venerdì 25 gennaio 2013

l’Unità 25.1.13
Oltre la crisi e l’austerità
Vale 60 miliardi il piano della Cgil
Si apre oggi la conferenza di programma
Si punta su innovazione e beni comuni per far tornare la disoccupazione al 7%
Le proposte: mutualizzazione europea del 20 per cento del debito e Banca nazionale di investimento
di Massimo Franchi


Un piano di legislatura ricordando Di Vittorio ma puntando ad un nuovo modello economico che riporti finalmente al centro della politica il lavoro. Figlio di un dibattito interno e territoriale partito già nello scorso giugno, il Piano del lavoro che questa mattina la Cgil presenta al PalaLottomatica di Roma ha un obiettivo ambizioso: «ridurre il tasso di disoccupazione nel 2015 al livello pre-crisi: il 7%» e «piena, buona e sicura occupazione». Per farlo servono «risorse per 50-60 miliardi in un triennio», reperibili grazie ad «una riforma del sistema fiscale» (40 miliardi), «la riduzione dei costi della politica e gli sprechi di spesa pubblica» (20 miliardi), «il riordino delle agevolazioni alle imprese» (10 miliardi) e «l’utilizzo di una parte delle risorse delle fondazioni bancarie e dei fondi pensione.
Sebbene il nome voglia rendere merito all’espressione scelta da Giuseppe Di Vittorio nel II congresso confederale di Genova del 1949 (e i cui principi si manifestarono negli anni sessanta), la Cgil guarda al futuro. Il futuro più prossimo, con le elezioni politiche che arrivano fra meno di un mese e che la portano a proporre al centrosinistra (oggi interverranno, in ordine cronologico, il ministro Fabrizio Barca, Nichi Vendola, Pier Luigi Bersani, Giuliano Amato) le sue proposte economiche. E il futuro più lungo, quello su 3-5 anni che fermi il declino del Paese, l’austerità imperante e punti ad una crescita che ridia lavoro ad un’Italia sempre più scoraggiata.
SEI MESI DI CONFRONTO
Il testo finale che sarà presentato questa mattina con la relazione di Susanna Camusso è stato limato fino alle ultime ore. È figlio di un dibatitto lungo sei mesi con centinaia di riunioni con tutte le strutture, territoriali e centrali. Un lavoro capillare, coordinato da Gaetano Sateriale che andrà avanti: il testo è infatti aperto al confronto fino al prossimo Congresso confederale del 2014.
PAROLE CHIAVE
Se le proposte, gli strumenti, le coperture delle risorse necessarie potranno variare, il cuore del documento si basa su concetti e parole chiave su cui la Cgil ha deciso di puntare. Beni comuni, innovazione e condivisione territoriale sono i principali. L’attenzione ai beni comuni è centrale nell’approccio di Corso Italia: «la prima grande ricchezza dell’Italia è se stessa, il suo territorio, la sua cultura, il suo patrimonio storico e artistico», si legge in un passaggio. La seconda parola (innovazione) è il leit motiv di ogni proposta: la Cgil contesta e vuole affrancarsi dall’immagine di un sindacato ancorato al passato e che dice sempre “No” (come sostiene Mario Monti) e punta sul mettere in rete formazione e tecnologia. In una delle slide che arricchisce il testo si evidenzia come l’Italia nell’ultimo decennio sia fanalino di coda nell’economia ad alta intensità e della conoscenza. Nel nostro Paese la quota di valore aggiunto di questo settore è solo di 32,5% e occupa solo il 20% dei lavoratori totali, nonostante una produttività doppia rispetto agli altri settori. La Cgil punta ad invertire questi numeri mettendo in rete, grazie a politiche orizzontali, formazione, Università (e quindi tecnologia), imprese e territori. Quest’ultima è la terza parola chiave del Piano del lavoro: lo Stato centrale deve definire solo le linee di indirizzo e le risorse da utilizzare, tutto il resto è demandato ai territori (Regioni, Comuni, parti sociali locali): «Il territorio deve ritornare al centro dello sviluppo: il lavoro si lega necessariamente al welfare, ai sistemi territoriali, per questo la contrattazione sociale nel territorio e il confronto sindacale con Regioni e Comuni può diventare il momento di attivazione, di adattamento e di verifica dei Progetti operativi per la crescita, sostegno delle Piccole e medie imprese».
NUOVO RUOLO DEL PUBBLICO
Il Piano per il lavoro è molto lontano dai tanti progetti di intervento pubblico diretto in economia che si sono succeduti negli anni. La Cgil punta invece a definire un «nuovo ruolo del settore pubblico», partendo dal presupposto che la crescita si può ottenere solo agendo sul lato della domanda: aumentando investimenti e consumi. Per ottenerli il ruolo delle imprese e dei privati è complementare a quello statale. Le politiche di crescita ed innovazione devono essere co-finanziati, lasciando però al pubblico il ruolo della gestione. Per il resto si punta Progetti operativi di politica industriale attiva e “orizzontale” e che punti «alla valorizzazione del patrimonio artistico e culturale, produzioni verdi e blu, edilizia antisisimica, reti digitali, Trasporto pubblico) e ai servizi pubblici (tutela del territorio, ciclo dei rifiuti, riassetto idrogeologico).
PIANO STRAORDINARIO PER IL SUD
L’unico punto in cui il ruolo dello Stato è diretto è quello del Piano straordinario di creazione diretta di lavoro. Per «fermare il declino» specie delle parti più deboli del Paese la Cgil propone un piano straordinario di creazione diretta dell’occupazione, in particolare nel Mezzogiorno, attraverso una grande iniezione di investimenti pubblici in beni comuni (ambiente, energia, infrastrutture, conoscenza, welfare). A questo progetto vengono destinati tra i 15 e 20 miliardi, finanziati però in gran parte dai Fondi europei, già ben utilizzati dal ministro Fabrizio Barca, proprio per questo invitato a parlare oggi.
PATRIMONIALE PER REDISTRIBUIRE
Dal 2009 la patrimoniale è un cavallo di battaglia della Cgil. L’idea viene riproposta nel Piano per il lavoro, ma la sua implementazione è rimodulata. A differenza di quello che molti sostengono, la Cgil non vuole una tassazione straordinaria: si prevede infatti una Imposta strutturale sulle grandi ricchezze e i grandi patrimoni. Lo scopo non è aumentare il carico fiscale, bensì redistribuirlo e ridurre la parte sul lavoro (la più alta in Europa con il 43%) per ridare fiato a imprese e lavoratori e rilanciare i consumi.
MUTUALIZZARE IL DEBITO CON BCE
A conferma che la Cgil è cosciente dei vincoli di bilancio che la situazione internazionale impone, arriva la proposta forse più innovativa. Il Fiscal Compact sottoscritto anche dall’Italia imporrebbe almeno 45 miliardi di tagli al debito ogni anno. Per Corso Italia è una quantità insostenibile per far ripartire il Paese. E quindi ecco la proposta: il governo italiano si faccia promotore, assieme ad altri Paesi contrari all’austerità di bilancio, di una richiesta alla Bce di mutualizzazione del 20 per cento dei debiti pubblici europei. La Banca europea garantirebbe questa quota e in questo modo la riduzione del debito risulterebbe molto più sopportabile.
BANCA NAZIONALE DI INVESTIMENTO
Accanto ad una Cassa deposito e prestiti che investa realmente e direttamente nel salvataggio delle industrie in crisi (come anticipato da Susanna Camusso a l’Unità in agosto) e che finanzi «progetti di sviluppo ed infrastrutturali», il Piano per il lavoro introduce un nuovo strumento: la Banca nazionale di investimento. Sull’esempio di altri Paesi, si tratta di un fondo a controllo pubblico ma aperto ai privati per finanziare filiere di innovazione e progetti sui beni comuni. Potrà emettere titoli e sarà tutto il contrario di una banca d’affari: perseguirà il bene comune.
PIANO DEL WELFARE
Altro punto molto importante è il piano per un Nuovo Welfare a cui la Cgil dedica fra i 10 e i 15 miliardi. Con le indicazioni sulla sanità già anticipate nel convegno di martedì, il piano punta da un lato ad ammornizzare i livelli essenziali sul territorio: le diseguaglianze, specie fra Nord e Sud, sono intollerabili e rischiano di aprire le porte alle assicurazioni private. Su ospedali, rete sanitaria, asili e servizi alla persona non devono esistere differenze sul territorio.
Diverso il discorso su una necessaria riorganizzazione del sistema welfare. Un forte “No” alla privatizzazione tipica del modello lombardo e un convinto “Sì” ad un Terzo settore, ad un’associazionismo che sul territorio sia conosciuto, stimato e soprattutto accreditato in modo trasparente dalle istituzioni pubbliche. In questo modo, per la Cgil, è possibile anche far diminuire gli sprechi e controllare la spesa pubblica in materia.

l’Unità 25.1.13
Per un Paese più giusto
Da trent’anni la condizione del lavoro peggiora e il suo valore sociale svanisce
di Rinaldo Gianola


LA CONDIZIONE DEL LAVORO IN ITALIA peggiora da trent'anni, il Paese è diventato più ingiusto. La mancanza di politiche per uno sviluppo equilibrato e per un’occupazione sana e di qualità è stata ed è la ragione principale delle profonde difficoltà economiche e delle insopportabili diseguaglianze che stiamo vivendo. I precari, i giovani e le donne che si affacciano sul mercato, sono le vittime di questa situazione che presenta processi di degenerazione, una minaccia alla nostra convivenza civile e democratica.
Il senso di ingiustizia, di abbandono che provano i lavoratori, chi cerca un’occupazione, l’afasia crescente di chi non ce la più nemmeno a lottare, a volte anche la perdita di speranza, sono i segnali preoccupanti che la storia di questi anni di crisi ci ha raccontato e ci rappresenta quotidianamente.
Di cosa parliamo quando parliamo di lavoro e di ingiustizie? Il tasso di disoccupazione reale è ormai prossimo al 12%, considerati i lavoratori in mobilità. Oltre il 30% dei giovani non trova lavoro, le donne non si iscrivono nemmeno più alle liste di disoccupazione tanto è impossibile trovare un posto. È stato calcolato che l'amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, ha uno stipendio che è 430 volte quello medio di un suo operaio. Il manager ha incassato nel 2011 una retribuzione complessiva annua di 17milioni di euro, mentre un cassintegrato di Mirafiori prende 850 euro al mese. Nel 2009 il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi aveva un reddito 11.490 volte superiore a quello di un lavoratore di Pomigliano d'Arco. Il rapporto tra le retribuzioni medie dei manager e dei lavoratori dipendenti era di 45 a 1 nel 1980, è salito a 500 a 1 nel 2000. Secondo il Sole24Ore (non la Pravda...) nel 2011 la Borsa di Milano ha perso il 25%, ma la retribuzione media annua dei top manager italiani è cresciuta da 3 a 3,5 milioni di euro. Questo è il mondo in cui viviamo, si potrebbe osservare, e non si può fare troppa demagogia, non ci si può sempre scandalizzare. L'ingiustizia che patisce il lavoro in Italia è testimoniata dalla dinamica della distribuzione della ricchezza nazionale: la quota di pil destinata a rendite e profitti continua a crescere mentre quella per i salari precipita. La percentuale di pil indirizzata ai profitti è salita dal 23% del 1983 al 31% nel 2005, per i salari invece si è partiti dal 76% per scendere al 68% e oggi è ancora inferiore. Il sociologo Luciano Gallino ha stimato in 250 miliardi di euro all'anno la ricchezza uscita dai salari a favore dei profitti. Ancora: secondo la Banca d’Italia circa il 10% della popolazione italiana controlla oltre il 50% della ricchezza nazionale. Ecco come siamo messi, oggi gennaio 2013, a un mese dalle elezioni politiche. Possiamo andare avanti così?
La crisi finanziaria esplosa negli Stati Uniti nel 2008 è diventata una prolungata scossa sistemica dell'intera economia mondiale, in cui è stata coinvolta direttamente e drammaticamente l'Italia. La nostra economia è stata travolta da una profondarecessioneche,alimentata anche da speculazioni e manomissioni finanziarie, si è rivelata non più una semplice crisi momentanea, che arriva e dopo un anno o due se ne va, ma una tempesta continua, imprevedibile nella sua durata e nella sua estensione. Questo terremoto nasce dal fallimento delle politiche neoliberiste che da trent'anni ci opprimono e che proprio nel momento più drammatico del disastro riescono a trovare freschi predicatori, nuovi sostenitori, fedelissimi adepti i quali, anziché finire sul banco degli imputati come meriterebbero, "scoprono" nei debiti sovrani, nell'insufficiente produttività e nella rigidità del lavoro, nell'eccessiva protezione sociale dei sistemi di Welfare, negli sprechi dello Stato o delle eventuali "caste" le vere cause della crisi. A fronte di questo ribaltamento della verità, la politica, la società, la cultura si adeguano, quasi tutti, tristemente all'elogio dei tecnocrati che, come conoscitori della tecnica, sono in grado di sostituirsi alle classi di governo, quelle politiche ma anche quelle imprenditoriali ormai poco affidabili, riducendo la democrazia, comprese le elezioni, a un semplice inutile esercizio. Viviamo, dunque, non una banale recessione economica, con la chiusura delle imprese e la crescita della disoccupazione, ma un cambiamento del capitalismo, del suo modo di pensare e di agire, sempre più individualistico, manageriale, socialmente irresponsabile, dotato di privilegi e retribuzioni impensabili, condizionato solo dall'andamento dei corsi di Borsa e dai capricci dei grandi azionisti, dei fondi e delle banche di investimento. Viviamo, anche in Italia, un passaggio dominato dall’allargamento delle ingiustizie, dall'alterazione intollerabile delle capacità di reddito tra chi sta sopra e chi sta sotto, con la cancellazione di diritti, contratti, interessi, regole di convivenza in fabbrica, in ufficio, a scuola.
In questo sistema, che nemmeno il fenomenale Obama è riuscito a ostacolare nonostante già la sua prima vittoria del 2008 fosse basata sull'impegno a tagliare le unghie ai nuovi predatori, il lavoro è stato ridotto a una semplice, secondaria, componente del processo economico. Il lavoro vale poco, sempre meno. Stiamo vivendo una regressione culturale, una deriva di cui il Paese non pare accorgersi nella sua drammatica gravità, siamo investiti da una bufera che cambia i termini della nostra democrazia, ma andiamo avanti, applaudiamo come dei cretini il bocconiano di turno o il manager campione di stock options come prototipi del sicuro successo. È in questa situazione che oggi e domani la Cgil, il più grande sindacato italiano, presenta il suo piano per il lavoro. Una proposta che evoca fin dal titolo altre emergenze sociali in altri periodi storici. Che Susanna Camusso e la sua organizzazione abbiano deciso di chiamare i leader del centrosinistra a confrontarsi su questa priorità assoluta è un segno di consapevolezza e di responsabilità verso il Paese. Anche se Mario Monti non riesce a comprenderlo. È proprio il caso di augurare buon lavoro.

La Stampa 25.1.13
Ma nel partito anche la sinistra giura “Siamo autonomi”
Epifani: il sindacato credo si rivolga a tutti
di Roberto Giovannini


Dietro le quinte, alla vigilia della partecipazione e dell’intervento di Pier Luigi Bersani alla Conferenza Cgil sul «piano del lavoro», molti dignitari democrat esprimono grandissime perplessità sul merito delle proposte che oggi il leader della Cgil Susanna Camusso illustrerà al Palalottomatica di Roma. Ovviamente il Pd e Bersani concordano fino in fondo con l’esigenza cigiellina di rilanciare l’occupazione, spingendo sul pedale della domanda e in una chiave di sviluppo sostenibile. Ma molte delle proposte di dettaglio - come le pianificate assunzioni nella pubblica amministrazione, per esempio - sono respinte al mittente come impraticabili. Come pure certe ipotesi di copertura finanziaria delle misure di spesa contenute nel piano Cgil, davvero poco plausibili.
Nulla di tutto questo però trasparirà però oggi, quando Bersani prenderà la parola dinanzi ai delegati Cgil. Del resto, fanno notare i «bersanologi», mercoledì il segretario ha evitato accuratamente di entrare nel merito anche a proposito della «terapia d’urto» proposta dal Presidente di Confindustria Giorgio Squinzi, che contiene idee altrettanto indigeribili al Pd. E come a Squinzi ha detto solo che «è importante che si parli finalmente di economia reale», in casa Cgil Bersani valorizzerà soprattutto la consonanza con il sindacato sui temi del lavoro e della ripresa della domanda.
Ieri si è polemizzato sull’invito della Cgil a Bersani e Vendola. Uno che non ci trova assolutamente nulla di strano è Guglielmo Epifani, ex-leader Cgil e ora candidato del Pd. «Quella conferenza si fa ogni quattro anni e la sua data era stata fissata da un anno - spiega Epifani - io nel 2008 invitai Tremonti e nessuno lo trovò strano. L’importante è che si parli di lavoro, di investimenti e di crescita. Dopo di che, la Cgil credo si rivolga a tutti, a partire naturalmente dai partiti che le sono più vicini». Ma in Parlamento - o al governo - Epifani avrà comunque un occhio di riguardo per la sua vecchia organizzazione? «Il problema è portarsi dietro una cultura di attenzione ai temi del lavoro e della giustizia sociale», è la risposta.
Anche uno di «sinistra» come l’economista Pd Stefano Fassina nega che la Cgil conti più nelle scelte del partito. «In questi anni il Pd ha costruito una sua cultura politica ed economica autonoma», puntualizza. «Che poi sulla centralità della persona che lavora - prosegue Fassina - ci sia una convergenza con la Cgil questo non è un male. Ma la Cgil fa sindacato, come Cisl e Uil; noi siamo un partito che vuole costruire un progetto politico tenendo insieme una pluralità di interessi: i lavoratori dipendenti organizzati dal sindacato, ma anche le piccole imprese, o le professioni, o i disoccupati che nessuno rappresenta». Ad ascoltare però con attenzione le parole di Bersani (e a fargli le pulci se non saranno quelle che si aspetta) oggi ci sarà anche Carla Cantone, la potente numero uno dei tre milioni di pensionati della Cgil, che per Bersani alle primarie molto si è spesa. «Mi chiede se il Pd o Sel ci ascolteranno? Devono ascoltarci - avverte Cantone - Noi non imponiamo nulla; noi chiediamo che la politica ascolti le richieste dei pensionati su welfare e giustizia sociale. E sarà meglio che certe cose le dicano in modo esplicito, se vogliono l’attenzione della nostra gente».

