mercoledì 30 gennaio 2013

il Fatto 30.1.13
Italia, 57ma nella libertà di stampa

Nuova classifica mondiale della libertà di stampa di Reporters sans Frontières, ma per l'Italia cambia poco: 57° posto rispetto al 61° di un anno fa. Il motivo: “Ancora non è stata depenalizzata la diffamazione, e le istituzioni strumentalizzano la legge bavaglio”. Ansa

l’Unità 30.1.13
Bersani: confronto a sei. Ma Berlusconi lo fa saltare
L’ex premier vuole andare in tv solo con il segretario Pd
Il leader democratico: stessi diritti per tutti
di Simone Collini


Tutto era pronto: lo studio appositamente allestito negli stabilimenti della Dear di Roma, la doppia conduzione affidata a Bruno Vespa e al direttore del Tg1 Mario Orfeo, il format con le domande uguali per tutti e i due minuti a testa per rispondere. C’era anche la data: sabato, in prima serata, su Rai 1. Poi tutto è saltato. Il motivo? Silvio Berlusconi.
Il leader del Pdl si è opposto al confronto televisivo a più voci, chiedendo invece un faccia a faccia con il solo Pier Luigi Bersani. Che però non si è acconciato: «Io, quando c’erano da fare le primarie, non l’ho fatto fra i favoriti. Io mi chiamo Partito democratico e partecipo solo a cose dove tutti hanno uguali condizioni. Non intendo partecipare a cose dove ci sono condizioni diverse, questo lo lascio fare a Berlusconi».
Se Mario Monti si è detto disponibile tanto a un confronto a tre quanto a uno a sei, nelle trattative tra le segreterie politiche e i vertici di Viale Mazzini gli emissari del Pdl si sono appellati al regolamento della commissione di Vigilanza Rai per sostenere che il confronto televisivo andrebbe fatto soltanto tra i capi di coalizione, e che quindi vanno esclusi quanto meno Beppe Grillo, Antonio Ingroia e Oscar Giannino, che sono a capo di una singola lista. Teoria respinta dal fronte Pd: «Tutti i candidati hanno uguale diritto, o tutti o nessuno». Quando ormai si è fatto chiaro che non se ne sarebbe fatto niente, la commissione di Vigilanza Rai ha precisato con una nota di «non avere alcuna competenza, e quindi nessuna responsabilità, nella scelta dei format». E se è vero che il regolamento approvato dalla bicamerale il 3 gennaio fa una distinzione tra capilista e capicoalizione, sottolinea anche «precise norme tese a garantire pari condizioni a tutti i soggetti in competizione».
Oggi la commissione si riunirà e cercherà di sciogliere il nodo, ma l’impressione è che il veto berlusconiano di fatto abbia già cancellato ogni possibilità che il confronto si faccia. E ora? Monti tace, così come Grillo, Giannino irride il «coniglio che scappa con le sue fanfaluche», Ingroia dice che «le regole della democrazia impongono che i candidati premier presentino il proprio programma a tutti i cittadini» e Bersani va all’inseguimento di Berlusconi. Se il confronto a sei non si può fare in Rai, il leader del Pd annuncia: «Vado a Sky».
In realtà, più che questioni regolamentari della tv pubblica, a impedire un confronto tra tutti i candidati c’è la convinzione di Berlusconi che un appuntamento a sei, con domande uguali per tutti e tempi contingentati per le risposte, non gli sia congeniale. Un po’ perché il leader del Pdl vuole polarizzare la campagna elettorale tra il suo partito e il Pd, mentre un confronto televisivo aperto metterebbe sullo stesso piano anche Monti (che invece Berlusconi vuole relegare al ruolo di poco più che comparsa) e un po’ perché un confronto con Ingroia porterebbe inevitabilmente a parlare di processi, che è proprio ciò che l’ex premier vuole evitare (c’era infatti un accordo in questo senso anche quando è andato ospite di Michele Santoro, che ora Berlusconi definisce «un bravo professionista ed il solo conduttore che ha avuto il coraggio di invitarmi in prima serata»).
Insomma, anche per quel che riguarda Sky ci sono poche possibilità che il confronto televisivo si faccia. A meno che non si arrivi a un’intesa. Che però per ora sembra assai lontana, visto che già sono partite le recriminazioni incrociate, con il portavoce dell’ex premier, Paolo Bonaiuti, che accusa il Pd di «sollevare un gran polverone per evitare il confronto tra Berlusconi e Bersani», il responsabile Comunicazione del Pd Matteo Orfini che critica chi ha «paura di un dibattito democratico con tutti i candidati sui problemi reali degli italiani» e quello Organizzazione Nico Stumpo che dice: «Berlusconi non vuole il confronto perché verrebbe fuori la sostanza del suo programma: propaganda, demagogia e populismo».
Bersani, che secondo un sondaggio Demòpolis per Famiglia Cristiana vince tra l’elettorato cattolico, voleva il confronto televisivo proprio per avere con gli altri una discussione sui problemi del Paese, ma se non ci sarà continuerà a fare quello che sta facendo in questi giorni. Ovvero girare per le regioni italiane, soprattutto quelle chiave per ottenere la maggioranza al Senato, e spiegare quel che farebbe in caso arrivi a Palazzo Chigi. Ieri il leader Pd ha fatto tappa a Padova, dove nel carcere della città ha incontrato detenuti che gli hanno parlato dei principali problemi che incontrano nella vita quotidiana (a cominciare dall’affollamento, che per Bersani può essere affrontato prevedendo pene alternative al carcere), e dove poi nella sede dell’Anffas (associazione di famiglie di persone con disabilità) ha spiegato che tra le priorità del centrosinistra c’è la destinazione di fondi per il sociale. E poi la constatazione: «Io sto incontrando gente, Berlusconi in queste ore ha incontrato il procuratore di Balotelli».

Corriere 30.1.13
Senato, la sfida nelle regioni decisive Lombardia e Sicilia sono in bilico
Il picco di indecisi o astenuti tra gli elettori lombardi
di Renato Mannheimer


Quella per la maggioranza al Senato sarà probabilmente una battaglia all'ultimo voto. Gli esiti dei sondaggi effettuati regione per regione (per assegnare correttamente in ciascuna il premio di maggioranza) dai diversi istituti offrono un quadro diversificato, ma comunque caratterizzato da una situazione di difficile governabilità. In realtà, per la gran parte delle regioni, l'esito è già noto o facilmente prevedibile: la maggioranza (e il relativo premio) andranno al centrosinistra. Ma le poche che sono ancora in bilico fanno parte di quelle più popolate, che, di conseguenza, assegnano un maggior numero di senatori. Decisivi per la formazione o meno di una maggioranza in Senato.
Emblematico, al riguardo, è il caso della Lombardia. Che, come si sa, assegna ben 49 seggi, vale a dire quasi il 16% del totale dei senatori eletti nei confini nazionali. E nella quale, per di più, si vota, lo stesso giorno delle politiche, per il presidente e il consiglio regionale. Si tratta di una regione che è stata, a lungo, appannaggio del centrodestra. Ma, complici anche le vicende che hanno riguardato il presidente della Regione Formigoni, la situazione pare oggi mutata profondamente. Tanto che il vantaggio che il centrodestra ottiene comunque ancora in questo momento è talmente esiguo (meno di un punto percentuale) da collocarsi al di sotto del margine di approssimazione statistico e da rendere, di conseguenza, impossibile l'assegnazione del premio di maggioranza. Il quadro è aggravato dal fatto che sono molti — 42%, assai più che nelle altre regioni qui considerate — coloro che dichiarano di non volere indicare l'intenzione di voto, perché indecisi o tentati dall'astensione. Le scelte di costoro possono mutare il quadro politico della regione. E non è senza significato il fatto che gli indecisi lombardi siano composti per la gran parte da ex elettori del centrodestra delusi. Oggetto, come si sa, sia della campagna di Berlusconi, sia di quella di Monti.
Per certi versi simile è il quadro offertoci dalla Sicilia. Qui è il centrosinistra (che ha appena vinto le elezioni per la Regione) a trovarsi in vantaggio. Ma, anche in questo caso, la differenza è di poco superiore a 1 punto percentuale, ciò che comporta l'impossibilità di stimare con certezza chi conquisterà i 14 seggi in competizione. C'è da notare qui la grande popolarità del Movimento 5 Stelle — già manifestatasi in occasione delle regionali — che sembra permettere a quest'ultimo di attribuirsi ben 3 seggi.
Assai diversa è la situazione in Veneto. Qui si riproduce la distribuzione di voti classica, con il centrodestra avanti. La rilevazione da noi effettuata all'inizio di questa settimana mostra una distanza di circa 8 punti, tali da attribuire 14 seggi alla coalizione di Berlusconi. Secondo altri istituti, il quadro è differente: alcuni indicano uno scarto ancora maggiore, altri di più modeste dimensioni. Appare tuttavia ragionevole in questo momento attribuire il Veneto al centrodestra.
L'esito opposto sembra probabile in Puglia. La distanza è inferiore, pari a 6 punti, e il numero di seggi in palio (11) è meno consistente. Ma si tratta in ogni caso di una regione che, secondo i sondaggi più recenti, sarà conquistata dal centrosinistra.
Infine, anche la Campania risulta in questo momento essere appannaggio della coalizione guidata da Bersani. In questo caso, la differenza risulta ancora più accentuata e superiore addirittura ai 10 punti. Anche qui occorre notare la forte presenza del Movimento 5 Stelle e la possibilità che Rivoluzione Civile di Ingroia partecipi anch'essa alla distribuzione dei seggi. È vero che attualmente si colloca sotto la soglia minima (8%) richiesta dalla legge. Ma la differenza è talmente esigua da rendere più che possibile il suo superamento.
In definitiva, tutto pare dipendere dalla Sicilia e dalla Lombardia. Se il centrodestra prevalesse in entrambe le regioni, la maggioranza al Senato per Bersani sarebbe problematica e diverrebbe decisivo il ruolo di Monti (che, proprio per questo, ha di recente auspicato di ampliare il bacino — 15% a livello nazionale — sin qui ottenuto). Se, viceversa, il centrosinistra riuscisse a conquistarle, avrebbe assai meno problemi nella formazione di un governo stabile. Se conquistasse una sola delle due rimarrebbero comunque problemi nella formazione della maggioranza.

Corriere 30.1.13
«Per il Pd era meglio non gonfiare troppo il petto»
Parisi: altro che vittoria annunciata. Un errore l'euforia post primarie
di Monica Guerzoni


