Inghilterra, a Parigi, in Svizzera, fanno parte di un
segretissimo impero immobiliare costruito nel corso del tempo dalla
Santa Sede, attualmente nascosto dietro un’anonima società off-shore che
rifiuta di identificare il vero possessore di un portfolio da 500
milioni di sterline, circa 650 milioni di euro.
E come è nata
questa attività commerciale dello Stato della Chiesa? Con i soldi che
Benito Mussolini diede in contanti al papato, in cambio del
riconoscimento del suo regime fascista, nel 1929 con i Patti
Lateranensi. A rivelare questa storia è il
Guardian.
Il
quotidiano londinese ha messo tre reporter sulle tracce del tesoro
immobiliare internazionale del Vaticano ed è rimasto sorpreso, nel corso
dell’inchiesta, dallo sforzo fatto dalla Santa Sede per mantenere
l’assoluta segretezza sui suoi legami con la British Grolux Investment
Ltd, la società formalmente titolare del cospicuo investimento. Due
autorevoli banchieri inglesi, entrambi cattolici, John Varley e Robin
Herbert, hanno rifiutato di divulgare alcunché e di rispondere alle
domande del giornale in merito al vero intestatario della società.
Ma
il Guardian è riuscito a scoprirlo lo stesso attraverso ricerche negli
archivi di Stato, da cui è emerso non solo il legame con il Vaticano ma
anche una storia più torbida che affonda nel passato. La società
offshore con sede a Londra è infatti controllata da un’altra società, la
Profima, fondata in Svizzera e ora con sede presso la banca JP Morgan a
New York. I documenti d’archivio rivelano che la Profima appartiene al
Vaticano sin dalla seconda guerra mondiale, quando i servizi segreti
britannici la accusarono di «attività contrarie agli interessi degli
Alleati». In particolare le accuse erano rivolte al finanziere del papa,
Bernardino Nogara, l’uomo che aveva preso il controllo di un capitale
di 65 milioni di euro (al valore attuale) che la Santa Sede ricevette in
contanti da Mussolini nei primi anni Trenta come ricompensa per il
riconoscimento dello Stato fascista. Il Guardian ha chiesto commenti
sulle sue rivelazioni all’ufficio del Nunzio Apostolico a Londra, ma ha
ottenuto soltanto un “no comment”. Ha invece parlato padre Federico
Lombardi. «L’esistenza di investimenti immobiliari e mobiliari del
Vaticano - ha detto il portavoce della Santa Sede - sono conosciuti da
più di 80 anni. Nel servizio delGuardiannon è svelato nulla che non si
sapesse».
La Stampa 23.1.13
Omini e neri il patto di Rosarno
di Giuseppe Salvaggiulo
La
rivolta negli agrumeti di due anni fa e il ruolo della ’ndrangheta sono
lo spunto per l’indagine del giudice Lenzi nel nuovo romanzo di Mimmo
Gangemi L’immagine che pubblichiamo fa parte del reportage Frutti
migranti del fotografo Giacomo Francesco Lombardi, un work in progress
dedicato alla situazione degli immigrati sovente clandestini che
lavorano in agricoltura in Italia Ingegnere, Mimmo Gangemi è nato a
Santa Cristina d’Aspromonte, vive a Palmi, in provincia di Reggio
Calabria
Che siano i neri negli agrumeti di Rosarno, la terra di
nessuno tra malavita e istituzioni, le periodiche faide tra famiglie
’ndranghetiste, poco importa. Ogni ritorno in Calabria, fisico o
letterario, disturba.
Non c’è lacerto italiano più inafferrabile,
sfasciume meno orgogliosamente pendulo, realtà così inconoscibile se non
con provvisoria angoscia. Non ci si abitua mai troppo all’inestricabile
viluppo di buono e cattivo, bellezza e orrore, «ominità» e umanità
speciali e irriducibili. Tutto appare, nulla è. E quando ti illudi di
aver capito, rieccoti precipitato al punto di partenza. In questo
accecante chiaroscuro si specchiano per la seconda volta lo scrittore
Mimmo Gangemi e il «suo» sostituto procuratore Alberto Lenzi, giudice
femminaro e meschino, indolente e intuitivo, in fondo perbene ma non
privo di malizie e punte di cinismo. Protagonista del Patto del giudice
(Garzanti, 266 pag. 17,60 euro)).
Nella terra sospesa tra
Aspromonte e Tirreno dove Gangemi vive, riflette e scrive, il pubblico
ministero Lenzi cerca un senso a vicende apparentemente sconnesse. I
postumi della rivolta degli africani, che tre anni fa marciarono su
Rosarno prima di esserne espulsi («Ma sono tornati, come e più di prima,
il che dimostra che non era razzismo»), secernono un’indagine
sfaccettata. Tutto parte da due domande che all’epoca tutti i testimoni
si posero, increduli davanti alla caccia all’uomo nelle campagne: qual è
il ruolo della ’ndrangheta? E se ci scappa il morto?
Alla prima
domanda, Gangemi e Lenzi danno risposte univoche: le famiglie
’ndranghetiste non promossero la cacciata dei neri, ma di fronte alla
devastazione della città scesero in campo in prima linea, né avrebbero
potuto fare altrimenti, per riaffermare il controllo del territorio. E
lo fecero in maniera plateale, per non perdere «onore».
Se è così,
la seconda domanda diventa un formidabile spunto narrativo, pizzicato
sulle corde del verosimile. Perché il morto, con centinaia di migranti
in fuga, senza documenti né affetti a reclamarli, davvero sarebbe potuto
scappare, e senza che nessuno se ne accorgesse.
Non basta. Lenzi
deve vedersela anche con un losco affare di droga nel porto di Gioia
Tauro, altro luogo misterico di questa terra: parziale risarcimento di
un maestoso polo siderurgico promesso e mai realizzato, piattaforma
logistica criminale protesa verso il mondo. E funzionari pubblici caduti
in tentazione. E cosche che risvegliano una guerra sopita. La
’ndrangheta ai tempi di Rosarno.
Questa toga di provincia, così
lontana dallo stereotipo televisivo dei pubblici vendicatori del vizio, è
tutto meno che un «topo di biblioteca», come lo sono - o lo diventano -
certi giudici quando marciscono sotto faldoni senza vita. E non si
lascia suggestionare da certi teoremi giudiziari sulla ’ndrangheta, pure
in voga e non senza appigli processuali, che l’autore non digerisce e
contesta nel libro (ce ne sarebbe per fior di saggi).
Non mancano i
morti ammazzati, ma la chiave della storia è la molteplice possibilità
di decifrarli. Lenzi studia poco, ma cerca un filo nella complessità
attraverso la deduzione e i rapporti personali. L’amico di nobile
lignaggio, la collega incandescente, il capobastone incanutito
dall’eloquio ellittico e rivelatore. C’erano già nel Giudice meschino di
quattro anni fa, ma con sfumature diverse. Per quanto immobile, anche
la Calabria evolve.
Al lettore forestiero, che necessita di un
sovrappiù di coordinate per orientarsi, Gangemi aggiunge i paesani del
circolo dei «galantuomini», che si ritrovano per giocare a carte,
discettando di affari di soldi, sangue e corna, e l’eco dei clamorosi
strappi di assegni a fine serata si diffonde nella piazza principale.
Gangemi
e Lenzi vivono a Palmi, nobile decaduta della piana di Gioia Tauro. Non
potrebbero essere, scrivere, indagare altrove. La parola è ricca,
voluminosa, intrisa di terra. Non c’è indulgenza, rifugio nel bozzetto,
ma nemmeno rifiuto, anatema, derisione. Non nello scrittore, non nel
magistrato. Il pubblico ministero, forte e però prigioniero dell’azione
penale, elabora una nozione, in parte autonoma e originale, di
giustizia. E la persegue, anche se talvolta fa attrito con la Legge. Non
si imbarazza a «trattare», a varcare il confine, a guardare in faccia
il «nemico».
Lo scrittore conduce, orienta, sottolinea, avvolgendo
sempre le vicende nei caratteri genetici permanenti, totalmente
originali, del suo popolo, che delineano una «mentalità» omogenea alla
’ndrangheta, ben più pervasiva e corrosiva della associazione criminale
in senso stretto. Anche questo, però, non basta, perché tale mentalità
ha cento gradazioni, e si potrebbe ricominciare con la storia
dell’onorata società, con un codice di comportamento a sua volta
diverso, che si fa ’ndrangheta contemporanea, post moderna.
Nel
frattempo negli agrumeti di Rosarno sono tornati i neri, le albe
proiettano le ombre dei furgoncini dei caporali sulla statale per Gioia
Tauro, l’agricoltura langue, la ’ndrangheta è tornata silenziosa ai suoi
affari. Non c’è verità, in questa Calabria. Al più, sottili brandelli
di giustizia.
La Stampa 23.1.13
Errori sanità: uno su 5 è denunciato in sala parto
La Commissione parlamentare: troppe strutture con pochi interventi l’anno
di Paolo Russo
Saremo
anche tra i Paesi con il maggior numero di bambini che nascono sani e
vegeti ma nelle sale parto d’Italia c’è qualcosa che non va. Almeno a
leggere i dati della Relazione conclusiva della Commissione parlamentare
d’inchiesta sugli errori sanitari perché in un caso su 5 si sbaglia
proprio nel momento della nascita.
Sui 570 casi di presunta
malasanità accertati dalla commissione dal 2009 al 2012 ben 104 si sono
verificati durante il parto, con una metà dei casi concentrati in
Calabria e Sicilia. Tra le cause delle «malenascite», spiega la
relazione, ci sono le troppe strutture, soprattutto nel Mezzogiorno,
dove si fanno pochissimi interventi l’anno. Così quando capita
l’emergenza manca l’esperienza per affrontarla. E poi molti centri
nascita non rispettano gli standard di sicurezza.
La terapia
intensiva neo-natale è presente solo nel 15% dei casi, la doppia guardia
medica durante le 24 ore è conosciuta solo dal 40% delle strutture e
poche sono in grado di fronteggiare le gravidanze a rischio. E poi a far
aumentare i pericoli per la donna e il bambino c’è il boom dei cesarei,
concentrati soprattutto in Campania, nelle case di cura private e nei
centri più piccoli.
Anche fuori delle sale parto le cose però non
vanno molto meglio. La relazione presentata ieri dal Presidente della
commissione, Antonio Palagiano (Idv), conta 400 morti di presunta
malasanità, concentrati soprattutto nelle regioni in piano di rientro
dai deficit sanitari, con errori concentrati soprattutto in Sicilia
(117), Calabria (107) e Lazio (63). Dietro i casi di malasanità a volte
il medico, come quello che in sala operatoria ha dimenticato la garza
nella ferita, poi operata come massa tumorale. Ma più spesso la causa è
nella disorganizzazione, che non fa partire un elicottero di soccorso
quando dovrebbe, che fa proliferare le infezioni negli ospedali o che
lascia ferme le ambulanze perché le barelle sono utilizzate come letti
in astanteria per carenze di posti nei reparti di emergenza. Magari
proprio in quegli ospedali dove in altri reparti i letti sono
inutilizzati ma non si toccano per non far saltare il posto del
primario.
E a proposito di primari, che dire di quelli nominati
nei due policlinici di Napoli senza nemmeno un posto letto e quindi
pazienti da accudire? Nel rapporto si suggerisce di verificare «la
sussistenza di evidenti legami familiari nei ruoli ricoperti». Una
parentopoli sanitaria frutto della politica delle nomine senza regole,
che sempre qui ha consentito di conferire senza pubblico concorso 383
incarichi manageriali lautamente retribuiti. In tutto il Sud poi il
rapporto medici per posto letto è doppio rispetto al Nord. Nel Lazio, in
Sicilia, Calabria e Basilicata si arriva addirittura al paradosso di
avere più camici bianchi che letti dove accudire pazienti. E dove si
spende di più ci si cura anche peggio: lo dice il popolo dei migranti
della salute, che con i viaggi della speranza verso il più efficiente
nord finiscono per peggiorare la situazione in casa propria, visto che
solo Campania e Sicilia spendono oltre mezzo miliardo l’anno di
rimborsi. «Finendo – rimarca la relazione - per arricchire le regioni
più ricche a discapito di quelle povere».
La Stampa 23.1.13
«Colpa dei cesarei Ma la mortalità è tra le più basse in Europa»
domande a Nicola Surico Pres. ginecologi
di Pa. Ru.
Saremo
anche tra i Paesi con il maggior numero di bambini che nascono sani e
vegeti ma nelle sale parto d’Italia c’è qualcosa che non va. Almeno a
leggere i dati della Relazione conclusiva della Commissione parlamentare
d’inchiesta sugli errori sanitari perché in un caso su 5 si sbaglia
proprio nel momento della nascita.
Sui 570 casi di presunta
malasanità accertati dalla commissione dal 2009 al 2012 ben 104 si sono
verificati durante il parto, con una metà dei casi concentrati in
Calabria e Sicilia. Tra le cause delle «malenascite», spiega la
relazione, ci sono le troppe strutture, soprattutto nel Mezzogiorno,
dove si fanno pochissimi interventi l’anno. Così quando capita
l’emergenza manca l’esperienza per affrontarla. E poi molti centri
nascita non rispettano gli standard di sicurezza.
La terapia
intensiva neo-natale è presente solo nel 15% dei casi, la doppia guardia
medica durante le 24 ore è conosciuta solo dal 40% delle strutture e
poche sono in grado di fronteggiare le gravidanze a rischio. E poi a far
aumentare i pericoli per la donna e il bambino c’è il boom dei cesarei,
concentrati soprattutto in Campania, nelle case di cura private e nei
centri più piccoli.
Anche fuori delle sale parto le cose però non
vanno molto meglio. La relazione presentata ieri dal Presidente della
commissione, Antonio Palagiano (Idv), conta 400 morti di presunta
malasanità, concentrati soprattutto nelle regioni in piano di rientro
dai deficit sanitari, con errori concentrati soprattutto in Sicilia
(117), Calabria (107) e Lazio (63). Dietro i casi di malasanità a volte
il medico, come quello che in sala operatoria ha dimenticato la garza
nella ferita, poi operata come massa tumorale. Ma più spesso la causa è
nella disorganizzazione, che non fa partire un elicottero di soccorso
quando dovrebbe, che fa proliferare le infezioni negli ospedali o che
lascia ferme le ambulanze perché le barelle sono utilizzate come letti
in astanteria per carenze di posti nei reparti di emergenza. Magari
proprio in quegli ospedali dove in altri reparti i letti sono
inutilizzati ma non si toccano per non far saltare il posto del
primario.
E a proposito di primari, che dire di quelli nominati
nei due policlinici di Napoli senza nemmeno un posto letto e quindi
pazienti da accudire? Nel rapporto si suggerisce di verificare «la
sussistenza di evidenti legami familiari nei ruoli ricoperti». Una
parentopoli sanitaria frutto della politica delle nomine senza regole,
che sempre qui ha consentito di conferire senza pubblico concorso 383
incarichi manageriali lautamente retribuiti. In tutto il Sud poi il
rapporto medici per posto letto è doppio rispetto al Nord. Nel Lazio, in
Sicilia, Calabria e Basilicata si arriva addirittura al paradosso di
avere più camici bianchi che letti dove accudire pazienti. E dove si
spende di più ci si cura anche peggio: lo dice il popolo dei migranti
della salute, che con i viaggi della speranza verso il più efficiente
nord finiscono per peggiorare la situazione in casa propria, visto che
solo Campania e Sicilia spendono oltre mezzo miliardo l’anno di
rimborsi. «Finendo – rimarca la relazione - per arricchire le regioni
più ricche a discapito di quelle povere».
La Stampa 23.1.13
Netanyahu crolla: “Coalizione ampia”
Likud-Beitenu prende solo 31 seggi, la nuova destra e i religiosi cruciali per la maggioranza di 61 voti
I laburisti si piazzano terzi dopo la sconfitta del 2009, Kadima sparisce dal Parlamento
di Aldo Baqis
Al
termine di una giornata drammatica, Benjamin Netanyahu è riuscito a
strappare una vittoria risicata alla guida della lista Likud-Beitenu. Ma
il vero vincitore delle elezioni legislative israeliane risulta essere
Yair Lapid, il leader dell’esordiente partito centrista Yesh Atid (C’è
un futuro).
Secondo gli exit-poll di tre reti televisive,
Netanyahu disporrà alla Knesset di appena 31 seggi su 120. Per lui
costruire una maggioranza stabile di almeno 61 deputati sarà un vero
incubo, vista la grande frammentazione del Parlamento. «È chiaro che gli
israeliani hanno voluto me come premier, con un governo di coalizione
che sia la più ampia possibile», ha commentato i risultati degli exit
poll.
A scombinare le carte è stata l’alta percentuale di voto, la
più elevata degli ultimi 15 anni. In questa partecipazione di massa
alcuni analisti vedono già l’onda lunga delle proteste degli «indignati»
che si sono riversati nelle strade di Israele nell’estate del 2011,
invocando maggiore giustizia sociale. Il partito laburista, che ha
incluso fra i candidati esponenti di quella protesta, è balzato da 8
seggi nella Knesset precedente, eletta nel 2009, a 17 deputati.
