mercoledì 23 gennaio 2013

l’Unità 23.1.12
Bersani: taglierò gli F35
Il leader Pd: ridurre il piano militare, la priorità è il lavoro
di Simone Collini

Rivedere le spese per gli F35, l’uscita di domani a Roma con Nichi Vendola e Bruno Tabacci e poi la prossima settimana il comizio a Firenze insieme a Matteo Renzi. Pier Luigi Bersani fa partire la fase due della sua campagna elettorale. E lo fa con un annuncio che al quartier generale del Pd spiegano essere frutto di un attento esame del bilancio della Difesa, ma che di fatto è un chiaro segnale all’elettorato di sinistra e a quanti (tanti) giudicano inopportune le alte spese per gli armamenti in una fase di crisi economica come questa.
«Bisogna assolutamente rivedere il nostro impegno per gli F35, la nostra priorità non sono i caccia, la nostra priorità è il lavoro», dice Bersani intervistato dal Tg2 della sera. Gli arancioni di Rivoluzione civile vanno all’attacco, parlando di «lacrime di coccodrillo da parte di chi ha sostenuto un governo amico delle lobby delle armi» (Antonio Di Pietro), della necessità di «non solo rivedere ma cancellare completamente il programma per gli F35» (Angelo Bonelli) e avanzando il sospetto che si tratti di un’affermazione dettata più che altro da ragioni elettorali.
In realtà chi ha parlato con Bersani nelle ore precedenti a quell’uscita spiega che dietro quelle parole c’è una comparazione tra il bilancio della Difesa (19,96 miliardi di euro, pari all’1,2% del Pil, nel 2012, con prospettiva di aumento a 20,93 miliardi per il 2013) e gli ultimi dati forniti dal ministero dell’Economia, del Lavoro, da Bankitalia e anche dall’Istat. Dati relativi al tasso di disoccupazione giovanile (ora al 29%, in aumento per il quarto anno consecutivo), famiglie in condizioni di povertà (8 milioni di individui), previsioni di calo del Pil per il 2013 (1% e non più come precedentemente calcolato 0,2%).
Ecco perché ieri Bersani ha fatto capire che con lui premier, in caso di vittoria, le spese per gli armamenti verranno limitate per poter consentire maggiori investimenti per le politiche del lavoro e misure per la crescita e lo sviluppo. E pazienza se dal fronte arancione partono all’attacco con l’accusa di propaganda: al Pd ricordano che venne presentata in Parlamento già il 28 marzo 2012 una mozione in cui si chiedeva di rivedere la spesa (il governo Monti ha diminuito il numero di veivoli da acquistare da 131 a 90) mentre Rosa Calipari risponde a Di Pietro che i gruppi del Pd non hanno mai votato a favore dell’acquisto degli F35. Uscire dal programma «Joint Strike Fighter» (questo il nome ufficiale), a cui l’Italia partecipa da un quindicennio, è impensabile visti anche gli investimenti che hanno fatto diverse aziende italiane, ma non lo è limitare ulteriormente il numero dei veivoli (ognuno costa circa 13 milioni), come hanno fatto diversi altri Paesi coinvolti nel progetto.
Bersani liquida con un’alzata di spalle le polemiche alimentate da destra (il presidente dell’Udc Rocco Buttiglione dice che una diminuzione della spesa militare serve e però vede in quest’uscita del leader Pd «sudditanza psicologica verso Vendola e l’ala più radicale della sinistra») e manca, convinto com’è che «c’è certamente un’offerta politica ampia e nuova, ma la novità più grande è il Pd». L’unico partito che non ha sul simbolo il nome del leader e l’unico in grado di vincere e chiudere il ventennio berlusconiano: «Chi arriva primo al voto degli italiani in tutta Italia governerà alla Camera e al Senato», ribadisce a uso e consumo di chi (come Pier Ferdinando Casini) dice che per guidare il prossimo governo Bersani dovrà vincere in entrambi i rami del Parlamento.
Gli ultimi sondaggi fanno comunque ben sperare, per il centrosinistra. Il Veneto sembra la sfida più difficile, mentre l’ultima indagine dell’Ipr Marketin dà la coalizione composta da Pd, Sel e Centro democratico in lieve vantaggio anche per il Senato in Lombardia, Campania e Sicilia. È proprio nelle regioni chiave per ottenere la maggioranza a Palazzo Madama che si concentrerà ora Bersani (che però oggi sarà ad Albano e Marino, in provincia di Roma). E come lui farà Renzi, che il primo febbraio sarà insieme al segretario Pd al teatro Obihall di Firenze, per poi andare a fare campagna elettorale anche in Lombardia e Veneto.
Anche dopo la presentazione delle liste elettorali, Bersani è convinto che il successo a febbraio non mancherà. L’esclusione di Nicola Cosentino dalle candidature Pdl non servirà, secondo il leader Pd, a gettare nuova luce sul partito di Berlusconi: «Se avessero applicato le nostre stesse regole, sarebbero saltate ben altre candidature nel Pdl. Il meccanismo di pulizia politica è la partecipazione, non si può decidere in una stanza. Noi ci siamo messi in gioco e il 90% dei nostri candidati viene dalle primarie. Credo che questa sia davvero la strada per ripulire la politica».

La Stampa 23.1.13
Per la prima volta Monti distensivo verso il Pd
di Marcello Sorgi

Per la prima volta da quando è cominciata la campagna elettorale, Mario Monti mostra un atteggiamento distensivo verso il Pd e polemizza con Berlusconi, che continua ad usare il pericolo comunista come argomento di propaganda. E’ come se il presidente del Consiglio cominci a mettere in conto la prospettiva, assai probabile, che centro e centrosinistra debbano tornare alleati dopo il voto, per costruire insieme il prossimo governo e una maggioranza anche al Senato, dove difficilmente Bersani la potrà ottenere con i soli voti del Pd.
Monti tiene il punto sulle difficoltà di collaborazione con Vendola: un freno, dal suo punto di vista, alle riforme che l’Italia non può ancora rinviare. Ma anche in questo caso senza più i toni pregiudiziali che gli avevano fatto escludere, con Casini, l’ipotesi di entrare in un governo di cui potesse far parte anche il leader di Sel. Una campagna elettorale, si sa, è fatta di continui alti e bassi, e quindi è possibile che il premier o i suoi alleati centristi tornino all’offensiva nei prossimi giorni. Ma al momento sembrano aver preso atto - come in altri termini, e con molte più cautele, ha fatto lo stesso Vendola nei giorni scorsi - che l’incontro tra i due schieramenti sarà in qualche modo obbligato ed è inutile continuare a darsele tutti i giorni, favorendo obiettivamente la crescita di Berlusconi.
Un aggiustamento del genere potrebbe essere legato anche agli ultimi sondaggi. Secondo i maggiori istituti di ricerca infatti la distanza tra centrosinistra e centrodestra rimane considerevole (da cinque-sei a otto-dieci punti a favore di Bersani), ma la tendenza del centrodestra è al rialzo (e il taglio degli “impresentabili”, malgrado le polemiche continuate ieri, con Cosentino, dovrebbe dare i suoi frutti al Nord, come ha sottolineato il leader della Lega Maroni). Mentre i trend di Monti e del Pd e dei suoi alleati sono stabili. In queste condizioni - a meno di errori clamorosi del Cavaliere o di imprevedibili colpi di scena che lo riguardino - il Pdl, a giudizio dei sondaggisti, può ancora rimontare, ma difficilmente provare a capovolgere il risultato, che dovrebbe vedere il Pd aggiudicarsi il premio di maggioranza alla Camera.
Resta aperta la partita del Senato, con Berlusconi in leggero vantaggio in Lombardia, il centrosinistra avanti in Lazio e Campania, e la Sicilia in equilibrio, ma con l’incognita, per Bersani, di una crescita del movimento di Ingroia che corre da solo. Anche per questo il tentativo di riavvicinare centro e centrosinistra rimane l’unica strada per evitare che la nuova legislatura si apra nel segno dell’instabilità.

La Stampa 23.1.13
Il premier: dal Pd nessun pericolo comunista
di Pao. Fes.

Replica a Berlusconi «Un peccato se la politica tradizionale tornasse a prevalere»

Un voto per Berlusconi, un altro per Prodi. Mario Monti «consegna» le sue scelte politiche, ma anche altro, a Barbara Palombelli a Radiodue. Nell’intervista parla di partiti, di crisi e prospettive. Ammette di aver avuto molta simpatia per Prodi «con cui ho lavorato molte bene a Bruxelles, ma il voto, come gli archivi va aperto dopo un certo periodo». Poi riafferma di non essere «massone, e non so neanche bene che sia la massoneria». Quindi torna a ribattere alle accuse di «favorire i poteri forti» e cita le sue battaglie da commissario europeo nel contrastare «abusi di poteri forti» come Microsoft, o General Electric. «Anche in quest’anno di governo - spiega il premier Monti - l’incrocio delle cariche societarie tra banche e assicurazioni che era l’ossatura dei salotti buoni della finanza italiana, lo abbiamo bloccato». Una stella al petto, insomma. Così come quello di aver avversato la crisi finanziaria. E ora? «Tutto dipenderà da cosa succederà alle elezioni», insiste Monti. «Ora - spiega a Radiodue - c’è una situazione di stabilità finanziaria, e si vede dall’andamento dello spread e dei tassi, che è tutto il contrario di un anno fa e questo è rassicurante», ma avverte il presidente del consiglio, «dopo una terapia intensa, e anche al di là, questo è un Paese che da quindici anni cresce meno della metà degli altri nell’eurozona». Un tema che spinge Monti a tornare sul nodo della riforme, a considerare un «peccato se la politica tradizionale tornasse a prevalere». Nelle osservazioni, poi, non manca l’assolo sull’ex premier Silvio Berlusconi e sui rapporti con l’ormai ex strana maggioranza e, i «due grandi poli». «Ma - sostiene Monti - ha torto Berlusconi a dire che c’è un pericolo comunista. Il Pd ha una storia gloriosa comunista dalla quale si è andato gradualmente affrancando, all’inizio non ha appoggiato la costruzione europea, ma dall’altra parte quella che doveva essere stata una rivoluzione liberale non è stata né rivoluzionaria né liberale».

La Stampa 23.1.13
Il premier e i “gloriosi comunisti”
di Cesare Martinetti

Difficile che sia nato da un suggerimento del guru americano David Axelrod, impossibile che si tratti di un riflesso istintivo. E allora da dove ha preso Mario Monti l’ispirazione per unire all’espressione «storia comunista» l’aggettivo «gloriosa» come avrebbe detto un incanutito reduce del Pci? Sono le imprevedibili mutazioni da campagna elettorale alle quali il professore pare essersi perfettamente adattato.
Certo è che il fatto è accaduto, ieri, a metà giornata, su Radiodue. Intervistato da Barbara Palombelli, il professor Monti ha attaccato Berlusconi, ormai il bersaglio principale della sua polemica. Il presidente del Consiglio ha rivendicato la sua coerenza: «Le idee che per anni ho espresso in articoli ed editoriali, negli ultimi anni le ho viste affermarsi sul piano europeo con l’economia sociale di mercato». In Italia non è avvenuto. La modernizzazione contro le tradizione storica è “forzata”, ma il professore afferma di «apprezzare gli sforzi che il Pd sta facendo da questo punto di vista».
Dall’altra parte, invece, quella che doveva essere «una rivoluzione liberale non è stata né una rivoluzione né liberale». Berlusconi ha torto «a dire che c’è un pericolo comunista». Ed eccoci al punto. «Il Pd – ha aggiunto il professore – ha una storia, e gloriosa, comunista dalla quale si è andato gradualmente affrancando…».
Chi avrebbe mai detto che Mario Monti, l’ex rettore della Bocconi, il temuto commissario europeo, custode del mercato unico, lo spietato censore delle multinazionali (Microsoft) e dei paesi (la Francia di Sarkozy) che attentavano alla libera concorrenza, avrebbe definito “gloriosa” una storia “comunista”? E poi, se davvero gloriosa è stata, che bisogno ci sarebbe di affrancarsene?
A ventitré anni dalla caduta del muro di Berlino, l’espressione non ricorre più nemmeno tra i reduci del pci. Era in voga nei primi anni 90, le mutazioni successive del Pci in Pds, poi in Ds, infine in Pd hanno sempre più scolorito quel riferimento, Veltroni fu il primo e il più sfacciato arrivando a dire di «non essere mai stato comunista». Era quella, semmai, la “gloriosa” – e camaleontica – storia del pci: essere riusciti ad annebbiare la vicinanza con Mosca, storica, continua, indebolita, ma mai davvero assopita nemmeno negli anni dello “strappo” berlingueriano. E far passare l’immagine – vera anch’essa, in realtà – di partito moderato, governante, pienamente democratico, “costituzionale” nella bizzarra e unica nel contesto occidentale storia italiana.
Epperò quell’aggettivo “gloriosa” che di sicuro non avrebbero usato oggi né D’Alema (troppo scaltro e consapevole di quella storia) né Bersani (troppo attento all’immagine di moderatissimo governatore dell’Emilia e di audace liberalizzatore del governo Prodi) sulla bocca di Mario Monti fa un certo effetto. Il guru americano David Axelrod, novello consulente di campagna del presidente del Consiglio, che come ci racconta Maurizio Molinari ha spinto i bianchi a votare per un presidente afroamericano, è riuscito nell’impresa di far dire a Mario Monti che la storia comunista del Pd è stata “gloriosa”? Forse. Ma non prendetela come una rivalutazione storica. È semplicemente il certificato di morte di uno spettro.

l’Unità 23.1.12
L’idea della storia congeniale al centrosinistra
di Giuseppe Cacciatore

NON È CERTO UN CASO CHE, NEL GIRO DI 48 ORE, DUE AUTOREVOLI QUOTIDIANI ITALIANI FACCIANO RIFERIMENTO ALLA STORIA e alla necessità di ripristinare la sua necessaria e insostituibile funzione di offrire un senso generale all’azione degli uomini.
Mario Pirani su la Repubblica del 21 gennaio ricorda i tempi in cui l’adesione ad una filosofia della storia non si riduceva soltanto a scelte di militanza ideologica, ma anche e soprattutto alla ricerca del senso generale che gli uomini immaginavano e costruivano per le proprie storie. È ben vero che la crisi geopolitica, e poi economico-finanziaria del continente, ha contribuito a rimescolare le carte in modo tale da prefigurare e realizzare il passaggio, dice ancora Pirani, dalla filosofia della storia al teatro dell’arte (con particolare riferimento, ovviamente, alla tragicomica situazione italiana), ma è anche vero che una buona parte del copione della messa in scena è solo e tipicamente nostrano. Così il passaggio dalla storia alla rappresentazione teatrale invade tutti gli anfratti della politica come dell’economia, della società come della cultura, e si tratta di una rappresentazione della quale, secondo la buona tradizione della commedia all’italiana, non si conosce l’esito e neanche il copione. Di tutt’altro tono è invece l’intervento di Massimo Adinolfi su l’Unità del 20 gennaio. Egli è filosofo di professione, ma appartiene a quel genere di ragionatori che va al cuore del problema, evitando circonlocuzioni barocche e filosofemi evanescenti e incomprensibili, e si chiede se non sia il caso di ripensare alla storia nel suo senso forte, non più solo di rivisitazione degli eventi passati, e neanche di improvvisata ed inefficace riparazione di questo o quell’intoppo, di questo o quel problema particolare. Senza aver paura di usare le parole per quel che oggettivamente vogliono indicare, la storia alla quale è necessario rivolgersi è proprio quella della storia intesa secondo il suo concetto generale di trasformazione radicale della realtà. Chi allora e sono fortunatamente in tanti ha guardato e guarda con simpatia al progetto politico e culturale di rinnovamento della società e della politica italiana proposto dal centrosinistra, è motivato dal convincimento (riecco la filosofia della storia nel suo senso buono e non ideologico) che si possa aprire un nuovo ciclo storico, basato sulla ricostruzione del senso civico, sulla riduzione delle diseguaglianze, sul ripristino delle regole della legalità e dell’etica, sulla crescita economica e sul più ampio benessere per tutti.
Questa è la storia come dice giustamente Adinolfi che non è il farsi di un’astratta morale giacobina, ma il realizzarsi della razionalità umana nelle opere e nelle istituzioni. È sotto questa idea di storia che deve essere rubricato il progetto politico e ideale del centrosinistra. Se esso dovesse fallire non è certo perché abbia voluto rilanciare la «grande» storia della trasformazione e del miglioramento, o perché creda ancora che esistano una destra e una sinistra, ma perché e non ce l’auguriamo avrebbero prevalso le «piccole» storie di chi ha immaginato se stesso (il professor Monti) come l’ombelico della politica italiana e come mero strumento d’ostruzionismo alla vittoria del centrosinistra o di chi (il dottor Ingroia), ripercorrendo le fatali sviste dei tanti estremismi da malattia infantile, sta fornendo a Berlusconi l’arma dell’interdizione al Senato e creando le premesse per una difficile, se non impossibile, governabilità.
Bisogna allora difendere la storia, la grande storia come apertura infinita alle possibilità del mondo, tanto meglio se queste possibilità si tingono di nuovo e di migliore. Perciò la storia non è fatta soltanto, come diceva in un suo libro Claudio Magris, di ciò che è successo, e certo ancora meno delle alternative chimeriche e assurde, ma è fatta innanzitutto delle potenzialità che stanno, più o meno visibili, in una determinata situazione, di ciò che era o è possibile.

Corriere 23.1.13
L’economia del Prozac
di giovanni Sartori

Fino all'Ottocento l'economia era soprattutto agricola. C'erano anche l'artigianato (le botteghe) e i commerci; ma prima di tutto, tutti dovevano mangiare. Poi arrivò, all'inizio dell'Ottocento, la prima rivoluzione industriale con l'invenzione del telaio meccanico, e per esso delle fabbriche tessili. La seconda rivoluzione industriale fu quella della catena di montaggio delle automobili di Henry Ford, del quale si ricorda il detto: comprate l'automobile del colore che volete purché sia nero. Ma già negli anni Sessanta si profetizzò l'avvento della «società dei servizi» che può essere considerata anch'essa una rivoluzione industriale perché fondata sull'avvento dei computer. Difatti il paesaggio esibì sempre meno fabbriche e sempre più uffici. Il guaio della società dei servizi è che si è gonfiata oltremisura, e che è diventata parassitaria nella misura in cui assorbe la crescita della disoccupazione. Nel contempo abbiamo incautamente sposato una dottrina sprovveduta della globalizzazione, che avrebbe inevitabilmente spostato grosse fette delle merci prodotte in Occidente in Paesi a basso, molto più basso, costo di lavoro.
Ma ecco la novità: è in arrivo una quarta rivoluzione industriale che sembra ancora più radicale di tutte quelle che l'hanno preceduta. Non ha ancora un nome ufficiale, ma io la chiamerò «rivoluzione digitale». In questo contesto un prodotto viene disegnato su un computer e poi stampato su una stampante 3D che a sua volta produce un conforme oggetto solido fondendo assieme successivi strati di materiali. Non chiedetemi di più. Sono troppo vecchio per capirlo, e poi a me interessa che fine farà, in questo radioso futuro, l'occupazione o meglio la disoccupazione.
È vero che, in condizioni normali, l'economia «tira» di più se siamo ottimisti. Questo principio è stato consacrato negli Stati Uniti dalla formula della consumer confidence, la fiducia del consumatore, e del positive thinking, del pensare positivo. Ma la severissima recessione di gran parte dei Paesi benestanti oramai incrina questa fiducia nella fiducia. Un libro molto letto, oggi, nelle università americane, è Prozac Leadership di David Collinson: un titolo che dice tutto, e cioè che il crac è figlio di una cultura che «premiando l'ottimismo ha indebolito la capacità di pensare criticamente, ha anestetizzato la sensibilità al pericolo». Come si sa, il Prozac è la pillola della felicità; e dunque il testo di Collinson si potrebbe anche intitolare «l'economia del Prozac». E un indiano rincara la dose: «Se non vedi le cose negative del mondo che ti circonda vivi in un paradiso per idioti» (Jaggi Vasudev).
Bankitalia ha testé peggiorato le stime sul Pil (Prodotto interno lordo) che nel 2013 scenderà dell'1% e altrettanto scenderà l'occupazione. Che in verità scenderà di più, perché le statistiche non contano gli scoraggiati, chi non fa nemmeno domanda di lavoro. E il livello della nostra disoccupazione giovanile è davvero intollerabile.
Le imminenti elezioni non ci illumineranno su niente di tutto questo. Ma urge lo stesso occuparsene. Da noi vige ancora la corsa per fabbricare «tutti dottori». Ma il grosso dei dottori che produciamo e che andremo a produrre saranno inutili. O anche peggio, perché abbiamo troppe università scadenti, di paternità clientelare, che andrebbero chiuse. Alle nuove generazioni occorrono istituti tecnici e scuole di specializzazione collegati alla «economia verde», al ritorno alla terra, e anche alla piccola economia delle piccole cose. Altrimenti saremo sempre più disoccupati.

