martedì 29 gennaio 2013

l’Unità 29.1.13
Bersani: «Il premier sia più modesto Sì al confronto tv, ma se ci sono tutti»
La battuta: «Stanco di manovre, come tutti gli italiani»
Domani la Vigilanza Rai decide sulla sfida tra i candidati
di Simone Collini


Più modestia e meno promesse irrealizzabili. A Pier Luigi Bersani non piace «il nuovo Monti». Ormai il leader del Pd non è più «sorpreso» da certe uscite del premier, com’era fino a qualche giorno fa. Ormai ha capito che anche il Professore ha iniziato a «raccontare cose che non ci sono» pur di guadagnare qualche punto in questa campagna elettorale. E anche a tirare colpi bassi. Ieri è stata una giornata esemplare, da questo punto di vista. Bersani ha ascoltato Monti parlare in televisione della riduzione di Imu, Irpef e Irap per complessivi 30 miliardi, l’ha ascoltato dire che una nuova manovra correttiva dei conti dipende dall’esito del voto. Poi è salito in macchina, destinazione Padova, lasciando che intanto fossero vari dirigenti del Pd a chiedersi «se sotto il loden di Monti non si stia nascondendo Berlusconi» (Antonio Misiani dixit), a ricordare che «ieri a Carpi non c’erano risorse per le imprese e le famiglie colpite dal terremoto mentre stamattina sono spuntati miliardi a gogò per tagliare le tasse» (Stefano Fassina). O, come fa Massimo D’Alema, a far notare: «Se non c’è crescita economica non si possono ridurre tasse. Chi promette di farlo mente. È un fatto matematico».
Poi, in serata, alla prima tappa del suo tour elettorale nel Nord est, Bersani ha messo il sigillo sulla questione, ironizzando sulle promesse fiscali («ho fatto due conti, tra Berlusconi e il nuovo Monti le tasse sono già calate di una trentina di miliardi») e rispondendo così alle previsioni di Monti sul rapporto tra nuove manovre ed esito elettorale: «Io sono stanco di manovre, come credo tutti gli italiani. Non si può inseguire la recessione con delle manovre, e quindi sono contro. Detto questo qualche problemino da affrontare c’è, lo sa anche Monti. Vediamo se si fa pari e patta: abbassamento dei tassi e problemi che abbiamo, tipo gli ammortizzatori da coprire. Mi par di avere capito che la manovra non si fa se c’è lui. Un po’ di modestia sarebbe consigliabile».
Bersani non sottovaluta la propaganda elettorale di Monti, e conta di smontarla anche attraverso un confronto televisivo su cui stanno lavorando gli staff dei candidati premier e i dirigenti Rai. Il leader del Pd nota con dispiacere che in queste settimane si sta dando «poco spazio a problemi italiani», e quindi «se serve a discuterne» è pronto ad andare in televisione insieme a tutti gli altri in corsa per Palazzo Chigi. Da Viale Mazzini si sono fatti avanti e per un po’ si è lavorato sull’ipotesi di fare un confronto televisivo a tre (Bersani, Monti, Berlusconi) sabato in prima serata su Rai 1, in una trasmissione elettorale ad hoc condotta dal direttore del Tg1 Mario Orfeo e da Bruno Vespa.
Né sulla data né sui partecipanti si è però raggiunto un accordo e a Viale Mazzini hanno deciso di affidare la pratica alla commissione di Vigilanza Rai, che è convocata per domani. Bersani ha annunciato la propria disponibilità a partecipare al confronto televisivo soltanto «se saranno presenti tutti gli altri candidati premier perché tutti hanno diritto». Antonio Ingroia si è detto pronto. Oscar Giannino pure. Monti avrebbe preferito il confronto a tre ma non si tirerà indietro se sarà più largo. Ma chi ci sarà per il Pdl, visto che va con «Berlusconi presidente» sul simbolo ma se dovesse vincere passerebbe la mano ad Alfano? Bersani, sorridendo: «Possono venire tutti e due, facciamo il confronto in sei più uno». L’unica certezza, a questo punto, è che il confronto non si farà sabato ma, dovesse alla fine esserci, la prossima settimana, perché quella successiva è dedicata al Festival di Sanremo.
Non è comunque questa vicenda in cima ai pensieri di Bersani. Il leader del Pd sta intensificando in questi giorni gli appuntamenti elettorali nelle regioni chiave per ottenere la maggioranza al Senato. Ieri e oggi è stato in Veneto, dove il centrodestra è dato da un sondaggio Quorum a soli due punti di vantaggio rispetto al centrosinistra (33,5% contro 31,5%) e dove i dirigenti locali del partito hanno organizzato per queste quattro settimane 581 incontri in tutti i Comuni della regione. Questo pomeriggio sarà anche invece a Trieste, dove si svolge il meeting europeo dei Socialisti e Democratici, insieme al presidente del gruppo parlamentare europeo Hannes Swoboda. Mentre domani l’appuntamento è a Napoli e poi, venerdì, a Firenze insieme a Matteo Renzi.
Il bersaglio del leader Pd rimane il centrodestra, e Bersani conferma che è pronto a «sbranare» chi prova ad attaccare il suo partito utilizzando strumentalmente la vicenda Monte dei Paschi di Siena: «Li sbrano con gli argomenti, certo, siam mica delle mammolette» (e i nomi che mette sul piatto per rispondere a Pdl e Lega sono quelli di Credieuro Nord, che faceva capo al Carroccio, e di Credito Cooperativo Fiorentino, di cui era presidente Denis Verdini). Ma anche per Monti le parole critiche non mancano, e non soltanto per la promessa di ridurre le tasse e l’aver legato una nuova manovra all’esito delle urne.
Se il premier ha escluso un dialogo con chi parte dalle posizioni della Cgil, Bersani replica: «Chi pensa che coesione e cambiamento siano degli ossimori è fuori come un balcone. Io ho detto che quando governi sono tutti figli tuoi perché questo Paese ha bisogno di tutti e se si comincia a dividere i buoni e i cattivi, chi sta fuori e chi sta dentro, non si arriva da nessuna parte». È la destra che è andata avanti per un ventennio con la teoria che «c’è un nemico da combattere». Ora però, dice Bersani, quella «stagione» va chiusa.

il Fatto 29.1.13
Sondaggio La7: Pd in calo ma sempre avanti


CENTROSINISTRA in vantaggio sulla coalizione di centrodestra, nonostante la flessione registrata nell'ultima settimana. Secondo il sondaggio sulle intenzioni di voto alla Camera, elaborato da Emg per il TgLa7 infatti, la coalizione guidata da Bersani sarebbe avanti di quasi nove punti, con il 36,8%, sul centrodestra, stabile al 28%. In particolare, nell’ultima settimana, complice la vicenda Montepaschi, il Pd avrebbe perso l'1,1%. In calo anche Scelta civica con Monti (9,6%) e l’Udc (3,1%). Nel centrodestra, il Pdl guadagnerebbe l’1%. Recuperano invece M5S (13,5%) e Rivoluzione Civile di Antonio Ingroia (5%). Stabile la Lega Nord (4,7%).

La Stampa 29.1.13
Pd sotto il 30% e Senato a rischio Un sondaggio esalta Berlusconi
Per i dati della Ghisleri, centrosinistra fermo a 157 senatori
«Rimonta spettacolare abbiamo ripreso dieci punti in pochi giorni»
«Ora a loro tremano le gambe, sentono il nostro fiato sul collo»
di Amedeo La Mattina


Quando ieri mattina Alessandra Ghisleri gli ha fatto trovare sul tavolo di Arcore il sondaggio di Euromedia, il cuore di Berlusconi si è aperto. Lo scandalo del Monte Paschi di Siena ha fatto perdere a Bersani 1,6% di voti. Una botta che il Cavaliere si aspettava e cercava. Poi, che quella percentuale di elettori non sia migrata verso la sua lista, poco gli importa. Sono altri i numeri che gli hanno fatto luccicare gli occhi e fregare le mani dalla felicità. Sono due per l’esattezza. Il primo, quello che riguarda il Pd sceso sotto la soglia psicologica del 30% (29,5). Un calo in linea con altre rilevazioni demoscopiche, anche quella data ieri da Mentana al Tg di La7, e non compensato da un recupero di Vendola. Anche Sel scivola a un pericoloso 4,1% con un meno 0,4.
E queste sono le dolenti note del centrosinistra che, tuttavia, sono in qualche modo compensate dai dati dell’istituto Tecnè per Sky Tg24 che dà questa coalizione vittorioso al Senato (ed è ciò che più conta) in tutte le regioni tranne Veneto e Sicilia. Una vittoria che però sarebbe di Pirro perché Bersani, Vendola, Nencini e Tabacci non avrebbero la maggioranza a Palazzo Madama. Il numero magico per governare è 158 mentre il centrosinistra si fermerebbe a 157, pari al 35,4%: avrebbe bisogno quindi dei senatori di Monti, Casini e Fini. Una stampella di 36 senatori pari al 14,6%. Berlusconi invece, insieme alla Lega e gli altri alleati raggiungerebbe, secondo Tecnè, il 28% con 83 senatori. Ingroia rimarrebbe a bocca asciutta: zero senatori nonostante il 4,8%.
Ma torniamo al sondaggio della Ghisleri, della quale Berlusconi si fida ciecamente perchè finora le ha azzeccate tutte. È il secondo numero a coltivare l’irrefrenabile entusiasmo dell’ex premier. «I nostri dati ci confermano che abbiamo fatto una rimonta spettacolare. Abbiamo recuperato 10 punti in pochi giorni e siamo alla pari al Senato, con una nostra prevalenza nelle tre più importanti Regioni. E ci sono 5 punti di distacco dalla sinistra alla Camera». Ecco, secondo il sondaggio di Euromedia, il Pdl è al 22,2%, con un punto in più rispetto alla scorsa settimana. Cala di uno 0,4% la Lega di Maroni. Complessivamente il centrodestra fa il 32,4% contro il 35% del centrosinistra. Ci sono meno di tre punti di distacco tra i due schieramenti. Quindi ancora meno di quanto ha detto Berlusconi, che adesso sente il vento in poppa e continua dire ai suoi dirigenti: «Avete visto? Ce la possiamo fare a vincere. Bisogna crederci, avere fede nella vittoria. Ci mancano ancora quattro settimane prima del voto e la vicenda del Monte Paschi di Siena sarà la tomba per il Pd. Noi dobbiamo battere sulla riduzione della pressione fiscale perchè siamo più credibili del gatto e la volpe (Bersani e Monti ndr) ai quali ora tremano le gambe perchè sentono il nostro fiato sul collo. Avanti tutta», è l’ordine del comandante.
Ora però Berlusconi deve concentrarsi sul tema lavoro, tirare fuori dal cilindro qualcosa sull’occupazione. Come quando promise la creazione di un milione di posti di lavoro. Cosa che lui sostiene di avere realizzato, ma nelle statistiche ufficiali, a dire il vero, non ce n’è traccia. Comunque, per il Cavaliere il vento è girato e il «suo» sondaggio lo conferma. Avrebbero avuto effetto l’epurazione dalle liste dei cosiddetti «impresentabili» (Cosentino, Dell’Utri e Scajola) e la scelta di Monti, che si presenta in «versione social», ma senza avanzare nelle intenzioni di voto. Euromedia dà la lista Scelta civica-con Monti per l’Italia all’8,2% (perderebbe 1 punto in una settimana). Il Fli allo 0,8%, l’Udc al 3,9%. Poca cosa. Comunque, secondo la Ghisleri, a sconvolgere il quadro della settimana passata è l’affaire del Monte Paschi, che non ha portati voti al Pdl, ma li ha tolti al Pd. La domanda che la Ghisleri ha posto è stata: qual è il partito più coinvolto in questa vicenda: il 41,4% ha indicato il Pd. A guadagnarci è stato Grillo, che è andato all’assemblea degli azioni a contestare il presidente Profumo, facendo un balzo di 2 punti e mezzo. Qualcosa ha rosicchiato pure Giannino, anche lui a Siena il giorno dell’assemblea. Non guadagna invece la Rivoluzione civile di Ingroia ferma la palo del 3,5%, sotto la soglia di sbarramento.

Corriere 29.1.13
Si restringe la distanza tra Bersani e il Cavaliere Grillo su, centristi in calo
Secondo Ghisleri crescono gli indecisi
di M.Antonietta Calabrò


ROMA — Negli Usa la chiamano l'«October surprise», cioè l'avvenimento imprevisto che accade nel mese precedente le elezioni del presidente degli Stati Uniti e che è in grado di «cambiare» il voto degli americani, tradizionalmente fissato il primo martedì di novembre. Lo scandalo Mps costituirà la January surprise nostrana? Nel giro di una settimana ha «spostato» più del cinque per cento dell'elettorato in base ai sondaggi svolti venerdì e sabato scorso da Euromemedia Research. Anche se il centrodestra nel suo complesso non se ne è avvantaggiato (solo +0,2, ma +1 il Pdl).
Le vicende del Montepaschi «tolgono» al centrosinistra (-1,8) e in particolare al Pd (-1,6). Ma proporzionalmente tolgono molto di più alla Lista Monti (-1,0): e questo vuol dire che «il premier in ogni caso viene percepito dagli italiani come l'uomo delle banche e dell'aiuto alle banche», commenta Alessandra Ghisleri, la sondaggista di fiducia di Silvio Berlusconi, che è stata anche l'unica a testare il caso Mps su un campione significativo della popolazione italiana. L'effetto negativo su Monti si spiega anche perché il 47,3 degli italiani, ritiene che l'Imu sulla prima casa sia stata «messa» per finanziare la banca senese.
Il vero «fenomeno» è che la scorsa settimana è aumentato moltissimo Beppe Grillo: +2,5 per cento. E così proprio mentre il Financial Times immortalava il comico italiano in un'enorme foto in prima pagina, sabato scorso il Movimento 5 Stelle ha raggiunto il 13,1 «diventando», sempre per la Ghisleri, il terzo partito italiano (con un incremento del 25 per cento del suo elettorato in una sola settimana, ma è dato ancora in forte crescita).
Aumentano dello 0,3 e dello 0,1 rispettivamente la lista «Giustizia e libertà (Bonino-Pannella)» e «Fermare il declino» di Oscar Giannino. Aumentano infine di un altro 2,1 gli indecisi, un contenitore in cui si travasano i delusi dal Pd.
Ieri, dunque la situazione testata dalla Ghisleri era: totale centrodestra al 32,4 (con Pdl al 22,2). Totale centrosinistra 35 (con il Pd per la prima volta sotto il 30 per cento, a 29,5). Soprattutto, il centro in discesa al 12,9 con la Lista Monti in calo dell'1 per cento. Questi dati divergono parzialmente dal sondaggio SkyTg24 elaborato da Tecnè in cui la coalizione di centrosinistra è sì «valutata» al 34,9, ma quella di centrodestra (Pdl-Lega ed altri) sfiora solo il 28 per cento (27,9) con la conseguenza che Scelta civica-Monti-Udc e Fli si attestano al 14,5 per centro, mentre Grillo la segue, seppure a distanza ravvicinata (14,2). Il «debole» risultato del centrodestra si spiega, nel sondaggio Tecnè, anche con il fatto che secondo questo istituto di ricerca, la Lombardia sarebbe «tornata» al centrosinistra, con una differenza di 1,5 in più rispetto al centrodestra. Anche se gli incerti ed il non-voto sfiorano il 30 per cento dell'elettorato: costituiscono insomma la «terza coalizione». Questo «risultato» in Lombardia, secondo Tecnè, sarebbe comunque insufficiente per permettere alla coalizione del Pd di raggiungere la maggioranza a Palazzo Madama (vista la perdita di Sicilia e Veneto).
Il sondaggio del Tg di La7, anticipato su Twitter da Enrico Mentana, si avvicina un po' a quello di Euromedia Research: dà un calo dell'1,1 del Pd, una risalita del Pdl al 20 per cento, Monti che torna sotto il 10 e Grillo al 13,7.
Le altre domande del sondaggio di Ghisleri che riguardano lo scandalo del Monte dei Paschi di Siena permettono di valutare come si potrebbe protrarre nel tempo l'effetto Mps. Solo l'8,3 per cento degli elettori pensa che non vi siano coinvolti i partiti e ben il 41, 4 percento ritiene che vi sia coinvolto il Pd.
Ben il 20,2 per cento degli italiani ritiene che sia una responsabilità di tutti i partiti insieme. In ogni caso il 71,8 per cento degli italiani ritiene che i partiti vi siano coinvolti: al minimo però il Pdl (solo il 2,5 per cento degli italiani lo pensa) e la Lega Nord (lo 0,3 lo pensa). Un dato che di per sé segna la distanza tra i partiti e i cittadini su questo scandalo bancario. Inoltre, ben il 31,2 per cento degli elettori di Pd+Sel ritiene che nello scandalo sia coinvolto il Partito democratico. Quindi, «l'invettiva del segretario del Pd, Pierluigi Bersani, ("li sbraniamo") è stata una scelta obbligata più che altro per uscire dall'angolo», commenta Ghisleri.