Corriere 25.1.13
L’agenda economica ormai divide anche strumentalmente
di Massimo Franco


Era inevitabile che lo scontro elettorale si concentrasse sempre più sulle questioni economiche. La vera sfida è la possibilità per l'Italia di non avvitarsi in una recessione della quale da tempo si colgono gli indizi; e di non perdere di vista l'aggancio con un'Europa in transizione. Dal Forum mondiale di Davos, in Svizzera, Mario Monti ricorda che per la prima volta dopo anni il giudizio sul nostro Paese è meno negativo. Ma i veleni fra i partiti sembrano innervosire il premier. Il fatto che Pier Luigi Bersani insista nelle allusioni ad un'eredità governativa che forse ha lasciato «un po' di polvere sotto il tappeto», induce Monti a rispondere con durezza. Il segretario del Pd ha fatto capire più di una volta che il governo dei tecnici potrebbe avere lasciato conti pubblici meno virtuosi di quanto dichiari il presidente del Consiglio.
Non è andato oltre, ma è bastato a provocare una replica che suona quasi come un rimprovero. «Suggerisco per la seconda volta» dice il premier «di non usare l'espressione "polvere sotto il tappeto". L'espressione può risultare sinistra e far pensare ai mercati che ci sia qualcosa nascosto nel bilancio pubblico». Insomma, Monti accusa Bersani di spaventare la comunità finanziaria internazionale, danneggiando l'Italia. Ma il candidato del Pd a Palazzo Chigi si difende ribadendo il suo punto di vista in modo liquidatorio. Non è l'unico fronte conflittuale. Monti e il segretario del Pdl, Angelino Alfano, in guerra sul resto, attaccano insieme la Cgil. Il centrodestra parla di subalternità di Pd e Sel al sindacato guidato da Susanna Camusso. Ma il premier non è da meno.
Ribadisce infatti che rispetto ad alcune riforme del lavoro la Cgil può diventare «fattore di ostacolo o di ritardo». E la tensione torna a lievitare, con Bersani che accusa Monti di usare «luoghi comuni insufflati dalla destra» e rifiuta l'idea di disdire l'alleanza con Nichi Vendola dopo le elezioni per formare un governo con i centristi. «Chi crede che mollerò Sel se lo tolga dalla testa». Ma la spina più pericolosa promette di diventare il caso del Monte dei Paschi di Siena: la banca che ha subito perdite per quasi quattro miliardi di euro investendo in titoli «derivati» e il cui ex presidente, Giuseppe Mussari, si è dovuto dimettere dal vertice dell'Abi. Si tratta di una questione che all'opinione pubblica interessa meno di altre di più immediata percezione e di maggiore impatto.
La polemica elettorale, tuttavia, la sta facendo diventare argomento di propaganda negativa. Probabilmente era inevitabile. Soprattutto per il Pdl e la Lega, è un'occasione ghiotta per tentare di infilzare insieme Monti, Bersani e Bankitalia, invisa soprattutto al Carroccio. L'ex ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, oggi candidato a palazzo Chigi per il partito di Roberto Maroni, non ha mai nascosto l'ostilità verso i vertici di via Nazionale e in particolare verso l'ex governatore Mario Draghi, oggi al vertice della Bce. E adesso, è irrefrenabile la tentazione del centrodestra di puntare il dito contro il premier «amico delle banche» che spenderebbe i soldi dello Stato per ripianare gli azzardi finanziari del più antico istituto creditizio italiano.
Subito dopo il governo, Bankitalia è accusata di non avere vigilato a sufficienza sulle operazione del Monte dei Paschi; e al Pd si imputa la gestione di quella che viene definita una banca vicina alla sinistra. Si tratta di un'operazione con evidenti aspetti strumentali; ma che si incornicia in una vicenda oggettivamente grave. Sta assumendo contorni preoccupanti, al punto da spingere Giorgio Napolitano a ribadire la propria fiducia a Bankitalia. Eppure, anche il capo dello Stato sa che lo scontro è appena cominciato, e i prossimi passaggi parlamentari sono destinati a drammatizzarlo. Il tentativo è quello di evitare che lo scandalo provochi, al di là delle intenzioni e del tonfo del titolo in Borsa, un effetto domino incontrollabile e, alla fine, un cortocircuito istituzionale.

Corriere 25.1.13
La riunione degli economisti pd e le critiche ai trattati europei
La ricetta antiliberista su welfare, crescita e lavoro
di Enrico Marro

ROMA — Il Pd punta a cambiare la lettura dominante della crisi economica e delle ricette per uscirne. Un lavoro che il dipartimento Economia diretto da Stefano Fassina sta portando avanti da tempo con la collaborazione un network di economisti d'area, impegnati a elaborare una nuova linea da opporre al pensiero liberista. Un'operazione, questa, condotta parallelamente anche da un altro protagonista della sinistra, la Cgil, che presenterà oggi il suo Piano del lavoro nella Conferenza di programma che vedrà gli interventi dei segretari del Pd, Pier Luigi Bersani, di Sel, Nichi Vendola, dell'ex premier Giuliano Amato e del ministro delle Coesione Fabrizio Barca.
Giusto una settimana fa il network di economisti d'area («più di 50-60 persone», qualcuno anche «della Banca d'Italia o altri centri studi») si è riunito per tre incontri seminariali dedicati a: politiche per la crescita; diseguaglianza e politiche sociali; crisi dell'euro e politiche europee. Vi hanno partecipato anche Paolo Borioni, della Fondazione Brodolini, e Carlo D'Ippoliti, della Facoltà di Statistica dell'Università La Sapienza, i quali hanno poi steso una «Breve sintesi», delle riunioni, ovviamente dal loro punto di vista. Che però dà una certa idea del dibattito, anche se Borioni ci tiene a precisare che si tratta appunto di un «resoconto soggettivo» della discussione e «non va quindi preso come la posizione del Pd». A chiudere gli incontri è stato Fassina, «rispondendo a diverse critiche che gli erano state poste».
Forse la cosa più interessante emersa, a parte la messa in discussione in radice delle politiche neoliberiste, è l'opinione abbastanza condivisa che il Fiscal compact non reggerà, perché saranno molti gli Stati non in grado di rispettare i vincoli di pareggio di bilancio e di riduzione del debito fissati dall'intesa europea. Lo spiega Massimo D'Antoni, incaricato da Fassina di coordinare il network di economisti e che ha partecipato al seminario. «Il Fiscal compact — dice D'Antoni — rischia di essere superato nei fatti. Le stesse politiche di austerità stanno rendendo impossibile rispettare gli impegni di riduzione del debito. Del resto lo ha riconosciuto anche il Fondo monetario che i moltiplicatori fiscali, cioè gli effetti recessivi delle politiche di rigore, sono stati sottostimati». Detto questo, precisa D'Antoni, «non è emersa una richiesta di revisione del Fiscal compact, ma piuttosto una presa d'atto di uno scenario destinato a cambiare. Un cambiamento che ovviamente sarebbe provvidenziale per uscire da questa spirale recessiva» e in questo senso viene auspicato dal Pd. Una posizione, però, che sembra troppo timida agli economisti più a sinistra. Per esempio, Carlo D'Ippoliti annota che secondo lui «il Pd si prepara a prendere qualsiasi ramoscello d'ulivo provenga d'Oltralpe: l'idea è quella di essere un piccolo partito in un piccolo Paese di fronte alla grandezza d'Europa e dei mercati e quindi di non avere molto potere contrattuale». Secondo l'appunto a Fassina «interessa cosa fare subito, appena si insedierà il prossimo governo di centrosinistra. Questo esclude qualsiasi ipotesi di riforma dei trattati europei» perché comunque non se ne potrebbe parlare prima del 2015 («insediamento del nuovo parlamento europeo»). Invece, dice D'Antoni, non è così, non è vero che il Pd sia arrendevole, ma insegue una logica diversa: «Noi siamo per cessioni di sovranità in Europa per rafforzarla ed andare verso politiche economiche comuni», ovviamente di segno diverso. «Ma non vogliamo — assicura — abbandonare le politiche del rigore, bensì coniugarle con quelle della crescita».
In particolare, per l'Italia l'enfasi è stata posta sulle politiche industriali e sul rilancio della ricerca e dell'innovazione come alternative alla linea che punta tutte sulle riforme strutturali, in particolare proponendo ancora una maggiore flessibilità del mercato del lavoro. Una strada che finora ha prodotto solo un aumento della precarietà, secondo il Pd. Meglio guardare alle imprese, alla loro dimensione, che deve crescere attraverso e politiche fiscali d'incentivo, e agli investimenti in tecnologia. Sul welfare, invece, la priorità è contrastare chi vorrebbe ridurne l'area di intervento. Si tratta invece, continua D'Antoni, di combattere la crescita della diseguaglianza e di supportare l'occupazione femminile e giovanile. Non è vero che non c'è flessibilità in entrata e in uscita. Lo ha spiegato Michele Raitano facendo riferimento ai dati Inps.

Repubblica 25.1.13
Vince il centrosinistra, il Pdl non rimonta: a un mese dal voto 12 punti di distacco
Sondaggio Demos: 30% di incerti, molti di loro nel 2008 con Berlusconi. Pd primo partito: al Senato sfiora il 35%. Cavaliere a quota 18, Monti al 16, Grillo al 13. Ingroia supera la soglia del 4%. Per l'ex premier il competitore più insidioso è il suo successore che lo "confina" a destra 

di Ilvo Diamanti
qui

La Stampa 25.1.13
La proiezione. La distrbuzione dei seggi
Tra un mese si vota: ecco come potrebbe essere il Parlamento
Sondaggio dell’Istituto Piepoli per La Stampa in ogni circoscrizione. Alla Camera vince il centrosinistra Ma il centrodestra prende Lombardia, Veneto e Sicilia al Senato. Per governare Bersani ha bisogno di Monti
di Marco Castelnuovo


Le tabelle qui

http://www.scribd.com/doc/122126525/TABELLE-PIEPOLI-PER-LA-STAMPA

Manca esattamente un mese al voto. Il 25 febbraio sapremo chi ha vinto le elezioni. Non sapremo però, se sarà in grado di governare. La fotografia scattata a trenta giorni dal voto dall’Istituto Piepoli per La Stampa è chiara: Pd e Sel vincono agevolmente alla Camera dei deputati, ma non al Senato. Per avere la maggioranza a Palazzo Madama, dovranno allearsi con il centro.
Il sondaggio non si ferma alle percentuali, né al livello nazionale. Calato in ogni circoscrizione della Camera e in ogni Regione per il Senato, calcola l’esatto numero di seggi che ogni partito guadagnerà. Ovviamente manca un mese, quindi i numeri potrebbero cambiare, ma oggi la situazione sembra consolidata. Ampia maggioranza alla Camera per la coalizione che sostiene Bersani, che però non sarà autosufficiente al Senato. Una coalizione che oltre a Pd e Sel si apra al centro, invece, avrebbe ampi numeri per governare il Paese. Ben 181 seggi, contro i 168 che aveva la maggioranza Pdl-Lega nel 2008. Ma ha ragione Bersani a dire che non lascerebbe Vendola per Monti. Al Senato una coalizione Pd-Lista Monti avrebbe la maggioranza assoluta, ma per solo un seggio. Troppo fragile per poter governare.
Il senato bloccato Prima di analizzare i numeri, una premessa: la legge elettorale in vigore, il famigerato Porcellum, dà un premio di maggioranza pari al 55% dei seggi, qualunque sia la percentuale dei voti raccolti, alla coalizione che prende più voti a livello nazionale. Al Senato invece il premio di maggioranza è regionale. Viene premiata con un surplus di seggi cioè, la coalizione che in ogni singola regione prende più voti. Le regioni più popolose danno un numero maggiore di seggi, ovviamente. La Lombardia è quella che ne dà di più, 49 senatori, ed è per questo che è definita l’Ohio d’Italia. Difficile governare al Senato se non si vince in Lombardia. Soprattutto se le coalizioni sono più di due. Prendiamo per esempio proprio la Lombardia. Chi vince prende 27 seggi, chi perde 22. Se ci sono due coalizioni lo scarto è di soli 5 seggi, la sconfitta potrebbe anche essere accettabile. Ma se le coalizioni che superano l’8% dei voti, la soglia di sbarramento minima per accedere al riparto dei seggi, sono più di due, le cose si complicano. Perché quei 22 seggi vanno divisi tra tutti gli sconfitti. E questa volta, non solo Pd-Sel e Pdl-Lega, ma anche Scelta civica con Monti e Movimento 5 stelle superano abbondantemente l’8% in ogni regione.
I risultati Come detto il centrosinistra è la coalizione che prende più voti alla Camera. Vince perciò il premio a livello nazionale: su 617 deputati - al totale di 630 eletti vanno tolti i dodici eletti all’estero e il singolo deputato eletto con un altro sistema elettorale dalla Val d’Aosta - il Pd ne prenderebbe 284, Sel 44, il Psi 10, due per la Südtiroler Volkspartei. Totale: 340 seggi. All’opposizione finirebbero il Pdl con 86 seggi (ne prese 190 in più nel 2008), Lega 30 (la metà del 2008), 10 per Fratelli d’Italia.
Il «Movimento 5 stelle» di Beppe Grillo ottiene 50 seggi, come «Scelta civica con Monti». All’Udc andrebbero 20 deputati, al Fli 5. Dovrebbe infine riuscire a costituire grupopo autonomo, la «Rivoluzione Civile» di Ingroia che conquisterebbe 20 deputati.
Al Senato il conto è fatto su 308 eletti (esclusi i sei eletti all’estero e il senatore valdostano). Il centrosinistra vince in tutte le regioni tranne Lombardia, Veneto e Sicilia: si ferma così a 143 seggi (121 per il Pd, 18 per Sel e 4 Svp) su una maggioranza assoluta di 158 (esclusi i senatori a vita). Non può fare conto sugli eletti all’estero, né sui 3 senatori che Rivoluzione civile riuscirà a eleggere (due in Campania e uno in Sicilia). Ecco perché solo con un accordo con la Lista Monti, che dovrebbe eleggere 38 senatori, supererebbe il quorum. Il centrodestra prende nel complesso 97 senatori (67 per il Pdl, 25 alla Lega, 5 per gli altri del centrodestra) e il Movimento 5 stelle, 27.

La Stampa 25.1.13
«Le regioni-chiave resteranno a Pdl e Lega»
domande a Nicola Piepoli sondaggista
di Marco Bresolin

Professor Piepoli, la situazione è quindi la seguente: il centrosinistra dovrà allearsi a Monti per avere la maggioranza in Senato?
«Secondo i nostri sondaggi, il Pd avrà 121 seggi a Palazzo Madama. Con i 38 di Monti la maggioranza assoluta c’è, anche senza gli altri alleati di centrosinistra, come ad esempio Sel».
Impossibile uno scenario in cui Pd e Sel costituiscono una maggioranza “autonoma”?
«È alquanto improbabile che il centrosinistra riesca a farcela da solo in Senato. Dovrebbe vincere in almeno due delle tre grandi regioni in cui attualmente è in vantaggio la destra».
Lombardia, Veneto e Sicilia. È escluso un sorpasso del centrosinistra?
«Lo vedo molto difficile. Tra le tre, l’unica che forse può riservarci qualche sorpresa è la Sicilia. Come tutti gli «imperi» è imprevedibile, ma le intenzioni di voto pendono a destra».
Nelle due regioni del Nord, invece?
«Innanzitutto va detta una cosa: sono da considerare come un tutt’uno, come il Lombardo-Veneto. Difficilmente da quelle due regioni uscirà un esito diverso. E anche se lo scarto tra i due schieramenti non è molto ampio, la vittoria del centrodestra sembra ormai consolidata».
È l’effetto Lombardia?
«È l’effetto Maroni. Il segretario della Lega sta facendo una campagna di comunicazione devastante e molto efficace: con i suoi messaggi diretti, come quello sul 75% delle tasse da trattenere in Lombardia, sta arrivando dritto al cuore della gente. Con questi temi ha guadagnato un punto percentuale a livello nazionale».
La coalizione che sostiene Bersani, invece, sta perdendo consensi. Dove sono finiti quei voti?
«C’è stata una lenta discesa e i consensi sono finiti fuori dalla coalizione. Verso Ingroia, che è sul filo dello sbarramento, e verso il Movimento di Grillo. Ma nel prossimo mese non dovrebbero esserci grossi scossoni».
In compenso il Pdl è cresciuto. A svantaggio di chi?
«Il Pdl è cresciuto di tre punti in tre settimane, ma nello stesso periodo l’intero centrodestra ha registrato un aumento inferiore ai due punti, circa un punto e mezzo. Questo vuol dire che il partito di Berlusconi “ruba” voti ai suoi alleati. Ma ormai sembra aver “saturato” i suoi consensi. Difficile che cresca ulteriormente».