Lo
stesso Lapid (che negli exit poll riceve 19 seggi) incarna il desiderio
di cambiamento della classe media: in particolare la richiesta che gli
strati religiosi ortodossi diano un maggiore contributo alla Nazione:
sia nel servizio militare, sia nell’ingresso nel mondo del lavoro. Hanno
avuto peso anche le rivendicazioni sociali, dal problema della carenza
di abitazioni alla scuola.
Nelle ultime ore di voto, il Likud si è
visto costretto ad indire una riunione di emergenza nel timore che i
partiti di centro sinistra riuscissero ad aggiudicarsi 61 seggi alla
Knesset. «Sono state ore drammatiche», ha affermato la leader laburista
Shelly Yachimovic. «Lasciate tutto, andate a votare, il Likud sta per
perdere il governo», ha scritto Netanyahu sulla propria pagina Facebook.
Con
l’inizio dello spoglio delle urne, Netanyahu sembrava tecnicamente
ancora in grado di comporre un nuovo governo, con il possibile appoggio
di Lapid. Se così fosse, molte previsioni della vigilia dovrebbero
essere riviste: invece che spostarsi più a destra, l’asse politico del
nuovo governo potrebbe essere maggiormente centrista e maggiormente
laico. Una sorpresa generale: in primo luogo per lo stesso Netanyahu che
- alleandosi con Israel Beitenu di Avigdor Lieberman alcuni mesi fa -
sperava di conquistare almeno un terzo della Knesset e che adesso si
trova invece costretto a mendicare aiuti anche a formazioni minori.
Incalzato da Bait Yehudi, la nuova destra di Naftali Bennett che vince
12 seggi.
Kadima, il partito centrista che aveva vinto le elezioni
precedenti con 28 seggi, non entra nemmeno in Parlamento. La sua
fondatrice, Tzipi Livni, con la sua nuova lista NaTnua guadagna 7 seggi.
Restano praticamente immutati il partito religioso Shas (11 seggi), i
comunisti di Hadash (3) e la lista araba Balad (2).
l’Unità 23.1.12
Israele, stop al Likud: vittoria minima
La sorpresa del voto è il buon risultato del partito centrista Yesh Atid
Al centrosinistra andrebbero 58-59 deputati
La Casa Bianca: ora negoziati con i palestinesi
di Umberto De Giovannangeli
Voleva
essere incoronato «re d’Israele». Ma lo scettro è caduto. Se c’è uno
sconfitto nelle elezioni israeliane questo è Benjamin Netanyahu che
sognava il trionfo. Israele ha bocciato il «patto di ferro» tra
l’attuale primo ministro e il leader di Yisrael Beitenu, l’attuale
titolare degli Esteri, Avigdor Lieberman. I primi exit polls, forniti
dai canali televisivi israeliani e dai siti dei maggiori quotidiani
subito dopo la chiusura dei seggi (le 22:00 in Israele, le 21:00 in
Italia) assegnano alla lista Likud-Beitenu 31 seggi, undici in meno
della precedente Knesset. Il campanello d’allarme, nel quartier generale
del Likud era scatto alle 18:00, a quattro ore dalla chiusura dei
seggi. Nelle aree di tradizionale insediamento elettorale del partito
del premier giungevano notizie inquietanti: la percentuale dei votanti
era tra le più basse del Paese. Dato ancor più significativo a fronte di
una percentuale dei votanti che, a un’ora dalla chiusura dei seggi,
registrava il 63,7%,(3,6 milioni) 4 punti in più del 2009. E a far
alzare la percentuale dei votanti è stato l’incremento nelle città arabe
israeliane, come Nazarateh (44%, dato mai registrato).
A casa
sembrano essere restati proprio gli elettori di «Bibi». Basta e avanza
per far sì che un sempre più cupo Netanyahu lanciasse un appello in
rete: «Il governo a guida Likud è in pericolo, andate a votare per il
bene del Paese». Lo stesso S.O.S. viene inviato al sodale politico di
«Bibi», il falco Lieberman. Ma fuori dall’ufficialità, i collaboratori
dei due alleati cominciano già a scambiarsi i primi colpi bassi,
rimpallandosi le responsabilità per il mancato successo. «Può un
veterano agguerrito come Netanyahu essere in difficoltà in questa
campagna elettorale dove la sua vittoria è già certa, dove è l’unico in
lizza per guidare lo Stato?», si è chiesto recentemente Aluf Benn, prima
firma di Haaretz. «Netanyahu non offre agli israeliani alcuna speranza
di un futuro migliore, solamente lo stesso vecchio ritornello», ha
aggiunto.
LUNGA NOTTE
Un ritornello che, stando ai primi
rilevamenti, ha steccato. Una «stecca» tanto più sonora a fronte
dell’altro dato politicamente più significativo e inaspettato: il buon
risultato della nuova formazione centrista, Yesh Atid dell’ex
giornalista tv, Yair Lapid. La notte elettorale è lunghissima, ma un
dato appare evidente: la destra non ha sfondato. Likud-Beitenu si
attesta, sempre secondo i primi exit, su 31 seggi. È il primo partito,
ma Netanyahu non ha nulla da festeggiare. Perché al secondo e terzo
posto si attestano due partiti dell’opposizione di centrosinistra: Yesh
Atid (19 seggi) di Lapid e, altro risultato di grande rilevanza, terzo
arriva il Partito laburista di Shelly Yachimoch (17 seggi). Al quarto
posto si piazza Habayit Hayehudi, il Focolare ebraico, del nuovo «eroe»
estremista, il «tecno colono» Naftali Bennett (12 seggi). Un buon
risultato l’ottiene anche il Meretz, la sinistra laica e pacifista di
Zahava Gat-On, con 7 seggi: «La sinistra non ha abdicato – dice la
Gat-On a l’Unità – le nostre ragioni sono parte viva di un Paese che non
si piega ai falchi». I tre partiti arabi otterrebbero complessivamente
nove parlamentari.
Politicamente Israele è un Paese spaccato a
metà: il variegato schieramento di destra – comprendente anche il
partito dei coloni e quelli ultraortodossi, conquisterebbero 61-62 seggi
(su 120); il centrosinistra raggiungerebbe i 58-59. Se lo spoglio
definitivo confermerà i primi dati, Netanyahu potrebbe essere
riconfermato premier per la terza volta, ma con un margine di manovra
estremamente
limitato. Alla delusione che si respira al quartier
generale del Likud, fa da contraltare il sollievo che prende corpo dopo i
primi exit polls nel grande albergo sul lungomare di Tel Aviv dove i
laburisti hanno insediato il loro quartier generale. «Il partito è vivo,
Israele non si è gettato a destra, la partita del governo è tutta da
giocare», si lascia andare Shelly Yachimovich, la combattiva leader
laburista che aveva puntato tutto sulle questioni sociali. Quella del
duo Netanyahu-Lieberman è una «vittoria» amara, che ha l’acre sapore del
mezzo insuccesso. E a renderlo ancor più chiaro sono le prime
dichiarazioni di Bennett: «Siamo cresciuti come nessun altro partito –
dice l’ex ufficiale -. I nostri voti saranno decisivi per formare un
governo che non ceda ai terroristi e a quelli di Hamas. Netanyahu dovrà
convincerci». E non sarà una gita di piacere.
il Fatto 23.1.13
Stati Uniti “Chi vince negozi con i palestinesi”
A
prescindere da chi risulterà il vincitore delle elezioni israeliane per
gli Stati Uniti resta prioritaria la ricerca della pace, “con negoziati
diretti con i palestinesi”. Lo ha chiarito il portavoce della Casa
Bianca, Jay Carney a pochi minuti dalla chiusura dei seggi in Israele.
Infatti
è proprio il rapporto zoppicante con gli Usa dell’appena rieletto
presidente Barack Obama legato al processo di pace in stallo con i
palestinesi e il programma nucleare dell’Iran i temi di politica
internazionale che secondo molti analisti saranno i dossier più caldi e a
cui si dovranno dare risposte immediate da parte del nuovo governo
israeliano.
l’Unità 23.1.12
Sari Nusseibeh
È il rettore dell’università al Quds di Gerusalemme est
È tra i più autorevoli intellettuali palestinesi in Israele
«Pace impossibile se si rimuove il nodo palestinese»
di U.D.G.
«Comunque
vadano queste elezioni, una cosa è certa. A uscire sconfitta è la
speranza di rilanciare il processo di pace». Le elezioni israeliane
viste da una «colomba» palestinese: Sari Nusseibeh, rettore
dell’Università Al Quds di Gerusalemme Est, il più autorevole
intellettuale palestinese. «In questa campagna elettorale dice Nusseibeh
a l’Unità la questione palestinese è stata rimossa, praticamente
cancellata. Una rimozione collettiva senza precedenti. E questo getta
altre ombre inquietanti sul futuro».
Professor Nusseibeh, mentre parliamo Israele vota. Qual è la speranza di una “colomba” palestinese?
«Mai
come stavolta devo confessare di non avere speranze. E non tanto perché
con ogni probabilità riavremo Netanyahu primo ministro d’Israele. No,
l’assenza di speranza viene dalla “Grande rimozione” che ha coinvolto,
tranne alcune eccezioni, l’intero panorama politico israeliano che, a
sua volta, riflette gli orientamenti maggioritari nella società
israeliana».
La “Grande rimozione”. A cosa si riferisce, professor Nusseibeh?
«Al
tema della pace, al rapporto con un popolo, quello palestinese, che
sembra essere scomparso, cancellato, dall’orizzonte israeliano. Le
destre non hanno fatto altro che rincorrersi a chi si dimostrava più
intransigente: Netanyahu ha promesso solennemente che con lui primo
ministro nessun insediamento verrà mai smantellato. Per non parlare poi
della “novità” di queste elezioni, quel Naftali Bennet (il leader di
Habayit Hayehudi, il Focolare ebraico, ndr) che ha dato una
riverniciatura “tecno” all’ideologia più oltranzista della destra
estrema. A questo sfoggio di muscolarità politica, ha fatto riscontro
una sinistra che, con l’eccezione del Meretz e dei Partiti arabi, ha
giocato di rimessa, pensando di poter riconquistare consensi penso al
Partito laburista parlando di altro. Come se pace e questione sociale
interna a Israele non avessero punti in comune. Mi lasci aggiungere che
da questa campagna elettorale la speranza non è stata cancellata solo da
questa parte, quella palestinese, del “Muro”. Anche tra gli israeliani
mi sembra che a prevalere sia stato un sentimento opposto...».
Qual è questo sentimento?
«La
paura. Quella di un Paese che sembra aver ormai interiorizzato la
“sindrome dell’accerchiamento”. Quella di un Paese che si sente e si
vive in trincea. È la paura del cambiamento. È la diffidenza verso
l’altro da sé. La destra ha costruito la sua proposta politica
su
questo sentimento. Lo ha usato e alimentato, vendendo un’illusione: che
la sicurezza d’Israele possa fondarsi sempre e solo sulla forza militare
e sulla perpetuazione dello status quo con i palestinesi e il mondo
arabo circostante. Ma così non è. Perché di una cosa sono sempre più
convinto: il diritto alla sicurezza e alla piena integrazione nel Medio
Oriente d’Israele e il diritto dei palestinesi a uno Stato indipendente,
sono le due facce di una stessa medaglia: quella di una pace giusta,
duratura, tra pari». Eppure la maggioranza degli israeliani si dice
ancora favorevole ad una soluzione a “due Stati”.
«Ma è un
principio che non trova riscontro negli atti politici, nei comportamenti
della leadership politica. E senza questo scatto, quel dirsi favorevoli
ai due Stati, finisce per essere un’auto giustificazione morale: noi
saremmo pure favorevoli, ma la colpa è dei palestinesi e de loro capi
inaffidabili... A parlare di necessità di avviare un dialogo costruttivo
con Abu Mazen è rimasto Shimon Peres. Una voce importante, certo, ma il
presidente israeliano sembra predicare nel deserto. Vede, su ogni
questione sul tappeto, su ogni contenzioso sono stati scritti centinaia
di documenti, individuati punti di caduta sostenibili e praticabili. Ciò
che manca è la volontà, il coraggio, la lungimiranza politica di
attuarli».
Quella imboccata è dunque una strada senza uscita per i due popoli?
«La
vita continua e per noi palestinesi ciò significa ripensare una
strategia che faccia vivere, a livello internazionale come nei rapporti
con l’opinione pubblica israeliana, il nostro diritto a esistere come
Nazione. All’Onu abbiamo conquistato un risultato importante, ora si
tratta di pensare a nuove forme di resistenza. Tra rassegnazione e
militarizzazione esiste una terza via: quella della disobbedienza
civile, della resistenza popolare non violenta».
il Fatto 23.1.13
Centrodestra in vantaggio ma Israele frena Netanyahu
Difficile per il premier uscente formare un nuovo governo
di Cosimo Caridi
Gerusalemme.
Doveva essere una vittoria facile per Netanyahu, l’alleanza con
Lieberman sembrava assicurare almeno 35 seggi sui 120 disponibili alla
Knesset, ma i primi exit poll ne consegnano al Likud Beitenu solamente
31. Segue, con 18-19 seggi, Yesh Atid guidata da Yair Lapid, volto noto
della tv d’informazione. I laburisti si fermano a 17 seggi, mentre Shas,
il partito religioso della destra nazionalista, arriva a 12, lo stesso
risultato raggiunto da Casa Ebraica, il partito che fa riferimento
Naftali Bennet. Per Netanyahu - che ieri sera ha ringraziato gli
elettori “per la rielezione” - c’è ancora la possibilità di creare un
governo, ma solo mettendosi nelle mani dell’ultradestra religiosa.
LA
GIORNATA DEL VOTO era invece stata priva di sorprese. Il primo ministro
uscente si era recato alle urne di primo mattino, per andare subito al
Muro del Pianto, nel cuore della città vecchia di Gerusalemme. Un gesto
tanto semplice quando significativo, infatti Netanyahu è laico, ma la
sua visita al luogo più sacro per il giudaismo sembrava sottolineare
l’alleanza con i partiti religiosi.
Dal Muro del Pianto si
arrampicano le stradine di pietra bianca del quartiere ebraico. Il
silenzio è interrotto solo dai canti degli studenti delle Yashivah, le
scuole rabbiniche. Qui vive una popolazione minoritaria, ma che negli
ultimi anni ha fatto valere il proprio voto: sono gli ortodossi che
hanno ripopolato l’area dopo il ’67. Per secoli gli israeliti sono
vissuti in questi vicoli, poi nel ’48 scapparono a causa della guerra,
l’area passò sotto il controllo giordano. Con la guerra dei sei giorni
Israele occupò Gerusalemme Est, riprendendo possesso del quartiere
ebraico, che, con grandi finanziamenti, arrivati in gran parte da Usa ed
Europa, venne quasi interamente ricostruito e ripopolato. I tziziyot,
cordini della tradizione ebraica, pendono ai fianchi di un gruppetto di
adolescenti radunatisi davanti al seggio. Hanno in mano adesivi e
santini elettorali dei maggiori partiti religiosi.
“IN ISRAELE –
spiega Elia, svizzero, ma da 40 anni trapiantato a Gerusalemme - Lo
Stato e la religione sono la stessa cosa. Noi siamo qui, su questa
terra, perché fa parte della nostra storia, della nostra fede ”. Ed è
sulla sicurezza e sul pericolo dell’esistenza stessa d’Israele che i
partiti religiosi storicamente, come in quest’ultima campagna elettorale
concentrano i loro slogan: “Siamo circondati da Paesi ostili – dice un
60enne ultraortodosso - ci sono almeno 100 milioni di arabi, attorno a
noi, che vorrebbero ucciderci e cancellare Israele”. Gli fa eco sua
moglie: “Netanyahu, non è perfetto, ma è il meglio che abbiamo. Ha già
dimostrato di saper tenere testa ai nostri vicini”. Certo i cambiamenti
nel Medioriente degli ultimi anni, dopo lo scoppio delle primavere arabe
e con la Siria che ribolle, innescano la paura. Inoltre il muro
costruito per chiudere la Cisgiordania non ha risolto la questione
palestinese.