La Stampa 29.1.13
Se la Camusso si trasforma in un ostacolo fra Monti e il Pd
di Marcello Sorgi


Più delle tante polemiche quotidiane con Bersani, lo scontro tra Monti e Camusso, nato ieri dopo le dichiarazioni del presidente del Consiglio su tasse e manovra, è stato rivelatore del maggiore ostacolo a un’eventuale ripresa della collaborazione di governo tra il premier e il Pd, specie nel caso in cui il centrosinistra non dovesse ritrovarsi dopo il voto con una maggioranza autonoma al Senato.
Monti infatti, intervistato sulla possibilità che si renda necessaria una nuova manovra per rimettere in ordine i conti pubblici, non solo ha negato questa possibilità, ma ha detto che, a certe condizioni (leggi: tagli di spesa pubblica), potrebbero essere ridotte sia l’Imu che l’Irap. Poi ha aggiunto che nella valutazione che sull’Italia sarà fatta dopo le elezioni a livello europeo, oltre ai risultati, influirà il tipo di vincitore che uscirà dalle urne e il programma con cui intende formare il nuovo governo. Un accenno neppure velato al rischio, per il centrosinistra, di presentarsi dando l’impressione di voler capovolgere la linea di politica economica praticata nell’ultimo anno dal governo. E un avvertimento che Camusso, appunto, ha respinto seccamente e ha giudicato inaccettabile.
La ragione di una così forte reattività da parte della segretaria della Cgil è presto detta: esclusa da qualsiasi forma di concertazione con il governo e da decisioni a cui il maggior sindacato della sinistra era contrario, Camusso s’è impegnata a fianco di Bersani nelle primarie del Pd, per battere Renzi e ottenere dal segretario-candidato premier l’impegno a riportare il partito su una linea contraria alla politica di rigore e mirata a ridiscutere le riforme economiche varate da Monti. È per questa ragione che, se proprio dopo il voto Bersani dovesse nuovamente tentare l’abbraccio con Monti, la leader della Cgil vuole che avvenga sulla base di una nuova agenda, e non di quella che il premier vuole continuare a realizzare.

Corriere 29.1.13
la Sindrome elettorale che turba i Sogni del Pd
Perdere la medaglia arrivando primi
di Antonio Polito


Nel Pd serpeggia una specie di «sindrome Dorando Pietri»: la paura cioè di perdere la medaglia d'oro pur arrivando primo al traguardo della maratona elettorale, come accadde all'atleta italiano ai Giochi del 1908. Nessun altro contendente sembra infatti in grado di battere la sinistra, ma la lotteria del Senato può mutilarne la vittoria fino a renderla di Pirro. I sondaggi danzano sul filo nelle Regioni contestate. Non resta che aspettare la notte dello spoglio, e vedere se il dio delle elezioni si giocherà a dadi il futuro dell'Italia. (...)
Il seguito dell’articolo è disponibile qui

l’Unità 29.1.13
Bagnasco: «La nostra sfida a tutto campo»
Il presidente della Cei riconosce il pluralismo dei credenti, chiede più solidarietà e di non separare la questione sociale dai valori «non negoziabili»
di Roberto Monteforte


Parole forti e impegnative, soprattutto per la politica e chi avrà la responsabilità di guidare il Paese, quelle pronunciate ieri dal presidente dei vescovi italiani, il cardinale Angelo Bagnasco, nella prolusione con cui ha aperto il Consiglio permanente della Cei.
Nel cuore dello scontro elettorale la Chiesa archivia ogni ipotesi di partito aggregatore «moderato dei cattolici», ma dice ugualmente la sua. L’invito di Bagnasco ai credenti è di guardare con attenzione ai programmi e ai singoli candidati, soprattutto a come viene affrontata la bio-politica, cioè la difesa della vita e della dignità dell’uomo davanti ai progressi scientifici alla cultura moderna. La bio-politica e la questione antropologica, insiste il presidente della Cei, non sono affatto separati dalla questione sociale. Del resto, è proprio la profondità della crisi a richiedere risposte radicali, con la definizione di un nuovo modello di sviluppo, più solidale e attento all’uomo. Sugli effetti sociali della crisi Bagnasco è perentorio: va riaffermata la centralità del lavoro e della solidarietà rispetto alle brutali logiche della finanza in un Paese dove la disoccupazione, e in particolare quella giovanile, rappresenta oramai una dolorosa «epidemia».
«Scongiurato il baratro spiega è il momento decisivo e irrimandabile del rilancio». Occorre però essere consapevoli, aggiunge, che «la ripresa, quando ci sarà, non sarà tale purtroppo da porre rimedio da sola alle emergenze». In Italia la condizione di indigenza si è «obiettivamente» allargata «intaccando segmenti di società in cui prima era sostanzialmente marginale». Bagnasco invita a ripensare il modello di sviluppo ponendo al centro l’uomo e il lavoro, facendo valere la cultura della solidarietà rispetto al predominio delle logiche della finanza. «Non può essere il capitale umano quello che per primo viene messo in discussione quando un’industria è in sofferenza» scandisce senza nascondere il dubbio se «le iniziative legislative che si sono finora succedute», riferendosi alla riforma Fornero, abbiano determinato «sollievo o aggravamento» del problema.
Ma la politica, per essere all’altezza di questo passaggio storico, deve autoriformarsi per essere credibile e coerente, dice Bagnasco. È la domanda dei cittadini, cui la Chiesa rinnova l’invito a non disertare le urne, a non cedere alla rassegnazione o alla protesta autolesionista. Il presidente della Cei osserva come nell’ultimo periodo «siano state fatte azioni importanti per recuperare affidabilità e autorevolezza», ma «a prezzo anche di pesanti sacrifici non sempre proporzionatamente distribuiti». Occorre cambiare.
«Non c’è un rigore istituzionale degno di questo nome aggiunge se non ci sono formazioni politiche che lo assumono su di sé, lo interpretano con scrupolo, con le proprie sensibilità, ma alla fine su di esso sostanzialmente convergono». Rimarca una sorta di «sbilanciamento» tra il desiderio popolare di uscire dal tunnel e «ciò che viene messo in campo». Ma «bisogna abbandonare la logica dell’essere contro “a prescindere”». Questo è «un atteggiamento» che «offende l’intelligenza e la serietà». «La logica del sospetto ideologico insiste genera divisioni artificiose, contraccolpi indesiderati, ritorsioni a loro volta superficiali e dolorose». Occorrono coesione e rigore. «La gente vuole che la politica cessi di essere una via indecorosa per l’arricchimento personale» afferma e chiede misure adeguate per sventare «il malcostume della corruzione», nella consapevolezza che le leggi non bastano «se le coscienze continuano a respirare una cultura che esalta il successo e la ricchezza facile, anziché l’onore del dovere compiuto». Il porporato mette in guardia da «un professionismo esibito nelle fasi elettorali che palesemente contrasta con la flemma e la sciatteria dimostrate talvolta in altri frangenti». Chiede ai partiti «l’impegno su programmi espliciti, non infarciti di ambiguità lessicali e tattiche», perché «il Paese sano è stanco di populismi e reticenze. Le riforme domani saranno realizzate solo se oggi non si fanno promesse incaute e contraddittorie».
Ma nell’Agenda per il Paese la sottolineatura che più sta a cuore al presidente della Cei è la difesa dei principi etici e dei valori «non negoziabili». Sono per Bagnasco il corollario della questione sociale. Lo afferma partendo dalla centralità della famiglia quella fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna e aperta alla procreazione nell’azione di contrasto alla crisi economica. Spiega le ragioni dell’opposizione della Chiesa verso il riconoscimento delle nozze gay e il sistema di valori che così si intende salvaguardare. «Si continua a riproporre il tema dei matrimoni omosessuali, quasi si trattasse di un approdo inevitabile», afferma. Insiste sulla difesa della vita «dal suo concepimento alla morte naturale», sulla libertà di educazione e la giustizia: tutti considerati «fondamenti» della società. «È necessario che in un momento elettorale si certifichi dove essi trovano dimora» chiede. Arriva così un avvertimento dalla Cei ai partiti: non «annacquate» la componente cattolica su questi temi, magari «bilanciando la loro voce con posizioni opposte», prevedendo al massimo «il ricorso pur apprezzabile all’obiezione di coscienza». C’è un chiaro messaggio al centrosinistra che si candida a governare l’Italia: sui valori siate chiari.

il Fatto 29.1.13
Bagnasco senza candidati: “Andate a votare”
Al vertice Cei il cardinale sceglie di non allinearsi: troppa incertezza
di Marco Politi


Nessun endorsement al Partito-Monti nella relazione del cardinale Bagnasco al vertice della Cei, solo un netto appello a votare. Forse per la prima volta dal crollo della Democrazia cristiana – in un’elezione decisiva – l’episcopato non si allinea, nemmeno velatamente, ad uno schieramento partitico.
La prudenza di Bagnasco è dettata dall’incertezza delle prospettive e dalla frammentarietà del panorama politico. Ma è come se, liberato dall’eredità di Ruini e dalle interferenze della Segreteria di Stato vaticana, il presidente della Cei potesse finalmente dispiegare la linea di intervento pastorale non strettamente partitico, a cui pensa da anni.
Assai forte è l’accento posto sulla “questione sociale”, la povertà, la disoccupazione, la sofferenza dei giovani, la situazione della sanità, l’urgenza di contrastare corruzione, evasione fiscale, irresponsabilità dei partiti. Certe frasi del porporato colpiscono punti deboli del dibattito elettorale. È “ingiusto” che nelle imprese in difficoltà le “maestranze per prime vengano messe alla porta”. I giovani “non sono per noi i nuovi invisibili”. Cresce l’emarginazione. La malavita ha “tentacoli (che) si allargano all’intero Paese”. I sacrifici non sono “sempre proporzionalmente distribuiti”. Senza risultati consistenti della lotta all’evasione “è difficile dar credito alle promesse”. I partiti non facciano discorsi “infarciti di ambiguità lessicali e tattiche”. I partiti dimostrino “capacità di autocritica”.
Nel discorso del cardinale al Consiglio permanente Cei (a parte la riaffermazione dei tradizionali temi etici) si avverte in controluce un’insoddisfazione perchè in questa stagione elettorale – nonostante il clamore sulla confluenza di esponenti aclisti e di Sant’Egidio nella Lista Monti – la dottrina sociale cattolica risulti alla fine emarginata. L’operazione Monti non la rispecchia. Bagnasco condanna sia il cosiddetto collettivismo sia il “liberismo falsamente egualitario”.
Il sociologo cattolico De Rita certifica d’altronde la “scomparsa dei cattolici dalla campagna elettorale”. Rilevava tempo fa lucidamente il direttore di Avvenire Tarquinio che Monti è un “liberaldemocratico” e che alla fine si dovrà approdare ad un bipolarismo imperniato su un partito tipo-Ppe (deberlusconizzato) e un partito progressista.

Corriere 29.1.13
Una presa di distanza resa obbligata dalle divisioni cattoliche
di Massimo Franco


Il modo in cui il cardinale Angelo Bagnasco si sottrae a qualunque sospetto di puntare su un partito non riflette solo la delusione per un panorama politico arretrato. C'è anche la sensazione crescente di rappresentare non tanto un episcopato ma un mondo cattolico diviso, sospettoso e a rischio di strumentalizzazione. Un anno e mezzo di governo di Mario Monti ha segnato il passaggio dal sogno di un ricompattamento dell'associazionismo, alla realtà di una diaspora non pilotata né assecondata: semplicemente subìta, perché questa è la situazione. La prolusione di ieri del presidente della Cei appare come un messaggio a schierarsi solo coi «valori non negoziabili», raccolto prontamente.
Forse non è casuale che nelle stesse ore la Comunità di Sant'Egidio, additata a torto o a ragione come la più «montiana» per il peso assunto dal ministro Andrea Riccardi, abbia preso posizione. Con un comunicato irrituale, spiegabile con le polemiche e gli attacchi ricevuti nelle scorse settimane, precisa di non essere coinvolta «ovviamente nella campagna elettorale»; e di «non usare le bandiere di Monti», rivendicando invece il proprio ruolo di assistenza ai poveri. «Il tempo elettorale è tempo di strumentalizzazioni, purtroppo», fa notare la Comunità con una punta di amarezza, lasciando indovinare i veleni che hanno accompagnato e seguito la formazione delle liste centriste.
Il messaggio di Bagnasco che emerge in modo più netto è l'invito a non disertare le urne; a non fare promesse «incaute»; e a non trascurare l'impatto delle misure di rigore tanto necessarie quanto dolorose: naturalmente sullo sfondo di un'attenzione privilegiata ai «valori della vita». Per il resto, il capo dei vescovi sembra intenzionato, o forse obbligato a tenersi a distanza da uno scontro nel quale la Chiesa italiana ha molto da perdere. E rischia di sottolineare il suo affanno sia sul versante degli orientamenti elettorali, sia su quello della scelta degli interlocutori.
D'altronde, lo scontro fra i partiti è concentrato sull'emergenza economica. Del resto si parla poco o niente. E i dubbi sulla possibilità di consegnare l'Italia ad una maggioranza stabile dopo le elezioni del 24 e 25 febbraio rimangono intatti; anzi, a volte sembra quasi che aumentino. L'attacco di Monti contro il bipolarismo incarnato dal centrodestra di Silvio Berlusconi e della Lega e dal centrosinistra di Pier Luigi Bersani e Nichi Vendola non ha soste. E dopo che ieri il premier ha accennato alla possibilità di un governo di unità nazionale per fronteggiare problemi non risolvibili con «maggioranze ristrette», la reazione è stata dura. Se anche qualcuno teme un epilogo che non permetterà coalizioni stabili, ammetterlo in questa fase viene ritenuto un suicidio; comunque un tabù.
Un Pd che si sente ancora saldamente in vantaggio, in parte non rinuncia alle aperture di credito nei confronti di Monti; in parte lo punzecchia dandogli del presuntuoso e accusandolo di favorire indirettamente un Berlusconi a caccia degli astensionisti delusi dal Pdl. Ma soprattutto, la sinistra non gradisce le allusioni del presidente del Consiglio ad una possibile manovra correttiva in caso di vittoria dell'alleanza Pd-Sel. «Mi pare che dica che la manovra non ci sarà se c'è lui» a palazzo Chigi, ironizza Bersani. È di fronte al piano di riduzione graduale delle tasse e all'accenno ad un Pd «condizionato dalla Cgil», il capo del sindacato, Susanna Camusso, afferma: «Monti invia un messaggio minaccioso». La Chiesa non può che stare a guardare, inquieta per quello che si profila dopo il voto.

