lunedì 28 gennaio 2013

l’Unità 28.1.13
Centrosinistra, sette punti di vantaggio
Pd e Sel al 34,5% mentre Pdl e Lega sono al 27,7 Parità al 14% Monti-Grillo
L’inedita guerra mediatica. Come i nuovi media stanno cambiando la campagna elettorale
di Carlo Buttaroni

Presidente Teknè

Le prossime politiche sono tra le più importanti nella storia della nostra Repubblica. Per molti versi sono «elezioni costituenti», perché rappresentano il «ground zero» sul quale sarà edificato, nei prossimi anni, il sistema sociale, politico ed economico dell’Italia. Anche il rapporto e il ruolo che avremo in Europa è in larga misura legato a chi vincerà le elezioni e a come si distribuiranno i pesi politici all’interno del prossimo Parlamento. Mai come in quest’occasione quel nichilismo tenue che porta alcuni a pensare che «chiunque vinca non cambierà nulla» è destituito di ogni fondamento. Eppure, a pochi giorni dal voto, ancora non si avverte un’adeguata consapevolezza rispetto all’importanza di queste elezioni. Tutto appare ancora sfumato e le grandi questioni che riguardano il futuro dell’Italia non sono in campo con l’importanza che meriterebbero.
Le elezioni di quest’anno sono anche quelle in cui il ruolo dei media è più decisivo ai fini dell’esito elettorale. E quest’aspetto non è irrilevante nel calibrare l’attenzione dell’opinione pubblica. Non perché sono i media a dettare l’agenda politica ma perché è la politica che è condizionata dalla potenza degli strumenti, senza però essere in grado di orientarli. Se prima erano i manifesti e i comizi di piazza a produrre l’eco maggiore, adesso è la presenza nei palinsesti televisivi e sui social network a fare la differenza nella costruzione o ricostruzione dell’homo politicus 2.0.
La televisione e internet sono diventati gli agorà ove i cittadini condividono le proprie opinioni in maniera globale. I commenti su questo o quel candidato, infatti, non sono più discussioni ristrette da bar, ma sono diventati tam tam globali attraverso i social network. Una cassa di risonanza potentissima che rende il cittadino, nel suo piccolo, «campaign manager» delle proprie istanze e opinioni. Questa dinamica corrisponde alla fotografia dell’Italia che comunica, scattata dal Censis nel 10° rapporto sulla comunicazione. Il pubblico televisivo è ormai composto dalla quasi totalità della popolazione italiana, ma sono cambiate e diversificate le modalità con cui si guarda la televisione. Oggi, infatti, un quarto degli italiani collegati a Internet segue i programmi attraverso i siti web delle emittenti televisive e il 42,4% li cerca direttamente su YouTube. Tra i giovani queste percentuali salgono al 35,3% e al 56,6%. La diffusione della tecnologia rende le connessioni più semplici e più immediate e permette di rivedere una puntata in qualunque momento, discuterne in rete e aprire un dibattito che rimbalza da sito a sito, nei blog e nelle discussioni delle chat rooms. Le conseguenze immediate di queste trasformazioni si ritrovano nella diminuzione dei lettori della carta stampata (-2,3% i quotidiani tra il 2011 e il 2012) e una conseguente crescita di chi usufruisce dei quotidiani online (+ 2,1% rispetto al 2011). La diffusione della comunicazione tecnologica ha cambiato profonda-mente anche il rapporto stesso tra informazione e politica, modificando profondamente i rapporti. Un processo anch’esso non nuovo, ma che in questa campagna elettorale sembra affermarsi in tutta la sua potenza.
Quasi trent’anni fa, Joshua Meyrowitz osservava che le telecamere invadono le sfere individuali dei politici come spie che penetrano nei retroscena. Per il sociologo statunitense, gli obiettivi riprendono i politici mentre sudano, immortalano le loro smorfie dopo una frase mal riuscita, li registrano freddamente quando soccombono alle emozioni. Con internet tutto questo si eleva all’ennesima potenza, perché ogni cosa diventa disponibile e accessibile in qualsiasi momento. Ogni informazione è in grado di raggiungerci o è raggiungibile in qualsiasi momento e da qualsiasi luogo. Una vera e propria rivoluzione digitale che ha cambiato, inevitabilmente, le modalità di raccolta e mantenimento del consenso, modificando il linguaggio politico che si è adeguato alle grammatiche e alla velocità dei nuovi media. La comunicazione politica si trasforma in video clip che, in trenta secondi, deve evocare, convincere, attivare. E se da un lato i cittadini sono diventati sempre più disposti al consumo di quella politica che agisce all’interno di un «campo» virtuale (più che nelle piazze e nelle strade) dall’altro sono anche diventati i montatori di quei frammenti casuali di comunicazione politica che circola in internet. Una proattività nuova, ancora poco conosciuta e indagata.
Ma la comunicazione tecnologica impone le sue regole: il «non detto», le emozioni o l’intimità della vita privata, diventano i temi privilegiati attraverso cui mostrarsi, esibire la propria persona. I tanti programmi di «parola» diventano utili vetrine di contatto con quelle fasce di popolazione che praticano poca politica ma guardano molta tv. La politica entra così nelle case di ognuno e, grazie alla vastissima disponibilità di palinsesti, raggiunge i target più diversi adattandosi di volta in volta ai temi e alla temperatura comunicativa. Anche nei talk show destinati al confronto politico la disponibilità a collaborare alla logica, comunque, intrattenitiva del programma trova espressione nella performance del politico che si presta a fare battute di spirito o a caricare di animosità i dibattiti. Gli studiosi definiscono ‘infotainment’ questa condizione ormai predominante, rendendo sempre più sfumati i confini tra informazione e intrattenimento. Un’informazione spettacolare, attraente, facilmente fruibile per uno spettatore che ricerca soprattutto occasioni d’informazione. Come effetto la politica diventa sempre più «genere», argomento da dibattere, contenuto da far circolare nei social network. Si fa ricorso al termine ‘politainment’ proprio per descrivere questa forma di comunicazione nata dall’incontro tra realtà politica e intrattenimento e che ha portato i contenuti e gli attori della politica a rendersi prodotti, più che protagonisti, della comunicazione tecnologica.
Alcuni studi internazionali hanno messo in luce che il matrimonio tra politica e media può rappresentare un ponte verso quelle fasce di cittadini che, tradizionalmente o intenzionalmente, sono distanti e distratti rispetto alle forme comuni della partecipazione politica. Anche programmi televisivi che sembrerebbero essere lontani alla sfera della comunicazione politica possono essere dei vettori di nuove forme di partecipazione. D’altronde nell’epoca della «democrazia pragmatica» e della partecipazione volatile alla vita politica, i media rappresentano dispositivi conoscitivi che richiedono un impiego limitato di risorse, dove anche le soft news e i programmi di infotainment sono importanti fonti di conoscenza.
Se tutto questo è un bene o un male è difficile dirlo. Certo è che i progressi tecnologici stanno orientando le strategie di comunicazione. Un cambiamento epocale di cui i soggetti politici non possono non tenere conto. Sarà questo, probabilmente, il futuro della comunicazione politica. E anche in questo senso le prossime elezioni rappresentano una fase costituente.

La Stampa 28.1.13
Prima volta sotto il 30%
“Un effetto sui sondaggi c’è ma è lieve e non durerà”
Gli esperti: il Pd perde qualcosa a vantaggio di Grillo e Ingroia
di Francesca Schianchi


Anche se ci fosse un travaso di consensi non andrebbe di certo a favore di Berlusconi e di Maroni
Fabrizio Masia, EMG
I numeri restano favorevoli alla sinistra. La coalizione fra Pd e Sel continua ad avere sette punti in più del centrodestra Pietro
Vento, DEMOPOLIS
Molto efficace la reazione di Bersani («se ci attaccano li sbraniamo»). Ha espresso sdegno e al tempo stesso è stata intimidatoria
Roberto Weber, SWG

Una lieve flessione del Pd, forse solo temporanea. Con voti che potrebbero traghettare non tanto verso i principali avversari, Monti o Berlusconi, ma piuttosto in direzione di forze nuove e «vergini» di legami di potere, come il Movimento 5 Stelle di Grillo e Rivoluzione civile di Ingroia. I sondaggisti alle prese con le rilevazioni questo prevedono: che l’affaire Monte dei Paschi di Siena possa incidere, ma solo leggermente, sulle percentuali del Pd, partito che ha una vicinanza storica all’istituto senese.
«Non ho ancora fatto un sondaggio dopo il caso Mps, perché temo che il forte umore mediatico possa falsare i dati, mentre tra qualche giorno le percentuali saranno più puntuali», premette Roberto Weber dell’Istituto Swg. «Ma il paragone che mi viene subito alla mente è con la vicenda Unipol, nel 2005 (il tentativo di scalata alla Bnl, ndr). Anche allora, ricordo, il vantaggio a favore del centrosinistra era semi-incolmabile: con quella storia, Berlusconi cominciò invece a pareggiare le elezioni dell’anno dopo. Questa volta però ci sono differenze: intanto, il panorama non è bipolare, ma estremamente frammentato, i voti che eventualmente usciranno dal Pd non andranno necessariamente al centrodestra. E poi c’è stata la reazione di Bersani». Se ci attaccano li sbraniamo, ha detto. Dice che funziona? «Ha trasmesso uno sdegno emotivo forte, e, nello stesso tempo, è stato intimidente. Questo doppio registro funziona. Allora, ai tempi del caso Unipol, non ci fu una reazione così». Per questo, «e anche perché le banche non godono della fiducia della pubblica opinione, che può quindi avere la tendenza ad attribuire a loro tutta la colpa», secondo Weber «un decremento del Pd può esserci, ma non un tracollo».
Chi ha già rilevato un calo dei democratici, in un sondaggio realizzato giovedì scorso, è l’Istituto Demopolis. Li ha fotografati al 29%, per la prima volta sotto il 30% dai giorni delle primarie. Ma, ci tiene a precisare il direttore Pietro Vento, «è difficile dire se sia solo effetto di un’offerta politica più competitiva oggi rispetto al mese scorso, o se sia anche conseguenza dell’impatto del caso Mps». I numeri di Demopolis sono comunque ancora favorevoli a Bersani: la forbice della coalizione Pd-Sel con il centrodestra di Berlusconi e Maroni resta di sette punti, 34,5% a 27,5%.
Terminerà le sue rilevazioni oggi anche Fabrizio Masia, dell’Istituto Emg. Ma una percezione già la può dare: «Penso che la questione Monte paschi possa avere un piccolo effetto negativo sul Pd, di uno o due punti: ma se anche così fosse, potrebbe essere un fenomeno di breve periodo che viene riassorbito da una buona strategia comunicativa». Molti fattori, ragiona Masia, possono ancora incidere: «Ad esempio come viene comunicata la notizia. Dire che sono stati dati soldi a una banca è diverso dal dire che sono stati prestati e dovranno essere restituiti con gli interessi… La percezione dell’opinione pubblica dipende anche da questo». Importante anche, ricorda il direttore di Emg, «la capacità del Pd di comunicare estraneità alla vicenda. La linea corretta è quella di mostrarsi sicuri senza eccedere in aggressività».
E se qualche elettore dovesse abbandonare il Pd, dove porterà il proprio voto? «Credo né a Monti né a Berlusconi, ma all’astensionismo o ai movimenti di protesta, come il Movimento di Grillo o Rivoluzione civile di Ingroia», valuta Masia. Stessa riflessione di Weber: «Se questa faccenda fa perdere voti al
Pd, li guadagna Grillo. Lui è strepitosamente bravo a interpretare e sceneggiare l’insofferenza, ed è il più credibile: può dire “io sono fuori da tutto, io con tutto questo non c’entro niente”». E Vento sottolinea un altro fattore da non dimenticare: «Solo il 57% degli elettori ha già fatto una scelta definitiva. Uno su cinque non ha ancora deciso, mentre il 23% dichiara un voto ma dice che potrebbe cambiare idea nelle prossime settimane. Di fatto, assistiamo a una liquidità del mercato elettorale mai registrata prima».

Corriere 28.1.13
La scomparsa dei cattolici dalla campagna elettorale
di Giuseppe De Rita


Forse non è inutile, anche se non di moda immediata, capire cosa ci sia sotto la inaspettata scomparsa del mondo cattolico in questo primo periodo di campagna elettorale. Partito un anno fa per rilanciare una sua compatta presenza (addirittura con l'ipotesi di un «nuovo soggetto politico»), esso si è progressivamente frantumato in varie strade e liste elettorali. Una dispersione che qualcuno «in alto» ha cercato di evitare con l'endorsement all'attuale premier ma che, dopo lo spazio di un mattino, ha ripreso a produrre i suoi effetti, e tutti gli interessati si sono affannati ad accasarsi nella squadra che contava e/o offriva di più. L'appartenenza cattolica è diventata un elemento del curriculum individuale, non il riferimento a un'anima collettiva di proposta politica.
È fin troppo moralistico dare la colpa di tutto ciò alle singole furbizie di posizionamento. Piuttosto la ragione va attribuita a una debolezza culturale profonda: il mondo cattolico, malgrado la sua antica fama di antistatalismo, è forse il più fedele seguace della centralità e della sovranità dello Stato; della sua titolarità esclusiva a perseguire il bene comune; dell'importanza della funzione politica che lo gestisce; della dinamica elettorale che quella funzione alimenta e certifica. Sta quindi in questa complessa adesione al primato dello Stato la base della debolezza politica del mondo cattolico.
Eppure tutti vediamo bene che lo Stato-centrismo è in crisi dappertutto e che il mondo va verso una logica squisitamente policentrica del potere, solo che si ricordi la crisi degli stati nazionali e della loro sovranità; la crescita di poteri sovranazionali non riconducibili a strutture sovrastatuali (la Ue e l'Onu); la forza dei flussi (monetari, di popolazione, di culture) rispetto ai luoghi della sovranità; il peso crescente di poteri destrutturati, (ultimi i tuareg e le tribù africane) rispetto ai poteri magari militari degli Stati; il crescente potere logistico, finanziario e politico delle trenta grandi metropoli planetarie (da Londra a Shanghai); tutto fa prevedere che nei prossimi decenni il potere non sarà più degli stati nazionali, ma di nuove e plurime sedi di responsabilità.
Se qualche volta ci ricordassimo, cattolici e laici, che il cristianesimo non è solo una religione ma una realtà che è stata storicamente partecipe della nascita e della scomparsa di interi mondi, allora dovremmo poterne riconoscere il ruolo nel coltivare i riflessi anche italiani dei citati processi di crescente de-statalizzazione e di crescente policentrismo dei poteri. Ed invece restiamo provinciali sostenitori del primato dello Stato; laicamente obbedienti a tenere la religione circoscritta nella sfera privata e fuori della dinamica statuale; affezionati all'impiego statale; devoti al Welfare State che copre i nostri bisogni sociali; assuefatti all'idea che solo lo Stato è titolare del perseguimento del bene comune; e tutti quindi occupati oggi a capire quali forze politiche lo occuperanno e guideranno; e chi simbolicamente lo impersonificherà come Capo dello Stato.
In cotanto antropologico statalismo (certo non compensato dal riferimento a una fantomatica «società civile») il mondo cattolico sembra purtroppo vivere bene, senza troppe preoccupazioni per quel bene comune che a parole dice di perseguire. Vede la povertà del contesto, ma non ha la visione sociopolitica necessaria per andare oltre; e se l'avesse avrebbe paura delle potenziali accuse di fondamentalismo; per cui si premunisce disperdendosi un po' in tutte le formazioni che vanno alle elezioni; tirando un po' a campare, ma promettendo che si mobiliterà se e quando saranno in pericolo i cosiddetti valori non negoziabili.
In questa non entusiasmante prospettiva a breve termine, forse sarebbe stato più utile «saltare il turno» delle elezioni di febbraio e prepararsi alla prossima volta, facendo maturare quella unitaria capacità di discernimento e proposta che oggi non risulta in gioco.

l’Unità 28.1.13
Amos Luzzatto
«Da Berlusconi operazione inaccettabile: il fascismo non si può spacchettare
Purtroppo non è neppure la prima volta, ci aveva provato anche in passato»
«Irresponsabile, falsifica la storia per calcolo elettorale»
di Umberto De Giovannangeli


«Cosa dire... Silvio Berlusconi ci è ricascato. Una cosa del genere era già avvenuta quando io ero presidente dell’Ucei (l’Unione delle comunità ebraiche italiane). Le affermazioni di Berlusconi offendono la verità storica, oltre che la memoria di quanti sono state vittime del regime fascista. Distinguere la campagna antisemitica da tutti i precedenti del regime fascista, non è assolutamente giustificabile». A sostenerlo è una delle figure più autorevoli dell’ebraismo italiano: il professor Amos Luzzato.
Professor Luzzatto, nella Giornata della Memoria, l’ex presidente del Consiglio e leader del Pdl, Silvio Berlusconi, ha affermato, che “le leggi razziali sono state la peggiore colpa di Mussolini, che per tanti altri versi invece aveva fatto bene”. Lei che ha vissuto il ventennio e che ha ricoperto per anni l’incarico di presidente dell’Ucei, come valuta queste affermazioni?
«Come un fatto grave, molto grave. Tanto più che non è la prima volta che Silvio Berlusconi tenta questa operazione di falsificazione storica, presentando un fascismo “buono” differenziato da quello “cattivo”. Una cosa del genere l’aveva fatta anche quando io ero alla presidenza dell’Unione delle comunità ebraiche italiane. Dopo le proteste che seguirono alle sue parole, Berlusconi si era dichiarato disponibile a giustificarsi anche nei confronti degli ebrei italiani. Ma ieri come oggi non si tratta di esigere “giustificazioni”. Berlusconi non ha più l’età di uno scolaretto, peraltro scarsino in storia. Lui è un leader politico che per tanti anni ha rappresentato, da presidente del Consiglio, l’Italia nel mondo. E oggi queste sue improvvide esternazioni tornano a circolare nel mondo, con quali risultati è facile immaginarlo».
Perché Berlusconi ha fatto queste affermazioni proprio oggi, nella Giornata della Memoria. È solo una incontinenza verbale?
«La mia prima sensazione è che dietro queste parole vi sia un calcolo elettorale. L’onorevole Berlusconi sembra essersi messo alla caccia di voti che altrimenti gli sfuggirebbero. Ma la verità storica non dovrebbe essere piegata, violentata, per calcoli elettorale. E la verità è che non proponibile, giustificato o giustificabile il tentativo di separare nettamente la politica razzistica di Mussolini da tutte le altre scelte operate dal fascismo. Una operazione del genere è inconcepibile, ridurre il fascismo ad una sorta di “puzzle” come pezzetti buoni e altri cattivi, farebbe probabilmente inorridire lo stesso duce».
Qual è l’aspetto più insidioso di questa uscita del Cavaliere?
«È provare a “sfaccettare” qualcosa che invece è profondamente coesa: la politica del regime fascista. E dietro questa linearità c’è l’ideologia che la sottende. In tutta l’ideologia fascista c’è un atteggiamento persecutorio nei confronti delle minoranze politiche ed anche religiose. Una ideologia che richiamandosi, non solo nei simboli, all’impero romano, cercava di dare una parvenza pseudo culturale ad una politica espansionista che puntava all’allargamento dei confini, con la sottomissione di gruppi non italiani, come ad esempio in Europa gli slavi del confine orientale, e fuori dall’Europa a nuove conquiste coloniali, in particolare dell’Europa. E tutto questo si è verificato prima dell’emanazione delle leggi razziali. Il che dovrebbe portare chiunque abbia un minimo di onestà intellettuale a non mettere in discussione il fatto che l’impostazione sciovinistica e imperialistica sia una presenza costante, identitaria, del fascismo e il razzismo antisemitico praticato dal regime s’incardina in questo contesto. Né è parte integrante, non una deviazione spregevole». Storia e politica s’intrecciano, oggi come ieri. Con quale proposito?
«Mi pare evidente. Creare una barriera all’interno della storia del fascismo, dando del regime stesso una visione accettabile, espurgandone la politica razzistica. Quella che si tenta è una forzatura che punta anche a rafforzare una idea sbagliata, auto consolatoria, quella degli italiani “brava gente”, ma la realtà di quel ventennio è ben altra. E Berlusconi farebbe bene a non chiudere gli occhi su di essa. Il pericolo più grande, lo ripete, è quello di “spacchettare” il fascismo. È una falsificazione storica, irresponsabile. Perché si tende a sorvolare sul legame, indissolubile, logico e culturale, oltre che politico, che è sempre esistito tra i provvedimenti dittatoriali del regime con l’atteggiamento persecutorio verso le minoranze, gli ebrei, certamente, ma anche verso tutti coloro che agli occhi dei fascisti erano “diversi” e dunque da espungere dalla società “pura”: gli zingari, gli omosessuali, gli oppositori politici... Con loro noi ebrei abbiamo condiviso i lager nazi-fascisti. Questa verità storica è parte fondamentale di una Memoria che va difesa, coltivata, trasmessa alle giovani generazioni. Perché senza memoria non c’è futuro. E senza memoria di ciò che realmente è stata l’ideologia, e la pratica, fascista, è più difficile contrastare il “virus” dell’intolleranza razzista che ancora oggi è presente in Europa e anche in Italia».

l’Unità 28.1.13
Fascismo quotidiano sui muri di Roma
Ecco dove vuole pescare il Cavaliere
Scritte, disegni, manifesti rivelano il territorio di conquista dell’ex premier e dei suoi alleati
di Marco Bucciantini


ROMA C’è un passo indietro nel frasario elettorale. Abituati da Berlusconi, e dal coro al motteggiare in stile ‘48 (comunisti, stalinisti, statalisti), adesso si pesca nel torbido, espressioni e stili fanno riferimento al 1922, alla marcia su Roma, lusingando quel sentimento che alligna ancora nelle cantine di Tor Bella Monaca e nei salotti dei Parioli.
Le parole di Berlusconi sul fascismo sono un calcolo perfino lucido. Si è intestato la battaglia di recupero dei delusi «dalla codardia di Alemanno». Sono voti. Molti: basta fare una passeggiata per la Capitale e guardarsi intorno, leggere i muri e i manifesti, vergati con i caratteri tipografici del Ventennio (oggi quel particolare font si chiama “Mostra”), i disegni eretti, squadrati, le sentenze futuriste, i vettori tesi, verso il futuro, solo che è tutto già accaduto, quasi un secolo fa. «Dux mea lux», si legge, dappertutto, perfino a San Lorenzo dove qualche mano benedetta poi cancella, ma la storia ormai è offesa. A Monteverde resiste, ma lì c’erano le sezioni del Movimento sociale, rimpianto partito di lotta e di strada.
Le strade, allora. Una premessa pedante: la Costituzione italiana (nelle disposizioni transitorie) vieta la «riorganizzazione del disciolto partito fascista», e aggiunge: «Sotto qualsiasi forma», che allarga il reato, non lo chiude al plagio del Pnf ma impone un’interpretazione ampia: è fascista un riferimento nostalgico a Mussolini, è fascista per esempio una lettura xenofoba dell’economia. È fascista un certo tipo di linguaggio: ripetere frasi e convinzioni del Duce. «Esaltare» elementi del Ventennio, «denigrare» la democrazia e anche la Resistenza. Questo è scritto sulla Carta. Frontiera confermata marcata dalle due leggi che specificano la disposizione costituzionale: quella del 1952 (che istituisce il reato di apologia del fascismo) e quella del 1993, la cosiddetta legge Mancino, che punisce con la reclusione «chi pubblicamente
esalta esponenti, principi, fatti o metodi del fascismo, oppure le sue finalità antidemocratiche».
Questi reati sono a cielo aperto. Sono nel panorama di Roma, ogni giorno, per tutti. Ci sono slogan autarchici che sono citati dai politici del centrodestra e della Lega, a volte con malizia, più spesso con ignoranza. Gli anniversari dei “caduti” nella cronaca sanguinaria degli anni settanta e ottanta diventano convocazione di tutti questi verbi: lottare, credere, combattere, obbedire, morire, difendere. Casapound, novità elettorale del 2013, ha riempito la città di proclami: «L’Italia in marcia», nemmeno tanto sottile richiamo a quella camminata dell’ottobre del 1922, sovrimpressa all’immagine di Perseo con la testa della medusa in mano (la statua del Cellini). Due significati politici di facile lettura: la spada pronta del Perseo («È l’aratro che traccia il solco, la spada lo difende»: massima di Benito Mussolini) e il taglio della testa, che nella statua significa la cesura con le politiche repubblicane, a favore dell’uomo solo al comando.
Finezze. Altrove è più chiaro: «Patria o morte», oppure quel manifesto con la statua stilizzata e il dito puntato contro il governo «incompetente e vigliacco». «Sangue ed eroi» erano vocaboli sul manifesto con il duce in assetto di guerra che ha girato l’Italia (comparve perfino a Bolzano). «Bigotta e infame» è la destra parlamentare per Giuseppe Iannone, leader di Casapound. Ogni tanto si fanno prendere la mano: e giù svastiche, e «onore a Rudolf Hess», il vice pentito di Hitler, e anche «Sieg Heil», il comando collettivo dei nazisti: scritte che hanno umiliato i licei romani, il Tasso e il Mamiani (qui anche un pazzesco «W Hitler»), raid necessari alla loro strategia di segnare il territorio. Perché la destra (estrema e parlamentare) è da anni in disfacimento e ricomposizione. Casapound si preoccupa della gioventù: guarda lontano, lavora nelle scuole, rimpolpa Blocco studentesco (anch’esso massicciamente presente sui muri di Roma). Per questo insiste su temi aggreganti, organizza appuntamenti esuberanti e sbarazzini. Forza Nuova invece picchia duro sul sociale. In questo sono vicini al lessico della Destra di Francesco Storace, in corsa per la Regione. Famiglia, economia, lavoro. Le patologie sono prevedibili: l’omosessualità è una malattia, e gli stranieri, e l’Euro, e le banche (anche Beppe Grillo è grossomodo su questo spartito). Le ricette sono l’autarchia e l’ordine. «Ricordiamo quello che siamo stati, per tornare a esserlo domani» sta scritto sul volantino animato da un monumento fascista.
Per la lettera costituzionale questi sono reati. Eppure è concreta la possibilità di avere parlamentari emersi da questo brodo culturale. In lista a Napoli con Casapound ci sono tipacci arrestati in settimana mentre organizzavano al telefono lo stupro di una studentessa ebrea. L’antisemitismo è un collante della galassia destrorsa. Il centro di documentazione ebraica di Milano ha analizzato la comunicazione e le attività di queste persone: il pathos antisemita è aumentato del 40% negli ultimi due anni. Ma loro tirano dritto, (altre parole del Duce). «Talenti è fascista», il «Quartiere Trieste è fascista», «Prati è Nera. Onore», e accanto una svastica: questo imbratto era a 60 metri dalla questura. È la facciata plebea della destra romana, che adesso tenta il protagonismo. Corteggiata e tradita (forse è una manfrina) da Storace, Alemanno, Meloni che hanno pescato qui dentro, rivestendo in giacca e cravatta gente con un passato fra Ordine Nuovo, Terza Posizione, Avanguardia Nazionale, (e un presente fascio-rock, come l’ex console Mario Vattani), talvolta con un curriculum penale mica da ridere. Loro sono già il sostegno di Berlusconi, chiuso da Monti verso il centro. Gli altri, quelli dei manifesti, delle scritte nere, delle svastiche sono l’unico territorio di conquista che gli è rimasto.

La Stampa 28.1.13
Sotto osservazione l’odio via web “I più giovani a rischio-contagio”
di Francesca Paci


Dopo l’allarme del premier: nessuna emergenza, ma la guardia resta alta
I militanti di Casa Pound si definiscono «i fascisti del Terzo Millennio»
Nei giorni scorsi alcuni di loro sono stati arrestati perché accusati di aver progettato lo stupro di una ragazza ebrea

L’Italia ha motivo di temere rigurgiti o nuove tentazioni antisemite? L’appello del premier Mario Monti, che partecipando alla Giornata della memoria ha invitato il Paese a tenere alta la guardia contro un pericolo «ancora ben presente», segue di pochi giorni l’arresto dei militanti di Casapound, rei di aver progettato lo stupro di una studentessa ebrea di Napoli. Qualcosa sta cambiando? La domanda circola a bassa voce negli ambienti più sensibili alla materia perché nonostante il germe razzista coltivato nelle tifoserie ultras, l’Italia, a differenza della Francia, non è abituata a dimostrazioni d’odio settario-religioso come la profanazione di sinagoghe (o di moschee).
«L’Italia è sicuramente uno dei Paesi in cui il Giorno della memoria è sentito maggiormente e la lotta all’antisemitismo non viene fatta per compiacere gli ebrei locali ma a garanzia di una società democratica» osserva Menachem Gantz, corrispondente da Roma di Yedioth Ahronoth, il principale quotidiano israeliano. A suo parere un’eventuale riflessione dovrebbe riguardare più il passato del presente: «Sebbene nessuno possa mai considerarsi al sicuro dal virus antisemita l’Italia è abbastanza vaccinata. Il problema semmai è che talvolta tratta il giorno della memoria come un evento avvenuto altrove, quasi che qui avessero agito solo i partigiani».
Se la guardia va tenuta alta è nei confronti della Rete, ragiona l’economista e saggista Giorgio Gomel. Un fenomeno virtuale, per ora, ma non controllabile: «Non c’è alcuna marea montante di antisemitismo e credo che come ebrei dovremmo evitare esagerazioni, però internet alimenta un universo parallelo dove pullulano siti fascistizzanti o addirittura neonazisti come quello intitolato Stormfront e ora chiuso». L’Italia, comunque, si difende: «Che sia o meno applicato sempre alla perfezione esiste un quadro giuridico rigoroso in cui la legge Mancino del ‘93 punisce ogni forma di istigazione all’odio razziale e religioso rafforzando così la legge Scelba contro l‘apologia del fascismo. Il tema del web è importante anche per la difficoltà di valutare l’impatto della propaganda sui giovani».
La cultura è uno scudo, concorda David Meghnagi, docente universitario e delegato per l’Italia alla conferenza dell’Osce contro l’antisemitismo. Uno scudo che però, per la sua stessa natura, non è inviolabile: «Il deterioramento delle istituzioni e del clima sociale può portare a facili capri espiatori. Il problema si avverte a due livelli: quello politico, per cui su siti di movimenti come il 5Stelle sono caduti i tabù e fioriscono le battute antisemite, e quello culturale del rifiuto d’Israele da parte dell’estrema destra. Finché le istituzioni tengono va bene, ma se, come sta avvenendo, il livello culturale regredisce allora c’è da preoccuparsi, anche perché la Rete è un moltiplicatore di linguaggi violenti».
Il modello italiano tiene, insomma, almeno sul fronte antisemita. Ma non dimentichiamo cosa sta accadendo in alcuni paesi europei, chiosa il presidente della comunità ebraica di Roma Riccardo Pacifici, di ritorno da una manifestazione contro gli estremisti dell’opposizione ungherese Jobbik: «Sebbene in Italia non ci sia alcun allarme, sta montando la propaganda ideologica di alcuni gruppi politici, anche tra quelli candidati alle elezioni, il cui target è l’immigrato ma la cui radice è nell’humus antisemita».