ROMA — «Berlusconi si conferma come il più grande venditore del mondo».
Detto da lei, onorevole Arturo Parisi, che aveva festeggiato il ritiro del Cavaliere come un bene per la democrazia...
«I grandi venditori sono quelli che vendono cose che non possiedono, annunciando risultati lontani per costruire, sul loro annuncio, la vittoria annunciata. Così ha riaggregato un campo che appariva definitivamente sbandato».
A forza di recuperare punti, può ribaltare i pronostici?
«Che abbia recuperato è fuori dubbio, quanto è tutta un'altra cosa. Non credo tuttavia che questo gli possa bastare per rovesciare i pronostici».
Ritiene concreto il rischio di un Senato ingovernabile?
«Il problema non è l'ingovernabilità del Senato, ma la governabilità del Paese. Il rischio è una vittoria insufficiente rispetto ai compiti che ci attendono. Sulla scia della lontana lezione di Berlinguer, D'Alema e Bersani ripetono da tempo che per governare il Paese ci vuole ben altro che il 50% più uno degli elettori. Figuriamoci se questi dovessero essere quel 35% che oggi i sondaggi attribuiscono ai progressisti, o quel 30% riconosciuto al Pd».
All'indomani delle primarie Bersani si è mosso da premier in pectore. Poi cosa è successo? Dove ha sbagliato, se ha sbagliato?
«Se il presidente Napolitano conferma la sua determinazione a dare l'incarico al leader della coalizione vincente, non riesco ad intravvedere un altro premier in pectore. Quello che certo andava evitato era di gonfiare il petto troppo e troppo presto. Anche su questo ha investito Berlusconi per impostare il contrattacco. Come nel '94, ha lasciato crescere la prospettiva della vittoria progressista per dimostrare che solo lui poteva provare a fermarla».
Se Berlusconi dovesse rivelarsi determinante per governare, può il Pd fare accordi con il centrodestra sulle riforme?
«Su quelle istituzionali, più che possibile resta doveroso. Non vorrei tuttavia risentire Bersani, dopo un anno di trattative cuore a cuore, proclamarsi imbrogliato come è capitato per il Porcellum. E neppure vorrei rivedere la destra approvare in solitudine al Senato una riforma costituzionale che ha introdotto nientedimeno che il sistema presidenziale, che ora giustamente si guarda bene dal ricordare come un merito. Quanto invece alle altre riforme, è un'altra cosa».
La grande coalizione è di nuovo possibile?
«Ho paura che quella pensabile non sia una grande coalizione, ma solo una grossa coalizione. Il Paese ha invece bisogno di una proposta chiara e forte, fondata sul consenso diretto ed esplicito della maggioranza dei cittadini. Se questo non risultasse ora possibile, tanto vale modificare subito la legge elettorale e ritornare al più presto al voto».
E Monti? Ha alzato i toni contro il Pd, ha aperto al Pdl...
«Era quello che aveva già iniziato a fare Casini quando diceva, senza riderne, di lavorare per un governo aperto al Pdl senza Berlusconi e magari a Bersani, senza tutto il Pd. Ho paura che anche Monti stia imparando a fare politica troppo in fretta».
Non sbaglia Bersani a non cercare un patto con Monti prima del voto?
«Era quello che avrebbero dovuto fare tutti. Lo ripeto inutilmente da anni. Se l'unica via per dare al Paese una maggioranza ampia e coerente era, come dice Bersani, un accordo tra i moderati e i progressisti, tanto valeva stringere un patto davanti agli elettori, davanti agli elettori mantenerlo e, nel caso, scioglierlo. Si è invece preferito rinviare tutto a dopo il voto all'insegna del "parla tu con i tuoi che io parlo ai miei, e poi ci parleremo tra noi". Esattamente come ha imparato a rispondere Monti quando dice che dichiarare le alleanze prima è "vecchia politica"».
Bersani è ancora in tempo o rischia la fine di Occhetto e della gioiosa macchina da guerra del '94?
«Qua si gioca alle elezioni come se fosse un normale incontro sportivo. Fra un mese riscopriremo che, quello che pensavamo fosse il fischio di fine della partita, era invece il fischio di inizio».
La vedo a disagio... Sta pensando di non votare il Pd?
«Votare voto. Ma sempre più da elettore di opinione. Per me il totale dà ancora Pd, però gli addendi della somma col segno meno sono ancora troppi. Non è questo il Pd per il quale 20 anni fa mi ero messo in cammino. Ma ora la priorità è accompagnare Berlusconi all'uscita».

Corriere 30.1.13
Famiglia Cristiana e il voto dei cattolici


Cattolici indecisi. Ma comunque, assai più propensi a votare Mario Monti che non la media nazionale. L'indagine d'opinione è stata svolta dall'Istituto Demòpolis per conto di Famiglia Cristiana. Tra i cattolici praticanti che hanno dichiarato l'intenzione di andare alle urne, il 31% si è espresso per la coalizione di centrosinistra guidata da Pier Luigi Bersani, il 27,5% per il centrodestra di Berlusconi e il 25% per il raggruppamento che sostiene il premier uscente Mario Monti. Quest'ultimo dato è superiore di circa dieci punti alle intenzioni di voto espresse, invece, dalla generalità degli elettori italiani. Tra i cattolici, inoltre, il 10,5% ha espresso l'intenzione di votare per il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo e il 3% per Rivoluzione civile di Ingroia. Tuttavia, soltanto il 63% dichiara di aver compiuto una scelta definitiva: il 16% proprio non ha ancora deciso, mentre il 21% esprime un'intenzione di voto, ammettendo però che potrebbe cambiare idea prima del 24 febbraio. Secondo il sondaggio, considerando tutti gli italiani, il centrosinistra si trova al 34,5%, il centrodestra al 27%, i grillini al 16% e i sostenitori di Mario Monti al 15%. Anche secondo Demòpolis, dunque, pur registrandosi un avvicinamento tra le due coalizioni maggiori, la distanza tra centrosinistra e centrodestra resta di circa 7 punti: «Un margine ancora piuttosto ampio».

Repubblica 30.1.13
Gli indecisi entrano in campo il centrodestra si avvicina al Pd
Il centrosinistra mantiene un margine ampio: al Senato arriva a 11 punti, però l’incognita dei premi regionali rende ancora incerta la vittoria piena
Bersani avanti anche dopo il caso Mps, il Pdl in recupero resta sotto di 10 punti e la coalizione Monti sale al 18 per cento
Nel sondaggio Demos calano gli indecisi. Renzi leader preferito
di Ilvo Diamanti

A MENO di un mese dal voto, le distanze tra le coalizioni si riducono. Ma di poco. Le polemiche intorno alle vicende del Monte dei Paschi di Siena sembrano aver prodotto effetti, fin qui, limitati sulle intenzioni di voto. È ciò che emerge dal sondaggio di Demos per Repubblica, realizzato negli ultimi giorni.

PER quanto coinvolto da critiche e sospetti, il Pd, alla Camera, ha ceduto meno di un punto e rimane appena sotto al 33%. Mentre il Pdl ha recuperato un punto e supera, così, il 19%. Il Centrosinistra, comunque, si attesta sul 36,4%, circa 10 punti più del Centrodestra (2 meno di una settimana fa).
Al Senato, il vantaggio risulta ancora più ampio: 38% a 27%. Cioè, 11 punti. A livello nazionale. Tuttavia, la legge elettorale non permette previsioni, perché al Senato l’assegnazione dei premi di maggioranza avviene regione per regione. Resta, quindi, l’impressione che lo scandalo Mps, nonostante abbia monopolizzato il dibattito pubblico, non sia riuscito a produrre una svolta decisa nel clima d’opinione. Le intenzioni di voto, negli ultimi giorni, non hanno subito variazioni sensibili. Così, le differenze osservate, rispetto a una settimana fa, sembrano dettate da altre ragioni. Soprattutto, dal progressivo scongelamento degli indecisi — ancora numerosi: circa il 30%. Un processo che favorisce il Centrodestra — la cui “riserva” di delusi è molto ampia. Ma anche la coalizione guidata da Monti. Nell’insieme, ha guadagnato un punto e mezzo e si avvicina al 18%. Spinta dalla formazione del premier, Scelta Civica, salita al 12,5% (cioè, di quasi un punto).
Anche l’Udc, per la prima volta, recupera consensi (anch’essa quasi un punto). E frena l’emorragia di voti che aveva subito, fino ad oggi, a favore della Lista Monti. La principale indicazione offerta dal sondaggio di questa settimana, dunque, riguarda proprio il peso assunto dal Terzo Polo. Il quale, per la prima volta dopo il 1994, sembra interrompere, o comunque indebolire, la dinamica bipolare del sistema partitico e della competizione elettorale in Italia. D’altronde, altri indizi, raccolti dal sondaggio, concorrono a spiegare — e a confermare — questa tendenza. In primo luogo, l’immagine del leader. La fiducia verso Monti, infatti, nell’ultimo mese è scesa di quasi 5 punti. Ma resta comunque alta: 42,5%. Il premier è terzo, nella graduatoria dei leader. Peraltro, il 38% degli elettori lo considera il più “competente”. E il 61%, soprattutto, lo riconosce in grado di “garantire la credibilità del Paese all’estero”.
La capacità “competitiva” di Monti e della coalizione di Centro marca, dunque, la principale differenza rispetto alle ultime due elezioni. In particolare, rispetto a quelle del 2006, quando il Centrodestra trascinato da Berlusconi, riuscì a rimontare tutto lo svantaggio accumulato in precedenza. Fin quasi a pareggiare, con Prodi. Ma allora il confronto (lo scontro?) era diretto. Tra Berlusconi e Prodi: non c’era nessuno. Casini e l’Udc erano alleati con il Cavaliere. Oggi, invece, “in mezzo” c’è Monti. Il quale, nell’ultima settimana, ha preso di mira il Centrosinistra. In modo aggressivo. Per rubare il mestiere — e la scena — a Berlusconi. Per apparire la vera alternativa a Bersani — e soprattutto a Vendola. Per chiudere e confinare il Cavaliere “a destra”. E intercettare il flusso dei delusi del Pdl — tanti, ancora rifugiati fra gli indecisi. In attesa di decidere. Se votare e per chi.
Un altro segno delle difficoltà che incontra il “bipolarismo”, in questa fase, è offerto dall’atteggiamento verso il “voto utile”. Meno condiviso rispetto al passato. Certo, il 54% degli elettori ritiene ancora opportuno “concentrare il voto sulle due coalizioni maggiori”. Ma nel 2008 l’orientamento “maggioritario” veniva espresso da un’area di cittadini superiore di quasi 9 punti.
In un sistema attraversato dall’alternativa pro/anti-berlusconiana, l’indebolirsi del bipolarismo danneggia proprio lui. Berlusconi. Il quale, non a caso, ha rifiutato di partecipare a un confronto in tivù con gli altri sei leader. Avrebbe significato porsi sul medesimo piano di tutti gli altri. Ammettere e riprodurre la fine del bipolarismo — e del berlusconismo.
A Centrosinistra, Bersani (48,5%) è ancora il secondo tra i leader, nella valutazione degli elettori. Dietro al suo avversario delle primarie, Matteo Renzi. Che ottiene un giudizio
positivo da quasi due terzi degli intervistati. A conferma della grande fiducia di cui gode ben oltre i confini del centrosinistra. Evidentemente, la scelta di “volare basso”, di tirarsi fuori dalla contesa per i posti al Parlamento, ne ha rafforzato ulteriormente la credibilità. Tanto più in questa fase di distacco dalla politica. Proprio per questo, però, diventa importante — e utile — per Bersani coinvolgere Renzi. Come testimonial del proprio progetto. Della propria leadership.
Il Centrodestra, come abbiamo visto, sta risalendo. Ma, fin qui, non sfonda. L’appeal del Cavaliere resta debole. Ultimo nella graduatoria dei leader, per popolarità. Fermo al 20%. Nonostante la grande capacità di tenere la scena, in tivù. E nonostante la tivù resti, per la larga maggioranza degli elettori (60%), il principale canale di informazione in questa campagna elettorale.
Il che contribuisce a spiegare la scelta, annunciata da Beppe Grillo, di tornare in televisione, in vista del voto. Non si sa dove, come e quando. D’altronde, il M5S, nelle stime di voto, è accreditato del 13%. Tanto, ma meno di qualche mese fa. Così Grillo — l’unico a riempire le piazze, in questa campagna elettorale — ha deciso di tornare alle origini. In televisione.
Non so che pagherei per vederlo a un “faccia a faccia”. Con Monti, Bersani, Berlusconi. E Vespa…

Corriere 30.1.13
«Regalo di nozze con soldi pubblici»
Lombardia, indagati per i rimborsi trenta consiglieri dell'opposizione
di Giuseppe Guastella