Repubblica 29.1.13
Perché la Cei chiama i cattolici alle urne
di Agostino Giovagnoli


La Chiesa non fa politica ma non rinuncia alla giustizia. Citando Benedetto XVI, il cardinal Bagnasco ha così sintetizzato la posizione della Chiesa nell´attuale momento politico-elettorale.
Qualche giorno fa l´affollata presentazione di un suo volume ha costituito l´occasione per manifestare una volontà concorde, da parte della Segreteria di Stato e della Conferenza episcopale italiana, riguardo alla situazione italiana. E ieri Bagnasco, al Consiglio permanente della Cei, ha ribadito che, in un momento così delicato e importante della vita del paese, la Chiesa vuole far sentire la sua voce. «La condizione di indigenza» del Paese «è sotto gli occhi di chi vuol vedere» e «si va obiettivamente allargando», ha sintetizzato con drammatica incisività. Ma ha anche aperto alla speranza dichiarando che «scongiurato il baratro, è il momento decisivo e irrimandabile per il rilancio». Tra l´abisso alle nostre spalle e un futuro ancora incerto, questo è dunque il tempo della mobilitazione di tutte le forze sane e vitali della società italiana. L´appello «a non disertare le urne» conferma che i vescovi italiani puntano su queste elezioni come occasione per una svolta profonda. La politica deve smettere di essere «una via indecorosa per l´arricchimento personale» e Bagnasco ha esortato la classe politica a «sfidare i propri vizi storici», denunciando però anche «i comportamenti popolari che resistono al cambiamento». Egli ha richiamato tutti ad affrontare problemi urgenti come questione sociale, disoccupazione giovanile, impoverimento della popolazione, welfare e sanità.
Le parole del presidente della Cei non sono, ovviamente, traducibili in termini politico-elettorali immediati, ma è inevitabile che si cerchi di trarne qualche indicazione. L´invito ad andare a votare implica una critica dell´antipolitica e, per estensione, una presa di distanza da Grillo e dalle sue invettive. Il rigore richiesto riguarda tutti i partiti, ma è evidente che casi di uso della politica a scopo di arricchimento personale sono emersi recentemente soprattutto nel Lazio e in Lombardia. E la condanna del «meccanismo consumi-spesa-debito pubblico» e della «logica delle illusioni che ha fatalmente mostrato la propria assoluta inadeguatezza morale e pratica» non suona come un´approvazione del berlusconismo.
È noto, inoltre, che i vescovi guardano con preoccupazione le posizioni del Pd sulle questioni antropologiche e sui temi bioetici. In una recente intervista a Famiglia cristiana, il cardinal Bagnasco ha sintetizzato la sua posizione dichiarando che, nei diversi schieramenti, i cattolici devono costituire la coscienza critica: a destra, ad esempio, devono ricordare «i valori della solidarietà» e, a sinistra, richiamare l´importanza dei «temi della bioetica».
Indubbiamente, le parole del presidente della Cei non costituiscono un endorsement alla lista Scelta Civica di Mario Monti. Ma non appare confermata quella distanza dall´iniziativa montiana che molti hanno attribuito alla Chiesa nelle ultime settimane. Ci sono, infatti, affinità di fondo nella lettura della situazione, soprattutto per quanto riguarda un nuovo slancio morale per rinnovare la politica italiana. Oltre a sintonie specifiche - ad esempio in materia di evasione fiscale - sono indicative anche le parole contro le «scorciatoie» e per una giustizia fondata sul merito. Per sostenere la sua idea di una futura collaborazione tra le diverse forze politiche, Monti potrebbe inoltre appellarsi all´affermazione secondo cui «non c´è rigore istituzionale degno di questo nome se non ci sono formazioni politiche che lo assumono su di sé, ciascuna con la propria sensibilità, ma alla fine su di esso sostanzialmente convergono». Di certo, per il cardinal Bagnasco la Chiesa non deve tacere ed egli incoraggia i cattolici che si impegnano per il bene del Paese. Ieri Giuseppe De Rita ha parlato di silenzio dei cattolici nell´attuale campagna elettorale e di una loro frammentazione nell´irrilevanza, perché subalterni ad una cultura statalista. Ma non sembra questa l´opinione del cardinal Bagnasco che ha definito «quantomeno ingiusto guardare con sufficienza o, peggio, ironizzare sull´afasia dei cattolici e dei Pastori».

Corriere 29.1.13
E’ legge l'Intesa con Buddisti e Induisti: l'Italia è un Paese multireligioso
di Marco Ventura


Entrano in vigore venerdì le leggi che regolano i rapporti tra lo Stato italiano e, rispettivamente, l'Unione buddista italiana e l'Unione induista italiana, sulla base delle intese sottoscritte tra il governo e le due confessioni. È un momento storico per il nostro Paese. Mai sinora il Parlamento aveva approvato accordi con confessioni non cristiane, con l'eccezione, nel 1989, delle Comunità ebraiche e, per chi non ritiene cristiani i mormoni, nel luglio scorso, con la Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni.
Il valore simbolico è alto per tutti gli italiani e non solo per i circa duecentomila interessati. Stipulando un patto con Buddisti e Induisti, lo Stato riconosce la multireligiosità della società italiana, riafferma l'eguale libertà di tutte le confessioni religiose, scritta in Costituzione, e attua il principio supremo di laicità, dedotto dalla Corte costituzionale. Da quando non è più cattolico, lo Stato italiano non ha una religione e non può avere preferenze religiose. Perciò tutela la libertà di ogni credente e di ogni credo. Un principio lineare, in teoria, ma di tortuosa applicazione.
Nel 1989 il Consiglio di Stato spianò la strada al riconoscimento dell'Unione buddista, sancendo che in Italia è una fede protetta anche quella di chi non è ebreo, cristiano o musulmano. Nel 2000 fu firmata l'intesa con i Buddisti, ma il Parlamento rimase muto. Nel 2007 vi fu una nuova firma, stavolta anche con l'Unione induista. Negli ultimi mesi infine, un pugno di parlamentari ha profittato della distrazione dei colleghi e ha chiuso la partita. La svolta simbolica è ora alla prova della realtà. Sta ai governi e al Parlamento continuare sulla strada intrapresa, a cominciare dall'approvazione dell'intesa firmata già nel 2000 con i Testimoni di Geova.
Sta ai Cattolici superare i seguaci di Budda e Dattatreya nei fatti, oltre che nelle verità rivelate. Sta a Buddisti e Induisti smentire il timore diffuso che il Paese si disgreghi senza il cemento cattolico, e dimostrare di non aver voluto l'intesa solo per riempirsi le tasche di otto per mille.

l’Unità 29.1.13
Ustica: «Fu un missile Adesso lo Stato paghi»
Secondo la Cassazione in sede civile non ci fu un’esplosione interna
La motivazione della condanna: «Non fu garantita la sicurezza dei cieli»
di Roberto Rossi


Non c’era nessuna bomba a bordo del Dc9 Itavia che il 27 giugno del 1980 si inabissò nel mare di Ustica. L’aereo non si disintegrò, come sostenne con forza l’Aeronautica militare accreditando la tesi dell’attentato, ma fu abbattuto da un missile. Dopo 33 anni di processi, depistaggi, false testimonianze, finte inchieste e vere assoluzioni, il punto definitivo sulla strage di Ustica, che costò la vita a 81 persone (77 passeggeri e quattro membri dell’equipaggio), lo ha messo ieri la Corte di Cassazione condannando, in maniera definiva, lo Stato a risarcire i familiari delle vittime per non aver garantito, con sufficienti controlli dei radar civili e militari, la sicurezza dei cieli. Ed è una sentenza storica, ancorché monca. Storica perché è la prima volta che, in maniera definiva, si accerta quello che il giudice Rosario Priore aveva già ipotizzato ma non dimostrato almeno 20 anni fa, e cioè che quella notte ci fu una battaglia nei cieli italiani, ma allo stesso tempo è una sentenza incompleta perché tutto questo avviene solo in sede civile ma non in quella penale. Per la giustizia italiana, dunque, l’aereo fu abbattuto ma da chi non si sa.
La decisione di ieri della Cassazione nasce da un ricorso a una sentenza di circa tre anni fa. Quella con la quale, il 14 giugno del 2010, il giudice palermitano Paola Proto Pisani condannò lo Stato a risarcire i familiari delle vittime di Ustica con 100 milioni di euro. In particolare il tribunale ritenne responsabili il ministero della Difesa, per le omissioni e i depistaggi compiuti da settori dell’Aeronautica, e quello dei Trasporti, per non aver garantito la sicurezza del volo.
Nelle motivazioni della sentenza di Palermo, oltre duecento pagine che ripercorsero tre decenni di inchieste, perizie e milioni di pagine processuali, si disse nero su bianco che nella notte del 27 giugno del 1980 sopra il Tirreno ci fu una vera e propria azione di guerra. Una battaglia, come detto, che coinvolse due caccia e un altro velivolo militare. Il giudice ne era certo, tanto da escludere, come poi ha accertato la Cassazione, la tesi della bomba. Di che nazionalità fossero i caccia che volavano parallelamente al Dc9, impegnato solo a seguire la sua rotta, e di chi fosse il velivolo militare che si nascose sotto la scia dell’aereo Itavia per non essere intercettato dai radar il giudice non lo scrisse.
I documenti e i tracciati che avrebbero potuto chiarire questi dubbi sono spariti da tempo. Ma, per la sentenza, nonostante i depistaggi e le omissioni, fu possibile raggiungere la certezza che sulla rotta del Dc9 quella sera c’erano almeno altri tre aerei. «Tutti gli elementi considerati scrisse il giudice Paola Proto Pisani consentono di ritenere provato che l’incidente si sia verificato a causa di un intercettamento realizzato da parte di due caccia di un velivolo militare precedentemente nascostosi nella scia del Dc9 al fine di non essere rilevato dai radar, quale diretta conseguenza dell’esplosione di un missile lanciato dagli aerei inseguitori contro l’aereo nascosto oppure di una quasi collisione verificatasi tra l’aereo nascosto ed il Dc9».
Per anni si è sostenuto e ipotizzato che su uno dei velivoli volasse Muhammar Gheddafi e che il missile fosse indirizzato proprio a lui. Nel 2007 l’ex-presidente della Repubblica Cossiga, all’epoca della strage presidente del Consiglio, attribuì la responsabilità del disastro a un missile francese «a risonanza e non ad impatto» destinato ad abbattere l’aereo su cui si sarebbe trovato il dittatore libico.
La tesi di un raid contro Gheddafi fu seguita fin da subito. Anche perché il 18 luglio del 1980 un Mig libico venne effettivamente ritrovato sui monti della Sila in zona Timpa delle Magare, nell’attuale comune di Castelsilano in Calabria. Il 12 febbraio 1992, poi, il quotidiano L’Ora di Palermo rintracciò e intervistò un testimone diretto, un maresciallo in servizio alla Nato. Nell’articolo si parlava di uno scontro aereo avvenuto tra due caccia F-14 Tomcat americano ed un Mig libico. Secondo questa versione, il Sismi, all’epoca comandato dal generale Giuseppe Santovito avrebbe avvertito gli aviatori libici di un progetto di attaccare sul Mar Tirreno l’aereo nel quale Gheddafi andava in Unione Sovietica. L’aereo con il leader libico tornò indietro, mentre gli altri aerei libici che lo scortavano proseguirono la rotta.
Quale che sia la verità la magistratura italiana, in sede penale, ha sollevato bandiera bianca. Magari dopo la sentenza della Cassazione qualcosa potrebbe cambiare, e l’inchiesta riaperta. Degli 81 passeggeri morti nella battaglia di Ustica 13 erano bambini. La verità non ha tempo.

l’Unità 29.1.13
La Francia deve dire tutto quello che sa
di Daria Bonfietti


CI TROVIAMO DAVANTI AD UNA SENTENZA che è significativa in sé sia per la condanna dei ministeri dei Trasporti e della Difesa per non
aver tutelato la vita dei cittadini, sia per la conferma di tutto l’impianto della sentenza ordinanza del 1999 del giudice Priore. Quella fu una sentenza che non si è voluto accettare, che si è voluto sminuire, si voleva far dimenticare. Ma oggi la sentenza della Cassazione mette davanti ad un preciso impegno, direi ad un obbligo, soprattutto la politica e i governi. E io chiedo anche all’opinione pubblica di continuare con noi questa battaglia. Ancora una volta dunque sappiamo che nei nostri cieli un aereo civile è stato abbattuto all’interno di un episodio di guerra aerea: è una verità che non possiamo più ignorare o fingere di ignorare. Il governo, invece di mandare l’Avvocatura dello Stato a perdere cause per opporsi ai parenti delle vittime, dovrebbe avere la dignità di intervenire presso i paesi amici e alleati per indurli a rispondere alle rogatorie che la stessa Procura di Roma ha inviato.
Ricordiamoci che è solo l’impegno della politicadei governiche oggi può darci verità. Ricordiamoci sempre che fu l’intervento del governo Prodi Veltroni a portare alla collaborazione la Nato.
E da lì venne la smentita allo scenario che ci voleva imporre l’Aeronautica di un vuoto assoluto intorno al Dc9. Gli aerei c’erano e i periti Nato li indicarono!
Oggi davanti ad una inchiesta penale della Procura di Roma, in seguito alle dichiarazioni di Cossiga che chiama in causa direttamente la Francia, aperta da qualche anno, abbiamo un silenzio assoluto dei paesi interrogati. Nessuno praticamente risponde alle rogatorie.
E allora davvero ci vuole un sussulto di dignità: bisogna non avere paura della verità e avere la forza per conquistarla, bisogna che i governi si impegnino e facciano la loro parte a livello diplomatico.
È possibile ad esempio che pensiamo di dare un supporto alla Francia per la sua impresa in Mali e non sappiamo chiedere un supporto per la ricerca della verità?

l’Unità 29.1.13
Il giudice Priore: ora la verità sugli autori della strage
di Saverio Franco