Corriere 25.1.13
Monti: accordi con il Pdl, senza Berlusconi
Il professore apre a destra. «Ma il partito deve essere mondato dal tappo che impedisce le riforme». «Non col Pd se prevale la sinistra»

qui

La Stampa 25.1.13
E a sinistra scatta la sindrome accerchiamento
di Marcello Sorgi


Man mano che la campagna elettorale si riscalda, il centrosinistra soffre sempre più di sindrome da accerchiamento. Dalla trincea di Nichi Vendola, ieri sono partite le prime bordate contro Ingroia, accusato di aver messo insieme liste maschiliste, in cui è davvero difficile trovare candidate donne. Ma il punto non è l’argomento scelto per attaccare, quanto il calo che Sel comincia ad avvertire consistente nei sondaggi, per l’erosione di consensi a vantaggio di «Rivoluzione civile».
Stando al sondaggio messo in onda ieri sera a «Otto e mezzo» da Lilli Gruber, la lista dell’ex pm viaggia ormai abbondantemente sopra il 5 per cento, e questo dato nazionale, unito a quello di Grillo che sta sul 16 per cento, sono tali da allarmare il centrosinistra, in cui anche il Pd accusa una leggera tendenza negativa. Dati del genere infatti rendono ardua la partita in Sicilia, una delle due regioni su cui si gioca la maggioranza al Senato, e dove, benché ineleggibile nell’isola in cui ha esercitato per anni il ruolo della pubblica accusa, Ingroia punta egualmente a raggiungere l’8 per cento dei voti, sia per eleggere senatori dalla sua lista, sia per impedire al Pd, che da ottobre è al governo della Regione, di ottenere il premio di maggioranza.
Bersani deve anche fronteggiare l’offensiva Pdl contro la foto che ha diffuso in cui appare insieme a Tabacci e a Vendola: Alfano e Gasparri accusano il leader del Pd di avere un accordo sottobanco con Monti, per cui la coalizione di centrosinistra tornerebbe a spaccarsi subito dopo il voto, lasciando fuori, come da insistente richiesta del presidente del Consiglio, la sinistra radicale, e forse anche il «centrino» di Tabacci.
La reazione bersaniana è stata a due stadi: contro il centrodestra, ma anche verso Monti, che se vorrà tentare di ricostruire un’alleanza dopo le elezioni dovrà appunto mettere in conto di collaborare con tutta intera la coalizione, e non solo con la parte Pd. Bersani continua a insistere anche sul tema degli esodati, sfidando Monti a inserire nella sua «agenda» una soluzione per il problema, con toni che certamente non faranno piacere al premier. Intanto Berlusconi è al lavoro per presentare nei prossimi giorni una nuova bozza di «contratto con gli italiani», sul modello di quello che lo portò alla vittoria nel 2001. Dopo i giorni della rimonta, il Pdl però s’è fermato. E la distanza tra centrosinistra e centrodestra rimane di sette punti a favore del primo.

l’Unità 25.1.13
Siena si scopre orfana del “babbo” e adesso è costretta a cambiare
Industriali: «Cinghia di trasmissione spezzata»
Guicciardini (Pd): «Sì all’autocritica, ma c’è chi gioca allo sfascio»
di Vladimiro Frulletti


Gli operai della Floramiata pur senza stipendio per più di tre mesi sono andati a lavorare lo stesso perché altrimenti tutte le piante si sarebbero seccate». Niccolò Guicciardini, giovanissimo (ha 28 anni) segretario della federazione del Pd di Siena cita la lotta dei lavoratori della nota azienda vivaistica del senese per spiegare che i passaggi che attendono la città e suoi cittadini non saranno né facili né indolori e che però c’è anche «voglia di reagire» e di «riprendersi il futuro». Insomma questa traversata nel deserto alla fine potrebbe anche risultare salutare. Far seccare la pianta sarebbe la fine per tutti. Anche se c’è chi per attaccare il Pd, nota Guicciardini, e per lucrare qualche «virgola di consenso in più in vista delle elezioni» non esita a puntare sullo sfascio totale. Del resto il sindaco Franco Ceccuzzi è stato fatto saltare proprio dopo aver cambiato i vertici di Mps. «Cercare di ricostruire facendo autocritica è più difficile, però è il compito che ora spetta al Pd» dice Guicciardini.
Il problema però è che come avverte il presidente degli industriali, Cesare Cecchi, «un modello di sviluppo», quello in cui Mps faceva da «solida cinghia di trasmissione», è da considerarsi chiuso. E quindi prima di tutto per Cecchi ci vuole la consapevolezza che «dalla crisi non ne usciremo uguali a come ne siamo entrati». Lo stesso Monte dei Paschi sarà diverso. Meno senese. Tanto che Ceccuzzi, ricandidato dal Pd alle comunali di fine maggio dopo le primarie di domenica scorsa, non esclude che il futuro presidente della Fondazione possa essere un «non senese».
Ma al di là dei natali dei vertici di banca e Fondazione quello che sta avvenendo a Siena concretamente vuol dire che nel futuro, almeno prossimo, la città non potrà contare sui ritorni economici che fino a qualche mese le erano garantiti dall’essere capitale del terzo gruppo bancario italiano. Ma che anzi dovrà pagare dazio, sia dal punto di vista economico che d’immagine, a una cattiva gestione del suo bene più importante. Ovvio che il clima sia di forte preoccupazione e di forte rabbia. Se il Siena calcio vende Calaiò, il bomber che l’ha riportata in serie A e che l’anno scorso l’ha brillantemente salvata, non è per scelta tecnica. Ma per far cassa e risparmiare su un ingaggio pesante. Perché Mps non garantisce più la sponsorizzazione fin qui concessa (circa 8 milioni) e non può più permettersi di fare, appunto, la “cinghia di trasmissione”. E lo stesso (pur con cifre e tempi diversi) vale per la Mens Sana di basket da anni leader incontrastata (sei scudetti di fila) della pallacanestro italiana. Poco male si potrebbe dire, lo sport è importante ma non fondamentale.
Però Mps significava anche sostegno alle istituzioni, a cominciare dal Comune, e quindi risorse per servizi e welfare. E poi fondi per le associazioni, la cultura, l’università e anche le contrade del Palio. Tutto però da coniugare al passato. «Ma noi siamo quelli che ne soffriranno di menoannota Fabio Pacciani, priore della contrada del Bruco e rettore del magistrato delle contrade perché stiamo in piedi grazie ai sacrifici dei contradaioli. Ma anche per noi ci sarà da rivedere il tenore di vita. Quello che mi auguro e che da questa crisi se ne tragga anche un beneficio con tutti che tornano a fare solo il proprio mestiere: la banca che fa la banca, le contrade che fanno le contrade e il Comune che fa il Comune».
I prezzi più alti comunque rischiano di essere a carico del sistema produttivo. «È per questo che serve la massima chiarezza spiega Guicciardini che guida una segreteria dall’età media, 30 anni, bassissima per la politica italiana . C’è sdegno e rabbia non solo perché quelle scelte spregiudicate, dannose per i lavoratori e la banca, sono state tenute nascoste, ma anche perché erano l’opposto degli indirizzi politici dati dalle istituzioni». E cioè non spericolata finanza, ma credito a famiglie e imprese. «È una deriva che onestamente non mi aspettavo dice amareggiato il segretario della Cgil Claudio Guggiari. Le ultime vicende aumentano lo sconcerto anche perché Mps è fondamentale per questo territorio e spero che la nuova gestione possa farci superare questa fase». Anche perché abituata da sempre a essere in cima alle classifiche della qualità della vita, Siena sta facendo registrare pericolosi campanelli d’allarme. «Rispetto al resto della Toscana fa notare Guggiari siamo una delle poche realtà in cui aumentano tutti e tre i tipi di cassa-integrazione e di mobilità, contiamo già ora più di 2500 posti di lavoro a rischio e dei nuovi assunti solo il 6% ha un contratto a tempo indeterminato». Cioè il connubio fra la crisi generale e quella specifica di Mps potrebbe anche essere esplosivo soprattutto per una realtà che non è allenata a tirare la cinghia mettendo a rischio quella coesione sociale e civica che fin qui ha retto anche grazie alle risorse di Mps. «Al momento stiamo tenendo. La capacità di risparmio delle famiglia rimane alta. Ci sono ancora tanti pensionati che aiutano con le loro pensioni. Certo è che se la crisi continuerà per molto anche Siena sarà a rischio» dice Guggiari.

l’Unità 25.1.13
Enrico Rossi
Il presidente della Toscana: «Sinistra a lungo subalterna su questi temi. Nel Pd c’è stata
una battaglia su Mps, ora il rinnovamento»
«Niente ipocrisie, risposte politiche ai nodi del credito»
di Osvaldo Sabato


La bufera che si è abbattuta sul Monte dei Paschi per lo scandalo dei derivati ha fatto irruzione nel dibattito politico. Naturalmente il Pdl e Ingroia hanno subito accusato il Pd, con i democratici che si dichiarano estranei alla vicenda. «Non si può entrare nel tritacarne della campagna elettorale su materie così delicate» avverte Enrico Rossi. Per il presidente della Toscana «si sbaglia a farne un caso e a strumentalizzarlo politicamente. Questo non solo è un errore, produce un danno ad una grande azienda e all’economia di un’intera regione».
Presidente questa è una crisi che parte da lontano?
«Con la liberalizzazione della finanza c’è stato uno spostamento dell’attenzione delle banche dalle famiglie e dalle imprese verso il commercio finanziario internazionale, pieno zeppo di titoli tossici derivati, tutto questo ha coinvolto tutti, compreso il Monte dei Paschi».
Il pericolo dei titoli tossici era noto tanto da spingere l’Europa a mettere a disposizione delle banche 4 mila miliardi per evitarne il crack.
«E il doppio negli Stati Uniti. Quando poi si legge che ancora continuano gli scambi dei titoli tossici ce da rabbrividire».
Sul piano politico si sollecita una sorta di autocritica del Pd.
«Semmai è la sinistra in generale che per troppo tempo è stata culturalmente succube di fronte a tutto ciò. Quindi di questo è bene che la politica se ne occupi. Se facevano cose poco chiare nel consiglio di amministrazione di Siena, doveva controllare il Pd? C’erano ben altri organi. Guai a cadere in un provincialismo tutto italiano, in una strumentalizzazione che sarebbe davvero penosa. Forse però conviene riflettere che con la legge Amato del ‘95 il carattere locale ha finito per avere un dominio pressochè assoluto e forse nel tempo sono emersi elementi di inadeguatezza e di chiusura. Quanto alla managerialità della banca, anche qui la discussione è tutta politica, perché non ci dobbiamo dimenticare che la Lehman Brothers è saltata e non certo per colpa della politica».
A Siena però il legame della politica e delle istituzioni con la banca è molto forte.
«E deve essere discusso, forse si possono trovare delle soluzioni diverse. Ribadisco la politica deve discutere su come tracciare un confine fra se stessa e la gestione, ma deve farsi avanti ancora di più sulle regole. E se posso permettermi: deve dare risposte anche in campagna elettorale su un tema cruciale dell’economia, che è appunto il tema del credito, se non lo si fa prima di tutto alle imprese è molto difficile che l’economia possa riprendersi».
Tutti argomenti che secondo lei dovranno entrare con forza nella prossima agenda di governo?
«Bisogna che questi temi ci siano. È necessario fissare delle regole a livello internazionale e su come si discute dei rapporti fra le fondazioni bancarie e le dimensioni locali e le banche stesse. Bisogna creare un canale per indirizzare il risparmio del territorio sullo stesso territorio».
Ora tutti se la prendono con Mussari e anche la Banca d’Italia dice che sui derivati è stata ingannata. Secondo lei ha delle responsabilità dirette? «Toccherà a qualcuno accertarle». Lei però ha detto che se ce l’ha dovrebbe risponderne.
«Saranno accertate, lui dovrà dare delle spiegazioni. Io noto soltanto che con tutte le strumentalizzazioni che si fanno, l’ex sindaco Ceccuzzi si è fatto promotore di un rinnovamento, credo che il nuovo corso stia dando già i primi risultati, attenzione a non colpire con le strumentalizzazioni un’azienda finanziaria che invece stava uscendo, grazie allo spread, ad una parziale riacquistata credibilità rispetto alle ambasce nelle quali si trovava». Ceccuzzi alla fine ne ha pagato le conseguenze per aver voluto dei cambiamenti.
«Questo sembra».
Sul Monte dei Paschi gli hanno fatto la guerra anche da dentro lo stesso Pd. «C’è stata sicuramente una battaglia anche dentro il Pd. Io mi sono espresso spesso sulla necessità di un cambiamento ai vertici e mi pare che ci sia qualche primo risultato».

La Stampa 25.1.13
Credito, cultura, Tav Addio Toscana felix
Gli scandali travolgono classe dirigente e modello di governo
di Gianluca Paolucci


«Se mi dice se queste vicende abbiamo una ripercussione per la regione sì, se mi parla di crisi di un modello le rispondo di no». Vannino Chiti, vicepresidente del Senato, taglia corto sulla prospettiva di una crisi che dal «modello Siena» venga estesa al «modello Toscana».
«Sono tutte vicende scollegate tra loro, non credo possano essere assimilate». Franco Ceccuzzi, da politico navigato, svicola la domanda sulle tante, troppe crisi che tutte insieme hanno colpito la ex Toscana felix. Ma se l’ex sindaco di Siena - oltre che ex parlamentare ed ex segretario provinciale dei Ds - ci tiene a chiarire che ogni vicenda fa storia a sé, non si può non notare che l’elenco di guai e pasticci sta diventando ormai piuttosto lungo. Oltre a Siena e al Monte dei Paschi, a distanza di pochi giorni due belle grane sono scoppiate nel capoluogo regionale. Mercoledì, mentre nella città del Palio deflagrava il bubbone dei derivati, a sessanta chilometri di distanza, a Firenze, il ministero dei beni culturali decideva di commissariare il Maggio Fiorentino, una delle più prestigiose istituzioni culturali della città. Motivo: gravi irregolarità gestionali, un perdita patrimoniale milionaria e la mancata ricapitalizzazione. Secondo i calcoli del ministero, tra il 2008 e il 2011 la perdita è stata di 14,5 milioni, più altri tre milioni nel 2011, più ulteriori tre milioni previsti per il 2012. La vicenda coinvolge direttamente la giunta Renzi, che dal 2010 ha promosso ha più riprese interventi sul capitale del Maggio mai realizzati. A perdere il posto è invece la Sovraintendente del Maggio, Francesca Colombo. Difesa dal Maestro Zubin Mehta, che da 27 anni dirige l’orchestra del Maggio, la Colombo lascia il posto con una serie di dichiarazioni spiazzanti, tira in ballo la politica e dichiara che la sua vicenda è paragonabile all’acido tirato in faccia al direttore del Bolshoi.
Il 17 gennaio scorso, in mattinata, le agenzie battevano la notizia di una maxi-inchiesta della procura fiorentina sui lavori per consentire l’attraversamento della città alla linea ferroviaria ad alta velocità. Oltre 30 indagati, una trentina di perquisizioni in tutta Italia, ipotesi di reato di truffa alla pubblica amministrazione, corruzione e smaltimento abusivo dei rifiuti. La trivella che doveva realizzare il tunnel per superare la città è sotto sequestro, il presidente della Regione Enrico Rossi promette richieste di risarcimento, ma intanto c’è di certo che nel consorzio che dovrebbe realizzare l’opera c’è la Coopsette di Reggio Emilia, colosso delle Coop rosse. Tanto basta - e avanza per scatenare le opposizioni sul caso. Tra gli indagati finisce anche Anna Rita Lorenzetti, ex presidente della regione Umbria passata alla presidenza di Italferr, altra società coinvolta che però sarebbe parte lesa.
Tornando a Siena, ieri si è tenuta l’udienza preliminare per l’inchiesta sulla privatizzazione dell’aeroporto di Ampugnano, rinviata a marzo: anche qui Giuseppe Mussari è indagato. Opera di non strettissima necessità: si sarebbe trattato del terzo aeroporto commerciale della regione. Da oggi è chiuso: niente più voli privati, turistici o per le emergenze sanitarie, le uniche attività del piccolo scalo attuale. Sempre a Siena, altra grossa grana è quella dell’Università. Per anni regno incontrastato di Luigi Berlinguer, che è stato rettore dal 1985 al 1994, l’Università di Siena si trova con buco di 200 milioni. Anche qui un’inchiesta in corso. A rifiutare l’assimilazione delle vicende senesi e fiorentine è anche Alessia Pedraglia, una lunga militanza nell’Arci toscano e attuale capolista di Sel in regione per le prossime politiche. «A parte i soldi che anche il Maggio riceveva dalla Fondazione Mps, e che comunque erano poca cosa, non vedo altri collegamenti», dice la Pedraglio.
«Se mi chiede se dentro la crisi di un modello di sviluppo debbano essere anche ripensati i modelli di riferimento locali le rispondo che sì, devono essere ripensati. Non possono essere gli stessi di quando io ero governatore della Regione», dice ancora Chiti. «Altra cosa è leggere con un’unica lente questa situazione. Vede, il problema vero del Monte è che c’è stato un “modello Siena”, quello sì, che è stato abbracciato da tutti, indipendemente dal colore. Da presidente di Regione ho perso battaglie su questo». Il clima da campagna elettorale non facilita la linea di difesa però. «No, lezioni da Tremonti no davvero: a pensare ad un controllo più forte sulle banche e su Bankitalia è stato lui, non noi. Quindi lezioni non ne accettiamo, né da lui nè da Pdl e Lega».

il Fatto 25.1.13
Il voto e il Monte
di Antonio Padellaro


La notizia, bisogna dirlo, l’ha pubblicata il Fatto”, disse Vespa, felice come chi si appresta a subire l’estrazione di un molare senza anestesia. Si parlava dell’allegra combriccola del Montepaschi che aveva fatto sparire 500 milioni (e chissà quanti altri ancora) nel buco nero della banca rossa, e sulla candida poltrona la candidata pd Moretti fu inquadrata mentre, rapita, fissava un punto imprecisato all’orizzonte. Il nero-crinito Lupi respirò gratitudine per gli uomini del Monte che avrebbero distratto gli elettori dai Cosentino e dalle altre ignominie pdl. E il montiano Olivero non seppe se rallegrarsi per l’imprevisto inciampo che poteva frenare il nemico e futuro amico Bersani oppure dolersene. Mercoledì sera non soltanto nello studio di Porta a Porta spuntavano lunghe e vaporose code di paglia. Massimo D’Alema incautamente disse: “Il presidente del Monte lo abbiamo cambiato noi”. Come se non si sapesse che a Siena non si muove foglia che il Pd non voglia. A Berlusconi spuntò un’affettuosa lacrima nel ricordare certi prestiti agevolati. Reduce dall’applauso miliardario di Davos il premier Monti lanciò un monito affinché “nessuno si facesse venire fantasie elettorali” sulla vicenda, e subito tutti si chiesero quali “fantasie” potessero riguardarlo. Passare alla storia come il premier del governo dei banchieri non sarà certo piacevole, ma se il sistema creditizio italiano oltre a divenire ostaggio di una finanza opaca e massonica, oltre ad aver succhiato immense risorse dalle tasche degli italiani, oltre ad aver maltrattato imprese e clienti oggi si mostra come un verminaio di interessi inconfessabili di chi è la colpa? Solo di quel Giuseppe Mussari che il Pd non può aver licenziato se prima non lo avesse arruolato? E la lobby dei banchieri che lo ha voluto al vertice dell’Abi? E la Banca d’Italia che non si era accorta di nulla? E intanto il ministro dell’Economia Grilli di cosa si occupava, del suo bell’appartamento ai Pario-li? Pagheranno sempre e solo i risparmiatori? Tra un mese si vota e sarà l’occasione più propizia che gli italiani avranno per regolare i conti con chi li ha truffati. Altro che fantasie elettorali, presidente Monti, queste sono solide realtà.

il Fatto 25.1.13
Il regalo alla Fondazione: 20 milioni da Mussari
Ecco perché l’ex presidente aggiustava i bilanci:
doveva garantire un vividendo all’azionista. Cioé alla politica
di Marco Lillo