La Stampa 28.1.13
Cardini: “In quelle frasi c’è un complesso napoleonico e la ricerca di voti vacanti”
Lo storico: “Giudizi privi di valore scientifico”
di Gia. Gal.


Berlusconi è scivolato su un bricolage di fantastoria: una mistificazione con finalità elettorali e demagogiche». Il professor Franco Cardini, storico dell’università di Firenze, stigmatizza la «lettura antiscientifica del fascismo offerta dall’ex premier».
Cosa la inquieta nella «rivalutazione» di Mussolini?
«La strumentalità. Berlusconi loda il Duce perché sta inseguendo un bottino di voti vacanti e non certo per aprire una riflessione culturale sul Ventennio. In politica l’uso della storia è fisiologico, l’abuso no. Anche Stalin e Hitler hanno fatto cose buone: la legislazione sociale e il Welfare del nazismo erano notevoli, ma ciò non significa nulla. E non attenua affatto le colossali colpe di quei totalitarismi. La storia non è giustificazionista e viene insegnata proprio per dare ai cittadini dei modelli. La riappropriazione della storia deve diventare progettualità nel tempo presente. La memoria, infatti, è la garante della nostra identità. Come diceva Platone, sapere è ricordare: se non ricordiamo, non sappiamo niente, non siamo niente. La memoria è un dovere. L’ex premier non è uno storico serio e fa dell’autobiografismo».
Cioè Berlusconi si paragona al Duce?
«Ha un complesso napoleonico ma, pur con il suo scarso senso dell’umorismo, capisce che solo i matti si identificano con Napoleone. E dunque si riconosce in un immaginario Mussolini visceralmente anticomunista, ignorando il ben più complesso rapporto tra il fascismo e l’Unione Sovietica. Inventa un Duce diverso dalla realtà per un cesarismo populista alla Perón. Al tempo stesso la memoria non va confinata in una giornata di celebrazioni: va trasformata in materia di studio e di meditazione, dai banchi di scuola ai mass media. La retorica invece è destinata a sclerotizzarsi e a cadere, col tempo, nel vuoto».
Perché lo boccia in storia?
«Sono giudizi privi di valore scientifico. È lo stesso stravolgimento della storia inscenato dai leghisti con celti e Padania. Al contrario di questa paccottiglia, la memoria storica ha, in una società civile consapevole, la funzione altissima di contribuire alla progettazione d’un futuro migliore. Questo non vuol dire che non sia proibito esprimere valutazioni discordanti sul passato. Però serve serietà d’intenti e di metodo. Certo, Mussolini rispetto a Hitler non deteneva il potere totale perché sentiva il fiato addosso della Chiesa, della corona, dell’esercito, della finanza della massoneria, però fu senza ombra di dubbio il dittatore che privò gli italiani della libertà. Se le tirannie del passato sono finite, il ventre che le ha partorite è sempre gravido di altri mostri: magari d’aspetto diverso. “L’uomo non ricorda nulla: ricostruisce di continuo”, ammoniva Lucien Febvre. La storia è razionalizzazione critica della memoria. Non è materia per giochi elettorali né per giudizi-slogan».

l’Unità 28.1.13
La Germania e il tesoro di Hitler «Eredità scomoda mai restituita»
Lo Spiegel: «Intatto il bottino dei gerarchi»
di Gherardo Ugolini


«Abbiamo una responsabilità permanente per i crimini del nazionalsocialismo, per le vittime della seconda guerra mondiale e, anzitutto, per l’Olocausto. Affrontiamo la nostra storia senza occultare niente e senza respingere. Dobbiamo confrontarci con questo per assicurarci di essere in futuro un partner buono e degno di fede, come del resto per fortuna lo siamo già oggi». Le parole pronunciate da Angela Merkel in un messaggio pubblicato sul suo sito Internet condensano tutta l’intensità con cui la Germania ha vissuto la celebrazione della Giornata della Memoria. Tanto più che quest’anno la ricorrenza s’intreccia con un altro anniversario funesto della storia tedesca. Ottant’anni fa, precisamente il 30 gennaio del 1933, Adolf Hitler venne nominato cancelliere dal presidente della Repubblica Hindenburg, dopo aver ottenuto il 44% di consensi alle elezioni ed aver stretto un’alleanza con il Partito popolare nazionale tedesco, che di lì a poco sarebbe stato estromesso dal governo.
Quel giorno sancì per la Germania l’inizio della fine e per l’Europa il vero principio della seconda guerra mondiale. Tra mostre convegni dedicati alla ricostruzione delle circostanze storiche in cui maturò la «presa del potere» nazista, a suscitare scandalo è l’ultimo numero del settimanale Der Spiegel che rilancia un vecchio scandalo mai del tutto chiarito: che ne è del tesoro accumulato dainazisti? Sì, perché i gerarchi del Reich non furono solo i feroci criminali che sappiamo, ma furono anche dei ladri avidi e solerti. Ladri soprattutto di opere d’arte: nel corso del tempo accumularono oggetti preziosi d’ogni tipo, mobili, tappeti, quadri, gioielli. Vittime delle ruberie furono soprattutto le famiglie di ebrei incarcerati o deportati. Ma anche palazzi e musei di paesi occupati e annessi alla Germania hitleriana. Che ne è stato di tutto questo gigantesco patrimonio trafugato illegalmente? Quanto è stato restituito ai legittimi proprietari?
L’OROLOGIO DI EVA
L’inchiesta dei giornalisti dello Spiegel porta a risultati poco confortanti: 80 anni dopo la presa del potere la faccenda del cosiddetto «tesoro di Hitler» rappresenta uno scandalo imperdonabile, un vero e proprio «disastro morale» che nessuno si assume la responsabilità di provare a risolvere. I tesori di quell’iniquo bottino non sono stati mai restituiti, per lo più giacciono nei magazzini di musei oppure decorano gli uffici di importanti istituzioni tedesche. Il simbolo di questa «porca eredità», che campeggia sulla copertina del settimanale di Amburgo, è l’orologio di platino con il quadrante circondato da diamanti che il Führer aveva regalato ad Eva Braun per il suo 27esimo compleanno. Sul retro dell’orologio è incisa la dedica a mano «Per il 6.2.1939, cordialmente A. Hitler». Il gioiello è custodito nel deposito della Pinacoteca di arte moderna di Monaco di Baviera insieme ad altri beni preziosi dei gerarchi nazisti, come per esempio un servizio da tavola di 41 pezzi in argento con le iniziali del Führer, un astuccio d’oro per sigarette tempestato di diamanti e appartenuto a Hermann Göring, con incisa l’affettuosa dichiarazione di «eterno amore» da parte della moglie Emmy e della figlia Edda. Tra i gioielli di Göring figurano anche un diadema di brillanti da 32 carati, un fermacravatte di platino con smeraldi, dei gemelli per camicia d’oro con rubini ed un anello di brillanti con ametista.
Evidentemente questi tesori trafugati illecitamente creano imbarazzo alla Germania odierna ed è per questo che non vengono esposti, ma tenuti ben nascosti nei sotterranei dei musei. Tuttavia, i cronisti dello Spiegel hanno indagato ad ampio raggio fino a scoprire che in realtà alcune di quelle opere «maledette» addobbano uffici pubblici della massima importanza, sedi istituzionali e ambasciate tedesche in vari paesi. Un tappeto Sultanabad della collezione Göring si trova oggi nel palazzo della Cancelleria, un secretaire in ciliegio fatto trafugare da Hitler è collocato nell’Ufficio della presidenza della Repubblica, mentre la copia del dipinto di Canaletto «Canal grande con Punta della Salute e Palazzo dei Dogi» è appeso presso la Società dei parlamentari tedeschi. E il bello è che fino ad oggi, nonostante le tante parole di riprovazione, nessun cancelliere si è preoccupato di censire questi «tesori grondanti di sangue» e di procedere alla restituzione ovvero all’indennizzo dei legittimi proprietari.

l’Unità 28.1.13
Pannella: i digiuni , le battaglie e quella strana alleanza
di Massimo Marnetto


Pannella ha fatto battaglie importanti per il Paese da ultima quelle per denunciare l’affollamento delle carceri e di questo gli sono grato, anche se da tempo non riesco ad ascoltarlo più di 8 secondi. Ma il suo avvicinamento a Storace è stato un colpo profondo alla mia considerazione nei suoi confronti. Quando la cosa sembrava goffamente rientrata per «problemi tecnici» avallati da ampia ambiguità nel partito leggo di un suo recente pranzo con Cosentino, uno dei più inquietanti figuri della politica italiana. Il digiuno di Pannella contro il carcere disumano lo rispetto. Il digiuno di democrazia e legalità con il fascista Storace e il plurinquisito Cosentino no. Ecco perché quando ho visto un Radicale chiedermi «una firmetta» per presentare le liste, stavolta ho tirato dritto.

l’Unità 28.1.13
Tagli e sottofinanziamenti
Il «sapere» si interroga a Roma
di Alberto Castagna


«C’è ancora un punto non toccato dalle agende dei principali schieramenti politici: il sapere e la società della conoscenza. Non si capisce altrimenti come possano tutti invocare nuove politiche di sviluppo». Federico Nastasi, portavoce nazionale della Rete universitaria nazionale, porta avanti i suoi argomenti, come tutte le organizzazioni studentesche. Ma è difficile dargli torto.
In effetti se scarseggiano le risorse economiche, il prossimo governo dovrà inventarsi nuove strade per lo sviluppo del Paese. E sono molti a pensare che un ruolo centrale lo dovrà avere il sapere. Continua Nastasi: «I problemi del mondo del sapere sono problemi del Paese e non dei singoli ricercatori o studenti». Proprio per questo il settimanale Left ha proposto a tutto il mondo del sapere, ricercatori, studenti, docenti e professori, di incontrarsi insieme per proporre al prossimo governo di centrosinistra alcune parole d'ordine. Il 12 febbraio al Teatro Eliseo i lavoratori della conoscenza prenderanno la parola, sperando che qualcuno raccolga queste sollecitazioni.
«Ci piaceva l'idea di proporre un momento di confronto tra alcuni esigenti elettori ed il centrosinistra. Vorremmo però che si partisse dall'esigenze del mondo dell'istruzione per arrivare ai problemi dell'Italia». Manuele Bonaccorsi è il vicedirettore di Left ed è tra gli organizzatori di questa grande assemblea che coinvolgerà tantissime persone.
Non sono numeri piccoli. Tra studenti e lavoratori, il mondo della scuola, dell'università e della ricerca in Italia coinvolge quasi dieci milioni di persone. Naturalmente la parte del leone la fanno gli alunni della scuola, che sono più di sette milioni e i loro docenti, circa 700mila. Oggi questo mondo è quasi al collasso, stressato da pesantissimi tagli di bilancio e da una burocrazia asfissiante. Ad esempio, per quel che riguarda il comparto università, al diluvio di regole della legge Gelmini, ancora in buona parte da attuare, si è associato un taglio in pochissimi anni di quasi un miliardo di euro al fondo di finanziamento ordinario. La quota base messa a disposizione dallo Stato è passata dai 6,7 miliardi di euro a disposizione nel 2008 ai 5,5 del 2012. L'ultima legge di stabilità non ha invertito il trend, anzi ha previsto un ulteriore taglio di 300 milioni di euro.
«Riguardando la serie storica del Fffo si nota chiaramente che il massimo è stato raggiunto nel 2008, grazie al finanziamento del governo Prodi. Il governo dell'Ulivo avrà avuto problemi con le riforme universitarie, ma nessuno può accusarci di aver tagliato i fondi all'Università». A parlare è Luciano Modica, che in quel governo è stato sottosegretario con delega all'Università. «Certo non tutto ha funzionato e bisogna ammettere gli errori commessi, ma riportare il finanziamento del sistema unitario della conoscenza, scuola, università e ricerca pubblica, ai livelli del governo Prodi è la prima misura che dovrebbe prendere il prossimo governo”.
Le questioni sul tappeto sono molte è il sottofinanziamento del settore è solo uno dei problemi. «Il diritto allo studio ha subito colpi terribili. Abbiamo uno dei peggiori sistemi europei, ma non è solo questione di soldi – ci dice Luca Spadon, portavoce della Link-Coordinamento universitario – ad esempio l'eccessiva regionalizzazione del sistema non ha portato una maggiore efficienza. Forse dovremmo ricentralizzare alcune competenze».
Ma la preoccupazione maggiore è oggi legata non alle singole rivendicazioni ma al nostro sistema Paese. Dopo le proteste contro la legge Gelmini tutti sembrano aver capito che la posta in gioco non è solo il futuro dell'università italiana ma del nostro sistema economico e sociale. Andrea Ranieri, ex-assessore alla cultura del comune di Genova è una vera a propria autorità in materia: «Dobbiamo dire nella competizione globale l'Italia ha bisogno di imprese, di lavoratori e di cittadini più istruiti e consapevoli. Per aumentare la qualità della propria produzione di merci e servizi ma anche la qualità della convivenza civile e della partecipazione democratica».

Repubblica 28.1.13
Le parole escluse dalle agende
di Stefano Rodotà


Bisogna essere capaci di guardare oltre le nebbie delle varie “agende” politiche in circolazione; oltre il continuo degradarsi dei partiti in raggruppamenti personali; oltre quello che giustamente Massimo Giannini ha chiamato il “dissennato referendum sull’Imu”; oltre i vorticosi tour televisivi dei candidati. Bisogna farlo, perché all’indomani delle elezioni ci troveremo di fronte a una folla di problemi oggi ignorati, e che sarà vano pensar di cancellare tirando fuori di tasca un fazzoletto da strofinare su qualche poltrona. E soprattutto perché siamo immersi in mutamenti strutturali che esigono quella forte cultura politica e istituzionale finora mancata.
Le parole, per cominciare. Negli ultimi mesi sono stati in gran voga i riferimenti all’“equità”, presentata come la via regia per riequilibrare le durezze imposte da una attenzione rivolta unicamente all’economia, anzi a un mercato “naturalizzato”, portatore di regole presentate come inviolabili. Ma equità è termine ambiguo, che occulta o vuol rendere impronunciabili proprio le parole che indicano quali siano i principi oggi davvero ineludibili – eguaglianza e dignità. I nostri, infatti, sono i tempi delle diseguaglianze drammatiche e crescenti, che tra l’altro, come è stato più volte sottolineato, sono pure fonte di inefficienza economica. E la dignità ci parla di una persona che esige integrale rispetto, che non può essere abbandonata al turbinio delle merci.
Confrontata con queste altre parole, l’equità finisce con l’apparire meno esigente, accomodante, richiama quel “versare una goccia d’olio sociale” che nell’Ottocento veniva indicato come lo stratagemma per rendere accettabili scelte unilaterali e impopolari. In un contesto così costruito, l’eguaglianza deve farsi “ragionevole”, diviene negoziabile, e la dignità può essere sospesa, evocata solo in casi estremi.
Queste non sono speculazioni astratte. Se si dà un’occhiata alla più blasonata tra le agende, quella che porta il nome del presidente del Consiglio, ci si imbatte nel riferimento a “un reddito di sostentamento minimo”, formula anch’essa portatrice di grande ambiguità. Essa, infatti, può riferirsi ad una sorta di reddito di “sopravvivenza”, a un grado zero dell’esistere che considera la persona solo nella dimensione del biologico, tant’è che viene agganciata all’esperienza non proprio felice della social card, dunque alla condizione di povertà. Nessuno, di certo, può trascurare l’importanza di misure contro la povertà in tempi in cui questa aggredisce fasce sempre più larghe della popolazione. Ma, considerata in sé, questa è una strategia che non corrisponde alle indicazioni costituzionali e che elude il tema dell’integrale rispetto della persona in un mondo segnato da mutamenti strutturali profondi.
L’articolo 36 della Costituzione, infatti, parla di “un’esistenza libera e dignitosa” da assicurare al lavoratore e alla sua famiglia. E l’articolo 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea non si riferisce soltanto alla povertà, ma pure all’esclusione sociale, e afferma anch’esso il dovere di “garantire un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongano di risorse sufficienti”. Se la politica vuole ritrovare la sua nobiltà, e farsi pienamente politica “costituzionale”, deve seguire il cammino così nitidamente indicato, che ha come obiettivo il reddito di cittadinanza. Ripartire dal lavoro, come giustamente si torna a dire, significa proprio questo, sì che appare sorprendente il modo in cui è stata liquidata da quasi tutti i partiti e i sindacati la suggestione appena venuta da Jean-Claude Juncker che, pur parlando di salario minimo garantito, sostanzialmente si riferiva proprio alla prospettiva appena indicata. Possibile che non ci si renda conto del fatto che lo storico sistema degli ammortizzatori sociali, comunque bisognoso di revisione, nasce in un tempo in cui ad essi veniva affidato il compito di governare situazioni ritenute transitorie, mentre ora il rapporto reddito-lavoro-vita deve fronteggiare una situazione strutturalmente mutata? Possibile che non si avverta come il potere contrattuale del sindacato non sia intaccato dalla previsione ad ampio raggio di un reddito che rende la persona più libera, sottratta ai ricatti legati al bisogno?
La prospettiva non è quella del tutto e subito, ma bisogna avere chiara la direzione verso la quale si va. Proprio partendo dalla condizione materiale delle persone, oggi dovremmo avere consapevolezza piena che l’esclusione rende fragile la coesione sociale e mette sempre più a rischio la democrazia, mostrando una volta di più la lungimiranza dei costituenti che, nell’articolo 1, vollero la Repubblica democratica fondata sul lavoro. Siamo dunque di fronte ad una situazione che chiama in causa la cittadinanza e il modo in cui questa si costituisce. Sono proprio i diritti di cittadinanza l’asse intorno al quale, nei luoghi più diversi, si discute, non solo per affrontare il tema dei migranti nel mondo globale. La cittadinanza oggi significa un fascio di diritti che accompagnano la persona quale che sia il luogo del mondo in cui si trova, in primo luogo la salute e l’istruzione, il lavoro e l’abitazione. Diritti ai quali bisogna guardare in una logica egualitaria, per evitare il ritorno della cittadinanza censitaria, respingendo le tentazioni di privatizzazioni dirette o indirette. Diritti che rinviano ai beni necessari per la loro attuazione, dall’acqua alla conoscenza, e che per questo sono detti “comuni”.
Di beni comuni si parla con tratti fortemente retorici nella campagna elettorale, mentre nella realtà d’ogni giorno si opera nella direzione opposta. L’Autorità per l’energia elettrica e il gas ha approvato un nuovo metodo tariffario per l’acqua che viola l’esito del secondo referendum sull’acqua, reintroducendo sotto mentite spoglie quella remunerazione del 7% del capitale che il referendum aveva cancellato. Solo i Comuni di Napoli e Reggio Emilia hanno adottato l’indicazione referendaria riguardante la gestione pubblica del servizio idrico, mentre il sindaco grillino di Parma ha annunciato di voler vendere le quote di proprietà pubblica dei servizi locali. Nella nuova legislatura, dunque, il vero tema sarà quello di una riforma del regime della proprietà pubblica, non la ridicola giaculatoria delle “dismissioni” di beni pubblici come bacchetta magica per risolvere i problemi del debito.
Questa è una vera riforma istituzionale. E sempre la vicenda dei referendum sull’acqua, che hanno visto la più larga partecipazione dei cittadini con i 27 milioni di sì, indica la via di una riforma costituzionale che non ripercorra le vie ambigue della “governabilità”, ignorando il tema degli equilibri democratici. Se si vuole recuperare concretamente la fiducia dei cittadini, si devono quasi reinventare le istituzioni della partecipazione, a cominciare dal referendum e dall’iniziativa legislativa popolare, nella prospettiva di un ripensamento della rappresentanza. Se non si vogliono ancor più ridurre i diritti sociali, è indispensabile introdurre correttivi alla brutale subordinazione alle compatibilità economiche perseguita con le ultime modifiche alla Costituzione.
Negli anni passati, il sistema politico-istituzionale è stato sconvolto in mille modi, a cominciare dalle manipolazioni della legge elettorale, e ha portato a una drammatica riduzione della tutela dei diritti. Questo è il mutamento strutturale che dovrà essere affrontato, e si dovrà cominciare proprio dalla ricostruzione dell’insieme degli equilibri e delle garanzie democratiche.

Repubblica 28.1.13
Le città delle ombre
di Concita De Gregorio


DIMENTICATE per un momento Corona. Fermatevi, fermiamoci. Guardiamoci intorno. Non è altrettanto divertente, sicuro, ma è istruttivo. La città dei miserabili è invisibile solo perché abbiamo deciso di non guardarla, non vogliamo.
BASTEREBBE allungare la mano passando in macchina accanto a via Veneto per sfiorare le camicie appese ad asciugare. Sarebbe sufficiente scendere le scale dei sottopassi vaticani, quelli costruiti per il Giubileo - sì, l’esultanza suprema - per trovare i gradini ingombri di cartoni, bottiglie, pentole ancora piene di cibo annerito sui fornelli da campo. Nel cuore di Roma, città eterna.
Sopra turisti in torpedone e miliardari in limousine, sotto – cinque metri più sotto, appena un po’ di lato – la città delle ombre. Abitata da un popolo che non ha niente, nemmeno un nome. Ci vogliono giorni per identificare i cadaveri carbonizzati. I due morti di ieri erano di origine somala, forse. C’è la testimonianza di due pugliesi, i loro vicini di cartone. «Secondo me gli hanno dato fuoco», dice uno di loro davanti alla telecamere che riprendono in primo piano il cumulo di carbone, pochi metri più indietro le auto che scendono veloci da villa Borghese.
A volte ai senza tetto qualcuno dà fuoco, in effetti. Un passatempo. E’ utile ascoltare la storia dell’uomo venuto dalla Puglia, un ragazzo italiano: era uno di noi, viveva nel mondo di sopra. La povertà lo ha preso alle spalle e l’ha rapito, lo ha portato sotto. Tra avere un lavoro e non avere più posto nel mondo è un attimo. Non importa da dove vieni, che lingua parli, di che colore hai la pelle: nella città delle ombre il destino è uguale per tutti. Puoi restare prigioniero di un cassonetto per abiti usati e morirci dentro, succede ogni settimana, a Padova e a Genova, a Roma, succede dove sei. Sui giornali diventi una breve di cronaca. Qualche volta c’è scritto che sei morto mentre rubavi i vestiti. Rubavi, nel cassonetto.
Nella Cloaca Massima, l’antica fogna all’altezza del Tevere, dormono a decine giovani che di giorno, non tutti ma molti, indossano il loro unico abito e vanno a fare i badanti, i camerieri al nero nei ristoranti e nelle case della città di sopra. Ogni tanto ne muore uno di freddo o di fuoco, ma non ha mai nome. I documenti sono un pericolo, si sa. Meglio così, direbbe quel vecchio politico: un mendicante di meno. Basta alzarsi il bavero e tirare diritto, che i ristoranti sono pieni e la miseria non c’è. Basta non guardare, accendere la tv e vedere cosa fa oggi Corona, basta dimenticarsi che i morti nel sottopasso sono uomini e chiamarli barboni, l’indomani radersi e uscire. Che ci vuole, è un attimo.

Repubblica 28.1.13
Dal maxi buco dell’università alla speculazione dell’aeroporto tutti gli sprechi targati Mps
Così Siena rischia di essere travolta dallo scandalo
Il Monte dei Paschi di Siena è indissolubilmente legato alla città da sei secoli
Nata come monte di pietà è considerata la banca più antica del mondo
di Alberto Statera


È TRACCIATO con cura in un libro del Gran Maestro toscano Stefano Bisi, e vi incontri da Giovanni Amendola a Silvio Gigli, da Goffredo Mameli a Camillo Benso di Cavour. Non c’è ancora Giovanni Cresti, provveditore generale e dominus assoluto della banca dal 1975 al 1983, che favorì la prima ascesa da palazzinaro di Silvio Berlusconi, suo confratello nella Loggia massonica P2, concedendogli fidi sconfinati per costruire Milano 2 e Milano 3. La ragione è che Cresti è morto da poco, il 6 febbraio del 2012, e forse non si è fatto in tempo a dedicargli una strada cittadina. Sua figlia Lucia Cresti, grande collezionista d’arte contemporanea, era assessore alla Cultura di Siena, ma è decaduta pochi mesi fa con le dimissioni del sindaco del Pd Franco Ceccuzzi. Dalla P2 alla P4 il passo è breve e nelle carte dell’inchiesta più recente, per la quale il piduista Luigi Bisignani ha patteggiato una pena di un anno e sette mesi, chi ti compare tra i possibili Bisignani boys? Alessandro Daffina della Banca Rotschild che fu advisor di un prestito per coprire l’acquisto di Antonveneta a un prezzo spropositato.
Ecco un piccolo test di portanza, come si dice, del pilastro massonico. Che tuttavia è soltanto uno di quelli che sorreggevano la “boriosa autosufficienza” di Siena, come la definì Ceccuzzi, prima che al Monte irrompessero Alessandro Profumo e Fabrizio Viola a tentare di scardinare il Sistema, permettendo di svelare lo scandalo dei derivati. Sbaglierebbe chi pensasse soltanto a una storia di grembiulini, perché nel fango che viene giù da Rocca Salimbeni e da Palazzo Sansedoni e invade ormai Piazza del Campo c’è una sorta di “ritratto di famiglia italiana” che non esclude quasi nessuno: dalla Massoneria alla Chiesa, dall’Università alla borghesia industriale, dalla burocrazia fino alla grande finanza nazionale. E naturalmente i partiti: non solo il Pci-Ds-Pd, ma anche il Pdl, che qui qualcuno definisce un Pd con una elle in più.
Denis Verdini, a Rocca Salimbeni è come a casa sua, come lo è ancora il suo capo, che utilizza il Monte dei Paschi per pagare i conti delle olgettine. L’homo verdinanus al Monte è Andrea Pisaneschi, portato alla presidenza di Antonveneta, il boccone costoso e indigesto che ha terremotato i conti di Siena. Praticamente è lui il bancomat personale del coordinatore nazionale del Pdl, non solo per le inesauribili esigenze familiari, ma anche per quelle aziendali degli amici. Come quel Riccardo Fusi dello scandalo dei Grandi eventi della Protezione civile, titolare di una società praticamente fallita, cui fu fatto pervenire un grazioso prestito di 150 milioni di euro. Soltanto 110 milioni è costata invece la Imco di Salvatore Ligresti, di cui sono stati rilevati i debiti. Tutti sapevano e tutti tacevano. Perché nessuno dei tanti chiusi nella “boriosa sufficienza” poteva dire di essere fuori dalle colate di fango del potere.
Giuseppe Mussari, che l’assise dei banchieri volle suo presidente per la seconda volta, è sotto processo con un’altra decina di persone anche per Ampugnano. Che cosa è? Immaginate la pista di tre chilometri di un aeroporto internazionale piazzata a Roma tra Piazza Venezia e Piazza del Popolo. Questo è più o meno il progetto Ampugnano, da realizzare, dopo la privatizzazione e l’assegnazione al Fondo Galaxy, alle porte del centro cittadino di Siena, per il quale l’ex presidente del Monte è accusato di turbativa d’asta. Presidente dell’aeroporto fu nominato, con l’assenso di Ceccuzzi, Enzo Viani, tesoriere del Grande Oriente d’Italia, la maggiore osservanza massonica in Italia, di cui è Gran Maestro l’avvocato ravennate Gustavo Raffi, che con il Monte ha rapporti professionali di antica data. Ex dipendente del Monte, Viani alle primarie per il sindaco di Firenze si schierò contro Matteo Renzi e a favore di Graziano Cioni, ex assessore fiorentino finito in una brutta storia sui terreni di Ligresti. I terreni, le speculazioni immobiliari, il cemento: dov’è che non fanno la storia? La fanno anche ad Ampugnano. La privatizzazione e il progetto sciagurato dell’aeroporto internazionale sono legati a un altro progetto faraonico. Quello sulla tenuta di Bagnaia, di proprietà della famiglia Monti-Riffeser, dove convolarono a nozze Pierferdinando Casini e Azzurra Caltagirone, che colà sta realizzando decine di ville per una clientela internazionale di golfisti, che ha bisogno dell’aeroporto sotto casa per arrivare da ogni parte del mondo. Operazione targata Mussari-Mps-Pd? Ma per carità, come al solito dentro ci sono tutti. Tanto più che Riffeser è padrone del gruppo editoriale che controlla La Nazione, Il Resto del Carlino e Il Giorno, di cui nessuno vuole perdere l’amicizia. Per appoggiare l’operazione aeroporto internazionale al ministero e all’Enac viene assoldato il senatore del Pdl Franco Mugnai, molto amico dell’allora ministro dei Trasporti Altero Matteoli.
Se è vero quel che dice Mario Monti, che destra e sinistra non esistono più (ma non è vero) Siena è il laboratorio precursore della perdita delle diversità. Prendete la gloriosa Università, che naturalmente è rappresentata nella Fondazione Mps, insieme a Comune, Provincia, Regione e Arcidiocesi. Almeno tre rettori hanno contribuito a mettere insieme un buco di 200 milioni di euro, un dissesto per cui sono state rinviate a giudizio per peculato una ventina di persone, tra cui gli ex rettori Piero Tosi e Silvano Focardi. Per far fronte al buco sono stati venduti alcuni gioielli, come il complesso di San Niccolò. Indovinate chi lo ha comprato? Franco Caltagirone, fino a qualche mese fa vicepresidente del Monte, per 74 milioni. E lo ha subito riaffittato a 120 milioni per ventiquattro anni.
Ostriche e aragoste consumate in gran quantità con denari pubblici sono diventate un po’ l’icona degli scandali seriali che l’Italia sta affrontando negli ultimi mesi. Potevano mancare in uno scandalo universitario? Figurarsi. E infatti negli atti d’accusa figura l’acquisto con soldi dell’ateneo di 360 chili di aragoste destinate alla contrada della Chiocciola. I magistrati, gentili, hanno scritto che sembra “materiale non pertinente”. Intanto le rette sono diventate le più alte d’Italia. Tanto per gradire, infine, l’attuale rettore Angelo Riccaboni è al centro di un’inchiesta riguardante presunte irregolarità avvenute nelle votazioni per la sua elezione. Per pietà nei confronti dei lettori tralasciamo altre inchieste a carico di consiglieri d’amministrazione e semplici professori, come quella per rimborsi gonfiati per l’organizzazione di master e corsi di aggiornamento.
Giuseppe Mussari, prima di essere trasformato in banchiere, era un avvocato penalista. E di recente è rientrato nel ruolo per difendere un prete, don Giuseppe Acampa, accusato di una sulfurea vicenda: un incendio dentro la Curia vescovile per far sparire documenti relativi alla vendita di lasciti alla Chiesa e, in particolare, del complesso immobiliare del Commendone all’industriale delle scarpe padovano René Caovilla. Come penalista Mussari ha vinto e il suo assistito è stato assolto. Ma nella Chiesa senese gli strascichi sono devastanti, tra voci, sospetti, trame e scontri. “Una desolante caduta all’interno della comunità ecclesiale e in particolare del presbiterio”, ha scritto al settimanale diocesano don Andrea Bechi, ex segretario dell’arcivescovo Antonio Buoncristiani.
Lo scandalo del Monte spariglia ogni gioco. Nel paradiso denso di celestiali armonie, ora sono tutti contro tutti.