Rosario Priore ha legato il suo nome a Ustica. Il magistrato, oggi 74enne, per anni ha indagato sui responsabili di quella notte. Per anni si è scontrato con omissioni, silenzi, che hanno fatto sempre rimanere in un cono d’ombra gli autori materiali di quella strage. Per la quale, è bene ricordarlo, non si giunse mai a processo. L’unica inchiesta che il giudice riuscì a chiudere, nel 1999, fu per accertare le responsabilità dei tentativi di depistaggio, ipotesi di reato ascritte ad alti ufficiali dell’Aeronautica Militare.
Il processo che ne scaturì, però, si concluse nel gennaio del 2007, quando la Cassazione assolse gli unici imputati ritenuti colpevoli (anche se non perseguibili per sopraggiunta prescrizione) i generali Lamberto Bartolucci e Franco Ferri. Rosario Priore è stato uno dei primi a commentare la notizia. «Questa sentenza ha detto il giudice può rappresentare un punto di partenza per arrivare alla verità storica nel caso della strage di Ustica. Con la sentenza di ieri ci troviamo di fronte, però, a una situazione di contrasto tra due giudicati, uno di sezione penale e l’altro proveniente da sezione civile. Mi auguro che questo contrasto sia risolto, altrimenti ne va della credibilità della nostra giustizia».
Ma quella di Priore non è stata l’unica reazione. «La Cassazione ha detto invece Walter Veltroni che lo scorso anno aveva chiesto con una lettera di riaprire il caso scrive una pagina importante sulla strage di Ustica. Finalmente la lunga teoria dei depistaggi e delle false teorie viene spazzata via. Si riconosce che quella terribile strage è stata causata da un missile, che attorno a quell’aereo abbattuto col suo carico di vittime e di dolore fu combattuta una battaglia sui cieli italiani». «È benvenuta la decisione della Cassazione: un po’ di luce, finalmente» ha scritto Nichi Vendola, presidente di Sinistra Ecologia Libertà, su Twitter. Su Ustica «le famiglie e l’Italia aspettano ancora una parola definitiva. La Cassazione potrebbe averla data», ha detto il segretario del Pd Pierluigi Bersani. «Rispetto della magistratura, naturalmente ha aggiunto adesso cerchiamo di leggere anche questa sentenza per vedere quali passi avanti siano stati fatti sulla strada della verità».
Si spinge un po’ più oltre Andrea Purgatori il giornalista che per anni segui peil caso. «Adesso, con questa sentenza, la palla passa alla politica. Uno dei primi punti nell’agenda del prossimo Presidente del Consiglio dovrebbe essere un incontro con il presidente francese per spingere Hollande a rivelare una volta e per tutte quello che ormai è un segreto di Pulcinella: il missile con il quale è stato abbattuto il Dc-9 proveniva da un aereo militare transalpino». Un atto non solo simbolico. Nel diritto penale italiano il reato di strage non cade mai in prescrizione per cui, nell’eventualità che dovessero emergere nuovi elementi, l’istruttoria potrebbe in qualunque tempo riaprirsi.

il Fatto 29.1.13
L’inferno dei clochard corre sotto la Capitale
Viaggio nei nascondigli dei disperati senza casa tra l’indifferenza della Roma di Alemanno
di Andrea Palladino


Lì sotto è un inferno, io non ci scendo più”. L’anziano clochard che siede ai bordi di Corso d’Italia, a due passi dal salotto buono di via Veneto, non ha nessun dubbio: “Meglio, molto meglio questo marciapiede che quei cunicoli sotto la strada”. Mostra il telone impermeabile con orgoglio, si sistema gli occhiali da presbite e riprende a leggere il romanzo rosa che sembra uscito da un’edicola degli anni 80.
ROMA, quadrilatero tra le vie della dolce vita, l’ambasciata Usa, quella britannica e la zona delle banche più importanti, tra grandi magazzini, qualche cinema e le sedi dei tre principali sindacati. Qui sono morti avvolti dalle fiamme due giovani somali, fuggiti dalla guerra civile, diventati invisibili nella Capitale di quello stesso Stato che per decenni li ha dominati. Non hanno ancora un nome, forse non lo avranno mai. Li hanno tirati fuori dalle fiamme nella notte tra sabato e domenica, infilati in un’uscita di sicurezza del tunnel sotterraneo su Corso d’Italia, una delle arterie più trafficate della Capitale. Come tantissimi homeless avevano costruito un bivacco di fortuna cercando riparo sulle scale che scendono nel ventre di Roma, mettendo insieme i cartoni - i più economici isolanti per l’inverno - qualche coperta e le poche cose che li aiutavano a vivere. Forse un fornelletto ad alcol, come racconta qualcuno, o forse un fuoco improvvisato per tentare di vincere il freddo: per la polizia non ci sono dubbi, l’incendio che li ha avvolti e uccisi è accidentale. Nessun piromane, nessuna aggressione razzista. Una storia di indifferenza e solitudine nella Roma dei salotti eleganti.
A cinquanta metri dal cunicolo c’è Porta Pia, il varco usato dai bersaglieri il 20 settembre del 1870. Pochi metri dopo, verso via XX Settembre, c’è una seconda uscita di sicurezza del tunnel stradale, un altro cunicolo pieno di cartoni e giacigli improvvisati, a meno di cento metri dall’elegante ambasciata britannica. Una trappola in tutto e per tutto uguale a quella che ha ucciso i due somali.
Entrando l’odore è acre, dal fondo il gas di scarico delle automobili che sfrecciano sotto Corso d’Italia sale verso i due posti letto avvolti dai cartoni, con uno specchio rotto usato per quel minimo di pulizia del mattino. Qualche coperta, un materasso, materiale che potrebbe in una delle prossime notti gelide romane trasformarsi in una torcia di fuoco. Qui nessun assistente sociale scende. I gradini che portano verso il ventre del quartiere sono il passaggio esclusivo dell’esercito degli invisibili. Nei cunicoli - tutti uguali, tutti luridi e invasi dal gas e dall’odore delle urine - c’è la Roma che sfugge a qualsiasi statistica.
DOMENICA mattina la vice di Alemanno, Sveva Belviso, si è appellata ai romani: “Segnalateci i casi di disagio nascosti che possono essere raggiunti dai servizi sociali”. Parole paradossali, visto che mentre la polizia mortuaria portava via i due cadaveri carbonizzati nessuno scendeva negli altri sottopassi, per “raggiungere” gli invisibili. Tutti sanno dove si nascondono e come vivono. Lo sanno, li conoscono, li evitano. E anche se qualcuno volesse davvero avvicinarli, nessuno saprebbe dove ospitarli: nella Roma di Alemanno per loro non cè spazio. Sotto sì.
La domenica mattina nella Capitale dei salotti buoni, attorno al rogo c’erano solo le volanti della polizia e le telecamere di qualche tv. Per queste strade i bambini già festeggiano il carnevale. Tra via Veneto e villa Borghese, le prime maschere della stagione si sfidano con qualche stella filante. Nessuno, tra gli abitanti del quartiere, mostra sorpresa per quello che è accaduto. Disinteresse e paura sì. I somali, gli homeless, i senza casa e senza storia che si nascondono vicino alle mura aureliane varcate dai bersaglieri sono prima di tutto un fastidio.
“Lì giù ci sono anche i nomadi”, sostiene con assoluta certezza un commerciante di via Nizza, convinto elettore del centrodestra. “Tutti lo sanno che i somali dormono nelle uscite di emergenza - prosegue - e la prossima volta il mio voto Alemanno non lo vede”. Il sindaco di Roma nel 2008 promise sicurezza e “pulizia”, dimenticando quel briciolo di solidarietà che gli homeless trovano nelle capitali più moderne. Oggi, nel salotto buono della Roma distratta, c’è un nuovo macabro monumento, chiuso tra due pareti sporche di fumo.

La Stampa 29.1.13
Finti poveri, veri ladri per rubare i posti negli asili di Roma


Poveri, ma solo quando si tratta di iscrivere i figli al nido. Chiedevano esenzioni alla retta, precedenza nelle liste di attesa, la mensa gratuita e arrivavano a compilare la domanda magari sfrecciando su un potente Suv. Storie di ordinario malcostume? Qualcosa di più, una truffa alla collettività, soprattutto in un momento come questo dove ci sono famiglie che fanno veramente fatica ad arrivare alla fine del mese e spesso non ci arrivano. Per non parlare dei conti dello Stato e dei fondi a disposizione delle politiche sociali.
3556 falsi poveri, parassiti come li definiscono alla Guardia di Finanza, primo gruppo Roma coordinato dal comando provinciale. Si tratta di soggetti che hanno «indebitamente beneficiato di prestazioni sociali agevolate» come l’accesso ad asili nido e altri servizi per l’infanzia, la riduzione del costo delle mense scolastiche, i buoni libro per studenti e le borse di studio, i servizi socio-sanitari domiciliari e le agevolazioni per servizi di pubblica utilità, luce, gas o trasporti. Tutti denunciati per false dichiarazioni. «L’attuale periodo di crisi ci ha obbligato ad innalzare il livello di attenzione sui temi della tutela delle risorse dello Stato», ha dichiarato il Comandante Generale della Guardia di Finanza, Generale di Corpo d’Armata Saverio Capolupo. «Le istituzioni sono molto più impegnate ad individuare le migliori pratiche per ridurre sprechi e inefficienze ed anche l’opinione pubblica è più attenta di fronte agli episodi di mala gestione o di sperpero delle risorse».
Una truffa allo stato ma anche alle persone che onestamente dichiarano il vero e si trovano escluse magari dagli asili nido.
«Sui grandi numeri c’è una certa percentuale di impunità e la gente ci prova», dicono sconfortati alla Guardia di Finanza. I controlli avvengono a campione o su segnalazione e si mette a confronto l’indicatore della situazione economica equivalente (Isee) dichiarato con i dati a disposizione sulle banche dati: redditi, patrimonio e immobili. E le scoperte sono state tante. Gente che dichiarava di essere nullatenente e senza redditi, aveva da poco acceso un mutuo per una casa o si era comprato una macchina potente. Tra questi anche liberi professionisti. Molti di loro chiamati per chiarimenti sulla posizione spesso hanno risposto con faccia tosta che si erano sbagliati a compilare le autocertificazioni.
Le frodi alla previdenza e al sistema assistenziale scoperte dalla Finanza sono costate allo Stato 103 milioni e hanno portato alla denuncia di 9.632 persone. Fondi andati ai 1.047 falsi invalidi e ai 3.297 falsi braccianti agricoli o spesi per pagare la pensione a persone morte da tempo (395 casi), gli assegni sociali (569 casi) ed altre tipologie di sostegno (655 casi). Quanto alle truffe al Servizio sanitario nazionale, è stato accertato un danno erariale di 72 milioni e sono stati effettuati 2.550 controlli (1.781 denunciati). Infine, la Finanza ha effettuato quasi mille verifiche tra i dipendenti pubblici, segnalandone 1.274 per incompatibilità o doppio lavoro. Complessivamente sono state erogate sanzioni per 15 milioni di euro.

Corriere 29.1.13
Autoprocesso nella Sala dei mutilati. Le divisioni del Pd davanti ai senesi
Le domande dei cittadini e gli attacchi agli ex Margherita (assenti)
di Marco Imarisio


SIENA — Esserci, ci sono quasi tutti. Alla seduta di autocoscienza del Pd senese si sta stretti, anche sulle scale.
Oltre 400 persone di lunedì sera, in una sala che può tenerne al massimo un centinaio, un successo per una assemblea convocata un giorno per l'altro, con una fretta che rivela un certo timore per l'esito delle prossime elezioni amministrative e soprattutto la consapevolezza di essere ormai divenuti una questione di politica nazionale. «E chi se lo aspettava, di vedere il Franco Ceccuzzi in mondovisione» bofonchia un vecchio sindacalista in coda con l'orecchio teso al pianterreno per sentire quel che esce dalle finestre di sopra.
Ma ieri l'impressione era di un tuffo nel passato, più o meno recente. La Sala dei mutilati, gloriosa istituzione cittadina che spesso è approdo di eventi organizzati alla buona, sembrava una Casa del popolo, come le raccontavano i nonni di una volta. Mancava qualcuno, all'incontro con i cittadini, mancavano i soliti sospetti. Quelli che sono stati già designati come i colpevoli politici: i cattolici del Pd, gli ex della Margherita, difficile rendere l'idea della smorfia di disprezzo collettiva che in sala accompagnava l'evocazione dell'incolpevole fiore. «Perché Mussari avrà le sue colpe» ha detto un militante giunto apposta dalla Maremma profonda. «Ma il grande nemico si chiama Monaci», nel senso di Alberto, presidente del consiglio regionale toscano, democratico ex democristiano di lunghissimo corso nonché fratello di Alfredo, candidato nella lista di Mario Monti. «E Franco», questa volta nel senso di Ceccuzzi, sindaco uscente e ricandidato, officiante dal palco, «ha il merito di aver tenuto testa a questa banda che sosteneva Mussari e gli altri». Ovazione.
Senza alcuna ironia, perché i drammi veri meritano rispetto: ma la vita politica cittadina in questi giorni riserva notevoli sorprese, a partire da una presa d'atto. Il Partito democratico, a Siena, non è mai nato. L'amalgama tra le due componenti, ex Ds ed ex Margherita, ex comunisti ed ex democristiani, non è dei più riusciti. Si odiano, a farla breve. E non da ieri. Figurarsi adesso, che c'è da rimpallarsi le colpe sulle vicenda Mps, roba da influire sulle sorti del partito nazionale.
«Noi stiamo facendo autocritica» ha detto Ceccuzzi, che in questi giorni ha ricevuto una patente di purezza per aver sponsorizzato la sostituzione al vertice di Mps di Mussari, del quale è stato testimone di nozze e «migliore amico» per oltre vent'anni. «Ma speriamo che si faccia avanti anche qualcun altro. Nel Pd mancano tanti protagonisti all'appello...».
I nomi sono indicati sull'opuscolo distribuito all'ingresso, venti domande e venti risposte del candidato sindaco su Mps. Sono quelli dei consiglieri comunali della maggioranza «che votarono contro la mia richiesta di discontinuità» e pochi mesi dopo fecero cadere la giunta dall'interno. Alcuni di loro, sospesi ma non espulsi dal Pd, sono nelle liste civiche che sostengono l'avversario di Ceccuzzi alle prossime amministrative. Anatema: «Personaggi contrari al cambiamento, che dovrebbero chiedere scusa alla città».
Alla fine questo disprezzo così evidente nella sala gremita si tramuta in una doppia debolezza. L'intento della serata non era solo quello di fornire spiegazioni alla cittadinanza. Anche la voglia di tirarsi un po' su ha giocato la sua parte. Anche per questo la quota di truppe cammellate convocate per l'occasione era notevole. Nonostante una folla amica, non tutto è filato liscio, qualche dissidente ha mostrato segni di insofferenza piuttosto marcata.
«Io il Ceccuzzi non lo voglio sentire» è stata l'esclamazione di un distinto signore che se n'è andato mentre il «suo» candidato prendeva la parola per l'introduzione. Si è comunque perso una auto critica già sentita, che ha riservato la novità di un attacco ai sindacati della banca. Anch'essi, secondo Ceccuzzi, grandi sostenitori del pagamento cash di Antonveneta invece di un più ragionevole concambio che avrebbe diminuito la quota di azioni «senesi» in Fondazione. «C'era l'egemonia di questa posizione autoreferenziale che alla fine ha danneggiato sia la città che la forza lavoro del Monte».
Le domande dei cittadini non prevedono risposta. Sono esortazioni, inviti ad agire, ma non si sa come. C'è un'aria di smarrimento evidente, sul palco e in sala. Tutti si conoscono e si chiamano per nome. Ma in questi giorni c'è sempre qualcuno che canta fuori del coro, che del mea culpa non ne ha mai abbastanza. «In buona o cattiva fede, il Pd ha un conflitto di interessi naturale che non ha ancora risolto. Le nomine in Fondazione e in Banca le fate voi. Non può essere normale che ogni sindaco o assessore uscente sia poi diventato capoufficio di qualche divisione Montepaschi». Eugenio Nocito, bancario in pensione fa il pieno di applausi. Sul palco, Ceccuzzi muove la bocca. Non si capisce se è un sorriso o una smorfia. Per essere una partita che si giocava in casa, poteva andare meglio.