C’erano più di 20 milioni di ragioni per truccare i conti di Monte Paschi di Siena nel 2009. Grazie al contratto segreto con Nomura, rimasto nella cassaforte per tre anni e mezzo, trovato solo il 10 ottobre 2012 e svelato dal Fatto, l’ex presidente Giuseppe Mussari ha permesso al suo grande socio legato alla politica e al Pd, la Fondazione Monte dei Paschi di Siena, di “guadagnare” più di 20 milioni di euro tra mancato esborso e maggiore incasso di interessi sull’operazione F.R.E.S.H. ( Floating Rate Equity-linked Subordinated Hybrid Preferred Securities, strumenti finanziari convertibili in azioni ordinarie del Montepasch). Un prestito ibrido creato per scalare l’Antonveneta nel 2008.
La grande scalata
Gira e rigira si torna sempre lì al peccato originale. Per sostenere quell’operazione di acquisto a un prezzo folle di una banca con molti problemi, il sistema senese si è messo nei guai. Il F.R.E.S.H. era un problema per la Fondazione, che si era indebitata per sostenere Mussari. E Mussari potrebbe avere tolto le castagne dal fuoco al suo grande socio quando rischiava di vedere sparire all’improvviso dal bilancio più di 20 milioni di euro. Grazie al trucco contabile di Mussari invece la Fondazione anche nel 2010 (il F.R.E.S.H. pagava le cedole nell’anno successivo a quello del tarocco del bilancio) ha potuto disporre di una ventina di milioni di euro per finanziare i tanti progetti e associazioni dipendono dalla grande mammella di Siena.
Il trucco nel bilancio non ha prodotto solo l’effetto di permettere al direttore generale Antonio Vigni, quello che ha firmato il contratto segreto con Nomura poi trovato nella sua cassaforte, di incassare 800 mi-la euro di bonus nel 2010, grazie al bilancio chiuso in attivo a dicembre 2009. Quel bilancio taroccato ha permesso un guadagno ben maggiore alla Fondazione: è proprio il F.R.E.S.H. la pista più calda sulla quale sta lavorando la Procura di Siena. Grazie ai documenti e alle telefonate acquisiti nelle settimane scorse dalla Guardia di Finanza, sembra ormai scontata l’ipotesi di partenza dell’accusa nell’indagine sulle carte svelate dal Fatto: falso in bilancio e ostacolo all’attività di vigilanza per la mancata rappresentazione nella contabilità prima e poi nelle comunicazioni a Bankitalia delle perdite del derivato Alexandria nel 2009.
La cedola benedetta
Il falso in bilancio di Mps però potrebbe essere stato solo un mezzo per realizzare un finepiù importante per la politica senese: la distribuzione di una cedola su un titolo acquistato dalla Fondazione del Monte dei Paschi, saldamente nelle mani di Provincia e Comune, entrambi a guida PD. Proprio il F.R.E.S.H. e i redditi che superavano i 20 milioni di euro e che rischiavano di saltare, potrebbero essere stati insomma il movente del trucco contabile messo in piedi da Mussari e Vigni.
Se Mussari non avesse creato l’operazione con Nomura, infatti, a restare con il cerino in mano sarebbe stata la Fondazione alla quale lui stesso un anno prima aveva chiesto il sacrificio di finanziare la scalata della sua vita.
La grande scalata
Tutto inizia con l’acquisto da parte di MPS della Banca Antonveneta nel 2008 per 10 miliardi di euro. La madre di tutte le acquisizioni fallite è possibile grazie anche a un miliardo di euro provenienti da un prestito obbligazionario ibrido che viene sottoscritto per 490 milioni dalla Fondazione Monte dei Paschi di Siena diretta da Gabriello Mancini. Quel prestito F.R.E.S.H. è ibrido perché da un lato non garantisce utili a chi lo compra in caso di cattivo andamento della società sottostante, cioè il Monte dei Paschi di Siena, e dall’altro al termine è una doppia incognita perché si converte in azioni. F.R.E.S.H. viene emesso da Jp Morgan e finanziato da due banche, Mediobanca e Credit Suisse. La Fondazione Mps lo sottoscrive permettendo a Mussari di realizzare i suoi sogni di grandezza. Il resto viene sottoscritto da altre fondazioni, coinvolte da Mancini, come egli stesso si vanterà negli anni seguenti.
Per sottoscrivere il prestito obbligazionario la Fondazione si obbliga a pagare alle due banche che la finanziano, Medio-banca e Credit Suisse, un tasso pari all’Euribor più 2,7 per cento. Mentre dall’altro lato riceverà ogni anno (con scadenza trimestrale) una cedola maggiore: euribor più 4,2 per cento. In pratica il rendimento per la Fondazione Mps è dato dalla differenza tra l’interesse passivo pagato a Mediobanca e Credit Suisse e quello attivo ottenuto dall’emittente. Il differenziale è pari all’uno e mezzo per cento. Questo è il reale guadagno annuo sul F.R.E.S.H. anche se i quotidiani finanziari hanno parlato di 10 per cento. Il 10 per cento è il tasso garantito dall’Euribor del 2008 (al momento della sottoscrizione il tasso variabile era molto alto) più il 4,2 per cento di spread garantito alla Fondazione. Ma a questo guadagno bisognava sottrarre già nel 2008 il costo del finanziamento (pari a circa l’8 per cento) per cui l’interesse reale della cedola è sempre stato di un punto e mezzo.
Il pericolo da evitare nel 2010
Grazie al differenziale dei due tassi nel 2009 la Fondazione Monte dei Paschi per esempio ha incassato interessi correnti per 13 milioni e 860 mila euro. Nel 2010 però questo flusso si sarebbe interrotto. Il F.R.E.S.H. infatti prevede una condizione: paga la cedola solo se il Monte dei Baschi distribuisce utili. Se Mps quell’anno avesse chiuso in perdita, la Fondazione non avrebbe incassato la cedola di circa 7 milioni di euro (più bassa dell’anno precedente per via della discesa dell’Euribor) e avrebbe pagato invece l’interesse alle due banche sul prestito, per circa 14 milioni di euro. Quindi, tra mancato introito e pagamento di interessi, il saldo dell’operazione effettuata sul bilancio da Mussari è stato positivo per poco più di 20 milioni di euro.
Lo stesso ragionamento va applicato al resto del prestito F.R.E.S.H., cioé agli altri 510 milioni di euro, sottoscritti da Fondazioni ma anche da ignoti investitori privati. Sull’identità dei quali a Siena si fanno ipotesi fantasiose. Comunque l’allora presidente della Fondazione Mps, Gabriello Mancini, spiegava così l’operazione agli scettici: “Le modalità tecniche di adesione all’aumento di capitale 2008 furono note solo in prossimità dell’aumento di capitale ”, cioè a sorpresa, “e furono fortemente volute e avallate da tutti gli stakeholder della Fondazione che mai lasciarono spazi per un’eventuale diluzione”

Corriere 25.1.13
Vincenzo Visco
«Siena era una cosa a sé Il Pd non governava la banca»
di Mario Sensini


ROMA — «Il Monte dei Paschi non è un problema del Pd. È un problema di Siena. E l'unico a provare a far qualcosa, a scardinare e correggere i guasti di questa commistione tra società civile, politica e la banca, sono stato io quando da ministro commissariai la Fondazione per costringerla a modificare lo Statuto. E poi firmai il decreto per impedire al presidente della Fondazione, Pierluigi Piccini, di diventare presidente della banca» racconta Vincenzo Visco. «A Siena — ricorda l'ex ministro del Tesoro — ci ho potuto rimettere piede solo cinque anni dopo. Fui attaccato in modo durissimo, anche dal senatore di Siena del partito, Franco Bassanini, con il quale da allora i rapporti sono piuttosto freddini...».
Ma già questo non dimostra un rapporto perverso tra Pd e Monte dei Paschi?
«Era senatore di Siena, lo ripeto. E Siena era speciale. Quando le banche erano ancora pubbliche, e le nomine le facevano i partiti al Tesoro, si teneva conto di questo. Ma la direzione centrale del partito non ha mai espresso i vertici dell'Istituto, tranne in un'occasione, con la nomina di Luigi Spaventa».
Tanto il Comune e la Provincia, da sessant'anni in mano alla sinistra, facevano il bello ed il cattivo tempo in banca.
«E noi a Roma lavoravamo per spezzare questo pericolosissimo legame».
Senza riuscirci.
«Sul momento riuscimmo a impedire l'operazione Piccini, che era clamorosa. E la direzione centrale non si è mai stancata di criticare la gestione dei senesi. Anche Luigi Berlinguer, che abitava e insegnava a Siena, è sempre stato ferocemente all'opposizione sul modo di gestire la banca, tanto che lui non è mai stato eletto a Siena, ma altrove».
Poi cosa è successo?
«Poi perdemmo le elezioni, cambiò il governo, la città nominò Giuseppe Mussari alla guida della Fondazione...»
E tutto tornò come prima.
«Molto peggio! Perché Mussari di lì a poco passò dalla Fondazione alla Banca, in una situazione di evidente conflitto di interesse. Sono sicuro che se ci fosse stato ancora Mario Draghi al ministero del Tesoro, quell'operazione non sarebbe stata accettata, non sarebbe passata».
Mussari è pur sempre un iscritto al partito...
«Mah. Per la verità io ho anche potuto verificare che Mussari ha un ottimo rapporto con l'ex ministro dell'Economia, Giulio Tremonti. Ma poi, mi creda, quando ci sono in ballo queste cose qui, certe operazioni, le appartenenze politiche diventano quasi sempre molto, molto lasche».
È un caso che i guai della banca vengano fuori adesso, che c'è un management indipendente?
«Tutt'altro. Questi manager sono stati mandati lì apposta dal sindaco Sandro Ceccuzzi, per fare chiarezza e pulizia sui conti dell'Istituto. Dopodiché hanno cacciato lui, il sindaco. E ora Siena rischia di perdere pure la banca».
La crisi politica del Comune, tutta dentro la sinistra, non era la spia che qualcosa non andava?
«Secondo me sì, ma la cosa è stata sottovalutata. Questo per la banca è un altro brutto colpo, anche se dopo i Tremonti Bond per il Monte dei Paschi si poteva già parlare di salvataggio».
Il nuovo sindaco si troverà di fatto in mano il 35% delle azioni della banca. Se la piega è questa, la situazione non potrà che peggiorare...
«Bisognerebbe rimettere mano alla governance delle Fondazioni bancarie, valutare il peso degli enti locali. E occorre anche che il ministero del Tesoro, cui spetta la vigilanza sulle Fondazioni, la faccia».
Veramente il ministro del Tesoro dice che i controlli spettano alla Banca d'Italia...
«Ognuno si deve coprire. Ma Bankitalia non può sapere se i vertici dell'Istituto e Nomura fanno i contratti per telefono, registrando le conversazioni. Piuttosto, mi stupisce, e ritengo sia un problema serio, il comportamento di Nomura. Che senso ha una telefonata registrata, perché non hanno chiesto a Mussari gli atti del consiglio di amministrazione e la relazione dei revisori, che oggi sostengono di non aver mai visto?

il Fatto 25.1.13
Affari rossi
La passione per le banche che imbarazza il Pd
di Gianni Barbacetto


Il Pd “non si è mai occupato del Monte dei Paschi”, ha detto ieri Massimo D’Alema. “Il Pd non si è mai occupato e non si occupa di banche”, gli ha fatto eco Pier Luigi Bersani. Ora che il caso Mps-derivati è uscito dalle nebbie della finanza per diventare un caso politico, gli slogan devono fare i conti con la realtà. Realtà dura, come quella raccontata ai magistrati di Roma dall’ex governatore di Bankitalia Antonio Fazio: “A fine 2004 o nei primi mesi del 2005, Piero Fassino e Pier Luigi Bersani vennero da me per chiedere se si poteva fare una grande fusione Unipol-Bnl-Montepaschi”. È il primo atto di quel dramma italiano che ebbe come protagonisti i “furbetti del quartierino” nell’estate delle scalate ad Antonveneta e Bnl. Montepaschi, in realtà, si tirò subito fuori dalla partita: voleva Bnl, ma voleva che il controllo fosse a Siena, non a Bologna, nelle mani di Gianni Consorte, allora padre-padrone di Unipol. Così disse di no ai vertici del partito. Nel 2005 Franco Ceccuzzi, che poi diventerà sindaco di Siena, era il segretario dei Ds della città e raccontò a chi scrive di aver ricevuto telefonate e pressioni da Fassino, affinché Mps sostenesse Unipol nella scalata a Bnl. Rispose di no. E dissero di no a Fassino anche l’allora sindaco di Siena Maurizio Cenni (Ds), l’allora presidente della Provincia Fabio Ceccherini (Ds) e l’allora presidente della Fondazione Montepaschi Giuseppe Mussari.
In quell’occasione, l’interesse di campanile e l’orgoglio senese vinsero sull’obbedienza di partito. Ma quei no, paradossalmente, dimostrano il cordone ombelicale tra Siena e Roma, tra i vertici del partito che oggi si chiama Pd e la banca più antica del mondo. Chi comanda in Montepaschi? Non è difficile vederlo: è la Fondazione Mps, dall’alto del suo 34,9 per cento. E chi controlla la Fondazione? Dei 16 membri che formano la “Deputazione generale”, otto sono nominati dal Comune di Siena, cinque dalla Provincia. Vuol dire che prima i Ds e ora il Pd, che da sempre esprimono sindaco e presidente della Provincia, nominano 13 dei 16 membri: maggioranza bulgara.
CERTO, IERI D’ALEMA non ha potuto negare l’evidenza: mentre diceva che il Pd non si è mai occupato del Montepaschi, aggiungeva che “l’amministrazione comunale di Siena, certamente, essendo parte della Fondazione Monte dei Paschi, si occupa del Monte dei Paschi. È naturale che sia così, questo è il suo compito”. Anche perché con i dividendi della banca, la Fondazione nutre Siena e mantiene il consenso politico.
Bersani ribadisce: “Nessun imbarazzo per la vicenda Montepaschi”. Ma è difficile far credere che il partito (il Pci e i suoi derivati, fino al Pd) non si sia mai occupato di Mps. Lo smentisce seccamente non solo la visita di Bersani e Fassino al governatore Fazio, ma anche tutta la storia dei rapporti tra Siena e i vertici del partito, compresi i conflitti interni tra toscani, vicini al Montepaschi, ed emiliani, per lungo tempo sotto l’influenza di Consorte, di Unipol e delle coop emiliane. Del resto, anche D’Alema rivendica il ruolo (positivo e di rinnovamento) di un uomo di partito, Ceccuzzi, sebbene rivestito con la fascia tricolore di sindaco di Siena. È vero che Ceccuzzi ha chiesto la rottura con la gestione di Mussari (che era passato dal vertice della Fondazione a quello della banca), aprendo le porte di Rocca Salimbeni a un milanese, Alessandro Profumo. Ma la situazione a Siena era ormai ingovernabile, dopo che Mps aveva comprato Antonveneta. Mussari nel 2005 aveva dichiarato di non seguire Consorte nella sua avventura a debito per conquistare Bnl, perché il prezzo era troppo alto. Due anni dopo si è svenato pagando sull’unghia 9,5 miliardi di euro agli spagnoli del Santander. Poi ha tentato giochi di prestigio per nascondere i buchi che oggi vengono alla luce.
Politica e finanza, partito e istituti di credito: è un intreccio che viene da lontano, ben prima che Fassino esclamasse (sbagliando) “Abbiamo una banca”. Eppure il Montepaschi, nella sua lunghissima storia, ha visto anche interventi di altro segno. Nella massonica Siena, Mps fu negli anni Settanta una delle banche più inquinate dalla P2 (era iscritto alla loggia di Licio Gelli il direttore generale Giovanni Cresti), tanto che Silvio Berlusconi oggi non trova le parole per attaccare l’istituto: dichiara di nutrire un “affetto particolare” per Mps e di non volersi esporre “a dare un giudizio su una situazione che non conosco in tutti i particolari e che è legata a un istituto a cui voglio bene”. Certo: Berlusconi fu dal Montepaschi generosamente finanziato, come documentò la Commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2. E “al di là di ogni merito creditizio”, come scrisse nel 1981 il collegio dei sindaci Mps.

Corriere 25.1.13
Le colpe non viste
di Sergio Rizzo


Nessuno può chiamarsi fuori dalla vicenda che coinvolge il Monte dei Paschi di Siena.
Non il governo, e ciò vale tanto per quello passato quanto per quello ancora in carica: se nonostante la crisi devastante del 2008-2009 la bomba dei derivati rimane innescata, come sanno bene anche i tanti enti locali che hanno rischiato di rimetterci l'osso del collo, è perché non si sono prese le contromisure necessarie.
Non la Consob: che dovrebbe sorvegliare i mercati tutelando i risparmiatori, ma spesso si addormenta. Non la Banca d'Italia: alla quale spetta il compito di vigilare sulle banche e non vede sempre tutto, anche se va precisato che l'istituto di via Nazionale non ha poteri di polizia giudiziaria.
Non il sistema bancario, cui il terremoto finanziario sembra non aver insegnato niente: i rubinetti del credito verso le imprese sono ben chiusi mentre la macchina della finanza creativa ha ripreso a girare a pieno ritmo.
Meno che mai i politici, soprattutto quelli senesi, possono dire: io non c'entro.
Ma il fatto che siano tutti in una certa misura responsabili, e in un sistema finanziario sempre più integrato vanno chiamate in causa probabilmente anche le carenze europee, non può significare che nessuno è responsabile. Tutt'altro.
Questa vicenda non può essere archiviata come uno dei tanti incidenti di percorso del nostro sgangherato sistema finanziario. Né le dimissioni di Mussari dall'Abi possono essere considerate una sanzione sufficiente.
Non fosse che per un motivo. Dev'essere ricordato come, ancor prima che saltasse fuori lo scandalo dei derivati, per tirare fuori la banca dai guai causati da una serie di errori della sua precedente gestione, il contribuente ha versato nelle casse del Monte 3,9 miliardi. Per quanto le polemiche elettorali sollevate da chi ha accusato il governo di aver introdotto l'Imu per salvare «la banca del Pd» siano del tutto prive di fondamento, considerando che su quel prestito l'istituto paga al Tesoro un interesse del 9 per cento, e non c'è investimento sicuro che renda una simile cifra, si tratta pur sempre di soldi pubblici.
E non può assolutamente passare il messaggio che con i soldi dei contribuenti, sia pure pagati a caro prezzo, le banche possono tappare i buchi di speculazioni finanziarie sbagliate. Se poi si scoprisse che mentre il Monte era allo stremo alcuni soggetti avessero continuato a godere di un trattamento di favore, con conti correnti a reddito elevato e garantito, sarebbe gravissimo.
Ecco perché siamo convinti che il governo non si possa limitare a gettare la palla nel campo di qualcun altro, come ha fatto ieri il ministro del Tesoro Vittorio Grilli puntando il dito contro la Banca d'Italia. Mario Monti, che si candida a rimanere a palazzo Chigi, non può ignorare che questa storia coincide con il debutto della vigilanza europea sulle grandi banche, e per l'Italia non è davvero un bel viatico. Da lui ci aspettiamo una presa di posizione risoluta, come premier ancora in carica.
Certo fa sorridere che il primo fra i suoi sostenitori a sollecitare «chiarezza» sulla vicenda chiedendo a ognuno «di assumersi le proprie responsabilità politiche» sia stato Alfredo Monaci. Ovvero, un tipico esponente della classe politica locale che per anni ha retto Mussari e che ora è candidato della lista Monti in Toscana. Presidente della Mps immobiliare e dirigente del Monte, è il fratello minore di Alberto Monaci: a sua volta ex dipendente della banca, ex deputato dc, oggi presidente (democratico) del Consiglio regionale toscano. Monaci senior già vedeva come il fumo negli occhi lo sbarco a Siena di Alessandro Profumo. Ma dopo che è sfumata la vicepresidenza per suo fratello Alfredo è scoppiata una guerra interna al Pd che ha fatto saltare per aria la giunta comunale. Questa poco edificante lotta di potere contribuisce a far capire perché siamo arrivati qui. Il fatto è che il Monte è un formidabile strumento di welfare cittadino. Finanzia il Comune, la squadra di calcio, quella di basket, gli stessi cittadini. A Siena dà lavoro a circa 5 mila persone: quasi il 10 per cento dell'intera popolazione. Per non parlare delle decine di poltrone nei consigli di amministrazione. Nonché del fiume di denaro che attraverso la fondazione si è riversato, anno dopo anno, nel territorio circostante. Intendiamoci, questo non è un problema limitato alla sola Siena: sono le scorie della vecchia riforma che ha fatto nascere in tutta Italia le fondazioni bancarie dalle ceneri delle vecchie banche pubbliche. Sarebbe anche ingiusto negare che i contributi del Monte abbiano messo in moto iniziative di pregio, come la realizzazione di strutture sanitarie d'eccellenza e di centri di ricerca all'avanguardia. Ma è chiaro che adesso Siena e la sua banca sono a un bivio. Paradossalmente, dunque, questo scandalo dei derivati offre un'occasione da non perdere per cambiare registro. A tutti: al Monte, al sistema bancario, agli organi di vigilanza. E alla politica. Sempre che la sappiano (e la vogliano) cogliere.