Repubblica 23.1.13
I 19 reintegrati raccontano i disagi che stanno vivendo. Il Lingotto: sono dipendenti in addestramento, tutto regolare
“Ci hanno rinchiusi dentro un recinto 8 ore in piedi e neanche una sigaretta”
di Stella Cervasio

POMIGLIANO D’ARCO — Reintegrati, ma messi “in formazione” da due settimane, con una fascia verde al polso. I 19 operai della Fip, ex Fiat di Pomigliano d’Arco prima collocati in mobilità poi riassorbiti per la sentenza del giudice che li ha riconosciuti “discriminati” come iscritti Fiom, sarebbero «trattati come gli ebrei sotto il nazismo». L’ha detto Maurizio Landini in un intervento agli attivi dell’Emilia Romagna. «L’azienda — denuncia il segretario — gli ha messo un braccialetto con scritto “operai in formazione”. Uno può anche ridere — ha aggiunto, di fronte alla reazione divertita del pubblico — ma a me questo ricorda le cose che facevano contro gli ebrei».
Per l’azienda, invece, il contrassegno fa parte di una procedura standard: «Non solo i 19 Fiom — informano fonti aziendali Fiat — ma tutte le oltre 2000 persone assunte dalla Fabbrica Italia Pomigliano utilizzano o hanno utilizzato una fascia per segnalare che si tratta di dipendenti che stanno completando un percorso di addestramento. «Fosse solo quello — dice Sebastiano D’Onofrio — ci hanno messo in un recinto chiamato
“pilotino” in piedi otto ore al giorno, con due sole pause di dieci minuti alle 10.30 e alle 12.30 senza neanche il tempo di fumare una sigaretta e con un vigilante che non ci perde mai d’occhio e ci gira intorno tutto il tempo».
La cosa peggiore per i 19 ex delegati Fiom è l’incertezza del futuro: «Abbiamo oltre vent’anni di esperienza, non abbiamo le idee chiare sulla formazione a cui ci stanno sottoponendo — osserva D’Onofrio — il corso durerà 24 giorni, siamo al diciottesimo e ancora non conosciamo il futuro quale sarà». Sulla fascia al polso l’azienda specifica che per imparare il montaggio della nuova Maserati Quattroporte nella fabbrica di Grugliasco (Torino) gli operai portano sulla tuta una targhetta. Ma i dipendenti riammessi si considerano in una singolare quarantena: «Ci sentiamo messi sulla graticola. Volevano toglierci anche il cellulare ma ci siamo opposti — dice Maurizio Rea — l’ho sempre tenuto spento, ma devo poter controllare se c’è un’emergenza in famiglia. Un mio collega aveva le mani in tasca, nel reparto si congelava (appena l’abbiamo fatto notare i riscaldamenti sono stati accesi al massimo, ora nel nostro bunker fa fin troppo caldo) ed è stato rimproverato severamente».
Una polemica che si accende proprio nel giorno del rigetto da parte del Tribunale di Roma del ricorso Fiom contro la mobilità di 19 lavoratori annunciata con il reintegro dei 19 vincitori del primo ricorso anti-discriminazione. Il giudice ha respinto la nuova denuncia Fiom.

Corriere 23.1.13
Il Guardian
«Ecco l'impero immobiliare del Vaticano»
di G. G. V.

CITTÀ DEL VATICANO — «Come il Vaticano ha costruito un impero segreto di proprietà immobiliari usando i milioni di Mussolini». Così il quotidiano The Guardian titolava ieri un'inchiesta sugli immobili della Santa Sede a Londra — tipo il locale che ospita Bulgari a Bond Street —, patrimonio sconosciuto e fondato sul «gruzzolo di Mussolini» che il Duce, si legge, avrebbe consegnato «in cambio del riconoscimento papale al regime fascista nel '29». Da Oltretevere replica padre Lombardi: «Sono esterrefatto, sembra che vengano da un asteroide, si parla dei Patti Lateranensi e di cose note da ottant'anni...». L'articolo parla di «segretezza delle origini fasciste» del patrimonio. Ma quei soldi, in realtà, non sono segreti né del Duce né il prezzo del «riconoscimento» del fascismo: se ne parla nella «Convenzione finanziaria» dei Patti Lateranensi, dove «l'Italia si obbliga a versare» un miliardo e 750 milioni di lire. Si chiude la «Questione romana» e la Santa Sede, nel '29, riceve la somma come «indennizzo» dopo l'annessione di Roma all'Italia. Così Pio XI chiamò il banchiere Bernardino Nogara e gli affidò l'«Amministrazione speciale» dei fondi. Titoli, azioni, oro, immobili. Il Guardian calcola che il patrimonio immobiliare (da una società «offshore» del 1931) arrivi oggi a 650 milioni di euro e faccia capo a una società inglese controllata da una svizzera a New York. La Santa Sede replica che la Sezione straordinaria dell'Apsa, che gestisce il patrimonio, «si trova pure sull'elenco telefonico».

il Fatto 23.1.13
Chiesa spa e il tesoro segreto regalo di Mussolini
650 milioni di euro investiti in banche e proprietà
di Caterina Soffici

Londra Nello stile del miglior giornalismo investigativo britannico, il Guardian di ieri ha scodellato uno scoop coi fiocchi. Con i soldi ricevuti da Mussolini, pare in cambio della firma dei Patti Lateranensi nel 1929, il Vaticano ha costruito un enorme patrimonio segreto offshore e possiede un impero immobiliare in Svizzera, Francia e a Londra.
I tre cronisti sulle tracce dell’oro vaticano del Duce, hanno scoperto per esempio che l’edificio di Bond Street dove c’è la gioielleria di Bulgari, appartiene alla Santa Sede. E anche la sede della banca di investimenti Altium Capital, all’angolo tra St. James Square e Pall Mall (praticamente dalle finestre si vede Buckingham Palace). Edifici in uno dei distretti più cari ed esclusivi della capitale britannica.
Quello che stupisce gli inglesi è la segretezza delle operazioni che hanno portato all’acquisizione di un immenso patrimonio (secondo le stime del Consiglio d’Europa si tratta di 650 milioni di euro) ma soprattutto come è stato possibile mantenere il segreto per così tanti anni. Non sono molto abituati a trattare di cose vaticane, evidentemente. E non hanno letto il libro di Gianluigi Nuzzi (Vaticano Spa), forse. Sennò si stupirebbero meno. Ma sono super reporter investigativi e hanno fatto una vera caccia al tesoro, per scoprire quanto segue. I palazzi appartengono a una compagnia chiamata British Grolux Investments Ltd. La registrazione alla Camera di Commercio locale non permette però di risalire alla proprietà e non menziona il Vaticano.
I due prestanome sono due importanti banchieri cattolici, John Varlery (ex di Barclays) e Robin Herbert. Entrambi non hanno risposto alle domande inviate per lettera dai cronisti del Guardian su chi sia il vero intestatario della società. Il segretario è un contabile di Reading, John Jenkins: anche lui si è rifiutato di rispondere: “Non sono autorizzato dai miei clienti a fornire alcuna informazione”. Così i cronisti hanno fatto una ricerca negli archivi di Stato e hanno trovato il bandolo della matassa, che porta dritti agli anni Trenta e a una società di nome Profima, con sede a New York presso la banca d’affari JP Morgan e costituitasi in Svizzera. La Profima appartiene al Vaticano dai tempi di Mussolini e già durante la Seconda guerra mondiale i Servizi segreti inglesi la accusarono di “attività contro gli interessi degli Alleati”. E lì si risale all’origine di questi soldi: erano stati investiti da Bernardino Nogara, avvocato che agiva come finanziere del papa e che gestì investimenti pari a 50 milioni di sterline attuali (circa 65 milioni di euro) provenienti dalle casse del fascismo. Seguendo la scia di questi soldi si trovano transazioni poco chiare, fondi neri e conti segreti a Ginevra.
Insomma, i soldi di Mussolini furono “drammaticamente importanti” per le finanze vaticane. Il Guardian ha anche interpellato lo storico di Cambridge John Pollard, che dice: “In quel momento le finanze pontificie sono state messe al sicuro e non si sono più impoverite”.
Attualmente tutti gli asset sono controllati da Paolo Mennini, a capo di una speciale sezione del Vaticano chiamata Apsa, Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica. Il nunzio apostolico a Londra, l’arcivescovo Antonio Mennini, è stato interpellato sulla vicenda e anche sui motivi della segretezza degli investimenti londinesi. La risposta è stata un secco “no comment”. “Fedeli alla tradizione del silenzio”, chiosa il Guardian. Che con questa inchiesta ha fornito a Dan Brown (quello del Codice da Vinci) materiale per almeno altri due best-seller.

La Stampa 23.1.13
Quegli immobili pregiati del Vaticano a Londra
Il «Guardian» pubblica un articolo sulle proprietà in Gran Bretagna. Lombardi: «Cose note da ottant’anni»
di Andrea Tornielli
qui
http://vaticaninsider.lastampa.it/vaticano/dettaglio-articolo/articolo/vaticano-vatican-vaticano-21576/

Repubblica 23.1.13
“Vaticano, il tesoro segreto coi soldi del Duce”
Il Guardian: a Londra e Parigi un impero immobiliare grazie ai fondi del regime fascista
di Enrico Franceschini

LONDRA — A chi appartiene il locale che ospita la gioielleria Bulgari a Bond street, più esclusiva via dello shopping nella capitale britannica? E di chi è l’edificio della Altium Capital, una delle più ricche banche di investimenti di Londra, all’angolo super chic tra St. James Square e Pall Mall, la strada dei club per gentiluomini? La risposta alle due domande è la stessa: il proprietario è il Vaticano. Ma nessuno lo sa, o almeno non si sapeva finora, perché i due investimenti e centinaia di altri in Inghilterra, a Parigi, in Svizzera, fanno parte di un segretissimo impero immobiliare costruito nel corso del tempo dalla Santa Sede, attualmente nascosto dietro un’anonima società off-shore che rifiuta di identificare il vero possessore di un portfolio da 500 milioni di sterline, circa 650 milioni di euro.
E come è nata questa attività commerciale dello Stato della Chiesa? Con i soldi che Benito Mussolini diede in contanti al papato, in cambio del riconoscimento del suo regime fascista, nel 1929 con i Patti Lateranensi. A rivelare questa storia è il
Guardian.
Il quotidiano londinese ha messo tre reporter sulle tracce del tesoro immobiliare internazionale del Vaticano ed è rimasto sorpreso, nel corso dell’inchiesta, dallo sforzo fatto dalla Santa Sede per mantenere l’assoluta segretezza sui suoi legami con la British Grolux Investment Ltd, la società formalmente titolare del cospicuo investimento. Due autorevoli banchieri inglesi, entrambi cattolici, John Varley e Robin Herbert, hanno rifiutato di divulgare alcunché e di rispondere alle domande del giornale in merito al vero intestatario della società.
Ma il Guardian è riuscito a scoprirlo lo stesso attraverso ricerche negli archivi di Stato, da cui è emerso non solo il legame con il Vaticano ma anche una storia più torbida che affonda nel passato. La società offshore con sede a Londra è infatti controllata da un’altra società, la Profima, fondata in Svizzera e ora con sede presso la banca JP Morgan a New York. I documenti d’archivio rivelano che la Profima appartiene al Vaticano sin dalla seconda guerra mondiale, quando i servizi segreti britannici la accusarono di «attività contrarie agli interessi degli Alleati». In particolare le accuse erano rivolte al finanziere del papa, Bernardino Nogara, l’uomo che aveva preso il controllo di un capitale di 65 milioni di euro (al valore attuale) che la Santa Sede ricevette in contanti da Mussolini nei primi anni Trenta come ricompensa per il riconoscimento dello Stato fascista. Il Guardian ha chiesto commenti sulle sue rivelazioni all’ufficio del Nunzio Apostolico a Londra, ma ha ottenuto soltanto un “no comment”. Ha invece parlato padre Federico Lombardi. «L’esistenza di investimenti immobiliari e mobiliari del Vaticano - ha detto il portavoce della Santa Sede - sono conosciuti da più di 80 anni. Nel servizio delGuardiannon è svelato nulla che non si sapesse».

La Stampa 23.1.13
Omini e neri il patto di Rosarno
di Giuseppe Salvaggiulo

La rivolta negli agrumeti di due anni fa e il ruolo della ’ndrangheta sono lo spunto per l’indagine del giudice Lenzi nel nuovo romanzo di Mimmo Gangemi L’immagine che pubblichiamo fa parte del reportage Frutti migranti del fotografo Giacomo Francesco Lombardi, un work in progress dedicato alla situazione degli immigrati sovente clandestini che lavorano in agricoltura in Italia Ingegnere, Mimmo Gangemi è nato a Santa Cristina d’Aspromonte, vive a Palmi, in provincia di Reggio Calabria
Che siano i neri negli agrumeti di Rosarno, la terra di nessuno tra malavita e istituzioni, le periodiche faide tra famiglie ’ndranghetiste, poco importa. Ogni ritorno in Calabria, fisico o letterario, disturba.
Non c’è lacerto italiano più inafferrabile, sfasciume meno orgogliosamente pendulo, realtà così inconoscibile se non con provvisoria angoscia. Non ci si abitua mai troppo all’inestricabile viluppo di buono e cattivo, bellezza e orrore, «ominità» e umanità speciali e irriducibili. Tutto appare, nulla è. E quando ti illudi di aver capito, rieccoti precipitato al punto di partenza. In questo accecante chiaroscuro si specchiano per la seconda volta lo scrittore Mimmo Gangemi e il «suo» sostituto procuratore Alberto Lenzi, giudice femminaro e meschino, indolente e intuitivo, in fondo perbene ma non privo di malizie e punte di cinismo. Protagonista del Patto del giudice (Garzanti, 266 pag. 17,60 euro)).
Nella terra sospesa tra Aspromonte e Tirreno dove Gangemi vive, riflette e scrive, il pubblico ministero Lenzi cerca un senso a vicende apparentemente sconnesse. I postumi della rivolta degli africani, che tre anni fa marciarono su Rosarno prima di esserne espulsi («Ma sono tornati, come e più di prima, il che dimostra che non era razzismo»), secernono un’indagine sfaccettata. Tutto parte da due domande che all’epoca tutti i testimoni si posero, increduli davanti alla caccia all’uomo nelle campagne: qual è il ruolo della ’ndrangheta? E se ci scappa il morto?
Alla prima domanda, Gangemi e Lenzi danno risposte univoche: le famiglie ’ndranghetiste non promossero la cacciata dei neri, ma di fronte alla devastazione della città scesero in campo in prima linea, né avrebbero potuto fare altrimenti, per riaffermare il controllo del territorio. E lo fecero in maniera plateale, per non perdere «onore».
Se è così, la seconda domanda diventa un formidabile spunto narrativo, pizzicato sulle corde del verosimile. Perché il morto, con centinaia di migranti in fuga, senza documenti né affetti a reclamarli, davvero sarebbe potuto scappare, e senza che nessuno se ne accorgesse.
Non basta. Lenzi deve vedersela anche con un losco affare di droga nel porto di Gioia Tauro, altro luogo misterico di questa terra: parziale risarcimento di un maestoso polo siderurgico promesso e mai realizzato, piattaforma logistica criminale protesa verso il mondo. E funzionari pubblici caduti in tentazione. E cosche che risvegliano una guerra sopita. La ’ndrangheta ai tempi di Rosarno.
Questa toga di provincia, così lontana dallo stereotipo televisivo dei pubblici vendicatori del vizio, è tutto meno che un «topo di biblioteca», come lo sono - o lo diventano - certi giudici quando marciscono sotto faldoni senza vita. E non si lascia suggestionare da certi teoremi giudiziari sulla ’ndrangheta, pure in voga e non senza appigli processuali, che l’autore non digerisce e contesta nel libro (ce ne sarebbe per fior di saggi).
Non mancano i morti ammazzati, ma la chiave della storia è la molteplice possibilità di decifrarli. Lenzi studia poco, ma cerca un filo nella complessità attraverso la deduzione e i rapporti personali. L’amico di nobile lignaggio, la collega incandescente, il capobastone incanutito dall’eloquio ellittico e rivelatore. C’erano già nel Giudice meschino di quattro anni fa, ma con sfumature diverse. Per quanto immobile, anche la Calabria evolve.
Al lettore forestiero, che necessita di un sovrappiù di coordinate per orientarsi, Gangemi aggiunge i paesani del circolo dei «galantuomini», che si ritrovano per giocare a carte, discettando di affari di soldi, sangue e corna, e l’eco dei clamorosi strappi di assegni a fine serata si diffonde nella piazza principale.
Gangemi e Lenzi vivono a Palmi, nobile decaduta della piana di Gioia Tauro. Non potrebbero essere, scrivere, indagare altrove. La parola è ricca, voluminosa, intrisa di terra. Non c’è indulgenza, rifugio nel bozzetto, ma nemmeno rifiuto, anatema, derisione. Non nello scrittore, non nel magistrato. Il pubblico ministero, forte e però prigioniero dell’azione penale, elabora una nozione, in parte autonoma e originale, di giustizia. E la persegue, anche se talvolta fa attrito con la Legge. Non si imbarazza a «trattare», a varcare il confine, a guardare in faccia il «nemico».
Lo scrittore conduce, orienta, sottolinea, avvolgendo sempre le vicende nei caratteri genetici permanenti, totalmente originali, del suo popolo, che delineano una «mentalità» omogenea alla ’ndrangheta, ben più pervasiva e corrosiva della associazione criminale in senso stretto. Anche questo, però, non basta, perché tale mentalità ha cento gradazioni, e si potrebbe ricominciare con la storia dell’onorata società, con un codice di comportamento a sua volta diverso, che si fa ’ndrangheta contemporanea, post moderna.
Nel frattempo negli agrumeti di Rosarno sono tornati i neri, le albe proiettano le ombre dei furgoncini dei caporali sulla statale per Gioia Tauro, l’agricoltura langue, la ’ndrangheta è tornata silenziosa ai suoi affari. Non c’è verità, in questa Calabria. Al più, sottili brandelli di giustizia.