Repubblica 29.1.13
Piero Terracina, 84 anni: parole ignominiose, le leggi razziali sono state l’apice di una tragedia
La rabbia del reduce di Auschwitz "Il fascismo fu solo sopraffazione"
Come dimenticare l’omicidio Matteotti, i fratelli Rosselli, l’olio di ricino? Non è solo sbagliato, è pericoloso
di Gabriele Isman


ROMA - «Le parole di Berlusconi? Un´ignominia». Piero Terracina, 84 anni, il numero A5506 tatuato sul braccio ad Auschwitz, reagisce con dolore all´uscita del Cavaliere.
Le ferite non si rimarginano mai, come diceva Shlomo Venezia, un altro sopravvissuto morto pochi mesi fa?
«A 9 anni - racconta - fui cacciato da scuola, mio padre perse il lavoro. Le leggi contro gli ebrei furono 87. Il 7 aprile del 1944 fui arrestato dalle Ss accompagnate da due fascisti: erano italiani che avevano venduto me e i miei familiari, e sapevano benissimo che non saremmo tornati vivi. Agivano a volto scoperto: il regime pagava 5 mila lire per ogni ebreo arrestato. Finimmo ad Auschwitz nel maggio del 1944, dopo sei giorni e sei notti di viaggio su un vagone piombato. Le chiamate per le camere a gas erano ogni 15 giorni, e noi sapevamo. Cercavamo soltanto di sopravvivere. Fui liberato il 27 gennaio 1945, ma di otto persone della mia famiglia ero l´unico sopravvissuto, solo e disperato».
Cosa l´ha ferita delle frasi di Berlusconi?
«Le leggi razziali furono soltanto l´apice di una vergogna, ma come si può dimenticare l’omicidio Matteotti, i fratelli Rosselli, l’olio di ricino? Il fascismo fu sopraffazione degli altri, e null´altro. Sostenere il contrario è sbagliato oltre che pericoloso».
Perché pericoloso?
«Perché è pericoloso rischiare di avere nuovamente un capo di governo ignorante. Voglio sperare che la gente lo capisca. Sa cosa diceva Primo Levi? Spiegava che il fascismo fu una comune malattia contagiosa: se non lo fermiamo subito diventa inarrestabile, diceva. E purtroppo oggi le norme italiane non sono adeguate: la legge Mancino non basta. In Germania tutto questo non accade, perché c´è più coscienza di quanto accadde».
Riccardo Pacifici, presidente della comunità ebraica romana, ha rilanciato più volte l´allarme per l´Ungheria dove il partito Jobbik conta 43 deputati che, con le camicie brune addosso, vogliono le liste di proscrizione per gli ebrei. C´è il rischio in Europa di ritorno ai giorni bui?
«Purtroppo non c´è soltanto l´Ungheria. Quante profanazioni di sinagoghe e cimiteri ebraici vi sono state in Francia e Belgio? E Alba Dorata dalla Grecia sta arrivando anche in Italia. L´intolleranza è un male non ancora stroncato. È bene che i giovani siano messi in guardia da questi pericoli. Io ho 84 anni, ricordare e testimoniare mi costa, ma è importante che si sappia cosa è stato per quel periodo. Berlusconi con quelle parole si presta a essere un megafono dell´intolleranza».
Come si superano quei traumi?
«Non si superano mai veramente, perché non si può dimenticare. Io ho vissuto due vite, e in quel campo c´erano soltanto la violenza e la morte: la prima vita ogni tanto si ripresenta ancora oggi, anche di notte. I prigionieri venivano sopraffatti, disumanizzati. Per questo le leggi razziali furono un´ignominia».

Repubblica 29.1.13
L'Anpi, per non dimenticare le stragi naziste


ROMA - "Le stragi nazifasciste del 1943-45, tra memoria, responsabilità e riparazione" è la tavola rotonda organizzata dall´Anpi, la storica associazione dei partigiani italiani, in programma alle 16 di oggi a Roma, alla Biblioteca del Senato intitolata a Giovanni Spadolini (piazza della Minerva, 38). Secondo gli organizzatori, sia il governo italiano che quello tedesco devono finalmente assumersi la responsabilità di concreti atti di riparazione per le vittime. All´incontro partecipano non solo storici ed esperti della materia, ma i sindaci dei Comuni più colpiti dalle stragi. Tra gli altri prendono la parola il procuratore militare di Roma Marco De Paolis e il penalista Andrea Speranzoni. Le conclusioni sono affidate a Carlo Smuraglia, presidente nazionale dell´Anpi.

La Stampa 29.1.13
Due miliardi per l’Europa della Ricerca
Neuroni e grafene: ecco i progetti per il XXI secolo finanziati dall’Ue
E l’Italia è tra i protagonisti
di Marco Zatterin


Ci volle Ippocrate perché si confutasse la tesi aristotelica che vedeva nel cuore il motore del pensiero. Fu proprio il padre della medicina a spostare nella testa il centro della vita intellettuale, a rivoluzionare i fragili indirizzi elaborati in decenni di scienza primitiva.
Ventiquattro secoli più tardi viviamo fra i computer, abbiamo fatto passi da ciclopi nello studio del corpo umano, eppure la complessità della materia grigia continua a costituire un mistero. Al punto che l’Europa è pronta a metterci su un miliardo tondo per capirne sino all’ultimo segreto. Lo strumento è lo «Human Brain Project», nome che avrebbe fatto la delizia di scrittori di cose futuribili come Bradbury o Asimov.
Punta a un approfondito studio del cervello, con l’obiettivo finale di configurarne il «più accurato modello mai fatto». Con il gemello «Graphene», che invece si concentrerà sul materiale del futuro a base di carbonio, apre l’offensiva con cui l’Europa vuole riportare la sua Ricerca al centro della scena. Valgono 500 milioni l’uno di investimenti, più altrettanti di fondi messi dagli Stati. Due miliardi, in totale, per non restare indietro.
La guerra della Ricerca è agguerrita, i rivali d’oltreoceano sono in vantaggio, il divario che separa la qualità dei due continenti si è andato allargando. L’Ue ha anche perso punti nella partita per l’innovazione nei confronti di Giappone e Corea, e ora sente il fiato dei cinesi. Di qui la voglia di rifarsi e la disponibilità più che generosa a aprire la borsa.
Nell’ambito del progetto Horizons 2020 l’Ue ha lanciato il piano Fet, «Tecnologie future ed emergenti». Sono state cercate le «Flagship», gli alfieri del programma attraverso l’esame di ventuno possibilità. Dopo 2 anni e mezzo ne sono rimaste due.
«Graphene» coordinerà 126 gruppi di ricerca. Sarà un consorzio aperto, concentrato su comunicazioni e tecnologie energetiche. Il progetto «Cervello umano» riunisce invece scienziati di 87 istituzioni e 23 Paesi. Con 10 anni davanti, costruiranno una copia del cervello in un supercomputer e lo utilizzeranno per simularne il funzionamento e le reazioni. Una volta realizzato il clone informatico dell’encefalo, sarà manovrato per sviluppare nuove terapie, ma anche per incidere nella programmazione, per avere cervelli elettronici a misura di quelli umani.
Il direttore sarà uno svizzero del Politecnico di Losanna. Cinque i partecipanti italiani: Consorzio Cineca; Laboratorio europeo per la spettroscopia non lineare; Politecnico di Torino; Ordine di San Giovanni di Dio Fatebenefratelli; Università di Pavia. Lo «Human Brain Project» raccoglierà e integrerà dati sperimentali, cercando di individuare e colmare le lacune nelle nostre conoscenze. Nel campo della medicina i risultati del progetto potrebbero contribuire a diagnosi migliori: le malattie cerebrali, nota la Commissione, provocano ogni anno più vittime di cancro, diabete e cuore messi insieme.
Nell’informatica, invece, si inseguono avanzate tecniche di supercalcolo interattivo: «Il cervello - dice la Commissione - si basa su milioni di unità di processori e consuma meno d’una lampadina». Morale facile: usiamo il cervello, vivremo in un mondo migliore.

Corriere 29.1.13
Usa, c'è l'accordo sull'immigrazione Sanatoria per 11 milioni di irregolari
Intesa fra destra e sinistra, primo passo verso la nuova legge
di Massimo Gaggi


NEW YORK — La parola amnistia non è mai stata pronunciata, ma è proprio su questo che è stato raggiunto un accordo di massima al Congresso: dire che la sospirata riforma dell'immigrazione sia a portata di mano è quantomeno prematuro, ma è la prima volta da sei anni a questa parte che in Parlamento destra e sinistra lavorano insieme per affrontare una situazione che, lasciata incancrenire per anni, si è fatta esplosiva. Ed è la prima volta che i repubblicani accettano l'idea di una sanatoria per gli oltre 11 milioni di immigrati clandestini che vivono negli Stati Uniti, sia pure con una serie di condizioni e previo un rafforzamento dei meccanismi di sorveglianza lungo le frontiere del Paese.
Barack Obama, che oggi illustrerà le sue idee per sottrarre i lavoratori stranieri alla clandestinità durante un incontro a Las Vegas, aveva posto questo suo progetto al centro del discorso inaugurale del suo secondo mandato presidenziale, una settimana fa a Washington. E venerdì era già sceso in campo, incontrando le organizzazioni degli ispanici. Incalzati dalla Casa Bianca, consapevoli di aver perso le elezioni anche per la loro scarsa popolarità presso le minoranze etniche — soprattutto i «latinos» — i leader repubblicani hanno cambiato rotta sottoscrivendo un'intesa di massima coi democratici.
Tradurre i principi in una legge vera e propria non sarà impresa facile né rapida, i rischi di un altro fallimento restano elevati: ribellioni nei gruppi parlamentari, soprattutto quello conservatore, ne abbiamo già viste diverse. L'ultima un mese fa su tasse e tagli di bilancio. Ma stavolta il clima sembra davvero differente. L'accordo presentato ieri è stato siglato dalla cosiddetta «Gang degli otto» che, da parte repubblicana, comprende i senatori più rappresentativi: l'ex candidato alla Casa Bianca John McCain, Marco Rubio, uno dei più autorevoli giovani leader del partito che è di origine cubana, e Lindsay Graham della South Carolina.
Molti pensano che, ancora una volta, potrebbe essere la Camera — dove sono più numerosi i parlamentari della destra radicale, eletti col sostegno dei Tea Party — a far fallire l'accordo. Ma Paul Ryan, l'altro giovane leader del partito, l'uomo della destra integralista che aveva affiancato Mitt Romney nel «ticket» presidenziale dei repubblicani, ha deciso di sostenere l'intesa. E Ryan è molto influente alla Camera.
Presentando il piano il senatore Charles Schumer, il suo promotore dal lato democratico, si è detto ottimista perché, anche se la storia del dibattito politico sull'immigrazione è costellata di fallimenti, stavolta tutti sono d'accordo almeno su una cosa: al punto in cui sono arrivate le cose, non far niente è molto più pericoloso che agire.
Le proposte presentate ieri non sono molto diverse da quelle di bozze circolate sei o sette anni fa e poi riposte nel cassetto dopo gli scontri che resero impossibile ogni intesa. «Oggi, invece, le condizioni politiche per un accordo sembrano esserci» ha spiegato Schumer, ma si può arrivare in porto solo con un patto «bipartisan» nel quale ognuno cede su qualcosa. McCain si è detto subito d'accordo con lui e ha ricordato ai suoi compagni di partito che i repubblicani hanno perso le elezioni di novembre soprattutto perché non hanno catturato il voto degli ispanici che pure — da comunità con un forte spirito religioso composta in gran parte da lavoratori autonomi e piccoli imprenditori — dovrebbero essere vicini alle idee dei conservatori.
L'intesa siglata che — secondo gli obiettivi che si sono dati i parlamentari — dovrebbe essere trasformata in testo legislativo entro marzo ed essere approvata almeno dal Senato entro l'estate, prevede un percorso di integrazione dei lavoratori stranieri e di riforma dell'immigrazione basata su tre pilastri: 1) Maggiore «blindatura» delle frontiere, con un uso massiccio di aerei senza pilota per sorvegliare le regioni di confine ed evitare il ripetersi di fenomeni migratori illegali, una volta sanata la situazione attuale. 2) Concessione agli stranieri senza documenti che già lavorano negli Usa di un permesso temporaneo di lavoro, primo passo di un processo di legalizzazione permanente che passerà per il pagamento di una multa e delle tasse. Per poter restare permanentemente negli Usa dopo un periodo di prova, questi immigrati dovranno imparare l'inglese e sottoporsi a un'ulteriore serie di controlli. 3) Chi è entrato negli Usa illegalmente non potrà comunque avere la precedenza sui migranti legali che hanno rispettato le regole, ma pare siano previste eccezioni per i lavoratori agricoli stagionali e per i figli di immigrati clandestini che sono entrati illegalmente nel Paese da piccoli senza rendersene conto.

l’Unità 29.1.13
L’Ungheria anti-semita che dovrebbe allarmare la Ue
Il parlamentare Pd, dopo la visita a Budapest: «L’opposizione comincia a organizzarsin per scongiurare la vittoria di Orban nel 2014»
di Sandro Gozi


Avete mai sentito parlare del “centro politico nazionale?”», ci chiede Lazlo Kovacs, figura storica dei socialisti ungheresi, che avevo conosciuto come Commissario europeo a Bruxelles nel 2004. Noi, vari parlamentari europei e israeliani riuniti a Budapest per manifestare la nostra preoccupazione per l’antisemitismo crescente in Ungheria, ci guardiamo sorpresi. No, non ne avevamo sentito parlare. Ma ora ci è più chiaro quanto sia pericoloso il disegno autoritario di Orban, che ha una data chiave: elezioni 2014. Orban mira a confermare la sua maggioranza, oggi talmente vasta, due terzi, da poter varare una nuova Costituzione con i soli voti del proprio partito. Passo importante per costruire il suo «centro politico nazionale», un reticolo di influenza politica, economica e mediatica volto a garantire che Fidesz, il partito di maggioranza, rimanga stabilmente al potere.
Contestata dalla stessa Commissione europea su più punti, solo in parte modificati, la Costituzione dà a Orban un potere enorme sui media, sulla scelta dei presidenti della Corte Costituzionale, della banca centrale, sulla magistratura... È l’apice di un sistema di controllo clientelare assolutamente capillare e pervasivo in tutto il paese e che passa anche attraverso la riforma elettorale e la riduzione degli spazi mediatici nelle prossime elezioni. La vicenda di Klubradio, unica radio di opposizione che Orban ha tentato incessantemente di far chiudere è solo il caso più emblematico. Fidesz mira ad acquisire nuovo consenso guardando all’elettorato di Jobbik. Di qui la sua reazione debole e tardiva all’odioso antisemitismo di Jobbik, che ha chiesto addirittura in parlamento di redigere una lista dei membri ebrei del parlamento e del governo, poiché sarebbero un «rischio alla sicurezza nazionale». Euroscetticismo, xenofobia e razzismo, innanzitutto contro rom definiti come “subumani” da un suo esponente ed ebrei caratterizzano così sempre di più anche Fidesz: «Noi non crediamo nell’Unione europea, crediamo nell’Ungheria...», ha dichiarato Orban.
Di fronte a questo, le opposizioni cominciano ad organizzarsi. I socialisti puntano sul rinnovamento interno, per evitare di ripetere i gravi errori politici compiuti quando erano al governo. Gli ecologisti liberali di «Fare una politica diversa» rappresentano la quarta forza in parlamento, con 16 deputati. Ma soprattutto, le organizzazioni civiche che avevano dato vita a grandi manifestazioni di protesta il 23 ottobre 2012 si sono riunite in un’alleanza «Insieme 2014», sotto la guida dell’ex premier ungherese Gordon Bajnai, giovane economista di 44 anni.
EUROPA TROPPO CAUTA
L’obiettivo è mobilitare gli ungheresi delusi e disinteressati dalla politica, anche se l’eliminazione del ballottaggio, sempre nel disegno di Orban, renderà senza dubbio più difficile la creazione di una vasta alleanza elettorale alternativa a Fidesz. Quello che accade a Budapest ci riguarda direttamente. Ecco perché ci siamo andati dall’Italia, Francia, Inghilterra, Austria, Belgio e Israele. Preoccuparsi è
doveroso, agire non è un’ingerenza negli affari interni di un paese. Perché questi non sono (più) affari interni: in una comunità politica in divenire come l’Europa, linguaggio e azioni che violano i valori costitutivi dell’Europa stessa impongono una reazione da parte di tutti. La violenza delle parole, nella storia del nostro Continente, ha spesso portato a terribili tragedie. Fare finta di niente equivarrebbe a legittimare razzismo, antisemitismo e autoritarismo anche in altre parti d’Europa. Sino ad oggi, le reazioni della Commissione Ue e del Parlamento europeo sono state fin troppo misurate, mentre i capi di stato e di governo europei fanno finta di non accorgersi di quanto sta accadendo. Né lo ha fatto il Ppe, in cui siede Berlusconi e a cui guarda Monti, che sta veramente giocando con il fuoco. Un fuoco che noi democratici dobbiamo invece aiutare tutte le opposizioni ungheresi a spegnere rapidamente. Se è impossibile concepire l’Europa senza Ungheria, è altrettanto impossibile tollerare odio, violenza e antisemitismo nel cuore della nostra Unione.