“L’UNICA soluzione possibile è il trasferimento della
popolazione – afferma con un sorriso e un forte accento statunitense un
imponente signore dalla folta barba bianca - anche se di questi tempi
non è politicamente corretto parlarne”. Netanyahu dovrà fare delle
concessioni ai religiosi che porterà con sé al governo e potrebbe essere
proprio sulla risoluzione del conflitto. All’inizio del suo primo
mandato Obama impose a Israele il congelamento delle colonie. Ma alla
Knesset c’era una maggioranza diversa, meno ostaggio di coloni e
ortodossi. Il nuovo governo potrebbe partire proprio da lì, concedendo
la costruzione di nuove abitazioni a Gerusalemme Est, che la destra ha
promesso al suo elettorato.
il Fatto 23.1.13
Perfide e influenti, le donne dietro le quinte della politica
di Roberta Zunini
C’erano
molti nomi di donna nelle liste dei partiti all'opposizione così come
in quelle del blocco di destra. Anche se uno dei più importanti non
compare e non è mai comparso. Si tratta di Sarah Netanyahu, l'influente
nonché invadente moglie del primo ministro. Nota alla platea
internazionale per la sua tirchieria e per le denunce di maltrattamento
da parte delle varie domestiche “extracomunitarie”, in patria è
considerata un'impicciona, iraconda e vendicativa, in grado di orientare
il marito nella scelta dell'entourage.
Ma spesso ha sbagliato o,
meglio, ci ha visto giusto ma non ha saputo trarne le adeguate
conseguenze. Come nel caso del quarantenne Naftali Bennet, l'astro
nascente della politica israeliana, il vero vincitore di queste
elezioni, che per anni ha fatto parte del cerchio magico di Netanyahu.
La sua scaltrezza a un certo punto pare aver messo in allarme Sarah che
ha iniziato a remargli contro. Alla fine Bennet se ne andò, entrando a
far parte di “Casa ebraica”, il partito di cui, in pochissimo tempo, è
diventato leader.
I suoi timori si sono in un certo senso
avverati. Mentre Sarah cercava di allontanare il giovane imprenditore
miliardario che insidiava il trono del più grande partito conservatore,
una giornalista faceva il suo debutto in politica, diventando invece la
leader del Labur, il più popolare partito di centro-sinistra (più centro
che sinistra), attualmente all'opposizione. È Shelly Yachimovich che
per le sue prime elezioni da segretario del partito - guidato dal 1969
al 1974 da Golda Meir - ha messo ai primi posti della sua lista molte
donne. Due, ex giornaliste come lei, andranno di certo a sedere sugli
scranni della Knesset. Si tratta della “non-sobria” Merav Michaeli, 47
anni, volto molto noto della tv e di Stav Shaffir, 26 anni,
l'ambiziosissima blogger, che un anno e mezzo fa si mise alla testa
della cosiddetta “protesta delle tende”, versione mediorientale di
Occupy, per opporsi alle politiche liberiste del governo Netanyahu.
Apparentemente emotive, in realtà fredde e determinate, queste donne
hanno in comune ottimi studi e una visone non conformista del ruolo
della donna. Quando il Fatto, all'inizio delle proteste intervistò
Shaffir in un palazzo occupato di Tel Aviv, questa ragazza dai capelli
rossi e dall'inglese perfetto disse che “Bibi aveva distrutto lo stato
sociale, impoverito la vita dei giovani, oltre che quella dei
palestinesi israeliani, trattati come cittadini di serie b”. La causa
palestinese però non è stata al centro della loro campagna elettorale.
Lo è stata, almeno in parte, per quella dell'ex ministro degli esteri
Tzipi Livni che, dopo aver lasciato Kadima, due mesi fa ha fondato
“Movimento” (Hatnuah). Mentre Michaeli è contraria al matrimonio “perché
limita la vita delle donne”, Tzipi ha parlato soprattutto alle donne
sposate, madri di famiglia, le più indecise, per fare appello al loro
senso di responsabilità. Perché se non ci pensa una mamma al futuro del
proprio figlio, chi deve pensarci? Ma non ha fatto centro.
La Stampa 23.1.13
Fra i coloni dei territori “Per noi nessuno è abbastanza falco”
In massa alle urne: dobbiamo difendere la nostra terra
di Francesca Paci
Negli
insediamenti ebraici che indifferenti al diritto internazionale
dominano le colline della Cisgiordania può capitare di rimanere al buio
per problemi elettrici, può talvolta mancare l’acqua, possono tardare i
rifornimenti alimentari e perfino i giornali: ma troverete sempre un
seggio aperto il giorno del voto.
«Diversamente dall’illusione di
uno Stato palestinese, la politica non è affatto morta, certamente non
da queste parti» osserva Amir Josman, 26 anni, 2 figli, studente di
pedagogia e volontario alla stazione elettorale di Itamar, la
trentennale colonia arroccata su un’altura a 5 km da Nablus nota per il
massacro del marzo 2011, quando due palestinesi del vicino villaggio di
Awarta uccisero i coniugi
Amir è arrivato subito dopo, uno dei
tantissimi simpatizzanti che hanno sposato la causa di Itamar
raddoppiandone la popolazione, oggi oltre quota mille.
Tradizionalmente
i coloni votano a destra, ma negli ultimi anni alcune scelte tattiche
del Likud (dal ritiro di Sharon da Gaza a quello di Netanyahu da Hebron)
hanno deluso gli irriducibili. Solo che loro, invece di astenersi alla
maniera dei liberal delusi, si spostano ancora più a destra. Così qui,
nella parte meridionale della Cisgiordania che loro chiamano Giudea e
Samaria, hanno fatto breccia il Focolare Ebraico di Neftali Bennett e
gli oltranzisti di Otzma Israel (una costola del rabbino fuorilegge
Kahane).
«Bennett ha capito che tra le priorità d’Israele non c’è
più la nascita di uno Stato palestinese e si è concentrato sulle
disparità economiche e l’educazione» spiega Avi Ronzki, barbone bianco e
occhi guizzanti, ex capo rabbino dell’esercito e ascoltatissimo guru di
Itamar, dove nel primo pomeriggio avevano votato già quasi l’80% dei
450 elettori. Rivendica la paternità di Focolare Ebraico raccontando di
quando otto mesi fa discusse del partito con Bennett e Ayelet Shaked
proprio qui, tra i giardinetti popolati di mamme giovanissime con le
gonne hippy, il fazzoletto in testa e decine di bambini. «Se Bennet si
piazza bene potremmo puntare al ministero dell’educazione» ammette, e su
un foglio di carta butta giù la coalizione ideale: Bibi, Focolare
Ebraico e Lapid. Molto meglio l’outsider Lapid, balzato a sorpresa tra i
favoritissimi, degli ultraortodossi haredim renitenti alla leva,
perché, da queste parti, il servizio militare è sacro, «memlachti», un
atto di fede nello Stato.
Lungo la strada 505 che attraversa
uliveti e villaggi palestinesi non si vedono manifesti elettorali, gli
unici sono agli incroci con le indicazioni per le colonie, Ale Zahv,
Pedu’el, Tapuach, nomi biblici, evocazioni divine, mito della terra.
«Ho
votato per la prima volta, sono emozionatissima» afferma la studentessa
di psicologia Raia Melamed. Ha 18 anni, 15 fratelli, il sogno di
mettere al mondo non meno di sei figli. I suoi genitori sono arrivati a
Tapuach con la roulotte nei primi Anni 80, pionieri. Lei registra i nomi
al seggio elettorale allestito nella biblioteca (un’affluenza vicina al
90%) e parla del Paese che vorrebbe: «Netanyahu non mi piace ma alla
fine ho scelto il Likud perché ha in lista candidati che promettono di
difendere la religione, i valori tradizionali, la terra dove vivo».
Chissà se pensa a Moshe Feiglin, noto per la proposta di consentire i
riti ebraici sulla spianata delle moschee. Il suo collega Zoher, 29
anni, lunghi peot che spuntano dalla kippah, dice di aver preferito
Otzma Israel e sorride sottraendosi alla stretta di mano.
«Chi ha
forti motivazioni ideologiche difficilmente diserta le urne, per questo
nelle colonie l’affluenza è sempre stata consistente» ragiona l’analista
dell’Israel Project Marcus Sheff. E per questo, lascia intendere, le
elezioni 2013 potrebbero a sorpresa rovesciare tutte le previsioni.
L’inattesa massiccia partecipazione di ieri infatti, sta già mettendo in
difficoltà il premier uscente Netanyahu che contava sull’amareggiato
Aventino dei liberal per cavalcare il vento di destra.
«Qualsiasi
siano i risultati non fatevi illusioni, Israele ha archiviato i
negoziati con i palestinesi e non se ne parlerà più per parecchio
tempo». Il 25enne Yossi è pronto a scommetterci e così, giura, tutti i
suoi compagni di Kedumin, l’apripista degli insediamenti nel Sud della
Cisgiordania che oltre a numerose sparatorie con i palestinesi vanta la
storica visita di Begin nel 1977. È un visionario Yossi, ma politico.
Sulla collina dirimpetto a Kedumin il ventiseienne Amos, bello e
abbigliato da squatter come la moglie Rachel, guarda oltre dalla tenda
senza acqua e senza elettricià in cui vive da 4 anni: «Non votiamo,
nessuno è abbastanza di destra per noi».
La Stampa 23.1.13
Israele, in Parlamento destra e sinistra mai così vicine
Netanyahu perde (anche se resta premier), Lapid vince al fotofinish
Il risultato crea due blocchi la cui distanza non è mai stata tanto sottile
di Francesca Paci
qui
http://www.lastampa.it/2013/01/23/esteri/israele-si-lavora-a-una-coalizione-ampia-LVRHGymy4CQXA8e9BLALUM/pagina.html
La Stampa 23.1.13
Yair Lapid, il “cigno nero” di Israele
di Francesca Paci
qui
Corriere 23.1.13
La vittoria amara di Bibi Netanyahu, una strada in salita per Israele
di Antonio Ferrari
Benjamin
Netanyahu voleva vincere le elezioni. Ha vinto ma è come se avesse
perso. Esce infatti bruscamente ridimensionato, dopo aver chiamato
anticipatamente i suoi connazionali alle urne. Stando alle prime
proiezioni, vi è quasi una parità fra destra e sinistra.
I veri
protagonisti di questo terremoto politico non sono stati Netanyahu e il
suo partner ultranazionalista, il ministro degli esteri Avigdor
Lieberman, ma tre nuovi leader, che rappresentano l'ultradestra
religiosa dei coloni e dell'hi-tech, il mondo ultralaico ben radicato
soprattutto a Tel Aviv e il redivivo partito laburista. Si potrebbe dire
che il vero confronto si è giocato al piano inferiore della politica
israeliana tra Naftali Bennet, 40 anni, ex braccio destro di Netanyahu,
il cinquantenne Yair Lapid, che è un giornalista esattamente come la
leader laburista Shelly Yachimovich. Non è l'avvio di un progetto di
«rottamazione», ma certo è un forte segnale quello che affiora dalle
urne, almeno a giudicare dai primi exit poll, in realtà — in Israele —
non molto affidabili. Nella classifica della sorprese, la più
sorprendente è rappresentata da Lapid, che riesce a schierarsi al
secondo posto. Bennet, vera novità dell'estrema destra, ha sottratto a
Bibi numerosi consensi. Lo smagrito Likud non ha avuto alcun beneficio
dall'alleanza con Lieberman. L'unione non ha fatto la forza ma partorito
una debolezza.
È ancora presto per immaginare quale coalizione
potrà fare Netanyahu e come si muoverà il presidente Peres, che dovrà
decidere a chi affidare l'incarico di formare il governo. Per ora si può
dire che questa è stata l'elezione più sorprendente degli ultimi 15
anni. Si pensava che gli israeliani, che cominciano ad essere afflitti
da problemi sociali ed economici, rispondessero al voto con l'apatia e
l'astensione. Al contrario, l'affluenza è stata la più alta dal 1999. Si
pensava che si dovesse dibattere del conflitto con i palestinesi e del
processo di pace. Non ne ha parlato nessuno. A parte Bennet, il quale
sostiene che ormai i tempi sono maturi per annettere il 60% della
Cisgiordania. In altri tempi sarebbe stata una bestemmia per la
sinistra, ma anche la leader laburista Yachimovich si è tenuta lontana
dal tema. La stabilità di Israele invece di rafforzarsi ne esce
indebolita. Il presidente Obama è stato molto duro con Netanyahu, e ora,
considerate le rischiose incognite regionali, la strada anche per
Israele si presenta in salita.
Repubblica 23.1.13
Knesset in bilico
di Bernardo Valli
GERUSALEMME
AVEVA ragione Benjamin Netanyahu quando, due ore prima che si
chiudessero i seggi, ha lanciato un grido d’allarme, e ha invitato i
suoi elettori ad accorrere alle urne. La forte affluenza, superiore al
previsto, suonava come una protesta contro il governo. Contro di lui, il
primo ministro, il grande favorito. La sua disperazione era
giustificata.
LE PRIME proiezioni hanno annunciato un
crollo della sua alleanza di destra. Dai 42 seggi che aveva nel passato
Parlamento, gliene vengono adesso aggiudicati 31. Una perdita secca di
11 seggi. Non è ancora un risultato ufficiale, che arriverà soltanto
nella mattina, quando finirà lo spoglio. L’incertezza regna ancora. Ma
la tendenza si profila abbastanza netta. E la delusione della destra è
evidente in queste ore notturne nelle sedi dei suoi partiti.
La
destra nel suo insieme avrebbe ottenuto 61-62 seggi contro i 59-58 del
centro sinistra. Una maggioranza risicata e incerta, di gran lunga
inferiore a quella pronosticata, alla Knesset, il Parlamento che ne
conta 120. Se questi saranno i risultati finali, sarà come se si fosse
concluso un primo turno. E Benjamin Netanyahu in tal caso l’avrebbe
vinto per poco, sarebbe riconfermato ma non trionfalmente come
annunciato. Potrebbe restare capo del governo per la terza volta, ma con
fatica. E comunque la suspense sembra destinata a continuare.
La
vittoria di Netanyahu era data per scontata, anche se più robusta, ma
adesso non è affatto scontata la coalizione con la quale governerà. E la
sua composizione equivarrà a un secondo turno, fuori dalle urne. Per
Israele, ed anche per la sua politica mediorientale (in particolare i
rapporti con i palestinesi e il problema nucleare iraniano), non sarà
indifferente se Benjamin Netanyhau avrà come alleati i partiti centristi
oppure l’estrema destra. O se riuscirà a formare un improbabile governo
di unità nazionale. Le opzioni, mentre si precisano i risultati, sono
aperte. Per realizzarne una c’è tempo ventotto giorni. «Gli israeliani
vogliono che io continui a governare - ha commentato il premier su
Facebook - e che io formi la più ampia maggioranza possibile».
Uscire
da un’elezione primo ministro per tre volte non è un record nella
storia dello Stato di Israele, perché altri leader hanno compiuto
l’impresa, ma colloca Netanyahu tra i più politicamente longevi capi del
governo. Se si contano anche gli anni in cui è stato ministro, per la
durata al vertice della vita politica, incalza Ben Gurion, il fondatore
di Israele. In quanto al prestigio la distanza è invece grande. Per i
detrattori, che sono tanti nonostante il suo successo, è addirittura
abissale. Etgar Keret, scrittore e uomo di cinema, senz’altro sarcastico
e paradossale, come capita spesso nelle polemiche israeliane, ha detto
che in questa elezione si sceglieva il comandante del Titanic, senza
tener conto del come il prescelto si comporterebbe quando avverrà l’urto
con l’iceberg. In realtà, stando alle prime proiezioni, gli israeliani
hanno esitato a designare il comandante. L’hanno nominato, ma
politicamente zoppo.
Il primo ministro sembra confermato perché la
sua alleanza elettorale, formata dal Likud, principale partito di
destra, e dall’ultra nazionalista Yisrael Beitenu (Casa di Israele), la
formazione di Avigdor Liberman, espressione della comunità russa,
avrebbe ottenuto più voti del concorrenti. E tuttavia molto meno di
quattro anni fa. Quindi non sarà facile per Netanyahu formare una
maggioranza di governo. La svolta nazional religiosa non c’è stata nelle
proporzioni anticipate dai sondaggi. Neppure i seggi conquistati da
Naftali Bennett, fondatore del nuovo partito di estrema destra, Habayit
Hayeudi (Focolare ebraico), sarebbero quelli pronosticati. Non 14, ma
12. Mentre un candidato laico, centrista, Yair Lapid, un ex giornalista
televisivo, molto popolare, ne avrebbe conquistati 19. Al punto che il
suo partito (Yesh Atid) sarebbe il secondo partito, dopo il
Likud-Beitenu. E prima di quello laburista, che avrebbe conservato i 17
promessigli dai sondaggi. Questi risultati cambiano le carte in tavola.
Stando
ai dati finora conosciuti, Netanyahu, uscito vincente di stretta
misura, potrebbe tentare una coalizione di destra. Bennett, il campione
estremista, reso milionario dall’High Tech di cui è uno specialista, era
un suo collaboratore che l’ha tradito. E’ assai probabile che gli
elettori perduti dall’alleanza Likud-Beitenu li abbia recuperati lui,
con un programma senza sfumature, in cui respinge senza esitare l’idea
di un eventuale Stato palestinese, sostiene l’estensione delle colonie
nei territori occupati (è stato il responsabile dell’associazione dei
coloni), e limita a qualche città di Cisgiordania l’autonomia dei
palestinesi, nel quadro del sistema di sicurezza israeliano. Stando ai
suoi sostenitori lui afferma apertamente quel che Netanyahu fa ma non
dice. Nella campagna elettorale il primo ministro e l’ex collaboratore,
animatore di un’estrema destra popolare anche tra i giovani non
religiosi, si sono affrontati con accenti più duri di quelli dedicati
alla sinistra. Netanyahu ha spesso rincorso il “traditore” Bennett per
non lasciarsi superare, per non essere travolto dal suo estremismo. Come
quando in un’intervista si è impegnato a non ridurre il numero delle
colonie, anche se ci saranno pressioni internazionali. In particolare
americane.