Corriere 25.1.13
Dall'Università al Palio, fino al basket
La Rocca cede e la città traballa Siena e il «legame inscindibile tra la politica e la finanza»
di Marco Imarisio


SIENA — «Avvoltoi». La signora agita in aria la tazzina del caffè come fosse una spada. L'epiteto è rivolto a un gruppo di giornalisti che al banco del caffè Nannini dipingono scenari sul futuro del Monte dei Paschi e su quello della città, che poi è la stessa cosa. «Non potete farlo, voi non siete di qui». I forestieri sono sempre individuati come nemici, ma almeno i criteri che definiscono l'identità locale hanno l'indubbio pregio di una rigida semplicità. Tutto ciò che non è Siena, semplicemente non è Siena, oltre alla Storia lo dice anche un proverbio.
Bisogna partire da questa innata tendenza all'autarchia, da un riflesso pavloviano che si perpetua nei secoli, per capire le paure e i cedimenti di una delle città più belle d'Italia, che negli ultimi anni ha scordato di essere un borgo da cinquantamila abitanti appena. La memoria non c'entra nulla. Siena ha solo ripetuto quel che fa da sempre. Seguire, anzi farsi portare dalla banca, causa unica e primaria della sua vocazione solitaria.
C'è una logica, quella di sempre. Perché aprirsi all'esterno quando Babbo Monte vede e provvede, quando la sua Fondazione irrora con milioni di Euro la città e i suoi meravigliosi dintorni? «Non esiste collezione, biblioteca, ricovero o collegio che nei secoli non sia stato foraggiato dal Monte». L'ex sindaco intellettuale Roberto Barzanti passa le sue giornate negli archivi, ma ha il dono della sintesi. «Il nostro destino comune non si spiega con la cronaca, ma con la storia».
La teca di cristallo che proteggeva Siena si è rotta. Le crepe erano visibili da anni, ma in tanti hanno fatto finta di niente. Quando il più forte si ammala, il contagio si diffonde in fretta, mancano anticorpi che nessuno ha mai neppure provato ad immaginare. Dal 1996 al 2010, ultimo anno felice, la Fondazione del Monte dei Paschi ha erogato finanziamenti diretti e indiretti per 5,9 miliardi di Euro, pari al sette per cento del Pil provinciale annuo, percentuale che raddoppia se si resta nella cinta daziaria della città.
La «marcata connotazione territoriale» che i manuali economici attribuiscono al Monte è un gentile eufemismo, che diventa trappola quando finisce il tempo dell'abbondanza. Ogni cosa sta sfiorendo, dicono i pensionati che girano intorno a Rocca Salimbeni, fortezza economica che da cinque secoli domina e incombe sulla città. Nessun simbolo è immune. L'omonima squadra di basket, orgoglio sportivo cittadino in quanto indigena in ogni posizione societaria, ha ridotto del cinquanta per cento budget e ambizioni, naviga a mezza classifica nel campionato nazionale dopo averlo dominato per sei stagioni consecutive. Il Siena calcio è malinconicamente ultimo, vicino sia alla retrocessione che a un futuro gramo: Mps non rinnoverà la sponsorizzazione da 8,5 milioni.
L'inverno di Babbo Monte non risparmia neppure il Palio, la creatura più amata. Ogni contrada dovrà rinunciare all'obolo annuale. Erano solo 225 mila Euro in tutto, ma di tutti i tagli questo è il più simbolico perché riguarda un bene protetto e inalienabile che con la sua esistenza definisce l'identità cittadina. «Ma certo, siamo in un cono d'ombra» dice Emilio Giannelli, avvocato ex direttore generale della Fondazione che i lettori del Corriere conoscono da anni per le sue quotidiane vignette in prima pagina. «Se vogliamo usare lo sport come metafora, questo declassamento è il risultato di anni trascorsi vivendo al di sopra delle proprie possibilità».
Ma i segni del declino sono ovunque, dice un malinconico Giannelli. Nelle librerie che chiudono a raffica, sette nel 2012, in una stasi culturale ormai prolungata e in turismo che ormai si è consegnato al mordi e fuggi, alla visita guidata di poche ore con i torpedoni in sosta oraria. Il contagio non ha risparmiato l'università, unica vera istituzione cittadina alternativa. L'inchiesta giudiziaria seguita alla scoperta di un buco da 200 milioni nelle casse dell'ateneo ha rivelato usi e costumi dolorosi, da magliari più che da accademici. L'azzeramento dei contributo della Fondazione, che fino al 2008 ammontavano a dieci milioni, non è certo la causa principale di una gestione dissennata.
I soldi c'erano, ma venivano spesi anche per l'acquisto di 360 chili di aragoste e polipi, che la Procura ha definito «materiale non pertinente» facendo sfoggio di una certa vena ironica. Angelo Riccaboni, il rettore chiamato a riparare il danno di portafoglio e d'immagine, è obbligato all'ottimismo. «La mia è una eredità pesante, come quella che questa nuova bufera lascerà sulla città. Ma forse ne può nascere del bene. Forse è davvero finito il tempo della nostra boriosa autosufficienza. Adesso siamo davvero obbligati ad aprirci all'esterno».
Il coraggio della sincerità viene più facile da una certa distanza. «A Siena non c'è mai stata distinzione tra finanza e politica. Il vero torto di Mussari e degli attuali amministratori cittadini è di aver costruito un sistema di potere che non funziona». Pierluigi Piccini sa di cosa parla. Anche lui è stato sindaco, prima di concludere la sua carriera lavorativa in Francia, da vicedirettore di Mps Banque. Dal 1983 al maggio 2011 tutti i primi cittadini senesi vengono dal sindacato del Monte dei Paschi, e terminato il loro mandato sono rientrati in azienda.
Quasi vent'anni, nel segno di una rivendicata autarchia. Il mondo andava verso la globalizzazione spinta, mentre Siena restava immobile. Adesso è cominciata la corsa a precisare, prendere le distanze, ostentare ignoranza su quel che tutti sapevano. Ha ragione la signora del bar Nannini. Sulla città e sul suo inverno volteggiano gli avvoltoi. Non necessariamente giornalisti.
Marco Imarisio

Repubblica 25.1.13
“È un dramma, ci hanno tradito tutti” la città si risveglia mortificata travolto il “groviglio armonioso” di Siena
E il centrosinistra locale implode tra colpi bassi e vendette
di Roberto Mania


SIENA NEL 2001 Ceccuzzi è stato testimone di nozze del banchiere calabro-senese che ha nascosto in cassaforte il patto perverso con i giapponesi di Nomura per la gestione del derivato Alexandria. Quel patto che fa tremare Siena la “rossa”. Che fa crollare il Muro del Monte. Che ha rotto la tranquillità di una provincia chiusa, ricca e orgogliosa, diventata negli anni un «groviglio armonioso», ossimoro, inventato da Stefano Bisi, massone di primo piano e direttore del Corriere di Siena, che è stato davvero la fotografia di questa città. Quel patto — ancora — che si insinua proprio come un “derivato” dentro la politica locale e non solo. Ceccuzzi è il primo che ha chiesto «discontinuità» rispetto alla pluriennale gestione di Mussari (cinque anni alla Fondazione, e quasi sei a Rocca Salimbeni). Anche per questo è saltata l’estate scorsa la giunta comunale. Sette consiglieri della maggioranza hanno bocciato il bilancio, come rappresaglia per essere stati estromessi dalla definizione della lista del Comune per il cda della banca. Ora a piazza del Campo c’è il commissario.
Perché questa è una storia anche di tradimenti. Questa è una città tradita. Tradita dal “Babbo Monte” che irrorava, narcotizzandolo, il territorio con centinaia di milioni l’anno attraverso il bancomat della Fondazione e ora denuncia più di quattromila lavoratori in eccedenza con una perdita in bilancio arrivata a 6,2 miliardi, più della metà del suo patrimonio netto. L’assemblea di oggi varerà l’aumento di capitale per fronteggiare l’emergenza.
Siena, 55 mila abitanti, tradita da una classe dirigente autoreferenziale, chiusa in se stessa, consociativa. Che ha mortificato pure la sua gloriosa e antica Università appesantita da un buco di 200 milioni di euro, cominciato a formarsi durante il rettorato di Luigi Berlinguer. Tradita, appunto, dalle lotte intestine del Pd, già Ds e poi ancora prima Pds e Pci. Dalla sinistra.
«Forse è una tragedia. Di certo stiamo in una condizione di depressione psicologica», riflette Fabio Pacciani, dentista, rettore del magistrato delle contrade, l’organismo che rappresentante delle diciassette contrade del Palio. Continua: «Non ci sono più riferimenti, non si intravede un progetto. Non c’è nemmeno la giunta comunale. E’ una situazione devastante. Questa è una città stordita, sorpresa, sgomenta. E preoccupata: in pochi anni si è depauperata una banca solida ». Il Monte ha chiuso i rubinetti anche per le contrade. Il nuovo ad, Fabrizio Viola insieme al presidente Alessandro Profumo, ha scritto che non doneranno più i 15 mila euro annuali a contrada. La banca, nata più o meno con le contrade nel ‘400, smette di fare il “protettorato”. Un brutto segno. Un segno di questo tempo. La prossima settimana ci sarà un incontro per tentare di ritornare all’antico. «Avrebbe un valore simbolico», spiega Pacciani. Per quanto tutti sappiano ormai che il “modello Siena” è finito. Lo dice netto Cesare Cecchi, mega industriale del chianti, presidente della Confindustria locale: «C’è la consapevolezza che si vada rescindendo lo storico legame del territorio con la propria banca e che quindi sia venuto meno un modello di sviluppo di cui Mps rappresentava certo una solida cinghia di trasmissione». Espressione che fa venire in mente altro. Per esempio che qui dal 1983 al 2011 il sindaco era dipendente del Monte e anche dirigente della potentissima Fisac, il sindacato dei bancari della Cgil, che fino all’ultimo ha difeso l’ex direttore generale del Monte Antonio Vigni. «Se tra le migliaia di iscritti alla Fisac ci sono alcuni che vengono eletti nel consiglio comunale non vedo cosa ci sia di strano. Non lo do per scontato, ma mi pare che sia naturale», sostiene Claudio Gucciardini, segretario della Camera del lavoro. Che parla di «grande rabbia dei senesi per essere stati sputtanati a livello planetario». Ha interrotto l’epopea sindacal-bancaria proprio Ceccuzzi. E ora contro di lui si stanno costituendo una serie di liste civiche trasversali. Il candidato sindaco, sostenuto dal Pdl che però non ci ha messo il simbolo, è il cardiochirurgo
Eugenio Neri. Con lui si è sostanzialmente schierata “Nero su bianco” l’associazione fondata a settembre da Alfredo Monaci, ex dc, ex pdl e anche un po’ ex pd, ora candidato nella lista Monti per la Camera. Alfredo Monaci è stato sempre nel board della banca ai tempi di Mussari, ed è fratello di Alberto, ex dc, presidente del Consiglio regionale toscano. Tra i sette dissidenti piddini che hanno provocato la caduta della giunta comunale, quattro — si dice a Siena — stanno con Alfredo Monaci e due con il fratello, una dei quali è la moglie Anna Gioia, mamma di Alessandro Pinciani, vicepresidente della Provincia. Con Neri ci sarebbe “Ora Siena” di Maurizio Cenni, ex sindaco, uscito dal Pd, con due suoi ex assessori, una dei quali è Daniela Bindi (già Fisac), consorte di Fabio Borghi (già Cgil) ed ex membro del cda del Monte. Si potrebbe andare avanti da un intreccio che tira l’altro. Questo è il “groviglio”, non più armonioso. Oggi c’è l’assemblea del Monte. E’ c’è pure Beppe Grillo. «E’ venuto a chiedere i dividendi. E’ giusto che sia così. Li chiedo anche io come azionista. E’ normale», sdrammatizza Ceccuzzi. E’ la normalità che però Siena non c’è.

il Fatto 25.1.13
L’Italia che evade: nascosti 66 miliardi


CRISI O NON CRISI, l’evasione fiscale continua. Sono oltre 8.000 gli evasori totali scoperti nel 2012 dalla Guardia di Finanza, che lo scorso anno ha denunciato 12.000 responsabili di reati e frodi fiscali e ha sequestrato beni per oltre un miliardo di euro.
In particolare, hanno spiegato ieri le Fiamme gialle, sono stati denunciati 11.769 responsabili di frodi e reati fiscali, principalmente per aver utilizzato o emesso fatture false (5.836 violazioni), per non aver versato l'Iva (519 casi), per aver omesso di presentare la dichiarazione dei redditi (2.579 violazioni) o per aver distrutto o occultato la contabilità (2.220 casi).
Per quanto riguarda l'evasione fiscale internazionale, i ricavi non dichiarati e i costi indeducibili scoperti dalle Fiamme Gialle ammontano a 17,1 miliardi di euro. Nel mirino sono finiti soprattutto i trasferimenti fittizi di residenze, lo spostamento all'estero di capitali per non pagare le tasse in Italia con operazioni di ristrutturazione societaria o di transfer pricing. La Gdf ha scoperto 8.617 evasori totali, accusati di aver occultato redditi al fisco per 22,7 miliardi di euro, mentre sono stati individuati 16.233 lavoratori totalmente 'in nero' e 13.837 irregolari, impiegati da 6.655 datori di lavoro.
La sola attività di contrasto alle “Frodi Iva” nel 2012 ha permesso di individuare 4,8 miliardi di Iva evasa, di cui 1,7 riconducibili alle cosiddette “frodi carosello” basate su fittizie transazioni commerciali con l’estero. Irregolare, infine, il 32% degli oltre 447 mila controlli sul rilascio di scontrini e ricevute fiscali. La Gdf aggiunge che i verbali hanno permesso il recupero a tassazione per circa 6,2 miliardi di euro, mentre grazie ai controlli l'Agenzia delle Entrate ha accertato maggiori imponibili per ulteriori 15 miliardi di euro. Inoltre, sono stati sequestrati beni mobili, immobili, valuta e conti correnti per oltre 1 miliardo di euro. “La legalità, alla fine, vince” ha detto il Comandante Generale della Gdf, Saverio Capolupo.

l’Unità 25.1.13
Piero Grasso
L’ex procuratore antimafia capolista Pd al Senato nel Lazio:
faremo subito le leggi contro il falso in bilancio, la frode fiscale l’autoriciclaggio
«La legalità crea sviluppo, evadere è criminale»
di Claudia Fusani


Nei luoghi difficili il giudice poi procuratore è nato, cresciuto e diventato grande. In omaggio al suo passato, in onore di un futuro prossimo, Piero Grasso, ex procuratore nazionale antimafia, capo lista nel Lazio al Senato per il Pd, ha deciso di cominciare la campagna elettorale dal municipio di Tor Bella Monaca. Un luogo che è bene descrivere con cifre e fatti: VIII municipio di Roma, 250 mila abitanti, oltre la metà dei residenti è precaria e con gravi problemi di reddito. Quartiere di negozi e servizi, ha oggi circa la metà delle saracinesche chiuse. E non sono turni di riposo. In un posto così la camorra, dicono le inchieste della magistratura, si è prima allungata e poi allargata: estorsioni, usura, traffico di droga, prostituzione, usura, gioco illegale, riciclaggio.
Ecco che la saletta di quartiere con le luci al neon zeppa di giovani, anziani, stranieri, dev’essere sembrata al procuratore quanto di più simile a una Scampia napoletana o a uno Zen palermitano trasportati nella Capitale. È un filo emozionato Grasso, si capisce da come posta il suo primo tweet, «per il mio primo comizio pubblico ho scelto Tor Bella Monaca». Ma in fondo stare qui vuol dire anche non correre il rischio di soffrire di certe nostalgie. Quella che segue è una chiacchierata pochi minuti prima di affrontare la prima piazza della sua campagna elettorale.
«Ho idee e progetti maturati in 43 anni da magistrato. Le diagnosi sono fin troppo chiare, adesso è il tempo delle cure e di riforme decisive. Contro le economie criminali, ad esempio».
A quanto ammonta oggi il fatturato delle mafie? Le ultime stime di Transcrime parlano di reddito pari a 30 miliardi... «Le economie criminali non sono solo le economie mafiose. La voce comprende anche le stime della corruzione, tra i 50 e i 60 miliardi l’anno; quelle dell’evasione fiscale, 120 miliardi l’anno di cui 40 solo per l’Iva. Ecco se sommiamo queste cifre siamo intorno ai 210 miliardi l’anno».
Circa il 20 per cento del nostro Pil.
«Di più, se potessimo recuperare anche solo la metà di quei soldi avremmo potuto evitare al paese tutte le manovre del governo dal 2011 a oggi. Avremmo un paese meno devastato dalla crisi».
Legalità come voce di sviluppo?
«Non ci sono dubbi. Ma per uscire dalle parole, dovremmo tutti, soprattutto in posti come questo, comprendere fino in fondo queste cifre. Diventerebbe così chiaro a tutti che evadere le tasse, non pagare l’Iva, anche queste sono forme di economia criminale. La conquista illegale, sotto ogni forma, di spazi di potere economico inquina tutto, il tessuto sociale, la politica e le istituzioni. Quindi il risanamento dell’economia, ma anche una maggiore uguaglianza sociale e contributiva, passano anche per il contrasto e l’aggressione alle economie criminali».
Ha detto, “diagnosi chiara, adesso è il tempo delle cure”. Quali?
«Le elenco: una legge contro l’autoriciclaggio, contro il falso in bilancio, la frode fiscale e le false fatturazioni che sono sempre strumenti per creare soldi a nero».
Sfugge, spesso, il peso della norma contro l’autoriciclaggio. Può spiegarla?
«Al momento il nostro codice esclude che si possa procedere per riciclaggio contro chi ha commesso l’attività criminosa da cui provengono i beni occultati cioè contro chi occulta o investe danaro provento di attività illecite. Esempio: la legge consente di indagare sul rapinatore che ha preso 100 milioni in banca ma non sulla successiva attività di occultamento o impiego magari in attività lecite, di quei 100 milioni. Questa successiva attività finisce con l’inquinare l’economia e va quindi punìta ulteriormente, come avviene ormai in quasi tutti i paesi del mondo, trattandosi di un altro reato. Oggi è molto importante collegando l’autoriciclaggio con i reati di frode fiscale o di corruzione, avere uno strumento ulteriore per sequestrare e confiscare i capitali criminali». Sembra ovvio e scontato. Perchè non s’è fatto finora?
«Da anni richiedo invano al Parlamento questi provvedimenti. Adesso finalmente potrò proporre io la legge che ritengo più giusta in quadrando il reato di auto riciclaggio fra i reati contro l’economia pubblica, l’industria e il commercio».
Gli strumenti investigativi? Sufficienti?
«Manca ancora un vero coordinamento e accentramento delle fonti informatiche esistenti. Mi riferisco, soprattutto, al fatto di poter dare all’autorità giudiziaria le stesse potenzialità informatiche che ha l’Agenzia delle entrate. Sarebbe utile inoltre scambiare i risultati degli accertamenti amministrativi con quelli delle indagini patrimoniali». Anche questo sembra l’uovo di Colombo. Perchè non s’è fatto finora?
«Credo per una malintesa forma di garantismo in nome della privacy, che non consente all’autorità giudiziaria di entrare nel rispetto della legge nei segreti delle banche. In Italia deve passare il concetto che chi fa una dichiarazione dei redditi fasulla non è un furbetto ma uno che tradisce il proprio paese. È così negli Stati Uniti, così in Germania. Chi ha tradito la fede del mercato non può tornare sul mercato».
E per utilizzare al meglio i beni confiscati?
«Serve più managerialità presso l’Agenzia nazionale dei beni confiscati, più liquidità ma anche rivedere il codice delle leggi antimafia. Ogni tanto sarebbe utile anche vendere qualcosa. Se la mafia lo riacquista, lo sequestriamo di nuovo».