l’Unità 29.1.13
I francesi a Timbuctù. In fiamme la biblioteca
L’ultimo sfregio degli islamisti prima di lasciare la città patrimonio dell’Unesco senza fare resistenza
Il presidente Hollande: «In Mali stiamo vincendo, ora tocca agli africani»
Ma la strada resta ancora in salita
di Roberto Arduini


Era già successo l’anno scorso, quando gli islamisti entrati a Timbuctù avevano devastato i suoi monumenti e la sua storia. La millenaria città sahariana, antico crocevia di commerci e di culture, mitizzata dagli europei e venerata come santa dai mussulmani è si nuovo sfregiata. Nella «città dei 333 santi» gli estremisti islamici hanno dato alle fiamme un edificio che conteneva antichi e preziosi manoscritti prima di fuggire all’arrivo delle truppe francesi e maliane. «Un vero crimine culturale è accaduto 4 giorni fa», ha denunciato il sindaco della città, Ousmane Halle, esprimendo la sua preoccupazione che molti libri e documenti antichi possano essere andati distrutti. Il sindaco ha riferito di aver ricevuto la notizia dal suo responsabile comunicazioni, fuggito nel sud del Paese un giorno fa. Ousmane non è stato in grado di quantificare l’entità del danno, ma «è davvero allarmante. È la storia di Timbuctù e della sua gente». Riconquistata ieri, Timbuctù era da nove mesi sotto il controllo degli estremisti.
LA PERLA DEL DESERTO
L’oro arrivava dal sud, il sale dal nord e la conoscenza da Timbuctù, recita un antico proverbio africano. La città si è ben meritata il titolo di «Perla del deserto»: a partire dal XIV secolo, divenne un importante centro di commercio, mettendo in comunicazione Mediterraneo e Medio Oriente con l’Africa sub sahariana. Aveva una popolazione di oltre 100mila abitanti, di cui 2500 studenti riuniti attorno alla moschea di Sankoré e alle altre 180 tra moschee, università, biblioteche e scuole coraniche. A Timbuctù, dove secondo la leggenda sarebbero sepolti 333 santi mussulmani, oggi si conservano quasi 100mila manoscritti conservati per secoli. «I ribelli hanno appiccato il fuoco all’istituto Ahmed Baba appena costruito», ha raccontato Ousmane. Il centro è intitolato al grande studioso locale del XVI secolo che scrisse, secondo le cronache, circa 700 libri e possedeva una biblioteca personale di 1600 volumi (che per sua stessa ammissione non era la più grande della città). Ospita 18mila manoscritti antichi, alcuni risalenti addirittura al 1200, fu fondato nel 1970 e dal 2009 era ospitato nella nuova sede di 4.800 metri quadrati. La maggior parte dei manoscritti, in arabo e in lingue africane, trattano di medicina, astronomia, diritto, storia, geografia, poesia e letteratura, molti dell’era preislamica, oltre ad alcune opere di Avicenna. La maggior pare dei volumi ha un valore inestimabile. Solo pochi erano stati digitalizzati, dunque si teme che la maggior parte di essi sia andata persa per sempre. In tutta la città sono anche innumerevoli le raccolte private antichissime, da sempre conservate dagli abitanti, alcune in grotte sotterranee.
Quella degli estremisti sarebbe una vendetta, l’ennesimo pesante colpo all’eredità culturale di una città inserita dall’Unesco nel patrimonio dell’Umanità e già sfregiata, a giugno, dalla distruzione di mausolei, santuari e tombe dei teologi sufi, quei «333 santi» venerati dagli abitanti. Per questi fondamentalisti votati a un’interpretazione falsamente ortodossa del Corano, l’Islam di Timbuctù è troppo tollerante e non è autentico. I fondamentalisti di Aqmi (Al Qaeda nel Maghreb Islamico), formazione legata ai tuareg di Ansar Dine (contro l’Occidente), hanno spiegato che le tombe sono state distrutte perché incoraggiavano i mussulmani a venerare dei santi anziché Dio.
Le truppe locali e francesi sono entrate a Timbuctù, dopo aver preso il controllo la notte scorsa dell’aeroporto e delle strade che portano nella città. Il colonnello Thierry Burkhard ha spiegato che paracadutisti ed elicotteri francesi hanno sostenuto nella notte le forze di terra che avanzavano dal sud. Burkhard ha precisato che la conquista è avvenuta senza sparare un solo colpo. L’operazione militare arriva due giorni dopo la presa di Gao, l’altro bastione fondamentale degli islamici. «Poco a poco, il Mali viene liberato», ha spiegato il ministro degli Esteri francesi, Laurent Fabius. Anche secondo Hollande «stiamo vincendo la battaglia», ma ora «spetta agli africani permettere al Paese di ritrovare la propria integrità».

La Stampa 29.1.13
«Una catastrofe Distrutti per sempre tesori simbolo dei maestri dell’islam»
domande a Malek Chebel filosofo
di Alb. Mat.

«Una catastrofe e un delitto. Come se a Parigi qualcuno bruciasse la Bibliothèque nationale». Il celebre antropologo franco-algerino Malek Chebel, teorico dell’«Islam des Lumières», è sconvolto dal rogo di libri perpetrato dagli jihadisti al centro Ahmed Baba di Timbuctù.
Professor Chebel, lo conosceva?
«Certo, l’ho visitato e anzi conservo dalla mia visita in Mali un bellissimo Corano antico. Ahmed Baba fu uno dei maestri dell’Islam africano e Timbuctù è stata, dal XVI secolo almeno fino alla colonizzazione francese, tre secoli dopo, un grande centro culturale: una città strategica, tappa fondamentale per le carovane del Sahara, punto di partenza per il pellegrinaggio alla Mecca».
Le fonti parlano di un patrimonio di 60-100 mila manoscritti.
«Questo è eccessivo. Le “biblioteche del deserto”, uso il plurale perché ne esistono anche altre, in Mauritania, in Niger e in tutta la regione, sono molto più piccole. Toglierei uno zero. È molto difficile farsi un’idea dei danni perché non c’è quasi mai un catalogo scritto dei tesori che ospitano. Questo non toglie che siano generalmente molto rilevanti, con manoscritti antichi spesso conservati in maniera un po’ precaria. Insomma, credo che non si saprà mai con esattezza cosa è andato perduto per sempre».
Ma perché gli islamisti se la prendono con i libri?
«Vi prego, non chiamateli islamisti. Si richiamano all’Islam, ma sono solo degli analfabeti religiosi. La realtà è che odiano queste testimonianze perché l’Islam della regione, una regione di commerci e di carovane, è sempre stato un Islam di scambi, libero, tollerante. Esattamente il contrario del loro. È la stessa ragione per cui avevano distrutto i mausolei del Mali che non erano solo tombe, ma luoghi d’incontro, simbolo di un Islam pacifico e pacificato, non dottrinario e al servizio del viaggiatore».
È la guerra di due Islam?
«No, perché un vero musulmano per definizione deve rispettare il creato, dunque anche la scienza, la cultura, il sapere, tutto il sapere, quindi in una parola l’Uomo. Non parlerei di due Islam, perché questi guerriglieri ignoranti non rappresentano affatto l’Islam. Parlerei dell’ennesimo, tragico episodio della lunga guerra dell’ignoranza contro i Lumi».

Corriere 29.1.13
Dietro la distruzione della cultura si cela l’odio di al Qaeda per l'Occidente
di Roberto Tottoli


Gli islamisti alleati di al-Qaeda hanno distrutto la Biblioteca Ahmad Baba di Timbuctu. I due palazzi che servivano alla custodia dei manoscritti sarebbero stati bruciati nel corso dell'avanzata dell'esercito francese e maliano. La notizia, diffusa dal sindaco Halle Ousmane, attende conferma nelle dimensioni e nei danni arrecati.
Con i suoi ventimila manoscritti soprattutto arabi, risalenti fino al XII secolo, la Ahmad Baba era l'istituzione più significativa di Timbuctu, capitale di un patrimonio unico di collezioni sud-sahariane, da tempo a rischio di distruzione. Finanziamenti da tutto il mondo, anche da altri Paesi islamici come l'Arabia Saudita, e missioni di ricerca europee e americane da anni cercano di organizzare progetti di recupero. L'ultimo e più importante, in ordine di tempo, era quello dell'Università di Città del Capo, che annovera al suo interno anche alcuni ricercatori italiani e aveva da poco iniziato una sistematica digitalizzazione dei documenti.
Dopo l'occupazione islamista di Timbuctu, proprio Ansar al-Din, il gruppo radicale del nord del Mali, utilizzava il centro Ahmad Baba come propria base logistica. La decisione di dar fuoco rimanda tristemente alla distruzione dei Budda di Bamiyan da parte dei Talebani, ma solo in parte ne riflette la stessa logica. Là fu l'opposizione alla raffigurazione umana e la difesa inflessibile di un principio che in realtà le comunità islamiche non avevano rigidamente imposto. E anche questo si è visto in Mali: la distruzione delle tombe per preservare l'unicità del culto al solo Dio. Tuttavia in questo caso, come nel rogo dei manoscritti, vi è qualcosa di più: il desiderio di colpire un patrimonio culturale difeso dall'Unesco e da altri organismi «stranieri», visti come corpi estranei e da allontanare con ogni mezzo. Nessuna prescrizione religiosa consentirebbe di distruggere codici coranici o la memoria di autori e uomini di lettere. Ma bruciare manoscritti equivale purtroppo a distruggere tombe, quando l'occhio del mondo occidentale, ma non solo, riserva loro un'attenzione particolare.

Repubblica 29.1.13
I libri d’oro di Timbuctù massacrati dai barbari senza spiritualità
Per i salafiti quelle opere erano empie come i mausolei eretti in memoria dei santi
La distruzione di questo patrimonio è un attacco contro l’identità di tutta l’umanità
di Tahar Ben Jelloun


TIMBUCTÙ è soprannominata "la Perla del Deserto", non perché splende sotto il sole, ma perché conserva un tesoro: migliaia di manoscritti in arabo, in peul e in altre lingue, testi di teologia, storia, geografia, botanica, astronomia, musica, poesia ecc. Migliaia di pagine scritte a mano, conservate in quella biblioteca che i barbari hanno appena dato alle fiamme. Le giudicavano "empie", dimenticandosi che l´età d´oro dell´Islam è stata coronata dall´esistenza di tesori culturali del genere che fanno parte del patrimonio dell´umanità. Fra questi libri ci sono dei diari intimi, scritti clandestinamente in un´epoca dov´era impossibile dire certe cose. Si dice che vi fosse un diario tenuto da una donna sposata a 15 anni a un vecchio impotente di 75, dove la ragazza raccontava il suo calvario. Altri libri fornivano la genealogia di certe famiglie, alcune di origini ebraiche che volevano tenerlo nascosto. Ma ora tutto, o quasi tutto, è stato inghiottito dalle fiamme, disperso nelle ceneri.
Da quando questi criminali, trafficanti di droga e corpi umani, si sono impadroniti di Timbuctù, non hanno fatto altro che distruggere. La distruzione è stata la loro unica parola d´ordine: distruggere e seminare il terrore. Più della metà dei 16 mausolei della città sono stati ridotti in polvere, senza parlare delle sepolture e delle tombe di santi musulmani. La distruzione di questo patrimonio è un attacco contro l´identità e la civiltà non solo dell´Africa e del mondo arabo, ma di tutta l´umanità.
Fondata nell´undicesimo secolo dalle tribù tuareg, Timbuctù era diventata la città della memoria della cultura arabo-africana. E ora dei bruti ignoranti hanno devastato ogni cosa, perché la dottrina del wahhabismo (dal nome di tale Mohamed Abd el-Wahhab, teologo saudita del XVIII secolo) dichiara empi i mausolei, i santi e la pratica mistica. L´Islam di cui si parla in quella biblioteca è un Islam della spiritualità. Dopo la morte del profeta Maometto, si contrapposero due correnti che avevano opinioni diverse su come andasse interpretato e praticato l´Islam. La prima è la dottrina "letteralista", vale a dire quella che afferma che il Corano va preso alla lettera, senza interpretazioni, senza simbolismi: quando nel Corano si parla della "mano di Dio", i letteralisti sostengono che si tratta di una mano fisica. La seconda corrente è quella dei kharigiti che interpretano il Corano con i suoi simboli e le sue immagini e attribuiscono al testo una dimensione più ampia e più profonda.
Sfortunatamente è stata la corrente letteralista, semplicistica e senza prospettive ad avere avuto la meglio. Oggi i salafiti si richiamano a quella corrente e vogliono il ritorno a un Islam immutabile, che pratichi una sharia senza giustizia e senza logica. Questa corrente è incoraggiata da Paesi che hanno adottato il wahhabismo, come l´Arabia Saudita.
Partendo dal fatto che nell´Islam non esistono né gerarchie né intermediari fra Dio e il credente, il wahhabismo ha dichiarato blasfemi i santi e i mausolei eretti in loro memoria. È per questo che nel 1991, quando vennero privati della loro vittoria elettorale, gli islamisti algerini del Fronte islamico di salvezza sono partiti in guerra contro lo Stato e contro la tolleranza diffusa nel Paese verso i santi: è in Algeria che sono stati distrutti i primi mausolei. Anni dopo, nel marzo del 2001, i Taliban hanno fatto saltare in aria le gigantesche statue del Buddha, nella parte nordoccidentale della valle di Bamiyan, in Afghanistan, statue che si trovavano là da tredici secoli. E ora l´incendio appiccato alla biblioteca dei manoscritti di Timbuctù.
Questa barbarie che non risparmia né gli uomini né il patrimonio culturale si diffonde nel mondo. Oggi l´esercito francese è riuscito a entrare a Timbuctù. I barbari sono fuggiti, ma prima hanno avuto il tempo di dare alle fiamme un tesoro dell´umanità. E hanno dato alle fiamme anche l´Istituto Ahmed Baba, creato recentemente dai sudafricani. Hanno approfittato della loro sconfitta per distruggere case, picchiare a sangue gli abitanti della città che uscivano in strada per manifestare la loro gioia e il sollievo nel veder arrivare le truppe francesi. Così i criminali del Nord del Mali hanno firmato la loro sconfitta, con il diluvio e l´annientamento dello spirito dell´Islam, della sua spiritualità, della sua poesia, della sua bellezza. Di tutto questo a Timbuctù rimangono solo ceneri e famiglie terrorizzate dal regno dei barbari.
(Traduzione di Fabio Galimberti)

l’Unità 29.1.13
Egitto in bilico, poteri di polizia all’esercito
Il presidente decreta lo stato d’emergenza in tre città. L’opposizione: così niente dialogo
di Umberto De Giovannangeli