Malgrado la rivalità aperta, Naftali Bennett continua a
dichiararsi un “allievo “ di Netanyahu, e appare un ministro fatto su
misura per il futuro governo. Ma sarebbe un ministro scomodo. Invadente.
Nuocerebbe all’immagine della coalizione sul piano internazionale. Si
sospetterebbe, ad ogni decisione anti palestinese, la mano di Bennett.
E’ una situazione che Netanyahu sopporterebbe con fatica. Non è quindi
escluso che egli tenti un’altra strada. Quella centrista. Ad esempio il
recupero del popolarissimo Yair Lapid, che avrebbe ottenuto un successo
strepitoso, rispetto ai pronostici, e dell’ex ministro degli Esteri e
agente del Mossad (i servizi segreti), Tzipi Livni, spostatasi via via
da posizioni di destra a posizioni moderate, centriste, fino a fondare
un proprio partito, Hatnuah (il movimento). Con la partecipazione
(ottenuta con concessioni varie alle loro istituzioni) dei partiti
religiosi, Netanyahu potrebbe cosi raggiungere la maggioranza alla
Knesset. E’ un negoziatore tenace e può realizzare quel che al momento
appare impossibile. Potrebbe tentare anche un governo di unità
nazionale, coinvolgendo il partito laburista. Ma questa sarebbe
un’impresa assai più difficile. La natura della prossima coalizione
influenzerà l’atteggiamento nei confronti dei problemi che Netanyahu
dovrà affrontare all’inizio del terzo mandato: la questione palestinese e
quella nucleare iraniana. E comunque la destra israeliana è stata,
contro tutte le previsioni, nettamente ridimensionata.
Repubblica 23.1.13
Eran Riklis, il pluripremiato regista del Giardino dei Limoni e della Sposa siriana
“Ci svegliamo da un lungo letargo è ora di pensare ai problemi veri”
“Per troppo tempo i politici hanno usato la paura come argomento”
di Alix Van Buren
ERAN
Riklis, il pluripremiato regista del Giardino dei Limoni e della Sposa
siriana, è percorso da una sottile vena di euforia. «C’è un’atmosfera
frizzante oggi per le strade di Tel Aviv, quasi fossero in vista grandi
novità. La percentuale dei votanti è stata alta: forse una mobilitazione
contro l’estrema destra, che si presenta in abiti eleganti e con parole
suadenti».
Riklis, sta pensando all’ascesa di Naftali Bennett, il nuovo fenomeno della destra nazionalista-religiosa?
«Bennett
è una figura inedita nel panorama israeliano. Il suo richiamo è tanto
più pericoloso quanto lui è scaltro nell’ammorbidire e confezionare il
suo messaggio estremista. Sa premere sui pulsanti giusti, ha consiglieri
“all’americana”. Però, al centro-sinistra lui non l’ha data a bere:
dietro le belle apparenze nasconde un disegno davvero cupo».
Il centro-sinistra ha reagito?
«È
come se ci scuotessimo da un lungo letargo. Nonostante il trauma
dell’assassinio di Rabin nel ’95, avevamo minimizzato il pericolo. Presi
dai guadagni di un’economia fiorente grazie all’alta tecnologia,
avevamo rimosso la centralità di una destra sempre più estrema».
Però, l’economia ha monopolizzato il dibattito. Che fine ha fatto la questione della pace con i palestinesi?
«Di
colpo, è svanita. Nessuno vuole affrontarla. Prevale il luogo comune
del “non c’è un interlocutore”. Ma economia e politica, pace e
prosperità sono correlate. Piuttosto, dovremo risolvere la nostra
situazione esistenziale».
Vale a dire?
«È la “paura”
dilagante nella società, alimentata dalla classe politica per occultare i
problemi veri: l’economia, i rapporti coi palestinesi e il mondo arabo.
Per mesi non s’è parlato d’altro che del pericolo iraniano. Ogni volta
che si apre una crisi interna, il governo agita una minaccia esterna. È
un vecchio trucco ben sperimentato».
Sul voto ha pesato anche il timore di un isolamento per le politiche della destra?
«Sì:
lo spavento di alienare l’America e l’Europa. Però, le dico questo: io
non sono preoccupato. I nostri legami con l’Occidente hanno radici
profonde, economiche, storiche, emotive. Né bisogna credere che la
destra distruggerà il Paese. Noi siamo una piccola nazione. Il divario
fra destra e sinistra può essere colmato. Infatti, in Israele noi siamo
tutti sulla stessa barca».
Repubblica 23.1.13
Il bello della tv e l’idolo dei coloni
di Fabio Scuto
GERUSALEMME
— Sono due assoluti debuttanti della politica la sorpresa e i veri
vincitori di queste elezioni in Israele. Fotogenico e muscoloso come un
uomo-copertina, brizzolato come Richard Gere; disinvolto come Barack
Obama di fronte alle platee, l’esordiente Yair Lapid — leader della
lista centrista Yesh Atid (C’è un futuro) — ex anchorman della tv
commerciale Canale 2 ed ex commentatore del popolare quotidiano Yediot
Ahronot, è forse il più emblematico fra i volti nuovi della 19esima
Knesset. Lapid e Naftali Bennett — il magnate dell’hi-tech nuova star
dell’ultradestra e dei coloni — sono le due assolute novità delle
legislative israeliane e possibili aghi della bilancia per la nuova
coalizione di Netanyahu.
Entrambi hanno bruciato le tappe fino ad
irrompere nell’alta politica, entrambi hanno ottime probabilità di
entrare nella futura coalizione di governo se — come sembra al momento —
l’incarico sarà ancora affidato al leader di Likud-Beitenu Benjamin
Netanyahu che sarà costretto ad allagare le basi della maggioranza se
vuole garantirsi una certa sopravvivenza politica. Ma sulla loro reale
capacità di misurarsi con i problemi che assillano oggi Israele il
futuro resta ricco di incognite, perché né Bennett né Lapid hanno
esperienza parlamentare, tanto meno di governo.
Figlio dell’ex
ministro della Giustizia Yossef “Tommy” Lapid — campione del laicismo
sionista e anima del partito Shinui negli Anni Novanta — e della
scrittrice di successo Shulamit Lapid, il dirompente Yair avrebbe
comunque polarizzato l’interesse con la sua immagine da figlio d’arte
debuttando nella politica attiva. La sua è stata una facile ascesa; nato
nel 1963 è cresciuto in uno dei salotti più stimolanti e politici di
Tel Aviv. Suo padre “Tommy” prima di entrare in politica era un
giornalista di punta di Maarivnegli anni in cui quel giornale dettava
l’agenda politica del Paese governato da laburisti. Con grinta Yair
Lapid si è fatto spazio nel mondo dei mass-media: certo il cognome di
famiglia è stato certamente un ottimo biglietto da visita. Ma Lapid jr.
aveva indubbiamente molte cose da dire se in pochi anni ha pubblicato
diversi libri, canzoni e migliaia di articoli. Poi c’è stato l’ingresso
nella tv commerciale Canale2 (la più seguita del Paese), come anchorman
del telegiornale del week-end. In poco tempo, proprio come il padre, è
diventato uno dei giornalisti più influenti di Israele. La grande
popolarità — particolarmente diffusa fra le elettrici e amplificata dal
piccolo schermo — gli ha consentito di bruciare le tappe verso
l’appuntamento con la Knesset dove il suo partito Yesh Atid ha portato
ben 19 deputati diventando il secondo per importanza davanti al Labor,
che ne ha ottenuti 17 su un totale di 120. Mentre Kadima non supera la
soglia di sbarramento del 2% e resta fuori dal parlamento.
Il suo è
un partito nuovo, nato appena un anno fa, quando le elezioni politiche
anticipate erano ancora lontane, Yair Lapid ha deciso di lasciarsi la
carriera professionale alle spalle per darsi alla politica e, per molti
versi, per proseguire la campagna avviata dal padre per un Israele
laico, sionista, progressista, dove diritti e doveri siano spartiti in
maniera più equa. In nome del laicismo dello Stato e della lotta contro i
privilegi dati agli ultraortodossi ha reclutato gente da tutti i ceti
sociali, come una sorta di “United Colors of Benetton” della scena
politica. Adesso per Lapid, come per Bennett, è giunto il momento della
verità.
il Fatto 23.1.13
L’insediamento
Obama, uomo libero libera l’America
di Furio Colombo
Nel
suo secondo, indimenticabile discorso inaugurale, il presidente Obama,
carismatico come la prima volta, forse di più perché i capelli, intanto,
si sono ingrigiti, parla all'America del tempo che sta per venire come
di un viaggio. Ma di quel viaggio dice cose molto più forti e più audaci
della prima volta, qualcosa che non era mai accaduto. Lo testimonia il
New York Times nelle pagine dedicate al nuovo “primo giorno”.
Ma
poiché noi parliamo dall'Italia, chiedo ai lettori di guardare per un
momento a punti più vicini a noi e più lontani da quel grande quadro di
festa. Ecco che cosa si vede e si ascolta. Dovunque si riuniscano think
tank e gruppi di lavoro addetti a esaminare i problemi del mondo, a
immaginare di spostare truppe, di decidere chi manda chi e che cosa e
quale prezzo e dove e per quale ragione (o materia prima da salvare)
nelle parti di caos del mondo, si notano riferimenti prudenti ma
inquieti a proposito “dell'America che tende a tirarsi indietro”.
Stando
attenti a citare il meno possibile il presidente Obama e a evitare di
parlare di “nuova politica degli Stati Uniti” a proposito di impegno e
disimpegno, ti fanno notare che, quando si tratta di combattere “il
pericolo”, “il nemico”, “il terrorismo”, la “sfida di civiltà”,
“l'America non è più quella di una volta”. L'ho sentito dire, anche nei
giorni scorsi, nel Parlamento italiano durante le riunioni di emergenza
delle commissioni Esteri della Camera e del Senato e nella imprevista
seduta della Camera del 22 gennaio (dunque a Camere formalmente sciolte)
per discutere dell'invasione del Mali, dell'intervento francese, del
rifinanziamento del corpo di spedizione italiano in Afghanistan.
Pensiero e linguaggio sembravano fermi a George W. Bush (che non si è
presentato alla festa di Obama).
MA TORNIAMO a Washington. Il
fatto è che lunedì 21 gennaio, davanti a un’immensa folla di cittadini
che lo capiscono e lo amano, il solo presidente americano (dopo il 1945)
che non abbia iniziato alcuna guerra e che stia chiudendo a una a una
quelle che ha trovato, piene di sangue e di morti nel mondo, ha aperto
con una frase mai detta prima: “Questo Paese deve avere il coraggio di
affrontare e risolvere con strumenti di pace differenze, diffidenze e
scontri, non perché sottovalutiamo i pericoli, ma perché i pericoli più
grandi sono il sospetto e la paura”. E quando ha rivolto lo sguardo a
ciò che sta accadendo nella vita del suo Paese ha detto queste parole
difficili da dimenticare: “Non scambiate l'assolutismo per un principio,
non confondete uno spettacolo con la politica, non pensate che un
insulto valga un argomento della ragione”.
Ma ecco il punto alto,
caldo e unico di un discorso presidenziale destinato a segnare un prima e
un dopo nella vita degli americani, non solo il Paese, lo Stato o le
Istituzioni, ma nei rapporti quotidiani e continui fra cittadini.
Ricordiamo che Obama ha giurato sulla Bibbia di Martin Luther King (il
21 gennaio è il giorno che l'America dedica al leader assassinato a
Memphis) e su quella di Abraham Lincoln, per evocare insieme la svolta
della libertà segnata dal presidente antischiavista, e la svolta dei
diritti civili conquistati dal predicatore nero contro il Ku Klux Klan e
la segregazione.
E infatti l'incedere della voce, se lo
ascoltate, diventa quello delle chiese nere del Sud americano che erano,
negli anni Sessanta, i centri di mobilitazione, aggregazione e difesa.
Ha detto, in sequenza, queste tre frasi: “Il nostro viaggio non è
compiuto finché non raggiungeremo il traguardo dell'uguaglianza, a
cominciare dalla paga che spetta per lo stesso lavoro a uomini e donne”.
“Il
nostro viaggio non è compiuto finché i nostri bambini, dalle strade di
Detroit ai quieti viali di Newtown alle colline dell'Apalachia sapranno
che noi ci prendiamo cura di loro e gli facciamo festa e li salviamo da
ogni pericolo. Il nostro viaggio non è finito finché i nostri fratelli e
sorelle gay non saranno trattati come ognuno di noi, uguali di fronte
alla legge”. Ed è come un giocatore di bowling che, con un colpo solo,
sbaraglia tutti i birilli. Infatti Obama può dire, subito dopo, che è
giusto che vi sia marriage equality, parità dei matrimoni.
E
DICHIARA, da presidente, contro la destra americana e del mondo: “Non è
vero che l'assistenza medica e un minimo di sicurezza sociale
sminuiscono lo spirito imprenditoriale di un Paese. Non è vero che
l'intervento sociale fa di noi una nazione di cittadini che chiedono.
Essi ci rendono liberi di affrontare i rischi che fanno di noi un grande
Paese”. Sono le parole di un presidente libero (unbound, dicono i
commentatori americani usando parole da libri d'avventure, per dire
qualcuno che si è liberato dalle catene) che governerà l'America nei
prossimi quattro anni. Un uomo libero che ha poco conformismo e una
visione chiara, quasi profetica, che vuole condividere. È vero, come
dicono nei gruppi e think tank che studiano strategia, militare o
economica: “L'America (certo l'America di Obama) non è più quella di una
volta”.
Repubblica 23.1.13
L’uguaglianza di Obama
di Nadia Urbinati
L’eguaglianza
è la grande assente nel linguaggio politico contemporaneo, nonostante
la nostra sia un’età a tutti gli effetti di egemonia democratica, e la
democrazia sia un sistema che fa dell’eguaglianza (civile e politica, ma
anche delle condizioni di partecipazione alla vita della società) il
suo fondamento e la sua aspirazione. Nel suo epico discorso di
insediamento come 44esimo Presidente degli Stati Uniti, Barak H. Obama
lo ha ricordato ai suoi concittadini e a tutto il mondo. E lo ha fatto
riandando alle origini del patto sul quale l’America che lo ha rieletto è
nata, alla Dichiarazione di Indipendenza: “Noi riteniamo che sono per
se stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati
eguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti,
che tra questi diritti sono la Vita, la Libertà, e il perseguimento
della Felicità”. A scrivere queste rivoluzionarie parole era stato
Thomas Jefferson, un illuminista che credeva come i nostri Filangieri,
Verri e Beccaria, che la legge dovesse occuparsi non ad opprimere o
dominare ma a creare le condizioni di benessere dei cittadini. La
“felicità pubblica” era un ideale importante. Dalla consapevolezza della
sua importanza comincia la storia della democrazia moderna.
Il
governo, secondo questa filosofia che a noi sembra desueta, dovrebbe
creare le condizioni grazie alle quali le persone possono prima di tutto
conoscere le loro potenzialità (a questo serve un sistema educativo
aperto a tutti) e poi contare su leggi giuste e ben fatte e istituzioni
trasparenti e funzionali per poter progettare la loro vita secondo il
loro discernimento. Insomma vivere, e vivere con soddisfazione per
quanto possibile, e non nella sofferenza, nell’umiliazione e nella
miseria. E questo è un bene per il singolo e la società. Il governo non
dispensa felicità dunque. Ciò che si impegna a fare è rendere le persone
davvero responsabili della loro vita; far sì che esse possano contare
su se stesse, non sulla fortuna di appartenere a una buona famiglia, non
sul favore delle persone potenti, non sull’elemosina di chi ha più.
La
democrazia, parola per secoli vituperata per volere dare potere e
visibilità a tutti, anche ai poveri e inacculturati, è stata nobilitata
anche dalla Rivoluzione americana alla quale Obama si è ispirato. Essa
ha inaugurato una visione evolutiva delle conquiste sociali e politiche
al centro delle quali c’è la persona come valore attivo, agente di
scelte, ma anche soggetto dotato di sensazioni e sentimenti, che valuta
la propria vita all’interno delle relazioni con gli altri. Nella
democrazia, l’intera struttura della società, dall’etica alla politica,
ruota intorno alla persona, ed è valutata in ragione del grado di
soddisfazione o di felicità che riesce a procurare a ciascuno. Il
benessere e la libertà degli individui sono la condizione per misurare
il benessere o il progresso dell’intera società.