MILANO — Un' altra trentina di nomi di consiglieri regionali lombardi finisce sul registro degli indagati della Procura di Milano con l'accusa di peculato per le spese rimborsate dal Pirellone tra il 2008 e il 2012. In una sorta di par condicio giudiziaria pre elettorale, a finire sulla graticola stavolta sono i rappresentanti dei partiti dell'opposizione: Pd, Idv, Sel, Udc e Pensionati sospettati di aver utilizzato i fondi per spese che i magistrati non ritengono compatibili con gli scopi del mandato elettorale. E tra le spese, da verificare una ad una, spunta una ricevuta per un regalo di nozze presentata da un componente del Pd e finita tra quelle addebitate alle casse dell'erario.
I nuovi indagati si aggiungono ai 62 consiglieri di Pdl e Lega già coinvolti nell'inchiesta dei pubblici ministeri Alfredo Robledo, Paolo Filippini e Antonio D'Alessio (fanno parte del dipartimento guidato da Robledo che indaga sui reati contro la pubblica amministrazione) per spese che negli anni hanno raggiunto i due milioni di euro. Dopo aver ricevuto un invito a comparire, nelle scorse settimane diversi componenti della maggioranza si sono presentati per essere interrogati al quarto piano del palazzo di giustizia di Milano, e qualcuno è anche riuscito a dimostrare subito che tutto era regolare.
Nelle prossime ore anche molti, ma non necessariamente tutti, degli attuali ed ex consiglieri lombardi dell'opposizione potrebbero essere convocati in Procura a spiegare in che modo hanno usato i soldi dei cittadini.
Dopo aver spulciato migliaia di scontrini, ricevute e fatture nei venti faldoni e sei scatoloni di documenti acquisiti in Regione, gli uomini della Guardia di finanza di Milano hanno tracciato un primo quadro per verificare se spese di rappresentanza, trasporto, comunicazione, contratti di consulenza e collaborazione delle opposizioni presentate rientrino in quelle previste dalla legge o se, come si è verificato tra i consiglieri di Pdl e Lega, siano soldi usciti dalle casse senza giustificazione e, quindi, illegalmente.
Il panorama sul quale stanno lavorando gli investigatori non è lo stesso per tutti i gruppi. In quello dei Pensionati, formato da un solo consigliere, ovviamente le spese si identificano esattamente con quelle dell'unico rappresentante. Stessa cosa è avvenuta per Italia dei Valori e Sel, i cui consiglieri hanno addebitato le uscite al fondo complessivo del gruppo. Per quanto riguarda Udc e Pd, invece, le uscite sono state caricate sia sulle dotazioni personali dei singoli consiglieri, sia sul gruppo. Ed è anche per questo che nel Pd, ad esempio, le note-spese di ciascun rappresentante non superano in molti casi poche centinaia di euro al mese, a differenza di Pdl e Lega nei quali la media è di 1.500 euro a testa. Per stabilire se ci sono state altre irregolarità, bisognerà quindi attendere che nelle prossime settimane siano verificati i soldi spesi da ciascun gruppo.
Il Partito Democratico è l'unico ad aver messo sul suo sito internet l'elenco delle spese a partire dall'annualità 2012, quando sono entrati nelle casse 428.216 euro. L'uscita più cospicua riguarda i convegni (103mila euro), i viaggi dei consiglieri (99mila euro) poi ci sono 43mila euro per consulenze, 37mila per materiale per ufficio e 35mila per spese di rappresentanza e trasporto. Come per la maggioranza, abbondano i pranzi, le consumazioni al bar e coffee break per convegni (5.500 euro tra marzo e giugno 2012) gli alberghi, il materiale elettronico (pc e tv) e i francobolli.

Corriere 30.1.13
L'ironia di Maroni su Twitter Ambrosoli: cambiare le regole
Il candidato del centrosinistra: le loro cifre superiori
di Andrea Senesi


MILANO — Niente cartucce per i fucili da caccia e nemmeno cene di lusso o ricevimenti da mille e una notte. Eppure dalle parti del centrosinistra l'impresa rischia ora di farsi proibitiva: convincere gli elettori, soprattutto i propri, che non tutti sono uguali in fatto di rimborsi, note spese e scontrini. Nemmeno al Pirellone, il palazzo degli scandali e dei veleni.
Circa trenta indagati. Più o meno due su tre (una quarantina i consiglieri d'opposizione sfilati al Pirellone dal 2008 a oggi). Pd, Idv, Sel, Pensionati, Udc. A dicembre toccò ai colleghi del centrodestra finire nelle polveri e sfilare in procura. Ora il contrappasso. Atteso, scontato, eppure doloroso. Perché a ventisei giorni dal voto la notizia equivale a un mezzo disastro. «Ma no, — sorride qualcuno dal Pirellone — pensa se fosse arrivata il venerdì prima delle urne, col silenzio elettorale di lì a poche ore? Così almeno avremo il modo di spiegare, di chiarire».
Un guaio, però. Roberto Maroni, il principale competitor del centrosinistra per Palazzo Lombardia, se la ride a distanza. «Ma guarda... tutta gente che ci faceva la morale», scrive su Twitter dopo aver appreso la notizia. Ancora più velenoso Matteo Salvini, che di Maroni è il braccio armato in Lombardia»: «Cosa dice adesso Ambrosoli? Si tiene gli eventuali indagati in lista? Si ritira? È stata una settimana disastrosa per i "compagni", dal buco del Monte dei Paschi di Siena al peculato dei consiglieri lombardi: in pochi giorni hanno perso la verginità».
La risposta dell'avvocato «civico» è meditata e assai misurata: «Il fatto che sia soltanto una parte dei consiglieri dell'opposizione ad essere indagati, mentre per la maggioranza erano stati tutti, non ci lascia tranquilli», spiega Umberto Ambrosoli: «Né ci basta che le spese adesso sotto accusa riguarderebbero cifre di gran lunga inferiori rispetto a quelle contestate agli esponenti della maggioranza. Ribadiamo l'assoluta necessità di fare chiarezza. Vanno cambiati alla radice i regolamenti che governano la gestione dei gruppi politici in Consiglio regionale. Quanto a Salvini e Maroni e alle loro dichiarazioni sul mio moralismo, ricordo che, prima di fare battute di spirito, farebbero meglio a mettere qualche manifesto abusivo in meno, e con il risparmio rifondere i soldi spesi dai consiglieri leghisti per i matrimoni dei familiari e per le cartucce da caccia, messe a carico dei contribuenti».
Toni tutto sommato soft invece da Gabriele Albertini, il terzo incomodo nella successione alla monarchia formigoniana: «Noi vogliamo cambiare la legge regionale. Ci vuole una rendicontazione precisissima e su casistiche predeterminate in modo da allinearsi al Parlamento europeo. Su questo fronte zero compromessi».
Da dire che almeno il Pd aveva pubblicato (senza però specificare i singoli beneficiari) l'elenco dei rimborsi per il 2012. Nella lista anche le mimose acquistate per l'otto marzo e i rimborsi per aver dato alle stampe pamphlet anti-Formigoni da distribuire agli elettori. Il capogruppo del Pd Luca Gaffuri non si sottrae all'incombenza: «È giusto che la magistratura approfondisca e verifichi i conti dei gruppi consiliari e quindi anche quelli dell'opposizione. Teniamo a ribadire che nella nostra contabilità i rimborsi diretti ai consiglieri sono meno del due per cento del bilancio del gruppo. Il resto sono attività di funzionamento, di comunicazione e per il personale. Nei nostri documenti non si troveranno spese per cartucce da caccia o per banchetti di nozze».
È la linea ufficiale. Anche Emanuele Fiano, responsabile sicurezza del partito, interviene in difesa dei consiglieri lombardi finita sotto inchiesta. «La Lega stia tranquilla e pensi alle false lauree in Albania o ai soldi in Tanzania, oppure ancora al pranzo di nozze della figlia del loro ex capogruppo in Lombardia pagato con i rimborsi».
Lombardia, Ohio d'Italia. Fabio Pizzul, uno dei consiglieri del Pd che più s'è speso contro i privilegi della casta, ora sospira: «A me cambia poco. Però accidenti il danno d'immagine per il partito c'è tutto». La corsa verso Palazzo Lombardia non è più in discesa.

il Fatto 30.1.13
Paura democratica, la sindrome del 2006
Ieri un sondaggio dava il centrodestra a 3 punti di distacco
Al Nazareno cresce il timore di vedersi soffiare la vittoria
di Wanda Marra


Balotelli ha un carattere complicato ma è un genio del calcio. Da interista mi dispiace moltissimo che se lo sia comprato Berlusconi”. Già sempre lui. Lui che “usa scorrettamente tutti i mezzi, dalle televisioni al Milan”. Lui che “nel Natale del 2003 poco prima della discesa in campo andava tra i pulcini rossoneri a far regali a tutti”. Si lascia andare ai ricordi Walter Verini, deputato di lungo corso del Pd, ricandidato in Umbria. Mentre ricorda che “la partita bisogna giocarla, le elezioni non sono mica già vinte”. Eppure c’era stato un momento in cui Pier Luigi Bersani sorrideva da tutti gli schermi tv mentre si auto-incoronava come “la lepre” da rincorrere. Bei tempi.
ADESSO, ogni giorno ha la sua grana. Dalla bomba Mps ai mirabolanti tagli alle tasse promessi da Monti, dal rifiuto di Ingroia di sottomettersi e “responsabilmente” (copyright Pd) ritirare le liste per il Senato, all’ennesima resurrezione di Berlusconi. Solo 3 punti di differenza tra centrosinistra e centrodestra, secondo l’ultimo sondaggio della Ghisleri. E in generale secondo tutte le rilevazioni il calo è costante. Sotto il 30% il Pd sta non solo per Euromedia, ma pure per Swg. E adesso arriva la ciliegina sulla torta-Balotelli. Secondo la propaganda del Cav. vale due punti. Altri due. Tattica consolidata la sua. Nel 2006 in funzione anti Prodi Berlusconi comprò Kakà, nel 2008 Ronaldinho. “Dio ci scampi, Dio ci scampi”: basta evocare il 2006 e Cesare Damiano, ministro del Lavoro del Governo Prodi, risponde così. Quella volta i sondaggi davano l’Unione in vantaggio schiacciante. A piazza Santi Apostoli la sera del 10 aprile era già pronta la festa. Si trasformò in una veglia funebre, con gli instant poll che vedevano accorciare di ora in ora le distanze tra i due schieramenti. E Piero Fassino che si presentò davanti alle telecamere alle 2 e 44 del mattino: “Abbiamo vinto”, disse, con la faccia di uno che annunciava la sconfitta. 25mila voti di differenza, un Senato ingovernabile. Il governo Prodi durò 2 anni. “Non abbassiamo la guardia, non diamo niente per scontato. Stiamo facendo una vera campagna elettorale”, dice Damiano. Toni eroici. “Pancia a terra”, per dirla con Davide Zoggia, responsabile Enti Locali, uomo molto vicino al segretario che cita numeri incoraggianti e parla di entusiasmo ovunque. Ma già che c’è dà una botta pure al Balotelli calciatore: “È discontinuo”. Però il danno è fatto. Sul tema interviene Bersani, da un palco di Trieste: “Negli ultimi due giorni ho fatto oltre un migliaio di chilometri in giro per l’Italia. In questa stessa giornata Berlusconi ha passato diverse ore con il procuratore di Balotelli per vedere se sotto le
elezioni riesce a fare questo colpo”. Il serio e responsabile Pier Luigi mette il dito nella piaga. Gli altri i fuochi d’artificio li fanno. Lui non fa spettacolo, non racconta “favole”. Al massimo conia metafore. Come quella di ieri: evasione? “È come non vedere una mucca nel corridoio”. Da “lepre” leggiadra e veloce si è trasformato nel mastino che promette “Li sbraniamo tutti”. “Serve un cambio nella campagna elettorale, dà voce ai fantasmi comuni, Sandro Gozi, europeista. “Dite che non sono resi conto che la campagna elettorale sarebbe stata così dura? ”, qualche dubbio ce l’ha anche l’onorevole Trappolino.
IL NAZARENO in questi giorni sembra un fortino: dentro c’è quasi solo il “tortellino magico” del segretario, che gestisce contenuti e comunicazione. “Si respira non solo paura, ma pure isolamento. Bersani è completamente solo. Ognuno si fa i cavoli suoi”, racconta Lino Paganelli, dirigente democratico, renziano dell’ultima ora ed escluso dalle liste a un attimo dalla chiusura. La paura ha le sembianze non solo dell’eterno Caimano, ma pure del gelido Professore. “Ma chi è ‘sto Monti? Sembra dr Jeckyll e Mr Hyde. Si dia una calmatina eh. Abbassi la cresta”. Paola Concia è passata da Roma. Sta facendo la campagna elettorale in Abruzzo “dove fa un freddo porco”. Ma i brividi non sono di freddo: “La paura è tanta”. E se “’sto Monti” pretendesse Palazzo Chigi? “Non ci voglio neppure pensare”. “Se ci azzoppano la vittoria è per concorso esterno”. L’espressione è di Fioroni e si riferisce ai voti che potrebbero arrivare a Ingroia. Ma molti come “concorso esterno” temono nuove carte dell’inchiesta Penati o nuovi sviluppi di Mps, si parla addirittura di qualche intercettazione di Ceccuzzi, oppure chissà...
”I sondaggi non sono un problema: sono affidabili solo per Pd, Sel, Lega e Pdl. Per tutto il resto no. Quindi noi non abbiamo niente da temere”. Parola di Pietro Martino. E il Senato? “Va-beh, quello è in bilico dall’inizio. E lì, se si va al pareggio, al massimo rivotiamo”. Alla faccia della sicurezza.