L’esercito nelle strade con potere di arresto. Lo stato d’emergenza decretato in tre provincie. L’opposizione che rispedisce al mittente l’invito al dialogo. In Egitto è muro contro muro tra il potere islamista e le forze laiche. La Camera alta del Parlamento ha approvato la proposta di legge, presentata dal governo egiziano, che conferisce ai militari la facoltà di arrestare i civili e aiutare la polizia a restaurare l’ordine. L’esercito potrà quindi «comportarsi come le forze di polizia», il che significa che gli arrestati finiranno dinanzi a un tribunale civile e non militare. «Le Forze armate sosterranno la polizia nell’azione di tutela dell’ordine e di protezione delle istituzioni fino al termine delle elezioni parlamentari e ogni volta che il Consiglio nazionale di difesa lo richiede», si legge nel testo
ALTA TENSIONE
La nuova legge arriva dopo le manifestazioni dell’opposizione scesa in piazza a manifestare contro il presidente Mohamed Morsi, che negli ultimi giorni hanno provocato diversi morti e feriti. L’altro ieri Morsi ha proclamato lo stato d’emergenza in tre province: Port Said, Suez e Ismailia, dove si sono registrati gli scontri più violenti e il più alto tasso di vittime da venerdì. La scia di sangue si allunga.
Continuano gli scontri al Cairo, dove ieri è morto un passante vicino a piazza Tahrir. L’uomo è deceduto durante il trasporto in ospedale dopo essere stato raggiunto da un colpo di arma da fuoco durante gli scontri di questa mattina nella zona fra il ponte dei Leoni, il viale antistante piazza Tahrir. Sono otto i feriti, la gran parte colpiti da arma da fuoco, e numerosi gli intossicati dai gas lacrimogeni lanciati dalle forze dell’ordine. È la prima vittima che si registra al Cairo dopo lo scoppio degli scontri in occasione del secondo anniversario della rivolta che ha costretto Hosni Mubarak a lasciare il poter in Egitto. Salgono così a 56 i morti nel Paese da venerdì.
A Port Said migliaia di persone si sono riversate in strada per i funerali delle vittime delle violenze dell’altro ieri. I dimostranti si sono riuniti in preghiera nella moschea di Mariam, la principale della città, e si sono preparati al corteo che avrebbe trasportato le salme al cimitero cittadino, a poco più di un chilometro di distanza. Il funerale è stato seguito dall’alto da due elicotteri dell’esercito, ma non ci sono stati episodi di violenza. I negozi sono rimasti chiusi per il secondo giorno consecutivo e i commercianti si sono lamentati per il coprifuoco, annunciato dal presidente Mohammed Morsi l’altro ieri i e in vigore da ieri, affermando che danneggia gli affari. «Ho detto in passato di essere contrario allo stato d’emergenza. Ma ho anche detto che avrei agito per fermare lo spargimento di sangue e proteggere il popolo egiziano», ha spiegato Morsi in un discorso trasmesso dalla tv di Stato l’altra notte. «Se sarò costretto, farò molto più di questo in favore dell’Egitto. È un mio dovere e non avrò esitazioni», ha aggiunto il presidente.
Dialogo sembra una parola impronunciabile oggi in Egitto. La principale coalizione dell’opposizione egiziana ha respinto l’invito del presidente Morsi di avviare un dialogo nazionale per tentare di risolvere la crisi che sta vivendo di nuovo in questi giorni il Paese. «Non partecipiamo ad un dialogo privo di senso», annuncia in conferenza stampa Mohamed El Baradei, figura di riferimento del Fronte di salvezza nazionale (Fsn), che riunisce diversi partiti e movimenti liberali e della sinistra. «In seno al Fronte siamo totalmente d’accordo. Bisogna andare alle radici del problema che stiamo vivendo, non limitarci ai sintomi. La soluzione non riguarda la sicurezza, è politica», ha aggiunto El Baradei al termine della riunione dell’Fsn, alla quale partecipavano anche l’ex numero uno della Lega Araba, Amr Moussa e un altro candidato alle presidenziali dell’anno scorso, Hamdeen Sabbahi. Il Fronte vuole che il presidente Morsi si assuma tutta la responsabilità delle violenze di questi ultimi giorni, e chiede la formazione di un governo di unità nazionale: «Noi vogliamo il dialogo, ma non ci sono garanzie perché questo sia un successo, mentre lo spargimento di sangue continua», ha concluso Sabbahi.
Subito dopo il Fronte ha diffuso un comunicato in cui invita gli egiziani a manifestare venerdì 1 febbraio in tutte le piazze, pacificamente e in massa, «per riaffermare la sacralità del sangue dei martiri realizzare gli obiettivi della rivoluzione» e protestare contro le vittime dei giorni scorsi.

il Fatto 29.1.13
Argentina, strage ’94: sgarbo a Israele


L’Argentina del presidente Kirchner (Ansa) e l’Iran hanno raggiunto un accordo per istituire una commissione per indagare sull’attentato del 1994 all’Associazione di assistenza israelita, in cui morirono 85 persone. La notizia è stata accolta con rabbia da Israele e dalla comunità ebraica. Ansa

l’Unità 29.1.13
Nella Roma nazista
La travagliata storia d’amore di Tosca Cioni e Giulio Levi
Nella sede dell’Archivio di Stato oggi verranno letti gli atti del processo intentato contro la ragazza nel 1945
di Jolanda Bufalini


LEI SI CHIAMAVA TOSCA CIONI, NATA A LIVORNO NEL 1919. QUEL NOME, TOSCA, e il luogo dell’azione, Roma 1944, quasi contiene il destino pucciniano racchiuso nella storia. Lui si chiamava Giulio Levi, era nato nel 1921 e, quando morì, il 15 ottobre 1944, nel lager di Stutthof, in Polonia, aveva 23 anni. Il melodramma ha condensato tutti i suoi ingredienti nella storia di Tosca e Giulio: gelosie, tradimenti, buona fede e delazioni. Otello, Traviata, Scarpia e Tosca. Solo Roma non è quella del Papa re ma quella occupata dai nazisti.
Questa mattina nella sede dell’Archivio di Stato di Roma, nell’ambito dei progetti per il giorno della memoria, si darà lettura degli atti del processo intentato contro Tosca nel 1945. Saranno gli stessi archivisti che hanno trovato i documenti della Corte d’Appello, a leggere le diverse parti di fronte ai ragazzi delle scuole medie. È una iniziativa, spiega Monica Calzolari, del servizio didattico dell’Archivio, che si propone due scopi. C’è il problema di mantenere viva la memoria anche negli anni a venire, perché sono sempre meno per ragioni anagrafiche i testimoni diretti della Shoah e i negazionismi, già tanto attivi, quando la memoria è viva, saranno nuovamente in agguato. I documenti racchiusi negli archivi, dunque, saranno sempre più importanti. Una seconda ragione è portare alla luce le storie di gente comune che sono conservate nelle carte di Sant’Ivo e, soprattutto, nella sede distaccata di via Galla Placidia, dove si trova la sezione di età contemporanea. Le gelosie, le ingenuità, le meschinità della gente comune producono, quando si intrecciano con la tragedia della storia, conseguenze molto gravi e forse non previste. Lo scopo è, quindi, insegnare ai ragazzi a misurare le possibili conseguenze dei propri atti, il dolore e il lutto che si possono, anche involontariamente, causare.
Giulio, che forse faceva il sarto, non seguì la sua famiglia nella fuga dalle persecuzioni. Si era invaghito di Tosca e, per restare a Roma, era riuscito a procurarsi il documento d’identità di un soldato morto e il certificato di convalescenza di tre mesi intestato al milite. La giovane, che a Livorno aveva una bambina, Giuliana, era ospite a Roma della sorella Lidua e del cognato Incoccia. Anche Giulio è loro ospite ma tutti sanno che nella sua vita c’è un’altra ragazza, la fidanzata Agnese De Silvestri.
Una lettera anonima al «Questore della Città aperta di Roma» denuncia la falsa identità di Giulio, che viene arrestato, rinchiuso a Regina Coeli, poi deportato a Fossoli e, di lì, il 16 maggio 1944 a Auschwitz e poi a Stutthof, dove morirà. Nelle carte del processo sono conservate alcune lettere di Giulio a Tosca. Nella prima, che racconta il viaggio di trasferimento da Regina Coeli a Fossoli, trasuda (o finge) ottimismo: «Ho fatto un magnifico viaggio in torpedone attraverso la magnifica campagna toscana... Qui si sta molto meglio che in prigione, si lavora e il tempo passa presto senza troppi pensieri». Un’altra lettera, datata 3 maggio 1944, è molto più drammatica ma qui Giulio si finge Giulia, la prigionia è rappresentata come un matrimonio infelice: «Se tu avessi veduto la metà di ciò che ho veduto io, il resto perderebbe importanza e proveresti il desiderio di essere in pace con tutti. Ma quando sia ha un marito come il mio non si può conoscere né pace né tranquillità. Speriamo venga presto la separazione».
Dopo la guerra il padre di Giulio, Raffaele, accusa Tosca. La ragazza viene rinviata a giudizio per avere provocato l’arresto e la deportazione del giovane. I caratteri della lettera anonima sono quelli di una macchina da scrivere «Corona» di proprietà degli Incoccia, è scritta da qualcuno che ha potuto copiare i dati dei documenti falsi di Giulio, ed è animata da un velenoso antisemitismo: «Da buon ebreo ha trovato il modo di procurarsi la carta d’identità e la tessera annonaria». Secondo l’accusa Tosca avrebbe tradito l’amico per gelosia. Lei risponde al giudice: «Sapevo che il Levi era fidanzato con la signorina De Silvestri e sapevo anche che Giulio Levi aveva intenzione di romperla con la sua fidanzata. Io però, dato l’attaccamento che il Levi Giulio aveva per me non avevo motivo di essere gelosa della Silvestri». Tosca, che il verbale definisce «alfabeta e donna di casa» dice: «non so scrivere a macchina». Molti altri hanno avuto accesso a quei tasti e tutti gli amici «sapevano della sua falsa identità». Il processo si conclude con assoluzione per insufficienza di prove.

Corriere 29.1.13
Radio e televisione: tre milioni di ore nella nuova Teca Rai
di Paolo Foschini

MILANO — D'accordo, ormai la signora Longari di Rischiatutto si trova anche su Youtube. Ma tre milioni di ore di archivio Rai, credetelo, sono un'altra cosa: dal Musichiere alla Freccia Nera, dalle lezioni del maestro Manzi alla prima Domenica Sportiva del 3 gennaio '54, dalle Kessler al telegiornale del giorno preciso in cui siete nati, oggi potete ritrovare tutto questo e molto altro — come si dice — con un clic. È il nuovo servizio offerto dalla «Teca Aperta» del Centro di produzione Rai di corso Sempione a Milano: una saletta con tre postazioni multimediali e relativi tecnici a disposizione per consentire a privati cittadini, scuole, università, enti e istituzioni di accedere a qualcosa come tre milioni di ore di programmi radio e tv, più 35 mila foto, ottantamila copioni, duemila manifesti, l'intera raccolta del Radiocorriere dal '25 al '95, l'archivio testuale completo.
«Siamo certi — dice Barbara Scaramucci, direttore di Teche Rai — che per atenei e scuole, strutture culturali pubbliche e private, sarà un servizio prezioso». Tutto il materiale è consultabile liberamente mentre per la duplicazione o cessione — un aspetto particolarmente delicato, specie in relazione alla complessa problematica dei diritti d'autore — ci si potrà rivolgere agli uffici Rai o attivare la procedura online sul sito www.teche.rai.it. La Teca Aperta di corso Sempione si aggiunge così al Corner Rai già presente a Milano alla Mediateca - Biblioteca Braidense, nelle biblioteche Rai di Roma e Torino oltre che nelle teche delle altre sedi regionali Rai. L'accesso è possibile dal lunedì al giovedì dalle 9.30 alle 17.00 e il venerdì dalle 9.30 alle 16.00, su appuntamento chiamando il numero 02-31993549 o scrivendo a milano.teca.aperta@rai.it. «Per la Rai di Milano — sottolinea il responsabile del centro di produzione Renzo Canciani — un'occasione ulteriore per avvicinarsi alla città». E il consigliere d'amministrazione Gherardo Colombo ha già fatto i conti: «Tre milioni di ore, se uno volesse scorrerle tutte, dedicandoci otto al giorno finirebbe nel 3040». La digitalizzazione peraltro sarà incrementata al ritmo di 170 mila ore all'anno. Sarà meglio scegliere.