La Stampa 23.1.13
Errori sanità: uno su 5 è denunciato in sala parto
La Commissione parlamentare: troppe strutture con pochi interventi l’anno
di Paolo Russo

Saremo anche tra i Paesi con il maggior numero di bambini che nascono sani e vegeti ma nelle sale parto d’Italia c’è qualcosa che non va. Almeno a leggere i dati della Relazione conclusiva della Commissione parlamentare d’inchiesta sugli errori sanitari perché in un caso su 5 si sbaglia proprio nel momento della nascita.
Sui 570 casi di presunta malasanità accertati dalla commissione dal 2009 al 2012 ben 104 si sono verificati durante il parto, con una metà dei casi concentrati in Calabria e Sicilia. Tra le cause delle «malenascite», spiega la relazione, ci sono le troppe strutture, soprattutto nel Mezzogiorno, dove si fanno pochissimi interventi l’anno. Così quando capita l’emergenza manca l’esperienza per affrontarla. E poi molti centri nascita non rispettano gli standard di sicurezza.
La terapia intensiva neo-natale è presente solo nel 15% dei casi, la doppia guardia medica durante le 24 ore è conosciuta solo dal 40% delle strutture e poche sono in grado di fronteggiare le gravidanze a rischio. E poi a far aumentare i pericoli per la donna e il bambino c’è il boom dei cesarei, concentrati soprattutto in Campania, nelle case di cura private e nei centri più piccoli.
Anche fuori delle sale parto le cose però non vanno molto meglio. La relazione presentata ieri dal Presidente della commissione, Antonio Palagiano (Idv), conta 400 morti di presunta malasanità, concentrati soprattutto nelle regioni in piano di rientro dai deficit sanitari, con errori concentrati soprattutto in Sicilia (117), Calabria (107) e Lazio (63). Dietro i casi di malasanità a volte il medico, come quello che in sala operatoria ha dimenticato la garza nella ferita, poi operata come massa tumorale. Ma più spesso la causa è nella disorganizzazione, che non fa partire un elicottero di soccorso quando dovrebbe, che fa proliferare le infezioni negli ospedali o che lascia ferme le ambulanze perché le barelle sono utilizzate come letti in astanteria per carenze di posti nei reparti di emergenza. Magari proprio in quegli ospedali dove in altri reparti i letti sono inutilizzati ma non si toccano per non far saltare il posto del primario.
E a proposito di primari, che dire di quelli nominati nei due policlinici di Napoli senza nemmeno un posto letto e quindi pazienti da accudire? Nel rapporto si suggerisce di verificare «la sussistenza di evidenti legami familiari nei ruoli ricoperti». Una parentopoli sanitaria frutto della politica delle nomine senza regole, che sempre qui ha consentito di conferire senza pubblico concorso 383 incarichi manageriali lautamente retribuiti. In tutto il Sud poi il rapporto medici per posto letto è doppio rispetto al Nord. Nel Lazio, in Sicilia, Calabria e Basilicata si arriva addirittura al paradosso di avere più camici bianchi che letti dove accudire pazienti. E dove si spende di più ci si cura anche peggio: lo dice il popolo dei migranti della salute, che con i viaggi della speranza verso il più efficiente nord finiscono per peggiorare la situazione in casa propria, visto che solo Campania e Sicilia spendono oltre mezzo miliardo l’anno di rimborsi. «Finendo – rimarca la relazione - per arricchire le regioni più ricche a discapito di quelle povere».

La Stampa 23.1.13
«Colpa dei cesarei Ma la mortalità è tra le più basse in Europa»
domande a Nicola Surico Pres. ginecologi
di Pa. Ru.

Saremo anche tra i Paesi con il maggior numero di bambini che nascono sani e vegeti ma nelle sale parto d’Italia c’è qualcosa che non va. Almeno a leggere i dati della Relazione conclusiva della Commissione parlamentare d’inchiesta sugli errori sanitari perché in un caso su 5 si sbaglia proprio nel momento della nascita.
Sui 570 casi di presunta malasanità accertati dalla commissione dal 2009 al 2012 ben 104 si sono verificati durante il parto, con una metà dei casi concentrati in Calabria e Sicilia. Tra le cause delle «malenascite», spiega la relazione, ci sono le troppe strutture, soprattutto nel Mezzogiorno, dove si fanno pochissimi interventi l’anno. Così quando capita l’emergenza manca l’esperienza per affrontarla. E poi molti centri nascita non rispettano gli standard di sicurezza.
La terapia intensiva neo-natale è presente solo nel 15% dei casi, la doppia guardia medica durante le 24 ore è conosciuta solo dal 40% delle strutture e poche sono in grado di fronteggiare le gravidanze a rischio. E poi a far aumentare i pericoli per la donna e il bambino c’è il boom dei cesarei, concentrati soprattutto in Campania, nelle case di cura private e nei centri più piccoli.
Anche fuori delle sale parto le cose però non vanno molto meglio. La relazione presentata ieri dal Presidente della commissione, Antonio Palagiano (Idv), conta 400 morti di presunta malasanità, concentrati soprattutto nelle regioni in piano di rientro dai deficit sanitari, con errori concentrati soprattutto in Sicilia (117), Calabria (107) e Lazio (63). Dietro i casi di malasanità a volte il medico, come quello che in sala operatoria ha dimenticato la garza nella ferita, poi operata come massa tumorale. Ma più spesso la causa è nella disorganizzazione, che non fa partire un elicottero di soccorso quando dovrebbe, che fa proliferare le infezioni negli ospedali o che lascia ferme le ambulanze perché le barelle sono utilizzate come letti in astanteria per carenze di posti nei reparti di emergenza. Magari proprio in quegli ospedali dove in altri reparti i letti sono inutilizzati ma non si toccano per non far saltare il posto del primario.
E a proposito di primari, che dire di quelli nominati nei due policlinici di Napoli senza nemmeno un posto letto e quindi pazienti da accudire? Nel rapporto si suggerisce di verificare «la sussistenza di evidenti legami familiari nei ruoli ricoperti». Una parentopoli sanitaria frutto della politica delle nomine senza regole, che sempre qui ha consentito di conferire senza pubblico concorso 383 incarichi manageriali lautamente retribuiti. In tutto il Sud poi il rapporto medici per posto letto è doppio rispetto al Nord. Nel Lazio, in Sicilia, Calabria e Basilicata si arriva addirittura al paradosso di avere più camici bianchi che letti dove accudire pazienti. E dove si spende di più ci si cura anche peggio: lo dice il popolo dei migranti della salute, che con i viaggi della speranza verso il più efficiente nord finiscono per peggiorare la situazione in casa propria, visto che solo Campania e Sicilia spendono oltre mezzo miliardo l’anno di rimborsi. «Finendo – rimarca la relazione - per arricchire le regioni più ricche a discapito di quelle povere».

La Stampa 23.1.13
Netanyahu crolla: “Coalizione ampia”
Likud-Beitenu prende solo 31 seggi, la nuova destra e i religiosi cruciali per la maggioranza di 61 voti
I laburisti si piazzano terzi dopo la sconfitta del 2009, Kadima sparisce dal Parlamento
di Aldo Baqis

Al termine di una giornata drammatica, Benjamin Netanyahu è riuscito a strappare una vittoria risicata alla guida della lista Likud-Beitenu. Ma il vero vincitore delle elezioni legislative israeliane risulta essere Yair Lapid, il leader dell’esordiente partito centrista Yesh Atid (C’è un futuro).
Secondo gli exit-poll di tre reti televisive, Netanyahu disporrà alla Knesset di appena 31 seggi su 120. Per lui costruire una maggioranza stabile di almeno 61 deputati sarà un vero incubo, vista la grande frammentazione del Parlamento. «È chiaro che gli israeliani hanno voluto me come premier, con un governo di coalizione che sia la più ampia possibile», ha commentato i risultati degli exit poll.
A scombinare le carte è stata l’alta percentuale di voto, la più elevata degli ultimi 15 anni. In questa partecipazione di massa alcuni analisti vedono già l’onda lunga delle proteste degli «indignati» che si sono riversati nelle strade di Israele nell’estate del 2011, invocando maggiore giustizia sociale. Il partito laburista, che ha incluso fra i candidati esponenti di quella protesta, è balzato da 8 seggi nella Knesset precedente, eletta nel 2009, a 17 deputati.
Lo stesso Lapid (che negli exit poll riceve 19 seggi) incarna il desiderio di cambiamento della classe media: in particolare la richiesta che gli strati religiosi ortodossi diano un maggiore contributo alla Nazione: sia nel servizio militare, sia nell’ingresso nel mondo del lavoro. Hanno avuto peso anche le rivendicazioni sociali, dal problema della carenza di abitazioni alla scuola.
Nelle ultime ore di voto, il Likud si è visto costretto ad indire una riunione di emergenza nel timore che i partiti di centro sinistra riuscissero ad aggiudicarsi 61 seggi alla Knesset. «Sono state ore drammatiche», ha affermato la leader laburista Shelly Yachimovic. «Lasciate tutto, andate a votare, il Likud sta per perdere il governo», ha scritto Netanyahu sulla propria pagina Facebook.
Con l’inizio dello spoglio delle urne, Netanyahu sembrava tecnicamente ancora in grado di comporre un nuovo governo, con il possibile appoggio di Lapid. Se così fosse, molte previsioni della vigilia dovrebbero essere riviste: invece che spostarsi più a destra, l’asse politico del nuovo governo potrebbe essere maggiormente centrista e maggiormente laico. Una sorpresa generale: in primo luogo per lo stesso Netanyahu che - alleandosi con Israel Beitenu di Avigdor Lieberman alcuni mesi fa - sperava di conquistare almeno un terzo della Knesset e che adesso si trova invece costretto a mendicare aiuti anche a formazioni minori. Incalzato da Bait Yehudi, la nuova destra di Naftali Bennett che vince 12 seggi.
Kadima, il partito centrista che aveva vinto le elezioni precedenti con 28 seggi, non entra nemmeno in Parlamento. La sua fondatrice, Tzipi Livni, con la sua nuova lista NaTnua guadagna 7 seggi. Restano praticamente immutati il partito religioso Shas (11 seggi), i comunisti di Hadash (3) e la lista araba Balad (2).

l’Unità 23.1.12
Israele, stop al Likud: vittoria minima
La sorpresa del voto è il buon risultato del partito centrista Yesh Atid
Al centrosinistra andrebbero 58-59 deputati
La Casa Bianca: ora negoziati con i palestinesi
di Umberto De Giovannangeli

Voleva essere incoronato «re d’Israele». Ma lo scettro è caduto. Se c’è uno sconfitto nelle elezioni israeliane questo è Benjamin Netanyahu che sognava il trionfo. Israele ha bocciato il «patto di ferro» tra l’attuale primo ministro e il leader di Yisrael Beitenu, l’attuale titolare degli Esteri, Avigdor Lieberman. I primi exit polls, forniti dai canali televisivi israeliani e dai siti dei maggiori quotidiani subito dopo la chiusura dei seggi (le 22:00 in Israele, le 21:00 in Italia) assegnano alla lista Likud-Beitenu 31 seggi, undici in meno della precedente Knesset. Il campanello d’allarme, nel quartier generale del Likud era scatto alle 18:00, a quattro ore dalla chiusura dei seggi. Nelle aree di tradizionale insediamento elettorale del partito del premier giungevano notizie inquietanti: la percentuale dei votanti era tra le più basse del Paese. Dato ancor più significativo a fronte di una percentuale dei votanti che, a un’ora dalla chiusura dei seggi, registrava il 63,7%,(3,6 milioni) 4 punti in più del 2009. E a far alzare la percentuale dei votanti è stato l’incremento nelle città arabe israeliane, come Nazarateh (44%, dato mai registrato).
A casa sembrano essere restati proprio gli elettori di «Bibi». Basta e avanza per far sì che un sempre più cupo Netanyahu lanciasse un appello in rete: «Il governo a guida Likud è in pericolo, andate a votare per il bene del Paese». Lo stesso S.O.S. viene inviato al sodale politico di «Bibi», il falco Lieberman. Ma fuori dall’ufficialità, i collaboratori dei due alleati cominciano già a scambiarsi i primi colpi bassi, rimpallandosi le responsabilità per il mancato successo. «Può un veterano agguerrito come Netanyahu essere in difficoltà in questa campagna elettorale dove la sua vittoria è già certa, dove è l’unico in lizza per guidare lo Stato?», si è chiesto recentemente Aluf Benn, prima firma di Haaretz. «Netanyahu non offre agli israeliani alcuna speranza di un futuro migliore, solamente lo stesso vecchio ritornello», ha aggiunto.
LUNGA NOTTE
Un ritornello che, stando ai primi rilevamenti, ha steccato. Una «stecca» tanto più sonora a fronte dell’altro dato politicamente più significativo e inaspettato: il buon risultato della nuova formazione centrista, Yesh Atid dell’ex giornalista tv, Yair Lapid. La notte elettorale è lunghissima, ma un dato appare evidente: la destra non ha sfondato. Likud-Beitenu si attesta, sempre secondo i primi exit, su 31 seggi. È il primo partito, ma Netanyahu non ha nulla da festeggiare. Perché al secondo e terzo posto si attestano due partiti dell’opposizione di centrosinistra: Yesh Atid (19 seggi) di Lapid e, altro risultato di grande rilevanza, terzo arriva il Partito laburista di Shelly Yachimoch (17 seggi). Al quarto posto si piazza Habayit Hayehudi, il Focolare ebraico, del nuovo «eroe» estremista, il «tecno colono» Naftali Bennett (12 seggi). Un buon risultato l’ottiene anche il Meretz, la sinistra laica e pacifista di Zahava Gat-On, con 7 seggi: «La sinistra non ha abdicato – dice la Gat-On a l’Unità – le nostre ragioni sono parte viva di un Paese che non si piega ai falchi». I tre partiti arabi otterrebbero complessivamente nove parlamentari.
Politicamente Israele è un Paese spaccato a metà: il variegato schieramento di destra – comprendente anche il partito dei coloni e quelli ultraortodossi, conquisterebbero 61-62 seggi (su 120); il centrosinistra raggiungerebbe i 58-59. Se lo spoglio definitivo confermerà i primi dati, Netanyahu potrebbe essere riconfermato premier per la terza volta, ma con un margine di manovra estremamente
limitato. Alla delusione che si respira al quartier generale del Likud, fa da contraltare il sollievo che prende corpo dopo i primi exit polls nel grande albergo sul lungomare di Tel Aviv dove i laburisti hanno insediato il loro quartier generale. «Il partito è vivo, Israele non si è gettato a destra, la partita del governo è tutta da giocare», si lascia andare Shelly Yachimovich, la combattiva leader laburista che aveva puntato tutto sulle questioni sociali. Quella del duo Netanyahu-Lieberman è una «vittoria» amara, che ha l’acre sapore del mezzo insuccesso. E a renderlo ancor più chiaro sono le prime dichiarazioni di Bennett: «Siamo cresciuti come nessun altro partito – dice l’ex ufficiale -. I nostri voti saranno decisivi per formare un governo che non ceda ai terroristi e a quelli di Hamas. Netanyahu dovrà convincerci». E non sarà una gita di piacere.

il Fatto 23.1.13
Stati Uniti “Chi vince negozi con i palestinesi”

A prescindere da chi risulterà il vincitore delle elezioni israeliane per gli Stati Uniti resta prioritaria la ricerca della pace, “con negoziati diretti con i palestinesi”. Lo ha chiarito il portavoce della Casa Bianca, Jay Carney a pochi minuti dalla chiusura dei seggi in Israele.
Infatti è proprio il rapporto zoppicante con gli Usa dell’appena rieletto presidente Barack Obama legato al processo di pace in stallo con i palestinesi e il programma nucleare dell’Iran i temi di politica internazionale che secondo molti analisti saranno i dossier più caldi e a cui si dovranno dare risposte immediate da parte del nuovo governo israeliano.

l’Unità 23.1.12
Sari Nusseibeh
È il rettore dell’università al Quds di Gerusalemme est
È tra i più autorevoli intellettuali palestinesi in Israele
«Pace impossibile se si rimuove il nodo palestinese»
di U.D.G.

«Comunque vadano queste elezioni, una cosa è certa. A uscire sconfitta è la speranza di rilanciare il processo di pace». Le elezioni israeliane viste da una «colomba» palestinese: Sari Nusseibeh, rettore dell’Università Al Quds di Gerusalemme Est, il più autorevole intellettuale palestinese. «In questa campagna elettorale dice Nusseibeh a l’Unità la questione palestinese è stata rimossa, praticamente cancellata. Una rimozione collettiva senza precedenti. E questo getta altre ombre inquietanti sul futuro».
Professor Nusseibeh, mentre parliamo Israele vota. Qual è la speranza di una “colomba” palestinese?
«Mai come stavolta devo confessare di non avere speranze. E non tanto perché con ogni probabilità riavremo Netanyahu primo ministro d’Israele. No, l’assenza di speranza viene dalla “Grande rimozione” che ha coinvolto, tranne alcune eccezioni, l’intero panorama politico israeliano che, a sua volta, riflette gli orientamenti maggioritari nella società israeliana».
La “Grande rimozione”. A cosa si riferisce, professor Nusseibeh?
«Al tema della pace, al rapporto con un popolo, quello palestinese, che sembra essere scomparso, cancellato, dall’orizzonte israeliano. Le destre non hanno fatto altro che rincorrersi a chi si dimostrava più intransigente: Netanyahu ha promesso solennemente che con lui primo ministro nessun insediamento verrà mai smantellato. Per non parlare poi della “novità” di queste elezioni, quel Naftali Bennet (il leader di Habayit Hayehudi, il Focolare ebraico, ndr) che ha dato una riverniciatura “tecno” all’ideologia più oltranzista della destra estrema. A questo sfoggio di muscolarità politica, ha fatto riscontro una sinistra che, con l’eccezione del Meretz e dei Partiti arabi, ha giocato di rimessa, pensando di poter riconquistare consensi penso al Partito laburista parlando di altro. Come se pace e questione sociale interna a Israele non avessero punti in comune. Mi lasci aggiungere che da questa campagna elettorale la speranza non è stata cancellata solo da questa parte, quella palestinese, del “Muro”. Anche tra gli israeliani mi sembra che a prevalere sia stato un sentimento opposto...».
Qual è questo sentimento?
«La paura. Quella di un Paese che sembra aver ormai interiorizzato la “sindrome dell’accerchiamento”. Quella di un Paese che si sente e si vive in trincea. È la paura del cambiamento. È la diffidenza verso l’altro da sé. La destra ha costruito la sua proposta politica
su questo sentimento. Lo ha usato e alimentato, vendendo un’illusione: che la sicurezza d’Israele possa fondarsi sempre e solo sulla forza militare e sulla perpetuazione dello status quo con i palestinesi e il mondo arabo circostante. Ma così non è. Perché di una cosa sono sempre più convinto: il diritto alla sicurezza e alla piena integrazione nel Medio Oriente d’Israele e il diritto dei palestinesi a uno Stato indipendente, sono le due facce di una stessa medaglia: quella di una pace giusta, duratura, tra pari». Eppure la maggioranza degli israeliani si dice ancora favorevole ad una soluzione a “due Stati”.
«Ma è un principio che non trova riscontro negli atti politici, nei comportamenti della leadership politica. E senza questo scatto, quel dirsi favorevoli ai due Stati, finisce per essere un’auto giustificazione morale: noi saremmo pure favorevoli, ma la colpa è dei palestinesi e de loro capi inaffidabili... A parlare di necessità di avviare un dialogo costruttivo con Abu Mazen è rimasto Shimon Peres. Una voce importante, certo, ma il presidente israeliano sembra predicare nel deserto. Vede, su ogni questione sul tappeto, su ogni contenzioso sono stati scritti centinaia di documenti, individuati punti di caduta sostenibili e praticabili. Ciò che manca è la volontà, il coraggio, la lungimiranza politica di attuarli».
Quella imboccata è dunque una strada senza uscita per i due popoli?
«La vita continua e per noi palestinesi ciò significa ripensare una strategia che faccia vivere, a livello internazionale come nei rapporti con l’opinione pubblica israeliana, il nostro diritto a esistere come Nazione. All’Onu abbiamo conquistato un risultato importante, ora si tratta di pensare a nuove forme di resistenza. Tra rassegnazione e militarizzazione esiste una terza via: quella della disobbedienza civile, della resistenza popolare non violenta».

il Fatto 23.1.13
Centrodestra in vantaggio ma Israele frena Netanyahu
Difficile per il premier uscente formare un nuovo governo
di Cosimo Caridi