l’Unità 30.1.13
«Più pubblico e meno tagli nella sanità»
Il Pd presenta il piano di rilancio dei servizi
Fontanelli: «Errata l’idea che con la crisi il sistema universalistico non sia più sostenibile»
di Rachele Gonnelli


Un taglio netto, chirurgico, con tutto ciò che è impastato di marcio nella sanità italiana per ridare smalto e lucidità d’intervento agli ospedali, collegati in rete, garantire l’accesso ai servizi a tutti i cittadini, da Nord a Sud, con omogeneità dei livelli di prestazione essenziali e assicurare la trasparenza, via Internet, di appalti e forniture delle Asl. Non è il libro dei sogni il documento sul rilancio del Servizio sanitario nazionale presentato ieri al Nazareno. Non lo è perché parole inflazionate come «eliminare gli sprechi», «razionalizzazione delle risorse» vengono declinate in un programma chiaro, coerente, anzi in un sistema nuovo, interamente pubblico, senza nessun cedimento alle commistioni pubblico-privato che hanno prodotto storture e voragini di bilancio, un sistema basato su due parole «universalismo e solidarietà» che pone mano alle storture del federalismo e offre la cornice per un ventaglio di servizi territoriali integrati a disposizione dei cittadini.
Niente più ticket, niente più tagli. «Noi contestiamo spiega Paolo Fontanelli, responsabile Sanità del Pd l’idea che si è fatta strada con Sacconi e anche con Monti che di fronte alla crisi il sistema universalistico non sia più sostenibile. Se si sono create situazioni insostenibili sono stati proprio i tagli lineari a generarle scaricando i costi sui cittadini in termini di diminuzione dei servizi e sui dipendenti in termini di aumento della precarietà». «È inimmaginabile ribadisce Fontanelli un’ulteriore riduzione degli stanziamenti destinati al Fondo sanitario nazionale» ma, anzi, «avremo bisogno di mettere in campo anche un po’ di soldi in più per la riorganizzazione del sistema». Soldi da prendere «dalla fiscalità generale».
«Chi vuole una sanità privata per i benestanti e una dequalificata per i poveri, un sistema assicurativo stile Usa prima di Obama, non voti per noi», sintetizza Ignazio Marino. Ma è da sfatare il mito che la spesa sanitaria italiana sia eccessiva: è pari al 7,1 per cento del Pil quando la media europea è del 9 per cento. In ogni caso per il Pd il diritto alla salute è «un diritto primario e fondamentale», una «priorità indiscutibile» per il nuovo governo, che purtroppo si troverà a fare i conti con 31 miliardi di tagli già previsti fino al 2015 e nuovi ticket per 2 miliardi di euro a partire dal gennaio 2014. Come fare allora? Il sistema proposto dal Pd prevede meno ospedali, che devono dedicarsi alle patologie acute e alla medicina specialistica evitando doppioni e ridondanze, e più servizi territoriali con la creazione di ambulatori di medicina di base aperti H24 e integrati con servizi domiciliari e sociali. Ignazio Marino fa notare che in Italia esistono 24 macchinari per risonanze magnetiche ogni milione di abitanti, in Francia 7 e in Germania 10, «non è possibile che ogni ospedale si ritenga un universo solitario».
Altri sprechi possono essere recuperati contrastando quella che si chiama «medicina difensiva»: il medico che per timore di essere denunciato o criticato dal paziente prescrive antibiotici, altri farmaci o esami clinici anche se non ce n’è bisogno. Allo scopo serve una legge di maggior tutela del rischio clinico, potenziare la formazione e la medicina preventiva. Il ministero della Salute deve poi recuperare potere di indirizzo anche tramite un’agenzia unica di monitoraggio e verifica e una sola commissione bicamerale ora ce ne sono due, al Senato e alla Camera sulla cosiddetta malasanità.

l’Unità 30.1.13
Il Welfare italiano ha perso il 75% delle risorse
Camusso: «È il segno della politica che abbiamo contrastato in questi anni»
di Giuseppe Caruso


MILANO I Fondi nazionali per gli interventi sociali hanno perso il 75% delle risorse complessivamente stanziate dallo Stato negli ultimi 5 anni. È quanto emerge da un’indagine dello Spi-Cgil sul welfare italiano.
Secondo l’analisi del sindacato il Fondo per le politiche sociali, quello che costituisce la principale fonte di finanziamento statale degli interventi di assistenza alle persone e alle famiglie, ha subito la decurtazione più significativa, passando da una dotazione di 923,3 milioni di euro a quella attuale, ferma a 69,95 milioni. Non va meglio, per quanto riguarda il Fondo per la non autosufficienza, la cui dotazione finanziaria nel 2010 era di 400 milioni di euro, ed è stato del tutto eliminato dal governo Berlusconi. Nonostante le promesse, poi, non è stato rifinanziato dal governo Monti. Ulteriori tagli, infine, sono stati apportati al Fondo per le politiche della famiglia (da 185,3 milioni a 31,99 milioni) e a quello per le politiche giovanili (da 94,1 milioni a 8,18 milioni).
SOLDI
Per quanto riguarda il livello locale, nei Comuni italiani si è registrata una diminuzione della spesa per i servizi sociali in senso stretto, durante il 2012, del 3,6%, mente è stata del 6,8% la diminuzione di risorse stanziate per il welfare allargato (servizi sociali, istruzione, sport e tempo libero), con punte dell’11% rilevate in diverse zone del Mezzogiorno. Più contenuta è stata la riduzione a carico delle spese per l’amministrazione generale (auto-amministrazione, costi della politica), che si è attestata al 2,9%.
La riduzione delle risorse destinate ai servizi di assistenza non ha portato però ad una diminuzione delle entrate tributarie, che nel 2012 sono aumentate del 9,5%. Complessivamente il gettito derivante dall’addizionale comunale Irpef è aumentato del 7,8%. Nei Comuni del Mezzogiorno questo aumento è stato del 9,3% mentre in quelli del Centro-nord è stato dell’8,2%. La tassa sui rifiuti ha mostrato invece aumenti medi pari a circa il 4,2% ma se si considera il quinquennio 2008-2012 il trend supera mediamente il 35%. Al sud tali aumenti sono stati mediamente del 4,9% mentre al centro-nord del 3,1%. In termini di spesa a valori costanti nei Comuni italiani nell’ultimo quinquennio la spesa corrente prevista è diminuita del 10,9% mentre le entrate tributarie sono aumentate del 6,7%.
«Ormai siamo davvero all’anno zero del welfare pubblico» ha dichiarato il segretario generale dello Spi Cgil, Carla Cantone «ed è bene che la politica si affretti ad intervenire ed è per questo che secondo noi il welfare deve essere messo al centro della campagna elettorale e del programma di governo di tutti i candidati».
Susanna Camusso, leader della Cgil, commentando i risultati dell’indagine sul welfare ha definito la perdita di risorse come «il segno della politica che noi abbiamo cercato di contrastare: quella che ha pensato che tagliando lo stato sociale e l’intervento pubblico si faceva ripartire il Paese. In realtà si è solo determinato che le persone stanno peggio di prima».
«Oggi poi assistiamo a questo strano fenomeno» ha continuato la Camusso «di un presidente del consiglio come Mario Monti che ci spiega di poter ridurre le tasse per 30 miliardi: vuole dire che si vuole massacrare di tagli sanità e istruzione. Invece che a tagli e rigore, si deve pensare al welfare come ad un fattore di sviluppo, bisogna rimettere al centro la persona e la sua condizione. Per la Cgil è finita la stagione del lasciamo fare al mercato, è difficile sostenere che se il mercato va da se va tutto bene: non ci sarà un magico sviluppo con i tanti bei pensierini della sera».

il Fatto 30.1.13
Siena perde l’Ateneo. I revisori chiedono il commissariamento
Bocciato dal Collegio dei sindaci il bilancio preventivo 2013
Per far tornare i conti l’università non pagherà i debiti al Monte Paschi
di Giorgio Meletti


Due righe fulminanti, in linguaggio tecnico ma inequivocabili: il collegio dei revisori dei conti dell’Università di Siena invoca l’immediato commissariamento “prima che la situazione economica, finanziaria e patrimoniale degeneri ulteriormente”. Così si conclude il documento con cui, pochi giorni fa, i tre esperti - Cesare Lamberti, Massimiliano Bardani e Laura Pedron - hanno espresso parere contrario all’approvazione del bilancio preventivo 2013.
Per la rossa Siena è una beffa stratosferica: i censori contabili invocano la prima applicazione della riforma Gelmini proprio nell’ateneo governato per lunghi anni da Luigi Berlinguer, padre della riforma che la pupilla di B. ha sovvertito. Lo stato di dissesto per le Università infatti non esisteva prima della Gelmini, e anzi non esiste di fatto neppure adesso: il ministro tecnico Francesco Profumo non ha ancora varato i decreti attuativi che consentirebbero la procedura di dissesto.
Se il rettore di Siena, Angelo Riccaboni, non fosse professore ordinario di economia aziendale si potrebbe sospettare che non abbia capito. Avrà dunque altri motivi per dichiarare, come ha fatto il 5 dicembre scorso inaugurando solennemente l’anno accademico, che “la fase più acuta della crisi è superata”. E per vantarsi, come ha fatto davanti al senato accademico, di una lettera di congratulazioni del ministro dell’Economia Vittorio Grilli per “l’azione di risanamento intrapresa”. Certo, è vero che le cose non vanno più così male come quattro anni fa, quando venne rivelata una voragine da 270 milioni di euro in un ateneo che ha un bilancio inferiore ai 200 milioni l’anno. Ma è anche vero che il 2012 si è chiuso con ulteriori 46 milioni di perdite, e la previsione, forse ottimistica per il 2013 è di un rosso ancora a quota 19 milioni.
ADESSO metteteci sopra la ciliegina: la strategia dell’economista Riccaboni per risanare l’Università è di non pagare i debiti al Monte dei Paschi. Proprio così, lo notano, con un certo trapelante raccapriccio, i sindaci revisori nella loro relazione tenuta finora accuratamente riservata. E notano anche che meglio sarebbe utilizzare il beneficio conseguente per accelerare il risanamento, anziché, come ha deciso Riccaboni, per fare nuovi investimenti e “far tornare a crescere” il campus senese (perché a Siena la mania di grandezza è dura a morire).
E così il cerchio si chiude. Non solo il Monte, malato grave, taglia i fondi alla Mens Sana basket, al Siena calcio e al Palio. Non solo la Fondazione, azionista al collasso del Monte, deve tagliare le sue generose erogazioni, anche quelle all’Università. Ma l’Ateneo a sua volta decide di sospendere per cinque anni il pagamento delle sue rate di mutuo a Mps. Un vero e proprio kamasutra dell’insolvenza incrociata. E così c’è chi chiede il commissariamento della banca, c’è chi chiede il commissariamento dell’Università, e il Comune è già commissariato.
ORMAI sotto la torre del Mangia i tempi sono maturi per l’intervento delle truppe Onu. Non è una battuta. Tra pochi giorni lo stato maggiore degli accademici senesi sfileranno a vario titolo a palazzo di Giustizia, dove potrebbero incrociarsi con l’ex presidente del Monte, l’amico Giuseppe Mussari, e altri big della banca finiti nei guai. Ognuno ha i suoi guai. Piero Tosi, delfino di Luigi Berlinguer e rettore dal 1994 al 2006, è alle prese con una richiesta di rinvio a giudizio per il dissesto dell’Università. Il suo mandato terminò su intervento della procura di Siena, che lo ha rinviato a giudizio per tentata concussione, con l’accusa di aver indotto a ritirarsi l’unico altro aspirante al posto di ricercatore a cui puntava suo figlio Gian Marco: per fortuna è stato assolto, e quindi padre e figlio vivono felici e contenti nella stessa facoltà, medicina.
AL POSTO DI TOSI venne il rottamatore antiberlingueriano Silvano Focardi, che portò alla procura tutte le carte che dimostravano lo sfascio dei conti e il buco da 270 milioni. Ma anche il censore è finito nei guai, diventando celebre per le accuse sui finanziamenti alla sua contrada del Palio e sugli acquisti di quantitativi smodati di aragoste con soldi pubblici (la difesa sostiene che le aragoste servivano per certe ricerche nel campo della biologia marina). Anche Focardi attende la decisione sul rinvio a giudizio. E quindi venne Riccaboni, l’uomo della restaurazione berlingueriana (sempre nel senso di Luigi), che il 21 luglio 2010 è stata eletto contro Focardi per soli 16 voti su 570 votanti. In questo caso tra pochi giorni si decide sul rinvio a giudizio di dieci membri, di cui sette professori, della commissione elettorale: l’accusa (che non riguarda Riccaboni) è di aver truccato il voto. L’indagine è scattata subito dopo l’elezione di Riccaboni, che è stato intercettato mentre chiedeva lumi a Berlinguer, il quale lo rassicurava: convinto che l’inchiesta non poteva bloccare la nomina del nuovo rettore, sarebbe andato l’indomani a spiegare la situazione alla Gelmini. Due giorni dopo il ministro della Pubblica istruzione ratificò la nomina di Riccaboni.