Rivalutando
questa tradizione che dal Settecento cerca di coniugare democrazia e
giustizia, si può dire che c’è giustizia soltanto quando la riflessione
pubblica non evade da questi compiti, non lascia il campo alla giungla
degli interessi (e quindi alla vittoria di chi è più forte) per
riservarsi, eventualmente, di venire in soccorso a chi soccombe. Lo
stato della democrazia non fa questo. Esso prepara il terreno all’eguale
libertà invece di giungere dopo; non dispensa carità ma garantisce
diritti, e per questo promuove politiche sociali. Ecco perché il
principio della libertà individuale non sta solo scritto nelle
costituzioni ma diventa a tutti gli effetti un criterio che valorizza le
capacità concrete e sostanziali delle persone di vivere il tipo di vita
al quale danno valore. L’espansione della libertà è condizione di
felicità, perché possibilità di fare, di scegliere, di sperimentare con
dignità e senza subire umiliazione. Ecco perché il tema della giustizia è
un tema di risorse o di condizioni di benessere, non semplicemente di
esiti e nemmeno soltanto di equo trattamento. A questa promessa di
“felicità” è ritornato il presidente Obama per inaugurare il suo secondo
mandato: una promessa di impegno per uno sviluppo “illimitato” come o
indefinito (cioè senza limiti predeterminati) è il mondo delle nostre
possibilità in quanto persone libere nei diritti ed eguali nelle
opportunità. In questo inizio secolo, il viaggio mai finito della
democrazia sembra aver trovato il suo Ulisse, nocchiero di un percorso
incerto negli esiti e periglioso, ma avvincente e mosso da uno scopo che
dovrebbe essere alla nostra portata: vivere con dignità, apprezzando il
valore della nostra libertà.
La Stampa 23.1.13
Mali, dall’Italia tre aerei militari per i francesi
Si muovono anche gli Usa con C-130 e droni
di Francesco Grignetti
Gli
americani hanno iniziato: i loro aerei da carico sono già al lavoro per
portare da Istres, nel Sud della Francia, in Mali, soldati e materiali
della missione francese. E lo faranno gratis. Gli Usa hanno garantito
anche una piena collaborazione d’intelligence e s’immagina che radar,
satelliti e droni siano stati indirizzati sul Mali per supportare
l’avanzata francese.
È ufficiale che anche Gran Bretagna, Belgio,
Canada e Danimarca da due giorni abbiano cominciato a trasportare il
materiale francese. Gli inglesi hanno pure messo in allerta alcuni
reggimenti in vista di un possibile intervento di terra al fianco
dell’esercito di Parigi. All’appello manca ancora la Germania, ma la
cancelliera Merkel ha ribadito che il loro appoggio logistico è sicuro.
E
poi c’è l’Italia: sono di ieri i primi passi formali per dare corpo
agli annunci. Il governo ha demandato al ministro della Difesa,
Giampaolo Di Paola, di emanare un regolamento che faccia ricadere le
relative spese nel bilancio ordinario del ministero.
«C’è una
situazione di emergenza che va affrontata oggi. È necessario un ampio
concorso alle operazioni militari per fermare l’avanzata jihadista nel
Paese», spiegava ieri in Parlamento il ministro Di Paola. Per dirla con
le parole del ministro degli Esteri, Giulio Terzi: «Il Mali sta
attraversando una crisi di grandi proporzioni che richiede un deciso
sostegno dalla comunità internazionale affinché il Paese non affondi. E
poi i Paesi che circondano il Mali possono essere trascinati in un
baratro a causa della porosità dei confini». In conclusione, «un Paese
come l’Italia, interessato alla lotta al terrorismo, non può non essere
parte di queste operazioni».
L’Italia fornirà dunque alle forze
francesi in Mali un certo appoggio logistico. S’ipotizza l’uso di 2
aerei da trasporto e 1 aereo cisterna per rifornimento in volo. Il
contributo italiano al ponte aereo coprirà il salto dall’Europa verso
l’Africa, ma anche da un Paese africano all’altro, visto che c’è un
contingente di soldati africani da portare rapidamente al fronte.
«Potrebbe avere una durata limitata, di circa 2 o 3 mesi, che ne indica
appunto l’urgenza», è la precisazione di Di Paola. A sostegno del
governo, è arrivato comunque un ordine del giorno bipartisan ieri
mattina a firma Frattini, Tempestini e Adornato, che impegna il governo,
«in linea con la risoluzione 2085 del consiglio Onu, e per un periodo
di due mesi, estendibile a tre, a un contributo di vettori aerei per
supporto logistico».
Repubblica 23.1.13
L’Europa bendata alla guerra d’Africa
di Barbara Spinelli
È
IMPRESSIONANTE il mutismo che regna, alla vigilia delle elezioni in
Italia e Germania, su un tema decisivo come la guerra. Non se ne parla,
perché i conflitti avvengono altrove. Eppure la guerra da tempo ci è
entrata nelle ossa.
Non è condotta dall’Europa, priva
di un comune governo politico, ma è ormai parte del suo essere nel
mondo. Se alla sterminata guerra anti-terrorismo aggiungiamo i conflitti
balcanici di fine ’900, sono quasi 14 anni che gli Europei partecipano
stabilmente a operazioni belliche. All’inizio se ne discuteva con
vigore: sono guerre necessarie oppure no? E se no, perché le
combattiamo? Sono davvero umanitarie, o distruttive? E qual è il
bilancio dell’offensiva globale anti-terrore: lo sta diminuendo o
aumentando? I politici tacciono, e nessuno Stato europeo si chiede cosa
sia quest’Unione che non ha nulla da dire in materia, concentrata com’è
sulla moneta. L’Europa è entrata in una nuova era di guerre
neo-coloniali con gli occhi bendati, camminando nella nebbia.
Le
guerre – spesso sanguinose, di rado proficue – non sono mai chiamate per
nome. Avanzano mascherate, invariabilmente imbellite: stabilizzeranno
Stati fatiscenti, li democratizzeranno, e soprattutto saranno brevi, non
costose. Tutte cose non vere, nascoste dalla strategia del mutismo. A
volte le operazioni sono decise a Washington; altre volte, come in
Libia, son combattute da più Stati europei. Quella iniziata il 12
gennaio in Mali è condotta dalla Francia di Hollande, con un appoggio
debole di soldati africani e con il consenso – ex post – degli alleati
europei. Nessun coordinamento l’ha preceduta, in violazione del Trattato
di Lisbona che ci unisce (art. 32, 347). Quasi automaticamente siamo
gettati nelle guerre, come si aprono e chiudono le palpebre. La mente
segue, arrancando. C’è perfino chi pomposamente si chiama Alto
rappresentante per la politica estera europea (parliamo di Katherine
Ashton: quando sarà sostituita da una personalità meno inutile?) e
ringrazia la Francia ma subito precisa che Parigi dovrà fare da sé,
«mancando una forza militare europea». Fotografa l’esistente, è vero, ma
occupando una carica importante potrebbe pensare un po’ oltre.
Molte
cose che leggiamo sulle guerre sono fuorvianti: simili a bollettini
militari, non sono discutibili nella loro perentoria frammentarietà.
Invitano non a meditare l’evento ma a constatarlo supinamente, e a
considerare i singoli interventi come schegge, senza rapporti fra loro.
Anche in guerra prevalgono esperti improvvisati e tecnici.
L’interventismo sta divenendo un habitus europeo, copiato
dall’americano, ma di questa trasformazione non vien detta la storia
lunga, che connetta le schegge e rischiari l’insieme. Manca un pensare
lungo e anche ampio, che definisca chi siamo in Africa, Afghanistan,
Golfo Persico. Che paragoni il nostro pensare a quello di altri paesi.
Che studi la politica cinese in Africa, così attiva e diversa:
incentrata sugli investimenti, quando la nostra è fissa sul militare.
Scarseggia una veduta cosmopolita sul nostro agire nel mondo e su come
esso ci cambia.
Una vista ampia e lunga dovrebbe consentire di
fare un bilancio freddo, infine, di conflitti privi di obiettivi chiari,
di limiti spaziali, di tempo: che hanno dilatato l’Islam armato anziché
contenerlo, che dall’Afghanistan s’estendono ora al Sahara-Sahel. Che
nulla apprendono da errori passati, sistematicamente taciuti. I nobili
aggettivi con cui agghindiamo l’albero delle guerre (umanitarie,
democratiche) non bastano a celare gli esiti calamitosi: gli interventi
creano non ordine ma caos, non Stati forti ma ancora più fallimentari.
Compiuta l’opera i paesi vengono abbandonati a se stessi, non senza aver
suscitato disillusione profonda nei popoli assistiti. Poi si passa a
nuovi fronti, come se la storia delle guerre fosse un safari turistico a
caccia di esotici bottini. Il Mali è un caso esemplare di guerra
necessaria e umanitaria.
In questo decennio l’aggettivo umanitario
s’è imbruttito, ha perso l’innocenza, e annebbia la storia lunga: le
politiche non fatte, le occasioni mancate, le catene di incoerenze. Era
necessario intervenire per fermare il genocidio in Ruanda, nel ’94, e
non si agì perché l’Onu ritirò i soldati proprio mentre lo sterminio
cominciava. Fu necessario evitare l’esodo – verso l’Europa – dei
kossovari cacciati dall’esercito serbo. Ma le guerre successive non sono
necessarie, visto che manifestamente non fermano i terroristi. Non sono
neppure democratiche perché come si spiegano, allora, l’alleanza con
l’Arabia Saudita e l’enormità degli aiuti a Riad, più copiosi di quelli
destinati a Israele? Il regno saudita non solo non è democratico: è tra i
più grandi finanziatori dei terrorismi.
La degenerazione del Mali
poteva essere evitata, se gli Europei avessero studiato il paese:
considerato per anni faro della democrazia, fu sempre più impoverito,
portandosi dietro i disastri delle sue artificiali frontiere coloniali.
Aveva radici antiche la lotta indipendentista dei Tuareg, culminata il 6
aprile 2012 nell’indipendenza dell’Azawad a Nord. Per decenni furono
ignorati, spregiati. Per combattere un indipendentismo inizialmente
laico si accettò che nascessero milizie islamiche, ripetendo l’idiotismo
esibito in Afghanistan. Sicché i Tuareg s’appoggiarono a Gheddafi, e
poi agli islamisti: unico punto di riferimento, furono questi ultimi a
invadere il Nord, all’inizio 2012, egemonizzando e stravolgendo – era
prevedibile – la lotta tuareg. È uno dei primi errori dell’Occidente,
questa cecità, e quando Prodi approva l’intervento francese dicendo che
«non esistevano alternative all’azione militare», che «si stava
consolidando una zona franca terroristica nel cuore dell’Africa», che
gli indipendentisti «sono diventati jihadisti», dice solo una parte del
vero. Non racconta quel che esisteva prima che la guerra fosse l’unica
alternativa. I Tuareg non sono diventati terroristi; blanditi dagli
islamisti, sono stati poi cacciati dai villaggi che avevano conquistato.
La sharia, nella versione più cruenta, è invisa ai locali e anche ai
Tuareg (sono tanti) non arruolati nell’Islam radicale. Vero è che
all’inizio essi abbracciarono i jihadisti, e un giorno questa svista
andrà meditata: forse l’Islam estremista, col suo falso messianismo, ha
una visione perversa ma più moderna, della crisi dello Stato-nazione.
Una visione assente negli Europei, nonostante l’Unione che hanno
edificato.
Ma l’errore più grave è non considerare le guerre
dell’ultimo decennio come un tutt’unico. L’azione in un punto della
terra ha ripercussioni altrove, i fallimenti in Afghanistan creano il
caso Libia, il semifallimento in Libia secerne il Mali. Il guaio è che
ogni conflitto comincia senza memoria critica dei precedenti: come
scheggia appunto. In Libia il trionfalismo è finito tardi, l’11
settembre 2012 a Bengasi, quando fu ucciso l’ambasciatore Usa
Christopher Stevens. Solo allora s’è visto che molti miliziani di
Gheddafi, tuareg o islamisti, s’erano trasferiti nell’Azawad. Che la
guerra non era finita ma sarebbe rinata in Mali, come in quei film
dell’orrore dove i morti non sono affatto morti.
È venuta l’ora di
riesaminare quel che vien chiamato interventismo umanitario,
democratico, antiterrorista. Un solo dato basterebbe. Negli ultimi sette
anni, il numero delle democrazie elettorali in Africa è passato da 24 a
19. Uno scacco, per Europa e Occidente. Intanto la Cina sta a guardare,
compiaciuta. La sua presenza cresce, nel continente nero. Il suo
interventismo per ora costruisce strade, non fa guerre. È colonialismo e
lotta per risorse altrui anch’esso, ma di natura differente. Resilienza
e pazienza sono la sua forza. Forse Europa e Stati Uniti si agitano con
tanta bellicosità per contendere a Pechino il dominio di Africa e Asia.
È un’ipotesi, ma se l’Europa cominciasse a discutere parlerebbe anche
di questo, e non sarebbe inutile.
Repubblica 23.1.13
Un sondaggio svela che a Pechino non ci si dichiara l’amore La scoperta turba il Paese. E il governo deve correre ai ripari
Perché solo i cinesi non dicono “I love you”
di Giampaolo Visetti
PECHINO
Figli, genitori, amici, coniugi, perfino amanti e qualche star, hanno
provato a dire ai congiunti le parole grazie alle quali l’umanità non
risulta estinta. La maggioranza dei destinatari, colta di sorpresa, ha
ammesso che nessuno prima glielo aveva detto mai e che una frase simile,
comunque, non l’ha mai pronunciata.
Le risposte più comuni sono
state queste: «Cosa sta succedendo? », «Ti senti male?», «Ti ho già
versato i soldi del mese», «Il medico mi ha detto che è tutto a posto».
Un contadino, travolto dal «wo ai ni» telefonico di una figlia
metropolitanizzata che non vedeva da un anno, ha farfugliato: «Sì,
ancora sei mesi e il vicino mi presta quanto serve per rifarti le
palpebre». Non era mai successo, neppure prima della Rivoluzione
Culturale, che un confronto su come è possibile esprimere seriamente ciò
che si è concordato di chiamare amore si svolgesse in pubblico tra la
popolazione che rappresenta un sesto di quella del Pianeta. Invece ora
anche i giornali del partito riservano la prima pagina a una frivolezza
che scuote più dell’apprendere che gli europei cominciano a essere più
magri degli asiatici: «Perché i cinesi non sanno dire ti amo».
Sembrava
una divagazione da weekend, come quella di una popolare trasmissione
che ha chiesto agli spettatori di ricordare l’attimo in cui hanno avuto
il sospetto di sentirsi felici. Qui la partita s’è chiusa: memoria
esaurita. Sull’incapacità nazionale di trasformare l’affetto in suono si
è staccata al contrario una valanga. Il China Daily
ha pubblicato
le trenta fotografie che per trent’anni, lo stesso giorno, ritraggono
un padre con la figlia. Nella prima lui le tiene la manina. Nell’ultima
lei lo sorregge per un braccio. «Mai detto – confermano – che ci
vogliamo bene». Il file, in poche ore, è stato aperto da due milioni di
persone. Vivente Mao, parlare d’amore era bandito come vizio borghese.
«I sentimenti – ha detto il ricercatore Ji Yingchun – erano sottomessi
agli
obbiettivi collettivi: patria, partito, lavoro». Già prima di Confucio,
in Asia, contavano le azioni, non le parole. I cinesi, dalla dinastia
Yuan, sono cresciuti con i «Ventiquattro esempi di pietà filiale». Chi
si vendeva come schiavo per pagare
il funerale del padre, chi
offriva il proprio sangue per salvare la famiglia dalle zanzare, chi
annegava nel fiume per recuperare la sposa. Mai, però, una bella
dichiarazione. Ed è questo il problema degli eroafasici cinesi
contemporanei, travolti dai film di Hollywood, dalle vecchie soap
brasiliane, dal pop britannico, dai fumetti giapponesi, dalle leggende
italiane e infine da una montagna di «amori», di «tesori» e di «per
sempre» rigurgitati online. Una crisi di identità, l’inferiorità del
«non saperlo dire», con centinaia di milioni di individui che cominciano
a sospettare che «l’Occidente è più avanti perché ha il coraggio di
dire le cose come stanno, specie se non sono vere». Altri sostengono che
«in Asia l’amore è una cosa diversa, legata al fare», qualcuno che
«l’America ha trasformato in show anche il senso della vita», mentre i
cantonesi emigrati a San Francisco confessano che se proprio devono,
biascicano un «I love you». Nella lingua materna, però, mai.