Repubblica 28.1.13
Rangeri: il nuovo “manifesto” darà voce a tutte le sinistre
di Riccardo Di Grigoli


ROMA — Nonostante le gravi difficoltà che da mesi ne mettono a rischio il futuro,
il manifesto da domani punta sul restyling grafico per rilanciarsi.
Norma Rangeri, direttore dal 2010: qual è il senso dell’iniziativa?
«Intanto la riduzione dei costi: il formato è più piccolo e serve meno carta. Poi vogliamo avvicinarci di più ai nostri lettori e conquistarne di nuovi. Il giornale sarà più moderno».
Avete in mente altre iniziative?
«Prima delle elezioni saremo sull’iPad. Pensiamo a un’edizione specifica. Lavoriamo anche per il nuovo sito».
E la campagna abbonamenti?
«Dopo due anni di stop è ripartita. E va bene: siamo a quota tremila per il quotidiano. Poi si aggiungeranno quelli delle altre piattaforme».
Sulla linea politica ci sono state lacerazioni.
«La nostra linea sarà quanto più possibile plurale, aperta alle differenti sensibilità della sinistra ».
Nonostante le difficoltà, voi andate avanti...
«Certo. Come cooperativa che edita il giornale, ci impegneremo nei prossimi mesi ad acquistare la testata, oggi in affitto perché in mano ai liquidatori».

La Stampa 28.1.13
A Parigi ieri hanno sfilato i partigiani del «matrimonio per tutti»
Dalla Francia una lezione di civiltà
di Alberto Mattioli


«Tutti uguali davanti all’amore», «Yes oui can».

A Parigi ieri hanno sfilato i partigiani del «matrimonio per tutti», leggi anche per coniugi dello stesso sesso. La legge che l’istituisce approda domani all’Assemblée nationale e i favorevoli sono andati in piazza per darle una spinta: 400 mila secondo gli organizzatori, 125 mila per la Prefettura. Replicavano alla «manifestazione per tutti» dei contrari, che il 13 gennaio ha portato nelle strade della capitale un’altra folla, un milione di persone oppure 340 mila, a seconda di chi l’ha contata.
Come al solito, ognuno dà i suoi numeri. Però in entrambi i casi sono stati cortei affollati, colorati, allegri, civili e tolleranti, pieni di cani e di bambini, di canti e di cartelli, di sfottò e di slogan, ma senza incidenti, senza violenza, senza provocazioni inutili. Chi la pensa diversamente è sempre stato trattato non come un nemico, ma come un avversario.
Così, gli anti sono stati attentissimi a evitare scivolate omofobe o strumentalizzazioni politiche; i pro si sono astenuti da trasformare il loro corteo nel gay pride o dall’infierire contro le Chiese. Il dibattito, nelle piazze e sui giornali, in tivù e in Parlamento, è vivacissimo ma senza toni apocalittici. François Hollande ha ripetuto che quella di istituire il matrimonio per tutti era la trentunesima delle sue sessanta promesse elettorali e che quindi intende mantenerla. Però ha ricevuto i portaparola degli «anti» perché anche quelli che non la pensano come lui hanno il diritto di farglielo sapere e lui il dovere di ascoltarli.
Insomma, torna la Francia che ci piace: la Francia delle battaglie civili, la Francia dei diritti dell’uomo, la Francia che si batte per i principi. Questa Francia riscopre la bella politica, quella che non si occupa soltanto del potere, ma soprattutto degli ideali che dovrebbero ispirarlo. Si pensava che la Francia fosse anestetizzata dalla crisi, troppo ipnotizzata dalle fabbriche che chiudono e dai disoccupati che aumentano per potersi appassionare per un diritto contestato. E invece eccola qui, in strada con passione e allegria in nome di un principio. Pro o contro, poco importa, anche perché la legge si discuterà com’è giusto in Parlamento e non c’è il minimo dubbio che il Parlamento l’approverà. Importa invece, e molto, che ci sia un’opinione pubblica che ha ancora voglia di appassionarsi a una questione di civiltà. Ognuno con le sue ragioni, ma rispettando quelle dell’altro.
La lezione che arriva da Parigi è che oggi la politica può essere anche questo. Può essere un dibattito di idee e una battaglia di principio, non solo il desolante rinfacciare i Cosentini propri ai Mussari altrui e viceversa, e poi sono Scilipoti per tutti. La politica, quella vera, è provare a volare alto, a confrontarsi sulle grandi questioni, a guardare un po’ più in là del proprio naso e dei propri piccoli interessi di bottega. E anche scendere in piazza in nome dei diritti di qualcuno che poi, in una democrazia, diventano subito i diritti di tutti.

Corriere 28.1.13
Figli, nipoti e crescita economica, il segreto della Cina sono i nonni
di Paolo Salom


Il segreto dell'irresistibile ascesa della Cina sono i nonni. I nonni che si occupano dei nipoti mentre i figli lasciano il villaggio o la città natale per trovare un lavoro e condizioni di vita migliori. I nonni che si spezzano la schiena per insegnare a camminare ai piccoli dei loro figli: il più delle volte un unico baobei (tesoro), ma sempre più spesso due. Che preparano loro da mangiare e li consolano quando si fanno male.
Altro che mamme-tigre: oggi la Repubblica Popolare è «governata» da affettuosissimi nonni impegnati in un compito di cui la società non potrebbe fare più a meno. Per via dei costi, certo, ma anche perché per tradizione in Cina ci si affida alla famiglia per l'educazione dei propri eredi: una baby-sitter - magari a tempo pieno e di lingua inglese - è privilegio di una ristrettissima minoranza. Mentre il popolo, laobaixing, non può che contare sulla generazione precedente che trasmette affetto e valori «secondo gli auspici» e permette a centinaia di milioni di persone di pensare quasi esclusivamente al lavoro, al futuro e alla carriera.
Non che sia tutto scontato: in questi giorni sui quotidiani si dibatte sull'eccessivo «egoismo» delle coppie che chiedono sempre più spesso ai genitori di abbandonare anche loro il villaggio d'origine e trasferirsi nelle grandi città per occuparsi dei nipoti. Questo fenomeno più recente sta creando problemi inediti per la società cinese: perché spesso gli anziani non conoscono che il proprio dialetto, dunque allontanandosi di centinaia se non migliaia di chilometri dal luogo d'orgine si ritrovano «lost in translation». Non possono comunicare, persi in un mondo dalle abitudini e dal clima differenti. Soffrono.
Le famiglie insomma ora traslocano tutte insieme: una transumanza la cui imponenza risulta evidente soprattutto in occasione del Capodanno cinese (quest'anno cade il 10 febbraio), quando trovare un posto in aereo o in treno è impossibile. Tutto il Paese è in movimento: una metafora che racconta la Cina meglio di qualunque saggio.

Corriere 28.1.13
L'evoluzione non è come le favole di Kipling
di Telmo Pievani


Questo testo è una sintesi della lezione che Telmo Pievani tiene domani al Palladium di Roma (ore 10) nell'ambito del progetto «La scienza narrata», promosso dal Premio Merck Serono

Rudyard Kipling le chiamava «storie proprio così». Sono racconti per bambini che imitano i miti delle origini applicandoli agli animali. Così scopriamo come l'elefante allungò la proboscide, perché al cammello venne la gobba e al leopardo le macchie e come fu che il rinoceronte si ritrovò con la pelle rugosa. Il segreto di queste favole sta nel fatto che tutto ha un senso perché c'è un'intenzione, un cattivo punito, un lieto fine.
Quale legame unisce le «storie proprio così» alla scienza, che di solito pensiamo non debba narrare storie ma cercare le leggi senza tempo della natura? La connessione è duplice. Innanzitutto, gli scienziati oggi sanno che le narrazioni finalistiche sono le preferite dalla mente umana. Le troviamo persuasive, indipendentemente dalla loro veridicità, perché soddisfano la nostra spiccata sensibilità verso ciò che è portatore di intenzioni.
Ne deriva un rischio, perché a ben vedere diverse branche della scienza si occupano di storie. Ed è il secondo legame. Il nostro universo non ha forse avuto un inizio? Dopo 10 miliardi di anni, sul terzo pianeta di un sistema solare periferico, è spuntata la vita, divenuta dopo altri tre miliardi e mezzo di anni capace di porsi domande coscienti. Vuoi vedere che l'universo ci stava aspettando? Che era fatto apposta per noi? Sembra davvero una «storia proprio così».
Gli evoluzionisti hanno un compito difficile, perché devono trovare non solo le cause prossime dei fenomeni (come funziona?) ma anche quelle remote (come si è evoluto?), finendo talvolta attratti dall'idea che gli occhi servono per vedere, dunque si sono evoluti per vedere. Molto intuitivo, ma non è detto che sia così. Se pensiamo che i nostri comportamenti siano stati plasmati come adattamenti ottimali dalla selezione naturale, dimentichiamo che quest'ultima non è un ingegnere, ma un artigiano che fa il meglio che può con il materiale a disposizione.
Per sfuggire alla tentazione di considerare il passato come giustificazione di un presente necessario, l'antidoto è la contingenza. Nelle «storie non proprio così» contano i dettagli: per un chiodo allentato il cavallo perse il ferro, il messaggero non arrivò in tempo, la battaglia volse al peggio e l'impero crollò. Ciò che lega il chiodo all'impero non è il puro caso, perché magari l'impero aveva le sue ragioni per crollare. È la contingenza, cioè il potere che hanno alcuni eventi di deviare la storia: un intreccio di casualità, vincoli e regole del gioco.
In fondo, è la vita di tutti noi, dominio del possibile. Se una sera non fossimo andati a teatro, non avremmo forse incontrato la nostra futura moglie. Alcune regolarità rendono un esito più probabile di un altro, ma il processo non è prevedibile a priori. Anche questo è un modo di raccontare storie. La differenza con le favole di Kipling è però essenziale: tutto ciò che oggi la scienza ci dice dell'evoluzione porta a pensare che il presente che noi viviamo non fosse l'unico necessario, ma solo uno dei molti possibili.

Corriere 28.1.13
La follia di Goethe per Wittgenstein
di Giorgio Montefoschi


Sul suo letto di morte, a Weimar, Goethe delira e a nulla valgono le pezze fredde che il suo segretario Eckermann e altri fedeli gli pongono sulla fronte. Il suo unico desiderio, prima di morire, è quello di incontrarsi con Ludwig Wittgenstein, l'autore del Tractatus logico-philosophicus, apparso nel 1922, poiché pensa che Wittgenstein sia di gran lunga la persona più intelligente che esista, un uomo degno di venerazione, l'unico che in eccellenza abbia oltrepassato l'eccellenza delle sue opere, e insieme a lui vuole discutere sul fondamentale argomento che ha per titolo: il dubitabile e il non-dubitabile.
Saldamente consapevole, pur nel delirio, di aver scritto le cose più grandi della letteratura tedesca (e dunque di aver paralizzato, al cospetto della grandezza delle sue opere, la letteratura tedesca); di aver distrutto ogni suo incauto avversario o competitore a cominciare da quel poveraccio di Schiller; infine, di aver annientato e imbrogliato i tedeschi che continuano a non capire di essere stati imbrogliati, Goethe è agitatissimo: devono andargli a prendere Wittgenstein a Cambridge a ogni costo e portarglielo a Weimar, perché alla fine della sua vita vuole conoscere il suo figlio filosofico, il suo erede. E non gli importa nulla che Wittgenstein non sia ancora nato (nascerà una cinquantina d'anni più tardi), che è inverno e i suoi assistenti dovranno attraversare la Manica nelle bufere: Wittgenstein dovrà essere al suo capezzale perché — in quel mondo di mediocri e dementi — guardandolo negli occhi, lui possa riconoscere un'ultima volta il Genio, vale a dire se stesso.
Fin da quando era bambino, un uomo che adesso ha quarantadue anni è stato torturato dai suoi genitori. Loro — i suoi genitori — sono convinti dell'esatto contrario: il torturatore, colui che ha distrutto le loro vite rifiutando caparbiamente di fare qualunque cosa gli venisse proposta, di imboccare qualunque strada gli venisse aperta e spianata davanti, è il ragazzino che non doveva nascere forse, e adesso ha quarantadue anni.
Chi ha ragione? Hanno ragione i genitori esasperati che hanno offerto al figlio restio alla vita ogni occasione di vita, o il figlio restio alla vita che ha vissuto tutto quello che gli veniva proposto come una mostruosa sopraffazione, si è sentito cavar l'anima di dosso, e pian piano si è ammalato, irreversibilmente come dicono i medici, perché i suoi genitori, e anche gli altri famigliari, al suo cuore non hanno dato tregua? Non lo sappiamo. Ma questa famiglia infelice vive in una casa di campagna che è collegata con una torre nella quale sono conservati dei libri (che naturalmente il perseguitato-persecutore ha sempre avuto il divieto di leggere), simile al castello di Montaigne. Un giorno, in gran segreto, l'uomo di ormai quarantadue anni riesce a penetrare nella torre e alla cieca trae un libro da uno scaffale. E' un libro di Montaigne.
Due amici che non si vedevano da quando erano ragazzini si incontrano sotto la pioggia nella stazione di un anonimo paese austriaco. Quando erano ragazzini facevano, insieme ai loro genitori, delle gite in montagna che entrambi odiavano.
Le odiavano perché i loro genitori volevano la quiete; perché i loro genitori suonavano la cetra e la tromba, al rifugio; perché erano vestiti da montanari; perché il sole accecava gli occhi; perché i genitori non trovavano la quiete e incolpavano loro (i ragazzini) di distruggere ogni possibilità di raggiungere la quiete. Mai sono state odiate tanto le gite in montagna! Adesso, uno dei due ex-ragazzini che si incontrano alla stazione: quello che si è ribellato al carcere dei suoi genitori, racconta tutto ciò; e incolpa l'altro della sua mancata ribellione. L'altro sta zitto.
Un uomo in fuga scrive a un amico raccontando la sua fuga per l'Europa. Non si ferma da nessuna parte. Non gli piace nulla. Finalmente, a Rotterdam, fa un sogno. Sogna che l'Austria, con tutti i suoi abitanti, brucia in un immenso falò. Si sveglia e è felice.
Questi quattro incantevoli racconti di Thomas Bernhard, raccolti sotto il titolo Goethe muore (Adelphi, pp. 109, € 11) sembrano i quattro vetri di una lanterna girevole. Dentro la lanterna, c'è tutto il sarcasmo, tutto il dolore, tutta l'ironia di Bernhard. E c'è la sua meravigliosa prosa, che sempre amiamo intensamente.

Corriere 28.1.13
Della Peruta all'incrocio tra Gramsci e Mazzini
di Giuseppe Galasso


Nell'Italia che rinasceva dalle rovine del fascismo e della guerra, cultura e politica formarono un binomio che neppure lontanamente si pensava di poter deprecare, in nome, ad esempio, di una adulterante contaminazione fra la purezza della république des lettres e la interessata materialità della politica. E tanto più notevole è questo dato di fatto — del resto, notorio — in quanto si partiva dalla piena condanna della oppressiva strumentalizzazione di cui la vita culturale era stata vittima nel ventennio fascista. La compenetrazione fra cultura e politica non appariva, quindi, per nulla destinata inevitabilmente a un nesso distruttivo.
A portare a una tale visione delle cose era, evidentemente, l'implicita presunzione che fosse la qualità di quel rapporto a determinarne la positività o negatività; e che tale qualità dipendesse essenzialmente dai valori in gioco nel dibattito politico-culturale. E ciò spiega perché, poi, nello stesso campo antifascista, più che concorde nella riprovazione del binomio politica-cultura nel fascismo, la contrapposizione risorgesse poi violenta, frontale e poco meno che totale a seconda dei valori che ciascuna delle parti dell'antifascismo assumeva come propri.
Le generazioni degli italiani che maturarono in questa congiuntura storica ne trassero motivo a una profonda convinzione del significato etico e politico della cultura e dell'impegno culturale. Non fu per essi mai più possibile pensare, in seguito, a una distinzione di campo, che mettesse l'homo doctus da una parte e l'homo politicus dall'altra. Una lezione sull'unità della persona nell'omogeneità della sua vita morale, che in seguito è andata largamente perduta sotto la spinta di altre circostanze e di altre esigenze. Ma nell'animo e nella mente dei giovani italiani degli anni Quaranta e Cinquanta cultura e politica si atteggiarono come si è detto e ne condizionarono la formazione e la successiva attività.
Per Franco Della Peruta ciò fu vero come per tutti i suoi coetanei. Ma, se dovessi esprimere una mia impressione personale di antica data, non esiterei molto ad affermare che, per quanto lo riguarda più a fondo, una componente autodidattica, autoformativa sia stata in lui più forte di quanto non si possa pensare in base ad altri elementi. Non è un caso che della grande covata gramsciana del dopoguerra, alla quale certamente anch'egli appartenne con tutte le relative implicazioni ideologiche e politiche, sia stato proprio lui uno dei pochi, davvero pochi, meno toccati e condizionati nel profondo, e alla lunga, dalla spinta ideologica fortissima di quella stessa covata.
La scelta di quelli che sarebbero poi sempre rimasti i temi dominanti e caratterizzanti della sua attività di storico rientrò indubbiamente in quel compito di revisione e di ripensamento della storia italiana del Risorgimento e dell'unità che la generazione e la storiografia gramsciana assunsero come proprio primario compito civile e scientifico. Ma egli visse e attuò questo compito con un senso profondo e originale delle specificità della tradizione democratico-repubblicana del Risorgimento che gli ha consentito di apportare grandi contributi all'individuazione e alla conoscenza di elementi fondamentali per l'identità e la realtà della nuova Italia risorgimentale e unitaria e, insieme, per la fisionomia e il ruolo del pensiero democratico italiano, a cominciare da Mazzini, nel quadro del pensiero politico e sociale dell'Europa di quel tempo, e ciò anche rispetto a Marx e al marxismo.

Alle origini delle battaglie per l'unità nazionale
Il testo pubblicato qui sopra è uno stralcio della relazione di apertura che il professor Giuseppe Galasso tiene domani al convegno organizzato a Milano in ricordo dello storico Franco Della Peruta, scomparso un anno fa il 13 gennaio 2012. L'incontro, intitolato «Fare storia, praticare la storia» e dedicato soprattutto alle vicende risorgimentali, si apre domani e dura fino a giovedì 31 gennaio: la sede è la Sala Napoleonica dell'Università Statale (via S. Antonio 12). Tra i partecipanti: Roberto Balzani, Alberto Mario Banti, Arturo Colombo, Giorgio Cosmacini, Renata De Lorenzo, Ada Gigli Marchetti, Paolo Macry, Giuseppe Monsagrati.

Repubblica 28.1.13
Quel Piano Beveridge che pare scritto oggi
Redatto settant’anni fa, è alle origini del Welfare State
di Lucio Villari


C’era una precisa intenzione politica nel fatto che tra le armi e l’equipaggiamento dell’Ottava Armata di Sua Maestà britannica e della Quinta Armata americana destinate allo sbarco in Sicilia nell’estate 1943, i reciproci uffici di informazione e di propaganda aggiungessero testi letterari e opuscoli politici. Gli americani preferivano regalare recenti romanzi e racconti in italiano e in formato rettangolare, gli inglesi diffondevano tra gli stupiti italiani, insieme ad un impeccabile The Remaking of Italy del 1942, testi più impegnativi.
Tra questi, un opuscolo edito dalla “Stamperia Reale” con la data 1943, dal titolo Il Piano Beveridge.
In autunno l’Ottava Armata, risalendo la penisola e volendo aiutare gli italiani ad aprire gli occhi sul mondo, diffonderà anche Il Mese (edito dalla londinese “The Fleet Steet Press”), un compendio della stampa internazionale che sarà una efficace arma giornalistica di documentazione democratica.
Il Piano Beveridge aveva questo sobrio sottotitolo “La relazione di Sir William Beveridge al Governo britannico sulla protezione sociale. Riassunto ufficiale”: 116 pagine, in perfetto italiano, che riportavano 272 paragrafi, i più essenziali, dei 461 che componevano il Piano. Pochi grammi di dinamite culturale che avrebbero coinvolto e convinto gli italiani più consapevoli sui fondamenti della giustizia sociale, sulla solidarietà tra le classi, sulla tutela dei diritti e i bisogni dei lavoratori e dei ceti più deboli, sui doveri dello Stato e dei poteri economici per assicurare e garantire libertà e democrazia.
Mentre imperversava una guerra dall’esito incerto, l’opuscolo, scritto senza verbosità propagandistica e senza voler suggerire alcuna ipotesi di rivoluzione socialista, era una minuzioso catalogo di progetti, di programmi, di dati tecnici. Indicava il futuro che avrebbero potuto attendersi i popoli liberati dal fascismo e dal nazismo e suggeriva l’inedito sapore della protezione sociale e della libertà dal bisogno in un sistema di democrazia, vera, attiva.
Il Piano Beveridge era un piano pragmatico e funzionale diretto non ai settori guida dell’economia, industria, agricoltura, terziario, mondo finanziario, come accadeva negli Stati Uniti del New Deal, ma a quello della immediata, quotidiana esistenza delle persone. Il governo, presieduto da Winston Churchill, lo aveva annunciato alla Camera di Comuni il 27 gennaio 1942 come iniziativa di una “Commissione interministeriale per le assicurazioni sociali e servizi assistenziali” costituita nel giugno 1941 e alla cui guida era stato chiamato un economista liberale di sessantadue anni, rettore dell’University College di Oxford, Sir William Beveridge. Si faccia attenzione a questa ultima data: era l’inizio dell’operazione Barbarossa tedesca contro la Russia.
L’opinione pubblica inglese, anche la più moderata e liberale, aveva compreso che con l’estendersi in Europa della potenza tedesca, con i continui bombardamenti di Londra e i successi dell’Asse in Africa, la guerra aveva preso una piega pericolosa. Ma ottimismo e volontà di resistenza parvero prevalere in quei giorni. E non mancavano lampi di umorismo british come quelli del disegnatore satirico del Daily Express, Osbert Lancaster che pubblicò con la didascalia “June 1941” un disegno che ho rivisto con molto divertimento: un aristocratico e un ricco borghese si salutano, quasi sorpresi essi stessi, con il pugno chiuso. In questo clima fu elaborato il Piano che Beveridge consegnò a Churchill il 20 novembre 1942. Ai primi giorni di gennaio del 1943 il progetto di “protezione sociale e di politica sociale”, il Welfare State nel senso più razionale e umano del termine, fu conosciuto e se ne iniziò l’esecuzione.
Sono trascorsi esattamente settant’anni, ma l’idea che ha guidato Beveridge e i suoi collaboratori e esperti resta intatta ed attuale. Il piano implicava tre premesse: “sussidi all’infanzia, estesi servizi sanitari e di riabilitazione, mantenimento degli impieghi”. Cioè una riforma politica totale della società. Delle tre premesse è superfluo ricordare l’importanza che ebbe il servizio sanitario nazionale (da esso dipende anche il nostro in vigore). Ma è importante anche la conclusione di Beveridge: “L’abolizione del bisogno non può essere imposta né regalata ad una democrazia, la quale deve sapersela guadagnare avendo fede, coraggio e sentimento di unità nazionale”.
Una premessa ideale al secondo Piano Beveridge consegnato il 18 maggio 1944: Full Employment in a Free Society. E’ questa la più vasta indagine che sia mai stata elaborata (oltre 600 pagine) sulle cause della disoccupazione e sulla possibilità, al ritorno della pace, della piena occupazione in industria, agricoltura e terziario. Un sogno costruito su una diagnosi profonda e perfetta, oltre alcune formule keynesiane, sia del funzionamento dello Stato e delle sue strutture sia dell’efficienza del sistema produttivo capitalistico privato. “La piena occupazione produttiva in una società libera — scriveva nell’introduzione Beveridge — è possibile, ma non la si può realizzare agitando una bacchetta magica finanziaria”.