l’Unità 30.1.13
Se i principi «non negoziabili» sono quelli della Costituzione
di Domenico Rosati


LA PROLUSIONE DEL CARDINALE BAGNASCO AL CONSIGLIO DELLA CEI SI OFFRE AD UNA DOPPIA LETTURA. UNA PIÙ CONNESSA ALLA CONTINGENZA POLITICO-ELETTORALE E UN’ALTRA APERTA AD UNA PROSPETTIVA CHE VA OLTRE LA DATA DI FEBBRAIO E SI ESERCITA, senza descriverlo, all’interno di uno scenario che, logicamente, suppone mutato.
Sul primo versante oltre all’enfasi sulla drammaticità della questione sociale colpisce l’assenza d’ogni riferimento ad un qualsiasi... agente fiduciario al quale affidare il consenso cattolico: né i devoti, atei e non, della cerchia berlusconiana né i sopraggiunti esponenti dell’aggregazione montiana, pur gratificata di una precoce quanto fugace benevolenza ecclesiastica. Gli specialisti del ramo trovano qui materia per discettare sull’inconcludenza degli incontri di Todi, rivelatori semmai delle distanze che separano le varie componenti della galassia associativa cattolica. Dove pesano gli effetti di un prolungato ristagno dell’elaborazione, con la conseguente incapacità di fornire al Magistero gli elementi essenziali per una «perizia laica» sul mondo. Di qui la ricerca di protezione sulle sponde della politica al posto dell’ambizione di realizzare animazione culturale e iniziativa sociale, fattori che pure in passato avevano inciso nella storia del Paese. È significativo il fatto che, mentre la maggior parte delle associazioni o tace o si esprime con proposizioni generiche, sia il presidente della Cei ad esprimersi in chiaro sulla povertà, la disoccupazione, l’«epidemia» della mancanza di lavoro dei giovani, la crisi della sanità, la corruzione e l’evasione fiscale, la malavita, l’ineguale distribuzione di sacrifici.
Ma è sull’altro versante, quello della prospettiva, che si concentra l’attenzione del cardinale; e lo fa con un richiamo ai temi della biopolitica per i quali ripropone senza sconti il criterio dell’irrinunciabilità e della non negoziabilità.
Questioni che qualche cronaca mette erroneamente tra parentesi come se si trattasse di un atto rituale, destinato all’irrilevanza politica, per di più con scarsa risonanza nelle stesse coscienze cattoliche ormai, si ritiene, esse stesse cauterizzate da un secolarismo senza principi. Ma il contesto della prolusione, ed anche il testo, non si prestano ad una catalogazione banale. A guardar bene, il criterio della non negoziabilità è presentato non come un’intimazione, ma come una preoccupazione ed una proposta di riflessione che vuole partire da un punto più alto, da una lunghezza d’onda offerta ad una più ampia sintonizzazione. Se si indica nell’individualismo «la madre di tutte le crisi», la condivisione non è circoscritta ad una cerchia confessionale ma si estende a quanti trovano nella lettura dei segni dei tempi leggi: nell’analisi della realtà elementi di apprensione per il destino dell’uomo. Trovano cioè motivazioni serie per una ricerca comune e senza pregiudizi sui valori da promuovere e sulle misure da adottare perché la persona umana, nella sua dignità e nella sua integrità, sia sempre e dovunque rispettata e promossa. Se c’è «un bene comune immanente che tenacemente va garantito», nessuno può sottrarsi all’impegno indipendentemente dalle motivazioni ultime degli atteggiamenti e delle scelte.
In questa luce è importante che il cardinale abbia ricordato come vi sia un collegamento tra i principi non negoziabili che egli enuncia e la Costituzione della Repubblica. E qui va specificato che essa espone un catalogo di «principi fondamentali» che la Corte costituzionale ha ritenuto immodificabili. Non può essere che questa la «via politica» per opporsi alla liquefazione dei significati che alcuni sociologi denunciano come caratteristica dell’epoca attuale; ed è lungo questa via che va recuperata la logica del bilanciamento dei principi (che sono sempre tutti e ciascuno inderogabili) e l’insufficienza dalla norma giuridica che sempre deve corrispondere alle variabili del tempo, del luogo e del cambiamento sociale.
Ne deriva una riflessione: probabilmente, se da ogni parte si fosse tenuto fermo il timone sui principi fondamentali della Costituzione, molti attriti si sarebbero evitati e qualche soluzione ragionevole sarebbe stata trovata al riparo da operazioni strumentali, o ritorni agli «storici steccati» tra clericali e anticlericali. E si sarebbe evitata la tentazione di costituire, sulla trincea della non negoziabilità, una discriminante politica da riversare in uno schieramento. D’altra parte è dimostrato che proprio a partire dalla Costituzione e nel rispetto di tutte le sensibilità, come è proprio di un partito plurale, è possibile tentare di costruire, lo si è fatto nel Pd, una piattaforma condivisa in cui la considerazione dei diritti conosce il limite del rispetto dei principi e delle esigenze di una convivenza non divaricata. L’ancoraggio alla Costituzione è anche la risorsa necessaria per non accedere, come si teme, ad una distorta «pressione europea» che viene usata a supporto delle istanze più radicali. Ad ogni modo, se queste sono le sfide, all’autonomia della politica non è consentito di schivarle.

l’Unità 30.1.13
Libri scomparsi
Dell’Utri finisce nell’inchiesta
I pm sospettano che alcuni volumi antichi scomparsi dalla biblioteca Girolamini siano passati dal direttore al senatore

di Raffaele Nespoli

La passione per i testi antichi sembra aver messo nei guai il senatore del Pdl Marcello Dell’Utri, che da ieri risulta indagato per concorso in peculato nell’ambito dell’inchiesta sulla spoliazione della storica Biblioteca dei Girolamini a Napoli. La svolta nell’indagine sui libri antichi rubati nel capoluogo partenopeo è arrivata ieri, quando i carabinieri hanno notificato sei ordinanze di custodia cautelare ad altrettante persone accusate di associazione a delinquere finalizzata al peculato, alla falsificazione e alla ricettazione di migliaia di volumi antichi. Gli arresti sono stati eseguiti a Genova, Napoli, Ozzano dell’Emilia (in provincia di Bologna), Porano (in provincia di Terni) e Santa Maria Capua Vetere (in provincia di Caserta).
L’operazione, coordinata dalla Procura di Napoli, nasce dall’attività investigativa, denominata «Library Lost» e portata avanti dai carabinieri dall’aprile 2012. Le indagini erano partite dopo che alcuni quotidiani locali avevano parlato di un ammanco dalla biblioteca dei Girolamini di circa 1.500 volumi di grande pregio. La scomparsa dei libri fu subito messa in relazione con la nomina, molto discussa, dell’allora neodirettore Marino Massimo De Caro, già consigliere del ministro per i Beni e le attività culturali. Ieri poi, i nuovi, clamorosi sviluppi. Quattro dei destinatari dell’ordinanze sono risultati già detenuti, mentre le manette sono scattate per il legatore Giuseppe Solmi, accusato di aver sistematicamente cancellato ogni contrassegno della biblioteca dai volumi sottratti, ed un corriere che avrebbe fatto da cerniera tra gli antiquari e il gruppo che si appropriava dei volumi.
Agli arresti domiciliari don Sandro Marsano, ex curatore della biblioteca. C’è anche lui al centro di quello che è stato definito senza mezzi termini «un mirato programma di smembramento, mutilazione, sistematico danneggiamento e illecito sfruttamento economico» del patrimonio librario della biblioteca dei Girolamini. Insomma, un’operazione destinata a far rumore, soprattutto quando nel registro degli indagati è risultato iscritto il nome di Dell’Utri. Secondo gli inquirenti, infatti, ci sarebbe stata una vera e propria intesa preventiva tra il direttore della biblioteca dei Girolamini Marino Massimo De Caro, e il senatore del Pdl per la consegna a quest’ultimo di diversi volumi sottratti dalla storica biblioteca partenopea. De Caro, vale la pena ricordarlo, è stato arrestato lo scorso maggio proprio con l’accusa di avere depredato la struttura. E non a caso il procuratore Giovanni Colangelo ha definito la vicenda «un atto di brutale saccheggio».
Immediata la replica di Dell’Utri, che alle agenzie di stampa ha spiegato di essere «già stato ascoltato dalla Procura». Sempre il senatore del Pdl ha poi definito la vicenda come «una bufala, una balla assoluta. Io spiega non c’entro assolutamente niente». Eppure, anche l’ex ministro della cultura Galan sentito dai pm aveva rivelato che «fu lo stesso Dell’Utri a consigliarmi il nome di De Caro» per dirigere la biblioteca napoletana. E stando alle accuse che arrivano dai nuovi profili di inchiesta, De Caro avrebbe sottratto 10 o 11 volumi per consegnarli proprio al senatore Marcello Dell’Utri. Tra gli altri, uno con una preziosa rilegatura rinascimentale. Nell’ordinanza emessa dal gip Francesca Ferri su richiesta del pool di magistrati coordinati dal procuratore aggiunto Giovanni Melillo emerge poi che Dell’Utri avrebbe fatto ritrovare nella Biblioteca di via Senato a Milano, da lui presieduta, la legatura cinquecentesca Canevari che pure gli era stata regalata da De Caro, nonché un’edizione de Il Principe di Leon Battista Alberti, l’Artificium Perorandi di Giordano Bruno, il Clavis Artis Lullianae di Johann Heinrich Alsted. Non si trova però una copia estremamente rara dell’Utopìa di Thomas More pubblicato nel 1516. All’appello mancherebbe anche una copia del De Rebus Gestis di Gian Battista Vico che pure De Caro ha ammesso di aver consegnato personalmente al senatore.