Il
tema è così caldo che il governo è stato costretto a ricordare di avere
approvato un anno fa il nuovo «Manuale dell’amore per il 21° secolo»:
insegnare agli anziani a navigare in internet, impostare i canali della
tivù, pagare le bollette agli invalidi, fare la spesa ai vecchi e
«aiutare i genitori vedovi a risposarsi ». Il comandamento numero undici
del partito, passato sotto silenzio, arriva a recitare: «Dire ai
genitori che li amiamo». E una coppia? Niente. Non sarà il preludio di
un’altra rivoluzione culturale, ma si profila come l’avviso che ogni
cinese vuole liberamente fare i conti almeno con se stesso. Tenersi per
mano all’università ora si può, le mamme vengono scongiurate di non
cercare più in una certa piazza la ragazza giusta per il figlio, il
divorzio non esclude dalla fabbrica ed è nata perfino una banca dove gli
ex depositano gli oggetti comuni che hanno significato qualcosa.
Riuscire a dire «ti amo», ha sentenziato ieri la Rete allarmando la
censura, significa che dopo nessuno può più chiuderti la bocca. «Ma solo
di rado – ha scritto la commessa Chong Lu – quando serve proprio.
Altrimenti è strano».
Corriere 23.1.13
Nelle Fiandre
Adozioni, la metà a coppie gay
La
metà dei bambini adottati nelle Fiandre (Belgio) sono stati accolti in
famiglie omosessuali. Sei anni dopo la legalizzazione in Belgio
dell'adozione da parte di coppie gay in Belgio, il rapporto annuale del
Centro fiammingo per le adozioni (Vca) sforna il dato: a queste famiglie
14 bambini su 30. «Una conferma che chi organizza le adozioni non pone
ostacoli», ha detto un portavoce Vca.
il Fatto 23.1.13
Usa, il baby killer voleva più morti
Nuovi
particolari sulla strage familiare compiuta nel weekend dal 15enne
Nehemiah Griego ad Albuquerque: voleva andare in un supermercato a
sparare alla gente. Invece decise di andare a trovare la ragazza 12enne
mostrandole la foto della madre uccisa e poi a confessarsi in chiesa.
LaPresse
il Fatto 23.1.13
Usa, maggioranza di sì all’aborto
Per
la prima volta nella storia degli Usa la maggioranza degli americani
ritiene che l'aborto dovrebbe essere legalmente consentito in tutti o
quasi tutti i casi: lo rivela un sondaggio pubblicato in occasione dei
40 anni della sentenza della Corte Suprema che legalizzò l’aborto il 22
gennaio 1973. LaPresse
Corriere 23.1.13
Niccolò Machiavelli e i 500 anni del «Principe»
Domani
e venerdì si svolgerà alla Casa delle Letterature (piazza dell'Orologio
3, Roma) il convegno «Il pensiero della crisi. Niccolò Machiavelli e Il
Principe», a cura di Maria Ida Gaeta e diretto da Gabriele Pedullà. Il
convegno avviene a 500 anni dalla stesura di «Il Principe», un'opera il
cui clamore non si è ancora spento. Negli ultimi vent'anni, nonostante
il moltiplicarsi delle edizioni, si è assistito a un rarefarsi di studi
sul tema. Il convegno è diviso in tre sezioni: «Guerra / Economia»,
presieduta da Franco Benigno, «Machiavelli in Europa nell'età moderna»
da Giulio Ferroni e «Giurisprudenza / Politica» da Jean-Louis Fournel.
Intervengono molti docenti italiani e stranieri. Per informazioni si può
consultare il sito: www.casadelleletterature.it. (a.dg.)
l’Unità 23.1.12
2013, l’anno del «Principe»
Un convegno a Roma sull’attualità dell’opera
Machiavelli scrisse nella seconda metà del 1513 questo libretto diventato
un vademecum della politica più spregiudicata e ferina
di Giulio Ferroni
L’ANNO
DEL «PRINCIPE» (SCRITTO IN GRAN PARTE NELLA SECONDA METÀ DEL 1513), CHE
SI ANNUNCIA FITTO DI INTERVENTI E CELEBRAZIONI, VIENE INAUGURATO DAL
CONVEGNO «IL PENSIERO DELLA CRISI: NICCOLÒ MACHIAVELLI E IL “PRINCIPE”»,
CHE SI TIENE DOMANI E IL 25 GENNAIO ALLA CASA DELLE LETTERATURE DI
ROMA. NON È FORSE UN CASO CHE SI COMINCI DA ROMA, DATO CHE QUEL TRATTATO
COSÌ FIORENTINO, che l’ex segretario della repubblica scrisse per
vedere se i Medici, padroni di Firenze, gli facessero almeno «voltolare
un sasso», ha del resto più di un legame con Roma, dato che il legame
Firenze-Roma era allora strettissimo (il papa Leone X, Giovanni de’
Medici, era figlio di Lorenzo il Magnifico): sappiamo che l’autore vi
lavorò intensamente tra il luglio e il dicembre del 1513 grazie ad una
celebre lettera del 10 dicembre diretta proprio a Roma, all’amico
Francesco Vettori.
Il convegno romano, per iniziativa di Gabriele
Pedullà, dà voce alla critica machiavelliana più giovane (anche qui si
fa avanti quella che è stata chiamata generazione Tq): Pedullà ha
peraltro pubblicato recentemente un poderoso e sostanzioso volume su
Machiavelli in tumulto. Conquista, cittadinanza e conflitto nei
«Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio» (Bulzoni, 2011, pagine 633,
euro 44,00), che, puntando sul rilievo che nel più ampio trattato
dedicato alle repubbliche Machiavelli attribuisce ai conflitti sociali
dell’antica Roma, vede tra i nodi essenziali del suo pensiero il
radicarsi della «libertà» e potenza di uno stato nello spazio che le sue
istituzioni danno al conflitto, a scontri tra le classi non
distruttivi, ma rivolti in definitiva alla costruzione del bene comune.
Anche
il programma del convegno sembra voler rivolgere una attenzione
privilegiata ai Discorsi, seguendo una tendenza della critica
machiavelliana degli ultimi decenni: ma comunque il tema della crisi
permette di risalire dai Discorsi al Principe, dove pure non mancano
richiami ai conflitti di classe, ai diversi «umori» dei «grandi» e del
«popolo» (anche lì con una più diretta simpatia dell’autore per
l’orizzonte «popolare», anche se la sua nozione di popolo è qualche cosa
di diverso da quella moderna popolo, si avvicina di più, semmai, a ciò
che intendiamo come classe media).
Il Principe è proprio libro che
parte da una crisi, storica e personale: dalla constatazione della
debolezza degli stati italiani, di fronte agli invasori francesi e
spagnoli, e dall’amarezza per aver perso, con la sconfitta della
repubblica e il ritorno dei Medici a Firenze, il proprio posto di
segretario. Machiavelli lo scrive per offrirlo ai Medici, per mostrare
la propria competenza, nella speranza di recuperare un ruolo nella
politica fiorentina: indica linee politiche per la costruzione di un più
forte potere principesco mediceo, nonostante la sua preferenza
personale per la forma repubblicana. E questa sua riflessione sul
principato, e sulla stessa possibilità di creare un principato «nuovo», è
segnata da una specie di ansia critica, dalla continua verifica delle
«difficoltà» che ineriscono ad ogni gestione del potere, delle minacce
continue che gravano su di esso: del resto nella già ricordata lettera
del 10 dicembre 1513 dice proprio che il suo «opuscolo» è rivolto a
discutere «che cosa è principato, di quale spezie sono, come e’ si
acquistono, come e’ si mantengono, perché e’ si perdono». Tutte le mosse
del principe e dei singoli principi di cui in quest’opera si tratta
sono minacciate dalla perdita: e un perdente è alla fine quello che
viene indicato come il più capace tra i contemporanei, da imitare come
modello, Cesare Borgia, crollato alla fine per un imperdonabile errore.
Non uno scienziato della politica, Machiavelli (come afferma una lunga
tradizione che continua a prolungarsi), ma un radiografo della
catastrofe, impegnato ad indagare sulle «difficultà», gli
«inconvenienti», gli «errori» che gravano sull’esercizio del potere e
sul controllo delle istituzioni sul mondo: che cerca soluzioni per
rispondere alla crisi, che a loro volta restano implicate nella crisi,
incardinate dentro le condizioni della crisi stessa. In questo quadro
egli offre tutta una serie di rilievi di quella che oggi chiameremmo
antropologia o psicologia sociale, individuando gli effetti di una
politica dell’immagine, dell’illusionismo, della virtualità, l’efficacia
di un puro «mostrare», capace di catturare consenso sulla base di non
coscienza, di passività, di pulsioni e desideri eterodiretti dei
cittadinisudditi.
Per una serie di imprevedibili intrecci questo
libretto è diventato vademecum della politica più spregiudicata, ferina,
diabolica; ha finito per dare (o è sembrato farlo) indicazioni per la
scalata al potere, per il suo più cinico esercizio. Forse oggi possiamo
ripensarlo in una chiave diversa: usarlo non come manuale di
comportamento politico (nel Novecento lo si è fatto spesso in maniera
disastrosa, anche nella sinistra leninista e nei suoi deliranti
prolungamenti), né come modello filosofico, ma come spinta verso una
politica capace di farsi carico delle difficoltà, dei molteplici
«inconvenienti» critici che gravano sull’equilibrio delle nostre
società, capace di reagire alle derive morali, economiche, politiche,
antropologiche, ecologiche in cui siamo presi. Una politica che sappia
confrontarsi con l’«apparenza», per resistere alla sua risoluzione in
pura immagine, negli effetti di comunicazione, in indifferente
virtualità.
Corriere 23.1.13
Da casa ad Auschwitz. Il giovane Primo Levi alla prova del dolore
Il peso della vergogna e del tradimento
di Dario Fertilio
Prima
di Se questo è un uomo e della Tregua. E naturalmente molto prima de I
sommersi e i salvati. Esisteva allora un altro Primo Levi, poco più che
ventenne, «bene intenzionato ma sprovveduto» — come scriverà di se
stesso — e com'è ovvio ignaro della sua sorte. Quel Levi ci viene ora
restituito dalle pagine di un libro che è insieme narrazione,
testimonianza e soprattutto indagine psicologica. Il lungo viaggio di
Primo Levi di cui è autore Frediano Sessi (lo pubblica la Marsilio) ci
restituisce da un'angolazione diversa lo scrittore giovane, in procinto
di diventare figura centrale, simbolica, della narrativa italiana
sull'Olocausto.
Molto diverso dalla figura dolente, avvolta
dall'aria tragica che conosciamo, questo Primo Levi di fine settembre
1943, spinto dal timore dei bombardamenti e delle leggi razziali, ma
forse anche da un senso di noia e dal desiderio di avventura, sale con
la sorella e la madre in un piccolo borgo della montagna valdostana,
Amay, a quasi 1.500 metri. Sessi ripercorre passo passo questa storia
sempre trascurata dai libri ufficiali e dalle biografie: lo ritrae solo,
dopo che madre e sorella l'hanno lasciato, e attratto da una piccola
banda partigiana che aveva eletto la sua base d'azione proprio ad Amay.
Quindici uomini alla ricerca di armi che non sanno usare, impreparati e
forse un po' velleitari, in cerca di collegamenti con la formazione di
Giustizia e Libertà: poca cosa, agli occhi della polizia fascista. E tra
questi Levi ha un ruolo ancor più marginale, dal momento che non
partecipa nemmeno alle riunioni del comando. Eppure il caso, la fortuna
(espressione che Primo Levi prediligeva) o il destino trasformano questa
piccola avventura in una grande tragedia: un intricato gioco di
tradimenti e spionaggi travolge la piccola banda cui si è unito Levi.
Segue un arresto in blocco, ma poiché lui, Primo, viene riconosciuto
come ebreo, gli si riserva prima il campo di concentramento di Fossoli e
poi il trasferimento ad Auschwitz.
Non si ferma qui il «lungo
viaggio» richiamato dal titolo: allude anche al percorso interiore che
culminerà nell'esperienza estrema dello sterminio, nello stupore della
sopravvivenza, nel ritorno a casa e poi nel tentativo di raccontare, di
mettere sulla carta l'indicibile. Ma è un «viaggio» non politico, tutto
spirituale e psicologico. Quel che ci viene rivelato è la natura dei
fantasmi che tormenteranno lo scrittore fino alla morte, nel 1987, così
tremendamente simile a un suicidio; la loro germinazione nel suo animo;
gli effetti devastanti che essi alla lunga produrranno sulla sua psiche.
La
«vergogna», anzitutto. Si manifesta la prima volta ancora lassù, sulle
montagne di Amay, quando i capi della banda partigiana in cui ha trovato
rifugio decidono l'esecuzione sommaria di due compagni giudicati
indisciplinati e pericolosi. Da quel momento, almeno, il neo partigiano
Levi smarrisce la sua innocenza: si chiederà per sempre se il male e la
violenza attraversino le frontiera tra le ideologie e gli uomini; e
soprattutto se lui stesso, con il suo silenzio, non si debba considerare
moralmente responsabile di quel delitto. Tema che torna anche più
tardi, quando Levi esce in missione notturna alla ricerca di armi,
continuando a chiedersi se sia giusto sentirsi felice del successo, dal
momento che quelle stesse armi serviranno ad uccidere sì i nemici, ma
pur sempre uomini.
Oltre alla vergogna, il dolore: sperimentato
fisicamente per la prima volta al momento dell'arresto, quando i
fascisti lo prendono a schiaffi, e poi inestirpabile, sotto forma di
rimorso per aver abbandonato la famiglia, di angoscia nell'isolamento
del carcere e soprattutto al momento della morte dei compagni nel lager.
Ancora:
la paura, così umana, ma anche «forza passiva, con cui uno scoglio
sopporta l'urto dell'acqua di un torrente», e che lo spingerà a
confessarsi «non un uomo forte».
E infine, intrecciato al tema
della vergogna, c'è quello dell'amore: Sessi illumina con discrezione il
rapporto fra Primo e la bella Vanda, conosciuta ad Amay. Con la ragazza
sarà internato a Fossoli prima di proseguire per Auschwitz. Ma lei, in
un disperato tentativo di evitare la deportazione, l'ultima notte cederà
alla lusinghe di un suo carceriere: un «deragliamento» destinato a
ripercuotersi anche su di lui.
Questo è il «viaggio». Naturale
concluderlo nei campi infangati di Auschwitz: l'ultimo capitolo
intitolato Chiedi alla terra sembra evocare il Chiedi alla polvere di
John Fante, luogo «da cui non cresce nulla»
Corriere 23.1.13
La lotta al razzismo comincia nelle coscienze
Musica, teatro, dibattiti in ricordo dell'orrore
di Antonio Carioti
Il
momento più solenne delle celebrazioni per il Giorno della Memoria
della Shoah, che cade il 27 gennaio in ricordo della liberazione di
Auschwitz, sarà martedì 29 gennaio al Quirinale, con il capo dello Stato
Giorgio Napolitano, il presidente dell'Unione delle comunità ebraiche
Renzo Gattegna, i ragazzi delle scuole e (in veste di conduttore) il
direttore del «Corriere della Sera» Ferruccio de Bortoli. Quest'ultimo
presenterà il Memoriale della Shoah Binario 21 di Milano (dal binario
della Stazione Centrale da cui partivano i convogli degli ebrei
deportati), che viene inaugurato domenica 27, con la presentazione del
libro Testimonianza. Memoria della Shoah a Yad Vashem, cui partecipa il
ministro Andrea Riccardi. Le manifestazioni però cominciano già oggi e
domani. Stasera a Roma va in scena al Teatro Nazionale (ore 19) l'opera
per bambini Brundibár di Hans Krása, rappresentata per la prima volta
nel 1943 nel lager di Terežín. Domani, sempre nella capitale, si tengono
l'incontro «I testimoni della memoria» e la tavola rotonda «Il coraggio
di resistere», dedicata agli ebrei che si opposero alla persecuzione
nazista: in entrambe le occasioni interviene il rabbino Israel Meir Lau,
presidente dello Yad Vashem, memoriale israeliano della Shoah. A Milano
invece l'appuntamento più rilevante è il 27 gennaio alla Sala Verdi del
Conservatorio (ore 20): una serata di musiche, riflessioni e
testimonianze dal titolo «Milano ricorda la Shoah». Va ricordato poi lo
spettacolo Mr. Dago - I belong Nowhere! di Marco Bonini e Joe Bologna,
dedicato alle persecuzioni antiebraiche, che viene presentato nei giorni
28 e 29 gennaio a Roma presso l'Istituto centrale per i beni sonori e
audiovisivi. Quanto alle mostre, la più importante si apre oggi (fino
all'11 febbraio) alla Reggia di Caserta, organizzata dal ministero
dell'Interno d'intesa con il Centro di documentazione ebraica
contemporanea (Cdec): il titolo è «1938-1945. La persecuzione degli
ebrei in Italia. Documenti per una storia». Ma la soluzione finale non
riguardava solo gli ebrei. Per questo al Museo Maxxi di Roma, il 27
gennaio, è in programma un'iniziativa con diversi eventi per ricordare
il Porrajmos, cioè lo sterminio di oltre 500 mila persone di etnia rom
compiuto dai nazisti.