Repubblica 28.1.13
Marc Augé: “Curiosi e attivi senza l’angoscia del futuro”
Contro la paura
In un nuovo libro l’antropologo francese analizza le inquietudini planetarie
E indica alcune strade per fronteggiarle
di Fabio Gambaro


La realtà in cui viviamo è spesso ridotta a una «matassa indistinta e confusa di paure». Una matassa che rischia di paralizzarci e impedirci di vivere, ma che Marc Augé prova pazientemente a dipanare nel suo nuovo libro, Les Nouvelles Peurs (Payot, pagg. 92, euro 10). Per l’antropologo francese, che da anni si concentra sull’analisi delle trasformazioni e delle contraddizioni del mondo contemporaneo, le paure economiche e le discriminazioni sociali, le violenze politiche e le derive tecnologiche, i cataclismi naturali e le minacce criminali finiscono spesso per sovrapporsi e confondersi, amplificandosi a vicenda, producendo panico e angoscia negli individui.
«Naturalmente tutte queste paure non sono direttamente collegate le une alle altre, ma nella vita quotidiana spesso ci appaiono proprio così», spiega l’autore di Un etnologo nel metrò, Non luoghi e Che fine ha fatto il futuro?
«I media evocano senza soluzione di continuità il rischio di un cataclisma, un attentato terroristico, l’aumento della disoccupazione e la strage inspiegabile di un pazzo. Sono realtà indipendenti, che però tutte assieme in un telegiornale fanno massa. La giustapposizione crea un effetto di contaminazione che le amplifica e le semplifica al contempo, dando luogo a un’unica paura globale, diffusa e indistinta. Di conseguenza, quando ne evochiamo una, di fatto è come se evocassimo tutte le altre. Il che è indubbiamente un elemento di novità».
Nel passato le paure erano più isolate, definibili e locali?
«Probabilmente sì. Nei secoli scorsi non sono mancate le grandi paure, che però erano spesso legate a fattori e contesti ben precisi. Oppure erano paure molto più universali, come ad esempio la paura della morte. In passato inoltre non si sapeva nulla di ciò che accadeva lontano da noi, mentre oggi sappiamo tutto quello che accade in ogni angolo del pianeta. Se un pazzo uccide dei bambini in una scuola americana, ne siamo immediatamente informati come se fosse accaduto sotto casa nostra. Di conseguenza, temiamo per i nostri figli. Insomma, tutto quello che accade lontano ci riguarda e ci terrorizza come se fosse vicino. Il sistema dell’informazione crea una forma di paura nuova, più sfuggente e più astratta. Quindi più difficile da combattere. Tuttavia, il fatto che sia più astratta non significa che non abbia effetti concreti, producendo negli individui un terrore paralizzante. Come accade per le nuove inquietudini planetarie, che sono la dimensione oscura e minacciosa della globalizzazione. Dominate dall’idea che ciò che riguarda gli uni finisce prima o poi per coinvolgere tutti gli altri, le catastrofi nucleari, le epidemie, ma anche il terrorismo o le minacce del sistema finanziario assumono contorni quasi apocalittici».
Questa matassa di paure eterogenee è lo sfondo permanente delle nostre vite?
«In un certo senso sì. La paura è ridiscesa in terra e contemporaneamente si è generalizzata. Un segnale di questo timore diffuso è il successo di un libro come Indignatevi! di Stéphane Hessel. L’indignazione, infatti, è la forma sublime della paura. In questo caso, le parole di un vecchio saggio — una figura abbastanza tradizionale e quindi rassicurante — riescono a dare un contenuto preciso in termini socio-politici alle paure indistinte di un gran numero di persone. E’ per questo che il libro ha tanto successo. La nostalgia per certi valori del passato che prende forma nelle pagine di Hessel viene interpretata come un grido di rivolta nei confronti del presente. In fondo, se nei secoli scorsi si aveva innanzitutto paura della morte, oggi si ha soprattutto paura della vita».
Perché?
«Gli allarmi economici, ecologici e sanitari, ma anche la violenza o il terrorismo sono qui e adesso. Generano un’angoscia quotidiana e immediata che occupa tutto il nostro orizzonte, impedendoci di proiettarci più in là. Nell’epoca classica, proprio perché gli uomini avevano paura della morte, stoicismo e epicureismo provavano ad elaborare riflessioni in grado di consolarci. Oggi queste forme di consolazione filosofica non funzionano più. Molte delle paure che ci attanagliano non sono nuove in sé, è nuovo però il loro modo di fare sistema e la loro percezione. Nel passato, dato che le paure erano percepite come locali e concrete, si aveva l’impressione di poter fare qualcosa per prevenirle. Oggi invece, più le paure diventano un groviglio inestricabile, più si ha l’impressione che sia impossibile intervenire sulle problematiche che le alimentano. La sensazione d’impotenza è uno degli elementi costitutivi delle nuove paure».
Ciò vale ad esempio per la percezione della crisi economica. È così?
«In effetti, di fronte alla crisi economica ci sembra che non ci siano soluzioni efficaci. La crisi è percepita come ineluttabile e inarrestabile. Da qui le paure della disoccupazione, del declassamento sociale e della povertà, che peraltro vanno di pari passo con il terrore di un sistema che sembra avanzare in maniera inerziale e fuori da qualsiasi controllo. In fondo, si teme l’incompetenza e l’inconsistenza di coloro che dovrebbero governare il sistema. E naturalmente tutto ciò implica un certo fatalismo che produce battaglie solo difensive. Una volta si sognava di abbattere il sistema, oggi si spera solo che non crolli definitivamente per non esserne le vittime».
Ci sono poi le paure prodotte dalla scienza e dalla tecnologia…
«Tradizionalmente le paure nascono dall’ignoranza. A volte però anche la conoscenza può angosciarci, come accade talvolta con l’innovazione tecnicoscientifica. Diverse scoperte della scienza ci fanno paura, dal nucleare alla clonazione. Oggi, nonostante l’entusiasmo per le nuove tecnologie, l’avvenire ci sembra prefigurare un mondo d’incognite. Motivo per cui preferiamo non proiettarci troppo in un futuro percepito più come una minaccia che come una speranza. Questa scomparsa del domani come orizzonte operabile aumenta inevitabilmente l’ansia nel presente».
C’è un modo per sottrarsi a questo insieme di paure?
«Più che le minacce concrete, siamo paralizzati dalla superstizione che queste siano presenti nella nostra vita tutte allo stesso tempo, mescolate e confuse. Bisognerebbe quindi essere capaci di districarne il groviglio, isolandole e analizzandole singolarmente. Solo così è possibile disinnescarle. Occorre quindi un atteggiamento attivo. La paura globale che sfugge al controllo della ragione sembra infatti agire maggiormente su coloro che si collocano in una posizione di passività nei confronti della realtà. Chi agisce e interviene ha sempre meno timore di chi subisce passivamente. In questo senso, l’educazione e l’istruzione possono aiutarci. La conoscenza può trasformare l’angoscia in curiosità, che, secondo me, è il primo passo per disfarsene. Senza dimenticare che, se è vero che la paura produce regressione, essa può anche diventare un fattore di progresso, dato che, una volta superata la paralisi, ci spinge a cercare soluzioni per andare avanti».
Ci si può abituare alla paura e convivere con essa?
«Ciò accade spesso, dato che il timore fa parte del nostro paesaggio quotidiano, modificando le nostre vite e i nostri comportamenti. La vita però deve continuare, quindi finiamo sempre per adattarci. E’ però una vita mutilata. Per questo credo che sia sempre meglio cercare di disfarsi delle paure, smontandone i meccanismi. Che poi è il motivo per cui ho scritto questo libro».

Repubblica 28.1.13
In ricordo di Daniel Stern


ROMA - Psichiatra e psicoanalista americano, celebre studioso del rapporto madre-bambino nella linea dell’“infant research”, Daniel Stern è scomparso a Ginevra, lo scorso novembre. Oggi a Roma un convegno ricorderà la figura del grande innovatore, che non ha rivoluzionato soltanto il modello dello sviluppo infantile ma soprattutto la nostra concezione della mente umana. “Tributo a Daniel Stern” è il titolo dell’incontro in programma questo pomeriggio presso la Società italiana di analisi bioenergetica (via Magna Grecia, 128). Intervengono, tra gli altri, Renata Tambelli che insegna alla Sapienza e appartiene alla Società psicoanalitica italiana e Patrizia Moselli, presidente degli analisti bioenergetici della Siab.

domenica 27 gennaio 2013

l’Unità 27.1.13
Per ricordare la Shoah prendiamoci cura delle vittime di oggi
di Luigi Cancrini
psichiatra e psicoterapeuta


L’unico modo degno di ricordare le vittime di ieri è impegnarsi a difendere le vittime di oggi, è lottare perché non ce siano ancora, a qualsiasi popolo esse appartengano. Con degli atti concreti.
Luigi Fioravanti

Chiedendoci per esempio con un altro lettore, Claudio Cossu, perché «il Parlamento dello Stato italiano non abbia ratificato la Convenzione internazionale contro la tortura e le altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti conclusa a New York già nel 1984, 10 dicembre, e approvata dall’Assemblea generale il 6 ottobre1986: chiedendoci, cioè, perché il Parlamento italiano non ha ancora deciso di prevedere apertamente questi reati». Se essi fossero riconosciuti nel nostro codice penale, infatti, a essi qualche pm potrebbe fare riferimento guardando le videoregistrazioni della Commissione d’Inchiesta del Senato, presieduta da Ignazio Marino, sulle condizioni degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari italiani: di cui tutti abbiamo sentito e detto che dovevano essere chiusi subito ma che sono ancora aperti per un difetto (grave) di iniziativa politica dei ministri Balduzzi (Salute) e Severino (Giustizia) e di tutto il governo Monti. O prendendone spunto, dopo una visita, per tutelare i profughi eritrei ed etiopici nei nostri campi di concentramento impropriamente definiti centri di accoglienza. Apprendere dalla Shoah dovrebbe significare soprattutto questo: dare seguito con delle azioni concrete a favore di chi soffre oggi torture o trattamenti crudeli, inumani e degradanti, al dolore e all’indignazione suscitati in ognuno di noi dalla memoria di quello che stato e resta il simbolo tremendo del male da cui gli uomini troppo facilmente sono stati (e purtroppo sono ancora) posseduti.

l’Unità 27.1.13
Parla Avraham Yehoushua: «Ricordare serve al futuro»
Solo così sconfiggeremo per sempre l’antisemitismo
Lo scrittore israeliano sottolinea che la demonizzazione dell’altro nasce spesso dall’ignoranza ma la cultura non basta: per essere morali bisogna compiere atti morali
intervista di Umberto De Giovannangeli


LA PASSIONE PER LA POLITICA STAVOLTA NON È L’OGGETTO DEL NOSTRO COLLOQUIO. STAVOLTA, CON AVRAHAM YEHOSHUA, IL PIÙ GRANDE TRA GLI SCRITTORI ISRAELIANI CONTEMPORANEI, L’ARGOMENTO DI RIFLESSIONE È QUELLO CHE NON TRAMONTA MAI: LA MEMORIA. E, in particolare, la memoria di un popolo, quello ebraico, che è parte fondante di una identità che si è fatta Stato: lo Stato d’Israele. Una memoria che va coltivata, aggiornata, riflessa nel presente, innovata negli strumenti della sua comunicazione e socializzata alle nuove generazioni. Perché essa, rimarca Yehoshua, «sopravviva a coloro che ne sono stati i portatori». Da uomo di cultura, spesso a contatto con i giovani in Israele e nel mondo, Yehoshua mette l’accento sul fatto che «la demonizzazione dell’altro da sé spesso nasce dall’ignoranza e si alimenta di stereotipi. Al tempo stesso, però, non bisogna cullare una idea salvifica della cultura. La cultura non basta: nazismo e fascismo sono nati in Paesi ricchi di storia, musica e arte».
Oggi, 27 gennaio, si celebra la Giornata della memoria. E la memoria torna alla Shoah. Vista con gli occhi del presente, cosa rappresenta quella tragedia?
«Indubbiamente rappresenta l’apice del male nella storia dell’umanità, ma non ne è il simbolo. Se ci concentriamo sulle immagini terrificanti della Shoah, sembra che sia tutto accaduto là, a quel tempo. Un evento terribile ma circoscrivibile nel tempo, storicizzabile. Invece non è così. Ed è un bene che sia creato un ponte tra quello che è stato e la nostra vita quotidiana. I soggetti più pericolosi in tutto questo non sono state le SS, un piccolo gruppo in fondo, ma la moltitudine silenziosa e indifferente che ha permesso che ciò si verificasse. Una lezione che dobbiamo avere sempre davanti agli occhi. Per quanto ci riguarda, come ebrei, abbiamo visto sulle nostri carni il prezzo del razzismo e del nazionalismo estremisti, e perciò dobbiamo respingere queste manifestazioni non solo per quanto riguarda il passato e noi stessi, ma per ogni luogo e ogni popolo. Dobbiamo portare la bandiera dell’opposizione al razzismo in tutte le sue forme e manifestazioni. Il nazismo non è una manifestazione solamente tedesca ma più generalmente umana, di fronte a cui nessun popolo è immune. Guardiamoci attorno: gli orrori presenti non hanno toccato i vertici della seconda guerra mondiale, ma gli avvenimenti del Biafra, del Bangladesh o della Cambogia, la pulizia etnica in Bosnia, non sono poi così lontani dalla violenza del massacro nazista. E allora, noi, in quanto vittime del microbo nazista, dobbiamo essere portatori degli anticorpi di questa malattia tremenda, da cui ogni popolo può essere affetto. E in quanto portatori di anticorpi dobbiamo anzitutto curare il rapporto con noi stessi. Dobbiamo farlo, per scongiurare il rischio di restare indifferenti al male. Poiché dietro di noi c’è una sofferenza così terribile, potremmo essere indifferenti a ogni sofferenza meno violenta della nostra. Come alfieri dell’antinazismo dobbiamo acuire la nostra sensibilità, perché dobbiamo ricordarci che il fatto di essere stati vittime non è sufficiente per conferirci uno status morale. La vittima non diventa morale in quanto vittima. L’Olocausto, al di là delle azioni turpi nei nostri confronti, non ci ha dato un diploma di eterna rettitudine. Ha reso immorali gli assassini, ma non ha reso morali le vittime. Per essere morale bisogna compiere atti morali. E per questo affrontiamo gli esami quotidiani». Recenti rapporti indicano che l’antisemitismo è tutt’altro che debellato. Quali misure si aspetta dall’Europa per debellare questo virus?
«Sono preoccupato del fatto che, purtroppo, il virus dell’antisemitismo non è stato debellato. Forse si è indebolito; oggi non può mostrarsi in tutta la sua virulenza perché considerato inadatto, sconveniente; ma nelle sue nuove mutazioni continua ad essere presente e a lanciare anatemi e accuse spesso ingiuste contro Israele. Io sono il primo a sollevare critiche sugli errori dei governi israeliani, ma nello stesso tempo individuo spessissimo in molti degli attacchi portati a Israele cose che con le divergenze politiche non hanno nulla a che fare e che riportano invece a meccanismi che vorremmo cancellati. So che debellare completamente l’antisemitismo è un obiettivo proibitivo. Ma non lo è il combatterlo sotto ogni sua forma. L’Europa lo deve combattere con tutta la sua forza. Non per il bene degli ebrei ma per il proprio bene. Per la salute delle proprie società. Per non permettere che questo virus si espanda e colpisca le parti vitali del proprio organismo. La Giornata della Memoria ha dietro di sé una storia breve, ma mi sembra già di individuarne la sua importanza. Una importanza che non sta, ovviamente, nelle cerimonie che avvengono quel giorno, ma in tutto quello che c’è intorno, che la prepara: le azioni educative; la trattazione dell’argomento da parte dei mass media. Con il bombardamento di informazioni che ognuno vive ogni giorno, solo un approfondimento morale e intellettuale del tema ha la possibilità di penetrare il cuore e le menti. E gli ebrei continueranno ad aggiungere a questo approfondimento, il proprio lutto, individuale e di popolo».
Oggi i pericoli all’esistenza di Israele vengono soprattutto dall’Islam radicale che spesso, come hanno fatto i dirigenti iraniani, abbraccia le tesi negazioniste sull’Olocausto. Come va trattato questa forma aggiornata e «mascherata» di antisemitismo?
«In questo sta il doppio impegno dell’Europa. Capire per sé stessa per il proprio passato e per il proprio futuro e dall’altra parte aiutare altri in questo caso il mondo islamico e arabo a capire fin dove può portare l’estremizzazione. Solo l’Europa può convincere il mondo arabo degli effetti distruttivi della demonizzazione e della volontà di annientare un altro popolo. E qui entra in gioco la politica. Ma quella buona; quella che potrebbe portare alla soluzione del conflitto fra arabi e israeliani, ad una pace giusta fondata sul principio dei “due popoli, due Stati”. Con un’Europa che nella sua equidistanza faccia capire al mondo arabo la legittimità dell’esistenza di Israele come patria del popolo ebraico, e a Israele la necessità di dare ai palestinesi un proprio Stato in cui non ci sia alcuna sua ingerenza nelle loro vite. Dopo aver giocato durante la Shoah il ruolo di portatrice di guerra, l’Europa deve ora cercare di essere portatrice di pace».
Perché i giovani dovrebbero coltivare la memoria di un tempo che a loro appare così lontano, impercepibile?
«Perché ricordare è la base del futuro. E perché il passato, nelle sue espressioni più tragiche, può ripresentarsi, in forme nuove e per questo più insidiose».

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l’Unità 27.1.13
La razza non esiste. Il razzismo sì
La genetica ha dimostrato che la diversità bilogica è data dall’appartenenza alla stessa specie
di Alberto Piazza


La genetica umana, oggi assai sofisticata, ha dimostrato che la diversità biologica tra due individui qualsiasi della nostra specie è dovuta per l’85% al fatto che appartengono appunto alla stessa specie, e per il 10% al fatto che la loro origine geografica si colloca in continenti diversi: pertanto la differenza del colore della pelle, che più di ogni altra ha alimentato lo stereotipo razziale, occupa nello spettro della diversità biologica una frazione minima. A questa frazione tuttavia è stato associato il massimo valore sociale e culturale perché il nostro occhio è capace di distinguere differenze di colore e di forme, ma non differenze in sequenze di Dna, ben più determinanti nella nostra vita biologica.
È comunque necessario interrogarsi sul motivo per cui lo stereotipo della razza è così difficile da estirpare. Alla stessa comunità scientifica va attribuita una parte di responsabilità, ormai ampiamente documentata almeno per quel che riguarda le generazioni passate. Permane però una contraddizione tra l’evoluzione biologica che premia la variabilità e la diversità (la sola che ci permette la sopravvivenza come specie) e l’evoluzione sociale che invece premia l’omogeneità quale garanzia di conservazione della struttura sociale esistente, la possibilità di identificarsi in un gruppo di uguali per potersi meglio riconoscere rispetto ad altri gruppi.
In questa tensione dialettica gli studiosi di genetica sono chiamati a dare il loro contributo almeno per sgombrare il campo da illazioni pseudo-scientifiche e per chiamare le cose con il loro nome. Nel 1959 il grande filologo Gianfranco Contini individuò brillantemente l’etimologia della parola razza nel francese antico haraz, «allevamento di cavalli, deposito di stalloni» di cui è rimasta in italiano l’espressione «cavallo di razza». Sarebbe auspicabile restituire il termine alla sua etimologia originaria: la razza si addice all’allevamento di animali selezionati, e non all’uomo, su cui influisce la selezione naturale ma non quella artificiale.
Se è vero che la comunità scientifica è oggi concorde nel rifiutare la suddivisione della nostra specie in «razze» basata su falsi argomenti biologici, è altrettanto vero che il razzismo esiste, e che negare il suo fondamento scientifico non è un’arma efficace per combatterlo. Per lo più, le definizioni di «razzismo» si basano sulla diversità biologica (che effettivamente esiste) per giustificare una gerarchia tra gli individui che potrebbe avere una origine addirittura genetica, cioè innata. Da un punto di vista biologico, oggi sappiamo troppo poco sulla determinazione genetica del comportamento umano per indicare i meccanismi biologici e culturali che ne influenzano le regole. Da un punto di vista sociale, questa definizione di razzismo mette in luce la contraddizione tra il concetto di uguaglianza quale principio universale, proclamato come non discriminatorio dalla maggior parte delle Costituzioni moderne (è il caso dell’ art. 3 della nostra Costituzione) e la realtà della diversità: di qui l’ aspirazione a veder riconosciuto il diritto di ognuno alla differenza sia biologica sia culturale. In realtà, come è stato sottolineato da Bobbio, la contraddizione sta non tanto nell’ opposizione uguaglianza-diversità (dal momento che+ l’ opposto di uguaglianza è disuguaglianza), quanto: a) nella difficoltà di rispondere alla domanda: «Chi sono gli uguali, chi sono i diversi?» e b) nel ragionamento che se gli uomini sono uguali secondo certi criteri, e diversi secondo altri, ne consegue che gli uomini non sono tutti uguali ma non sono nemmeno tutti diversi.
L’EQUIVOCO
L’ ideologia del razzismo sta subendo metamorfosi tali che oggi non è più sufficiente riaffermare che le razze non esistono e quindi che il razzismo non ha alcuna ragione di sopravvivere. Paradossalmente, una delle rappresentazioni attuali dell’ ideologia razzista consiste nel prendere a prestito dalla biologia l’esperienza della diversità biologica per riproporla in termini assoluti sul terreno molto più infido della diversità culturale. Le «razze» diverse non sono più necessarie, anzi è proprio dalla biologia che abbiamo imparato che siamo tutti diversi. Ma se siamo tutti diversi biologicamente, lo saremo anche culturalmente: siamo quindi legittimati a conservare la nostra identità culturale perché «naturale», e quindi a lottare perché non venga inquinata da persone o gruppi che è bene conservino a loro volta la loro identità culturale. Da un pregiudizio (tutti gli uomini sono distribuiti in gruppi biologicamente omogenei al loro interno, ma sono co-
sì diversi l’uno dall’altro da legittimare rapporti di disuguaglianza sociale e politica) si cade nel pregiudizio simmetrico (essendo tutti biologicamente diversi, le nostre diverse culture legittimano il mantenimento delle nostre diverse identità, le quali per natura non sono assimilabili). Il diritto alla differenza, legittimato da alcuni risultati dell’antropologia culturale di tipo strutturalista, si è trasformato in teorizzazioni fondate sui postulati della irriducibilità e dell’assoluta separazione delle culture, delle tradizioni, dei costumi locali. Alla luce di questo principio di frammentazione radicale, l’ idea che certi individui o gruppi non sono «assimilabili» viene progressivamente strumentalizzata in forme di eterofobia e xenofobia: è così che il rifiuto del migrante trova la sua mistificazione culturale senza bisogno di ricorrere al razzismo. Alla radice del problema del razzismo sta la risposta a un problema più fondamentale che la scienza da sola non può risolvere: dobbiamo augurarci una società culturalmente omogenea oppure una società multiculturale? La natura, e forse anche la cultura, ci hanno indicato che le strategie miste forniscono maggiori vantaggi. Se è vero che entrambe le affermazioni: 1) tutti gli individui sono uguali 2) tutti gli individui sono diversi, conducono a pregiudizi cui può attingere l’ideologia razzista, è compito di chi si occupa di scienze biologiche, sociali e politiche indicare le armi educative con cui combattere tali pregiudizi. Ricordiamo sempre che né il comportamento razzista è la necessaria conseguenza di un pregiudizio razzista, né il pregiudizio razzista è la necessaria conseguenza dell’ esistenza o meno di «razze» umane geneticamente indefinibili.

l’Unità 27.1.13
Camusso: la rassegnazione non è una nostra prospettiva
La leader Cgil chiama la politica a fare la sua parte
di Massimo Franchi

«Parliamo al Paese per riunificare il lavoro, per una nuova idea di società». Il giorno dopo la presentazione del Piano del lavoro Susanna Camusso fa il punto dell’«interlocuzione diretta» con gli esponenti del centrosinistra, risponde alle domande e alle critiche dei commentatori esterni.
La seconda e ultima giornata della Conferenza di programma della Cgil si scalda con la presenza dei tanti militanti arrivati da tutta Italia che riempiono il primo anello del PalaLottomatica. Nelle parole applaudite del segretario generale c’è l’orgoglio per «le lotte di questi anni che hanno tenuto aperta una prospettiva» e la consapevolezza che «ora si apre una stagione nuova». Una stagione che non sarà più quella «del lungo elenco delle cose che non vanno», «ma una stagione di proposte che viaggeranno sulle proprie gambe, che ha bisogno di pochi comizi e tante riunioni nei luoghi di lavoro per rispondere alle domande, offrire una prospettiva ai giovani senza lavoro, alle madri che vogliono tornarci». Per farlo l’unico modo è «dire che abbiamo creato lavoro, che tutte queste persone non sono in contrasto con altri lavoratori», ed è «questa l’idea che sta al centro del Piano del lavoro» per «saper dare un tempo ed essere partecipi della ricostruzione del Paese».
«NO AI LAVORI SOCIALMENTE UTILI»
La «chiusura» di Susanna Camusso parte dall’«apprezzamento» per gli interventi dei politici del giorno precedente. Senza nominarli direttamente, il segretario della Cgil rileva come Bersani, Vendola e Tabacci abbiano osservato la richiesta di «rispetto» che lei aveva sollevato polemicamente nei confronti di Mario Monti. «Hanno avuto rispetto di noi soprattutto perché non hanno fatto comizi elettorali e non ci hanno dato ragione su tutto, hanno espresso dubbi e domande, ribadendo la necessità di interloquire».
Tra le critiche ricevute da esponenti della lista Monti e commentatori, in cima c’è sicuramente quella del Piano straordinario per la creazione di posti di lavoro in particolare al Sud, finanziato interamente dal settore pubblico. Camusso ribadisce «la necessità di ripartire subito dai giovani», smentisce l’idea di due tempi («ce n’è uno solo») rispetto alle altre misure del piano («è il primo vagone di un treno che non si spezza») e rispedisce al mittente il paragone con l’assistenzialismo. «Noi non pensiamo ai lavori socialmente utili che hanno creato mostri di assistenza temporanea senza mai soluzione definitiva, noi pensiamo ad un progetto preciso di tutela del territorio, un progetto continuativo e non straordinario, perché sennò sarebbe solo un continuare a mettere cerotti ad un Paese che invece ha bisogno di cure continue».
Nell’interlocuzione con il Pd (ieri era presente Stefano Fassina) la Cgil tiene però fermo il punto della tassazione dei patrimoni: «la patrimoniale serve» e «c’è la sensazione che la si prenda un po’ troppo bassa». L’altra grande fonte di finanziamento è «la lotta all’evasione che è lotta alla criminalità» e, citando il cronista Tizian minacciato in Emilia, ricorda che «la ricostruzione dal terremoto ha bisogno di vigilanza». Per quanto riguarda la riforma fiscale Camusso precisa che «discuteremo se modificare aliquote o deduzioni», ma ricorda come «i due interventi fatti sul cuneo fiscale sono andati tutti a favore delle imprese e mai dei lavoratori».
«LE RISORSE SI TROVANO»
Al Corriere della Sera che nell’editoriale di prima pagina di ieri liquida il Piano del lavoro come «un incremento strutturale di spesa pubblica», Camusso risponde: «Le risorse non vengono solo da fisco, ma anche dalla riorganizzazione della spesa pubblica, questa però non può avvenire, come finora, con tagli lineari e dell’occupazione perché quella è solo riduzione dell’intervento pubblico».
Al leader della Cisl Raffaele Bonanni che da Padova ha bollato il piano del lavoro come «da Unione Sovietica», Camusso invece controbatte che se per lui «poiché non ci sono risorse bisogna rassegnarsi, ebbene, la rassegnazione non sta nelle idee della Cgil, né nelle sue prospettive. Le risorse si possono trovare». E ai tanti che si stracciano le vesti per «l’intervento pubblico», il segretario della Cgil ricorda come «gli stessi non hanno problemi a chiedere che lo Stato finanzi le banche».
Qui arriva anche il passaggio forte sulla vicenda Mps: «Esempio pessimo di come si devono affrontare le questioni». Per la Cgil «il nodo fondamentale è che l’intero sistema bancario è pieno di derivati e finanza tossica» e «a giorni avanzeremo una proposta di trasparenza e governance» che ridisegni il rapporto «tra dirigenti e territorio».
L’altra osservazione ricevuta è la poca attenzione che il Piano darebbe al tema delle esportazioni, cavallo di battaglia invece di Confindustria. «Le nostre imprese che esportano sono la dimostrazione vivente che abbiamo ragione noi perché è lì che c’è contrattazione, non c’è precarietà e soprattutto puntano sull’innovazione». Ma «senza attenzione al mercato interno la crisi non si risolve».

l’Unità 27.1.13
«Per vincere, meno timidezze e un po’ più di sinistra»
Si riparte dal contrasto alla precarietà: giovedì le proposte
Il filo che lega giovani e anziani
di M. Fr.