Gerusalemme. Doveva essere una vittoria facile per Netanyahu, l’alleanza con Lieberman sembrava assicurare almeno 35 seggi sui 120 disponibili alla Knesset, ma i primi exit poll ne consegnano al Likud Beitenu solamente 31. Segue, con 18-19 seggi, Yesh Atid guidata da Yair Lapid, volto noto della tv d’informazione. I laburisti si fermano a 17 seggi, mentre Shas, il partito religioso della destra nazionalista, arriva a 12, lo stesso risultato raggiunto da Casa Ebraica, il partito che fa riferimento Naftali Bennet. Per Netanyahu - che ieri sera ha ringraziato gli elettori “per la rielezione” - c’è ancora la possibilità di creare un governo, ma solo mettendosi nelle mani dell’ultradestra religiosa.
LA GIORNATA DEL VOTO era invece stata priva di sorprese. Il primo ministro uscente si era recato alle urne di primo mattino, per andare subito al Muro del Pianto, nel cuore della città vecchia di Gerusalemme. Un gesto tanto semplice quando significativo, infatti Netanyahu è laico, ma la sua visita al luogo più sacro per il giudaismo sembrava sottolineare l’alleanza con i partiti religiosi.
Dal Muro del Pianto si arrampicano le stradine di pietra bianca del quartiere ebraico. Il silenzio è interrotto solo dai canti degli studenti delle Yashivah, le scuole rabbiniche. Qui vive una popolazione minoritaria, ma che negli ultimi anni ha fatto valere il proprio voto: sono gli ortodossi che hanno ripopolato l’area dopo il ’67. Per secoli gli israeliti sono vissuti in questi vicoli, poi nel ’48 scapparono a causa della guerra, l’area passò sotto il controllo giordano. Con la guerra dei sei giorni Israele occupò Gerusalemme Est, riprendendo possesso del quartiere ebraico, che, con grandi finanziamenti, arrivati in gran parte da Usa ed Europa, venne quasi interamente ricostruito e ripopolato. I tziziyot, cordini della tradizione ebraica, pendono ai fianchi di un gruppetto di adolescenti radunatisi davanti al seggio. Hanno in mano adesivi e santini elettorali dei maggiori partiti religiosi.
“IN ISRAELE – spiega Elia, svizzero, ma da 40 anni trapiantato a Gerusalemme - Lo Stato e la religione sono la stessa cosa. Noi siamo qui, su questa terra, perché fa parte della nostra storia, della nostra fede ”. Ed è sulla sicurezza e sul pericolo dell’esistenza stessa d’Israele che i partiti religiosi storicamente, come in quest’ultima campagna elettorale concentrano i loro slogan: “Siamo circondati da Paesi ostili – dice un 60enne ultraortodosso - ci sono almeno 100 milioni di arabi, attorno a noi, che vorrebbero ucciderci e cancellare Israele”. Gli fa eco sua moglie: “Netanyahu, non è perfetto, ma è il meglio che abbiamo. Ha già dimostrato di saper tenere testa ai nostri vicini”. Certo i cambiamenti nel Medioriente degli ultimi anni, dopo lo scoppio delle primavere arabe e con la Siria che ribolle, innescano la paura. Inoltre il muro costruito per chiudere la Cisgiordania non ha risolto la questione palestinese.
“L’UNICA soluzione possibile è il trasferimento della popolazione – afferma con un sorriso e un forte accento statunitense un imponente signore dalla folta barba bianca - anche se di questi tempi non è politicamente corretto parlarne”. Netanyahu dovrà fare delle concessioni ai religiosi che porterà con sé al governo e potrebbe essere proprio sulla risoluzione del conflitto. All’inizio del suo primo mandato Obama impose a Israele il congelamento delle colonie. Ma alla Knesset c’era una maggioranza diversa, meno ostaggio di coloni e ortodossi. Il nuovo governo potrebbe partire proprio da lì, concedendo la costruzione di nuove abitazioni a Gerusalemme Est, che la destra ha promesso al suo elettorato.

il Fatto 23.1.13
Perfide e influenti, le donne dietro le quinte della politica
di Roberta Zunini

C’erano molti nomi di donna nelle liste dei partiti all'opposizione così come in quelle del blocco di destra. Anche se uno dei più importanti non compare e non è mai comparso. Si tratta di Sarah Netanyahu, l'influente nonché invadente moglie del primo ministro. Nota alla platea internazionale per la sua tirchieria e per le denunce di maltrattamento da parte delle varie domestiche “extracomunitarie”, in patria è considerata un'impicciona, iraconda e vendicativa, in grado di orientare il marito nella scelta dell'entourage.
Ma spesso ha sbagliato o, meglio, ci ha visto giusto ma non ha saputo trarne le adeguate conseguenze. Come nel caso del quarantenne Naftali Bennet, l'astro nascente della politica israeliana, il vero vincitore di queste elezioni, che per anni ha fatto parte del cerchio magico di Netanyahu. La sua scaltrezza a un certo punto pare aver messo in allarme Sarah che ha iniziato a remargli contro. Alla fine Bennet se ne andò, entrando a far parte di “Casa ebraica”, il partito di cui, in pochissimo tempo, è diventato leader.
I suoi timori si sono in un certo senso avverati. Mentre Sarah cercava di allontanare il giovane imprenditore miliardario che insidiava il trono del più grande partito conservatore, una giornalista faceva il suo debutto in politica, diventando invece la leader del Labur, il più popolare partito di centro-sinistra (più centro che sinistra), attualmente all'opposizione. È Shelly Yachimovich che per le sue prime elezioni da segretario del partito - guidato dal 1969 al 1974 da Golda Meir - ha messo ai primi posti della sua lista molte donne. Due, ex giornaliste come lei, andranno di certo a sedere sugli scranni della Knesset. Si tratta della “non-sobria” Merav Michaeli, 47 anni, volto molto noto della tv e di Stav Shaffir, 26 anni, l'ambiziosissima blogger, che un anno e mezzo fa si mise alla testa della cosiddetta “protesta delle tende”, versione mediorientale di Occupy, per opporsi alle politiche liberiste del governo Netanyahu. Apparentemente emotive, in realtà fredde e determinate, queste donne hanno in comune ottimi studi e una visone non conformista del ruolo della donna. Quando il Fatto, all'inizio delle proteste intervistò Shaffir in un palazzo occupato di Tel Aviv, questa ragazza dai capelli rossi e dall'inglese perfetto disse che “Bibi aveva distrutto lo stato sociale, impoverito la vita dei giovani, oltre che quella dei palestinesi israeliani, trattati come cittadini di serie b”. La causa palestinese però non è stata al centro della loro campagna elettorale. Lo è stata, almeno in parte, per quella dell'ex ministro degli esteri Tzipi Livni che, dopo aver lasciato Kadima, due mesi fa ha fondato “Movimento” (Hatnuah). Mentre Michaeli è contraria al matrimonio “perché limita la vita delle donne”, Tzipi ha parlato soprattutto alle donne sposate, madri di famiglia, le più indecise, per fare appello al loro senso di responsabilità. Perché se non ci pensa una mamma al futuro del proprio figlio, chi deve pensarci? Ma non ha fatto centro.

La Stampa 23.1.13
Fra i coloni dei territori “Per noi nessuno è abbastanza falco”
In massa alle urne: dobbiamo difendere la nostra terra
di Francesca Paci

Negli insediamenti ebraici che indifferenti al diritto internazionale dominano le colline della Cisgiordania può capitare di rimanere al buio per problemi elettrici, può talvolta mancare l’acqua, possono tardare i rifornimenti alimentari e perfino i giornali: ma troverete sempre un seggio aperto il giorno del voto.
«Diversamente dall’illusione di uno Stato palestinese, la politica non è affatto morta, certamente non da queste parti» osserva Amir Josman, 26 anni, 2 figli, studente di pedagogia e volontario alla stazione elettorale di Itamar, la trentennale colonia arroccata su un’altura a 5 km da Nablus nota per il massacro del marzo 2011, quando due palestinesi del vicino villaggio di Awarta uccisero i coniugi
Amir è arrivato subito dopo, uno dei tantissimi simpatizzanti che hanno sposato la causa di Itamar raddoppiandone la popolazione, oggi oltre quota mille.

Tradizionalmente i coloni votano a destra, ma negli ultimi anni alcune scelte tattiche del Likud (dal ritiro di Sharon da Gaza a quello di Netanyahu da Hebron) hanno deluso gli irriducibili. Solo che loro, invece di astenersi alla maniera dei liberal delusi, si spostano ancora più a destra. Così qui, nella parte meridionale della Cisgiordania che loro chiamano Giudea e Samaria, hanno fatto breccia il Focolare Ebraico di Neftali Bennett e gli oltranzisti di Otzma Israel (una costola del rabbino fuorilegge Kahane).
«Bennett ha capito che tra le priorità d’Israele non c’è più la nascita di uno Stato palestinese e si è concentrato sulle disparità economiche e l’educazione» spiega Avi Ronzki, barbone bianco e occhi guizzanti, ex capo rabbino dell’esercito e ascoltatissimo guru di Itamar, dove nel primo pomeriggio avevano votato già quasi l’80% dei 450 elettori. Rivendica la paternità di Focolare Ebraico raccontando di quando otto mesi fa discusse del partito con Bennett e Ayelet Shaked proprio qui, tra i giardinetti popolati di mamme giovanissime con le gonne hippy, il fazzoletto in testa e decine di bambini. «Se Bennet si piazza bene potremmo puntare al ministero dell’educazione» ammette, e su un foglio di carta butta giù la coalizione ideale: Bibi, Focolare Ebraico e Lapid. Molto meglio l’outsider Lapid, balzato a sorpresa tra i favoritissimi, degli ultraortodossi haredim renitenti alla leva, perché, da queste parti, il servizio militare è sacro, «memlachti», un atto di fede nello Stato.
Lungo la strada 505 che attraversa uliveti e villaggi palestinesi non si vedono manifesti elettorali, gli unici sono agli incroci con le indicazioni per le colonie, Ale Zahv, Pedu’el, Tapuach, nomi biblici, evocazioni divine, mito della terra.
«Ho votato per la prima volta, sono emozionatissima» afferma la studentessa di psicologia Raia Melamed. Ha 18 anni, 15 fratelli, il sogno di mettere al mondo non meno di sei figli. I suoi genitori sono arrivati a Tapuach con la roulotte nei primi Anni 80, pionieri. Lei registra i nomi al seggio elettorale allestito nella biblioteca (un’affluenza vicina al 90%) e parla del Paese che vorrebbe: «Netanyahu non mi piace ma alla fine ho scelto il Likud perché ha in lista candidati che promettono di difendere la religione, i valori tradizionali, la terra dove vivo». Chissà se pensa a Moshe Feiglin, noto per la proposta di consentire i riti ebraici sulla spianata delle moschee. Il suo collega Zoher, 29 anni, lunghi peot che spuntano dalla kippah, dice di aver preferito Otzma Israel e sorride sottraendosi alla stretta di mano.
«Chi ha forti motivazioni ideologiche difficilmente diserta le urne, per questo nelle colonie l’affluenza è sempre stata consistente» ragiona l’analista dell’Israel Project Marcus Sheff. E per questo, lascia intendere, le elezioni 2013 potrebbero a sorpresa rovesciare tutte le previsioni. L’inattesa massiccia partecipazione di ieri infatti, sta già mettendo in difficoltà il premier uscente Netanyahu che contava sull’amareggiato Aventino dei liberal per cavalcare il vento di destra.
«Qualsiasi siano i risultati non fatevi illusioni, Israele ha archiviato i negoziati con i palestinesi e non se ne parlerà più per parecchio tempo». Il 25enne Yossi è pronto a scommetterci e così, giura, tutti i suoi compagni di Kedumin, l’apripista degli insediamenti nel Sud della Cisgiordania che oltre a numerose sparatorie con i palestinesi vanta la storica visita di Begin nel 1977. È un visionario Yossi, ma politico. Sulla collina dirimpetto a Kedumin il ventiseienne Amos, bello e abbigliato da squatter come la moglie Rachel, guarda oltre dalla tenda senza acqua e senza elettricià in cui vive da 4 anni: «Non votiamo, nessuno è abbastanza di destra per noi».

La Stampa 23.1.13
Israele, in Parlamento destra e sinistra mai così vicine
Netanyahu perde (anche se resta premier), Lapid vince al fotofinish
Il risultato crea due blocchi la cui distanza non è mai stata tanto sottile
di Francesca Paci
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http://www.lastampa.it/2013/01/23/esteri/israele-si-lavora-a-una-coalizione-ampia-LVRHGymy4CQXA8e9BLALUM/pagina.html

La Stampa 23.1.13
Yair Lapid, il “cigno nero” di Israele
di Francesca Paci

qui

Corriere 23.1.13
La vittoria amara di Bibi Netanyahu, una strada in salita per Israele
di Antonio Ferrari


Benjamin Netanyahu voleva vincere le elezioni. Ha vinto ma è come se avesse perso. Esce infatti bruscamente ridimensionato, dopo aver chiamato anticipatamente i suoi connazionali alle urne. Stando alle prime proiezioni, vi è quasi una parità fra destra e sinistra.
I veri protagonisti di questo terremoto politico non sono stati Netanyahu e il suo partner ultranazionalista, il ministro degli esteri Avigdor Lieberman, ma tre nuovi leader, che rappresentano l'ultradestra religiosa dei coloni e dell'hi-tech, il mondo ultralaico ben radicato soprattutto a Tel Aviv e il redivivo partito laburista. Si potrebbe dire che il vero confronto si è giocato al piano inferiore della politica israeliana tra Naftali Bennet, 40 anni, ex braccio destro di Netanyahu, il cinquantenne Yair Lapid, che è un giornalista esattamente come la leader laburista Shelly Yachimovich. Non è l'avvio di un progetto di «rottamazione», ma certo è un forte segnale quello che affiora dalle urne, almeno a giudicare dai primi exit poll, in realtà — in Israele — non molto affidabili. Nella classifica della sorprese, la più sorprendente è rappresentata da Lapid, che riesce a schierarsi al secondo posto. Bennet, vera novità dell'estrema destra, ha sottratto a Bibi numerosi consensi. Lo smagrito Likud non ha avuto alcun beneficio dall'alleanza con Lieberman. L'unione non ha fatto la forza ma partorito una debolezza.
È ancora presto per immaginare quale coalizione potrà fare Netanyahu e come si muoverà il presidente Peres, che dovrà decidere a chi affidare l'incarico di formare il governo. Per ora si può dire che questa è stata l'elezione più sorprendente degli ultimi 15 anni. Si pensava che gli israeliani, che cominciano ad essere afflitti da problemi sociali ed economici, rispondessero al voto con l'apatia e l'astensione. Al contrario, l'affluenza è stata la più alta dal 1999. Si pensava che si dovesse dibattere del conflitto con i palestinesi e del processo di pace. Non ne ha parlato nessuno. A parte Bennet, il quale sostiene che ormai i tempi sono maturi per annettere il 60% della Cisgiordania. In altri tempi sarebbe stata una bestemmia per la sinistra, ma anche la leader laburista Yachimovich si è tenuta lontana dal tema. La stabilità di Israele invece di rafforzarsi ne esce indebolita. Il presidente Obama è stato molto duro con Netanyahu, e ora, considerate le rischiose incognite regionali, la strada anche per Israele si presenta in salita.

Repubblica 23.1.13
Knesset in bilico
di Bernardo Valli


GERUSALEMME AVEVA ragione Benjamin Netanyahu quando, due ore prima che si chiudessero i seggi, ha lanciato un grido d’allarme, e ha invitato i suoi elettori ad accorrere alle urne. La forte affluenza, superiore al previsto, suonava come una protesta contro il governo. Contro di lui, il primo ministro, il grande favorito. La sua disperazione era giustificata.

LE PRIME proiezioni hanno annunciato un crollo della sua alleanza di destra. Dai 42 seggi che aveva nel passato Parlamento, gliene vengono adesso aggiudicati 31. Una perdita secca di 11 seggi. Non è ancora un risultato ufficiale, che arriverà soltanto nella mattina, quando finirà lo spoglio. L’incertezza regna ancora. Ma la tendenza si profila abbastanza netta. E la delusione della destra è evidente in queste ore notturne nelle sedi dei suoi partiti.
La destra nel suo insieme avrebbe ottenuto 61-62 seggi contro i 59-58 del centro sinistra. Una maggioranza risicata e incerta, di gran lunga inferiore a quella pronosticata, alla Knesset, il Parlamento che ne conta 120. Se questi saranno i risultati finali, sarà come se si fosse concluso un primo turno. E Benjamin Netanyahu in tal caso l’avrebbe vinto per poco, sarebbe riconfermato ma non trionfalmente come annunciato. Potrebbe restare capo del governo per la terza volta, ma con fatica. E comunque la suspense sembra destinata a continuare.
La vittoria di Netanyahu era data per scontata, anche se più robusta, ma adesso non è affatto scontata la coalizione con la quale governerà. E la sua composizione equivarrà a un secondo turno, fuori dalle urne. Per Israele, ed anche per la sua politica mediorientale (in particolare i rapporti con i palestinesi e il problema nucleare iraniano), non sarà indifferente se Benjamin Netanyhau avrà come alleati i partiti centristi oppure l’estrema destra. O se riuscirà a formare un improbabile governo di unità nazionale. Le opzioni, mentre si precisano i risultati, sono aperte. Per realizzarne una c’è tempo ventotto giorni. «Gli israeliani vogliono che io continui a governare - ha commentato il premier su Facebook - e che io formi la più ampia maggioranza possibile».
Uscire da un’elezione primo ministro per tre volte non è un record nella storia dello Stato di Israele, perché altri leader hanno compiuto l’impresa, ma colloca Netanyahu tra i più politicamente longevi capi del governo. Se si contano anche gli anni in cui è stato ministro, per la durata al vertice della vita politica, incalza Ben Gurion, il fondatore di Israele. In quanto al prestigio la distanza è invece grande. Per i detrattori, che sono tanti nonostante il suo successo, è addirittura abissale. Etgar Keret, scrittore e uomo di cinema, senz’altro sarcastico e paradossale, come capita spesso nelle polemiche israeliane, ha detto che in questa elezione si sceglieva il comandante del Titanic, senza tener conto del come il prescelto si comporterebbe quando avverrà l’urto con l’iceberg. In realtà, stando alle prime proiezioni, gli israeliani hanno esitato a designare il comandante. L’hanno nominato, ma politicamente zoppo.
Il primo ministro sembra confermato perché la sua alleanza elettorale, formata dal Likud, principale partito di destra, e dall’ultra nazionalista Yisrael Beitenu (Casa di Israele), la formazione di Avigdor Liberman, espressione della comunità russa, avrebbe ottenuto più voti del concorrenti. E tuttavia molto meno di quattro anni fa. Quindi non sarà facile per Netanyahu formare una maggioranza di governo. La svolta nazional religiosa non c’è stata nelle proporzioni anticipate dai sondaggi. Neppure i seggi conquistati da Naftali Bennett, fondatore del nuovo partito di estrema destra, Habayit Hayeudi (Focolare ebraico), sarebbero quelli pronosticati. Non 14, ma 12. Mentre un candidato laico, centrista, Yair Lapid, un ex giornalista televisivo, molto popolare, ne avrebbe conquistati 19. Al punto che il suo partito (Yesh Atid) sarebbe il secondo partito, dopo il Likud-Beitenu. E prima di quello laburista, che avrebbe conservato i 17 promessigli dai sondaggi. Questi risultati cambiano le carte in tavola.
Stando ai dati finora conosciuti, Netanyahu, uscito vincente di stretta misura, potrebbe tentare una coalizione di destra. Bennett, il campione estremista, reso milionario dall’High Tech di cui è uno specialista, era un suo collaboratore che l’ha tradito. E’ assai probabile che gli elettori perduti dall’alleanza Likud-Beitenu li abbia recuperati lui, con un programma senza sfumature, in cui respinge senza esitare l’idea di un eventuale Stato palestinese, sostiene l’estensione delle colonie nei territori occupati (è stato il responsabile dell’associazione dei coloni), e limita a qualche città di Cisgiordania l’autonomia dei palestinesi, nel quadro del sistema di sicurezza israeliano. Stando ai suoi sostenitori lui afferma apertamente quel che Netanyahu fa ma non dice. Nella campagna elettorale il primo ministro e l’ex collaboratore, animatore di un’estrema destra popolare anche tra i giovani non religiosi, si sono affrontati con accenti più duri di quelli dedicati alla sinistra. Netanyahu ha spesso rincorso il “traditore” Bennett per non lasciarsi superare, per non essere travolto dal suo estremismo. Come quando in un’intervista si è impegnato a non ridurre il numero delle colonie, anche se ci saranno pressioni internazionali. In particolare americane.
Malgrado la rivalità aperta, Naftali Bennett continua a dichiararsi un “allievo “ di Netanyahu, e appare un ministro fatto su misura per il futuro governo. Ma sarebbe un ministro scomodo. Invadente. Nuocerebbe all’immagine della coalizione sul piano internazionale. Si sospetterebbe, ad ogni decisione anti palestinese, la mano di Bennett. E’ una situazione che Netanyahu sopporterebbe con fatica. Non è quindi escluso che egli tenti un’altra strada. Quella centrista. Ad esempio il recupero del popolarissimo Yair Lapid, che avrebbe ottenuto un successo strepitoso, rispetto ai pronostici, e dell’ex ministro degli Esteri e agente del Mossad (i servizi segreti), Tzipi Livni, spostatasi via via da posizioni di destra a posizioni moderate, centriste, fino a fondare un proprio partito, Hatnuah (il movimento). Con la partecipazione (ottenuta con concessioni varie alle loro istituzioni) dei partiti religiosi, Netanyahu potrebbe cosi raggiungere la maggioranza alla Knesset. E’ un negoziatore tenace e può realizzare quel che al momento appare impossibile. Potrebbe tentare anche un governo di unità nazionale, coinvolgendo il partito laburista. Ma questa sarebbe un’impresa assai più difficile. La natura della prossima coalizione influenzerà l’atteggiamento nei confronti dei problemi che Netanyahu dovrà affrontare all’inizio del terzo mandato: la questione palestinese e quella nucleare iraniana. E comunque la destra israeliana è stata, contro tutte le previsioni, nettamente ridimensionata.