Corriere 23.1.13
Bruning, l’ultimo cancelliere prima della vittoria di Hitler
risponde Sergio Romano
In
un articolo dedicato a Mario Monti, il Financial Times paragona il capo
del governo italiano a Heinrich Brüning, cancelliere tedesco tra il
1930 e il 1932. Tutti sappiamo che cosa successe in Germania dopo
Brüning. Chi era esattamente lo statista tedesco? Ha un fondamento il
paragone?
Laura Rota
Cara Signora,
Penso
che Wolfgang Münchau, autore dell'articolo, abbia commesso un errore, ma
credo di capire perché il confronto gli sia sembrato possibile e
istruttivo. Brüning è una delle personalità più interessanti della
Repubblica di Weimar. Quando fece la sua apparizione sulla scena
politica tedesca, negli anni Venti, si era già fatto notare per i suoi
studi, per il suo comportamento in guerra, per il suo impegno a favore
dei veterani dopo la fine del conflitto. Era cattolico, aveva una
formazione economica ed era stato eletto al Reichstag nelle file del
Zentrum, una «democrazia cristiana» che era diventata una sorta di perno
centrista in un quadro politico dominato dalla rivalità fra
socialdemocratici e comunisti e da sanguinosi scontri di strada tra
formazioni di destra e di sinistra.
Quando la crisi americana del
1929 mise in ginocchio l'economia tedesca (tre milioni di disoccupati
agli inizi del 1930), Brüning dette l'impressione di avere le doti di
carattere necessarie in circostanze difficili e idee molto chiare sulle
soluzioni da adottare: lotta all'inflazione, aumento delle tasse,
diminuzione della spesa pubblica. Piaceva agli industriali, ai militari e
persino al capo dello Stato, il maresciallo Hindenburg, che lo chiamò a
palazzo il 27 marzo per affidargli la formazione del governo. Brüning
era pronto e accettò, ma chiese e ottenne che il maresciallo, per
sostenere il governo, facesse uso, se necessario, dei poteri
presidenziali previsti dalla Costituzione.
Nacque cosi in meno di
48 ore (un record nella storia della Repubblica di Weimar) un «governo
del presidente» che non intendeva abbassarsi a patti e compromessi con
le forze politiche. La legge di bilancio, ispirata dai principi già
annunciati da Brüning, incontrò parecchi ostacoli, ma fu imposta con un
decreto. E quando la maggioranza del Parlamento rifiutò di approvarla,
il cancelliere decise lo scioglimento del Reichstag, ritardò per quanto
possibile la data delle elezioni e governò nel frattempo in una sorta di
apnea democratica. Le elezioni, nel settembre 1930, non dettero i
risultati desiderati. Il voto indebolì i socialisti, rafforzò i
comunisti e ridusse ulteriormente l'influenza dei partiti moderati.
Brüning continuò a governare, ma in una situazione economica che andava
continuamente deteriorandosi: 4.380.000 disoccupati nel dicembre del
1930, 5.615.000 alla fine del 1931. Il cancelliere ricorse ai decreti,
ma nella primavera del 1932 perdette il sostegno di Hindenburg e fu
costretto a dimettersi. Le nuove elezioni, il 31 gennaio 1933, aprirono
le porte del Reichstag a 230 deputati del partito nazional-socialista.
Come
vede, cara signora, le analogie sono suggestive, ma le differenze non
sono meno importanti. Monti si muove in un contesto europeo
completamente diverso da quello degli anni Trenta e ha un programma
elettorale che ricorda in molti punti quello del Partito democratico di
Bersani. Esistono partiti e movimenti antisistema, ma il nostro Hitler,
se esiste, assomiglia a quello di Charlie Chaplin nel «Grande dittatore»
piuttosto che all'originale in carne e ossa.
Corriere Roma 23.1.13
Memoria
Una settimana «ad alta voce» per non dimenticare l'orrore dell'Olocausto
Testimonanze, proiezioni, teatro, arte, letture, conferenze e presentazioni di libri
di Ariela Piattelli
Testimonianze,
mattinate per le scuole, proiezioni, teatro, arte, letture collettive,
conferenze e presentazioni di libri, per le celebrazioni del Giorno
della Memoria, che anche quest'anno si terranno per tutta la settimana
(e anche oltre). La Casa della Memoria e della Storia, la Sala Santa
Rita, e il Nuovo Cinema Aquila offrono un programma intenso di
iniziative (gli eventi sono ad ingresso libero fino ad esaurimento
posti). Oggi alla Casa della Memoria, «Ad alta voce per non dimenticare»
(dalle 15 alle 20): una maratona di lettura in cui verrà interpretato
il libro Le donne di Ravensbrück. Testimonianze di deportate politiche
italiane di Anna Maria Bruzzone e Lidia Beccaria Rolfi alla presenza di
Mirella Stanzione, sopravvissuta di Ravensbrück, un campo «rieducazione»
poi trasformato in campo di sterminio dove vennero uccise
novantaduemila donne.
Domani alle 17 sarà presentato il volume
«L'ultimo treno. Racconti del viaggio verso il lager» di Carlo Greppi,
in cui l'autore ricostruisce, attraverso le voci di centoventi
sopravvissuti, l'esperienza drammatica dei deportati che, tra il 1943 e
il 1945, partivano da diverse stazioni dell'Italia centro-settentrionale
verso ignota destinazione. Sabato e lunedì, sempre alla Casa della
Memoria, tre proiezioni: «Tre figliole» di Rudi Assuntino, che racconta
la storia del polacco Mordechaj Gebirtig, uno tra più importanti poeti
yiddish e autore di musica popolare, il «Dottor Korczak» di Andrzej
Wajda, e il documentario «Io c'ero», che raccoglie le testimonianze dei
sopravvissuti allo sterminio nazista. Alla Sala Santa Rita fino al 1
febbraio ci sarà la mostra «Abbecedario della Memoria» del pittore
romano Giancarlino, mentre al Cinema Nuovo Aquila il 27 e il 28 gennaio
sarà presentato il film «In Darkness. Il coraggio di un uomo» di
Agnieszka Holland. Oggi alle 10 presso la Sala Alessandrina
dell'Archivio di Stato di Roma viene presentato il volume digitale «Le
leggi razziali e la persecuzione degli ebrei a Roma, 1938-1945» a cura
di Silvia Haia Antonucci, Pierina Ferrara, Marco Folin e Manola Ida
Venzo. Domani alle 21, presso il Teatro in Portico, si terrà il concerto
di musiche ebraiche del Coro «Hakol» intitolato «Ma come possiamo
cantare…?». Domenica sarà un giorno dedicato alla terza generazione dopo
l'Olocausto al Centro Ebraico Italiano «Il Pitigliani»: «Memorie di
famiglia: i giovani tramandano la storia dei nonni», un evento che
prevede letture con accompagnamento musicale (ore 11). Anche il Museo
MAXXI celebra il Giorno della Memoria con la mostra «Dosta! Ricordo del
Porrajmos» e un concerto dell'Orchestra europea della pace, per
ricordare lo sterminio di oltre mezzo milione di rom.
Corriere 23.1.13
Quella strana «sinistra di destra»
Il paradosso di Sansonetti sui postcomunisti fa sparire il Psi
di Pierluigi Battista
Si
conoscevano molte sinistre. Quella riformista e quella rivoluzionaria,
quella massimalista e quella moderata, quella comunista e quella
socialista, anarchica, radicale, extraparlamentare, cristiana,
ecologista. Ma ce n'è un'altra, sinora poco conosciuta, indicata nel
titolo di un nuovo libro scritto da Piero Sansonetti: La sinistra è di
destra (Rizzoli, pp. 232, 11). Non la destra della sinistra. No, proprio
la sinistra di destra. Che si dice di sinistra, ma fa politiche di
destra. Anche quando potrebbe vincere, dice Sansonetti. Ma non lo fa,
per timidezza e subalternità culturale.
Il libro di Sansonetti si
muove tra due territori, anzi tre. Quello della memoria personale di
giornalista di sinistra che per anni ha lavorato e ricoperto ruoli di
responsabilità nel giornale organo del Pci e poi del Pds, «l'Unità».
Quello storico-politico in senso stretto, con particolare attenzione
alle vicende che hanno caratterizzato la sinistra post comunista nella
Seconda Repubblica. E quello teorico, nel senso del giudizio che viene
dato sulla storia complessiva della sinistra italiana.
Sul piano
teorico, la sinistra descritta da Sansonetti, quella attuale, è un
oggetto misterioso: avrebbe la possibilità di sfondare e non lo fa. Ha
predicato per decenni la fine del capitalismo, una società diversa da
quella retta dai meccanismi del mercato. E ora che il capitalismo e il
mercato boccheggiano in una crisi radicale, ora che mostra la corda
anche il «liberismo», una creatura che in Sansonetti e in tanti altri
detrattori si trasforma in una specie di mostro culturale e nel
responsabile di ogni nefandezza finanziaria, comprese quelle degli
Stati, la sinistra non si mostra desiderosa di assestare la spallata
finale. Anzi, diventa sempre più subalterna alle logiche «liberiste».
Ecco una ragione per cui, secondo Sansonetti, la sinistra italiana
d'oggi è irrimediabilmente di destra.
L'altro motivo per cui la
sinistra sarebbe abbastanza e troppo di destra risiede nella sua storia
degli ultimi vent'anni, e precisamente nella seconda metà degli anni
Novanta, quando accede al governo dell'Italia nel pieno della Seconda
Repubblica. Secondo Sansonetti la sinistra al governo fa tre cose
terribili per una sinistra al governo. La prima: fa la guerra del
Kosovo, venendo meno alla sua anima pacifista e ignorando l'articolo 11
della nostra Costituzione. La seconda: fa una politica sul mercato del
lavoro subalterna alle logiche del mercato e con alcune leggi sulla
«flessibilità» spalanca la porta del precariato, del lavoro incerto,
della disponibilità «padronale» sui giovani alla ricerca di
un'occupazione. La terza: avvia una politica sull'immigrazione di tipo
difensivo, instaurando una distinzione tra «clandestino» e «regolare» a
suo avviso foriera di sviluppi negativi, fino alla promulgazione della
legge detta Bossi-Fini. Solo che, obietta Piero Sansonetti, sia Bossi
che Fini sono organicamente, geneticamente, culturalmente di destra,
mentre la sinistra non dovrebbe essere di destra. Ma essendosi
comportata come la destra, dunque non sarebbe così arbitrario ed
esagerato tornare al titolo del libro: La sinistra è di destra.
Poi
c'è il piano più personale e più autobiografico. Si presenta sul
palcoscenico di Sansonetti tutta la galleria dei politici del Pci e dei
partiti che con la fine del Pci hanno raccolto la sua eredità. Sono i
dirigenti di partito che appartengono a generazioni diverse, dai
«vecchi» Gerardo Chiaromonte ed Emanuele Macaluso, fino alla generazione
dei D'Alema e dei Veltroni che dirigono «l'Unità» in anni diversi e
portano la loro impronta sul loro giornale, che è anche il giornale
organo del partito.
Il racconto di Sansonetti non è affatto neutro
e spassionato. Anzi. Prevalgono antipatie, idiosincrasie, affinità e
tensioni caratteriali. Quello di Walter Veltroni è il ritratto più
severo. Quello di Massimo D'Alema, sia pur bonariamente critico, è
quello più indulgente. Ma al di là dei dati personali, emerge dalla
narrazione di Sansonetti una continuità culturale tra il Pci da lui
conosciuto e le formazioni politiche che sono nate sulle ceneri del Pci,
che fa pronunciare all'autore una sentenza molto categoricamente
liquidatoria: la sinistra italiana è ancora succube di tic culturali di
tipo stalinista, che si traducono in censure, modelli autoritari,
tentazioni giustizialiste e in una complessiva incapacità di fare
seriamente e profondamente i conti con la storia del comunismo.
Una
critica molto radicale, che però mette in luce il limite maggiore delle
riflessioni di Sansonetti: quello di essere formulate in un ambito
culturale, politico ed esistenziale di tipo esclusivamente comunista o
postcomunista. Sansonetti potrebbe obiettare che quella è esattamente la
sinistra che lui ha conosciuto. È vero. Ma non tutta la sinistra è
riducibile alla sinistra che Sansonetti ha conosciuto.
Ci sono
pagine dedicate a Craxi e al trattamento feroce che l'opinione
influenzata dal Pci riservò al leader del riformismo socialista. Ma è
solo uno spicchio di attenzione verso una sinistra cresciuta in una
dimensione storica decisamente polemica nei confronti del comunismo e
che non avrebbe esitato nemmeno a definirsi francamente anticomunista. È
un tassello importante nel mosaico della sinistra, tra l'altro bollato
dalla sinistra di marca Pci come una sinistra «di destra». Ritorna
questa definizione nel libro di Sansonetti, stavolta a parti rovesciate.
Un destino. E un paradosso, per una sinistra che non riesce ad essere
di sinistra.
Corriere 23.1.13
Mozart perché? Un breviario per scoprire il genio delle note
di Giuseppina Manin
Perché
Mozart è tanto famoso? La domanda 111, l'ultima di un volumetto che
tante ne pone e a tante cerca di dar risposta, scocca all'ultima pagina
di Piacere, Mozart!, breviario di curiosità sul genio dei geni della
musica, messo a punto dall'Edt in collaborazione con il Mozarteum di
Salisburgo (pp. 208, 14,50).
Perché, dunque, Amadeus è così noto?
Perché, al di là dell'ovvia fama musicale, quel ragazzino imparruccato,
quel giovane uomo dallo sguardo ora beffardo ora melanconico a seconda
dei ritratti, resta ancora oggi l'oscuro oggetto di tanti interrogativi e
misteri? Sintetica e un po' laconica la risposta del libro: «Perché è
riuscito ad avere successo in stili e generi differenti e insieme a
creare uno stile proprio, per la sua immensa produttività, per esser
stato bambino prodigio ed esser morto giovane, a soli 35 anni».
Tutto
vero, ma non abbastanza. La risposta 111 non soddisfa. O meglio va
integrata con le 110 precedenti. Che, raggruppate per capitoli, cercano
di indagare sulla sua vita pubblica e privata, sul suo aspetto fisico e
sul suo carattere, sui suoi rapporti complessi con la famiglia,
conflittuali con l'autorità, disastrosi con il denaro, birichini con le
donne.
Una sfilza di interrogativi seri e semiseri, un puzzle di
informazioni autorevoli e scherzose per ricostruire un «proprio» Mozart
ideale: inquieto, ribelle, fragile, vitalissimo, giocoso. Divino. Tra le
domande più curiose, la numero 9: cosa faceva Amadeus da bambino?
Giocava con la musica, naturalmente. Jonas Schachtner, amico dei Mozart,
racconta che per quel bimbetto «qualsiasi attività diventava
interessante solo se accompagnata da sottofondo musicale». Ma Wolfy
amava anche tirar di scherma, era dotato per il disegno e le lingue
straniere. Era abile nel gioco delle carte ed esperto ballerino. Come
tale si esibì per la prima volta in pubblico a 5 anni in onore
dell'arcivescovo di Salisburgo von Schrattenbach, generoso datore di
lavoro di suo padre Leopold.
Meno lieti, per Amadeus, i rapporti
con il successore, von Colloredo. La domanda 41: perché volle andarsene
da Salisburgo? Mette in luce l'avversione profonda del compositore per
quel signore dispotico che lo assunse come Konzertmeister ma «lo
trattava come un servitore, facendolo pranzare in cucina». A sancire la
rottura il traumatico Arschtritt, il calcio nel sedere con cui il
conte-arcivescovo lo cacciò dal palazzo. Furioso Amadeus scrive al
padre: «Un fatto del genere significa che Salisburgo non fa più per me, a
meno che non mi si offra una buona occasione per restituire al signor
conte un calcio in culo, dovesse anche avvenire sulla pubblica via».
Quanto
alla tanto chiacchierata «rivalità» con Antonio Salieri, cardine del
celebre film di Milos Forman, la risposta alla domanda 52 è categorica:
«pura leggenda». Tra le prove addotte: Salieri ebbe a sua volta
grandissimo successo e Mozart scelse proprio lui come insegnante per suo
figlio Franz.
Sorprendente, infine, il capitolo «Mozart e le
donne»: le prime esperienze sessuali con la cuginetta Maria Anna, i
legami amorosi con le sorelle Weber, prima innamorato di Aloisia, poi di
Constanze, che sposò. Anche perché la futura suocera gli aveva fatto
firmare un patto con cui si impegnava, non avesse tenuto fede entro tre
anni, a pagare a Constanze una rendita di 900 fiorini annui. La portò
all'altare, la amò, ma non le fu fedele. Innumerevoli pare le sue
relazioni: allieve, cantanti, baronesse… «Le sue avventure con le
cameriere», le definiva ironica Constanze. Che d'altra parte non vi dava
troppo peso. «Era così amabile — scrive — che non era possibile restare
arrabbiati con lui. Gli si doveva di nuovo voler bene».