Se venerdì la discussione era stata, per scelta precisa, tecnica e istituzionale, la mattinata conclusiva della Conferenza di programma della Cgil è stata più di popolo. A fare la differenza è stata anche la presenza di migliaia di delegati che dai territori sono arrivati a riempire il PalaLottomatica. In gran parte iscritti allo Spi. La conferma è arrivata quando sul palco è salita il segretario della federazione dei pensionati Cgil, Carla Cantone. Il suo discorso è stato punteggiato dagli applausi dei tanti iscritti arrivati a Roma in mattinata. Fra un ricordo di Sandro Pertini e di Enrico Berlinguer, Carla Cantone ha iniziato ricordando come «il piano del lavoro è urgente e il Paese non può permettersi di perdere ulteriore tempo. Basta con le giustificazioni “vorrei ma non posso”». «Alla politica ha aggiunto chiediamo impegni di lungo respiro che abbiano al loro interno delle priorità da affrontare subito e non fra due anni».
«Se si vogliono vincere le elezioni e riportare diritti nel lavoro e di cittadinanza delle persone, occorre essere espliciti e chiari e non avere timidezze nell’assumere qualche impegno di sinistra». «La patrimoniale ad esempio ha continuato non può essere una bestemmia: so che non piace ai ricchi, ma per fortuna non votano solo loro». Monti accusa la Cgil ma «dovrebbe stare zitto, vista l’iniquità delle sue scelte». Forte e deciso il suo attacco a Mario Monti: «La giustizia sociale è equità, ciò che non conosce Berlusconi e che non ha voluto praticare Monti, che ora prova a giustificarsi accusando la Cgil: è lui che dovrebbe stare zitto, vista l’iniquità delle sue scelte». «Sappiamo bene ha poi proseguito Cantone che ci deve essere gradualità e buon senso, che di fronte al disastro che ci ha lasciato la destra nessuno può fare miracoli. Ma attenzione, se si vogliono vincere le elezioni e riportare diritti nel lavoro e di cittadinanza alle persone occorre essere espliciti e chiari e non avere timidezza nell’assumere qualche impegno di sinistra».
Lo Spi sul territorio sta facendo volantinaggi appoggiando chi propone politiche di redistribuzione perché ha concluso il suo intervento Cantone «siamo con chi vuole una vera e non paternalistica giustizia sociale».
A premessa del suo intervento, Carla Cantone ha però tenuto a ricordare «il patto generazionale»: «Il nostro piano deve tenere assieme Nord e Sud, giovani e anziani, sennò non è un piano».
Un concetto che è stato al centro di tutti gli interventi della Conferenza di programma e che aveva appena affrontato anche Salvatore Marra, il più giovane delegato fra i tanti saliti sul palco nella due giorni. C’è uno «scontro cocente» tra la completezza della definizione di «lavoro dignitoso», più volte citato durante la Conferenza di programma, e «la realtà nella quale ci troviamo a lavorare», ha cominciato il responsabile dell’ufficio Nuovi diritti della Cgil Roma e Lazio. «I giovani, le donne e gli immigrati si trovano ad affrontare un mercato del lavoro sempre più frammentato. Sono questi i soggetti – ha proseguito che stanno pagando il prezzo più alto della crisi: la disoccupazione giovanile ha raggiunto il 37%, le donne disoccupate in alcune zone, soprattutto nel Sud, superano il 50%». Per il giovane sindacalista è necessario «mettere in campo misure di attivazione per queste persone, poiché, costerebbe meno di un quarto del costo che paghiamo a tenerle inattive». Marra ha criticato con il governo Monti che, a suo giudizio, «non ha fatto altro che fomentare lo scontro generazionale». Tanti suoi coetanei hanno dovuto scegliere di emigrare: «Sono costretti a farlo e la loro situazione è molto vicina a quella degli emigranti del dopoguerra che salivano al Nord per cercare lavoro».
E proprio da qui ripartirà la Cgil che giovedì presenterà la sua proposta per combattere la precarietà. Perché, come ha spiegato, Susanna Camusso, «anche i precari devono essere fra i lavoratori che scioperano, fra quelli che presentano piattaforme».

l’Unità 27.1.13
Jean Paul Fitoussi
L’economista francese boccia il piano delle imprese: «Non funzionerà» Europa dottrinaria e in ritardo davanti all’urgenza della crescita
L’austerità nega lo sviluppo Confindustria corregga la rotta


Jean-Paul Fitoussi, autorevole economista docente all'Institut d'etudes politiques di Parigi e alla Luiss di Roma, è prima di tutto uomo che sa divertirsi. E in questi giorni la cosa che lo fa sorridere di più – ma proprio sonoramente sono le stime sulla crescita. «Sono come i metereologi: dopo la pioggia prima o poi verrà il sole». Insomma, non lo convincono tutti questi annunci di ripresa (prima nel 2013, poi no, nel 2014) nell'Unione europea che piovono dal consenso internazionale. Così come ritiene quasi «inutili» i diversi piani per la crescita che oggi cominciano a circolare in Europa. Anche quello della Confindustria italiana. «Si illudono di coniugare l'austerità con la crescita. Non funzionerà». Il vero problema comunque non sta né negli analisti, né negli industriali, né nei governi nazionali: sta in un'Europa «dottrinaria» che non corregge i suoi errori. E soprattutto che schiaccia la possibilità di fare distinte politiche di destra o di sinistra. Professore, tutti gli istituti parlano di una ripresa nel 2014. Da dove arriverà la ripresa?
«Esistono i miracoli, lo sa? Per la verità anche i numeri per il 2014 sono deboli. Non parliamo di vera crescita, siamo intorno all'1%. Una crescita che non risolve i problemi né del debito, né della disoccupazione. Queste sono previsioni che nascondono piuttosto che far emergere i problemi. Per il 2013 c'è già evidenza di quello che avverrà: recessione a livello europeo, ancora più forte in Italia. Dicono che non può durare, che prima o poi l'economia risalirà. Su quali basi? Mah».
Ha notato che proprio il governo dei professori in Italia ha sbagliato tutte le stime?
«Tutti le hanno sbagliate: professori, politici e istituti internazionali. L'errore nasce dal fatto che non hanno preso in considerazione le esternalità delle politiche nazionali. Se io faccio una politica in Italia, questa ha effetti sulla Francia e sulla Germania, e viceversa. Dunque, il fatto che tutti conducano politiche di austerità ha reso obsolete le previsioni. È semplice: se c'è austerità non c'è crescita».
Alcuni sostengono che la recessione italiana non sia frutto dell'austerità di Monti, ma semmai della Germania. Che ne pensa?
«Concordo sul fatto che i Paesi del Sud hanno delle ragioni serie per adottare politiche di rientro del debito, mentre la Germania non ne ha. Dunque avrebbe aiutato tutta l'Europa se avesse adottato politiche espansive».
Lei quindi dà un giudizio positivo sul governo tecnico?
«Non sono più nello spirito di dare giudizi sulle politiche dei singoli governi. I vincoli europei e il fiscal compact hanno avuto l'esito di aumentare lo spread nei Paesi che – non sempre a ragione – erano considerati deboli. Questo ha determinato la politica economica: non c'era scelta. Ma queste sono cattive politiche, che imprigionano anche i governi. Continuiamo a imporre fiscal compact e vincoli di Bruxelles: ma così abbiamo distrutto la nostra industria». Cosa pensa del pacchetto di proposte presentato dalla Confindustria italiana? «Somiglia molto a tutti gli altri, che continuano a fare sempre lo stesso errore. Il problema è che si vogliono raggiungere due obiettivi contraddittori: austerità e crescita. Così riproponiamo sempre manovre di svalutazione fiscale. Ovvero: aumentare imposte come l'Iva per abbassare il costo del lavoro. Ma non ha senso, perché le svalutazioni possono farle tutti i Paesi, che non staranno a guardare. Nessun governo è stupido. Avrebbe senso se si facesse in un solo Paese. Il fatto è che qui c'è un problema di domanda non risolto». Vede segni di mercantilismo in quel modello?
«Di più, è un modello non cooperativo, di guerra commerciale».
All'interno dei vincoli europei è possibile fare politiche di sinistra distinte da quelle di destra?
«Direi di no. Si possono fare solo scelte molto marginali. Per esempio se si aumenta in modo deciso l'Iva faccio una politica di destra, mentre la sinistra pone l'accento sulla progressività dell'imposta sulle persone fisiche. Ma questo non cambia le cose: non risolve i problemi dell'occupazione. Anche l'idea di tassare i ricchi è debole: sono una parte piccolissima di popolazione e sono proprio quelli che riescono comunque a spostare i loro capitali all'estero». Una critica ad Hollande?
«Sì, la Francia di oggi ha molti problemi, soprattutto quello gravissimo della disoccupazione».
Il governo francese aiuta la sua industria automobilistica, quello italiano no. Chi ha ragione?
«Anche l'Italia ha aiutato l'auto in passato. Queste scelte dipendono dalle circostanze. La politica dei sussidi si fa quando i problemi esplodono. Cioè quando è troppo tardi».
La Tobin tax europea servirà a fermare la speculazione?
«Non credo che riuscirà a fermare la speculazione, ma sono favorevole a questa tassa. È un mezzo per avere più gettito fiscale per poter magari abbassare le altre tasse. È una possibilità». Pensa che la Gran Bretagna uscirà dall' Unione?
«La Gran Bretagna non ha problemi: resterà se le conviene, se ne andrà se l'interesse nazionale lo richiederà. Non è nell'euro e ha la seconda piazza finanziaria del mondo».
Insomma, l'unico problema resta l'Unione europea. Gli americani fanno meglio? «Senza dubbio. L'Europa è dottrinaria e non pragmatica. Gli americani quando sbagliano sanno cambiare, gli europei no. Impossibile immaginare processi decisionali come quelli europei: per fare l'unione bancaria serviranno due anni. Un'assurdità. Certo, se resta la regola dell'unanimità, basta un Paese per bloccare tutto. Così non ne usciamo».

l’Unità 27.1.13
Bersani a Pdl e Lega: sbraniamo chi attacca
«Tutti nelle piazze»
Il segretario chiede di cambiare passo
Il leader del Pd al contrattacco respinge le accuse sul caso Montepaschi
Ai dirigenti locali del Pd e ai capilista, Bersani chiede un impegno straordinario: «Stanno facendo di tutto per impedirci di vincere»


«È stato il Pd a volere il ricambio
Da Monti una cosa maligna, la smetta»
di Massimo D’Alema


L’ex premier ricorda il caso Unipol-Bnl: «Ero a favore, il Monte si oppose.
Chiedo un po’ di coerenza a chi mi diffama oggi come lo faceva allora»

«La verità è che dovrebbero dire grazie al Pd per aver fatto chiarezza dentro il Montepaschi». Massimo D’Alema si è preso un giorno di riposo e dalla sua casa di campagna vede volare troppi «avvoltoi». In questo colloquio con l’Unità si mostra preoccupato della piega che sta prendendo il confronto politico e del rischio che il qualunquismo possa gonfiare le vele.
Vorrebbe ci fosse maggiore consapevolezza di questo. E vorrebbe ci fosse anche da parte di Monti che proprio sul caso di Siena ha affondato il coltello. Ma D’Alema si trattiene, vuole evitare lo scontro con il Professore perché è Berlusconi l’«antagonista robusto»: è tra lui e il Pd che si giocherà la partita del voto. «Non esiste un bipolarismo tra il Pd e Monti, sarebbe un errore», dice. E se gli si fa notare che il premier sta un po’ esagerando, ammette che su Montepaschi ha detto una «cosa maligna» ma poi ha capito, e «ha scantonato». Forse quando gli è stato ricordato, anche da lui, di aver messo in lista Alfredo Monaci, che era nel Cda del Monte insieme con Mussari.
Ciò che interessa di più a D’Alema, però, è tenere il Pd fuori da questa «vicenda surreale». Lo ripete più volte: «Il Pd non c’entra nulla». Perché nelle scelte compiute hanno svolto il loro ruolo le istituzioni, che sono legittimate dal voto. «Ma vorrei anche ricordare spiega che siamo stati noi a varare le norme che riducevano il peso delle fondazioni nelle banche. Quando ero premier, a Siena si fecero dei manifesti in cui ero definito persona indesiderabile». Poi c’è anche il seguito della storia, la battaglia che si è combattuta per il rinnovamento del management della banca e che ha portato Profumo e Viola a Palazzo Salimbeni e che, forse, ha evitato un esito catastrofico. Una battaglia che ha diviso il Pd locale e costretto il sindaco a dimettersi. «Un anno fa è stato appunto il sindaco Ceccuzzi, che è del Pd, a rendersi conto che le cose non andavano e a volere un ricambio radicale. Questo ovviamente si nasconde, ma il chiarimento lo abbiamo voluto noi».
I guai del Montepaschi, come si sa, cominciarono con l’affare Antonveneta, quando la banca di Siena disse di no all’operazione Unipol-Bnl e con il gruppo Santander tentò l’altra avventura, sulla quale oggi è aperta un’inchiesta. «Che strano fa notare D’Alema qualcuno oggi mi accusa di essere l’ispiratore dell’affare Antonveneta dopo avermi accusato di esserlo stato per Unipol-Bnl. La verità è che l’operazione Unipol-Bnl era una scelta strategica. Il gruppo dirigente del partito era a favore e Montepaschi invece era contrario. E questa è la conferma clamorosa che non è affatto vero che il partito controllava la banca, perché la banca era completamente autonoma. Aggiungo, però, che uno non può essere accusato di essere lo sponsor di un’operazione e del suo contrario, altrimenti diventa una barzelletta e magari mi accuseranno anche di essere responsabile della guerra in Cecenia. Nella diffamazione ci vuole coerenza». Eppure allora i manager del Monte erano considerati da tutti come i «cavalieri del bene» contro i cattivi della sinistra. «Certo, persino dagli stessi giornali che oggi ci accusano...».
Questa «vicenda surreale» dimostra, comunque, che c’è qualcosa che non funziona nella vita delle banche e nell’uso della finanza speculativa. Per esempio sul fronte dei controlli qualcosa non ha funzionato. «È un problema serio spiega D’Alema e almeno su questo spero che nessuno voglia sostenere che spetti al Pd il controllo dei manager». Nelle ore concitate del caso Mussari c’è stata una tensione, proprio sui poteri di controllo, tra il Tesoro e Bankitalia. «Credo che se la normativa non consente controlli accurati, la normativa va cambiata. Ma c’è un’altra questione che riguarda l’uso dei derivati, con i quali c’è chi tenta di fare alti guadagni con altissimi rischi. Bene, se uno vuole rischiare con i soldi propri, faccia pure, si accomodi al casinò della speculazione. Ma non è ammissibile che certe operazioni si facciano con i risparmi dei cittadini».
La preoccupazione, oltre le strumentalizzazioni, è però per un quadro politico troppo confuso. A cui si aggiunge un Monti che si fa agguerrito e che, dopo il Pd, attacca ossessivamente la Cgil. Come se, in un Paese dalle mille corporazioni, il problema fosse il più grande sindacato. D’Alema è convinto e lo dice con chiarezza che il Pd non è il «partito della Cgil». Ma ribadisce anche che non si governa «criminalizzando una forza che rappresenta milioni di lavoratori». Le perplessità maggiori l’ex premier le ha sulla natura politica dell’operazione Monti perché ci vede dietro, è il ragionamento, una spinta «contro i partiti e un’esaltazione acritica della società civile». E anche una tentazione di mettere fine alla concertazione e «aprire un conflitto con i sindacati». Certo, per chi parla tanto di Europa appare come un’anomalia. «La Germania ricorda è governata da partiti radicati e non da liste personali. E la concertazione è forte, anzi lì i sindacati sono associati al governo delle imprese. La forza dei partiti e il dialogo sociale sono un valore irrinunciabile, non un disvalore».
Di questo vorrebbe che si potesse discutere con Monti. Nei confronti del Professore, D’Alema non vuole alzare i toni. Perché la partita vera si gioca con il Cavaliere, è lui l’avversario. «Altrimenti è come affrontare il derby con la Lazio parlando del Milan», dice da tifoso della Roma. Sono parole che appaiono quasi come un appello al premier: la smetta di polemizzare, occupiamoci dei problemi del Paese. «Stiamo attenti, il rischio è che nella confusione rispunti Berlusconi», avverte. Anche perché resta convinto che la campagna qualunquista contro la politica alla fine i voti li porti a Grillo e non alla lista civica del premier.
Il tentativo insomma è di rimettere ordine nelle cose, far capire che lo scontro è serio e che i rischi sono alti. Per questo anche i retroscena che annunciano patti più o meno segreti con Berlusconi per il futuro capo dello Stato vengono liquidati come «veline e veleni». D’Alema vorrebbe, invece, che fosse più chiaro quali pericoli può creare una guerra di tutti contro tutti. Vuole evitarla, quella guerra, ed è convinto che il Pd «dovrebbe reagire, fare uno sforzo enorme per occuparsi del Paese». La sensazione è che dare troppo scontata la vittoria alla fine sia «dannoso». «Sì, bisogna farla la campagna elettorale. E al momento non vedo ancora una mobilitazione collettiva adeguata, sento che dobbiamo ancora dispiegare le nostre forze». Altrimenti, pensa, non si riuscirà a respingere l’assalto al Pd che in fondo è l’unico partito che si candida a governare il Paese. «Gli altri conclude sono lì che vogliono indebolirci, condizionarci o impedirci di andare a Palazzo Chigi». Per evitare questo approdo, sembra di capire, non basta rispondere colpo su colpo.

La Stampa 27.1.13
Nel Pd tanti i delusi da Monti “È un Berlusconi con il loden”
Preoccupazione nel partito, la vicenda dell’istituto può “erodere in maniera sensibile” il consenso conquistato
di Carlo Bertini


Sondaggi Preoccupazione nel Pd per i prossimi sondaggi dopo che è esploso il caso Monte dei Paschi

«D’ ora in poi, per un mese tutti spareranno addosso a noi che siamo i favoriti ed è chiaro che useranno questa storia del Monte Paschi, a cominciare da Monti che se vuol prendere voti al centrodestra deve per forza dar botte al Pd». Ecco se questo è l’umore disincantato di uno dei big di area cattolica, quello del segretario è più combattivo, se non altro per rassicurare la pancia ex diessina che quelli che vogliono strumentalizzare questo caso come fu per la vicenda Unipol non ci riusciranno. Bersani aveva messo nel conto che sarebbe stata «una campagna durissima in cui avremo tutti contro», ma ora è dell’attacco «a freddo» del professore che non si capacita. «Perché è una cosa non da persona seria quale dovrebbe essere lui», si sfoga con i suoi. Dunque lo stato maggiore si cala l’elmetto sperando che il colpo di immagine su Mps non faccia da volano al trend già discendente dei sondaggi, vissuto fin qui senza troppi patemi. Ma questa vicenda apre una ferita seria con Monti: che «se punta a togliere voti a Berlusconi bene, ma deve stare attento a non esagerare altrimenti rischia una strada senza ritorno e forse questo non fa piacere a Casini... », avvertono sibillini i bersaniani.
Il grado di preoccupazione cresce e non c’è dubbio alcuno: a lanciare il primo campanello d’allarme su un’erosione a caldo dei consensi del Pd di unodue punti, uno studioso autorevole come Paolo Natale ieri su Europa, uno dei due quotidiani del partito. Convinto che «se politici e media faranno di questo caso un insistente cavallo di battaglia è anche possibile che il credito di fiducia di cui tuttora gode il Pd possa venir eroso in maniera sensibile». E si capisce con quale ansia ai piani alti attendano i sondaggi dei prossimi giorni, ufficiali e più riservati, dei vari istituti. Che prima che esplodesse il caso Mps avevano pure segnalato una frenata della rimonta del Cavaliere.
Dopo che già venerdì alcuni segretari regionali riuniti in plenum con i big invocavano una reazione più dura agli attacchi, i toni di Letta e Bersani si sono alzati fino a mollare sberle verbali come quelle di ieri. E per far vedere che fa sul serio, Bersani è arrivato a evocare un commissariamento della banca. Dalla sede del Pd si premurano di far sapere che lo scopo di questa proposta è quello di «interrompere il rapporto incestuoso tra la fondazione e la città e anche quello di affrontare i problemi senza impacci. La Banca d’Italia può proporre al ministero dell’Economia anche il commissariamento, che sospende i poteri delle assemblee, un modo per interrompere il rapporto tra potere politico cittadino e la banca e anche per consentire di tirar fuori tutto ciò che si deve. Insomma vogliamo far vedere che non c’è nessun timore reverenziale a spezzare questi legami».
Ma sul piano politico la conseguenza immediata è un «cambio di passo» nei rapporti con Monti. Perché il refrain dei bersaniani è che così facendo il professore sembra una brutta copia del Cavaliere e si sa cosa succede quando gli elettori devono scegliere tra una copia e l’originale. «Il tema di questa campagna dovrebbe essere come uscire dalla più grave crisi del dopoguerra. Gli altri la impostano secondo lo stile dei guru americani: Berlusconi lo ha imparato, il motto è “lascia stare i problemi e attacca gli avversari”. Ma siamo stupiti del prof. Monti», scandisce il leader Pd in un teatro ligure incassando uno scroscio di applausi dei militanti arrabbiati. Ma la musica che intonano i suoi è più aggressiva perché «Monti sa che problemi ha questo paese, dovrebbe essere uno di quelli che parlano un linguaggio di verità. E’ un grave errore fare il Berlusconi col loden. Se rosicchia uno o due punti alla destra in Sicilia recitando il ruolo dell’antipolitica in doppio petto a noi conviene. Ma se la critica prende una piega etica o morale, rischia di minare la collaborazione tra i due poli e in quel caso ci rimette il più debole».

Corriere 27.1.13
Calo nei sondaggi, ora il Pd teme «l'effetto Mps»
Bersani deluso dagli attacchi del premier «Insinuazioni non da persona seria»
di Maria Teresa Meli


ROMA — C'è preoccupazione, e c'è rabbia nel quartier generale di Pier Luigi Bersani. Quanto durerà la bufera del caso Monte dei Paschi di Siena? «Non lo so», ammette lo stesso segretario. E quali saranno le conseguenze? Simili forse a quelle dell'affaire Unipol del 2005, che sprofondò gli allora Ds in grandi difficoltà? Su questo il leader del Partito democratico ha la risposta pronta: «So che stavolta non ci riusciranno».
Ma quando le luci dei riflettori si allontanano e Bersani si slaccia il primo bottone della camicia e allenta la cravatta restano solo i fedelissimi e gli amici. E con loro il segretario può essere più esplicito: «Avevo detto che non sarebbe stata una campagna elettorale facile, che non dovevamo già dare tutto per scontato. Sapevo che avrebbero provato in ogni modo a impedirci di vincere». A dire il vero sembra una magra consolazione avere azzeccato le previsioni. Ma tant'è. Quello che a Bersani non va assolutamente giù è la polemica innescata da Mario Monti. Gli insulti di Grillo erano preventivati, le accuse del centrodestra prevedibili, ma il comportamento del premier... no, quello non se lo aspettavano al Pd.
Con i suoi Bersani ragiona in questi termini: «Quello di Monti è stato un attacco a freddo per metterci in difficoltà e questo non è da persona seria». E ora gli occhi dei dirigenti del Partito democratico sono tutti puntati ai sondaggi. C'è un primo campanello d'allarme. Lo segnala in un articolo su Europa Paolo Natale, esperto di analisi dei dati statistici e dei sondaggi: c'è «un piccolo ma significativo decremento delle intenzioni di voto nei confronti del Pd. Poca cosa, per ora, diciamo uno/due punti percentuali». Magari non succederà nulla, spiega Natale, perché non è detto che il calo dei consensi sia direttamente legato alla vicenda Mps. Ma c'è il rischio che l'elettorato colleghi questa storia a quella dell'Unipol del 2005 e allora «potrebbe enfatizzare un rapporto mai molto chiaro, e mai molto chiarito, tra il Pd e il mondo bancario». In questo caso il tesoretto dei consensi del Partito democratico potrebbe essere «eroso in maniera sensibile».
Insomma, nonostante le parole d'ordine ufficiali in casa del Pd i timori non mancano. Non a caso anche Renzi, che ha sempre criticato il rapporto tra Mps e partito, tanto da chiudere a Siena la sua campagna elettorale per le primarie il 24 novembre dello scorso anno, oggi preferisce parlare poco o niente. Non vuole essere additato come un traditore, visto il clima che c'è, con Bersani che richiama il partito alle armi contro chi polemizzerà ancora con il Pd, e Massimo D'Alema che spiega ai compagni di partito: «Ci sono ambienti di questo Paese che non ci vogliono al governo». Ritornano nella sinistra italiana paure antiche, riferimenti ai poteri forti... e il 2005 sembra improvvisamente più vicino.
Bersani però non vuole dare l'impressione di un partito che gioca in difesa. Dal suo staff ieri minimizzavano gli effetti sul Pd dell'attacco di Monti: «Il premier — era la spiegazione che filtrava dall'entourage degli uomini del segretario — avrà deciso di andare addosso a noi per prendere voti a Berlusconi. Noi non abbiamo problemi, ma deve stare attento a non esagerare che così facendo rischia di imboccare una strada senza ritorno». Il segnale che parte da Largo del Nazareno all'indirizzo di Monti è chiaro: se su suggerimento di Larry Grisolano (l'uomo che per David Axelrod si occupa della campagna del Professore), il premier continuerà a bastonare sul Pd, allora non ci potranno essere rapporti di collaborazione nemmeno in futuro.
Dunque, il presidente del Consiglio è avvisato: se vuole avere un rapporto con il Pd all'indomani delle elezioni è bene che non travalichi i limiti. Piuttosto torni a essere la persona seria di un tempo. Ma siccome Bersani è uomo politico troppo accorto per non capire che bisogna mandare anche altri messaggi, questa volta all'opinione pubblica e all'elettorato, il Pd lascia intendere di essere comunque pronto ad avviare un'analisi seria e approfondita sul sistema delle banche italiane e disponibile a un confronto per elaborare nuove regole. È su questo terreno, spiegano a Largo del Nazareno, che Monti può innescare una sfida costruttiva con il Partito democratico, non su quello «delle insinuazioni degne di un Berlusconi».

Corriere 27.1.13
Pdl, sì dal 40% dei «vecchi» elettori Al Pd (68%) il record di fedeltà
Metà dei consensi potenziali della lista Monti arriva dai «delusi» del centrodestra
di Renato Mannheimer


Le intenzioni di voto degli italiani non hanno subito, negli ultimi giorni, modificazioni di particolare rilievo. È vero che diversi sondaggi mostrano, peraltro in misura differente, variazioni nel seguito di questo o quel partito. Ma si tratta di scarti di entità relativamente modesta, che non sembrano sin qui intaccare l'assetto complessivo che è andato progressivamente delineandosi dall'inizio di gennaio ad oggi. Che vede il sostanziale mantenimento del considerevole vantaggio acquisito dal centrosinistra, oggi attestato complessivamente attorno al 37%. In realtà, la distanza si è un pò attenuata negli ultimi tempi, anche a causa di un lieve arretramento del Pd. In questo momento, il partito di Bersani oscilla tra il 30 e il 31% (anche se alcuni istituti lo collocano sotto questa soglia e se i sondaggi — compreso quello qui presentato — sono stati effettuati prima della vicenda Monte dei Paschi di Siena, che potrebbe forse ledere ulteriormente il consenso per il Pd), avendo goduto in passato di un seguito giunto fino al 33%.
Un altro motivo per cui il divario del centrosinistra sul centrodestra si è eroso rispetto agli inizi del mese è il recupero messo in atto nelle prime settimane di gennaio da Berlusconi con le sue presenze televisive. Un trend che, tuttavia, sembra essersi arrestato già dopo l'apparizione da Santoro, dato che negli ultimi tempi i consensi per il Pdl sono rimasti stabili. Oggi il partito del Cavaliere si colloca tra il 18 e il 19% (ma alcuni istituti lo stimano al 17%).
Nell'insieme, il centrodestra ottiene circa il 27% dei consensi, con una distanza di 9-10 punti dal centrosinistra (secondo alcuni istituti di sondaggio 7-8%), mentre la lista di Monti si attesta oggi attorno al 14-15%, senza registrare anch'essa particolari mutamenti in confronto a qualche settimana fa.
Ma da dove vengono questi voti? Quanti elettori che avevano optato per un partito nel 2008 confermano oggi la loro scelta? E da quali forze politiche provengono i consensi ottenuti sin qui da Monti?
Come era facile immaginare, il partito che riscontra una minore fedeltà tra gli elettori è il Pdl. Per molti mesi, specie nella seconda metà del 2012, esso ha visto infatti un forte decremento di consensi, che ha provocato anche la violenta crisi interna che ha attraversato il partito. Ancora oggi è una minoranza, seppure cospicua (40%), degli elettori per il Pdl nel 2008 a riconfermare la fiducia. Molti (21% dell'elettorato del 2008) sono tutt'ora rifugiati nell'indecisione e nell'astensione e quasi un decimo sceglie il Movimento 5 Stelle. E il supporto giunto al Pdl da ex elettori per altri partiti ha solo parzialmente attenuato questa forte erosione.
Anche l'altra componente del centrodestra, la Lega, vede un flusso di una parte consistente (21%) del suo elettorato di cinque anni fa verso l'astensione o l'indecisione (e poco più del 7% dirigersi verso il M5S), benché la maggioranza (56%) resti fedele. È da rilevare anche l'esistenza di un contenuto (6%), ma significativo, rivolo di voti dalla Lega a La Destra.
Assai più alto è invece il tasso di fedeltà rilevato per il Pd (68%), che vede comunque anch'esso una più modesta deriva verso il M5S e l'astensione o indecisione, a fronte, anche in questo caso, di un afflusso da parte di ex elettori di altri partiti.
Nel loro insieme, questi flussi in uscita avvantaggiano, accanto alla pattuglia formata da chi è tutt'ora indeciso o tentato dall'astensione, i soggetti politici nuovi che affrontano queste consultazioni: il Movimento 5 Stelle e la Lista Monti. Entrambi attraggono consensi che una volta erano sia del centrodestra, sia del centrosinistra. In particolare, quasi metà (40%) dei votanti attuali per il Professore proviene dal Pdl e il 18% dal Pd. Mentre al M5S giungono anche molti consensi da chi in passato si era astenuto: costoro formano oggi quasi un quarto dell'elettorato di Grillo.
L'esito finale delle consultazioni dipenderà dunque dalle scelte degli indecisi, che spesso formano la loro scelta all'ultimo momento. Qui sono presenti elettori di tutti gli schieramenti, con una netta maggioranza, tuttavia, di ex votanti per il centrodestra. Che sono, con tutta evidenza, l'oggetto delle speranze di recupero del Cavaliere. Ma anche — lo si è visto negli ultimi giorni — uno degli obiettivi principali della campagna del presidente Monti.