il Fatto 25.1.13
Cristiani in corsa, Avvenire fa l’elenco


IL QUOTIDIANO DEI VESCOVI E I NOMI DI CHI DIFENDE I VALORI “NON NEGOZIABILI”
Attenzione: “Occhi sulle liste”. Prima pagina di Avvenire di mercoledì 23 gennaio. Il quotidiano dei vescovi fa l’elenco dei “cristiani che si candidano”. Una “prima panoramica”, precisano, che serve a capire chi aderisce “ai grandi valori di riferimento dell’antropologia cristiana”. Il rinnovamento, ammettono, non c’è stato. Ma sostengono che la lista dove “è andata meglio” è quella di Mario Monti. Nessun endorsement però per i cattolici in corsa con il Professore: la linea politica non è ancora definita, “in particolare sui principi non negoziabili”. I nomi dei “determinati a incidere” invece ci sono.
Per esempio Gennaro Iorio, “sociologo di riferimento dei Focolari”. O Simonetta Saveri, già dirigente della pastorale giovanile in Liguria. E poi una serie di medici che va da Lucio Romano, ginecologo obiettore presidente di Scienza&Vita a Gian Luigi Gigli “il grande neurologo che si spese per la vita di Eluana Englaro”. Sono tutti candidati con Monti. E tutti in posizione da elezione. Sono addirittua capilista Andrea Olivero, ex presidente delle Acli, Luigi Marino, al vertice di Confcooperative, e il portavoce di Sant’Egidio Mario Marazziti.
Ma c’è del buono anche nel Pdl. Se Mario Mauro se n’è andato con i centristi, Teresa Restifa resta in corsa nel centrodestra (circoscrizione Australia) per “salvaguardare la continuità di un impegno”.
Nel Pd, spiega ancora Avvenire, il “poker di candidati di ispirazione cattolica” conta Edo Patriarca, portavoce del Forum Terzo Settore, Francesco Russo del’Azione Cattolica, Flavia Nardelli (presenza “evocativa” perché “figlia dell’ex leader Dc Flaminio Piccoli”) e ancora Giorgio Santini, numero due della Cisl. “Per tutti la sfida è cambiare il Paese”.

Repubblica 25.1.13
Bertone: "I cattolici non disertino le urne.
Ricordino nel voto i valori cristiani"

qui

il Fatto 25.1.13
Migranti
Lampedusa, cinque minori rinchiusi illegalmente da un mese
di Chiara Daina


Erano scappati dalla miseria per inseguire la libertà. Si risvegliano naufraghi su un granello di roccia, senza affetti, né diritti, in condizioni igieniche precarie e derubati dei loro sogni. Sono i 5 minori (erano 36 una settimana fa) rinchiusi da oltre un mese nel centro di prima accoglienza di Contrada Imbriacola, sull’isola di Lampedusa. Tutti in fuga dall’Africa subsahariana. Alcuni di loro nei giorni scorsi hanno inviato una lettera allo Stato italiano e all'Alto Commissariato Onu per i rifugiati (pubblicata sul Fatto Quotidiano del 13 gennaio) chiedendo il riconoscimento dei loro diritti e che qualcuno si prenda cura di loro. Nel centro ci dovrebbero rimanere qualche ora, o qualche giorno, giusto il tempo di essere identificati e poi trasferiti nelle case famiglia (gli adulti, invece, finiscono nei centri di accoglienza per richiedenti asilo). In pratica, non è mai così. “Oggi ci sono 30 migranti, erano 250 la settimana scorsa, sono sbarcati il 14 dicembre, oltre un mese fa” dice il sindaco Giusi Nicolini. “Non ci sono materassi, non ci sono medici, c'è acqua sul pavimento” si legge sulla lettera. E quando cala la sera esplode il delirio. “I grandi di notte si ubriacano e tutte le notti succede qualcosa di brutto”, è la penultima riga. Abbandonati a se stessi e lo Stato non gli garantisce l'assistenza psicologica. Per non parlare di un piano di inserimento. Risultato: quei bambini, schiacciati dalla noia, si scordano di essere dei bambini. Una schiera di poliziotti e soldati li sorveglia di continuo. Forse un bambino che fugge dalla guerra si chiude gli occhi ogni volta che un soldato gli passa accanto. Ancora inagibile l'ala del centro incendiata da alcuni migranti nel settembre 2011, in segno di protesta contro il sovraffollamento. “I minori occupano l'ufficio di identificazione, le donne stanno nell'infermeria” spiega Alessandra Ballarini, avvocato di Terre des Hommes, in visita il 14 gennaio al centro con la parlamentare Pd Sandra Zampa e Gabriella Guido della campagna “Lasciate-Cientrare”. Quelle persone sono trattate come prigionieri. “L'articolo 13 della Costituzione vieta di recludere una persona in assenza di convalide giudiziarie – scandisce l'avvocato – L'Italia viola anche la Convenzione dei diritti del fanciullo”.
AI MIGRANTI viene fornito un kit di sopravvivenza: saponetta (di quelle da hotel), giacca, scarpe, tuta, un mini dentifricio e un campioncino di shampoo. È evidente che non servono a garantire l'igiene personale fino a un mese. I lampedusani gli hanno regalato coperte e vestiti per ripararsi dal freddo: il senso di ospitalità di un isolano è più forte del mare in tempesta o del divieto di una norma. Contro il soggiorno forzato, i migranti protestano dentro e fuori il centro. Il 12 gennaio hanno manifestato davanti la Chiesa perché gli hanno impedito di pregare. Il regolamento prevede la totale clausura. Ultimamente uscivano da un buco nella recinzione. Poi hanno tappato la via di fuga. “Non va bene, mai, con e senza emergenza – ribadisce il sindaco – Vivono un doppio isolamento, inaccettabile”. Il piano di accoglienza del Governo è terminato il 31 dicembre. La spesa al giorno per ogni migrante è passata da 70 euro a 28. È lecitochiedersi se l'ospitalità debba mai avere una data di scadenza.

l’Unità 25.1.13
Candidati al Parlamento, volevano violentare l’ebrea
Dieci arresti nell’estrema destra a Napoli «Preparavano scontri di piazza» Intercettazioni agghiaccianti e antisemite: «Facciamolo davanti alla Facoltà...»
Fra gli accusati anche due esponenti di Casapound in lista per le elezioni
di Raffaele Nespoli


Tra i loro progetti ci sarebbe stato quello di stuprare una studentessa ebrea: «farlo davanti a tutta la facoltà». In una nota del Procuratore aggiunto di Napoli, Rosario Cantelmo, si legge che gli indagati «erano dediti tra l’altro alla sistematica attività di indottrinamento dei giovani militanti, all’odio etnico e all’antisemitismo mediante riunioni in cui si discuteva anche dei contenuti del libro Mein Kampf di Adolf Hitler». Roba che sarebbe potuta entrare di diritto nella sceneggiatura de Suss l’ebreo, film di propaganda antisemita di Veit Harlan del 1940. E questo è solo uno spaccato della realtà nell’inchiesta della Procura di Napoli su movimenti politici di estrema destra, primo tra tutti Casapuond, che ieri ha portato all’esecuzione di dieci provvedimenti di custodia cautelare ai danni di altrettanti esponenti del movimento. Pesantissime le accuse: banda armata, associazione sovversiva, detenzione e porto illegale di armi e di materiale esplosivo, lesioni a pubblico ufficiale e attentati incendiari. In particolare i destinatari dei provvedimenti sono accusati dal procuratore aggiunto Rosario Cantelmo e dal sostituto Luigi Musto di aver organizzato e pianificato scontri di piazza nella primavera del 2011 a Napoli, progettato e realizzato attentati con lancio di bottiglie incendiarie contro un centro sociale di Napoli.
Così l’operazione dei carabinieri del Ros sembra aver scoperchiato un vero e proprio vaso di Pandora. Le intercettazioni e le indagini della Procura disegnano infatti un volto completamente inedito per molti ragazzi «politicamente impegnati» di estrema destra, giovani rampolli della Napoli «bene» che nasconderebbero delle verità inconfessabili. Sorprende che tra i destinatari degli arresti domiciliari ci sia anche Emanuela Florino, ventiseienne figlia dell’ex senatore di destra Michele Florino e candidata con Casapound alle prossime politiche. La sua è una figura emblematica, a cominciare dal soprannome, «la Ducessa». Per capire un po’ più di lei, del suo modo di interpretare la vita basta guardare il suo profilo Facebook. Come religione indica «La mistica fascista». Per capirsi quella che Niccolò Giani definì «un complesso di postulati morali, sociali e politici, categorici e dogmatici, accettati e condivisi senza discussione da masse e da minoranze...». E che «ripone il proprio credo in Benito Mussolini quale Duce infallibile e creatore della civiltà fascista. Nega che all’infuori del Duce abbia padri spirituali o putativi». Cita poi Alda Merini: «Non sono una donna addomesticabile» e «L’inferno è la mia passione». L’altra, appare chiaro, è il fascismo: «È stata una rivoluzione, l’unica che abbia effettivamente avuto luogo in questo Paese, e per come la vedo io ha rappresentato una visione sociale avanzata, un fiorire dell’arte, dell’onestà, dell’ironia...». E poi su Casapound: «Non è solo un luogo fisico, CasaPound è un’idea. E certe idee non muoiono. Mai!».
Oltre alla Florino, il gip ha concesso i domiciliari ad Aniello Fiengo, Giovanni Senatore, Giuseppe Guida e Massimo Marchionne; in carcere Enrico Tarantino e Giuseppe Savuto, anche lui candidato al collegio Campania 1 della Camera. Mentre per Raffaele Palladino, Andrea Coppola e Alessandro Mennella è stato disposto l’obbligo di dimora. Naturalmente, dopo le misure cautelari di ieri non si è fatta attendere la reazione Casapound. Dal movimento è arrivata immediata la denuncia del leader Gianluca Iannone, che ha parlato di «arresti a orologeria». A dimostrarlo, secondo Iannone, ci sarebbe «il tempismo con il quale un’indagine avviata quasi due anni fa ha portato all’esecuzione di una serie di provvedimenti cautelari a poche ore dall’ammissione delle liste alle elezioni politiche». E le polemiche di ieri hanno finito con il coinvolgere anche il Movimento 5 Stelle. Il sindaco De Magistris non ha perso occasione per lanciare qualche stoccata a Grillo, nei giorni scorsi «morbido» con il movimento di estrema destra.
Sconcertano gli intenti di violenza che emergono da intercettazioni contenute nell’ordinanza. Se alcuni indagati progettavano di violentare una studentessa universitaria, in altre conversazioni si parlava anche della possibilità di dare fuoco a un’oreficeria di proprietà di un ebreo. Uno degli indagati, Giuseppe Savuto, impartiva poi direttive ai giovani militanti di Casapound, e li invitava a non divulgare sul social network, tra i giornalisti e a scuola, le loro idee antisemite. In una conversazione ambientale registrata il 18 settembre 2011 nella sezione «Berta», luogo di ritrovo degli indagati sottoposto ieri a sequestro dai carabinieri, Savuto si rivolge a un giovane militante, e nel fare riferimento all’Olocausto dice: «Io pure sono d’accordo che non sono mai esistite le camere a gas e non c’è mai stata nessuna deportazione, sono il primo a dirtelo... Però in questo caso davanti a un professore, davanti a un giornalista... ». Parole che lasciano intravedere la strategia, secondo il gip, per «non sporcare l’immagine ufficiale di Casapound, che vuole accreditarsi come un interlocutore credibile per le Istituzioni».

l’Unità 25.1.13
Casapound: glamour, legami potenti e mazze di ferro
Aggressioni a studenti di sinistra, rampolli dell’establisment e la benedizione di Grillo
di Jolanda Bufalini


Arresti ad orologeria, si indigna il portavoce di Casapound Gianluca Iannone, copiando dai più scafati esponenti della politica tradizionale, a cominciare da Berlusconi. Ma, detta da Casapound, la frase sembra un nonsense perché Casapound gli arrestati, e i condannati, li candida, anzi sono un fiore all’occhiello. A Roma, in lista alla Camera è stato orgogliosamente messo Alberto Palladino, per gli amici Zippo, condannato a 2 anni e 8 mesi di reclusione, «per l’aggressione con mazze e bastoni ha denunciato il parlamentare del Pd Emanuele Fiano avvenuta nel novembre del 2011, ai danni di 5 militanti del Partito democratico romano». Insieme a Zippo, ma al Senato, c’è la mamma, Rosanna Svaluto Moreolo, indagata per falsa testimonianza nello stesso procedimento in cui il figlio è stato condannato in primo grado. Quando, la notte della presentazione delle liste, Beppe Grillo ha invitato i Casapound a entrare nel Movimento 5 stelle, «purché in possesso dei requisiti», Simone Di Stefano, vicepresidente dell’organizzazione e candidato governatore nel Lazio, ha spiegato al comico: «Ci sono condannati e condannati». I loro, di solito, finiscono nelle maglie della giustizia per episodi di violenza a sfondo politico o xenofobo. A Firenze, nel 2011, vennero freddati due immigrati senegalesi. Il killer è Gianluca Casseri, che poi si toglierà la vita. Casseri frequentava Casapound ma immediatamente è arrivata la dissociazione: «Un semplice simpatizzante».
Glamour, iniziativa sociale, legami forti con il potere e, però, anche: catene, mazze e cinghie usate contro gli avversari, come avvenne nell’ottobre 2008 quando Blocco studentesco aggredì i manifestanti di sinistra a piazza Navona. Abile impasto, quello su cui si regge il movimento dei fascisti del terzo millennio, assomiglia a quello di certe associazioni islamiste ultra radicali. Nella grande sede di via Napoleone III ci sono passati tutti: brigatisti rossi e parlamentari di sinistra, intellettuali anticonformisti e cuori neri. È il palazzo del demanio occupato «per fini abitativi» che né i governi di centrodestra, né il sindaco Alemanno hanno mai cercato di ottenere indietro. Anzi, una delibera di giunta che, con la modica spesa di 11 milioni 800mila euro, avrebbe definitivamente assegnato l’edificio a Casapound, è stata stoppata in extremis dall’opposizione capitolina.
Comunicazione accurata e la presenza nel movimento dei rampolli del centrodestra assicurano buoni legami con il potere. Fra i frequentatori di Casapound c’è Manfro dj Alemanno e c’è Mario Vattani, detto Katanga, di professione diplomatico, nel tempo libero fasciorock. Sono legami con l’establishment che favoriscono le opportunità, come nel caso dell’assegnazione di beni immobili, quali i due casali della tenuta Redicicoli alla Marcigliana. Casapound ottiene dagli amici del centrodestra anche deleghe e assessorati, ma ciò non impedisce l’attrazione fatale con Beppe Grillo, di cui mutuano il linguaggio: «L’attacco degli organi di informazione e dei grandi partiti: è il vecchio mondo che reagisce contro le forze più giovani e più radicali».
Dietro il glamour e l’abilità di comunicazione, si nasconde il lato oscuro: in molte scuole romane gli studenti di sinistra denunciano atti di intimidazione, raid notturni e macchine sfasciate, sassaiole contro le occupazioni di sinistra. In questi casi non si mette la firma, e la firma non è mai certa, ma gli episodi sono frequenti in zone di Roma, come il Nomentano, dove Blocco studentesco (gli studenti di Casapound) è presente.

l’Unità 25.1.13
La piattaforma Anpi contro «il neofascismo spudorato»
di Toni Jop