Corriere 23.1.13
Il classico
Esiste
ciò che non è scientificamente misurabile? La risposta affermativa di
Henri Bergson (foto) quando affrontò il tema Ipnosi e fantasmi (ora
pubblicato per la prima volta in italiano dalle Edizioni di Storia e
Letteratura, pp. 74, 9,50) provocò violente reazioni tra gli scienziati
di allora. Ma avrebbe avuto in seguito importanti sviluppi nella sua
filosofia. (pi.d.)
Repubblica 23.1.13
Il filosofo spagnolo studiò per anni l’eroe di Cervantes
Ora un libro raccoglie i suoi saggi mai tradotti
Siamo tutti Don Chisciotte
Unamuno e l’Hidalgo, il nostro viaggio verso la saggezza della follia
di Roberto Esposito
Quando,
il 12 ottobre 1936, alla cerimonia di apertura dell’anno accademico
dell’Università di Salamanca, un generale franchista pronuncia in
maniera sprezzante il motto della Legione Spagnola «Viva la morte»,
Miguel de Unamuno, rettore di quell’Università, gli risponde a muso duro
«Viva la vita». Così, dopo essersi opposto alla monarchia, e poi alla
dittatura di Primo de Rivera, pagando queste scelte con l’esilio, egli
rompe anche con il regime cui in un primo momento si era avvicinato. Ma
tale riferimento alla vita, al di là del significato politico che
assumeva in quel contesto, può essere assunto come l’epicentro semantico
dell’intera attività di uno dei più significativi intellettuali europei
del primo Novecento.
Narratore, drammaturgo, poeta, autore di
testi filosofici come Del sentimento tragico della vita e Agonia del
cristianesimo, egli è noto soprattutto per l’appassionato commento al
Don Chisciotte, considerato il suo capolavoro. Mancava, però, ancora un
volume che raccogliesse i suoi interventi, scritti lungo quasi un
quarantennio, sul grande libro di Cervantes che egli stesso considerava
come la Bibbia nazionale degli spagnoli.
Questo vuoto è ora
riempito dalla pubblicazione, egregiamente curata da Enrico Lodi per
l’editore Medusa, di una ampia scelta di suoi saggi e articoli con il
titolo In viaggio con Don Chisciotte.
Essa comprende un testo,
come quasi tutti gli altri, mai tradotto finora, Il cavaliere dalla
triste figura. Saggio iconologico — in cui l’autore confronta le
descrizioni di Don Chisciotte presenti nel romanzo con i ritratti che i
pittori gli hanno poi dedicato. Già in esso si profilano i tratti di
un’interpretazione magistrale, che oltrepassa i confini tradizionali
dell’ermeneutica, per configurarsi come un vero corpo a corpo con il
proprio oggetto d’analisi. Egli stesso sempre in lotta con se stesso,
diviso tra ricerca della concretezza ed aspirazione all’universale,
Unamuno proietta questa contraddizione sul Cavaliere Solitario,
facendone un simbolo vivente non solo dell’anima spagnola, ma anche
dell’uomo contemporaneo, sospeso tra angoscia e fede. Contro
l’accademismo erudito di quelli che chiama “masoreti” — come i rabbini
interpreti delle Sacre Scritture persi dietro minuziose ed inutili
ricerche filologiche — Unamuno cerca la perenne attualità del Chisciotte
nel contrasto che lo oppone a se stesso, sdoppiando la sua esistenza
tra la saggezza inerte di Alonso Quijano e la follia utopica del suo
stralunato alter ego.
Contrariamente ai buoni propositi del primo,
è proprio lo sguardo stravolto e allucinato del secondo a gettare un
inedito fascio di luce sulle cose, riscattandole dalla loro
insignificanza. Solo dimenticando la propria identità, sacrificata alla
più sublime delle follie, egli ritrova il significato profondo della
vita aldilà della linea del nulla che, prima o poi, è destinata ad
avvolgerci tutti. È perciò che la sua figura allampanata, i suoi baffi
spioventi, il suo naso aquilino, tutt’altro che emblemi luttuosi,
traducono una estrema energia vitale. Lo stesso culto della morte, che
si è voluto vedere nell’anima spagnola, piuttosto che attestare un
distacco nei confronti della vita, ne determina la continua ricarica.
Come appare dal sorriso tragico dell’hidalgo, quella malinconia non è
che la faccia in ombra di una ricerca di immortalità destinata ad esser
sempre delusa, ma perciò anche rinnovata. In questo senso Unamuno può
richiamare perfino l’idea, diversamente declinata da Spinoza e
Nietzsche, che la vita ha una inestinguibile tendenza a perseverare nel
proprio stato ed anzi a potenziarsi. Nonostante le sconfitte che
sperimenta, Chisciotte incarna questa potenza storica, capace di
restituire alla Spagna un primato spirituale che da secoli ha perduto.
Per cogliere il senso di tale affermazione, che Unamuno contrappone al
parere di chi ne sottolinea la decadenza culturale e civile, bisogna
attivare una doppia prospettiva, di tipo teoretico ed esegetico. Intanto
intendere per storia non la semplice successione dei fatti, situati in
maniera indifferenziata nello spazio e nel tempo, ma quegli eventi,
anche di ordine intellettuale, capaci di modificare le coscienze lungo
il filo delle generazioni. Qui Unamuno si rifà alla distinzione di
Kierkegaard tra semplice memoria e ricordo di qualcosa che resta nel
tempo. Si può avere memoria di un episodio senza ricordarne il
significato pregnante.
L’altro presupposto, attuale al punto di
richiamare una metodologia strutturalista, sta nel privilegio assoluto
del romanzo rispetto al suo autore. La tesi di Unamuno è che Don
Chisciotte sia molto più avanti di Cervantes. Che, una volta pubblicato,
la sua proprietà sia sfilata di mano all’autore, per appartenere al suo
popolo e all’umanità intera. Come la Bibbia, o l’Iliade, il Chisciotte
ha una vita autonoma che sta appunto nella durata dei suoi effetti
storici. Da questo lato Unamuno tocca un vertice della riflessione
contemporanea. La vera opera d’arte, come quella del pensiero, è sempre
impersonale, di nessuno perché di tutti. La genialità di Cervantes sta
nel dileguarsi dietro la propria opera, mandando il suo protagonista
avanti, nel tempo e nello spazio, fino a naufragare nell’oceano
dell’impossibile. Ma non avevano fatto naufragio, in questo senso, anche
i grandi condottieri spagnoli, da Cortes a Pizarro, quando, perdendo il
contatto con la propria terra, avevano scoperto nuovi mondi?
Repubblica 23.1.13
Se avessimo il coraggio di uscire dal gregge
di Miguel De Unamuno
Durante
la stagione in cui Cervantes stette sotto le ali spirituali della sua
patria, e fu da essa incubato, nella sua anima si formò Don Chisciotte,
ovvero il suo popolo creò in lui Don Chisciotte, e così questi venne al
mondo, abbandonò Cervantes al suo popolo, e Cervantes tornò a essere il
povero scrittore girovago, preda di tutte le preoccupazioni letterarie
del suo tempo. E così si spiegano molte cose e, tra le altre, la
debolezza del senso critico di Cervantes e la povertà dei suoi giudizi
letterari (...).
Tutto ciò che nel Chisciotte è critica letteraria
è quanto di più povero e grossolano possa darsi e tradisce una vera e
propria saturazione di senso comune.
Incredibile come un uomo così
assennato e pieno di luoghi comuni, e della più grande grossolanità
immaginabile, com’era Cervantes, abbia potuto generare un cavaliere così
folle e così colmo di senso proprio.
Cervantes non ebbe altra
scelta che consegnarci un folle per poter incarnare in lui l’eternità e
la grandezza del suo popolo. E il fatto è che molte volte, quando
l’intimo dell’intimo delle nostre viscere, quando l’umanità eterna che
dorme nel profondo del nostro seno spirituale ci affiora nell’anima
gridando i propri aneliti, allora o sembriamo pazzi o fingiamo di
esserlo affinché ci venga perdonato il nostro eroismo. Migliaia di volte
lo scrittore ricorre all’espediente di dire in tono scherzoso ciò che
sente molto seriamente, o mette in scena un pazzo per fargli dire o fare
quello che lui direbbe o farebbe molto volentieri e convinto, se solo
la miserevole condizione di gregge degli uomini non li portasse a voler
annullare chi esce dal recinto da cui vorrebbero uscire tutti, se solo
avessero il valore o il coraggio per farlo (...).
Vedete quindi
cosa c’è di geniale in Cervantes, e qual è la relazione intima che
intercorre tra lui e il suo Don Chisciotte. E tutto questo dovrebbe
spingerci ad abbandonare il cervantismo in favore del chisciottismo, e a
curarci più di Don Chisciotte che non di Cervantes. Dio non ci ha dato
Cervantes se non perché scrivesse il Chisciotte, e mi sembra che sarebbe
stato un vantaggio non conoscere nemmeno il nome dell’autore, essendo
il nostro libro un’opera anonima come lo sono il
Romancero e, lo
pensiamo in molti, l’Iliade. E dirò di più: scriverò un saggio in cui
sostengo che non sia esistito Cervantes e sì, invece, Don Chisciotte. E
visto che Cervantes non esiste più e che, al contrario, continua a
vivere Don Chisciotte, dovremmo tutti lasciare il morto per seguire il
vivo, abbandonare Cervantes e accompagnare Don Chisciotte.
(Traduzione di Enrico Lodi) © 2013 by Edizioni Medusa)
Repubblica 23.1.13
Il mercato comune delle divinità
In un convegno a Roma la storia degli “scambi” degli dèi
di Maurizio Bettini
Il
viaggiatore che nei primi secoli della nostra era si fosse recato nel
santuario di Augusta Treverorum, l’antica Treviri, avrebbe incontrato
una divinità dal nome curioso:
«Vertumnus sive Pisintus», Vertumno
ossia Pisinto. Chi era costui? Vertumnus era una divinità venerata nel
cuore più antico di Roma, un dio specialista nella metamorfosi. «La mia
natura si adatta a qualsiasi sembianza », gli faceva dire il poeta
Properzio, «mutami in ciò che vuoi, sarò elegante!» Ma che ci faceva un
dio così romano nell’odierno Land della Renania-Palatinato? E chi era
questo Pisintus che costituiva adesso l’altra faccia della sua identità?
Un dio gallico, con cui il romano Vertumnus era stato identificato per
significare la fusione fra popolazione locale e coloni romani, come ci
ha efficacemente spiegato John Scheid: quasi che oltre alla lingua e ai
costumi, le due popolazioni avessero miscelato fra loro anche le proprie
divinità.
Nell’antichità, infatti, il fenomeno di identificare o
far corrispondere fra loro un dio “nostro” e un dio “altrui” era
comunissimo. Questa costituisce anzi una delle maggiori differenze che
intercorrono fra le religioni classiche, che erano politeistiche, e
quelle monoteistiche. Nel mondo ebraico, cristiano o islamico non è
possibile identificare il proprio dio con quello degli altri. Il dio
altrui può solo essere o un falso dio o un demone — solo il “mio” dio è
quello vero. «Non avrai altro dio all’infuori di me», recitavano del
resto le tavole della legge, il dio dei monoteismi è un dio esclusivo.
Da qui le tante persecuzioni e guerre di religione che hanno
insanguinato non solo i paesi del Mediterraneo, ma anche terre assai più
lontane e innocenti. Ora, anche gli antichi si
uccidevano fra
loro, come sappiamo, però non per affermare che solo il “mio” dio è
quello giusto. Ciascuna popolazione era pronta a riconoscere l’esistenza
e la dignità degli dèi altrui, e anzi, era pronta a fare anche di più.
Di
questo si parlerà al convegno “Dieux des Grecs — Dieux des Romains.
Panthéons en dialogue à travers l’histoire et l’historiographie”,
organizzato da un gruppo di università ed enti di ricerca francesi,
belgi e italiani, all’Accademia Belgica, a Roma da domani.
In
primo luogo, dunque, Greci e Romani potevano importare divinità di altri
popoli, e dedicare loro culti importanti. Durante la seconda guerra
Punica, quando le cose andavano assai male per i Romani, i Libri
Sibillini consigliarono di far venire da Pessinunte, in Frigia, una
divinità chiamata la Madre degli dèi. Il misterioso simulacro era
costituito da una pietra nera, di forma conica, e fu installato in un
tempio sul Palatino. Il culto della Magna Mater, come i Romani la
chiamarono, era officiato alla maniera frigia da sacerdoti non solo
variopinti, ma anche evirati, i Galli: il cui comportamento sguaiato
doveva certo contrastare con i costumi tradizionali della città. A suo
tempo, però, anche ad Atene erano giunti dall’Asia minore divinità come
Bendis e Sabazio. Si trattava forse di un fenomeno diciamo recente,
quando ormai le città antiche stavano abbandonando la (presunta) purezza
delle origini? Niente affatto. Roma era ancora ai suoi inizi quando
aveva fatto proprie divinità greche come Apollo o Herakles, che i Romani
chiamarono Hercules.
Il fatto è che il mondo antico ha sempre
realizzato il “mercato comune” del divino, una pratica capace di
rafforzare i legami fra le popolazioni mettendo in relazione costumi e
linguaggi differenti. Anzi, piuttosto che a un mercato, metafora oggi
abusata, il rapporto che i politeisti avevano con le proprie divinità
potremmo paragonarlo a un “dialogo”. Gli dèi degli antichi dialogavano
fra loro non solo da una sponda all’altra del Mediterraneo, ma anche più
in là, nel cuore dell’Europa, in Britannia, in Asia. E come in ogni
dialogo, quando si vuole “capirsi” pur se si parlano lingue diverse, gli
dèi antichi potevano anche “tradursi” l’uno nell’altro.
Dunque il
dio cittadino, il Vertumnus celebrato da Properzio e Ovidio, dalle
parti di Treviri era stato “tradotto” nel locale Pisintus. Questa stessa
metafora, la “traduzione” degli dèi, potremmo però impiegarla anche per
descrivere casi assai più noti di identificazione fra divinità. Il
romano Giove non è forse una “traduzione” del greco Zeus, Giunone non lo
è forse di Hera, e così via? Certo, come sempre accade con la
traduzione, nel passaggio da una lingua all’altra qualcosa si perde e
qualcosa si aggiunge, per cui il risultato finale non potrà essere
uguale a quello di partenza. Giunone dunque non è affatto “la stessa
cosa” di Hera, ma ne costituisce la traduzione in un nuovo contesto
culturale: diverso era il modo di onorare la dea in Grecia e a Roma,
diverse ne erano le prerogative. Ciò non toglie però che alla sposa di
Zeus i poeti romani davano il nome di Giunone, mentre gli storici greci
non esitarono a chiamare Hera la divinità che i Romani onoravano
sull’Aventino.
Per comprendere ciò che ci separa dal mondo antico,
se non ciò che abbiamo perduto con la sua fine, è però sufficiente
evocare ancora una volta il nostro duplice dio di Treviri. Quando i
Romani giunsero in quelle terre per fondare la loro colonia, qualcuno,
di fronte a una divinità locale chiamata Pisintus, pensò semplicemente
di farla corrispondere a una delle sue, Vertumnus. Al contrario il
missionario cristiano, giunto nello stesso luogo, di fronte a Pisintus o
a Vertumnus che fosse, non avrebbe esitato a decretare la sua
appartenenza al novero degli «dèi falsi e bugiardi».
La Stampa Tuttoscienze 23.1.13
Nature
Gli occhi imparano a vedere già nel feto
Gli
occhi imparano a vedere già durante lo sviluppo del feto e
l’esposizione alla luce durante la gravidanza è cruciale per un sano
sviluppo dell’occhio: la scoperta, pubblicata su «Nature», si deve a un
gruppo di ricercatori americani del Cincinnati Children’s Hospital
Medical Center e del l’Università della California a San Francisco.
Secondo gli autori, la scoperta aiuta a comprendere meglio alcune
malattie dell’occhio e in particolare una malattia chiamata «retinopatia
del prematuro» che rende cechi i bambini nati prematuri. «Ora cambia
in modo fondamentale la nostra comprensione di come si sviluppa la
retina, ha osservato uno degli autori, Richard Lang, dell’Hospital
Medical Center. Abbiamo identificato un meccanismo di risposta alla
luce legato al numero dei neuroni che controllano la retina. Il
meccanismo incide sullo sviluppo della vascolarizzazione, vale a dire
dei vasi sanguigni che irrorano l’occhio, ed è importante perchè molti
disturbi dipendono proprio dalla vascolarizzazione». Per osservare gli
effetti della luce nel feto il team ha condotto una serie di test sui
topi: gli animali sono stati divisi in due gruppi e seguiti da inizio a
fine gestazione. Alcuni sono stati allevati al buio, altri in un
normale ciclo giorno-notte. Si è così notato che le particelle della
luce i fotoni attivano una proteina, la melanopsina, direttamente
nel feto, avviando il normale sviluppo dei vasi sanguigni degli occhi e
dei neuroni della retina: fondamentale è che i fotoni stessi entri nel
corpo del la madre negli ultimi mesi di gestazione.