Repubblica 27.1.13
Sposetti attacca Grilli: lui doveva vigilare
I sospetti del tesoriere rosso “Massoni e Opus Dei a Siena più potenti di noi”
di Goffredo De Marchis


ROMA — Inutile cercare responsabilità del Pd nella vicenda del Monte dei Paschi. Meglio guardare alla massoneria e all’Opus Dei. Con qualche bersaglio preciso: Mario Monti, Franco Bassanini e Vittorio Grilli. Difesa d’ufficio, quella di Ugo Sposetti, 66 anni, mitico tesoriere dei Ds, candidato al Senato nel Lazio. Ma l’uomo conosce a menadito la storia del rapporto tra la sinistra e i soldi. L’antica scuola di partito gli imporrebbe di non parlare. Il carattere lo porta, tra non detti e frasi lasciate a metà, a fornire qualche traccia dei “nemici” del Pd in questa vicenda. Ammettendo che i democratici « ci lasceranno qualche penna al momento del voto ».
È arrivato il momento di fare chiarezza sul legame tra il Pd e le banche, e il denaro. C’eravate già cascati ai tempi della scalata Unipol-Bnl.
«Ma quale denaro. Il caso del Monte dei Paschi riguarda la politica e la sociologia».
Parliamo della politica.
«Tutto è politica, di che cosa dobbiamo parlare? L’altro giorno Bertone e Bagnasco hanno presentato un libro e hanno fatto politica».
Restiamo a Siena, dove comanda il Pd.
«Non vedo un solo giornalista che abbia voglia di ricostruire seriamente la storia della banca. Siete tuttologi ma non sapete niente. Ci vuole tempo, dovete ascoltare, indagare, conoscere il territorio. Lì c’era pure il Pci, ma casualmente».
Come casualmente? A Siena la sinistra governa da 67 anni.
«Il Monte è il Monte. È la storia d’Italia, delle cento città, dei mille comuni. Dal granduca di Toscana a Mussolini, tutti hanno messo bocca sul Monte».
Adesso però è il Pd a pagare il prezzo di quel legame.
«Se le notizie escono in campagna elettorale, è così. Qualche voto lo perderemo per strada».
Allora fate chiarezza.
«Quale chiarezza. Ci dobbiamo suicidare? L’unica è continuare a girare per i paesini, andare nelle piazze».
Nella tangente di 2 miliardi per l’acquisto di Antonveneta troveremo nomi di politici?
«Lasci perdere. Le tangenti non le danno ai partiti. Voi giornalisti siete malati con questa cosa delle tangenti ai politici».
Non crede alla maxi-tangente?
«Mica faccio l’orologiaio. Mica vado nei bar a dire “quei ladri, quei mascalzoni”. Non è che non ci credo. So quello che dico. Sono cazzate».
Bankitalia doveva vigilare e non l’ha fatto?
«Grilli doveva farlo. La vigilanza sulle fondazioni spetta al ministero dell’Economia».
D’Alema dice che il primo a denunciare lo scandalo, Franco Ceccuzzi, ora è il candidato a sindaco. Quindi, il Pd c’entra.
«Mi faccia dire qualcosa su Ceccuzzi. Il vero eroe di quest’operazione è lui, non i magistrati. Ha rinunciato alla serenità di parlamentare per cercare di salvare la banca e la città. Se c’è un uomo che aveva capito cosa stava succedendo è Ceccuzzi. Gliel’hanno fatta pagare, sa. Mi auguro che ora Siena gli sia riconoscente. E se scrive qualcosa, mando un abbraccio a Franco attraverso lei».
C’era una faida diessina intorno al Monte? Alcuni suoi colleghi accusano Franco Bassanini.
«Non mi va di parlarne. Oggi (ieri ndr) sono intervenuti il segretario Bersani e Massimo D’Alema. In questi casi, un vecchio comunista come me sta zitto e basta».
Torniamo a Bassanini.
«Che lavoro fa adesso?».
Il presidente della Cassa depositi e prestiti.
«Come fa a occupare quel posto? Che ne sa uno come lui della Cassa depositi e prestiti? Dia retta a me: nel caso del Monte dei Paschi non c’entra la politica, ci sono altri interessi».
La massoneria?
«Lasciamo stare».
A Siena c’è la massoneria?
«Non solo. C’è pure l’Opus Dei».
Monti accusa il Pd per i rapporti con Mps.
«Monti non dovrebbe parlare di politica. Anzi, dovrebbe ricordarsi che la politica lo ha mandato per 10 anni a Bruxelles. E non gli ha fatto per niente schifo».

l’Unità 27.1.13
Alemanno nella bufera. Ora il Cav vuole Meloni
Il sindaco si difende: «Non c’entro nulla con le tangenti per gli autobus e non mi faccio indietro»
Il Pd chiede immediate dimissioni: ogni giorno emerge un nuovo scandalo
di Jolanda Bufalini


La bufera delle tangenti per il subappalto di 45 filobus alla Menarini Breda si è abbattuta sul sindaco di Roma. Gianni Alemanno è arrivato in Campidoglio alle 19, ieri sera, «direttamente dall'aeroporto», racconta, di ritorno dal pellegrinaggio in Terrasanta, dove ha ricevuto per telefono la notizia della «bomba» deflagrata in piena campagna elettorale. Anche se, secondo alcuni, avrebbe avuto il tempo di vedere o di sentire Silvio Berlusconi. Oggetto della conversazione l'ipotesi della sua sostituzione in corsa per la poltrona di sindaco. Sarebbe già pronta la candidatura alternativa di Giorgia Meloni. Alemanno, però, afferma: «Io andrò avanti, mi ricandiderò». Non si aspetta una espressione pubblica di solidarietà, da parte di Berlusconi, sono questioni sulle quali «bisogna conoscere le carte e, io stesso, ancora non le conosco. C'è stata, e ne sono contento, quella di Angelino Alfano».
Appronta, nella sala delle Bandiere, la linea di difesa: «Questa situazionesottolinea non può riguardare la mia amministrazione». Il suo sodale, Riccardo Mancini, presidente dell'ente Eur, si è dimesso due giorni fa. Mancini è chiamato in causa, nell'inchiesta sulle mazzette che ammonterebbero a più di 700.000 euro, come colui che avrebbe fatto da referente per l'ex ad della Menarini Breda, Roberto Ceraudo. Mancini è anche stato il tesoriere della campagna elettorale di Alemanno nel 2006, il mandatario di quella conclusasi con l'elezione del 2008, amico fidato dai tempi del Fronte della Gioventù. Le sue dimissioni sono già un duro colpo, seguono a quelle di un altro fedelissimo, Panzironi, che si è dovuto dimettere per la parentopoli capitolina. Ma il cerchio, stando al racconto fatto al Pm Paolo Ielo dall'uomo d'affari Edoardo D'Incà Levis, si è ancora più stretto intorno al vertice del Campidoglio: in una telefonata su Skype del
giugno 2009, «Ceraudo fece riferimento alla segreteria di Alemanno come destinataria delle risorse finanziarie».
Il sindaco riconosce che quella frase è nelle carte processuali ma insiste: «La nostra amministrazione non può essere in alcun modo collegata», e spiega: «La presentazione dell'offerta della gara è del 28 aprile 2008, ore 12. Io non ero sindaco, non era cominciato lo spoglio, non sapevo nemmeno che avrei vinto». Dopo l'offerta c'è la valutazione dei risultati e, nel novembre 2008 l'assegnazione della gara. A giunta appena insediata, quindi, sulla base di documenti della precedente giunta su cui, precisa Alemanno, non ho nulla da «obiettare». Secondo il sindaco la prima e mail di D'Incà Levis in cui si parla di Lobby Rome «è datata 10 aprile 2008», due giorni prima delle elezioni. «Non c'era da parte della mia amministrazione alcun potere di ricatto». Ma quello della Breda è un subappalto, l'interrogatorio fiume di D'Incà ha parlato di contatti che si sono svolti nel 2009. «Si tratta di un rapporto della Breda con l'associazione temporanea d'impresa, aziende private». L'azienda privata è, in realtà, pienamente controllata dal comune di Roma, la Roma metropolitane ora unificata con Atac. 100 per cento capitale pubblico. Ma il sindaco insiste, difende l'amico che si è dimesso, «hanno accusato lui, ora accusano me, domani diranno che la tangente l'ha presa mia madre».
Sono parole che non soddisfano l'opposizione, inizia il capogruppo del Pd in aula Giulio Cesare Umberto Marroni, che è anche uno dei candidati alle primarie Pd per le amministrative: «Se fosse vero ciò che sembra emergere dalle inchieste che hanno già costretto alle dimissioni Riccardo Mancini, cioè che è direttamente coinvolta la segreteria del primo cittadino, Alemanno dovrebbe immediatamente e irrevocabilmente dimettersi». Dello stesso tono le dichiarazioni di altri esponenti del Pd: «Alemanno ammetta il suo fallimento e si dimetta da un ruolo che ha dimostrato di non saper esercitare», sostiene Ignazio Marino, dimissioni chiedono anche Davide Sassoli, «non passa giorno senza che una questione morale investa il Campidoglio» e Paolo Gentiloni: «Alemanno dia subito spiegazioni sul presunto coinvolgimento della sua segreteria». Dure le dichiarazioni di Casini e del rappresentante dell'Udc in Campidoglio, Onorato: «Con Alemanno Roma è cambiata, come aveva promesso in campagna elettorale. Ma è cambiata in peggio» e, per Casini, «il giudizio negativo sulla giunta Alemanno precede gli sviluppi delle ultime ore».
Il sindaco chiede di fermare la macchina di fango mediatica, «c'è un'inchiesta in corso, lasciamo lavorare Paolo Ielo». Però lui stesso è protagonista di un duetto non proprio gentile con quello che appare come il suo accusatore: «Non ci si può affidare alle parole di oscuri personaggi», ha detto riferendosi a Edoardo D'Incà Levis. La risposta del legale che assiste l'uomo d'affari italiano residente a Praga, avvocato Alessandro Diddi: «D'Incà non è affatto un oscuro personaggio, è un rispettabile imprenditore coinvolto suo malgrado in questa vicenda. Sarebbe stato meglio riflettere prima di accusare una persona che si è difesa semplicemente dicendo il vero e che ha estrema fiducia nel lavoro della magistratura».

l’Unità 27.1.13
Cina, un esercito di laureati che sognano l’ufficio
Pechino investe 250 miliardi di dollari l’anno nell’istruzione. Ma i diplomati snobbano la fabbrica
di Marino Mastroluca


Otto milioni di nuovi laureati ogni anno, un’impennata che in poco più di un decennio ha visto moltiplicare per undici il numero di studenti sfornati dalle università cinesi. I numeri sono tutti maiuscoli, come si conviene alla Cina che contava su questo esercito per riempire le molte caselle vuote in posti di rilievo nelle imprese e fabbriche del Paese. In prospettiva un cambiamento di marcia e di composizione sociale. Se finora i laureati facevano parte di un’elite nettamente distinta dalla gran massa dei lavoratori con scarso livello di formazione, l’ambizione delle autorità di Pechino era quella di forgiare lavoratori altamente specializzati da inserire nel corpo pulsante della produzione. E invece le cose non stanno andando così.
QUESTIONE DI STATUS
Anni di studio, faticosamente supportato dalle famiglie, hanno prodotto laureati che sognano scrivanie e posti in ufficio e che dei fumi spesso assai concreti della fabbrica non vogliono saperne. Le statistiche citate da un’inchiesta del New York Times mostrano
una sorprendente difficoltà dei neo-laureati cinesi a entrare nel mondo del lavoro. Tra i 20 e i 25 anni paradossalmente la percentuale dei disoccupati è decisamente più alta tra chi ha frequentato un’università che non tra chi ha solo la licenza elementare: il rapporto è di quattro a uno. E la ragione non sta nella mancanza di posizioni adeguate ai laureati, dei quali anzi le imprese cinesi sentono un gran bisogno.
Un decennio di crescita impetuosa ha moltiplicato le aspettative sociali. E con queste anche il numero di università e istituti di istruzione superiore, che è letteralmente raddoppiato arrivando a quota 2409. Non sempre la formazione è al livello delle aspettative, la qualità è estremamente variabile e ancora l’istruzione all’estero viene vista come una meta necessaria per compiere il salto sociale. Ma per generazioni di figli unici che hanno alle spalle una famiglia intera che scommette su di loro, l’università è soprattutto l’occasione per ottenere un nuovo status: culturalmente incompatibile con la vita in fabbrica.
Nel marzo scorso il primo ministro We Jabao ha dovuto riconoscere che «solo» il 78% dei laureati dell’anno precedente aveva trovato un’occupazione.
Una percentuale che da noi sarebbe considerata un successo, e che invece è un indice preoccupante a Pechino. Intanto perché, anche se gli studi di ingegneria restano al primo posto, gli studenti cinesi sembrano orientarsi verso settori formativi non del tutto appetibili dal mercato del lavoro. Puntano ad esempio sull’economia e la finanza, sulla formazione bancaria dove gli stipendi sono decisamente più alti ma la disponibilità di posti di lavoro è assai minore che non nelle fabbriche. E alla fine domanda e offerta di lavoro non si incontrano: moltiplicato su scala cinese un fenomeno da non sottovalutare.
Le società cinesi, di solito poco tenere con i lavoratori vedi gli scioperi tumultuosi della Foxconn e l’epidemia di suicidi in fabbrica hanno cercato di correre ai ripari offrendo condizioni più favorevoli ai laureati. Impianti con l’area condizionata, come ha fatto la Tal di Hong Kong, più biblioteca con postazioni internet per il dopo lavoro. Altrove le camerate, dal sentore più o meno carcerario, sono state sostituite da mini-appartamenti per due persone, più confortevoli e personalizzabili.
Ma la meta resta lontana. «Da una parte abbiamo posti di lavoro e posizioni per lavoratori specializzati che non riusciamo a trovare si è lamentato il vice-ministro dell’istruzione Lu Xin e dall’altra abbiamo persone di talento che non riescono a trovare lavoro: la risposta è la formazione tecnica e professionale».
Con un investimento nell’istruzione balzato in dieci anni da meno di 40 a oltre 250 miliardi di dollari, Pechino prova a tirare le somme per scoprire di non aver prestato attenzione alla variabile delle aspirazioni personali. La fabbrica rimane in fondo alle ambizioni, per tanti è solo l’ultima spiaggia dopo aver esaurito le altre strade possibili, anche a costo di accettare lavori sottopagati nell’attesa. E le imprese si organizzano aprendo università private per forgiare una manodopera tagliata su misura sartoriale sulle loro esigenze produttive.

l’Unità 27.1.13
Shelly Yachimovich, leader del Partito laburista
«Non diamo per scontato un governo Netanyahu»


«Netanyahu si affanna a promettere poltrone e dividendi improbabili. Parla da premier in pectore ma non è affatto scontato che riuscirà nell’impresa di formare un governo in grado di dare risposte alle grandi emergenze del Paese, a cominciare da quella sociale. Netanyahu fa i calcoli, somma l’ultradestra con i laici, i moderati con gli ortodossi, ma se pure riuscirà a mettere insieme 61 voti alla Knesset, altra cosa sarà offrire una prospettiva a Israele». A sostenerlo è Shelly Yachimovich, 52 anni, leader del Partito laburista, che con i suoi 15 seggi (tre in più della passata legislatura) ottenuti alle elezioni del 22 gennaio, è divenuto la terza forza politica d’Israele. «Siamo pronti dice Yachimovich a l’Unità per assumerci responsabilità di governo. Un governo alternativo a quello che ha in testa Netanyahu».
Come valuta il risultato delle elezioni del 22 gennaio?
«Come la clamorosa smentita di quanti profetizzavano il trionfo della destra e la messa in un angolo, confinata a un ruolo di mera testimonianza, dell’opposizione di centrosinistra. Così non è stato. Netanyahu e il suo alleato Lieberman escono ridimensionati dal voto e la loro sconfitta politica va oltre il dato numerico. È la sconfitta di una visione politica, di una idea della sicurezza proiettata solo sul terreno militare e che poco o nulla teneva in conto della sicurezza che è venuta meno per decine di migliaia di famiglie israeliane, e per i settori più deboli della nostra società: le donne, gli anziani, i giovani. Un malessere crescente a cui la destra non ha saputo né voluto dare risposte».
Resta il fatto che, nonostante la perdita di 11 seggi, la lista Likud-Beitenu è ancora quella di maggioranza relativa e Netanyahu parla da premier in pectore, sostenendo di voler dar vita a un’ampia coalizione.
«Di questa “ampia coalizione” noi laburisti non faremo certamente parte. È una questione di programma, di visione, che dalla politica economica e sociale ai temi della pace, non è conciliabile con quanto detto e soprattutto fatto, o non fatto, dal governo Netanyahu-Lieberman. Continuo a ritenere che la coerenza, nella vita personale come in quella politica, resti una virtù. Prima del voto, avevamo proposto alle altre forze di centro e di sinistra di costruire un patto d’azione comune che indicasse una prospettiva di governo alternativa a quella della destra. Un patto per il cambiamento che intendiamo rilanciare con ancor più forza alla luce dei risultati di martedì scorso». Netanyahu sta conducendo un pressante “corteggiamento” dell’inaspettata sorpresa di questa tornata elettorale: Yair Lapid, fondatore di Yesh Atid che con i suoi 19 seggi è oggi la seconda forza politica d’Israele. «Netanyahu sta promettendo poltrone e posti di potere, attività di cui è indubbiamente un consumato maestro, ma quanto al programma mi pare difficile che possa accettare uno dei punti su cui Lapid ha più insistito nella sua campagna elettorale: togliere l’esenzione alla leva per gli “haredim” (i giovani ortodossi, ndr). Se lo farà, perderà il sostegno dei partiti religiosi che, fino a prova contraria, Netanyahu intende continuare a imbarcare nel governo, così come intende fare con il partito dei coloni più oltranzisti, quello guidato da Naftali Bennett. Mi lasci aggiungere che Lapid ha ottenuto un lusinghiero risultato anche perché ha interagito con il malessere e la denuncia che hanno portato nei mesi passati migliaia di cittadini israeliani a riempire le piazze di ogni città d’Israele. Lapid ha promesso una svolta che freni l’impoverimento della classe media e dia risposte al bisogno di certezze per il futuro dei giovani. Mi pare difficile che possa realizzare tutto questo partecipando ad un governo con coloro che sono stati gli artefici del disastro sociale».
Lei parla di alternativa a Netanyahu. Ma un’alternativa vera, può mettere tra parentesi il tema della pace con i palestinesi? Un tema che è stato rimosso dalla campagna elettorale, anche in quella del suo partito. E c’è chi le imputa questo.
«Rivendico la scelta di aver posto al centro della nostra campagna elettorale, e della nostra azione politica, l’emergenza sociale. Lo rivendico perché sono fermamente convinta che la difesa dei più deboli, delle donne, a partire dalle madri single, degli anziani che rischiano di perdere la casa, dei giovani condannati al precariato a vita, sia nel dna di una forza progressista. Lo rivendico perché si deve ai pionieri del sionismo, al Partito laburista se in Israele si è realizzato un sistema di protezione sociale tra i più avanzati al mondo. Sottolineare tutto ciò, non vuol dire cancellare la storia e dimenticare la lezione di Yitzhak Rabin. Noi siamo per il dialogo con l’Anp di Abu Mazen, in sintonia con quanto riaffermato in questi giorni dal Capo dello Stato, Shimon Peres, e per una pace nella sicurezza; una pace fondata sul principio “due popoli, due Stati”, i cui confini dovranno scaturire da un negoziato diretto che tenga conto di una realtà che non è più quella di 45 anni fa. In questo siamo sulla stessa lunghezza d’onda del presidente Barack Obama e dell’Unione Europea».
In definitiva, cosa teme più per l’immediato futuro?
«L’immobilismo camuffato da “grande coalizione”. Perché questa, al di là dei roboanti proclami e delle promesse destinate a restare tali, sarebbe la cifra politica di un nuovo-vecchio governo guidato da Benjamin Netanyahu. Israele ha bisogno di una vera svolta e non sarà la destra a garantirla».

La Stampa 27.1.13
La rivoluzione di Obama II comincerà dagli immigrati
Vicino all’accordo bipartisan per regolarizzare 11 milioni di clandestini
di Paolo Mastrolilli


La riforma dell’immigrazione negli Stati Uniti è a un passo, se è vera l’indiscrezione secondo cui un gruppo di senatori ha trovato l’intesa sui principi generali, dopo settimane di negoziati segreti. Martedì il presidente Obama sarà in Nevada per rilanciare il tema, e entro la fine della settimana potrebbe arrivare l’annuncio del compromesso, che rappresenterebbe un risultato storico per il suo secondo mandato.
Secondo il «Washington Post» tre senatori democratici, Richard Durbin dell’Illinois, Charles Schumer di New York e Robert Menendez del New Jersey, stanno discutendo da tempo con tre autorevoli colleghi repubblicani, Lindsey Graham della South Carolina,
John McCain dell’Arizona e Marco Rubio della Florida. Con loro hanno lavorato a tratti anche Jeff Flake dell’Arizona e Michael Bennet del Colorado. L’accordo su cui stanno convergendo si basa su tre punti fondamentali: normalizzazione dello status per gli undici milioni di immigrati illegali presenti negli Stati Uniti, che lavorano onestamente e non hanno mai commesso reati; controlli più severi ai confini; strumenti migliori offerti ai datori di lavoro per verificare la provenienza e i documenti dei loro assunti. La possibile legge non è stata ancora definita nei dettagli, ma se l’intesa venisse confermata potrebbe essere scritta e votata entro l’estate. A quel punto, un passaggio bipartisan con una forte maggioranza al Senato, dove i democratici sono in vantaggio, costringerebbe anche la Camera dominata dai repubblicani a considerare il testo con disponibilità.
Le questioni chiave ancora aperte sono due: quale meccanismo usare per aprire la strada della cittadinanza agli illegali, e quante leggi votare per concretizzare la riforma. Sul primo punto Rubio, che come senatore di origini cubane della Florida e possibile candidato presidenziale nel 2016 ha le chiavi del compromesso, chiede che gli immigrati già presenti negli Usa possano avere un permesso di lavoro, ma poi facciamo domanda per il passaporto mettendosi in fila come gli altri che hanno seguito le regole. Sul secondo, Schumer insiste che la riforma va concentrata tutta in una legge unica, perché se si divide in più provvedimenti non arriverà mai in porto.
Il negoziato dunque non è finito, ma la ragione che suggerisce un cauto ottimismo è il risultato delle presidenziali di novembre. Obama ha ottenuto il 70% del voto ispanico, e su questa spinta i democratici stanno puntando persino a ritornare maggioranza in Texas. I repubblicani così rischiano l’estinzione, o comunque di consegnare la Casa Bianca ai loro avversari per almeno una generazione. I membri più moderati del Gop lo hanno capito, e stanno cercando di riavvicinarsi al voto ispanico collaborando con la riforma dell’immigrazione. Il fatto che Rubio, giovane leone vicino al Tea Party, sia entrato nel gruppo impegnato nella trattativa, significa che anche il resto del partito si sta convincendo della necessità di cambiare strategia.
Obama, infatti, prosegue per la sua strada. Venerdì ha incontrato i parlamentari ispanici e martedì sarà a Las Vegas, per tenere un discorso in cui lancerà la campagna pubblica per la riforma dell’immigrazione. Forse le leggi sulle armi, il riscaldamento globale o la riduzione del debito sono più difficili da negoziare con i repubblicani alla Camera, ma la questione degli illegali è più risolvibile perché il Gop ha un interesse diretto ad uscire dall’angolo. Il Presidente naturalmente rivendicherebbe il successo storico di aver riformato l’immigrazione, solidificando il consenso ispanico per il partito democratico, ma anche i repubblicani potrebbero voltare pagina e cercare di recuperare voti. L’alternativa sarebbe quella di essere additati come i sabotatori dell’intesa, pagando poi il prezzo alle elezioni midterm del 2014.

Corriere 27.1.13
Il potere di padre Tikhon misterioso confessore di Putin
Molto ascoltato, per i critici è il nuovo Rasputin
di Fabrizio Dragosei


MOSCA — Ufficialmente non ha alcun incarico nel governo, nello Stato o nell'amministrazione del presidente. Eppure padre Tikhon appare sempre più spesso al fianco di Vladimir Putin. Nei viaggi all'estero, nelle inaugurazioni. Ma la cosa più importante, secondo i suoi critici, è che il modesto abate avrebbe avuto ultimamente un peso determinante nell'indirizzare la politica del presidente russo giunto al terzo mandato. Anche nelle questioni riguardanti i rapporti tra lo Stato e la Chiesa, compresa la decisione di far rinviare a giudizio le tre protestatarie punk del gruppo Pussy Riot processate e condannate per l'esibizione all'interno della chiesa di Cristo Salvatore.
Ufficialmente nessuno conferma che il presidente russo abbia un consigliere spirituale né tantomeno un confessore. E lo stesso padre Tikhon intervistato dal Financial Times ha sorvolato sull'argomento. Ma è certo che Putin sia credente e che prenda molto seriamente le questioni di religione.
Anzi, per dire la verità, sembra che il peso delle gerarchie ecclesiastiche sia assai rilevante all'interno di tutte le strutture del potere statale. Tanto che unendo la provenienza dai servizi segreti di molti degli uomini di Putin con il loro impegno religioso alcuni parlano di un gruppo di «cekisti-ortodossi». La Ceka era l'organizzazione per la sicurezza dello Stato che poi negli anni ha cambiato vari nomi, diventando Kgb e quindi Fsb.
Sembra quasi una coincidenza curiosa il fatto che padre Tikhon sia l'archimandrita del monastero Sretenskij, situato sulla via Lubyanka, a non più di settecento metri dalla storica sede dei servizi segreti che si trova nell'omonima piazza. Il sacerdote, che ha 54 anni, non ha quasi certamente avuto in passato alcun rapporto con il Kgb, mentre la maggior parte degli esponenti storici della Chiesa ortodossa dovettero fare i conti con le strutture della sicurezza e spesso venire a patti. Secondo alcuni accusatori, tra i quali l'ex dissidente padre Gleb Yakunin che nel 1990 ebbe accesso agli archivi della Lubyanka (e poi fu cacciato dalla Chiesa), gli ultimi due patriarchi russi sarebbero stati agenti o perlomeno informatori del Kgb.
Negli anni di Eltsin la Chiesa poté uscire allo scoperto; riebbe tutte le sue proprietà e fu in grado di fare parecchi quattrini con l'importazione in esenzione doganale di alcol e sigarette. Ora tutto questo è cambiato e il Patriarcato ha solo strutture economiche presentabili, come imprese di costruzioni, aziende agricole, pesca, petrolio.
Ma ha visto aumentare enormemente il suo peso politico, anche grazie all'influenza di padre Tikhon Shevkunov. Ma quali sono le sue idee? Su questo punto i suoi critici insistono particolarmente, vista la vicinanza con l'uomo che detiene tutto il potere in Russia.
Nel 2008 l'archimandrita realizzò un programma trasmesso varie volte in tv sulla caduta dell'impero romano d'Oriente. E per molti Mosca va vista come la terza culla della cristianità, dopo Roma e Bisanzio.
Padre Tikhon parlava assai bene nel suo programma dell'imperatore Basilio II, descrivendolo come colui che aveva ristabilito la «verticalità del potere», scacciando oligarchi e governatori ribelli (il richiamo a Putin è evidente). Per padre Tikhon, «l'odio vendicativo dell'Occidente nei confronti di Bisanzio e dei suoi eredi... continua tuttora. Senza capire questo stupefacente ma indubbio fatto — aggiungeva — rischiamo di non capire molte cose della storia». Interessante anche la sua opinione espressa anni fa (quando Putin non rinnovò l'invito a Giovanni Paolo II) su una eventuale visita del Papa in Russia: «Se per il Vaticano ciò rappresenterebbe l'appagamento di un sogno plurisecolare, per la Russia significherebbe la caduta di uno degli ultimi bastioni dell'indipendenza spirituale dello Stato e una nuova fase di sfacelo del Paese».

Corriere 27.1.13
Praga va a sinistra: vince Zeman


PRAGA — Praga più vicina all'Europa. Gli abitanti della Repubblica Ceca hanno scelto come nuovo presidente l'eurofederalista Milos Zeman, veterano della politica e primo premier della sinistra dal 1998 al 2002. Zeman ha sconfitto al ballottaggio con il 54,8% dei voti l'aristocratico conservatore Karel Schwarzenberg, anch'egli europeista e attuale ministro degli Esteri, che ha invece raccolto il 45,2% dei consensi.