Repubblica 23.1.13
Eran Riklis, il pluripremiato regista del Giardino dei Limoni e della Sposa siriana
“Ci svegliamo da un lungo letargo è ora di pensare ai problemi veri”
“Per troppo tempo i politici hanno usato la paura come argomento”
di Alix Van Buren


ERAN Riklis, il pluripremiato regista del Giardino dei Limoni e della Sposa siriana, è percorso da una sottile vena di euforia. «C’è un’atmosfera frizzante oggi per le strade di Tel Aviv, quasi fossero in vista grandi novità. La percentuale dei votanti è stata alta: forse una mobilitazione contro l’estrema destra, che si presenta in abiti eleganti e con parole suadenti».
Riklis, sta pensando all’ascesa di Naftali Bennett, il nuovo fenomeno della destra nazionalista-religiosa?
«Bennett è una figura inedita nel panorama israeliano. Il suo richiamo è tanto più pericoloso quanto lui è scaltro nell’ammorbidire e confezionare il suo messaggio estremista. Sa premere sui pulsanti giusti, ha consiglieri “all’americana”. Però, al centro-sinistra lui non l’ha data a bere: dietro le belle apparenze nasconde un disegno davvero cupo».
Il centro-sinistra ha reagito?
«È come se ci scuotessimo da un lungo letargo. Nonostante il trauma dell’assassinio di Rabin nel ’95, avevamo minimizzato il pericolo. Presi dai guadagni di un’economia fiorente grazie all’alta tecnologia, avevamo rimosso la centralità di una destra sempre più estrema».
Però, l’economia ha monopolizzato il dibattito. Che fine ha fatto la questione della pace con i palestinesi?
«Di colpo, è svanita. Nessuno vuole affrontarla. Prevale il luogo comune del “non c’è un interlocutore”. Ma economia e politica, pace e prosperità sono correlate. Piuttosto, dovremo risolvere la nostra situazione esistenziale».
Vale a dire?
«È la “paura” dilagante nella società, alimentata dalla classe politica per occultare i problemi veri: l’economia, i rapporti coi palestinesi e il mondo arabo. Per mesi non s’è parlato d’altro che del pericolo iraniano. Ogni volta che si apre una crisi interna, il governo agita una minaccia esterna. È un vecchio trucco ben sperimentato».
Sul voto ha pesato anche il timore di un isolamento per le politiche della destra?
«Sì: lo spavento di alienare l’America e l’Europa. Però, le dico questo: io non sono preoccupato. I nostri legami con l’Occidente hanno radici profonde, economiche, storiche, emotive. Né bisogna credere che la destra distruggerà il Paese. Noi siamo una piccola nazione. Il divario fra destra e sinistra può essere colmato. Infatti, in Israele noi siamo tutti sulla stessa barca».

Repubblica 23.1.13
Il bello della tv e l’idolo dei coloni
di Fabio Scuto


GERUSALEMME — Sono due assoluti debuttanti della politica la sorpresa e i veri vincitori di queste elezioni in Israele. Fotogenico e muscoloso come un uomo-copertina, brizzolato come Richard Gere; disinvolto come Barack Obama di fronte alle platee, l’esordiente Yair Lapid — leader della lista centrista Yesh Atid (C’è un futuro) — ex anchorman della tv commerciale Canale 2 ed ex commentatore del popolare quotidiano Yediot Ahronot, è forse il più emblematico fra i volti nuovi della 19esima Knesset. Lapid e Naftali Bennett — il magnate dell’hi-tech nuova star dell’ultradestra e dei coloni — sono le due assolute novità delle legislative israeliane e possibili aghi della bilancia per la nuova coalizione di Netanyahu.
Entrambi hanno bruciato le tappe fino ad irrompere nell’alta politica, entrambi hanno ottime probabilità di entrare nella futura coalizione di governo se — come sembra al momento — l’incarico sarà ancora affidato al leader di Likud-Beitenu Benjamin Netanyahu che sarà costretto ad allagare le basi della maggioranza se vuole garantirsi una certa sopravvivenza politica. Ma sulla loro reale capacità di misurarsi con i problemi che assillano oggi Israele il futuro resta ricco di incognite, perché né Bennett né Lapid hanno esperienza parlamentare, tanto meno di governo.
Figlio dell’ex ministro della Giustizia Yossef “Tommy” Lapid — campione del laicismo sionista e anima del partito Shinui negli Anni Novanta — e della scrittrice di successo Shulamit Lapid, il dirompente Yair avrebbe comunque polarizzato l’interesse con la sua immagine da figlio d’arte debuttando nella politica attiva. La sua è stata una facile ascesa; nato nel 1963 è cresciuto in uno dei salotti più stimolanti e politici di Tel Aviv. Suo padre “Tommy” prima di entrare in politica era un giornalista di punta di Maarivnegli anni in cui quel giornale dettava l’agenda politica del Paese governato da laburisti. Con grinta Yair Lapid si è fatto spazio nel mondo dei mass-media: certo il cognome di famiglia è stato certamente un ottimo biglietto da visita. Ma Lapid jr. aveva indubbiamente molte cose da dire se in pochi anni ha pubblicato diversi libri, canzoni e migliaia di articoli. Poi c’è stato l’ingresso nella tv commerciale Canale2 (la più seguita del Paese), come anchorman del telegiornale del week-end. In poco tempo, proprio come il padre, è diventato uno dei giornalisti più influenti di Israele. La grande popolarità — particolarmente diffusa fra le elettrici e amplificata dal piccolo schermo — gli ha consentito di bruciare le tappe verso l’appuntamento con la Knesset dove il suo partito Yesh Atid ha portato ben 19 deputati diventando il secondo per importanza davanti al Labor, che ne ha ottenuti 17 su un totale di 120. Mentre Kadima non supera la soglia di sbarramento del 2% e resta fuori dal parlamento.
Il suo è un partito nuovo, nato appena un anno fa, quando le elezioni politiche anticipate erano ancora lontane, Yair Lapid ha deciso di lasciarsi la carriera professionale alle spalle per darsi alla politica e, per molti versi, per proseguire la campagna avviata dal padre per un Israele laico, sionista, progressista, dove diritti e doveri siano spartiti in maniera più equa. In nome del laicismo dello Stato e della lotta contro i privilegi dati agli ultraortodossi ha reclutato gente da tutti i ceti sociali, come una sorta di “United Colors of Benetton” della scena politica. Adesso per Lapid, come per Bennett, è giunto il momento della verità.

il Fatto 23.1.13
L’insediamento
Obama, uomo libero libera l’America
di Furio Colombo


Nel suo secondo, indimenticabile discorso inaugurale, il presidente Obama, carismatico come la prima volta, forse di più perché i capelli, intanto, si sono ingrigiti, parla all'America del tempo che sta per venire come di un viaggio. Ma di quel viaggio dice cose molto più forti e più audaci della prima volta, qualcosa che non era mai accaduto. Lo testimonia il New York Times nelle pagine dedicate al nuovo “primo giorno”.
Ma poiché noi parliamo dall'Italia, chiedo ai lettori di guardare per un momento a punti più vicini a noi e più lontani da quel grande quadro di festa. Ecco che cosa si vede e si ascolta. Dovunque si riuniscano think tank e gruppi di lavoro addetti a esaminare i problemi del mondo, a immaginare di spostare truppe, di decidere chi manda chi e che cosa e quale prezzo e dove e per quale ragione (o materia prima da salvare) nelle parti di caos del mondo, si notano riferimenti prudenti ma inquieti a proposito “dell'America che tende a tirarsi indietro”.
Stando attenti a citare il meno possibile il presidente Obama e a evitare di parlare di “nuova politica degli Stati Uniti” a proposito di impegno e disimpegno, ti fanno notare che, quando si tratta di combattere “il pericolo”, “il nemico”, “il terrorismo”, la “sfida di civiltà”, “l'America non è più quella di una volta”. L'ho sentito dire, anche nei giorni scorsi, nel Parlamento italiano durante le riunioni di emergenza delle commissioni Esteri della Camera e del Senato e nella imprevista seduta della Camera del 22 gennaio (dunque a Camere formalmente sciolte) per discutere dell'invasione del Mali, dell'intervento francese, del rifinanziamento del corpo di spedizione italiano in Afghanistan. Pensiero e linguaggio sembravano fermi a George W. Bush (che non si è presentato alla festa di Obama).
MA TORNIAMO a Washington. Il fatto è che lunedì 21 gennaio, davanti a un’immensa folla di cittadini che lo capiscono e lo amano, il solo presidente americano (dopo il 1945) che non abbia iniziato alcuna guerra e che stia chiudendo a una a una quelle che ha trovato, piene di sangue e di morti nel mondo, ha aperto con una frase mai detta prima: “Questo Paese deve avere il coraggio di affrontare e risolvere con strumenti di pace differenze, diffidenze e scontri, non perché sottovalutiamo i pericoli, ma perché i pericoli più grandi sono il sospetto e la paura”. E quando ha rivolto lo sguardo a ciò che sta accadendo nella vita del suo Paese ha detto queste parole difficili da dimenticare: “Non scambiate l'assolutismo per un principio, non confondete uno spettacolo con la politica, non pensate che un insulto valga un argomento della ragione”.
Ma ecco il punto alto, caldo e unico di un discorso presidenziale destinato a segnare un prima e un dopo nella vita degli americani, non solo il Paese, lo Stato o le Istituzioni, ma nei rapporti quotidiani e continui fra cittadini. Ricordiamo che Obama ha giurato sulla Bibbia di Martin Luther King (il 21 gennaio è il giorno che l'America dedica al leader assassinato a Memphis) e su quella di Abraham Lincoln, per evocare insieme la svolta della libertà segnata dal presidente antischiavista, e la svolta dei diritti civili conquistati dal predicatore nero contro il Ku Klux Klan e la segregazione.
E infatti l'incedere della voce, se lo ascoltate, diventa quello delle chiese nere del Sud americano che erano, negli anni Sessanta, i centri di mobilitazione, aggregazione e difesa. Ha detto, in sequenza, queste tre frasi: “Il nostro viaggio non è compiuto finché non raggiungeremo il traguardo dell'uguaglianza, a cominciare dalla paga che spetta per lo stesso lavoro a uomini e donne”.
“Il nostro viaggio non è compiuto finché i nostri bambini, dalle strade di Detroit ai quieti viali di Newtown alle colline dell'Apalachia sapranno che noi ci prendiamo cura di loro e gli facciamo festa e li salviamo da ogni pericolo. Il nostro viaggio non è finito finché i nostri fratelli e sorelle gay non saranno trattati come ognuno di noi, uguali di fronte alla legge”. Ed è come un giocatore di bowling che, con un colpo solo, sbaraglia tutti i birilli. Infatti Obama può dire, subito dopo, che è giusto che vi sia marriage equality, parità dei matrimoni.
E DICHIARA, da presidente, contro la destra americana e del mondo: “Non è vero che l'assistenza medica e un minimo di sicurezza sociale sminuiscono lo spirito imprenditoriale di un Paese. Non è vero che l'intervento sociale fa di noi una nazione di cittadini che chiedono. Essi ci rendono liberi di affrontare i rischi che fanno di noi un grande Paese”. Sono le parole di un presidente libero (unbound, dicono i commentatori americani usando parole da libri d'avventure, per dire qualcuno che si è liberato dalle catene) che governerà l'America nei prossimi quattro anni. Un uomo libero che ha poco conformismo e una visione chiara, quasi profetica, che vuole condividere. È vero, come dicono nei gruppi e think tank che studiano strategia, militare o economica: “L'America (certo l'America di Obama) non è più quella di una volta”.

Repubblica 23.1.13
L’uguaglianza di Obama
di Nadia Urbinati


L’eguaglianza è la grande assente nel linguaggio politico contemporaneo, nonostante la nostra sia un’età a tutti gli effetti di egemonia democratica, e la democrazia sia un sistema che fa dell’eguaglianza (civile e politica, ma anche delle condizioni di partecipazione alla vita della società) il suo fondamento e la sua aspirazione. Nel suo epico discorso di insediamento come 44esimo Presidente degli Stati Uniti, Barak H. Obama lo ha ricordato ai suoi concittadini e a tutto il mondo. E lo ha fatto riandando alle origini del patto sul quale l’America che lo ha rieletto è nata, alla Dichiarazione di Indipendenza: “Noi riteniamo che sono per se stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la Vita, la Libertà, e il perseguimento della Felicità”. A scrivere queste rivoluzionarie parole era stato Thomas Jefferson, un illuminista che credeva come i nostri Filangieri, Verri e Beccaria, che la legge dovesse occuparsi non ad opprimere o dominare ma a creare le condizioni di benessere dei cittadini. La “felicità pubblica” era un ideale importante. Dalla consapevolezza della sua importanza comincia la storia della democrazia moderna.
Il governo, secondo questa filosofia che a noi sembra desueta, dovrebbe creare le condizioni grazie alle quali le persone possono prima di tutto conoscere le loro potenzialità (a questo serve un sistema educativo aperto a tutti) e poi contare su leggi giuste e ben fatte e istituzioni trasparenti e funzionali per poter progettare la loro vita secondo il loro discernimento. Insomma vivere, e vivere con soddisfazione per quanto possibile, e non nella sofferenza, nell’umiliazione e nella miseria. E questo è un bene per il singolo e la società. Il governo non dispensa felicità dunque. Ciò che si impegna a fare è rendere le persone davvero responsabili della loro vita; far sì che esse possano contare su se stesse, non sulla fortuna di appartenere a una buona famiglia, non sul favore delle persone potenti, non sull’elemosina di chi ha più.
La democrazia, parola per secoli vituperata per volere dare potere e visibilità a tutti, anche ai poveri e inacculturati, è stata nobilitata anche dalla Rivoluzione americana alla quale Obama si è ispirato. Essa ha inaugurato una visione evolutiva delle conquiste sociali e politiche al centro delle quali c’è la persona come valore attivo, agente di scelte, ma anche soggetto dotato di sensazioni e sentimenti, che valuta la propria vita all’interno delle relazioni con gli altri. Nella democrazia, l’intera struttura della società, dall’etica alla politica, ruota intorno alla persona, ed è valutata in ragione del grado di soddisfazione o di felicità che riesce a procurare a ciascuno. Il benessere e la libertà degli individui sono la condizione per misurare il benessere o il progresso dell’intera società.
Rivalutando questa tradizione che dal Settecento cerca di coniugare democrazia e giustizia, si può dire che c’è giustizia soltanto quando la riflessione pubblica non evade da questi compiti, non lascia il campo alla giungla degli interessi (e quindi alla vittoria di chi è più forte) per riservarsi, eventualmente, di venire in soccorso a chi soccombe. Lo stato della democrazia non fa questo. Esso prepara il terreno all’eguale libertà invece di giungere dopo; non dispensa carità ma garantisce diritti, e per questo promuove politiche sociali. Ecco perché il principio della libertà individuale non sta solo scritto nelle costituzioni ma diventa a tutti gli effetti un criterio che valorizza le capacità concrete e sostanziali delle persone di vivere il tipo di vita al quale danno valore. L’espansione della libertà è condizione di felicità, perché possibilità di fare, di scegliere, di sperimentare con dignità e senza subire umiliazione. Ecco perché il tema della giustizia è un tema di risorse o di condizioni di benessere, non semplicemente di esiti e nemmeno soltanto di equo trattamento. A questa promessa di “felicità” è ritornato il presidente Obama per inaugurare il suo secondo mandato: una promessa di impegno per uno sviluppo “illimitato” come o indefinito (cioè senza limiti predeterminati) è il mondo delle nostre possibilità in quanto persone libere nei diritti ed eguali nelle opportunità. In questo inizio secolo, il viaggio mai finito della democrazia sembra aver trovato il suo Ulisse, nocchiero di un percorso incerto negli esiti e periglioso, ma avvincente e mosso da uno scopo che dovrebbe essere alla nostra portata: vivere con dignità, apprezzando il valore della nostra libertà.

La Stampa 23.1.13
Mali, dall’Italia tre aerei militari per i francesi
Si muovono anche gli Usa con C-130 e droni
di Francesco Grignetti


Gli americani hanno iniziato: i loro aerei da carico sono già al lavoro per portare da Istres, nel Sud della Francia, in Mali, soldati e materiali della missione francese. E lo faranno gratis. Gli Usa hanno garantito anche una piena collaborazione d’intelligence e s’immagina che radar, satelliti e droni siano stati indirizzati sul Mali per supportare l’avanzata francese.
È ufficiale che anche Gran Bretagna, Belgio, Canada e Danimarca da due giorni abbiano cominciato a trasportare il materiale francese. Gli inglesi hanno pure messo in allerta alcuni reggimenti in vista di un possibile intervento di terra al fianco dell’esercito di Parigi. All’appello manca ancora la Germania, ma la cancelliera Merkel ha ribadito che il loro appoggio logistico è sicuro.
E poi c’è l’Italia: sono di ieri i primi passi formali per dare corpo agli annunci. Il governo ha demandato al ministro della Difesa, Giampaolo Di Paola, di emanare un regolamento che faccia ricadere le relative spese nel bilancio ordinario del ministero.
«C’è una situazione di emergenza che va affrontata oggi. È necessario un ampio concorso alle operazioni militari per fermare l’avanzata jihadista nel Paese», spiegava ieri in Parlamento il ministro Di Paola. Per dirla con le parole del ministro degli Esteri, Giulio Terzi: «Il Mali sta attraversando una crisi di grandi proporzioni che richiede un deciso sostegno dalla comunità internazionale affinché il Paese non affondi. E poi i Paesi che circondano il Mali possono essere trascinati in un baratro a causa della porosità dei confini». In conclusione, «un Paese come l’Italia, interessato alla lotta al terrorismo, non può non essere parte di queste operazioni».
L’Italia fornirà dunque alle forze francesi in Mali un certo appoggio logistico. S’ipotizza l’uso di 2 aerei da trasporto e 1 aereo cisterna per rifornimento in volo. Il contributo italiano al ponte aereo coprirà il salto dall’Europa verso l’Africa, ma anche da un Paese africano all’altro, visto che c’è un contingente di soldati africani da portare rapidamente al fronte. «Potrebbe avere una durata limitata, di circa 2 o 3 mesi, che ne indica appunto l’urgenza», è la precisazione di Di Paola. A sostegno del governo, è arrivato comunque un ordine del giorno bipartisan ieri mattina a firma Frattini, Tempestini e Adornato, che impegna il governo, «in linea con la risoluzione 2085 del consiglio Onu, e per un periodo di due mesi, estendibile a tre, a un contributo di vettori aerei per supporto logistico».

Repubblica 23.1.13
L’Europa bendata alla guerra d’Africa
di Barbara Spinelli


È IMPRESSIONANTE il mutismo che regna, alla vigilia delle elezioni in Italia e Germania, su un tema decisivo come la guerra. Non se ne parla, perché i conflitti avvengono altrove. Eppure la guerra da tempo ci è entrata nelle ossa.