«Non ho capito – si chiede il professor Smuraglia, presidente dell'Anpi -: è reato oppure no tirar fuori, allo stadio, bandiere con i fasci littori? Poi, si fa un gran parlare di riforme costituzionali, e non mi riferisco alle proposte di tagliare vitalizi e costi in generale della politica, parlo di quegli interventi con cui si vorrebbe modificare l'impianto dei principi ai quali la nostra Carta è ancorata: sono queste le riforme di cui abbiamo bisogno? A cosa si mira davvero lungo questa strada?».
Ieri mattina, nella saletta romana in cui l'Anpi presentava la piattaforma morale al cui rispetto richiamare i partiti impegnati nella campagna elettorale, non era ancora giunta l'eco di quel che si era scoperto a Napoli. Non si sapeva ancora di quei ragazzi indottrinati, attorno a Casa Pound, col Mein Kampf di Hitler, dei loro progetti di picchiare o violentare una studentessa ebrea, con la raccomandazione di mantenere sotto traccia la negazione della Shoah. Uno spaccato micidiale di ciò che accade nei sottoscala meno illuminati del nostro paese. Ma Smuraglia, a nome dell'associazione che riunisce i partigiani d'Italia, anticipava la cronaca, la più recente e a suo modo istruttiva, definendo «pericolosa» la situazione che ci coinvolge tutti. Perché sono sotto gli occhi di tutti i segni sempre più chiari e numerosi del riemergere «di un neofascismo aperto e spudorato». Perché si avverte l'approfondirsi della spaccatura che attraversa cultura e politica di qua e di là dell'argine al fascismo e alla sua rinascita sotto altre forme, difeso ancora una volta dalla Costituzione. Del resto, se è accaduto che un premier, Berlusconi, sia riuscito a rispondere che aveva altro da fare a chi gli domandava se era antifascista; se, è dei nostri giorni, Grillo, il leader di una grande forza politica, ha potuto, alla stessa domanda, rispondere che la questione «non gli compete» mentre strizzava l'occhio giusto a quelli di Casa Pound, in che paese europeo siamo?
Non c'è pedanteria, allora, nel richiamo potente che l'Anpi ha rivolto a tutti gli interpreti della competizione elettorale; rigore morale, correttezza e dignità, trasparenza, buona politica, lotta alla corruzione, alla mafia, rispetto, lotta al razzismo, contro ogni rigurgito di fascismo e nazismo, impegno per il lavoro, libertà, uguaglianza e dignità per le donne. Un breve spot video dell'Anpi, che dovrebbe girare da qui alle elezioni, illustrerà quella piattaforma di impegni.

l’Unità 25.1.13
Roberto Esposito
Il filosofo propone assieme a Galli della Loggia di creare un dicastero come in Francia: «Così il settore non resterebbe più ai margini»
«Il ministero della Cultura non sarebbe Minculpop»
di Stefano Miliani


Il rischio di un Minculpop non esiste più, Paesi come la Francia che ci surclassano in cura e investimenti culturali hanno un ministero della Cultura e invece un'istituzione simile potrebbe dare una mano a risollevare il nostro Paese e a rinnovare. Anche – indirettamente – sul fronte economico. Si può riassumere con queste parole la proposta dello studioso di filosofia politica napoletano Roberto Esposito e dell'editorialista del Corriere della Sera Ernesto Galli della Loggia: il primo del sud e di sinistra, il secondo del nord e non di sinistra. Per dire che l’idea non è di uno schieramento ma rivolta a chi andrà a Palazzo Chigi.
Professore, cosa proponete?
«Galli della Loggia e io abbiamo scritto un appello per istituire un ministero della cultura. Siamo politicamente lontani e proprio per questo l'iniziativa vuole avere un carattere istituzionale rivolto alle forze politiche».
Scusi, ma come nasce la vostra idea?
«In molti Paesi europei, come la Francia, esiste già, là ha rappresentato una svolta, negli anni 50. Un ministero così può aiutare a costruire un'idea del Paese nuova».
In Italia abbiamo già i ministeri per i Beni culturali e dell'istruzione, ricerca e università. Pensate a un accorpamento? Non si rischia una sovrapposizione? «Non servirebbe necessariamente un accorpamento. Le competenze possono sovrapporsi ad altri ministeri, già ora il ministero degli Esteri si occupa degli istituti di cultura all'estero. Si possono immaginare dipartimenti che confluiscano nel ministero della Cultura, bisognerebbe certo definire bene le competenze in rapporto al fatto che ci siano o no gli altri due ministeri, ma l'importante è segnare una discontinuità: la crisi italiana non è solo economica né solo politico-istituzionale, è anche culturale. Da tempo l'Italia non definisce da dove viene e tanto meno dove va, né coniuga la conservazione con l'innovazione come dovrebbe».
Nel vostro appello sostenete che un ministero della Cultura costituirebbe un elemento di identità: in che senso?
«La nostra sensazione è che gli Stati, mentre cedono una parte della sovranità all'Europa, tanto più dovrebbero definire gli elementi della propria identità culturale. E quella italiana è molto forte: abbiamo un potenziale enorme nell'arte, nelle biblioteche, quando si dice made in Italy si parla di moda e cucina ma c'è una falda più profonda». Parliamo di un settore che subisce tagli drastici. Un sondaggio in corso del Fondo per l'ambiente italiano vede come prima richiesta quella di destinare l'1% dei soldi pubblici ai beni culturali – come fa la Francia – quando l'Italia riserva loro appena lo 0,19% del suo bilancio. E non parliamo della scuola pubblica.
«Sì, la prima esigenza è finanziare cultura e istruzione. Vivo non lontano da Pompei e un sito simile in qualunque altra parte del mondo sarebbe anche un'enorme risorsa economica. Ma oltre al problema economico c'è il fatto che da noi la conservazione del passato è slegata alle tecnologie, all'innovazione. E un ministero come lo immaginiamo noi non dovrebbe essere marginale ma uno dei centri decisivi di governo». A suo tempo un'idea simile fu bocciata: rievocava il Minculpop fascista. «Esistono due obiezioni non del tutto infondate: questa e il timore che poi i partiti dicano quali debbano essere le forme d'arte, letterarie, cinematografiche... Ma siamo così distanti nel tempo e nella situazione dal fascismo che sul primo timore possiamo stare tranquilli. Sul secondo serve vigilare, ma bisogna correre un po' di rischio». Converrà che con il governo Berlusconi, ma poi anche con Monti, il settore cultura è stato messo da parte. Viceversa un Veltroni vicepremier volle il ministero proprio per dargli peso.
«Parlando ora a titolo solo personale, riconosco che in passato e anche in questa campagna elettorale la sinistra ha mostrato più interesse e sensibilità. Però questa non è una proposta di parte, verrà presentata a chiunque vinca».

Corriere 25.1.13
All'Italia serve un ministero della Cultura
Le buone ragioni perché l'Italia torni ad avere un ministero della Cultura
di Roberto Esposito e Ernesto Galli della Loggia


È la proposta di Roberto Esposito ed Ernesto Galli della Loggia. Il primo motivo, sostengono i due intellettuali, è che «la crisi in cui è entrata l'Italia con l'inizio del XXI secolo non è (o non è solo) una crisi economica, politica, istituzionale e quindi sociale. È prima di tutto una crisi d'identità e cioè in definitiva
una crisi culturale».

Pubblichiamo una proposta lanciata dagli intellettuali Roberto Esposito ed Ernesto Galli della Loggia per l'istituzione del ministero della Cultura. L'Italia è uno dei pochi Paesi d'Europa che non ha un ministero della Cultura: noi ne proponiamo l'istituzione. Lo facciamo conoscendo bene, naturalmente, i motivi che fin qui l'hanno sconsigliato. Ma ci sembra che assai più importanti siano le ragioni che militano a suo favore.
Una, prima di ogni altra. La crisi in cui è entrata l'Italia con l'inizio del XXI secolo non è (o non è solo) una crisi economica, politica, istituzionale e quindi sociale. È prima di tutto una crisi d'identità e cioè in definitiva una crisi culturale. È innanzi tutto venuto meno, infatti, quel fattore costitutivo di ogni identità personale e collettiva che è la consapevolezza di ciò che lega e, legando, tiene insieme cose differenti: nel nostro caso il legame, da un lato, tra il passato e il futuro possibile della nostra vicenda nazionale e dall'altro quello tra le varie parti e le diverse, talora diversissime, vocazioni che storicamente hanno composto in un tutto unico tale vicenda. Da tempo viviamo l'aspra congiuntura presente senza alcuna idea di fondo che possa conciliare le varie e drammatiche esigenze dell'oggi in una prospettiva d'insieme della storia nazionale. Anche perché abbiamo smarrito la consapevolezza della peculiarità di tale storia — una peculiarità altamente problematica, certo, ma pregna di inestimabili risorse intellettuali e pratiche. In un senso profondo non sappiamo più da dove veniamo e che cosa siamo. E perciò neppure dove dirigere il nostro cammino: l'arresto della crescita economica è anche questa paralisi della coscienza nazionale.
Si potrebbe obiettare che questo discorso era vero quando gli Stati nazionali erano organismi più o meno autosufficienti e dotati di pieni poteri sovrani. Non oggi, quando da un lato la globalizzazione, dall'altro l'Unione Europea nonostante i suoi limiti sottraggono ai governi dei singoli Paesi sempre più competenze. Non siamo d'accordo. In realtà, proprio perché è così, e tanto più per chi considera inevitabile e positiva questa cessione di sovranità all'Europa, la definizione di un'idea del Paese appare sempre più necessaria. L'Europa non può voler dire il supino convergere di Stati, popoli e nazioni in una sterile indeterminatezza. Al contrario, il processo d'integrazione ha un senso e un futuro solo se sarà capace di valorizzare le differenze culturali dei vari Paesi, se non apparirà un loro nemico. Il futuro dell'Europa sta proprio nella composizione tra la massima, reciproca compatibilità economica nonché istituzionale e la capacità di tener vive le diversità, a cominciare da quelle linguistiche.
È innanzi tutto a questo gigantesco insieme di problemi che noi vediamo sovrintendere un ministero della Cultura. Ma non solo. C'è forse qualcosa di ancora più importante. Si tratta della necessità di aprire una fase interamente nuova nella vita del Paese. Di creare una frattura con quanto d'insensato, di confuso, di meschino ha occupato negli ultimi decenni la scena italiana stravolgendola e spesso ferendola a morte. Abbiamo fatto scomparire luoghi e paesaggi unici al mondo, cadere in rovina siti archeologici e monumenti illustri, lasciato in abbandono biblioteche preziose. Ma non ci siamo accorti che, così facendo, inaridivamo anche la fonte di quella umile e insieme alta creatività per cui l'Italia va famosa e che si manifesta nella sua grande tradizione artigiana, nell'eccellenza di tanta sua produzione agricola, nell'inventiva ingegnosa di tante sue industrie di ogni tipo. Ma questa creatività, questa produzione di cose materiali, lo ripetiamo, non nasce dal nulla. Discende per mille tramiti da un articolatissimo substrato di gusto, di sensibilità, di idee. Nasce dalla cultura.
La cultura italiana, presa nel suo insieme e sull'arco lunghissimo che va da Roma fino ad alcuni segmenti del Novecento, mantiene una qualità, una forza, una ricchezza che non è facile trovare altrove e che a tratti affiora nell'interesse internazionale. Dove, più che in Italia, è stata pensata la storia come ciò che mantiene in rapporto e in tensione passato e presente, origine e attualità, conservazione e innovazione — dove altro i termini stessi di «Rinascimento» e di «Risorgimento» danno il senso di questa dialettica? Dove, più o prima che da noi, ci si è interrogati sul significato specifico di una politica non coincidente con la dimensione statale perché capace di contemperare ordine e conflitto senza sacrificare l'uno all'altro? E dove, se non nella nostra cultura, sempre in transito tra l'Italia e il mondo, è stata altrettanto vivace la dialettica tra identità e differenza, proprio ed estraneo, territorio e sconfinamento?
Solo appropriandoci nuovamente di questo patrimonio, solo ripensandolo e rianimandolo di propositi nuovi, sarà possibile riprendere il cammino uscendo dalla paralisi odierna. Sarà possibile rimettere al centro dell'attenzione il significato e il destino della nostra vita collettiva. Aprirci al futuro. È precisamente ciò che noi crediamo dovrebbe spingere a fare un ministero della Cultura: aiutare il Paese a pronunciare una parola alta e consapevole sulla sua storia passata e recente, aiutarlo a far udire questa voce fuori dei suoi confini e a ridefinire quello che può essere il ruolo dell'Italia in Europa: un ruolo prima che politico e istituzionale, ideale e umano. Il ruolo della cultura, appunto.
Conosciamo bene, naturalmente, i due principali motivi che hanno finora impedito l'esistenza di un tale ministero: e cioè il ricordo del Minculpop fascista da un lato e il timore di una cultura di Stato (che poi nel nostro caso diverrebbe inevitabilmente una cultura di partito) dall'altro. Erano motivi validi 50, forse 30 anni fa: ma per quanto tempo e in quanti campi ancora dovremo stare fermi, per paura di muoverci? Chi ha una ragionevole fiducia nella democrazia italiana e nelle sue istituzioni, e nella pur confusa ma alla fine perspicua intelligenza delle cose dei suoi cittadini, non deve restare prigioniero inerte del passato: deve avere il coraggio di aprire già oggi una nuova fase nella storia del Paese.

l’Unità 25.1.13
Israele, Netanyahu tratta con il «nuovo centro»
Il premier uscente costretto a corteggiare Yair Lapid, divenuto l’ago della bilancia. Sul tavolo la carica di ministro degli Esteri
Il nodo del servizio di leva per i giovani ortodossi spinge ai margini i partiti religiosi estremisti
I risultati definitivi: alla destra 61 seggi, per il centrosinistra 59
di Umberto De Giovannangeli


Israele, le grandi manovre post elettorali sono iniziate. E a condurle è l’uomo che avrebbe voluto «imperare», Benjamin Netanyah, e oggi invece deve corteggiare un ex giornalista televisivo uscito inaspettato vincitore nelle elezioni di martedì scorso: Yair Lapid. Mentre il presidente Shimon Peres avviava le prime consultazioni sulla formazione del prossimo governo, per adesso solo informali, dietro le quinte del mondo politico israeliano sono proseguite a ritmo serrato le trattative tra la destra, guidata dal premier uscente Benjamin Netanyahu, e il centro dell’esordiente Yesh Atid, partito «inventato» appena nove mesi fa dalla star televisiva Yair Lapid, l’uno e l’altro le vere e proprie sorprese delle elezioni anticipate di martedì scorso. Per l’outsider che è riuscito a fare della sua quasi neonata creatura la seconda forza (19 seggi) rappresentata alla Knesset, secondo i mass media israeliani, si profila un incarico di grande prestigio: potrebbe addirittura vedersi offrire il portafoglio degli Esteri al posto di Avigdor Lieberman, l’ultra-nazionalista il cui Yisrael Beiteinu ha fatto coalizione con il Likud di Netanyahu, solo per raccogliere un risultato assai inferiore alle attese, sebbene confermandosi la lista con il maggior numero di deputati.
GRANDI MANOVRE
«Il ministero degli Esteri non è legalmente registrato a mio nome», ha ironizzato suo malgrado Lieberman in un’intervista rilasciata alla radio dell’Esercito. Dimessosi dalla guida della diplomazia d’Israele un mese fa, dopo essere stato incriminato per frode e abuso di fiducia, il numero uno di Yisrael Beiteinu ha ammonito di essere comunque intenzionato a recuperare il dicastero che fu suo. Non lo ha affermato esplicitamente, ma tra le righe ha evocato il patto stretto con Netanyahu al momento di unire i ranghi: al premier la conferma alla guida dell’esecutivo; all’alleato, appunto, gli Esteri.
Fonti del Likud in via assolutamente riservata hanno tuttavia riferito alla radio pubblica che Lapid potrebbe ottenere alternativamente gli stessi Esteri oppure le Finanze in cambio del sostegno al prossimo gabinetto da parte dei diciannove deputati di Yesh Atid: un sostegno decisivo, in un Parlamento più spaccato di prima, con 61 seggi alla destra e 59 al centro-sinistra. Proprio le Finanze, ha però rimbeccato Lieberman, sarebbero la «naturale» ricompensa per l’ingresso di Lapid nella compagine governativa.
L’oggetto del desiderio non si sbilancia. L’unica cosa certa è il suo tirarsi fuori da una prospettiva «frontista» anti-Netanyahu: «Ho sentito parlare di blocco (anti-Netanyahu, ndr). Non ci sarà nessun blocco», ha affermato Lapid all’indomani delle elezioni legislative, lasciando intendere piuttosto di essere favorevole a eventuali, future, alleanze di governo con lo stesso Netanyahu. «I risultati delle elezioni sono chiari: bisogna lavorare insieme», ha sottolineato il leader del partito centrista. L’agenda politica di Lapid chiede: meno tasse, migliori servizi ai cittadini, a partire dall' istruzione, più uguaglianza nei doveri nei confronti dello Stato, ripresa del processo di pace con i palestinesi. E include: servizio militare o civile obbligatorio per i religiosi. È proprio la questione dei religiosi ortodossi haredim ad aver fatto breccia negli elettori convincendoli a votare per il partito di Lapid, Yesh Atid. Il problema è divenuto centrale, perché la società israeliana oramai non può più permettersi di mantenere una fetta così consistente della popolazione fuori non solo dall’obbligo di leva o del servizio nazionale alternativo, ma anche dallo stesso mercato del lavoro: la perdurante esenzione è oramai percepita come un privilegio e un fardello oramai intollerabili. Il che, secondo gli analisti politici a Tel Aviv, dovrebbe portare ad un’alternativa nella nuova coalizione: o il laico Lapid o i partiti religiosi.
Per Netanyahu che ieri a Gerusalemme ha incontrato il leader di Yesh Atid per oltre due ore e mezza la strada resta in salita anche se un po’ meno ostica dopo l’annuncio dei risultati definitivi che hanno fatto svanire il clamoroso pareggio, 60 seggi ciascuno, che si era profilato tra i due principali schieramenti alla Knesset. In virtù anche dello spoglio delle ultime schede mancanti, quelle relative a militari e detenuti, un seggio in più è stato assegnato ai sionisti di HaBayit HaYehudi (Focolaio Ebraico) , il partito dei coloni più intransigenti capitanato da Naftali Bennett, che passa da undici a dodici deputati. A farne le spese è stata Ram-Taal, la Lista Araba Unita, che scende da cinque a quattro. Il blocco conservatore conta adesso 61 seggi su un totale di 120, mentre al centro-sinistra ne restano 59.

il Fatto 25.1.13
L’intervista
Il voto visto dalla Palestina
“Difficile trattare anche con i moderati israeliani”
di Roberta Zunini