La Stampa 30.1.13
“Un patrimonio immenso che rischia di sparire per assenza di controlli”
Il direttore dei Musei Vaticani Paolucci lancia l’allarme
di Giacomo Galeazzi


Ex ministro Dal gennaio 1995 al maggio 1996 ha ricoperto la carica di ministro per i Beni Culturali durante il governo Dini
MANCATA SORVEGLIANZA. «Le piccole strutture sono quelle più a rischio Nessuno le tutela»

Professor Antonio Paolucci, lei dirige i Musei Vaticani (cinque milioni di visitatori nel 2012) dopo essere stato ministro dei Beni Culturali, che effetto le fa sentire di centinaia di preziosi volumi sottratti a una biblioteca?
«Mi addolora ma purtroppo non mi sorprende. Nell’Italia dei mille musei e biblioteche sta evaporando l’immenso patrimonio nazionale. Il dissesto in corso ha una pluralità di cause: furti, degrado, cambi di destinazione d’uso. È il tessuto culturale del Paese che sta crollando. Se non si colma il ritardo a livello di formazione, subiremo la completa liquefazione di quel patrimonio diffuso che è la vera ricchezza italiana».
A rischio sono i «piccoli»?
«Sì. Nei grandi musei come gli Uffizi la soglia di attenzione e di sicurezza è più alta, mentre i danni maggiori si registrano nelle strutture meno conosciute e perciò meno sorvegliate. Eppure la specificità del patrimonio culturale italiano è proprio la sua pervasività e diffusione. Tutelarlo è un servizio reso alla collettività che non si può misurare nei termini economici della parità di bilancio».
Lei è stato soprintendente a Firenze e Venezia, in base alla sua esperienza sul campo chi deve vigilare?
«Il sistema delle soprintendenze è un’invenzione italiana che tutto il mondo ci copia e invece è in via di smantellamento. Occorre che il soprintendente sia un autocrate statale, lontano dai localismi e distaccato da interessi particolari. Nell’Italia dei campanili e delle mille città, l’esiziale riforma del titolo quinto della Costituzione ha spostato i poteri dai soprintendenti ai sindaci e agli assessori, alimentando incompetenza e decadenza con effetti disastrosi sulla conservazione del patrimonio. È lo Stato che deve occuparsi della conservazione dei beni come si fa carico della scuola e della sanità. Si è tagliato fino a rendere impraticabile la tutela del patrimonio, sostenendo che la cultura non sfama nessuno. E invece serve a rendere civile un popolo».
Qual è il danno della mancata tutela del patrimonio?
«Incalcolabile. La vera redditività di un museo o di una biblioteca sta nella capacità di trasformare un uomo in un cittadino, nell’azione di preparare l’individuo alla complessità del mondo. Il loro profitto consiste nell’incivilimento. Senza difese, il patrimonio svanisce e ciò rappresenta uno sconvolgente paradosso perché la civiltà giuridica della tutela è nata in Italia, al tempo di Leone X che per primo comprese come, nel settore dei beni culturali, l’autorità amministrativa e prescrittiva vada inserita nella competenza tecnica. Per questo nel 1516 Raffaello divenne soprintendente di Roma».
E oggi?
«La Costituzione promuovelo sviluppo della cultura e tutela il patrimonio artistico. I costituenti assegnarono allo Stato centrale la tutela del patrimonio nazionale. Con il federalismo questo meccanismo naufraga. Lo Stato non può disinteressarsi della conservazione del patrimonio e dell’identità culturale delle nazione. Ogni dipinto razziato o biblioteca depredata sono una ferità insanabile alla civiltà. Una rovina per l’Italia e l’umanità intera».

l’Unità 30.1.13
Massimo Morigi, dieci anni nell’intelligence dell’Aeronautica
«Nel nostro ufficio foto, e pezzi del Mig. Chi c’era quella sera nei cieli? Non c’erano né italiani né americani»
«Vidi i segreti di Ustica Per questo fui cacciato»
di Roberto Rossi


ROMA La strage di Ustica è, senza dubbio, una delle ferite aperte di questo Paese. Si scelse, un pezzo di Italia scelse in maniera determinata, di coprire e insabbiare tutto quello che si sapeva sulla notte del 27 giugno del 1980 quando il Dc9 dell’Itavia si inabissò nel mare Tirreno con 81 persone a bordo. Documenti, prove, testimonianze, tutto fu piegato a un non ben nota «ragione di Stato». Ora, dopo la sentenza della Cassazione, che ha riconosciuto che l’aereo fu abbattuto e non esplose, qualcosa potrebbe cambiare. Ed è quello che si augura Massimo Morigi, che di quella stagione, fu un testimone diretto. Ci entrò, suo malgrado, nel 1984, quando, come sergente maggiore, fu chiamato al Sios dell’Aeronautica militare. Un servizio di intelligence che, tra le altre cose, decifrava e interpretava foto aeree e rotte di voli di mezzi non in linea con la politica Nato. E che conservava, gelosamente, segreti.
Come si imbatté nel caso Ustica?
«Da subito perché il mio ufficio aveva tutta la documentazione sul caso. Era stata acquisita dai servizi segreti militari».
Di che materiale si trattava? «Fotografie, documenti, pezzi di aereo».
E dov’erano conservati?
«Nelle “segrete” del secondo reparto dello Stato Maggiore dell’Aeronautica, in via Piero Gobetti a Roma». Segrete?
«I faldoni cartacei, con le testimonianze delle persone presenti nei vari centri radar, erano in una cassaforte, le foto e il resto in un magazzino dello stesso stabile».
Chi le aveva messe lì?
«Dal 1990 il responsabile dell’ufficio era il tenente colonnello Salvatore Lato. Prima’ancora c’era il tenente colonello Elio Biancucci».
I documenti fino a quando rimasero nella cassaforte?
«Fino al 1994, quando Rosario Priore, dietro mia testimonianza li requisì. Avrebbero dovuto essere consegnati quattro anni prima, quando Priore aprì il caso».
I pezzi di aereo invece?
«Erano pezzi del Mig libico abbattuto in maniera presunta nel 1980 e ritrovato una settimana dopo Ustica nei monti della Calabria. C’era tutto il materiale interno di sopravvivenza con scritte russe, viveri di conforto, un coltello in dotazione, pezzi dell’ala e pezzi della fusoliera, della coda e alcuni strumenti.
Che fine hanno fatto?
«Parte di questi pezzi sono spariti nel 1989 e sono stati ritrovati nel 1990 in Calabria, nella Sila a poca distanza da quelli rinvenuti dieci anni prima».
Lei andò da Priore nel 1994. Che cosa gli disse?
«Gli portai un rullino fotografico che conteneva le immagini di tutti i giubbotti di salvataggio del Dc9. Precisai che guardando i negativi si notavano dei piccoli fori. Ma che non si notavano bruciature di qualsiasi tipologia. Nel 1980 i giubbotti erano di un materiale simile al polistirolo e qualsiasi variazione di temperatura li avrebbe accartocciati. Non poteva essere stata una bomba all’interno dell’aereo».
Erano foto fatte dall’alto?
«No, erano foto a terra. Tutto era stato minuziosamente fotografato dalla Marina durante le operazioni di recupero».
Parlò anche dei pezzi del Mig?
«Sì, gli dissi che potevo provare che quei pezzi del Mig libico dove sono stati fatti ritrovare non c’erano mai stati». E come faceva a saperlo?
«Sapevo chi ce l’aveva portati».
Un tentativo di depistaggio?
«Uno dei tanti. In quei giorni serviva ritrovare pezzi del Mig».
Sui depistaggi ci sono stati processi e assoluzioni. Lei che idea si è fatta sull’incidente?
«Concordo con una parte di quello che hanno scritto i magistrati di Palermo. Per me si trattò di una leggera collisione con un caccia che ha portato all’ammaraggio del Dc9».
Per via dei giubbotti?
«Sì, anche nel caso di un impatto con un missile i cadaveri presentano bruciature. Alcuni avevano acqua nei polmoni. Ci sono testimoni diretti, con i quali sono in contatto e che parteciparono al recupero, che mi dissero che nessuno dei corpi era bruciato. E che avevano le ossa frantumate da impatto, dovuto con tutta probabilità a un ammaraggio».
Nel 2007 Francesco Cossiga parlò, però, di un missile a risonanza e non a impatto. Questo potrebbe essere compatibile con il quadro descritto.
«È possibile, anche se tendo ad escluderlo. L’impatto di un qualsiasi missile con la struttura di un aereo genera dei principi di incendio, cosa che non risulta. Cossiga è uno che si è portato con sé tanti segreti».
Chi c’era quella sera sui cieli italiani?
«Posso dire chi non c’era. Quella sera sopra i cieli di Ustica non c’erano aerei italiani né aerei americani».
Come fa a dirlo.
«Primo perché qualche giorno prima del 27 ci fu un’esercitazione Nato nell’area siciliana. C’era l’incrociatore Andrea Doria, la Vittorio Veneto, una portaerei francese, con due caccia torpediniere, più tre navi americane. Era un’esercitazione ed erano divisi in due gruppi chi attaccava e chi inseguiva. La mattina del 27 l’esercitazione finì e ognuno tornò a casa sua. Tranne i francesi che rimasero in zona».
E poi?
«Perché ho visto i tracciati. Nel 1990 il tenete colonnello Lato me li fece trascrivere su carta quando arrivo al Sios».
E perché?
«Non so, forse per testarmi. In fondo eravamo sempre nei Servizi segreti. Ma si può supporre che se le avesse nel 1990 ce l’aveva anche nel 1980 visto che allora era il responsabile del centro di ascolto di Marsala».
Morigi, oggi funzionario Ispra, dopo la testimonianza resa a Priore fu messo in malattia e poi, una volta rientrato in servizio, rimosso. Vittima anche lui di quella ragione di Stato che tutto può. O poteva.

Repubblica 30.1.13
Aldrovandi, in cella i poliziotti che lo uccisero
Il tribunale: mai ravveduti. Ma il Viminale non li licenzia: tra sei mesi torneranno in servizio
di Fabio Tonacci


ROMA — Si faranno sei mesi di carcere, perché «in sette anni mai hanno preso le distanze dalla vicenda delittuosa, mai un gesto anche solo simbolico nei confronti della vittima o della sua famiglia ». E però, quando usciranno, i poliziotti condannati per la morte di Federico Aldrovandi potranno tornare in servizio. Il Viminale non ha intenzione di licenziarli. Stando a quanto risulta a Repubblica, le commissioni disciplinari del Dipartimento di Pubblica Sicurezza li sanzioneranno solo con sei mesi di sospensione dall’impiego.
La storia giudiziaria di Monica Segatto, Paolo Forlani e Luca Pollastri, tre dei quattro agenti condannati in via definitiva a 3 anni e 6 mesi per «eccesso colposo nell’omicidio colposo» del diciottenne morto durante un controllo di polizia a Ferrara il 25 settembre del 2005, ha avuto il suo epilogo ieri davanti al Tribunale di sorveglianza di Bologna. Il giudice ha respinto sia la concessione degli arresti domiciliari sia l’affidamento ai servizi sociali per i sei mesi di pena che i tre dovranno effettivamente scontare, al netto dei tre anni coperti dall’indulto. «Da parte dei condannati — si legge nell’ordinanza del Tribunale — non si è registrato nessun gesto di riparazione sociale o di monito rispetto al ripetersi di tali comportamenti da parte di altri». A Paolo Forlani, che dopo la decisione della Suprema Corte si premurò di offendere su Facebook la madre della vittima, Patrizia Moretti, lo schiaffo morale più forte. «Tale condotta denota riottosità ad accettare la sentenza, la sua sindrome ansioso-depressiva reattiva (per cui Forlani è in aspettativa dal 22 giugno dell’anno scorso, ndr) non appare riconducibile alla sofferenza indotta per la morte del giovane». Insomma i tre poliziotti vanno in carcere, da quando sarà la procura di Ravenna a stabilirlo. Per il quarto condannato, Enzo Pontani, l’udienza è rimandata al 26 febbraio per un difetto di notifica. «Un segnale di civiltà, ora la Polizia li licenzi», dice la madre di Aldrovandi alla notizia che i carnefici di suo figlio andranno in galera. Ma quello che Patrizia Moretti invoca da anni, cioè la radiazione dei condannati, quasi sicuramente non accadrà. I consigli disciplinari delle Questure dove prestano servizio (la Segatto è alla polizia di frontiera di Venezia, Pollastri a Vicenza, Forlani a Udine) li sanzioneranno con sei mesi di sospensione. È il massimo previsto per un reato colposo. E se la sospensione scatterà contestualmente all’entrata in carcere, i tre non accumuleranno un giorno di assenza ingiustificata. «È ridicolo — commenta Fabio
Anselmo, legale della famiglia — non devono tornare a fare i poliziotti ». L’unico a rischiare il licenziamento è Forlani, sul quale oltre all’omicidio colposo pesano le ingiurie su Facebook.