Non è condotta dall’Europa, priva di un comune governo politico, ma è ormai parte del suo essere nel mondo. Se alla sterminata guerra anti-terrorismo aggiungiamo i conflitti balcanici di fine ’900, sono quasi 14 anni che gli Europei partecipano stabilmente a operazioni belliche. All’inizio se ne discuteva con vigore: sono guerre necessarie oppure no? E se no, perché le combattiamo? Sono davvero umanitarie, o distruttive? E qual è il bilancio dell’offensiva globale anti-terrore: lo sta diminuendo o aumentando? I politici tacciono, e nessuno Stato europeo si chiede cosa sia quest’Unione che non ha nulla da dire in materia, concentrata com’è sulla moneta. L’Europa è entrata in una nuova era di guerre neo-coloniali con gli occhi bendati, camminando nella nebbia.
Le guerre – spesso sanguinose, di rado proficue – non sono mai chiamate per nome. Avanzano mascherate, invariabilmente imbellite: stabilizzeranno Stati fatiscenti, li democratizzeranno, e soprattutto saranno brevi, non costose. Tutte cose non vere, nascoste dalla strategia del mutismo. A volte le operazioni sono decise a Washington; altre volte, come in Libia, son combattute da più Stati europei. Quella iniziata il 12 gennaio in Mali è condotta dalla Francia di Hollande, con un appoggio debole di soldati africani e con il consenso – ex post – degli alleati europei. Nessun coordinamento l’ha preceduta, in violazione del Trattato di Lisbona che ci unisce (art. 32, 347). Quasi automaticamente siamo gettati nelle guerre, come si aprono e chiudono le palpebre. La mente segue, arrancando. C’è perfino chi pomposamente si chiama Alto rappresentante per la politica estera europea (parliamo di Katherine Ashton: quando sarà sostituita da una personalità meno inutile?) e ringrazia la Francia ma subito precisa che Parigi dovrà fare da sé, «mancando una forza militare europea». Fotografa l’esistente, è vero, ma occupando una carica importante potrebbe pensare un po’ oltre.
Molte cose che leggiamo sulle guerre sono fuorvianti: simili a bollettini militari, non sono discutibili nella loro perentoria frammentarietà. Invitano non a meditare l’evento ma a constatarlo supinamente, e a considerare i singoli interventi come schegge, senza rapporti fra loro. Anche in guerra prevalgono esperti improvvisati e tecnici. L’interventismo sta divenendo un habitus europeo, copiato dall’americano, ma di questa trasformazione non vien detta la storia lunga, che connetta le schegge e rischiari l’insieme. Manca un pensare lungo e anche ampio, che definisca chi siamo in Africa, Afghanistan, Golfo Persico. Che paragoni il nostro pensare a quello di altri paesi. Che studi la politica cinese in Africa, così attiva e diversa: incentrata sugli investimenti, quando la nostra è fissa sul militare. Scarseggia una veduta cosmopolita sul nostro agire nel mondo e su come esso ci cambia.
Una vista ampia e lunga dovrebbe consentire di fare un bilancio freddo, infine, di conflitti privi di obiettivi chiari, di limiti spaziali, di tempo: che hanno dilatato l’Islam armato anziché contenerlo, che dall’Afghanistan s’estendono ora al Sahara-Sahel. Che nulla apprendono da errori passati, sistematicamente taciuti. I nobili aggettivi con cui agghindiamo l’albero delle guerre (umanitarie, democratiche) non bastano a celare gli esiti calamitosi: gli interventi creano non ordine ma caos, non Stati forti ma ancora più fallimentari. Compiuta l’opera i paesi vengono abbandonati a se stessi, non senza aver suscitato disillusione profonda nei popoli assistiti. Poi si passa a nuovi fronti, come se la storia delle guerre fosse un safari turistico a caccia di esotici bottini. Il Mali è un caso esemplare di guerra necessaria e umanitaria.
In questo decennio l’aggettivo umanitario s’è imbruttito, ha perso l’innocenza, e annebbia la storia lunga: le politiche non fatte, le occasioni mancate, le catene di incoerenze. Era necessario intervenire per fermare il genocidio in Ruanda, nel ’94, e non si agì perché l’Onu ritirò i soldati proprio mentre lo sterminio cominciava. Fu necessario evitare l’esodo – verso l’Europa – dei kossovari cacciati dall’esercito serbo. Ma le guerre successive non sono necessarie, visto che manifestamente non fermano i terroristi. Non sono neppure democratiche perché come si spiegano, allora, l’alleanza con l’Arabia Saudita e l’enormità degli aiuti a Riad, più copiosi di quelli destinati a Israele? Il regno saudita non solo non è democratico: è tra i più grandi finanziatori dei terrorismi.
La degenerazione del Mali poteva essere evitata, se gli Europei avessero studiato il paese: considerato per anni faro della democrazia, fu sempre più impoverito, portandosi dietro i disastri delle sue artificiali frontiere coloniali. Aveva radici antiche la lotta indipendentista dei Tuareg, culminata il 6 aprile 2012 nell’indipendenza dell’Azawad a Nord. Per decenni furono ignorati, spregiati. Per combattere un indipendentismo inizialmente laico si accettò che nascessero milizie islamiche, ripetendo l’idiotismo esibito in Afghanistan. Sicché i Tuareg s’appoggiarono a Gheddafi, e poi agli islamisti: unico punto di riferimento, furono questi ultimi a invadere il Nord, all’inizio 2012, egemonizzando e stravolgendo – era prevedibile – la lotta tuareg. È uno dei primi errori dell’Occidente, questa cecità, e quando Prodi approva l’intervento francese dicendo che «non esistevano alternative all’azione militare», che «si stava consolidando una zona franca terroristica nel cuore dell’Africa», che gli indipendentisti «sono diventati jihadisti», dice solo una parte del vero. Non racconta quel che esisteva prima che la guerra fosse l’unica alternativa. I Tuareg non sono diventati terroristi; blanditi dagli islamisti, sono stati poi cacciati dai villaggi che avevano conquistato. La sharia, nella versione più cruenta, è invisa ai locali e anche ai Tuareg (sono tanti) non arruolati nell’Islam radicale. Vero è che all’inizio essi abbracciarono i jihadisti, e un giorno questa svista andrà meditata: forse l’Islam estremista, col suo falso messianismo, ha una visione perversa ma più moderna, della crisi dello Stato-nazione. Una visione assente negli Europei, nonostante l’Unione che hanno edificato.
Ma l’errore più grave è non considerare le guerre dell’ultimo decennio come un tutt’unico. L’azione in un punto della terra ha ripercussioni altrove, i fallimenti in Afghanistan creano il caso Libia, il semifallimento in Libia secerne il Mali. Il guaio è che ogni conflitto comincia senza memoria critica dei precedenti: come scheggia appunto. In Libia il trionfalismo è finito tardi, l’11 settembre 2012 a Bengasi, quando fu ucciso l’ambasciatore Usa Christopher Stevens. Solo allora s’è visto che molti miliziani di Gheddafi, tuareg o islamisti, s’erano trasferiti nell’Azawad. Che la guerra non era finita ma sarebbe rinata in Mali, come in quei film dell’orrore dove i morti non sono affatto morti.
È venuta l’ora di riesaminare quel che vien chiamato interventismo umanitario, democratico, antiterrorista. Un solo dato basterebbe. Negli ultimi sette anni, il numero delle democrazie elettorali in Africa è passato da 24 a 19. Uno scacco, per Europa e Occidente. Intanto la Cina sta a guardare, compiaciuta. La sua presenza cresce, nel continente nero. Il suo interventismo per ora costruisce strade, non fa guerre. È colonialismo e lotta per risorse altrui anch’esso, ma di natura differente. Resilienza e pazienza sono la sua forza. Forse Europa e Stati Uniti si agitano con tanta bellicosità per contendere a Pechino il dominio di Africa e Asia. È un’ipotesi, ma se l’Europa cominciasse a discutere parlerebbe anche di questo, e non sarebbe inutile.

Repubblica 23.1.13
Un sondaggio svela che a Pechino non ci si dichiara l’amore La scoperta turba il Paese. E il governo deve correre ai ripari
Perché solo i cinesi non dicono “I love you”
di Giampaolo Visetti


PECHINO Figli, genitori, amici, coniugi, perfino amanti e qualche star, hanno provato a dire ai congiunti le parole grazie alle quali l’umanità non risulta estinta. La maggioranza dei destinatari, colta di sorpresa, ha ammesso che nessuno prima glielo aveva detto mai e che una frase simile, comunque, non l’ha mai pronunciata.
Le risposte più comuni sono state queste: «Cosa sta succedendo? », «Ti senti male?», «Ti ho già versato i soldi del mese», «Il medico mi ha detto che è tutto a posto». Un contadino, travolto dal «wo ai ni» telefonico di una figlia metropolitanizzata che non vedeva da un anno, ha farfugliato: «Sì, ancora sei mesi e il vicino mi presta quanto serve per rifarti le palpebre». Non era mai successo, neppure prima della Rivoluzione Culturale, che un confronto su come è possibile esprimere seriamente ciò che si è concordato di chiamare amore si svolgesse in pubblico tra la popolazione che rappresenta un sesto di quella del Pianeta. Invece ora anche i giornali del partito riservano la prima pagina a una frivolezza che scuote più dell’apprendere che gli europei cominciano a essere più magri degli asiatici: «Perché i cinesi non sanno dire ti amo».
Sembrava una divagazione da weekend, come quella di una popolare trasmissione che ha chiesto agli spettatori di ricordare l’attimo in cui hanno avuto il sospetto di sentirsi felici. Qui la partita s’è chiusa: memoria esaurita. Sull’incapacità nazionale di trasformare l’affetto in suono si è staccata al contrario una valanga. Il China Daily
ha pubblicato le trenta fotografie che per trent’anni, lo stesso giorno, ritraggono un padre con la figlia. Nella prima lui le tiene la manina. Nell’ultima lei lo sorregge per un braccio. «Mai detto – confermano – che ci vogliamo bene». Il file, in poche ore, è stato aperto da due milioni di persone. Vivente Mao, parlare d’amore era bandito come vizio borghese. «I sentimenti – ha detto il ricercatore Ji Yingchun – erano sottomessi
agli obbiettivi collettivi: patria, partito, lavoro». Già prima di Confucio, in Asia, contavano le azioni, non le parole. I cinesi, dalla dinastia Yuan, sono cresciuti con i «Ventiquattro esempi di pietà filiale». Chi si vendeva come schiavo per pagare
il funerale del padre, chi offriva il proprio sangue per salvare la famiglia dalle zanzare, chi annegava nel fiume per recuperare la sposa. Mai, però, una bella dichiarazione. Ed è questo il problema degli eroafasici cinesi contemporanei, travolti dai film di Hollywood, dalle vecchie soap brasiliane, dal pop britannico, dai fumetti giapponesi, dalle leggende italiane e infine da una montagna di «amori», di «tesori» e di «per sempre» rigurgitati online. Una crisi di identità, l’inferiorità del «non saperlo dire», con centinaia di milioni di individui che cominciano a sospettare che «l’Occidente è più avanti perché ha il coraggio di dire le cose come stanno, specie se non sono vere». Altri sostengono che «in Asia l’amore è una cosa diversa, legata al fare», qualcuno che «l’America ha trasformato in show anche il senso della vita», mentre i cantonesi emigrati a San Francisco confessano che se proprio devono, biascicano un «I love you». Nella lingua materna, però, mai.
Il tema è così caldo che il governo è stato costretto a ricordare di avere approvato un anno fa il nuovo «Manuale dell’amore per il 21° secolo»: insegnare agli anziani a navigare in internet, impostare i canali della tivù, pagare le bollette agli invalidi, fare la spesa ai vecchi e «aiutare i genitori vedovi a risposarsi ». Il comandamento numero undici del partito, passato sotto silenzio, arriva a recitare: «Dire ai genitori che li amiamo». E una coppia? Niente. Non sarà il preludio di un’altra rivoluzione culturale, ma si profila come l’avviso che ogni cinese vuole liberamente fare i conti almeno con se stesso. Tenersi per mano all’università ora si può, le mamme vengono scongiurate di non cercare più in una certa piazza la ragazza giusta per il figlio, il divorzio non esclude dalla fabbrica ed è nata perfino una banca dove gli ex depositano gli oggetti comuni che hanno significato qualcosa. Riuscire a dire «ti amo», ha sentenziato ieri la Rete allarmando la censura, significa che dopo nessuno può più chiuderti la bocca. «Ma solo di rado – ha scritto la commessa Chong Lu – quando serve proprio. Altrimenti è strano».

Corriere 23.1.13
Nelle Fiandre
Adozioni, la metà a coppie gay


La metà dei bambini adottati nelle Fiandre (Belgio) sono stati accolti in famiglie omosessuali. Sei anni dopo la legalizzazione in Belgio dell'adozione da parte di coppie gay in Belgio, il rapporto annuale del Centro fiammingo per le adozioni (Vca) sforna il dato: a queste famiglie 14 bambini su 30. «Una conferma che chi organizza le adozioni non pone ostacoli», ha detto un portavoce Vca.

il Fatto 23.1.13
Usa, il baby killer voleva più morti


Nuovi particolari sulla strage familiare compiuta nel weekend dal 15enne Nehemiah Griego ad Albuquerque: voleva andare in un supermercato a sparare alla gente. Invece decise di andare a trovare la ragazza 12enne mostrandole la foto della madre uccisa e poi a confessarsi in chiesa. LaPresse

il Fatto 23.1.13
Usa, maggioranza di sì all’aborto


Per la prima volta nella storia degli Usa la maggioranza degli americani ritiene che l'aborto dovrebbe essere legalmente consentito in tutti o quasi tutti i casi: lo rivela un sondaggio pubblicato in occasione dei 40 anni della sentenza della Corte Suprema che legalizzò l’aborto il 22 gennaio 1973. LaPresse

Corriere 23.1.13
Niccolò Machiavelli e i 500 anni del «Principe»


Domani e venerdì si svolgerà alla Casa delle Letterature (piazza dell'Orologio 3, Roma) il convegno «Il pensiero della crisi. Niccolò Machiavelli e Il Principe», a cura di Maria Ida Gaeta e diretto da Gabriele Pedullà. Il convegno avviene a 500 anni dalla stesura di «Il Principe», un'opera il cui clamore non si è ancora spento. Negli ultimi vent'anni, nonostante il moltiplicarsi delle edizioni, si è assistito a un rarefarsi di studi sul tema. Il convegno è diviso in tre sezioni: «Guerra / Economia», presieduta da Franco Benigno, «Machiavelli in Europa nell'età moderna» da Giulio Ferroni e «Giurisprudenza / Politica» da Jean-Louis Fournel. Intervengono molti docenti italiani e stranieri. Per informazioni si può consultare il sito: www.casadelleletterature.it. (a.dg.)

l’Unità 23.1.12
2013, l’anno del «Principe»
Un convegno a Roma sull’attualità dell’opera
Machiavelli scrisse nella seconda metà del 1513 questo libretto diventato
un vademecum della politica più spregiudicata e ferina
di Giulio Ferroni


L’ANNO DEL «PRINCIPE» (SCRITTO IN GRAN PARTE NELLA SECONDA METÀ DEL 1513), CHE SI ANNUNCIA FITTO DI INTERVENTI E CELEBRAZIONI, VIENE INAUGURATO DAL CONVEGNO «IL PENSIERO DELLA CRISI: NICCOLÒ MACHIAVELLI E IL “PRINCIPE”», CHE SI TIENE DOMANI E IL 25 GENNAIO ALLA CASA DELLE LETTERATURE DI ROMA. NON È FORSE UN CASO CHE SI COMINCI DA ROMA, DATO CHE QUEL TRATTATO COSÌ FIORENTINO, che l’ex segretario della repubblica scrisse per vedere se i Medici, padroni di Firenze, gli facessero almeno «voltolare un sasso», ha del resto più di un legame con Roma, dato che il legame Firenze-Roma era allora strettissimo (il papa Leone X, Giovanni de’ Medici, era figlio di Lorenzo il Magnifico): sappiamo che l’autore vi lavorò intensamente tra il luglio e il dicembre del 1513 grazie ad una celebre lettera del 10 dicembre diretta proprio a Roma, all’amico Francesco Vettori.
Il convegno romano, per iniziativa di Gabriele Pedullà, dà voce alla critica machiavelliana più giovane (anche qui si fa avanti quella che è stata chiamata generazione Tq): Pedullà ha peraltro pubblicato recentemente un poderoso e sostanzioso volume su Machiavelli in tumulto. Conquista, cittadinanza e conflitto nei «Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio» (Bulzoni, 2011, pagine 633, euro 44,00), che, puntando sul rilievo che nel più ampio trattato dedicato alle repubbliche Machiavelli attribuisce ai conflitti sociali dell’antica Roma, vede tra i nodi essenziali del suo pensiero il radicarsi della «libertà» e potenza di uno stato nello spazio che le sue istituzioni danno al conflitto, a scontri tra le classi non distruttivi, ma rivolti in definitiva alla costruzione del bene comune.
Anche il programma del convegno sembra voler rivolgere una attenzione privilegiata ai Discorsi, seguendo una tendenza della critica machiavelliana degli ultimi decenni: ma comunque il tema della crisi permette di risalire dai Discorsi al Principe, dove pure non mancano richiami ai conflitti di classe, ai diversi «umori» dei «grandi» e del «popolo» (anche lì con una più diretta simpatia dell’autore per l’orizzonte «popolare», anche se la sua nozione di popolo è qualche cosa di diverso da quella moderna popolo, si avvicina di più, semmai, a ciò che intendiamo come classe media).
Il Principe è proprio libro che parte da una crisi, storica e personale: dalla constatazione della debolezza degli stati italiani, di fronte agli invasori francesi e spagnoli, e dall’amarezza per aver perso, con la sconfitta della repubblica e il ritorno dei Medici a Firenze, il proprio posto di segretario. Machiavelli lo scrive per offrirlo ai Medici, per mostrare la propria competenza, nella speranza di recuperare un ruolo nella politica fiorentina: indica linee politiche per la costruzione di un più forte potere principesco mediceo, nonostante la sua preferenza personale per la forma repubblicana. E questa sua riflessione sul principato, e sulla stessa possibilità di creare un principato «nuovo», è segnata da una specie di ansia critica, dalla continua verifica delle «difficoltà» che ineriscono ad ogni gestione del potere, delle minacce continue che gravano su di esso: del resto nella già ricordata lettera del 10 dicembre 1513 dice proprio che il suo «opuscolo» è rivolto a discutere «che cosa è principato, di quale spezie sono, come e’ si acquistono, come e’ si mantengono, perché e’ si perdono». Tutte le mosse del principe e dei singoli principi di cui in quest’opera si tratta sono minacciate dalla perdita: e un perdente è alla fine quello che viene indicato come il più capace tra i contemporanei, da imitare come modello, Cesare Borgia, crollato alla fine per un imperdonabile errore. Non uno scienziato della politica, Machiavelli (come afferma una lunga tradizione che continua a prolungarsi), ma un radiografo della catastrofe, impegnato ad indagare sulle «difficultà», gli «inconvenienti», gli «errori» che gravano sull’esercizio del potere e sul controllo delle istituzioni sul mondo: che cerca soluzioni per rispondere alla crisi, che a loro volta restano implicate nella crisi, incardinate dentro le condizioni della crisi stessa. In questo quadro egli offre tutta una serie di rilievi di quella che oggi chiameremmo antropologia o psicologia sociale, individuando gli effetti di una politica dell’immagine, dell’illusionismo, della virtualità, l’efficacia di un puro «mostrare», capace di catturare consenso sulla base di non coscienza, di passività, di pulsioni e desideri eterodiretti dei cittadinisudditi.
Per una serie di imprevedibili intrecci questo libretto è diventato vademecum della politica più spregiudicata, ferina, diabolica; ha finito per dare (o è sembrato farlo) indicazioni per la scalata al potere, per il suo più cinico esercizio. Forse oggi possiamo ripensarlo in una chiave diversa: usarlo non come manuale di comportamento politico (nel Novecento lo si è fatto spesso in maniera disastrosa, anche nella sinistra leninista e nei suoi deliranti prolungamenti), né come modello filosofico, ma come spinta verso una politica capace di farsi carico delle difficoltà, dei molteplici «inconvenienti» critici che gravano sull’equilibrio delle nostre società, capace di reagire alle derive morali, economiche, politiche, antropologiche, ecologiche in cui siamo presi. Una politica che sappia confrontarsi con l’«apparenza», per resistere alla sua risoluzione in pura immagine, negli effetti di comunicazione, in indifferente virtualità.