Certo questo inaspettato risultato elettorale cambia gli equilibri politici ma solo per quanto riguarda le questioni interne allo Stato israeliano. Per noi palestinesi il successo dei moderati non significa un'uscita automatica dalla situazione di stallo in cui Netanyahu ci ha costretti con il suo rifiuto di prolungare la moratoria sul blocco dell'espansione degli insediamenti ebraici”. Mentre il presidente israeliano Shimon Peres sta per affidare al premier uscente Benjamin Netanyahu l'incarico di formare il nuovo governo, inevitabilmente di coalizione, Nemer Hammad – ex rappresentante dell'Olp in Italia e attualmente consigliere del presidente dello Stato palestinese, Abu Mazen- - non abbandona il suo scetticismo sulla volontà delle istituzioni israeliane di riprendere i negoziati di pace. “Per formre il governo, Netanyahu non può prescindere da un'alleanza con Yair Lapid, il cui partito ha ben 19 seggi.
MA ANCHE LAPID, pur presentandosi come un moderato di centro, è a favore del mantenimento delle colonie in Palestina e della loro espansione, ciò significa che non intende realmente fermare l'occupazione”. Il fatto che Yair Lapid si sia più volte pronunciato a favore dei due popoli due Stati, dunque non garantisce secondo Hammad la ripresa dei negoziati. Per ottenere i numeri di seggi sufficienti per governare, il partito di maggioranza relativa, il Likud, dovrà peraltro imbarcare nella coalizione almeno un altro partito. “L'unico che ha i voti per permettergli di raggiugere 62 seggi su 120 è ‘Focolare ebraico’, il partito di destra legato ai coloni e questo inevitabilmente affievolisce le nostre speranze di pace. Voglio anche ricordare che ben 13 deputati del Likud appena eletti sono coloni agguerriti. La conseguenza è che il Likud di oggi non è per sua natura orientato ai negoziati”. Hammad aggiunge che anche i partiti di centro come Kadima e di centro-sinistra, il Labor, quando erano andati al governo, avevano incrementato l'occupazione. “La leader del Labor (Shelly Yachimovic) durante la campagna elettorale ha saltato a piè pari la questione palestinese, mentre Kadima è crollato. Si trattava del resto di un movimento personalistico, incentrato su Sharon e poi su Tzipi Livni, e quando la leadership è passata ad altri politici, meno carismatici, non ha tenuto”. Il consigliere di Abu Mazen non intende ovviamente dire che Lapid non rimarrà alla guida di “C’è futuro” (YeshAtid) ma che si tratta di una formazione ancora troppo giovane e quindi fragile e vulnerabile di fronte ai desiderata dei capitani di lungo corso.

il Fatto 25.1.13
Russia, l’orgoglio delle Pussy Riot


Le due Pussy Riot in carcere Maria Alyikhina e Nadezhda Tolokonnikova assicurano di non rimpiangere nulla di ciò che hanno fatto. Le due attiviste parlando delle condizioni della loro detenzione denunciano l'assenza di libri e l’isolamento. LaPresse

il Fatto 25.1.13
Il libro
Gli italiani, la colpa e la rimozione


Davanti al male, a quella ferita che ha squarciato il ‘900, gli italiani hanno avuto una lentissima e complessa presa di coscienza. Guardare in faccia l’Olocausto, non come un affare inventato dai cattivi discepoli di Hitler, ma come un crimine che coinvolse uomini e nazioni non è stata un’operazione semplice, né priva di contraddizioni, rimozioni, corto-circuiti culturali e politici. Come accade ogni anno all’alba della Giornata della Memoria, libri, mostre e convegni fanno girare all’indietro l’orologio della coscienza. E ci riportano nell’inverno della Storia, stagione atroce che ha trovato in Auschwitz una capitale ideale: il toponimo del campo liberato dalle truppe sovietiche il 27 gennaio 1945 è diventato un simbolo, in grado di significare da solo l’intera rete dell’operazione nazista. Robert Gordon, docente di Modern Italian Culture a Cambridge, ci guarda da fuori. In Scolpitelo nei cuori, (Bollati Boringhieri, in uscita in questi giorni) compila una storia sociale della memoria sull’Olocausto. Non è, come siamo abituati a leggere, la voce di un testimone del dolore, non è lo scritto di un ebreo italiano. Ma la prima analisi di ciò che, dopo l’orrore, è rimasto nella rete dei ricordi e della coscienza collettiva, elaborata attraverso lo studio della letteratura, della storiografia, ma anche della filmografia e della musica che hanno affrontato e proposto agli italiani il “problema Shoah”.
LE DOMANDE sono gravi – come, quanto abbiamo voluto tramandarne la memoria? Quali ricadute nelle nostre vite, quali insegnamenti, quali comportamenti ci deve imporre la storia della soluzione finale? – e le risposte non sempre sono facili da accettare. Gordon parte innanzitutto da una periodizzazione temporale, grazie alla quale emerge la linea di una “digestione culturale” lentissima. Che diventa presa di coscienza – delle dimensioni e delle responsabilità, anche nazionali – molto tardiva. Fino agli anni 50 si assiste a una “diffusa indifferenza, se non addirittura un totale silenzio, che circonda i crimini nazisti commessi contro gli ebrei e il sistema concentrazionario” e solo dagli anni 80 in poi, “la consapevolezza di massa raggiunge e si traduce in una pervasiva americanizzazione dell’Olocausto, anche attraverso il successo internazionale del film di Steven Spielberg Schindler’s List (1993)”.
L’Italia non è da meno: resta molto a lungo nel-l’atmosfera l’idea degli “italiani brava gente”, resta diffuso il sentimento autoassolutorio di un popolo che stenta a farsi carico del proprio passato. Gordon affronta diffusamente la legge Colombo (scritta e proposta da Furio Colombo alla Camera e presentata in Senato da Athos De Luca) che nel 2000 istituì in Italia la Giornata della Memoria, a cominciare dalla scelta della data: non quella “italiana” voluta da Colombo – il 16 ottobre, giorno del rastrellamento nel ghetto ebraico di Roma –, ma quella internazionale e più neutra del 27 gennaio. Sono pagine tristemente illuminanti quelle che mettono a nudo l’immaturità di un Paese che quasi mai è riuscito ad andare oltre il “tutti fascisti-nessun fascista”, ha usato la Resistenza come foglia di fico sulle responsabilità, anche collettive, e ancora oggi ha bisogno della misera par condicio dei crimini, fascisti e comunisti.

SCOLPITELO NEI CUORI di Robert S. C. Gordon, Bollati Boringhieri Pp 345, 27 euro

Repubblica 25.1.13
Dove sono tutti?
Il mistero delle galassie da cui nessuno si fa vivo
Le possibili risposte a un quesito nato con Fermi
di John D. Barrow


Quasi ogni settimana le agenzie stampa del mondo intero riferiscono la scoperta di nuovi pianeti orbitanti attorno a stelle lontane. Queste scoperte sono diventate così comuni da fare notizia soltanto se riguardo a esse c’è qualcosa di speciale. Il satellite Kepler della Nasa conquista i titoli in prima pagina perché è impegnato per lo più nella ricerca di pianeti abitabili: ciò significa pianeti piccoli e solidi come la Terra, che orbitino a una distanza media dalla loro stella tale da consentire alle temperature al suolo di restare miti e permettere all’acqua di rimanere liquida su buona parte della loro superficie. Se un pianeta è troppo grande, allora come Giove sarà formato da idrogeno gassoso o liquido. Se si avvicina troppo alla sua stella, la sua superficie diventerà troppo calda perché vi siano acqua e connesse forme di vita, come il lato rovente di Mercurio. Se orbita troppo lontano dalla propria stella, invece, allora l’acqua — qualora fosse presente — sarebbe eternamente ghiacciata. Meglio ancora: l’ideale sarebbe scoprire pianeti che si spostano lungo orbite praticamente circolari attorno alla loro stella, così da non subire sbalzi sostanziali di temperatura su base annua. Kepler può scoprire pianeti dall’orbita giusta misurando i loro periodi di rivoluzione attorno alla rispettiva stella. Poco alla volta, dopo alcuni anni di missione, sta iniziando a individuare pianeti che hanno dimensioni ridotte quali quelle della Terra e periodi di rivoluzione assai simili alla lunghezza del nostro anno.
La Missione Kepler è la prima missione spaziale in grado di identificare molti pianeti simili alla Terra intorno ad altre stelle. Fino a questo momento ha scoperto 2.740 pianeti candidati, e ha eseguito controlli e accertamenti dettagliati, giungendo alla conferma che 105 di essi sono effettivamente pianeti. Se a questo numero aggiungiamo quello appurato da altre ricerche, sappiamo che esistono 467 pianeti noti che orbitano attorno ad altre stelle. La frequenza con la quale Kepler individua nuovi candidati dotati di tali requisiti lascia intuire che almeno una stella su sei ha un pianeta abitabile e la metà di tutte le stelle ha un pianeta delle dimensioni della Terra. Estrapolando questo dato e applicando l’indice di frequenza delle scoperte all’intera nostra galassia della Via Lattea si arriva all’ipotesi che essa possa contenere 17 miliardi di pianeti simili alla Terra. E poi resterebbero da prendere in considerazione anche gli altri cento miliardi di galassie.
La grande quantità di pianeti interessanti che almeno in teoria potrebbero ospitare la vita ci spinge ancora una volta a riflettere sulla domanda che formulò per primo il grande fisico italiano Enrico Fermi nel 1950: se l’universo è così pieno di luoghi che possono ospitare la vita, e se la vita trova sempre un modo per evolversi, «dove sono tutti quanti?». Finora non abbiamo individuato alcun segnale proveniente da extraterrestri. Non abbiamo trovato prove di una vita consapevole da nessuna parte nell’Universo. Silenzio totale.
C’è tutta una serie di risposte che potremmo riuscire a dare alla domanda di Fermi. Quei “tutti quanti” potrebbero esistere ma non rivelarsi, forse perché noi siamo a tal punto interessanti da essere stati messi al riparo da qualsiasi tipo di interferenza così che possano studiare la nostra evoluzione. D’altra parte, potremmo anche essere troppo noiosi: se la nostra evoluzione e il nostro sviluppo sono tipici di ciò che accade in un numero incalcolabile di altri posti dell’Universo, non ci sarebbe tentativo alcuno di contattarci perché saremmo interessanti quanto può esserlo una nuova specie di coleotteri.
Un’altra possibilità è che siamo troppo ingenui: probabilmente sarebbe assai poco saggio manifestare la propria presenza quando forze ostili potrebbero considerarti una preda o una potenziale minaccia. In realtà, questo grande silenzio galattico potrebbe stare a segnalare una paranoia in crescendo sul silenzio. Se non si colgono segnali si pensa sempre che debba esistere una ragione per la quale gli altri non stanno emettendo segnali. Inviare segnali è forse pericoloso? Anche se si ignora quale sia il pericolo, è più sicuro starsene zitti.
È anche possibile che noi si sia molto più evoluti rispetto alle altre civiltà extraterrestri, al punto che nessuna di queste forse ha sviluppato la tecnologia necessaria a inviare un segnale. In effetti, noi stessi non avremmo potuto farlo un secolo fa. Quindi, siamo troppo evoluti. È anche possibile, tuttavia, che noi si sia troppo arretrati. Se esiste un Club Galattico d’élite, formato da civiltà parecchio più avanzate, può anche darsi che esistano alcuni requisiti di ammissione per farne parte. Potrebbe essere solo questione di tempo prima di scoprirlo: l’importante sarebbe sopravvivere allo sviluppo di tecnologie pericolose sufficientemente a lungo da dimostrare di aver sviluppato anche il sapere e la saggezza necessari a convincere il Club Galattico che permetterci di farne parte è sicuro. In alternativa, può anche darsi che l’ammissione al Club diventi possibile soltanto quando si è messo a punto un sistema di tecnologia delle comunicazioni molto più avanzato rispetto a quelli che abbiamo noi oggi. E soltanto allora saremo in grado di captare qualche segnale. Anche in questo caso, potrebbe essere necessario avere la capacità di sopravvivere a lungo come civiltà evoluta.
Questa idea ci induce a chiederci se stiamo andando nella direzione giusta rispetto a ciò che significa essere una civiltà tecnologicamente avanzata. In genere, noi siamo propensi a ritenere che “più avanzati” significhi avere razzi più grandi, macchine più potenti e un maggiore controllo dell’ambiente. In realtà abbiamo appena iniziato a prendere atto del potere della miniaturizzazione. Le nanotecnologie possono produrre macchine su scala molecolare. Forse le sonde spaziali degli extraterrestri molto avanzati sono costituite da macchine molecolari che passano del tutto inosservate, ma che sono in grado di riprodursi dalla materia reperita nello spazio, semplici minuscoli computer. Il nostro problema è che pensiamo troppo in grande.
Ci siamo anche chiesti se non siamo forse noi troppo in anticipo, la prima civiltà in grado di mettere a punto la tecnologia necessaria a comunicare a distanze interstellari. In ogni caso, ciò ci impone di avere uno status molto speciale, cosa che Copernico ci convinse di evitare di assumere. Nondimeno, c’è anche la più modesta possibilità che noi siamo troppo in ritardo. Forse sono esistite moltitudini di civiltà tecnologicamente avanzate, che vissero però per breve tempo. Forze interne quali malattie, inquinamento, guerre nucleari, sovrappopolazione e cambiamento del clima sono inevitabili e in definitiva ineluttabili. Una volta sviluppate alcune tecnologie, una civiltà è destinata ad andare oltre il proprio ambiente locale. Anche le forze esterne sono scoraggianti: i pianeti corrono sistematicamente il rischio di essere colpiti da asteroidi e comete, di subire irradiazioni provocate da esplosioni di stelle e di supernove. Le tecnologie molto avanzate potrebbero essere in grado di proteggere i pianeti e le forme di vita che li abitano da queste calamità, ma finché non si raggiunge quel livello molto avanzato e a meno di essere disposti a pianificare con enorme anticipo, si è sempre vulnerabili e soggetti a essere periodicamente risospinti nel passato, o estinti addirittura come i dinosauri, da cataclismi che si verificano con preoccupante regolarità.
Traduzione Anna Bissanti è professore di scienze matematiche all’università di Cambridge e ha pubblicato Il libro degli universi (Mondadori)

La Stampa 25.1.13
Castellitto: metto la tv (e me stesso) sul lettino
Costanzo dirige la versione italiana della serie cult “In treatment”
di Fulvia Caprara


Da aprile in onda La serie basata su un format israeliano - ripreso in Usa con Gabriel Byrne (foto sopra) è incentrata sul rapporto tra un analista (Castellitto) e i suoi pazienti

Qualcuno potrebbe addirittura scandalizzarsi. Si può trattare la psicanalisi come se fosse una soap-opera? Anzi, meglio, si può immaginare«un Posto al sole scritto da Sigmund Freud»? La risposta è sì. Lo ha dimostrato In treatment , basato sul format israeliano Be Tipul , ideato dal regista e sceneggiatore Hagai Levi, e adesso la versione italiana prova a bissare il successo della serie Usa realizzata da Hbo e divenuta subito culto. Nell’assaggio, presentato ieri sul set, a Formello, poco fuori la capitale, c’è un Castellitto impeccabile nei panni dell’analista Giovanni alle prese con i suoi pazienti. Sul divano, sotto il suo sguardo acuto, scorrono le loro vite. Un marito stressato (Adriano Giannini) e una moglie frivola (Barbora Bobulova), una bella ragazza che si è innamorata del suo terapeuta (Kasia Smutniak), un poliziotto infiltrato (Guido Caprino) che non riesce a liberarsi dai fantasmi di un’indagine sanguinosa: «Le parole - dice il protagonista - evocano immagini, sono come fiori che si schiudono. Durante ogni seduta viene fuori un pezzo dei personaggi, l’analista è come un confessore, una iena buona che si nutre dei pazienti».
Gli sceneggiatori di In treatment made in Italy (Ludovica Rampoldi, Stefano Sardo, Alessandro Fabbri, Ilaria Bernardini e Giacomo Durzi) hanno «permeato tutto di una leggera mediterraneità, ma, nello stesso tempo, rinunciando a qualunque riferimento esplicito alla realtà italiana, hanno creato storie che potrebbero svolgersi ovunque». Gli argomenti al centro della serie (35 episodi prodotti dalla Wildside di Lorenzo Mieli e Mario Gianani per Sky Cinema che li trasmetterà ad aprile) riguardano tutti noi: «La vita, la morte, il sesso, l’amicizia, la paternità, la maternità, i sensi di colpa». E la cosa più bella, sottolinea Castellitto, è la grande libertà con cui vengono affrontati: «Dopo tanta tv generalista, provo l’emozione dell’assenza totale dicensura, in questa sceneggiatura scritta così bene, si può parlare di tutto, affrontare qualsiasi terreno». Giovane psichiatra nel Grande cocomero di Francesca Archibugi, Sergio Castellitto dice che recitare è un po’ come andare in analisi: «Io non l’ho mai fatta, ma parlare, come fa chi va da un terapeuta, della propria anima e dei propri pensieri significa mettere in scena il proprio ego e in questo c’è un senso di vanità, proprio come quello che caratterizza gli attori... Insomma, per quanto mi riguarda, penso che a psicanalizzarmi sia stato il mio mestiere».
Ambientato nel chiuso dello studio dove si svolgono le sedute (una per ogni puntata, dal lunedì al venerdì), In treatment ricorda il teatro, ma in realtà è un esperimento di cinema da camera, perchè non c’è niente di più kolossal, di più spettacolare, dell’avventura dentro l’animo umano: «Io sono Sara - spiega Smutniak -, faccio l’anestesista e mi innamoro del mio analista. Nel corso dei nostri incontri cerco di convincerlo che sono la donna perfetta per lui». La lavorazione, senza «flash-back» e con pochi tagli , prevede ciak che durano anche 20 minuti, cosa inimmaginabile su un set cinematografico: «Abbiamo fatto prove come per il palcoscenico - dice il regista Saverio Costanzo - questo sta diventando il divano più difficile d’Italia». Del cast fanno parte anche Valeria Golino nel ruolo di Eleonora, la moglie (in crisi) del protagonista, Irene Casagrande in quello di Alice, giovane danzatrice che custodisce un trauma inconfessabile, Valeria Bruni Tedeschi, sua madre, e Licia Maglietta, vecchia amica e mentore di Giovanni che va a trovarla ogni venerdì, passando dall’altra parte della barricata, ovvero da analista ad analizzato: «Le serie tv - osserva Andrea Scrosati vice presidente di Cinema Sky - hanno riportato in alto il livello della scrittura televisiva, il nostro prodotto è concentrato proprio su questo, e sullo schermo si vede».

l’Unità 25.1.13
WASSILY KANDINSKY DALLA RUSSIA ALL’EUROPA

Pisa, Blu FIno al 17 febbraio LETTERE DALL’ESILIO, 1933-1940 Josef Albers e Wassily Kandinsky (pagine 164, euro 16, Mimesis)
Doppio Kandinsky: a Pisa in mostra 50 opere del periodo russo del padre dell'astrattismo (1901-1921). E 44 lettere scritte durante l’esilio: nel 1933 gli ultimi membri rimasti al Bauhaus decisero di chiudere prima dei termini imposti dal Terzo Reich.

l’Unità 25.1.13
FIRENZE L’ALCHIMIA E LE ARTI

A cura di Valentina Conticelli
Firenze, Galleria degli Uffizi Fino al 3/02 – catalogo Sillabe
Attraverso una sessantina di pezzi, tra dipinti, sculture, incisioni, codici manoscritti, testi a stampa illustrati, ampolle, alambicchi, fornelli, vasi farmaceutici e altre cose mirabili, l’esposizione racconta la passione per l’alchimia dei sovrani medicei Cosimo I e di suo figlio Francesco I. Fu quest’ultimo che nel 1586 stabilì l’officina di distillazione di medicinali agli Uffizi, dove rimase per circa 200 anni.