il Fatto 30.1.13
Se Marx e Keynes vanno a Davos
di Salvatore Cannavò


Il giornale inglese, The Guardian, si è divertito a immaginare un dibattito di eccezione, al vertice di Davos, con un panel immaginario composto dal meglio del pensiero economico del Novecento. Karl Marx, John Maynard Keynes, Milton Friedman e Fritz Schumacher riuniti attorno a un tavolo, tra le montagne svizzere rifugio del simposio internazionale, e coordinati dall'elegante Christine Lagarde, direttore generale del Fondo monetario internazionale. Quattro diverse impostazioni economiche, quattro diverse visioni della politica e della società: da quella comunista a quella ultra-liberale, dal riformismo temperato all’ambientalismo visionario, incaricate di offrire una soluzione alla crisi globale. Si tratta di un gioco, ovviamente, ideato da Larry Elliott, capo economista di the Guardian, dove lavora dal 1988, e in cui i protagonisti vengono messi a proprio agio nello snocciolare le loro idee di fondo, quelle decisive.
E COSÌ apre le danze Karl Marx che tuona nella sua denuncia: “La classe capitalista riunita a Davos sembra incapace di riconoscere che le crisi sono inevitabili in un'economia globalizzata. C'è una tendenza a sovra-investire, a sovra-produrre e, quindi, a provocare una caduta del tasso di profitto, che, come sempre, i padroni hanno cercato di contenere tagliando i salari e creando un esercito di riserva del lavoro”. Lagarde lo guarda preoccupata: “È un’analisi cupa, Karl, i salari stanno crescendo abbastanza velocemente in alcune zone del mondo, come la Cina”. Ma Marx non demorde e spiega che “è vero che le economie dei mercati emergenti stanno crescendo rapidamente ma nel tempo anche loro saranno colpiti dagli stessi fenomeni”. Lagarde non appare convinta ma concorda comunque su un punto: la diseguaglianza è una minaccia. Quindi cede la parola al più “malleabile” Keynes, l’ispiratore della risposta americana, il New Deal, alla Grande crisi del 1929. “Pensi anche tu, Maynard, che le cose siano così sconfortanti come dice Karl? ” chiede la francese. “No, io non lo credo Christine”, risponde Keynes. “Io penso che il problema sia serio ma risolvibile. L’ultima volta in cui ci siamo trovati ad affrontare una crisi di tale portata abbiamo risposto con un allentamento della politica monetaria e con l’utilizzo di lavori pubblici per aggregare la domanda”. Keynes rimprovera agli attuali governi del mondo di non rispettare “l’equilibrio tra politica fiscale e monetaria” mentre “il settore finanziario resta largamente non riformato e la domanda aggregata è debole perché i lavoratori non ricevono un’adeguata porzione dei guadagni di produttività”. “L’economia è ferma al passato – è l’impietosa sentenza - come se la fisica non si fosse mossa dai tempi di Keplero”. IDEE RIBADITE, e rilanciate oggi dai suoi seguaci, come Paul Krugman anche se con scarso successo. Ma, nel nostro dibattito, è difficile che il liberista Milton Friedman, padre della “scuola di Chicago”, possa convenire con tale impostazione, come sottolinea senza esitazioni la stessa Lagarde. Friedman, “a differenza di Maynard” sostiene di non poter sostenere “misure che rafforzino il potere di contrattazione dei sindacati” e si considera per nulla appassionato “di lavori pubblici come risposta al crollo economico”. Però, spiega, “sosterrei certamente quello che Ben Bernanke (il presidente della banca centrale Usa, la Fed, ndr.) ha fatto con la politica monetaria negli Usa e sosterrei iniziative anche più drastiche se si rivelassero necessarie”. ”Ad esempio? ”, chiede Lagarde. “In circostanze estreme vorrei favorire politiche che annacquino la distinzione tra politica monetaria e fiscale. E' questo che intendo quando dico che bisogna lanciare gocce di denaro nell'economia”.
Infine è la volta di Fritz Shumacher, l'autore di “Piccolo è bello” (1973) che potrebbe essere annoverato tra gli ispiratori della teoria della “de-crescita”. “Sono molto turbato dal modo in cui il dibattito è andato avanti” risponde a Lagarde. “C’è un'ossessione per la crescita a tutti i costi, a prescindere dai costi ambientali. È spaventoso che così poca attenzione sia stata dedicata al riscaldamento globale, ed è quasi criminale la negligenza dei governi a non utilizzare tassi di interesse super-bassi per investire nelle tecnologie verdi. Come in passato, le recessioni hanno collocato le questioni ecologiche in fondo all'agenda politica. Quando le cose vanno bene i politici si dicono in favore dello sviluppo sostenibile ma gli impegni vengono dimenticati non appena la disoccupazione torna a crescere. Siamo all’economia del manicomio” conclude Shumacher.
L’ultima parola spetta a Keynes che si dice sostanzialmente d’accordo: “Se dovessi consigliare Roosevelt oggi, farei appello a un “New Deal verde”. Trovo difficile immaginare un mondo senza crescita ma Fritz ha ragione, abbiamo bisogno di una crescita più intelligente e più pulita. Come tu stessa hai detto la scorsa settimana, Christine, se continuiamo con questo ritmo, la prossima generazione sarà “tostata, arrostita, fritta e alla griglia”. Detto da Keynes, è più di una profezia.

Corriere 30.1.13
Lo sviluppo dell’ignoranza
di Gian Arturo Ferrari


La vergogna della mancata riforma elettorale non ha ostacolato un'abbondante fioritura di promesse sui provvedimenti da assumere all'indomani delle elezioni. Immediati, si dice, e draconiani. Nei primi cento giorni, nei primi dieci giorni, nella prima settimana, nella prima seduta del consiglio dei ministri, con il primo decreto legge... E allora dimezzamento dei parlamentari, regolamentazione dei conflitti d'interesse, nuova legge elettorale, abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, eliminazione di questa o quella tassa (e perché non di tutte le tasse?) e via vaneggiando. La classe politica, rosa dall'ansia che l'opinione pubblica pensi di lei quello che effettivamente pensa, si compiace di immaginarsi risoluta, volitiva e imperiosa. E si concentra non sul breve, ma sul brevissimo termine, quasi che l'illusione di immediatezza possa compensare il suo crescente discredito.
Del resto, questa nevrotica compressione dell'orizzonte temporale, che diventa una sorta di presbiopia, di incapacità di vedere lontano, non è una novità. È anzi il carattere saliente, o meglio la peggior malattia, del (mancato) riformismo italiano. Non è affatto vero che non abbiamo avuto riforme. Ne abbiamo avute troppe. Una girandola di riformine e riformette, messe insieme alla bell'e meglio, lasciate a mezzo come scheletri di edifici mai finiti, abbattute dal successivo governo, parzialmente ricostruite dal successivo del successivo. Non le riforme ci sono mancate, ma un indirizzo riformatore determinato e costante, in grado di sopravvivere oltre i due o tre anni di vita media dei governi. Una politica, la nostra, priva della terza dimensione, in cui l'idolatria dell'urgenza ha cancellato la profondità temporale. La ragione vera, cioè quella pratica, di questa angustia mentale è che i frutti di molte riforme non sono affatto immediati, non si vedono nell'arco di una legislatura. E sono perciò, elettoralmente parlando, ininfluenti. Quindi inutili. Nulla illustra meglio questo assunto del complesso formazione — istruzione — educazione, ossia valorizzazione del capitale umano. La cui pressoché totale assenza dal dibattito elettorale è stupefacente ancor prima che scandalosa.
È ben vero che se ne fa menzione nei programmi dei partiti, ma o in modo riduttivo, come nel programma del Pd sotto la sola voce «Istruzione» (che si risolve poi in promesse, assai elettorali, di aumenti di stipendio agli insegnanti). O in modo disorganico e rimandando la pratica a tempi migliori, come nel programma di Monti. Presenze compunte e doverose, come l'elemosina in chiesa, in sintonia con quella visione ornamentale della cultura che è il sintomo più vistoso della nostra arretratezza. In realtà, se su questi temi si tossicchia, si deglutisce e poi, all'atto pratico, si procede a qualche ulteriore taglietto (tanto quelli protestano comunque...) è perché non si riesce a capire di che cosa si stia in effetti parlando. Non si riesce a vedere il nesso tra una scuola rabberciata, una formazione professionale spregiata, un'università sgangherata, tassi di lettura desolanti e la loro logica conseguenza, cioè una bassa, bassissima produttività.
Viviamo in un Paese in cui il 5 per cento della popolazione adulta (dai 14 anni in su) legge da solo quasi il 50 per cento dei libri acquistati. Abbiamo cioè un'infrastruttura culturale ottocentesca, un elitarismo ridicolo, ma esigiamo la democrazia dei consumi e il welfare del terzo millennio.
Una politica cieca non riesce a liberarsi dall'assillo dell'urgenza e a deporre qualche spicciolo — non miliardi, per carità, non centinaia di milioni — in un ideale salvadanaio chiamato crescita culturale del Paese. Se lo facesse, ma con costanza però, con metodo e per un tratto di tempo sufficientemente lungo, si potrebbe, forse, raggiungere il grande obiettivo, mancato fin dal tempo dell'unità nazionale. Che non è il sabaudo e militaresco «fare gli italiani» (e chi, di preciso, avrebbe poi dovuto farli?), ma quello all'apparenza più modesto di dare a tutti gli italiani gli strumenti essenziali per costruire sé stessi.
Più che di essere fatti gli italiani hanno bisogno di essere trattati per quel che sono, il maggior capitale, la maggior risorsa, la maggior materia prima di cui l'Italia disponga. Solo in questo modo cesseranno di essere dei sottoposti, meritevoli di attenzione solo quando devono andare a votare. E potranno davvero costruire la loro convivenza. Cioè un Paese maturo, civile, consapevole. Pienamente europeo.

l’Unità 30.1.13
Netanyahu, la trattativa inciampa sulle donne
Incarica il suo ex capo staff accusato di molestie sessuali di condurre le trattative per il nuovo governo e fa infuriare le deputate
Yair Lapid si rifiuta di incontrarlo
Le proteste: «Il vero problema è il premier»
di Umberto De Giovannangeli

È l’uomo di fiducia di Benjamin Netanyahu. Colui che «Bibi» una fama da conquistatore, a dispetto dei suoi tre matrimoni sta per investire di un ruolo delicatissimo: guidare il team che per conto della lista Likud-Beitenu dovrà avviare le trattative per la formazione del nuovo governo israeliano. L’emissario di Netanyahu si chiama Natan Eshel. L’obiettivo ribadito da Netanyahu è quello di dar vita ad una «ampia coalizione» che da destra guardi al centro e, in primo luogo, a Yesh Atid, il partito laico centrista di Yair Lapid, con i suoi 19 seggi seconda forza politica alla Knesset. Ma quel tavolo negoziale rischia di rimanere deserto se a farne parte sarà proprio Eshel. La ragione di questo aut aut è lo stesso Lapid a esternarla, spinto dalle donne del suo partito: non possiamo trattare con una persona che ha nel suo recente passato un’accusa di molestie sessuali, per la quale un anno fa è stato costretto a uscire dalla scena pubblica. Un tema sensibile, quello delle molestie sessuali Moshe Katsav, ex capo di Stato ed esponente del Likud ( lo stesso partito di Netanyahu), è stato condannato a sette anni per stupro e molestie sessuali.
Le donne d’Israele hanno avuto un ruolo decisivo nel riequilibrio dei rapporti di forza elettorali tra la destra e il centrosinistra. La ricaduta è anche nella composizione del nuovo Parlamento israeliano: su 120 eletti, 26 sono donne, il numero più elevato mai raggiunto dalla nascita dello Stato d’Israele. La prima Knesset aveva 11 deputate e nel 1988 erano solo sette. E donne sono i leader delle tre maggiori forze dell’opposizione di centro sinistra, dopo Yesh Atid: Shelly Yachimovich (Labour, 15 seggi), Zahava Gal-On (Meretz, 6 seggi), Tzipi Livni (HaTnuah, il Movimento, 6 seggi). Quanto al partito di Lapid, 8 dei 19 parlamentari sono donne. Tra le deputate, ci sono religiose come Tzipi Hotovely del Likud che due anni fa ha avuto il coraggio di sedersi nei posti «riservati» agli uomini su uno degli autobus pubblici usati dagli ultraortodossi e le rappresentanti dei partiti arabi.
ELETTRICI DETERMINANTI
Sarebbero state le 500mila elettrici indecise fino all’ultimo così almeno spiegano i sondaggisti a determinare il successo di Lapid, il recupero dei laburisti (guidati dall’ex giornalista tv Shelly Yachimovich) e più a sinistra il raddoppio (da 3 a 6 seggi) di Meretz: la leader Zahava Gal-On ha voluto riservare le quote per le donne nelle primarie. E così il «caso Eshel» infiamma il dopo-elezioni, alla vigilia della proclamazione ufficiale dei risultati delle elezioni del 22 gennaio e dell’assegnazione del mandato esplorativo sul nuovo governo da parte del presidente Shimon Peres. «The Israel Women’s Network», rete che unisce le più importanti associazioni delle donne israeliane, è sul piede di guerra: una petizione on line indirizzata al procuratore generale Yehuda Weinstein, in poche ore ha raccolto oltre diecimila adesioni alla richiesta di impedire che l’ex capo di gabinetto di Netanyahu possa tornare a ricoprire incarichi pubblici. Durissima è la neoparlamentare laburista, Merav Michaeli: «Netanyahu dice è un uomo che incoraggia l’oppressione e l’umiliazione delle donne. La verità è che Eshel è il sintomo, Netanyahu il problema». «Riteniamo il primo ministro e il procuratore generale responsabili della salvaguardia dello stato di diritto, della morale e del diritto delle donne alla sicurezza, dentro i luoghi di lavoro e fuori di essi», le fa eco Galit Deshe, direttore esecutivo dell’«Israel Women’s Network». «Il signor Eshel aggiunge ha ammesso comportamenti scorretti e questo dovrebbe essere sufficiente per tenerlo fuori da incarichi pubblici». Eshel si era dimesso nel marzo scorso da capo dello staff di Netanyahu dopo aver ammesso, in un patteggiamento, un «comportamento scorretto» nei riguardi di una dipendente dell’ufficio del Primo ministro. «È risaputo che Natan Eshel ha abusato del suo potere incalza Shula Keshel, direttore esecutivo dell’Achoti women’s movement lui può danneggiare ancora le donne, e non può essere che torni a ricoprire un importante incarico pubblico come se niente fosse».