Repubblica 29.1.13
Come sono nati e cosa significano quei simboli raffigurati in tutto il mondo su bandiere e manifesti
Un libro ne ricostruisce la storia dall’antica Grecia al movimento hippie, fino a oggi
Dal ramo d’ulivo alla colomba così la non violenza lascia il segno
Nell’Enciclopedia visuale anche l’arcobaleno e i fiori nei cannoni e le loro evoluzioni
di Enrico Franceschini


LONDRA Si può dirlo con le parole: "La pace sia con te", "Pace e bene", "Fate la pace non fate la guerra". Ma si può dirlo anche con le immagini: il ramoscello d´ulivo, la colomba, l´arcobaleno, il fucile con i fiori nella canna. E poi il segno che tutti conoscono per averlo visto sulle bandiere, sui muri, sui manifesti, il cerchio con dentro una riga verticale incrociata da due mezze diagonali. Ha tanti simboli, la pace, l´obiettivo che l´uomo da un lato rincorre dalla notte dei tempi, dall´altro fa di tutto per calpestare. Ma da dove vengono, come sono nati, cosa significano esattamente? Mentre si combatte in Mali e si rischia una nuova grande guerra in Medio oriente a causa del programma nucleare iraniano, mentre conflitti piccoli e grandi sconvolgono la quiete sociale delle nostre esistenze, un libro prova a rispondere a queste domande. In "Signs for peace: an impossible visual encyclopedia" (Segni di pace: un´enciclopedia visuale impossibile), il disegnatore grafico Ruedi Baur e sua moglie, la sociologa Vera Bauer Kockot, ripercorrono la storia degli emblemi del pacifismo, e di come si sono evoluti a seconda delle situazioni.
Tutto comincia con la mitologia greca, con la lotta tra Poseidone e Atena, lui con il tridente apre una fonte d´acqua salata sul terreno, lei risponde piantando un ulivo, l´albero rappresenta pace e prosperità. La dea ha la meglio grazie all´astensione di Zeus, dà il suo nome ad Atene, la città più grande della Grecia, e da quel momento il suo ulivo diventa il simulacro universale della pace. Beninteso, il merito non è solo di Atena: se la faccenda fosse finita lì, vedendo un ramoscello d´ulivo avremmo pensato solo alle olive e all´olio che se ne ricava in tutto il Mediterraneo. Ma fu adottato come simbolo di pace anche dall´Impero romano, Virgilio vi fa riferimento in tal senso nell´Eneide, mentre Eirene, la dea romana della pace, veniva spesso disegnata con un ramoscello in mano. La tradizione è rimasta fino al 1600, quando poeti e artisti lo usavano come motivo di pace, quindi è finito ad adornare varie monete, poi è apparso in innumerevoli contesti ufficiali, dal Gran Sigillo degli Stati Uniti nel 1782 alla bandiera delle Nazioni Unite nel 1946. Oggi chiunque sa cosa vuol dire passare di mano in mano un ramo d´ulivo.
E proprio il ramo d´ulivo ha introdotto un altro simbolo di pace: nel racconto biblico, la colomba che lascia l´Arca di Noè e poi torna per annunciare la fine del diluvio e l´inizio di una nuova era ne ha appunto uno in bocca. Il volatile ha dovuto attendere più a lungo per diventare sinonimo di pace: lo utilizzavano a questo scopo i primi movimenti pacifisti del 19esimo secolo. Ma la sua più famosa incarnazione è la colomba disegnata da Pablo Picasso tra il 1940 e gli anni Cinquanta, in una serie di poster per il Congresso mondiale della Pace. Di simboli ce ne sono tanti altri nelle pagine dell´"Enciclopedia Visuale", dall´arcobaleno (in seguito diventato l´immagine del movimento gay) al "mettete dei fiori nei vostri cannoni", ossia nelle canne dei fucili, inno degli hippie realizzato nella rivoluzione dei garofani in Portogallo nel 1975, fino a segni più religiosi, come gli angeli. Ma il più noto oggi, anche più di ulivo e colomba, è probabilmente il "segno di Holtom", disegnato nel 1958 da un attivista disoccupato del movimento contro le armi nucleari, obiettore di coscienza e disegnatore, per conto della Campagna per il Disarmo nucleare, un´associazione pacifista inglese. Avevano dato l´incarico a lui, pensava di disegnare una croce ma ci furono obiezioni, non gli veniva un´altra idea, «ero disperato, assolutamente disperato», ricordava, «così disegnai me stesso, il rappresentante di un individuo preso da totale disperazione, con le braccia allargate come i condannati nella scena della fucilazione di Goya, formalizzai il disegno e lo misi dentro un cerchio». Ecco fatto. Si poteva leggere come una dichiarazione politica, perché quella linea verticale e le due diagonali erano i simboli delle lettere N e D nell´alfabeto semaforico, dunque significavano Nuclear Disarmament, Disarmo Nucleare. Altri hanno interpretato il simbolo come "la morte dell´uomo" e il cerchio come "il bambino mai nato". Come che sia, il suo autore non mise alcun copyright al disegno, che ebbe un impatto memorabile, prima per la causa dell´anti-nucleare, poi per la pace in generale. Attraversò subito l´Atlantico, finì alle manifestazioni di Martin Luther King per i diritti civili dei neri americani, quindi alle proteste contro la guerra in Vietnam e da lì in avanti non si fermò più, apparve sulle strade di Praga invasa dai carri armati sovietici nel 1968, sul muro di Berlino, sulle tombe delle vittime delle dittature, dai colonnelli greci alla giunta argentina a Timor Est. Oggi è dappertutto.

Repubblica 29.1.13
Rabbia senza voce
Come l’Italia ha smesso di indignarsi
"Io vi maledico", il nuovo libro di Concita De Gregorio
Dai precari alla scuola alla tv, le storie vere di un Paese rassegnato
di Gad Lerner


La lettera mai scritta della figlia di un operaio umiliato, la denuncia silenziosa contro l’Ilva, il rancore soltanto in Rete
Sono tutti esempi di qualcosa di profondo: una collera sminuzzata in tante singole collere che non si incontrano

«Ça ira, ça ira, ça ira/ les aristocrates à la lanterne!». Terribile è il ritornello di uno dei più popolari canti della Rivoluzione francese, quando invoca l´impiccagione dei nobili per poi, come se non bastasse, ficcargli un bastone didietro per ciascuno. Ma la violenza urlata al femminile davanti alla Bastiglia (ne è rimasta celebre l´interpretazione di Edith Piaf) culminava pur sempre nella palingenesi, inneggiava a una speranza, tant´è che il nostro Carducci ha ripreso il miraggio di quel ça ira come futuro radioso. In ben altra rabbia si è imbattuta Concita De Gregorio misurando la temperatura dell´Italia contemporanea nel suo potente libro-inchiesta Io vi maledico (Einaudi). Nessuna pulsione rivoluzionaria. Manca fra noi l´orizzonte di un rovesciamento delle gerarchie, dei dogmi classisti e tanto meno dei rapporti di produzione. La furia si ripiega su se stessa fino a bruciare l´anima in cui s´è accesa.
L´ho incontrata anch´io Sabrina Corisi, figlia di un operaio sindacalista dell´Ilva di Taranto morto di tumore al polmone dopo essersi battuto per anni contro i veleni minerali che, sospinti dal vento oltre il muro di cinta dell´acciaieria, hanno ricoperto la sua abitazione al rione Tamburi. Sabrina si presenta composta stringendo fra le mani la cornice con la fotografia del padre defunto, di cui i familiari hanno onorato l´ultima volontà affiggendo la lapide che MALEDICE, scritto in maiuscolo, «coloro che possono fare e non fanno nulla per riparare».
Queste maledizioni prive di ça ira, una dopo l´altra raccontate da Concita De Gregorio, delineano una rabbia debole che «sembra ovatta». Rabbia di lamento e di protesta, rabbia gracile. Sempre dalla Francia avevamo importato l´«Indignatevi!" del vecchio partigiano Stephane Hessel, declinato in spagnolo dai giovani disoccupati del movimento 15M e in greco dagli insolventi del debito infinito. Non che l´Italia della recessione se la passi molto meglio; solo che qui cova un malessere sordo, difficilmente esprimibile in senso di comunità. Se da un lato l´autrice si cimenta in autentici pezzi di bravura, come quando narra la lettera mai spedita a Marchionne dalla figlia di un operaio della Fiat di Pomigliano, umiliato fino alle lacrime dalla decisione di votare sì al referendum aziendale, non può bastarle seguire il filo della denuncia. Io vi maledico, difatti, non può leggersi solo come un´inchiesta sull´ingiustizia sociale o su un delitto territoriale come l´amianto a Casale Monferrato. Qualcosa di più profondo è introiettato nello stato d´animo degli italiani. Le insegnanti più sensibili lo riconoscono nei comportamenti deviati di certi bambini. Gli adolescenti si abituano a sfogarlo nella sfera virtuale dei social network. Verdi di rabbia come l´incredibile Hulk, trasformato da supereroe in modello d´irrequietezza mai del tutto sopita.
Se un sociologo come Aldo Bonomi nel 2008, all´inizio della crisi, si sforzava ancora di raccontarci "Il rancore" (Feltrinelli) come radice collettiva del malessere del Nord, e ne descriveva le piccole fredde passioni dalla "paura operaia" all´individualismo proprietario, Concita De Gregorio è costretta ad andare oltre. Oltre le identità locali, oltre lo spaesamento e la protesta antistatalista. Perché la rabbia sminuzzata in tante singole rabbie personali è certo dolorosa ma non sollecita la ricerca di relazioni; semmai sembra trovare sollievo momentaneo nella rappresentazione mediatica. Va a incontrare gli amici d´infanzia dell´arrabbiato per eccellenza, Supermario Balotelli. Sergio Viotti, portiere di riserva nell´Under 21, che lo conosce da quando aveva sei anni, le confida: «Mario diceva sempre che sarebbe stato il primo negro a giocare in nazionale e che non festeggiava i gol perché lo avrebbe fatto solo il giorno che avesse segnato per l´Italia, nella finale dei Mondiali».
Trovo assai convincenti le pagine di Io vi maledico dedicate allo sfogo dei propri sentimenti in un clic. Sul Web ciascuno può scaricare la sua invettiva e provare la falsa ebbrezza di far parte così di una collettività. Riunita da migliaia di "mi piace" o anche solo dalla cancellazione del nemico. Galvanizzata dalla capacità di leader virtuali che sublimano in decibel privi di sonoro il disagio, la protesta, la denuncia. Tutto finto, effetto placebo, lenimento solo momentaneo. Ma vuoi mettere la soddisfazione di avergliele cantate - col nickname che preserva il tuo anonimato - al bersaglio facile del momento? Fin troppo ovvio è riconoscere in Beppe Grillo il re di queste innocue maledizioni, portavoce di una rabbia tradotta in grossolani calembour o sotto forma di invettiva scurrile. Capita a tutti noi di provare ammirazione per la creatività della rete, senza accorgerci di come essa ci imprigioni in una solitudine, per l´appunto, rabbiosa.
Toccante è la testimonianza di Flavia Schiavon, un´altra figlia. Ha vissuto un breve momento di notorietà quando suo padre, piccolo imprenditore della provincia di Padova, si è tolto la vita perché non sopportava il peso dei debiti che gli impedivano di pagare lo stipendio ai dipendenti. Flavia Schiavon si impegna in una campagna di denuncia contro l´Agenzia delle entrate e per questo accetta di comparire in televisione. Ma ben presto constata: «Volevano solo le mie lacrime per fare audience». Non basta. Le arriverà una lettera ignobile: «Ti fai bella della morte di tuo padre, vuoi solo diventare famosa, sei ricca e te lo puoi permettere, mi fai schifo. Faceva riferimento anche a mio figlio. Sì, lo so che anche quella lettera sarà stata lo sfogo di qualcuno che stava male. Però per me è stata una secchiata d´acqua in faccia. Mi sono svegliata».
Recitare l´indignazione è l´ultima specialità di troppi conduttori televisivi benestanti, ma è anche il nuovo business dei falsi portavoce del popolo. Basti pensare a Grillo che apostrofa Giorgio Napolitano come «un vecchietto che va in giro con tre Maserati», gira in camper e intanto custodisce per un po´ la sua Ferrari in garage. Lui è il capoccia degli arrabbiati. Non esprime l´ira di Dio né un´aspirazione di giustizia sociale, ma solo la miseria di un cattivo sentimento deprivato dalla speranza. Concita De Gregorio si rifugia allora nelle Rime di rabbia del poeta Bruno Tognolini, solo in apparenza per bambini: «Tu dici che la rabbia che ha ragione/ È rabbia giusta e si chiama indignazione».

Repubblica 29.1.13
Da Proust a Mario Monti: il fondatore di "Repubblica" alla Sapienza
"La cultura è politica", la lezione di Scalfari
"Il giornalismo, anche quando racconta l´arte, è vivere i fatti, le opere, i personaggi trovando le chiavi per collocarli nel tempo e ricavandone l´attualità"
di Simonetta Fiori

Proust e Sainte-Beuve, madonne di Piero e madonne bizantine, la politica di Mario Monti e l´amore dopo i settant´anni. C´è un filo rosso che tiene insieme terreni così distanti, ed Eugenio Scalfari non lo perde mai di vista. D´altronde il giornalismo è anche questo, è lui stesso a ricordarcelo: specialismo però vivificato da curiosità, passione intellettuale e immersione nella vita. Ore 15, lezione alla Sapienza sulle pagine culturali di Repubblica. Seduto dietro la cattedra, il fondatore del giornale. Davanti a lui, una platea affollatissima di studenti, e alcuni protagonisti della storia narrata, tra Paolo Mauri, Enzo Golino e Lucio Villari. Ma Scalfari non ha ancora preso la parola che da un ingresso dell´aula spunta un gruppetto urlante di una quindicina di ragazzi. Pochi ma di voce potente. «Abbasso la Repubblica di padroni, banchieri e guardie». «Fuori i lacchè dall´Università». «Basta con il giornale manganello mediatico dei movimenti». Slogan abbastanza marziani che nonostante l´alto decibel mantengono la temperatura fredda di un set cinematografico. Inutile approfondire sulla geografia politica e culturale dei manifestanti, che si riparano dietro al sigla "Realtà autorganizzata della Sapienza". E mentre dalla platea partono le prime reazioni - Basta! Buffoni! - il più distaccato appare Scalfari, quasi sorridente. «A quasi novant´anni non sono adatto alle zuffe», dirà poi, a bagarre conclusa. «Ma resto disponibile a un confronto: purché si rinunci alle urla e a slogan un po´ confusi». Il ricordo risale alla fine degli anni Sessanta, quando Alberto Moravia fu contestato più o meno negli stessi locali, e l´Espresso organizzò con Oreste Scalzone e gli studenti un dibattito sul capitalismo. «Avevano letto pochissimo, e non conoscevano Marx. Però, rispetto alle manifestazioni di oggi, mi sembravano più attrezzati al dialogo». L´incursione della politica, anche sotto forma di goffo schiamazzo, viene ricondotta da Scalfari alla sua riflessione sul giornalismo culturale, e sull´arte in particolare, costantemente innervati da una visione più ampia della storia. Guai immaginare la cultura, e la critica d´arte, separati dalla politica. E guai immaginarli separati dalla vita. «Dietro il volto di una Madonna c´è una concezione del mondo. Una Madonna di Piero della Francesca è diversissima da una Madonna bizantina. E il grande critico è quello capace di raccontare l´opera d´arte e insieme di interpretarla attraverso gli strumenti della critica». C´è una persona che ha esemplarmente incarnato questo "metodo", ed è Giuliano Briganti, grande amico di Scalfari. «Con noi collaborarono Venturi, Ragghianti e anche Berenson. Poi arrivò Giuliano, che forse era anche meglio di Longhi, il suo maestro. Insieme andavamo a vedere gli artisti della scuola romana o i vedutisti veneziani. E lui illustrava la pittura anche attraverso la storia del gusto e del paesaggio, attraverso la storia politica e culturale». Ma questa commistione di cronaca e critica non è appannaggio della sezione culturale. «Nelle pagine degli esteri, continua a farlo Bernardo Valli: non lascia ad altri il racconto delle guerre, ma va in Cirenaica sotto le bombe di Gheddafi. E mirabilmente fonde cronaca e commento». Il giornalismo - culturale o anche non culturale - è vivere i fatti, le opere, i personaggi fino in fondo, trovando le chiavi per collocarli nel tempo, e ricavandone un´attualità per l´oggi. Un mestiere che richiede conoscenza, e quindi specialismo, ma da solo non basta. «Ci vuole il concorso di un pensiero articolato, che abbia curiosità del mondo». E anche degli uomini. Insomma, tra Proust e Sainte-Beuve, Scalfari sceglie decisamente il secondo: l´opera è sempre da ricondurre a umori, tratti caratteriali, dolore o piacere, esperienze di vita dell´autore. Accade nell´arte e nella letteratura, ma accade anche nella politica. «Prendete Monti, la sua scarsa propensione per la socialità. È un dato interessante per capire oggi l´uomo politico. Noi l´abbiamo sostenuto perché il Paese era sull´orlo del precipizio. Ma ora lo giudichiamo inadatto a far politica. Ha cominciato a farla a settant´anni. Ed è come per l´amore. Me lo ricordava qualche giorno Giorgio Napolitano: chi conosce l´amore dopo i settant´anni può diventare matto». Amore, non politica, dice il presidente. Scalfari è più malizioso, e lo trasferisce al premier salito in politica. Dopo una certa età, può far davvero male. E i ragazzi schiamazzanti? No, la lezione non l´hanno ascoltata. Peccato, sono andati via.