Corriere 23.1.13
Da casa ad Auschwitz. Il giovane Primo Levi alla prova del dolore
Il peso della vergogna e del tradimento
di Dario Fertilio


Prima di Se questo è un uomo e della Tregua. E naturalmente molto prima de I sommersi e i salvati. Esisteva allora un altro Primo Levi, poco più che ventenne, «bene intenzionato ma sprovveduto» — come scriverà di se stesso — e com'è ovvio ignaro della sua sorte. Quel Levi ci viene ora restituito dalle pagine di un libro che è insieme narrazione, testimonianza e soprattutto indagine psicologica. Il lungo viaggio di Primo Levi di cui è autore Frediano Sessi (lo pubblica la Marsilio) ci restituisce da un'angolazione diversa lo scrittore giovane, in procinto di diventare figura centrale, simbolica, della narrativa italiana sull'Olocausto.
Molto diverso dalla figura dolente, avvolta dall'aria tragica che conosciamo, questo Primo Levi di fine settembre 1943, spinto dal timore dei bombardamenti e delle leggi razziali, ma forse anche da un senso di noia e dal desiderio di avventura, sale con la sorella e la madre in un piccolo borgo della montagna valdostana, Amay, a quasi 1.500 metri. Sessi ripercorre passo passo questa storia sempre trascurata dai libri ufficiali e dalle biografie: lo ritrae solo, dopo che madre e sorella l'hanno lasciato, e attratto da una piccola banda partigiana che aveva eletto la sua base d'azione proprio ad Amay. Quindici uomini alla ricerca di armi che non sanno usare, impreparati e forse un po' velleitari, in cerca di collegamenti con la formazione di Giustizia e Libertà: poca cosa, agli occhi della polizia fascista. E tra questi Levi ha un ruolo ancor più marginale, dal momento che non partecipa nemmeno alle riunioni del comando. Eppure il caso, la fortuna (espressione che Primo Levi prediligeva) o il destino trasformano questa piccola avventura in una grande tragedia: un intricato gioco di tradimenti e spionaggi travolge la piccola banda cui si è unito Levi. Segue un arresto in blocco, ma poiché lui, Primo, viene riconosciuto come ebreo, gli si riserva prima il campo di concentramento di Fossoli e poi il trasferimento ad Auschwitz.
Non si ferma qui il «lungo viaggio» richiamato dal titolo: allude anche al percorso interiore che culminerà nell'esperienza estrema dello sterminio, nello stupore della sopravvivenza, nel ritorno a casa e poi nel tentativo di raccontare, di mettere sulla carta l'indicibile. Ma è un «viaggio» non politico, tutto spirituale e psicologico. Quel che ci viene rivelato è la natura dei fantasmi che tormenteranno lo scrittore fino alla morte, nel 1987, così tremendamente simile a un suicidio; la loro germinazione nel suo animo; gli effetti devastanti che essi alla lunga produrranno sulla sua psiche.
La «vergogna», anzitutto. Si manifesta la prima volta ancora lassù, sulle montagne di Amay, quando i capi della banda partigiana in cui ha trovato rifugio decidono l'esecuzione sommaria di due compagni giudicati indisciplinati e pericolosi. Da quel momento, almeno, il neo partigiano Levi smarrisce la sua innocenza: si chiederà per sempre se il male e la violenza attraversino le frontiera tra le ideologie e gli uomini; e soprattutto se lui stesso, con il suo silenzio, non si debba considerare moralmente responsabile di quel delitto. Tema che torna anche più tardi, quando Levi esce in missione notturna alla ricerca di armi, continuando a chiedersi se sia giusto sentirsi felice del successo, dal momento che quelle stesse armi serviranno ad uccidere sì i nemici, ma pur sempre uomini.
Oltre alla vergogna, il dolore: sperimentato fisicamente per la prima volta al momento dell'arresto, quando i fascisti lo prendono a schiaffi, e poi inestirpabile, sotto forma di rimorso per aver abbandonato la famiglia, di angoscia nell'isolamento del carcere e soprattutto al momento della morte dei compagni nel lager.
Ancora: la paura, così umana, ma anche «forza passiva, con cui uno scoglio sopporta l'urto dell'acqua di un torrente», e che lo spingerà a confessarsi «non un uomo forte».
E infine, intrecciato al tema della vergogna, c'è quello dell'amore: Sessi illumina con discrezione il rapporto fra Primo e la bella Vanda, conosciuta ad Amay. Con la ragazza sarà internato a Fossoli prima di proseguire per Auschwitz. Ma lei, in un disperato tentativo di evitare la deportazione, l'ultima notte cederà alla lusinghe di un suo carceriere: un «deragliamento» destinato a ripercuotersi anche su di lui.
Questo è il «viaggio». Naturale concluderlo nei campi infangati di Auschwitz: l'ultimo capitolo intitolato Chiedi alla terra sembra evocare il Chiedi alla polvere di John Fante, luogo «da cui non cresce nulla»

Corriere 23.1.13
La lotta al razzismo comincia nelle coscienze
Musica, teatro, dibattiti in ricordo dell'orrore
di Antonio Carioti


Il momento più solenne delle celebrazioni per il Giorno della Memoria della Shoah, che cade il 27 gennaio in ricordo della liberazione di Auschwitz, sarà martedì 29 gennaio al Quirinale, con il capo dello Stato Giorgio Napolitano, il presidente dell'Unione delle comunità ebraiche Renzo Gattegna, i ragazzi delle scuole e (in veste di conduttore) il direttore del «Corriere della Sera» Ferruccio de Bortoli. Quest'ultimo presenterà il Memoriale della Shoah Binario 21 di Milano (dal binario della Stazione Centrale da cui partivano i convogli degli ebrei deportati), che viene inaugurato domenica 27, con la presentazione del libro Testimonianza. Memoria della Shoah a Yad Vashem, cui partecipa il ministro Andrea Riccardi. Le manifestazioni però cominciano già oggi e domani. Stasera a Roma va in scena al Teatro Nazionale (ore 19) l'opera per bambini Brundibár di Hans Krása, rappresentata per la prima volta nel 1943 nel lager di Terežín. Domani, sempre nella capitale, si tengono l'incontro «I testimoni della memoria» e la tavola rotonda «Il coraggio di resistere», dedicata agli ebrei che si opposero alla persecuzione nazista: in entrambe le occasioni interviene il rabbino Israel Meir Lau, presidente dello Yad Vashem, memoriale israeliano della Shoah. A Milano invece l'appuntamento più rilevante è il 27 gennaio alla Sala Verdi del Conservatorio (ore 20): una serata di musiche, riflessioni e testimonianze dal titolo «Milano ricorda la Shoah». Va ricordato poi lo spettacolo Mr. Dago - I belong Nowhere! di Marco Bonini e Joe Bologna, dedicato alle persecuzioni antiebraiche, che viene presentato nei giorni 28 e 29 gennaio a Roma presso l'Istituto centrale per i beni sonori e audiovisivi. Quanto alle mostre, la più importante si apre oggi (fino all'11 febbraio) alla Reggia di Caserta, organizzata dal ministero dell'Interno d'intesa con il Centro di documentazione ebraica contemporanea (Cdec): il titolo è «1938-1945. La persecuzione degli ebrei in Italia. Documenti per una storia». Ma la soluzione finale non riguardava solo gli ebrei. Per questo al Museo Maxxi di Roma, il 27 gennaio, è in programma un'iniziativa con diversi eventi per ricordare il Porrajmos, cioè lo sterminio di oltre 500 mila persone di etnia rom compiuto dai nazisti.

Corriere 23.1.13
Bruning, l’ultimo cancelliere prima della vittoria di Hitler
risponde Sergio Romano

In un articolo dedicato a Mario Monti, il Financial Times paragona il capo del governo italiano a Heinrich Brüning, cancelliere tedesco tra il 1930 e il 1932. Tutti sappiamo che cosa successe in Germania dopo Brüning. Chi era esattamente lo statista tedesco? Ha un fondamento il paragone?
Laura Rota

Cara Signora,
Penso che Wolfgang Münchau, autore dell'articolo, abbia commesso un errore, ma credo di capire perché il confronto gli sia sembrato possibile e istruttivo. Brüning è una delle personalità più interessanti della Repubblica di Weimar. Quando fece la sua apparizione sulla scena politica tedesca, negli anni Venti, si era già fatto notare per i suoi studi, per il suo comportamento in guerra, per il suo impegno a favore dei veterani dopo la fine del conflitto. Era cattolico, aveva una formazione economica ed era stato eletto al Reichstag nelle file del Zentrum, una «democrazia cristiana» che era diventata una sorta di perno centrista in un quadro politico dominato dalla rivalità fra socialdemocratici e comunisti e da sanguinosi scontri di strada tra formazioni di destra e di sinistra.
Quando la crisi americana del 1929 mise in ginocchio l'economia tedesca (tre milioni di disoccupati agli inizi del 1930), Brüning dette l'impressione di avere le doti di carattere necessarie in circostanze difficili e idee molto chiare sulle soluzioni da adottare: lotta all'inflazione, aumento delle tasse, diminuzione della spesa pubblica. Piaceva agli industriali, ai militari e persino al capo dello Stato, il maresciallo Hindenburg, che lo chiamò a palazzo il 27 marzo per affidargli la formazione del governo. Brüning era pronto e accettò, ma chiese e ottenne che il maresciallo, per sostenere il governo, facesse uso, se necessario, dei poteri presidenziali previsti dalla Costituzione.
Nacque cosi in meno di 48 ore (un record nella storia della Repubblica di Weimar) un «governo del presidente» che non intendeva abbassarsi a patti e compromessi con le forze politiche. La legge di bilancio, ispirata dai principi già annunciati da Brüning, incontrò parecchi ostacoli, ma fu imposta con un decreto. E quando la maggioranza del Parlamento rifiutò di approvarla, il cancelliere decise lo scioglimento del Reichstag, ritardò per quanto possibile la data delle elezioni e governò nel frattempo in una sorta di apnea democratica. Le elezioni, nel settembre 1930, non dettero i risultati desiderati. Il voto indebolì i socialisti, rafforzò i comunisti e ridusse ulteriormente l'influenza dei partiti moderati. Brüning continuò a governare, ma in una situazione economica che andava continuamente deteriorandosi: 4.380.000 disoccupati nel dicembre del 1930, 5.615.000 alla fine del 1931. Il cancelliere ricorse ai decreti, ma nella primavera del 1932 perdette il sostegno di Hindenburg e fu costretto a dimettersi. Le nuove elezioni, il 31 gennaio 1933, aprirono le porte del Reichstag a 230 deputati del partito nazional-socialista.
Come vede, cara signora, le analogie sono suggestive, ma le differenze non sono meno importanti. Monti si muove in un contesto europeo completamente diverso da quello degli anni Trenta e ha un programma elettorale che ricorda in molti punti quello del Partito democratico di Bersani. Esistono partiti e movimenti antisistema, ma il nostro Hitler, se esiste, assomiglia a quello di Charlie Chaplin nel «Grande dittatore» piuttosto che all'originale in carne e ossa.

Corriere Roma 23.1.13
Memoria
Una settimana «ad alta voce» per non dimenticare l'orrore dell'Olocausto
Testimonanze, proiezioni, teatro, arte, letture, conferenze e presentazioni di libri
di Ariela Piattelli


Testimonianze, mattinate per le scuole, proiezioni, teatro, arte, letture collettive, conferenze e presentazioni di libri, per le celebrazioni del Giorno della Memoria, che anche quest'anno si terranno per tutta la settimana (e anche oltre). La Casa della Memoria e della Storia, la Sala Santa Rita, e il Nuovo Cinema Aquila offrono un programma intenso di iniziative (gli eventi sono ad ingresso libero fino ad esaurimento posti). Oggi alla Casa della Memoria, «Ad alta voce per non dimenticare» (dalle 15 alle 20): una maratona di lettura in cui verrà interpretato il libro Le donne di Ravensbrück. Testimonianze di deportate politiche italiane di Anna Maria Bruzzone e Lidia Beccaria Rolfi alla presenza di Mirella Stanzione, sopravvissuta di Ravensbrück, un campo «rieducazione» poi trasformato in campo di sterminio dove vennero uccise novantaduemila donne.
Domani alle 17 sarà presentato il volume «L'ultimo treno. Racconti del viaggio verso il lager» di Carlo Greppi, in cui l'autore ricostruisce, attraverso le voci di centoventi sopravvissuti, l'esperienza drammatica dei deportati che, tra il 1943 e il 1945, partivano da diverse stazioni dell'Italia centro-settentrionale verso ignota destinazione. Sabato e lunedì, sempre alla Casa della Memoria, tre proiezioni: «Tre figliole» di Rudi Assuntino, che racconta la storia del polacco Mordechaj Gebirtig, uno tra più importanti poeti yiddish e autore di musica popolare, il «Dottor Korczak» di Andrzej Wajda, e il documentario «Io c'ero», che raccoglie le testimonianze dei sopravvissuti allo sterminio nazista. Alla Sala Santa Rita fino al 1 febbraio ci sarà la mostra «Abbecedario della Memoria» del pittore romano Giancarlino, mentre al Cinema Nuovo Aquila il 27 e il 28 gennaio sarà presentato il film «In Darkness. Il coraggio di un uomo» di Agnieszka Holland. Oggi alle 10 presso la Sala Alessandrina dell'Archivio di Stato di Roma viene presentato il volume digitale «Le leggi razziali e la persecuzione degli ebrei a Roma, 1938-1945» a cura di Silvia Haia Antonucci, Pierina Ferrara, Marco Folin e Manola Ida Venzo. Domani alle 21, presso il Teatro in Portico, si terrà il concerto di musiche ebraiche del Coro «Hakol» intitolato «Ma come possiamo cantare…?». Domenica sarà un giorno dedicato alla terza generazione dopo l'Olocausto al Centro Ebraico Italiano «Il Pitigliani»: «Memorie di famiglia: i giovani tramandano la storia dei nonni», un evento che prevede letture con accompagnamento musicale (ore 11). Anche il Museo MAXXI celebra il Giorno della Memoria con la mostra «Dosta! Ricordo del Porrajmos» e un concerto dell'Orchestra europea della pace, per ricordare lo sterminio di oltre mezzo milione di rom.

Corriere 23.1.13
Quella strana «sinistra di destra»
Il paradosso di Sansonetti sui postcomunisti fa sparire il Psi
di Pierluigi Battista


Si conoscevano molte sinistre. Quella riformista e quella rivoluzionaria, quella massimalista e quella moderata, quella comunista e quella socialista, anarchica, radicale, extraparlamentare, cristiana, ecologista. Ma ce n'è un'altra, sinora poco conosciuta, indicata nel titolo di un nuovo libro scritto da Piero Sansonetti: La sinistra è di destra (Rizzoli, pp. 232, 11). Non la destra della sinistra. No, proprio la sinistra di destra. Che si dice di sinistra, ma fa politiche di destra. Anche quando potrebbe vincere, dice Sansonetti. Ma non lo fa, per timidezza e subalternità culturale.
Il libro di Sansonetti si muove tra due territori, anzi tre. Quello della memoria personale di giornalista di sinistra che per anni ha lavorato e ricoperto ruoli di responsabilità nel giornale organo del Pci e poi del Pds, «l'Unità». Quello storico-politico in senso stretto, con particolare attenzione alle vicende che hanno caratterizzato la sinistra post comunista nella Seconda Repubblica. E quello teorico, nel senso del giudizio che viene dato sulla storia complessiva della sinistra italiana.
Sul piano teorico, la sinistra descritta da Sansonetti, quella attuale, è un oggetto misterioso: avrebbe la possibilità di sfondare e non lo fa. Ha predicato per decenni la fine del capitalismo, una società diversa da quella retta dai meccanismi del mercato. E ora che il capitalismo e il mercato boccheggiano in una crisi radicale, ora che mostra la corda anche il «liberismo», una creatura che in Sansonetti e in tanti altri detrattori si trasforma in una specie di mostro culturale e nel responsabile di ogni nefandezza finanziaria, comprese quelle degli Stati, la sinistra non si mostra desiderosa di assestare la spallata finale. Anzi, diventa sempre più subalterna alle logiche «liberiste». Ecco una ragione per cui, secondo Sansonetti, la sinistra italiana d'oggi è irrimediabilmente di destra.
L'altro motivo per cui la sinistra sarebbe abbastanza e troppo di destra risiede nella sua storia degli ultimi vent'anni, e precisamente nella seconda metà degli anni Novanta, quando accede al governo dell'Italia nel pieno della Seconda Repubblica. Secondo Sansonetti la sinistra al governo fa tre cose terribili per una sinistra al governo. La prima: fa la guerra del Kosovo, venendo meno alla sua anima pacifista e ignorando l'articolo 11 della nostra Costituzione. La seconda: fa una politica sul mercato del lavoro subalterna alle logiche del mercato e con alcune leggi sulla «flessibilità» spalanca la porta del precariato, del lavoro incerto, della disponibilità «padronale» sui giovani alla ricerca di un'occupazione. La terza: avvia una politica sull'immigrazione di tipo difensivo, instaurando una distinzione tra «clandestino» e «regolare» a suo avviso foriera di sviluppi negativi, fino alla promulgazione della legge detta Bossi-Fini. Solo che, obietta Piero Sansonetti, sia Bossi che Fini sono organicamente, geneticamente, culturalmente di destra, mentre la sinistra non dovrebbe essere di destra. Ma essendosi comportata come la destra, dunque non sarebbe così arbitrario ed esagerato tornare al titolo del libro: La sinistra è di destra.
Poi c'è il piano più personale e più autobiografico. Si presenta sul palcoscenico di Sansonetti tutta la galleria dei politici del Pci e dei partiti che con la fine del Pci hanno raccolto la sua eredità. Sono i dirigenti di partito che appartengono a generazioni diverse, dai «vecchi» Gerardo Chiaromonte ed Emanuele Macaluso, fino alla generazione dei D'Alema e dei Veltroni che dirigono «l'Unità» in anni diversi e portano la loro impronta sul loro giornale, che è anche il giornale organo del partito.
Il racconto di Sansonetti non è affatto neutro e spassionato. Anzi. Prevalgono antipatie, idiosincrasie, affinità e tensioni caratteriali. Quello di Walter Veltroni è il ritratto più severo. Quello di Massimo D'Alema, sia pur bonariamente critico, è quello più indulgente. Ma al di là dei dati personali, emerge dalla narrazione di Sansonetti una continuità culturale tra il Pci da lui conosciuto e le formazioni politiche che sono nate sulle ceneri del Pci, che fa pronunciare all'autore una sentenza molto categoricamente liquidatoria: la sinistra italiana è ancora succube di tic culturali di tipo stalinista, che si traducono in censure, modelli autoritari, tentazioni giustizialiste e in una complessiva incapacità di fare seriamente e profondamente i conti con la storia del comunismo.
Una critica molto radicale, che però mette in luce il limite maggiore delle riflessioni di Sansonetti: quello di essere formulate in un ambito culturale, politico ed esistenziale di tipo esclusivamente comunista o postcomunista. Sansonetti potrebbe obiettare che quella è esattamente la sinistra che lui ha conosciuto. È vero. Ma non tutta la sinistra è riducibile alla sinistra che Sansonetti ha conosciuto.
Ci sono pagine dedicate a Craxi e al trattamento feroce che l'opinione influenzata dal Pci riservò al leader del riformismo socialista. Ma è solo uno spicchio di attenzione verso una sinistra cresciuta in una dimensione storica decisamente polemica nei confronti del comunismo e che non avrebbe esitato nemmeno a definirsi francamente anticomunista. È un tassello importante nel mosaico della sinistra, tra l'altro bollato dalla sinistra di marca Pci come una sinistra «di destra». Ritorna questa definizione nel libro di Sansonetti, stavolta a parti rovesciate. Un destino. E un paradosso, per una sinistra che non riesce ad essere di sinistra.