Corriere 27.1.13
A lezione dalla storia per imparare chi siamo
Si rilegge il passato in base ai problemi attuali
di Giuseppe Galasso


Non bisogna andare lontano per avvicinarsi alla storia. «La storia siamo noi» dice una famosa canzone di Francesco De Gregori; ed è un'affermazione ineccepibile. Noi: noi uomini, cioè, nel mondo in cui viviamo, e che non sappiamo quale futuro avrà, ma ben sappiamo che ha avuto, come ciascuno di noi, un passato, una storia. Ed è, per l'appunto, quando, per ricordare o per una qualsiasi necessità, ci volgiamo al passato, che ci chiediamo: «Che cos'è mai la storia?».
Domanda antichissima, ma di quelle che perpetuamente si pongono e si ripropongono. Per il grande storico tedesco Leopold von Ranke, la storia consiste nel cercare che cosa realmente (realmente è qui la parola più importante; wirklich in tedesco) sia accaduto nel passato, come, cioè, siano veramente andate le cose nel passato. Una definizione semplice solo in apparenza. Essa implica, infatti, in primo luogo, che il passato è diverso da noi, ha una sua alterità rispetto a noi; e, in secondo luogo, che noi al passato possiamo accedere, che lo possiamo conoscere e riconoscere come passato, ossia in quella sua oggettiva alterità dovuta al fatto che, appunto perché passato, esso è diventato immutabile.
Ma, essendo così il passato, qual è poi la ragione per cui lo vogliamo o dobbiamo conoscere? Perché ci interessa il passato?
La verità è che noi abbiamo un bisogno di storia, che non nasce nel corso della nostra vita, nasce insieme con noi. In nessun momento possiamo, infatti, essere noi stessi sia come singoli, come individui sia come collettività o comunità, se non abbiamo una visione storica di noi stessi. Se non abbiamo, cioè, un'idea di ciò che eravamo nelle varie fasi della nostra vita e di ciò che ci ha fatto diventare quel che siamo oggi. Nessuna identità può, in effetti, sussistere senza un tale retroterra di memoria e di coscienza. Né si tratta di un retroterra fissato una volta per sempre. In ogni momento della nostra vita noi lo ricordiamo e lo raccontiamo in modo nuovo, e magari anche molto diverso da ieri. Certo, anche perché atteggiamo il nostro passato in modo che convenga al nostro presente, ma allo stesso tempo perché in quel passato diventiamo sempre più capaci di leggere meglio e più a fondo.
Ecco, dunque, perché ci interessa il passato e perché ci interessiamo ad esso. Sono i problemi e i bisogni del presente a spingerci verso di esso. È il nostro perenne, inesauribile bisogno di autocoscienza e di identità, è la nostra continua ricerca di noi stessi a spingerci a riformulare e a riatteggiare il nostro senso e la nostra immagine del nostro passato, spesso con mutamenti radicali rispetto alle immagini che ne avevamo prima. Perciò a ogni stagione della vita ci diamo idee e immagini differenti del nostro essere di ieri e dell'altro ieri. Sono le necessità e le spinte del presente a portarci a queste continue riletture del nostro passato. E questo è vero (occorre ripeterlo) sia per gli individui, dal meno provveduto di un suo patrimonio intellettuale e culturale al più geniale e multiforme, sia per qualsiasi gruppo umano, dal più piccolo e più primitivo al più grande, complesso e avanzato. Ed è, dunque, per questo che la storia viene scritta e riscritta a ogni generazione, e secondo le vedute e le necessità dei vari, innumerevoli grandi e piccoli gruppi umani compresenti sulla scena del mondo.
Un perenne fare e rifare che, però, non è affatto, come si potrebbe credere, un perenne disfare. Il passato è il passato. La sua alterità e immutabilità sono sempre fuori discussione. Se noi lo alteriamo per nostro piacere o per nostro interesse, prima o poi questa alterazione si ritorce contro di noi e ci costringe a un più serio ripensamento. E questo perché il passato lo possiamo far rivivere solo se ne abbiamo qualche documento. Come in una famosa réclame, la regola è: no documents, no history.
È come nella nostra vita privata. Il tempo rende sfocati, incompleti, inesatti i nostri ricordi, ma se abbiamo qualcosa alla mano (lettere, fotografie, filmini, oggetti, giochi e giocattoli, carte di identità o altri documenti, atti notarili, qualche mobile o qualche attrezzo, le pagelle della scuola, vecchi indumenti e qualsiasi altra cosa superstite del nostro passato) il nostro ricordo ne sarà ravvivato e sul nostro passato non ci potremo raccontare troppe favole. Che è quel che, per l'appunto, accade anche a livello collettivo e che costituisce il mestiere dello storico. Un mestiere che produceva in origine miti e leggende a cura di sacerdoti e altre simili figure sociali, ma diventato già presso i Greci e i Romani e, poi, soprattutto nell'Europa moderna, una «scienza», con suoi statuti e metodi, con criteri rigidamente documentari e con una capacità sempre più ampia di studio del passato, secondo moduli sempre più complessi, dalla semplice biografia alla «storia universale», ossia a una storicizzazione complessiva delle vicende di tutta l'umanità.
È, dunque, la visione storica del nostro essere, di quello che siamo in quanto continuatori di quel che siamo stati, come singoli e come comunità o collettività, a consentirci di riconoscerci come tali, ossia ad assicurarci della nostra identità.
Nel corso del tempo, a volte, la soddisfazione comunitaria di questa esigenza ineludibile è più forte della sua dimensione e soddisfazione individuale; e nelle comunità vi è un fortissimo senso storico della propria identità. In questi casi la soddisfazione comunitaria di quel bisogno assorbe e risolve in sé, più o meno largamente, anche la sua soddisfazione a livello individuale. Ci si riconosce come individui in quanto membri della comunità e partecipi della sua identità. In altri casi, invece, da un lato, le comunità avvertono il bisogno storiografico in maniera attutita, mentre, dall'altro lato, il senso dell'individuo e dell'individualità si presenta molto più forte. In tali casi l'esigenza individuale di soddisfare il bisogno di storia prevale nettamente; il senso e la coscienza individuale non si sentono e non si ritengono più assorbiti e soddisfatti appieno dalla pratica storiografica comunitaria, collettiva.
Oggi vi sono condizioni nuove di questa connotazione sociale e individuale della storiografia; e ciò perché nella civiltà moderna uno dei fili rossi più importanti appare il potenziamento simultaneo sia del piano e delle esigenze sociali, collettive, comunitarie sia della presenza e della forza dell'individuo e del conto che se ne fa. E questo significa che, permanendo sempre il bisogno di storia con le sue esigenze di pensiero e di immagine, vi è pure l'esigenza di soddisfarlo in relazione alle circostanze per cui, a livello sia individuale sia collettivo e sociale, la domanda di storia si è tanto moltiplicata.
Una domanda nella quale non si è mai spenta l'antica aspettativa che la storia ci dica il nostro da fare di oggi, che sia, come si diceva un tempo, maestra della vita. Ciò che è stato ci dovrebbe dire ciò che sarà. Ma non è così. Il passato illumina il presente, ma non lo determina, diceva Hannah Arendt. Il presente lo facciamo noi, con le nostre azioni, idee, volontà, passioni, interessi. Il passato ci condiziona, ma non ci costringe. Se fosse altrimenti, in tanto tempo, da Adamo ed Eva in poi, avremmo appreso molto bene a dedurre il futuro dal passato. Anche i genitori ammoniscono i figli in base alla propria esperienza e i figli riluttano ai loro ammaestramenti, e hanno ragione. Il presente dei figli non è quello dei genitori, e nessuno rinuncia al diritto di formarselo a propria misura.
Perciò, la storia ci dice da dove veniamo e dove ci troviamo e di questo non possiamo fare a meno. Ma dove andare da oggi in poi lo decidiamo noi, ora. E, insomma, né i padri possono rifiutare la responsabilità di aver condizionato in un certo modo i loro figli né i figli possono giustificarsi di quel che fanno con le responsabilità dei genitori. La storia, a ben pensarci, è una scuola inesorabile che impone a tutti, senza eccezioni, esami senza fine; è una palestra di esercizi e di gare senza pause di riposo o di minore impegno.

Corriere 27.1.13
La Grecia e Roma il periodo medievale l'egemonia europea


Esce domani in edicola con il «Corriere della Sera», in vendita al prezzo di un euro più il costo del quotidiano, il volume La preistoria e gli antichi imperi. Dalle origini dell'uomo ai popoli mesopotamici (qui sopra, a sinistra, la copertina). Si tratta della prima uscita della nuova collana del «Corriere», intitolata La Storia, nella quale gli eventi della vicenda umana vengono ripercorsi dalle epoche più remote ai nostri giorni
La serie comprende in tutto 32 volumi, che saranno in edicola con il «Corriere» ogni lunedì, fino al 2 settembre. Dalla seconda uscita in poi, il prezzo sarà di 7,90 più il costo del quotidiano Il secondo volume s'intitola L'Egitto e il Vicino Oriente. Le antiche civiltà di  Asia, Africa e Americhe (qui sopra, a destra, la copertina) ed esce lunedì 4 febbraio. Seguiranno L'antica Grecia (11 febbraio), L'ellenismo e Alessandro Magno (18 febbraio), Roma arcaica e repubblicana (25 febbraio)
Grande attenzione è rivolta alle vicende da cui trae origine immediata il mondo attuale, con i volumi dedicati al Risorgimento e alla società industriale, all'età dell'imperialismo e alle due guerre mondiali, ai regimi totalitari, fino alla guerra fredda e alla decolonizzazione, per giungere alle questioni più attuali e scottanti, come la crisi finanziaria globale, l'aggravarsi dei problemi ambientali, l'insorgere della minaccia terroristica in forme sempre più pericolose
L'opera, ricca di illustrazioni e di cartine, non si limita a ricostruire gli eventi, ma si sofferma sull'evoluzione della società e dell'economia, sui grandi movimenti religiosi e filosofici, sulle scoperte scientifiche, sulle trasformazioni della cultura e del costume, in modo da fornire una panoramica completa
Il trentesimo volume comprende l'indice dei nomi e una vasta bibliografia. Il trentunesimo e il trentaduesimo offrono al lettore una cronologia universale di agevole consultazione

Corriere Salute 27.1.13
Psichiatria. Un saggio esplora e ripercorre l’accostamento fra originalità artistica e disagio psichico
Quel sottile confine fra la creatività e la follia
di Marco Rossari


«In primo luogo è pacifico che tutte le passioni rientrino nella sfera della follia». Probabilmente, aveva in testa queste parole di Erasmo da Rotterdam quell'insegnante di Innsbruck che, qualche tempo fa, ha deciso di tenere lezioni regolari su un tema tanto delicato agli studenti delle scuole secondarie. L'obiettivo era avvicinarli a un discorso respinto di continuo ai margini della società e della vita civile. Ed è senz'altro sulla falsariga di questo esempio che Eugenio Borgna — psichiatra, vincitore del Premio Bagutta nel 2005 con «L'attesa e la speranza» — ha tenuto un seminario in un liceo di Novara per riprendere il filo di quel ragionamento intorno alle zone grigie tra malattia e creatività, tra norma e follia. Anche per ribadire che la nostra vita, stando al verso di Georg Trakl che regala il titolo al libro, tratto da quelle lezioni (si veda il box a lato), risuona di armonia e di follia, oscillando a volte impercettibilmente tra questi due poli.
Ma forse i presupposti risalgono a un momento ancora precedente. «Vedo come danzano le stelle d'oro, / ancora è notte, ancora è il caos come mai ancora». Sono due versi scritti da Ellen West, una paziente di Ludwig Binswanger, massimo esponente della psichiatria fenomenologica (una branca che, per semplificare, interpreta la malattia mentale come uno dei modi possibili di porsi dell'essere umano). Il celebre psicologo riportò i conati poetici di questa giovane donna in un saggio sulla sua degenza in clinica psichiatrica per alcune turbe legate all'anoressia, e sulla successiva dimissione, culminata in un tragico suicidio. In quel dialogo tra psicosi e poesia, Binswanger si sforzava di rinvenire ed evidenziare il confine in cui l'una trapassasse nell'altra e viceversa.
Partendo da questo illustre presupposto, Eugenio Borgna ha continuato a esplorare nella propria opera la «sorella sfortunata della poesia», e cioè il territorio della malattia mentale, in un modo nuovo. Non l'ha fatto da un punto di vista clinico, ma appunto fenomenologico, per cercare nel buio della mente una testimonianza sui tanti orizzonti e sulle innumerevoli gradazioni presenti nel dolore, nella malinconia e nella colpa, tanto negli artisti quanto nell'uomo comune. Qual è la realtà della follia? Qual è la sua immagine? E le opere del pensiero, come già suggeriva Franco Basaglia, non possono aiutare a decifrare le spirali, tuttora misteriose, della schizofrenia, della depressione e della psicosi? Da qui parte un lungo percorso che si snoda attraverso le malinconie presaghe della poetessa suicida Antonia Pozzi («Quando dal mio buio traboccherai / di schianto / in una cascata / di sangue / navigherò con una rossa vela / per orridi silenzi / ai crateri / della luce promessa»), l'abissale misticismo di Teresa di Lisieux («O Gesù! (…) Lasciami dirti che il tuo amore arriva fino alla follia…»), la malinconia creatrice di Søren Kierkegaard e lo straziante carteggio tra i poeti Nelly Sachs e Paul Celan (vedi box), in un tentativo, davvero disperato, di chiedere aiuto a poesia e filosofia per decifrare i fenomeni della vita psichica. È possibile intravedere nei deliri di Septimus, il soldato sconvolto dalla guerra nel romanzo «La Signora Dalloway» l'ombra della fine che avrebbe fatto l'autrice Virginia Woolf? Possiamo intuire qualcosa del peso che sovrasta l'anima del depresso in un quadro di Arnold Böcklin? Borgna procede come un Pollicino impavido, ogni volta smarrito in un bosco terrificante, e raccoglie uno dopo l'altro le tracce tormentate di chi è passato di lì, disseminando la propria opera di segnali e richieste d'aiuto, citazioni e squarci tragici. Quindi raffronta questi estratti con gli sfoghi espliciti, quasi urlati, dei suoi pazienti (Claudia, Elena, Raffaele: persone comuni), affetti dalle stesse malattie, con il risultato di farci leggere l'alienazione con gli occhi dell'arte e la poesia con gli occhi della malattia. «Dilatare l'area della normalità nella follia e della follia nella normalità», ci dice Borgna, deve essere la prassi di qualsiasi psichiatra, per capire che in ogni esperienza psicotica vivono zone di non-follia e, per usare due parole care a Simone Weil, che in ogni ombra c'è un pò di grazia. Così le parole furibonde di Friedrich Nietzsche possono riecheggiare in quelle di un uomo precipitato nell'abisso della depressione, nel tentativo di riallacciare un dialogo necessario tra medico e paziente, tra vita e non-vita, in cui davvero, per rubare le parole usate da Cristina Campo in riferimento a Virginia Woolf, ogni artista, e prima ancora ogni essere umano, sembra solo nella propria esistenza come il ragno «unicamente sostenuto e insieme prigioniero del tessuto che ordisce (…) questa trama senza sosta riprodotta dalla creatura che vi corre sopra, attenta alla minima smagliatura, allo strappo più lieve: perché realmente la trama è seduta sopra un abisso, realmente un piede in fallo può significare la fine».
Ecco che allora le affinità potranno emergere tra le esperienze più disparate e disperate, in un continuo e lacerante gioco di echi, dove l'obiettivo è sempre quello di riaffermare la dignità negletta del l'infermo. Se dal 1978, anno della legge Basaglia che chiuse i manicomi e regolamentò il trattamento sanitario obbligatorio, il malato non è più condannato alla reclusione, ciononostante continua a venire discriminato, come una colpa o un presagio infausto, nella vita quotidiana delle famiglie e della società civile. Non solo, emarginato nel l'idea generale che abbiamo di lui. Incompreso e impenetrabile, il paziente finisce in un vuoto che non ha eguali. E forse accostare la voce di un classico a quella di uno sconosciuto qualsiasi può aiutare a capire. Lo dimostrano questi due brani. «Perché mai è così tragica la vita; così simile a una striscia di marciapiede che costeggia un abisso. Guardo giù; ho le vertigini; mi chiedo come farò ad arrivare alla fine. Ma perché mi sento così: ora che lo dico non lo sento più. Il fuoco arde; stiamo andando a sentire l'Opera del mendicante. Eppure è intorno a me; non riesco a chiudere gli occhi. È una sensazione di impotenza; di non fare nessun effetto». E poi: «Non voglio guarire, sì voglio guarire, ma non guarisco. (…) È una disperazione, è un caos. Mi faccia morire. Faccio diventare matti tutti. Non mi faccia più soffrire, sia bravo. Vorrei fare una cosa, e poi riprendere quella sofferenza. Mi faccia dormire, tanti giorni». Il primo è tratto dai diari di Virginia Woolf. Il secondo dalle sedute di una paziente anonima. Nel libro prende il nome semplice e bello di Anna.

Corriere 27.1.13
Le lettere di Paul e Nelly


Uno dei casi più toccanti raccontati da Eugenio Borgna è quello di Nelly Sachs e Paul Celan, due grandi poeti in lingua tedesca. Entrambi ebrei, entrambi sopravvissuti alla Shoah con terribili cicatrici, dopo avere perso nei lager alcuni loro cari, ed entrambi ricoverati in cliniche psichiatriche in diversi momenti della loro vita, hanno lasciato un epistolario che va dalla primavera del 1954 alla fine del 1969 e che racconta la storia di due animi umanissimi e tormentati. Alla fine della Seconda guerra mondiale, Nelly Sachs — poi premio Nobel nel 1966 — si rifugia in Svezia, dove comincia a manifestare esperienze psicopatologiche. Il tracollo, testimoniato da una lettera, avviene nel '60: «Una lega di spiritisti nazisti mi perseguita in modo così orribilmente raffinato con il radiotelefono, sanno tutto, ovunque io metta piede». Le lettere spedite a Celan mostrano l'insorgere della malattia e il grido d'aiuto che cercava di inviare a un uomo, a un poeta, nel quale intravedeva i segni comuni di una condizione psicotica.

Corriere La Lettura 27.1.13
Aiuto, il mio bambino è un filosofo
di Chiara Lalli


«Perché devo obbedire?». «Dov'ero prima di nascere?». «Perché le persone soffrono?»
A volte i quesiti posti dai più piccoli sollevano problemi di enorme rilievo intellettuale
«Perché devo fare quello che mi dici tu?», «perché tu sei la mia mamma?», «perché piove?», «dov'ero prima di nascere?». Chiunque abbia un figlio o abbia familiarità con i bambini conosce bene queste domande e tante altre simili. Sa anche quanto i più piccoli possano essere implacabili nel pretendere risposte convincenti e non approssimative, e quanto siano propensi a rilanciare un nuovo «perché?» alla nostra risposta.
Di recente due filosofi hanno inaugurato un forum, «Help! My child is a philosopher» (http://www.mychildisaphilosopher.com/index.htm), destinato a genitori, nonni e insegnanti interessati a coltivare l'animo filosofico e le capacità analitiche dei bambini. Katarzyna de Lazari-Radek insegna etica e filosofia all'università polacca di Lodz e ha due figli. Peter Singer insegna bioetica a Princeton, ha tre figlie e tre nipoti. Insieme hanno dato vita a questo spazio virtuale filosofico, con lo scopo di scambiare racconti e di imparare dalle esperienze altrui, di confrontare i dilemmi sollevati dai più piccoli e, soprattutto, di incentivare la loro sterminata curiosità.
Ascoltare le domande dei bambini ci rivela la straordinarietà delle loro menti: quante volte ci siamo sorpresi e domandati da dove venissero quesiti tanto complessi? Spesso ci rivela anche la nostra inadeguatezza. Un po' perché siamo pigramente abituati a dare molte cose per scontate, un po' perché alcune domande sono così complicate da costituire rompicapi. E chissà, magari qualche volta abbiamo la tentazione di pensare «non capirebbero» per giustificare la ritrosia nel rispondere, mentre cerchiamo solo di dissimulare la nostra inettitudine.
«Che cosa è questo? Perché non funziona più?» e tanti altri interrogativi pongono agli adulti sfide a volte impossibili.
Alcune di queste domande riguardano il piano fattuale, ci interrogano cioè su come è fatto il mondo. Altre hanno una natura diversa, e molto più complicata: ci chiedono di sciogliere dilemmi morali o esistenziali. In altre parole, sono vere e proprie domande filosofiche.
Già le prime possono essere difficili, ma (come ci suggeriscono de Lazari-Radek e Singer) possiamo ricorrere a Wikipedia o a strumenti analoghi per sapere come si formano le nubi, come agiscono l'energia termica e quella cinetica, e cosa c'entrano le correnti ascensionali con le pozzanghere lungo le strade.
Le seconde invece possono lasciarci ammutoliti. Come facciamo a spiegare la differenza tra giusto o sbagliato, o come ce la caviamo davanti a domande sulle guerre, la povertà, il dolore o la nostra identità? Sono secoli che questo tipo di problemi vengono formulati e sono secoli che rimangono senza una risposta unica. Le possibili risposte dipendono da molti fattori e può accadere che rimangano sospese in un limbo. Non sarebbe facile discutere nemmeno con altri adulti di certi argomenti, e potremmo pensare che provarci con un bambino è proprio impossibile. Se però non ci scoraggiamo e tentiamo di farlo, potremmo scoprire che ripensare e decostruire convinzioni e risposte calcificate negli anni potrebbe essere un esercizio affascinante e utile. Certo, non avremmo la garanzia di trovare le soluzioni, ma potremmo riuscire a formulare meglio le domande e a diradare un po' di nebbia.
È buffo perché spesso le domande dei bambini sono una versione semplificata di questioni che hanno ossessionato grandi filosofi. De Lazari-Radek, per esempio, nella sezione «Our stories» riporta una versione fanciullesca della teodicea. Uno dei suoi figli, Jan, a 3 anni e mezzo viene a sapere che l'amato cane dei nonni è morto. Si rende conto che la nonna è molto addolorata e domanda alla madre: «Mamma, perché Dio, che dovrebbe essere buono e caritatevole, ha permesso che accadesse questo? Perché ci lascia soffrire?». Come rispondergli? È ovvio che la risposta dipenderà dalle nostre credenze e che dobbiamo essere in grado di analizzarle e presentarle.
Il forum è uno spazio aperto, non solo perché i due padroni di casa invitano a condividere storie e racconti, ma anche perché chiariscono che non ambiscono ad avere alcuna speciale conoscenza filosofica sul come interagire con i piccoli filosofi. «Possiamo imparare ciascuno dagli altri. E soprattutto, possiamo imparare dai nostri bambini».

Corriere La Lettura 27.1.13
Giorgio Colli è in Rete (con Socrate)
Il pensatore che ha curato le opere di Nietzsche diffidava della parola scritta Invitava gli allievi a dialogare tra loro e con i grandi del passato. Ora rivive grazie a un sito
di Edoardo Camurri

«Prima regola di saggezza della vita: non farsi prendere dalla rabbia di fronte alla stupidità e alla debolezza degli uomini. Ciò reca grave danno» scriveva Giorgio Colli ne La ragione errabonda. Quaderni postumi, un testo a cura del figlio Enrico uscito per Adelphi nel 1982. Giorgio Colli è stato uno dei più grandi filosofi del Novecento, ma (consentitemi una certa brutalità) la stupidità e la debolezza degli uomini non hanno ancora permesso di riconoscerlo fino in fondo come tale. Colli giganteggia davanti a Heidegger, potrebbe dare del tu a Nietzsche e può concedersi il sovrano disprezzo (ma senza rabbia, anzi con sprezzatura) nei confronti di una contemporaneità ridotta spesso a essere luogo d'appuntamento delle menti ordinarie. Giorgio Colli, come ricordava il suo allievo e collaboratore Mazzino Montinari, è il filosofo meno convegnabile che ci sia. Ora, se le cose stanno così, potrebbe sorprendere che l'interesse per Giorgio Colli stia riemergendo; e non in Cina (dove ormai è diventata una moda giornalistica andare a caccia della fortuna postuma di alcuni grandi pensatori, per esempio Tocqueville e Leo Strauss) o negli Usa (dove serve sempre un nuovo strumentista per suonare la grancassa dell'Italian Theory) ma sul web, grazie a un sito rinato qualche mese fa e che, poco per volta, ma con un ritmo abbastanza impressionante, sta mettendo online gran parte dei materiali presenti nell'Archivio Colli di Firenze: giorgiocolli.it.
L'iniziativa è paradossale e affascinante insieme. Ne parliamo con Alberto Banfi, quarantaquattro anni, bibliotecario per ragazzi a Seregno, che da anni ha iniziato a lavorare insieme a Enrico Colli (morto il 30 luglio del 2011) proprio a questo progetto. «Grazie al web — dice — è possibile raccogliere quell'interesse per Colli che altrimenti è difficile catalizzare attraverso le scuole, le istituzioni, i giornali e i media tradizionali; parliamo di un filosofo che ha trovato pochissimo spazio nell'università e nella critica». A complicare le cose, e a renderle perciò ancora più interessanti, è il fatto che Giorgio Colli ha scritto pochissimo, preferendo un lavoro diretto con gli amici e con i collaboratori: «Colli aveva capito che l'unico modo per fare cultura, in quel periodo, era il lavoro editoriale» spiega Banfi spingendo ancora più in là un paradosso che si può riassumere così: rivive sul web un grande filosofo inattuale la cui unica concessione culturale alla contemporaneità erano le grandi fatiche editoriali (per dirne una: Colli curò per l'Adelphi appena fondata da Luciano Foà, Roberto Bazlen e Roberto Calasso l'edizione critica dell'opera completa di Friedrich Nietzsche; e sul sito è possibile leggere una parte dell'affascinante corrispondenza con Luciano Foà a proposito di questo incredibile progetto editoriale nato alla fine degli anni Cinquanta). Viene in mente un passo che si legge nel suo Dopo Nietzsche (Adelphi) e che può essere applicato a lui stesso: «Nietzsche — scrive Colli — attacca Socrate come se fosse vivo, come se lo vedesse dinanzi a sé. Questo è il grande fascino della sua inattualità. Essere fuori del tempo ma avvicinare il passato, trattare l'assente come presente». Il web, chi lo studia lo ripete spesso, è capace infatti di trattare l'assente come presente, in una sospensione del tempo che sembra poco per volta erodere il pregiudizio collettivo nei confronti della storia e del progresso. Considerazioni abbastanza conturbanti anche se, lo ammetto, arrivano dopo l'entusiasmo per l'immediato, cioè per lo spettacolo che si prova davanti a tutto il materiale che si può trovare sul sito web dell'archivio Giorgio Colli. Ho trovato per esempio innamorevole la ricostruzione che Clara Valenziano, scrittrice, prima moglie di Valentino Parlato, ha fatto degli anni di Lucca quando, immediatamente dopo la guerra, Giorgio Colli insegnava filosofia in un liceo di quella città e i suoi allievi la studiavano secondo lo spirito più classico dei grandi greci: «Molto presto fu deciso, per dare basi più solide alle nostre discussioni, di organizzare la lettura di testi. L'autore più letto fu Platone. Ed è comprensibile che, quando a Lucca si seppe che leggevamo il Simposio e ci banchettavamo su, la cosa fosse considerata deplorevole: del resto era vero che quasi sempre qualcuno finiva sbronzo». Il Simposio li rese famosi. «Anzi, malfamati» precisa la Valenziano che poi aggiunge: «Fu il primo dialogo che leggemmo, l'Alcibiade, ad aiutarmi a capire quello che Colli intendeva quando diceva che dovevamo formare "una comunità di amici uniti dal vincolo della conoscenza e da una particolare qualità dell'anima". È il passo dove Socrate dice che come un occhio, se vuol guardare se stesso, deve specchiarsi nell'occhio — sede della vista — di un altro, così l'anima, se vuol conoscere se stessa, deve guardare nell'anima — sede del sapere — di un altro: deve specchiarsi, manifestarsi, esprimersi».
La rievocazione di quell'esperienza filosofica, come si dice, vale il viaggio. Come vale la pena sorprendersi leggendo sempre sul sito il diario del 1944 dove il ventisettenne Giorgio Colli confidava come buon proposito: «Preparare sin d'ora il sistema filosofico definitivo» (può fare sorridere, ma è l'unica ambizione vera dei grandi filosofi). Giorgio Colli diffidava della comunicazione scritta; si legge nella sua Filosofia dell'espressione (Adelphi): «Qualcosa di sinistro appartiene alla scrittura: chi legge si sente spinto ad abbreviare i passaggi, a saltare qualcosa, come per un'oppressione innaturale di fronte a una struttura macchinosa. La parola viva richiama direttamente l'universale, mentre di fronte allo scritto, che dovrebbe richiamarlo indirettamente, si salta lo stadio della parola o meglio si confonde in una cosa sola parola e universale». Diffido delle teorizzazioni sul web, ma è eccitante pensare che l'aristocratica diffidenza di Giorgio Colli nei confronti della scrittura in nome di una comunità di eletti e di eguali con la quale fare filosofia possa essere attraversata dalla freccia di una comunità 2.0 di appassionati di Giorgio Colli. Anche se il maestro è assente, importante è trattarlo come presente. Guardarsi negli occhi. Anche attraverso un sito web.