Corriere 23.1.13
Mozart perché? Un breviario per scoprire il genio delle note
di Giuseppina Manin


Perché Mozart è tanto famoso? La domanda 111, l'ultima di un volumetto che tante ne pone e a tante cerca di dar risposta, scocca all'ultima pagina di Piacere, Mozart!, breviario di curiosità sul genio dei geni della musica, messo a punto dall'Edt in collaborazione con il Mozarteum di Salisburgo (pp. 208, 14,50).
Perché, dunque, Amadeus è così noto? Perché, al di là dell'ovvia fama musicale, quel ragazzino imparruccato, quel giovane uomo dallo sguardo ora beffardo ora melanconico a seconda dei ritratti, resta ancora oggi l'oscuro oggetto di tanti interrogativi e misteri? Sintetica e un po' laconica la risposta del libro: «Perché è riuscito ad avere successo in stili e generi differenti e insieme a creare uno stile proprio, per la sua immensa produttività, per esser stato bambino prodigio ed esser morto giovane, a soli 35 anni».
Tutto vero, ma non abbastanza. La risposta 111 non soddisfa. O meglio va integrata con le 110 precedenti. Che, raggruppate per capitoli, cercano di indagare sulla sua vita pubblica e privata, sul suo aspetto fisico e sul suo carattere, sui suoi rapporti complessi con la famiglia, conflittuali con l'autorità, disastrosi con il denaro, birichini con le donne.
Una sfilza di interrogativi seri e semiseri, un puzzle di informazioni autorevoli e scherzose per ricostruire un «proprio» Mozart ideale: inquieto, ribelle, fragile, vitalissimo, giocoso. Divino. Tra le domande più curiose, la numero 9: cosa faceva Amadeus da bambino? Giocava con la musica, naturalmente. Jonas Schachtner, amico dei Mozart, racconta che per quel bimbetto «qualsiasi attività diventava interessante solo se accompagnata da sottofondo musicale». Ma Wolfy amava anche tirar di scherma, era dotato per il disegno e le lingue straniere. Era abile nel gioco delle carte ed esperto ballerino. Come tale si esibì per la prima volta in pubblico a 5 anni in onore dell'arcivescovo di Salisburgo von Schrattenbach, generoso datore di lavoro di suo padre Leopold.
Meno lieti, per Amadeus, i rapporti con il successore, von Colloredo. La domanda 41: perché volle andarsene da Salisburgo? Mette in luce l'avversione profonda del compositore per quel signore dispotico che lo assunse come Konzertmeister ma «lo trattava come un servitore, facendolo pranzare in cucina». A sancire la rottura il traumatico Arschtritt, il calcio nel sedere con cui il conte-arcivescovo lo cacciò dal palazzo. Furioso Amadeus scrive al padre: «Un fatto del genere significa che Salisburgo non fa più per me, a meno che non mi si offra una buona occasione per restituire al signor conte un calcio in culo, dovesse anche avvenire sulla pubblica via».
Quanto alla tanto chiacchierata «rivalità» con Antonio Salieri, cardine del celebre film di Milos Forman, la risposta alla domanda 52 è categorica: «pura leggenda». Tra le prove addotte: Salieri ebbe a sua volta grandissimo successo e Mozart scelse proprio lui come insegnante per suo figlio Franz.
Sorprendente, infine, il capitolo «Mozart e le donne»: le prime esperienze sessuali con la cuginetta Maria Anna, i legami amorosi con le sorelle Weber, prima innamorato di Aloisia, poi di Constanze, che sposò. Anche perché la futura suocera gli aveva fatto firmare un patto con cui si impegnava, non avesse tenuto fede entro tre anni, a pagare a Constanze una rendita di 900 fiorini annui. La portò all'altare, la amò, ma non le fu fedele. Innumerevoli pare le sue relazioni: allieve, cantanti, baronesse… «Le sue avventure con le cameriere», le definiva ironica Constanze. Che d'altra parte non vi dava troppo peso. «Era così amabile — scrive — che non era possibile restare arrabbiati con lui. Gli si doveva di nuovo voler bene».

Corriere 23.1.13
Il classico

Esiste ciò che non è scientificamente misurabile? La risposta affermativa di Henri Bergson (foto) quando affrontò il tema Ipnosi e fantasmi (ora pubblicato per la prima volta in italiano dalle Edizioni di Storia e Letteratura, pp. 74, 9,50) provocò violente reazioni tra gli scienziati di allora. Ma avrebbe avuto in seguito importanti sviluppi nella sua filosofia. (pi.d.)

Repubblica 23.1.13
Il filosofo spagnolo studiò per anni l’eroe di Cervantes
Ora un libro raccoglie i suoi saggi mai tradotti
Siamo tutti Don Chisciotte
Unamuno e l’Hidalgo, il nostro viaggio verso la saggezza della follia
di Roberto Esposito


Quando, il 12 ottobre 1936, alla cerimonia di apertura dell’anno accademico dell’Università di Salamanca, un generale franchista pronuncia in maniera sprezzante il motto della Legione Spagnola «Viva la morte», Miguel de Unamuno, rettore di quell’Università, gli risponde a muso duro «Viva la vita». Così, dopo essersi opposto alla monarchia, e poi alla dittatura di Primo de Rivera, pagando queste scelte con l’esilio, egli rompe anche con il regime cui in un primo momento si era avvicinato. Ma tale riferimento alla vita, al di là del significato politico che assumeva in quel contesto, può essere assunto come l’epicentro semantico dell’intera attività di uno dei più significativi intellettuali europei del primo Novecento.
Narratore, drammaturgo, poeta, autore di testi filosofici come Del sentimento tragico della vita e Agonia del cristianesimo, egli è noto soprattutto per l’appassionato commento al Don Chisciotte, considerato il suo capolavoro. Mancava, però, ancora un volume che raccogliesse i suoi interventi, scritti lungo quasi un quarantennio, sul grande libro di Cervantes che egli stesso considerava come la Bibbia nazionale degli spagnoli.
Questo vuoto è ora riempito dalla pubblicazione, egregiamente curata da Enrico Lodi per l’editore Medusa, di una ampia scelta di suoi saggi e articoli con il titolo In viaggio con Don Chisciotte.
Essa comprende un testo, come quasi tutti gli altri, mai tradotto finora, Il cavaliere dalla triste figura. Saggio iconologico — in cui l’autore confronta le descrizioni di Don Chisciotte presenti nel romanzo con i ritratti che i pittori gli hanno poi dedicato. Già in esso si profilano i tratti di un’interpretazione magistrale, che oltrepassa i confini tradizionali dell’ermeneutica, per configurarsi come un vero corpo a corpo con il proprio oggetto d’analisi. Egli stesso sempre in lotta con se stesso, diviso tra ricerca della concretezza ed aspirazione all’universale, Unamuno proietta questa contraddizione sul Cavaliere Solitario, facendone un simbolo vivente non solo dell’anima spagnola, ma anche dell’uomo contemporaneo, sospeso tra angoscia e fede. Contro l’accademismo erudito di quelli che chiama “masoreti” — come i rabbini interpreti delle Sacre Scritture persi dietro minuziose ed inutili ricerche filologiche — Unamuno cerca la perenne attualità del Chisciotte nel contrasto che lo oppone a se stesso, sdoppiando la sua esistenza tra la saggezza inerte di Alonso Quijano e la follia utopica del suo stralunato alter ego.
Contrariamente ai buoni propositi del primo, è proprio lo sguardo stravolto e allucinato del secondo a gettare un inedito fascio di luce sulle cose, riscattandole dalla loro insignificanza. Solo dimenticando la propria identità, sacrificata alla più sublime delle follie, egli ritrova il significato profondo della vita aldilà della linea del nulla che, prima o poi, è destinata ad avvolgerci tutti. È perciò che la sua figura allampanata, i suoi baffi spioventi, il suo naso aquilino, tutt’altro che emblemi luttuosi, traducono una estrema energia vitale. Lo stesso culto della morte, che si è voluto vedere nell’anima spagnola, piuttosto che attestare un distacco nei confronti della vita, ne determina la continua ricarica. Come appare dal sorriso tragico dell’hidalgo, quella malinconia non è che la faccia in ombra di una ricerca di immortalità destinata ad esser sempre delusa, ma perciò anche rinnovata. In questo senso Unamuno può richiamare perfino l’idea, diversamente declinata da Spinoza e Nietzsche, che la vita ha una inestinguibile tendenza a perseverare nel proprio stato ed anzi a potenziarsi. Nonostante le sconfitte che sperimenta, Chisciotte incarna questa potenza storica, capace di restituire alla Spagna un primato spirituale che da secoli ha perduto. Per cogliere il senso di tale affermazione, che Unamuno contrappone al parere di chi ne sottolinea la decadenza culturale e civile, bisogna attivare una doppia prospettiva, di tipo teoretico ed esegetico. Intanto intendere per storia non la semplice successione dei fatti, situati in maniera indifferenziata nello spazio e nel tempo, ma quegli eventi, anche di ordine intellettuale, capaci di modificare le coscienze lungo il filo delle generazioni. Qui Unamuno si rifà alla distinzione di Kierkegaard tra semplice memoria e ricordo di qualcosa che resta nel tempo. Si può avere memoria di un episodio senza ricordarne il significato pregnante.
L’altro presupposto, attuale al punto di richiamare una metodologia strutturalista, sta nel privilegio assoluto del romanzo rispetto al suo autore. La tesi di Unamuno è che Don Chisciotte sia molto più avanti di Cervantes. Che, una volta pubblicato, la sua proprietà sia sfilata di mano all’autore, per appartenere al suo popolo e all’umanità intera. Come la Bibbia, o l’Iliade, il Chisciotte ha una vita autonoma che sta appunto nella durata dei suoi effetti storici. Da questo lato Unamuno tocca un vertice della riflessione contemporanea. La vera opera d’arte, come quella del pensiero, è sempre impersonale, di nessuno perché di tutti. La genialità di Cervantes sta nel dileguarsi dietro la propria opera, mandando il suo protagonista avanti, nel tempo e nello spazio, fino a naufragare nell’oceano dell’impossibile. Ma non avevano fatto naufragio, in questo senso, anche i grandi condottieri spagnoli, da Cortes a Pizarro, quando, perdendo il contatto con la propria terra, avevano scoperto nuovi mondi?

Repubblica 23.1.13
Se avessimo il coraggio di uscire dal gregge
di Miguel De Unamuno


Durante la stagione in cui Cervantes stette sotto le ali spirituali della sua patria, e fu da essa incubato, nella sua anima si formò Don Chisciotte, ovvero il suo popolo creò in lui Don Chisciotte, e così questi venne al mondo, abbandonò Cervantes al suo popolo, e Cervantes tornò a essere il povero scrittore girovago, preda di tutte le preoccupazioni letterarie del suo tempo. E così si spiegano molte cose e, tra le altre, la debolezza del senso critico di Cervantes e la povertà dei suoi giudizi letterari (...).
Tutto ciò che nel Chisciotte è critica letteraria è quanto di più povero e grossolano possa darsi e tradisce una vera e propria saturazione di senso comune.
Incredibile come un uomo così assennato e pieno di luoghi comuni, e della più grande grossolanità immaginabile, com’era Cervantes, abbia potuto generare un cavaliere così folle e così colmo di senso proprio.
Cervantes non ebbe altra scelta che consegnarci un folle per poter incarnare in lui l’eternità e la grandezza del suo popolo. E il fatto è che molte volte, quando l’intimo dell’intimo delle nostre viscere, quando l’umanità eterna che dorme nel profondo del nostro seno spirituale ci affiora nell’anima gridando i propri aneliti, allora o sembriamo pazzi o fingiamo di esserlo affinché ci venga perdonato il nostro eroismo. Migliaia di volte lo scrittore ricorre all’espediente di dire in tono scherzoso ciò che sente molto seriamente, o mette in scena un pazzo per fargli dire o fare quello che lui direbbe o farebbe molto volentieri e convinto, se solo la miserevole condizione di gregge degli uomini non li portasse a voler annullare chi esce dal recinto da cui vorrebbero uscire tutti, se solo avessero il valore o il coraggio per farlo (...).
Vedete quindi cosa c’è di geniale in Cervantes, e qual è la relazione intima che intercorre tra lui e il suo Don Chisciotte. E tutto questo dovrebbe spingerci ad abbandonare il cervantismo in favore del chisciottismo, e a curarci più di Don Chisciotte che non di Cervantes. Dio non ci ha dato Cervantes se non perché scrivesse il Chisciotte, e mi sembra che sarebbe stato un vantaggio non conoscere nemmeno il nome dell’autore, essendo il nostro libro un’opera anonima come lo sono il
Romancero e, lo pensiamo in molti, l’Iliade. E dirò di più: scriverò un saggio in cui sostengo che non sia esistito Cervantes e sì, invece, Don Chisciotte. E visto che Cervantes non esiste più e che, al contrario, continua a vivere Don Chisciotte, dovremmo tutti lasciare il morto per seguire il vivo, abbandonare Cervantes e accompagnare Don Chisciotte.
(Traduzione di Enrico Lodi) © 2013 by Edizioni Medusa)

Repubblica 23.1.13
Il mercato comune delle divinità
In un convegno a Roma la storia degli “scambi” degli dèi
di Maurizio Bettini


Il viaggiatore che nei primi secoli della nostra era si fosse recato nel santuario di Augusta Treverorum, l’antica Treviri, avrebbe incontrato una divinità dal nome curioso:
«Vertumnus sive Pisintus», Vertumno ossia Pisinto. Chi era costui? Vertumnus era una divinità venerata nel cuore più antico di Roma, un dio specialista nella metamorfosi. «La mia natura si adatta a qualsiasi sembianza », gli faceva dire il poeta Properzio, «mutami in ciò che vuoi, sarò elegante!» Ma che ci faceva un dio così romano nell’odierno Land della Renania-Palatinato? E chi era questo Pisintus che costituiva adesso l’altra faccia della sua identità? Un dio gallico, con cui il romano Vertumnus era stato identificato per significare la fusione fra popolazione locale e coloni romani, come ci ha efficacemente spiegato John Scheid: quasi che oltre alla lingua e ai costumi, le due popolazioni avessero miscelato fra loro anche le proprie divinità.
Nell’antichità, infatti, il fenomeno di identificare o far corrispondere fra loro un dio “nostro” e un dio “altrui” era comunissimo. Questa costituisce anzi una delle maggiori differenze che intercorrono fra le religioni classiche, che erano politeistiche, e quelle monoteistiche. Nel mondo ebraico, cristiano o islamico non è possibile identificare il proprio dio con quello degli altri. Il dio altrui può solo essere o un falso dio o un demone — solo il “mio” dio è quello vero. «Non avrai altro dio all’infuori di me», recitavano del resto le tavole della legge, il dio dei monoteismi è un dio esclusivo. Da qui le tante persecuzioni e guerre di religione che hanno insanguinato non solo i paesi del Mediterraneo, ma anche terre assai più lontane e innocenti. Ora, anche gli antichi si
uccidevano fra loro, come sappiamo, però non per affermare che solo il “mio” dio è quello giusto. Ciascuna popolazione era pronta a riconoscere l’esistenza e la dignità degli dèi altrui, e anzi, era pronta a fare anche di più.
Di questo si parlerà al convegno “Dieux des Grecs — Dieux des Romains. Panthéons en dialogue à travers l’histoire et l’historiographie”, organizzato da un gruppo di università ed enti di ricerca francesi, belgi e italiani, all’Accademia Belgica, a Roma da domani.
In primo luogo, dunque, Greci e Romani potevano importare divinità di altri popoli, e dedicare loro culti importanti. Durante la seconda guerra Punica, quando le cose andavano assai male per i Romani, i Libri Sibillini consigliarono di far venire da Pessinunte, in Frigia, una divinità chiamata la Madre degli dèi. Il misterioso simulacro era costituito da una pietra nera, di forma conica, e fu installato in un tempio sul Palatino. Il culto della Magna Mater, come i Romani la chiamarono, era officiato alla maniera frigia da sacerdoti non solo variopinti, ma anche evirati, i Galli: il cui comportamento sguaiato doveva certo contrastare con i costumi tradizionali della città. A suo tempo, però, anche ad Atene erano giunti dall’Asia minore divinità come Bendis e Sabazio. Si trattava forse di un fenomeno diciamo recente, quando ormai le città antiche stavano abbandonando la (presunta) purezza delle origini? Niente affatto. Roma era ancora ai suoi inizi quando aveva fatto proprie divinità greche come Apollo o Herakles, che i Romani chiamarono Hercules.
Il fatto è che il mondo antico ha sempre realizzato il “mercato comune” del divino, una pratica capace di rafforzare i legami fra le popolazioni mettendo in relazione costumi e linguaggi differenti. Anzi, piuttosto che a un mercato, metafora oggi abusata, il rapporto che i politeisti avevano con le proprie divinità potremmo paragonarlo a un “dialogo”. Gli dèi degli antichi dialogavano fra loro non solo da una sponda all’altra del Mediterraneo, ma anche più in là, nel cuore dell’Europa, in Britannia, in Asia. E come in ogni dialogo, quando si vuole “capirsi” pur se si parlano lingue diverse, gli dèi antichi potevano anche “tradursi” l’uno nell’altro.
Dunque il dio cittadino, il Vertumnus celebrato da Properzio e Ovidio, dalle parti di Treviri era stato “tradotto” nel locale Pisintus. Questa stessa metafora, la “traduzione” degli dèi, potremmo però impiegarla anche per descrivere casi assai più noti di identificazione fra divinità. Il romano Giove non è forse una “traduzione” del greco Zeus, Giunone non lo è forse di Hera, e così via? Certo, come sempre accade con la traduzione, nel passaggio da una lingua all’altra qualcosa si perde e qualcosa si aggiunge, per cui il risultato finale non potrà essere uguale a quello di partenza. Giunone dunque non è affatto “la stessa cosa” di Hera, ma ne costituisce la traduzione in un nuovo contesto culturale: diverso era il modo di onorare la dea in Grecia e a Roma, diverse ne erano le prerogative. Ciò non toglie però che alla sposa di Zeus i poeti romani davano il nome di Giunone, mentre gli storici greci non esitarono a chiamare Hera la divinità che i Romani onoravano sull’Aventino.
Per comprendere ciò che ci separa dal mondo antico, se non ciò che abbiamo perduto con la sua fine, è però sufficiente evocare ancora una volta il nostro duplice dio di Treviri. Quando i Romani giunsero in quelle terre per fondare la loro colonia, qualcuno, di fronte a una divinità locale chiamata Pisintus, pensò semplicemente di farla corrispondere a una delle sue, Vertumnus. Al contrario il missionario cristiano, giunto nello stesso luogo, di fronte a Pisintus o a Vertumnus che fosse, non avrebbe esitato a decretare la sua appartenenza al novero degli «dèi falsi e bugiardi».

La Stampa Tuttoscienze 23.1.13
Nature

Gli occhi imparano a vedere già nel feto

Gli occhi imparano a vedere già durante lo sviluppo del feto e l’esposizione alla luce durante la gravidanza è cruciale per un sano sviluppo del­l’occhio: la scoperta, pubblicata su «Nature», si deve a un gruppo di ricercatori americani del Cin­cinnati Children’s Hospital Medical Center e del­ l’Università della California a San Francisco. Se­condo gli autori, la scoperta aiuta a comprendere meglio alcune malattie dell’occhio e in particolare una malattia chiamata «retinopatia del prema­turo» che rende cechi i bambini nati prematuri. «Ora cambia in modo fondamentale la nostra comprensione di come si sviluppa la retina, ­ ha osservato uno degli autori, Richard Lang, dell’Ho­spital Medical Center­. Abbiamo identificato un meccanismo di risposta alla luce legato al nume­ro dei neuroni che controllano la retina. Il mecca­nismo incide sullo sviluppo della vascolarizzazio­ne, vale a dire dei vasi sanguigni che irrorano l’oc­chio, ed è importante perchè molti disturbi di­pendono proprio dalla vascolarizzazione». Per osservare gli effetti della luce nel feto il team ha condotto una serie di test sui topi: gli animali so­no stati divisi in due gruppi e seguiti da inizio a fine gestazione. Alcuni sono stati allevati al buio, altri in un normale ciclo giorno­-notte. Si è così no­tato che le particelle della luce ­ i fotoni ­ attivano una proteina, la melanopsina, direttamente nel feto, avviando il normale sviluppo dei vasi san­guigni degli occhi e dei neuroni della retina: fon­damentale è che i fotoni stessi entri nel corpo del­ la madre negli ultimi mesi di gestazione.