Corriere La Lettura 27.1.13
La democrazia nasce dall'eguaglianza ma di eguaglianza può anche morire
Biagio de Giovanni si confronta con il lato oscuro di un ideale che può indurre al conformismo e all'isolamento dei «devianti»
di Gaetano Pecola


«Ogni atto del pensiero deriva da un senso di irritazione». Così Emil Cioran. Quando poi i pensieri si distendono per quattrocento fittissime pagine e l'autore vi profonde i tesori della sua dottrina, allora si può star certi: quella contrarietà che gli ha dato l'attacco, l'ha turbato dentro e l'ha impegnato per intero. L'insoddisfazione da cui prende ala il saggio di Biagio de Giovanni, tra pochi giorni in libreria, Alle origini della democrazia di massa. I filosofi e i giuristi (Editoriale Scientifica) nasce dal contrasto, a suo dire troppo rilevato nei contorni, tra il dispotismo da un lato e la democrazia dall'altro. Quasi che il primo, rovesciando d'impeto le verità della seconda, le precipitasse nel loro esatto contrario. E invece no: il dispotismo «è un compagno che sta annidato nello stesso principio democratico», sempre quello, sempre il medesimo, che con la bella felicità della coerenza ora può sorridere al riscatto dell'umanità e ora può piegarla sotto il giogo del comando più duro. Quale, dunque, il principio che lega due conclusioni così opposte nel circuito del suo stesso sviluppo? L'interrogativo tira in gioco l'eguaglianza, che per de Giovanni coincide con la natura «dell'uomo vista nella sua più semplice immediatezza». L'uomo — aggiunge — è un «ente desiderante eguaglianza».
Forse si potrebbe dire meglio: non l'uomo in generale, ma l'uomo democratico è dominato dalla passione dell'eguaglianza. Sono talmente tanto contrastanti le aspirazioni che hanno cavalcato la scena del mondo — eguaglianza, ma anche desiderio di sicurezza, e poi cupidigia di servitù e poi e poi… — che quasi si dubita di poterle calare tutte nello stampo di una «natura umana» fissata una volta e per sempre. Comunque sia, natura o non natura, resta che la democrazia si accende d'amore per l'eguaglianza e che proprio l'eguaglianza incammina i suoi uomini per sentieri torti che a forza di curve e di serpentine possono trasportarli su terreni diversi, dove si rivelano loro orizzonti completamente differenti da quelli che essi scrutavano all'inizio. All'inizio è tutto un tumultuare di fierezza e di indipendenza: siamo eguali, ragiona il democratico, e il prossimo non è né peggiore né migliore di me; perché mai dovrei sacrificargli la mia volontà?
Questo, beninteso, finché il confronto è con i propri concittadini, uno ad uno considerati. Quando però lo stesso confronto è con l'insieme della cittadinanza, il singolo avverte di colpo la propria piccolezza e abdica d'un subito alla sua individualità. Perché questa improvvisa torsione? Ma precisamente perché egli si sente eguale agli altri (e gli altri giudica pari a sé), sicché «non trovando nulla che lo distingua, diffida di se stesso non appena si sente osteggiato… ed è prossimo a riconoscere d'aver torto non appena i più lo asseriscono» (Tocqueville). È così che lo stesso principio di eguaglianza, che al principio trasaliva di fermenti individualistici, alla fine rischia di annegare i singoli «in una magmatica totalità di eguali», che espelle da sé il diverso e l'eterodosso. Sta qui per de Giovanni, in questa mezz'ombra ambigua, la vera difficoltà della democrazia. E forse, aggiungiamo, anche il suo fascino più sottile.

Repubblica 27.1.13
Gli uccelli di Hitchcock
L’angoscia primordiale dell’imprevedibile
di Umberto Galimberti


Adifferenza di quanto comunemente si crede, Gli uccelli di Hitchcock non è un film che vuole impressionare il pubblico gettandolo in uno stato di panico. Piuttosto vuol raccontare l’angoscia più primitiva, più primordiale, da cui l’umanità non ha ancora cessato di difendersi: l’angoscia dell’imprevedibile.
Per difendersi dall’imprevedibile l’umanità ha sempre cercato una causa che consentisse di prevedere l’effetto, e quando questa causa non era reperibile in natura, la cercava in una colpa individuale o collettiva, a cui ricondurre la punizione che si abbatteva sul singolo o sulla comunità. Non a caso gli antichi Greci chiamavano la “causa” e la “colpa” con la stessa parola: aitía.
Nel film di Hitchcock non c’è una ragione per cui stormi di uccelli impazziti
si abbattano sugli abitanti di un piccolo borgo a sud di San Francisco, non c’è una colpa che giustifichi questa punizione, non c’è un rimedio che consenta di mettersi in salvo dalla comparsa improvvisa degli uccelli che, nel loro volo precipitoso e disorientato, non consentono ad alcuno di difendersi. Ecco l’angoscia primordiale, l’angoscia dell’imprevedibile, a cui gli uomini hanno cercato di porre rimedio abitando progressivamente il paesaggio della ragione, che ha tra i suoi cardini portanti il principio di causalità. Quando si conosce la causa, l’effetto è prevedibile e la sua comparsa non inquieta. Ma soprattutto, quando si conosce la causa è anche possibile trovare il rimedio e salvarsi dal pericolo.
Oggi l’umanità ha raggiunto un livello di razionalità che non ha confronto con le epoche precedenti e, grazie a questa razionalità, ha trovato rimedi a molti mali. Ma l’imprevedibile è sempre minacciosamente alle porte. E qui non penso alla Terra che improvvisamente trema causando sciagure a uomini e case, o agli tsunami che senza preavviso inondano cancellando ogni traccia del paesaggio e di chi lo abitava. Penso piuttosto a quell’imprevedibile che non dipende da un deficit di conoscenza come agli albori dell’umanità, ma da un eccesso di conoscenza che crea, con l’insieme dei suoi macchinari, un mondo a tal punto artificiale da compromettere irrimediabilmente il mondo naturale o, come oggi si dice l’ecosistema, per cui a perdere l’orientamento non sono solo gli uccelli, ma tutte le specie, compresa quella degli umani.
Forse questo è il motivo che percorre l’intero film di Hitchcock, se è vero che uno dei personaggi a un certo punto dice: «È la razza umana che rende difficile la vita sulla Terra». E questo non solo agli uomini, ma anche agli altri abitanti della Terra, di cui la cultura antropocentrica, ormai diffusa in tutto il mondo, ha smesso di prendersi cura, fino a perderne quasi la memoria. Se questo è il pericolo, si capisce perché Hitchcock, al termine del suo film, a differenza degli altri da lui diretti, non metta la parola “Fine”.

Repubblica 27.1.13
Narciso in trappola nello specchio della tecnologia
di Massimo Recalcati


Quando i confini tra noi e gli altri si irrigidiscono ci troviamo a difendere una fortezza. Vuota
In psicoanalisi conosciamo l’importanza del rapporto dell’essere umano con lo specchio. Come Lacan ci ha insegnato si tratta di una tappa cruciale dello sviluppo psichico: il bambino che ancora non conosce la sua immagine, che non ha mai visto il suo volto, incontra, grazie allo specchio, la sua identità riflessa apprendendo a costruirsi e a riconoscersi come un Io. È la virtù dialettica dello specchio a rendere possibile il riconoscimento della propria immagine attraverso l’immagine di un altro.
La pratica del tiro con l’arco nello Zen illustra in un altro modo questa stessa logica: l’autocoscienza si costituisce solo quando la freccia scagliata dal mio arco raggiunge il suo bersaglio. Ma lo specchio non è solo il luogo dove possiamo realizzare il riconoscimento positivo della nostra immagine. È anche un luogo che facilmente mobilita fascinazioni intensamente morbose. Da una eccessiva fissazione incantatoria allo specchio sorge, infatti, la figura mitologica di Narciso che per rincorrere la rappresentazione ideale di se stesso, riflessa nelle acque, perde la sua vita. La passione narcisistica è una passione smisurata per la propria immagine che genera solo distruzione. Non a caso Lacan metteva in stretto rapporto la passione narcisistica per la propria immagine con la tendenza aggressiva. Non sopportiamo di non essere quell’immagine ideale di noi stessi che lo specchio proietta davanti a noi. Aggrediamo chi ci pare abbia realizzato quel miraggio per noi impossibile da realizzare. Diventiamo, così, persecutori dei nostri ideali esteriorizzati.
Quando la passione narcisistica si accentua eccessivamente, il mondo che è apertura illimitata alla differenza rischia di restringersi, di ridursi sterilmente alla superficie asettica dello specchio. Il mondo perde la sua bellezza per irrigidirsi in una identità chiusa su se stessa. Da tappa fondamentale per la costituzione dell’autocoscienza, lo specchio si trasforma così in una prigione. Non è questa una cifra del nostro tempo? Non viviamo forse in un mondo che sembra assomigliare sempre più ad uno specchio? È qualcosa che vediamo tanto nella vita individuale quanto in quella collettiva. Nella vita individuale assistiamo sempre più alla tendenza a realizzare legami tra simili, speculari, neutri, anaffettivi, legami che danno luogo a nicchie separate e falsamente autoconsistenti. Esempi? Pensiamo all’anoressia contemporanea, ai siti Pro-Ana che inneggiano fanaticamente all’anoressia come stile di vita, al culto spasmodico del fitness, a quella nuova religione del corpo che ci indottrina in una schiavitù igienista che trasforma il diritto alla cura del nostro corpo in un incubo ipersalutista che fa valere un ideale uniformante di efficienza. I corpi in forma sembrano tutti corpi in divisa, corpi tutti uguali.
Ma pensiamo anche alle depressioni, oggi sempre più diffuse anche tra i giovani, come segnale di un restringimento della vita, di una chiusura mortifera su se stessi. O al venire meno della differenza generazionale, alla confusione che regna tra genitori e figli e tra le fasi evolutive della vita psichica: genitori che fanno i figli, adulti che giocano a fare gli adolescenti. La rete stessa e i suoi vari social networks è luogo di apertura o di chiusura del mondo? L’obbligo della connessione permanente non rischia forse di ridurre lo schermo della rete in un nuovo specchio narcisistico?
Anche la vita collettiva sembra incistarsi in uno specchio narcisistico. Pensiamo alle forti tendenze particolariste, etniche, che reagiscono all’universalismo apparente della globalizzazione dell’economia. Ho spesso ricordato che quando utilizziamo la metafora della “società liquida” dobbiamo anche far notare una tendenza altrettanto forte: quella del raggruppamento solido, autoreferenziale, dei simili, dell’identico. L’assenza di confini, di binari simbolici saldamente costituiti, di criteri normativi condivisi, che caratterizza l’aspetto “liquido” del nostro tempo, tende a generare, come una sorta di reazione sintomatica, la spinta all’esclusione del diverso, dello straniero, della differenza. Tende a radicalizzare una nozione di identità chiusa su se stessa, ad esasperare la spinta ad una “identificazione a massa” che abolisce la differenza. La violenza del femminicidio, del razzismo, del fondamentalismo religioso ed etnico, hanno la loro matrice comune proprio nell’adorazione narcisistica della propria immagine ideale e onnipotente che esclude tutto ciò che risulta ad essa eccentrico.
La psicoanalisi ci insegna che l’arroccamento sulla nostra identità, resa falsamente solida, è sempre indice di malattia. Questo accade nei gruppi sociali, nelle istituzioni come nella vita individuale. Quando il confine – che ha il compito cruciale di delimitare la nostra identità (senza il quale vi sarebbe il caos totale, il disordine della schizofrenia) – si irrigidisce, si inspessisce, si ingessa, la vita si ammala, perde la ricchezza dello scambio. Il mondo si riduce a uno specchio uniforme, a una superficie piatta che si limita a riflettere la presunta immagine ideale di noi stessi. Quando il confine cessa di essere, come direbbe Bion, “poroso”, può solo diventare una fortezza. E, come spesso e tristemente accade, le fortezze alla difesa delle quali gli umani si prodigano, sono, in realtà, desolatamente vuote.

Repubblica 27.1.13
Quell’atomo di Bohr così difficile da immaginare
di Piergiorgio Odifreddi

Tra i centenari che celebreremo quest’anno, uno cade a luglio ed è l’anniversario della pubblicazione, da parte di Niels Bohr, del modello di atomo che porta il suo nome. Oggi ci è forse difficile immaginare che, benché l’atomismo fosse stato proposto nell’antichità da Democrito, e cantato da Lucrezio nel De Rerum Natura, ancora alla fine dell’Ottocento veniva considerato solo un’utile finzione. Fu la tesi di Albert Einstein, pubblicata nel 1905, a sdoganare definitivamente l’atomo, ma rimaneva da capire com’esso fosse fatto. Un paio d’anni dopo Ernest Rutherford, in un famoso
esperimento, bombardò lamine d’oro con particelle alfa e scoprì che la maggior parte di queste ci passavano attraverso, ma ogni tanto qualcuna rimbalzava come se avesse sbattuto contro un muro. Rutherford dedusse che l’atomo era costituito da un piccolo nucleo massiccio, di carica positiva, attorno a cui giravano a grande distanza degli elettroni minuscoli, di carica negativa. Nacque così il “modello planetario” dell’atomo, che valse a Rutherford il premio Nobel per la chimica nel 1908. Ma questo modello aveva un problema: girando attorno al nucleo, gli elettroni avrebbero dovuto perdere energia, e caderci dentro. Fu appunto questo problema che Bohr risolse nel 1913, supponendo che le orbite degli elettroni fossero quantizzate: cioè, che solo certi raggi fossero possibili. Questo modello, a metà classico e a metà quantistico, gli valse il premio Nobel per la fisica nel 1922, e fu l’ultimo che si può spiegare in maniera intuitiva. In seguito la meccanica quantistica dimostrò le ipotesi di Bohr, ma allontanò completamente l’atomo dall’intuizione dell’uomo comune, e forse anche dei fisici.

Repubblica 27.1.13
La fusione fredda e altre storie di falsa scienza
di Luca Fraioli


State per partire per le vacanze. È tutto pronto, dovete solo fare il pieno all’auto. Poco male, sono lontani i tempi in cui ci si svenava per poche decine di litri di benzina che garantivano un’autonomia di qualche centinaio di chilometri. Ora, con le macchine a fusione fredda, bastano quattro litri di acqua di rubinetto per percorrere più di tremila chilometri. Un bel risparmio, senza contare i vantaggi per l’ambiente: dalla marmitta non escono gas inquinanti ma solo vapore e un po’ di innocuo elio.
Mentre guidate fate già propositi per il rientro: smettere di fumare, ma questa volta sul serio. Basta con i rimedi del passato, stavolta si ricorre alla biologia molecolare disattivando il gene del tabagismo con la tecnica della Rna interference messa a punto dallo scienziato giapponese Kazunari Taira.
All’orizzonte si vedono già le montagne meta del viaggio: incombono nuvole cariche di pioggia. Ma che importa, avete la certezza che nei prossimi giorni sulla vostra vacanza splenderà il sole. E non perché avete consultato le previsioni meteo disponibili sul web. Ma perché avete con voi un cloud buster, una sorta di cannone che spara energia orgonica e che è in grado di eliminare qualsiasi formazione nuvolosa.
Tutto troppo bello per essere vero. E infatti è tutto falso. ÈLa falsa scienza
raccontata da Silvano Fuso, divulgatore ed esperto di didattica. Una serie di presunte scoperte che promettevano di rivoluzionare la vita o la visione dell’universo e che prima di essere smascherate hanno ingannato, oltre all’opinione pubblica, anche la comunità scientifica. È il caso della fusione fredda, annunciata il 23 marzo del
1989 da Martin Fleischmann e Stanley Pons: i due ricercatori stupirono il mondo raccontando di aver innescato una reazione nucleare in un bicchier d’acqua. Nessuna delle verifiche fatte confermò i dati di Fleischmann e Pons. E la fusione fredda rimase un sogno.
Kazunari Taira, professore di chimica biologica a Tokyo era un esperto di Rna interference, una tecnica che consiste nell’utilizzo di piccoli frammenti di Rna che possono legarsi al Dna e inibire così l’espressione di un gene. Ma tra il 1998 e il 2004, dopo una serie di articoli sull’argomento, Taira cominciò a ricevere decine di segnalazioni da parte di colleghi che non riuscivano a riprodurre in laboratorio i suoi
risultati. L’Università di Tokyo aprì un’inchiesta, scoprendo che il principale collaboratore del professor Taira, Hiroaki Kawasaki, aveva truccato i dati delle ricerche.
Nessun dato ma solo speculazioni teoriche per lo psicanalista di origine polacca Wilhlem Reich che negli anni Trenta elaborò le sue teorie sull’esistenza di un’energia cosmica, che chiamò orgonica, perché riteneva avesse un ruolo nell’orgasmo. Ma anche nella formazione delle perturbazioni, tanto da indurlo a brevettare un cannone da contraerea capace, a suo dire, di sparare energia orgonica e di far sparire le nuvole. Per le sue terapie mediche a base di energia orgonica fu processato negli Stati
Uniti e i suoi libri furono bruciati nel 1956 sotto la supervisione della Food and Drug Administration.
Ma sono decine le invenzioni folli, le frodi e le medicine miracolose raccolte in La falsa scienza e presentate da Fuso con un originale stratagemma narrativo: ogni capitolo dedicato a una presunta scoperta inizia con un racconto di fantasia su come sarebbe oggi la nostra vita se quella scoperta fosse stata confermata dai fatti. Leggendo il libro di Fuso si scopre che la ricerca non è immune alla vanità, all’invidia, alla sete di fama e di potere. Ma si trova anche la conferma che la scienza si è dotata di strumenti per riconoscere le «bufale » ed espellere gli impostori. Ci sono casi in cui gli stessi autori della scoperta tornano sui propri passi, fino a trovare l’errore e ad autodenunciarsi. E’ successo pochi mesi fa al Cern di Ginevra quando un gruppo di ricercatori aveva annunciato di aver osservato neutrini più veloci della luce. Una notizia che avrebbe costretto a riscrivere la Relatività di Einstein. Gli autori dello studio hanno ripetuto l’esperimento fino a trovare un guasto nella strumentazione che aveva alterato i dati iniziali.
LA FALSA SCIENZA di Silvano Fuso Carocci Pagg. 304 euro 21

Repubblica 27.1.13
Franco Ferrarotti
I ricordi da “uomo di carta” del padre della sociologia italiana
Bauman riduce tutto a una pappa insipida
Criticai Marcuse e lui mi minacciò
“Sono nato in mezzo ai libri morirò baciando la loro polvere”
di Antonio Gnoli


Per qualche curiosa coincidenza letteraria la figura di Franco Ferrarotti mi appare straripante e dissipatrice, come certi personaggi dostoevskiani. Nell’esaltazione costante del sé non esita a usare le tecniche di distruzione dell’Io. E con sconsolata teatralità egli mette in testa alla nostra conversazione una frase che mi spiazza: «Confesso di essere fin dall’inizio uno sconfitto». Davvero è uno strano mélange quest’uomo che ha “inventato” la sociologia in Italia e che mi riceve nel caos del suo studio, seppellito da carte e da libri. Non ha niente del vecchio accidioso. Dell’accademico risentito. Anzi, continua felicemente a insegnare alla New York University (per l’ultimo anno) e alla Sorbona. I suoi 86 anni comprendono una predisposizione gaia all’istrionismo e alla chiacchiera sconfinata. Il suo verbo è inarrestabile. Ecco, mi dico, un uomo che ha visto e conosciuto parecchio.
Come ci si sente da decano della sociologia?
«Non poteva farmi un insulto peggiore. La sociologia è morta».
Morta?
«Forse non è mai nata. O è nata morta. Una scienza ibrida e dissociata. Auguste Comte, che la fondò, era un noto paranoico. C’è una certa vicinanza tra paranoia e creatività. Lo sapeva?».
Se lo dice lei le credo. Ma che ne è dei “fatti sociali” e delle leggi che li governano?
«È stato tutto diluito dentro una pappetta postmoderna. Anzi liquida ».
Ce l’ha con Zygmunt Bauman?
«Perspicace. Se la società è liquida, se la paura è liquida, se lo stato è liquido, se la modernità è liquida, allora sa cosa faccio? Metto su dei corsi di nuoto».
Fantastico. E poi?
«E poi, e poi! La verità è che soprattutto in Italia abbiamo assistito a una svolta sorprendente. Si è passati in un sol balzo dalla pesantezza opaca del marxismo alla diluizione dei problemi sociali. I vari menestrelli della “società fluida” non sembrano rendersi conto che la nostra società è al tempo stesso dura, congelata, bloccata, in una parola neo-feudale. Ma lei si è chiesto perché Bauman è sempre in Italia?».
Immagino perché è invitato.
«E già. Ma glielo dico io il perché: siamo un paese ancora afflitto dal tardo crocianesimo. Siamo maestri del bel canto, cultori di teorie estemporanee, e culturalmente irresponsabili. È in questo brodo dionisiaco e festoso — da cui peraltro stiamo drammaticamente riemergendo — che Bauman ha piantato le sue palafitte».
Ma che c’entrano Croce e il crocianesimo?
«Lui è sempre presente. Anche quando non si vede c’è. È nell’aria culturale che respiriamo. Pensi che quando tradussi nel 1949, per Einaudi, La teoria della classe agiata di Thorstein Veblen — libro straordinariamente innovativo allora — Croce lo stroncò sul Corriere della Sera.
Lo stesso anno su Veblen feci la mia tesi di laurea a Torino. E Augusto Guzzo, crociano, si rifiutò di firmarla. Fu solo grazie a Nicola Abbagnano che potei laurearmi».
Lei dove è nato?
«Sono piemontese, di Palazzolo Vercellese. Quando nacqui mi diedero per spacciato. La mia salute era fragilissima, la mamma malata non poteva allattarmi. Fui spedito a sei mesi a Robella dai bisnonni che mi sfamarono con il latte di vacca. Ero troppo debole e per le dure leggi del mondo contadino venivo considerato uno scarto. Un peso da cui liberarsi».
Non è stata un’infanzia facile.
«Ho cominciato a parlare a cinque anni».
In compenso da allora non ha più smesso.
«Pensavano fossi un ritardato mentale. Paradossalmente fu un vantaggio, perché il silenzio sviluppò in me le capacità di osservazione, che arricchii leggendo. Alla biblioteca comunale passavo le giornate. Mio padre cominciò a odiarmi. Diceva con disprezzo: diventerai un uomo di carta. Non ha avuto tutti i torti».
Chi è stato il suo padre spirituale?
«Più che padri, fratelli maggiori. Uno fu Cesare Pavese. Ebbi la fortuna di incontrarlo, nel 1943 durante la Resistenza, a Casale Monferrato dove si era nascosto. Era un uomo molto timido. Io estroverso lui introverso. Tra noi funzionò la legge degli opposti che si attraggono. Una sera recitammo in tedesco il finale del Faust mentre passava una colonna nemica. Poi ci perdemmo di vista e solo alla fine della guerra, nel 1947, ci rivedemmo».
In che occasione?
«Lavorava alla Einaudi mi chiamò proponendomi di tradurre La teoria della classe agiata. Era scritto in un inglese molto complicato — Thorstein Veblen, l’autore, era un norvegese trapiantato in America — che aveva fatto desistere sia Vittorio Foa che Antonio Giolitti. Fu un bel biglietto da visita che mi servì, tra l’altro, nei rapporti che in seguito stabilii con Adriano Olivetti».
Come lo conobbe?
«A una cena. Vidi quel testone calvo, inghirlandato da una coroncina di riccioli biondi, discettare di nazionalizzazioni. Mi avvicinai e gli dissi che in questo modo gli operai non avrebbero più avuto un padrone contro cui lottare. Mi guardò stupito. Ero molto sfrontato. E scoprii che aveva un grande rispetto per le idee altrui. Mi venga a trovare, disse».
E lei andò?
«Andai, certo. Anche perché non è che a Torino in quel momento facessi chissà che. Traducevo dall’inglese e dal tedesco e mi ero fidanzato con Anna Maria Levi, la sorella di Primo levi, il quale allora stava cercando un’occupazione da chimico e nessuno sapeva tutto quello che poi avrebbe raccontato nei suoi libri. Insomma, rividi Olivetti e mi propose di lavorare per lui. Con Geno Pampaloni e Renzo Zorzi diventammo i suoi collaboratori più intimi. Si stabilì un clima culturale fantastico. Ma ero un inquieto».
Ivrea le stava stretta?
«L’Italia semmai. Mi sentivo in gabbia. Poi accadde che Olivetti ebbe un infarto. Andai a trovarlo in clinica e gli dissi che il mio progetto era di trasferirmi per un periodo negli Stati Uniti. Mi guardò con stupore e rammarico. Dal letto si sollevò lentamente e con una smorfia mi rispose che non se ne parlava punto. Gli dissi che quell’esperienza la facevo anche per lui e alla fine, un po’ a malincuore, si convinse. E così partii».
Che anno era?
«Feci la traversata in nave nel settembre del 1951. Giunto a New York mi trasferii all’Università di Chicago».
La roccaforte del neoliberismo.
«C’era Von Hayek, ma all’inizio non era molto amato dagli altri economisti. Il vero punto di riferimento, l’autorevolezza culturale, proveniva da Leo Strauss».
Lo ha conosciuto?
«Dopo che gli feci la traduzione letterale del Principe di Machiavelli diventammo molto amici. Alcune volte sono stato a cena a casa sua. Un giorno mi chiese se ero ebreo. Rimasi sorpreso, ma poi seppi che era il più grande complimento che potesse farmi. È stato talmudista e cabalista. Un grandissimo erudito che non amava la modernità. Spesso ripeteva: le leggi non valgono nulla, ciò che conta è il costume di un popolo».
Un chiaro richiamo al mondo classico.
«Era affascinato dalla tradizione. Tutto il contrario di Herbert Marcuse che conobbi, molti anni dopo, all’Università del Massachusetts prima che si trasferisse in California».
Che tipo era?
«Burbanzoso. Il più tedesco, per mentalità, tra tutti quelli che erano finiti in America. Si dava l’aria del profeta. Ma l’unica, tra gli assistenti, che pendeva dalle sue labbra era Angela Davis. Bellissima, uno splendore. Marcuse era gratificato da quella presenza femminile. Come del resto dal seguito che aveva tra gli studenti. Era appena uscito
L’uomo a una dimensione, il libro che avrebbe influenzato il movimento studentesco. Gli dissi che trovavo fiacche le sue analisi. Mi guardò fisso negli occhi, poi si tolse il grande sigaro spento che aveva tra i denti. Lo impugnò e fece il gesto di pugnalarmi. Che tipo! Mi fa venire in mente Marshall McLuhan».
Perché questo accostamento?
«Perché se c’è stato un grande pensatore rivoluzionario, per niente legato al canone della tradizione, questi fu McLuhan e non Marcuse. Lo conobbi al Trinity College di Toronto, dove tenevo un seminario su Max Weber. E mi stupì l’agilità di mettere assieme San Tommaso e le fibre ottiche. Le sue analisi seppellirono la figura dell’intellettuale umanista. Ci rivedemmo altre volte. Era ossessionato dalla televisione».
Ne intuì tutte le conseguenze.
«Nessuno era in grado, neppure lui, di valutare gli effetti di quella protesi. Annientamento dell’uomo o nascita del post-umano? Questo era il dilemma nell’ultima fase della sua vita».
E lei da quali dilemmi era preso?
«Stavo benissimo: insegnavo, mi ero sposato, avevo comprato una macchina, guadagnavo bene. Olivetti mi chiamava tutti i sabato. Quando torni? Mi chiedeva».
E non resistette.
«Rimisi piede in Italia nel 1953. Mi rituffai nella comunità di Ivrea. Poi nel 1958 Olivetti fu messo da parte nell’azienda. Lo estromisero dalla carica di amministratore. La lunga contesa con la famiglia finì con la sua sconfitta. A lui non rimase che leggere il futuro nei fondi del caffè».
Vuole dire che ci fu un conflitto interno?
«Voglio dire che parte della famiglia non amava quel modello di impresa e non amava me reputandomi una specie di anima nera. Di fatto mi ritrovai disoccupato. Adriano morì di infarto un paio d’anni dopo nel corridoio di un treno. Meglio che nel suo letto. Io partii per Parigi e mi rifeci una verginità. Fu un colpo di fortuna. Mi venne offerto il ruolo di diplomatico speciale come membro osservatore dell’Oece. Una pacchia. Poi divenni deputato, professore universitario. E inventai la cattedra di sociologia che è diventata la scienza allegra dove tutti dicono la loro».
Ancora Bauman!
«È più forte di me. Pensi che negli anni Quaranta è stato perfino nel Kgb».
Non è possibile.
«Me lo disse Adam Podgureski, un valente sociologo polacco, che lo aveva incrociato a Varsavia nel 1945 con l’uniforme del Kgb».
Non è che è invidioso del suo successo?
«Alla mia età me ne frego. Non ho mai fatto progetti nella mia vita e sono vissuto sempre nel disordine. Ma un’analisi sociale seria non può fondarsi sull’acqua. Neppure Gesù Cristo potrebbe camminarci sopra. Spieghi l’attuale crisi economica e sociale con le categorie “liquide” e tra qualche anno ci rideranno appresso».
A lei cosa evoca la parola crisi?
«Una volta dissi al mio vecchio amico John Kenneth Galbraith — che aveva scritto un bel libro sul 1929 e la Grande Depressione — che avrebbe dovuto farsi un giro nella campagna piemontese per capire cosa fu il dramma della depressione».
Si spieghi.
«Sono nato nel 1926. E tutte le sere per alcuni anni si sentiva nelle campagne un odore acre di bruciato: “udur ad brusà”, dicevano le madri. La notte si illuminava e dalla collina si vedevano lungo tutta la pianura bagliori di fiamme e folate di fumo. Erano i contadini che davano fuoco alle loro cascine. Strangolati dai debiti, vessati dall’usura, piuttosto che cedere alle banche le loro proprietà preferirono bruciare le case e poi impiccarsi. Ecco cosa fu la crisi. E sono troppo vecchio per poter piangere.
Ma non abbastanza per dimenticare».
Come immagina la sua fine?
«L’ho anche scritto: sono nato in mezzo ai libri. Morirò baciando la loro polvere. Aveva ragione mio padre: sono un uomo di carta».

LA BIOGRAFIA. Franco Ferrarotti nasce a Palazzolo Vercellese il 7 aprile 1926 Considerato il decano della sociologia italiana insegna alla Sapienza e dirige “La critica sociologica”, rivista da lui fondata nel ’67