l’Unità 30.1.13
Se il sessismo in politica è un peccato perdonabile
di Marina Mastroluca


Non sarà la rabbia delle donne per la cantonata presa da Netanyahu a dettare le condizioni del nuovo governo israeliano. È una buccia di banana, una delle tante in cui potrebbe incappare la formazione della nuova maggioranza dopo un voto che ha mostrato un Paese diviso a metà.
Eppure è un segno a doppia valenza: di quanto poco contino le donne, al punto che in un delicato passaggio come quello che si vive in questi giorni in Israele, sia sfuggito il dettaglio di affidare il negoziato ad un molestatore dichiarato. Ma al contrario, è anche un segno del peso che le donne possono avere se alzano la voce. E passi anche il sospetto che si tratti solo di proteste strumentali, orchestrate a sinistra per ostacolare quella grande coalizione multicolor inseguita da Netanyahu. Con un ex presidente in cella per stupro, la velocità nel manovrare la patta dei pantaloni diventa un argomento politico: la rivendicazione che il sessimo la lotta al non è un argomento solo ornamentale, da mettere in mostra come il servizio buono quando ci sono ospiti a pranzo la domenica.
Al contrario, storie di questi giorni ci raccontano quanto una visione della donne come oggetti come si sarebbe detto in altri tempi sia presente e pervasiva in realtà anche culturalmente distanti. In Egitto è accaduto in questi giorni nelle proteste di piazza Tahrir le donne sono state aggredite e persino stuprate alla luce del sole. Le modalità sono sempre uguali, gli assalitori appaiono spesso in punti precisi della grande spianata che due anni fa celebrava la caduta di Mubarak e oggi protesta per la rivoluzione tradita. Le donne vengono circondate, isolate da un muro di uomini che le palpa, le spoglia, le stupra. La dinamica è sempre la stessa tanto che si crede ci sia un disegno politico, per scoraggiare le proteste e intimidire le donne che vi partecipano: 25 stupri, riusciti o tentati in poche ore in piazza Tahrir, troppi per essere un caso anche se in passato sono state aggredite anche giornaliste occidentali. Il sospetto che le donne, lo stupro sulle donne, sia usato come «arma di guerra» rimane. E rimane la rabbia dell’impunità per chi viola i corpi femminili, perché questo tipo di violenza ancora sembra avere un grado minore rispetto ad altre, quasi fosse fisiologica. E non solo ad alcune latitudini, che siamo abituati a pensare lontane e diverse da noi. Non è stato stupro, ma uno scambio di battute a far divampare nella Germania di Angela Merkel una polemica appassionata sulla stampa, dopo che il politico di turno il capogruppo liberale al Bundestag e candidato pro-forma alla Cancelleria, Rainer Bruederle, 67 anni ha omaggiato una giovane giornalista di vivaci apprezzamenti sul suo seno prosperoso. La ventottenne ha raccontato tutto in un articolo su Stern, ragionando su quante battute dai politici aveva dovuto subire mentre faceva il suo mestiere. E immancabilmente c’è stato chi ha voluto minimizzare: in fondo sono state solo parole. Perché gli uomini sono uomini e con un po’ di attenzione si può evitare di mettersi nei guai.
Israele, Egitto, Germania. Paesi di religioni e di culture diverse, casualmente accumunati da una serie di violenze differenti per grado e brutalità. Ma con un comun denominatore: l’abitudine al sessismo, come peccato veniale e perdonabile. Un errore che per ora complica la vita a Netanyahu. E chissà, in futuro forse anche ad altri.

La Stampa 30.1.13
Israele dopo il voto
Una proposta semplice per Yair Lapid
di Abraham B. Yehoshua


I risultati delle elezioni parlamentari israeliane ovviamente mi rallegrano ma al tempo stesso mi inquietano.
La gioia più grande è dovuta al fatto che l’arroganza e la tendenza al razzismo dei partiti di destra, che ricorrono in maniera cinica e demagogica a slogan apparentemente patriottici, non solo è stata frenata ma anche respinta. La sconfitta del partito unificato di Netanyahu e Lieberman, un partito che ha accentuato l’estremismo di destra di entrambe le fazioni e incoraggiato quello dei partiti religiosi, non solo ha dimostrato l’errore tattico compiuto dal primo ministro, patrocinatore dell’alleanza del suo partito, il Likud, con quello di Liebermann, ma ha confutato la tesi della destra secondo la quale è la stessa destra la fedele rappresentante della vera volontà del popolo, che non crede in una pace con i palestinesi. La classe media e i laici israeliani, che hanno partecipato in maniera massiccia alla grande protesta sociale dell’estate del 2011, hanno osato respingere gli allarmismi isterici e di Netanyahu e indicare una strada diversa.
Non dobbiamo però dimenticare che, anche se il clima generale in Israele appare ora più umano, il grande partito guidato dall’ex giornalista Yair Lapid, dal quale dipende la composizione del terzo governo Netanyahu, è una formazione alle prime armi: lui e i suoi compagni dovranno stare attenti a non cadere facile preda di sofisticate manipolazioni di veterani del Likud e dei partiti religiosi. Questo nuovo partito centrista, creato dal nulla come altri suoi predecessori, dovrà consolidarsi ideologicamente e politicamente all’interno della Knesset se vorrà evitare un destino analogo a quello di altri partiti di centro guidati da personalità famose saliti alla ribalta con grande clamore e con trionfali vittorie ma svaniti nel nulla dopo una o due legislature. Uno di questi partiti era quello anti-religioso fondato dal padre di Yair Lapid, il giornalista Tomi Lapid, eletto con un notevole numero di rappresentanti ma ben presto scomparso. Lo stesso destino subì il partito Dash, fondato nel 1977 non da un giornalista bensì da uno degli uomini più ammirati a quel tempo in Israele, il generale Yigael Yadin, celeberrimo combattente della Guerra di Indipendenza del 1948 e brillante docente di archeologia che raccolse intorno a sé personalità di tutto rispetto. Ma anche quel partito liberale, alleatosi con Menachem Begin, non poté evitare la deriva a destra e dopo pochi anni si sgretolò.
Un partito, per poter essere ben strutturato e mettere profonde radici nella realtà israeliana, non deve avere solo un programma politico ma anche una base ideologica. E anche il nuovo partito di Yair Lapid, malgrado la simpatia che provo nei suoi confronti, rivela la debolezza tipica della sinistra laica israeliana, armata di buone intenzioni ma priva di quella stabilità ideologica in grado di garantire una sua duratura presenza politica. Di conseguenza un suo sgretolamento e una sua frantumazione sono sempre in agguato.
Come si dovrebbe destreggiare allora nella complessa realtà israeliana, assillata da problemi esistenziali e di identità nonché dalle preoccupazioni economiche tipiche di un paese avanzato? A mio parere sarebbe un peccato se investisse tutta la sua energia nella lotta per la revoca dell’esonero dal servizio militare dei giovani ultraortodossi e l’abolizione dei generosi sussidi garantiti agli studenti delle yeshivà, le accademie talmudiche. Obiettivi di indubbio valore morale ma poco significativi rispetto al problema fondamentale che deve affrontare lo stato di Israele: come fermare il pericolo di uno stato binazionale.
Un ritorno al negoziato è senz’altro importante, ma Israele ha già alle spalle migliaia di ore di trattative, di conferenze e di riunioni con i palestinesi. E la pace ancora non c’è, sia a causa del divario di base tra le due parti ma soprattutto a causa della mancanza di una reale pressione da parte della comunità internazionale per il raggiungimento di un accordo. Il nuovo partito di Lapid potrebbe allora avanzare una richiesta concreta, reale: l’immediata sospensione di nuove costruzioni negli insediamenti e lo smantellamento di tutti gli avamposti illegali sparsi sulle terre dei palestinesi in Cisgiordania. Una richiesta di tutto rispetto che potrebbe essere facilmente implementata anche senza la buona volontà dei palestinesi e che non implica uno scontro diretto con i coloni. Se Lapid e i suoi compagni la metteranno in atto noi, veterani sostenitori della sinistra che hanno votato per il partito Merez e che hanno seguito dubbiosi la mossa del giornalista Lapid, potremo levare davanti a lui e ai suoi compagni tanto di cappello.

il Fatto 30.1.13
Meno bombe, più giovani (occupati)
Il governo francese riduce le spese militari e finanzia posti di lavoro
di Leonardo Martinelli


Mentre in Italia imperversano le polemiche sull’acquisto dei caccia F35 da parte dell’Aeronautica, in Francia una decisione è stata già presa. Nel senso di un ulteriore taglio alle spese militari: al budget della Difesa saranno sottratti fondi per finanziare nuove iniziative contro la disoccupazione giovanile del Governo del socialista Jean-Marc Ayrault. E questo proprio mentre Parigi si trova impegnata militarmente nel Mali.
Intervenire per ridurre la disoccupazione fra i giovani era stata una delle promesse di François Hollande durante la sua campagna elettorale. Da pochi giorni è iniziato in Parlamento il dibattito su uno dei provvedimenti chiave per limitare questo problema fra i più giovani (riguarda il 24% di chi ha meno di 26 ann: come l’Italia, la Francia si trova ai massimi livelli europei) e al tempo stesso anche per cercare di preservare l’occupazione dei cosiddetti senior. Si tratta dei "contrats de génération", che uniranno, in un rapporto di collaborazione un giovane neossunto di meno di 26 anni a un dipendente dell’azienda con più di 57 anni, che dovrà passare all’altro il suo know how.
E’ un contratto vero e proprio, che sarà firmato con lo Stato. L’azienda si impegnerà ad assumere il giovane e a non licenziare il senior e riceverà in cambio dei vantaggi, soprattutto le imprese più piccole (meno di 300 dipendenti), che per tre anni incasseranno 4mila euro all’anno e potranno beneficare di altri vantaggi fiscali e previdenziali.
L’OBIETTIVO DI HOLLANDE è stipulare nelle aziende di queste dimensioni 500mila “contratti di generazione” entro il 2017. Ci vogliono soldi, tanti. E in un momento in cui le finanze pubbliche francesi non navigano certo in buone acque. Il debito resta molto al di sotto rispetto ai livelli italiani, ma cresce più rapidamente, a causa di un deficit pubblico non ancora sotto controllo. Si stima che alla fine dell’anno scorso si sia attestato al 4,5% del Pil, il Prodotto interno lordo. L’obiettivo (la promessa fatta all’Europa) è che Parigi scenda al tre per cento a fine 2013. Insomma, bisogna tenersi a stecchetto.
Dove trovare i soldi per i giovani disoccupati? Il Governo sottrarrà fondi a diversi ministeri, ma prima di tutto a quello della Difesa. Jérome Cahuzac, ministro del Bilancio, ha annunciato che per il 2013 si sta predisponendo un accantonamento nel budget dello Stato (una "réserve de précaution") destinata a coprire le spese supplementari destinate alle politiche per l’occupazione, in particolare quelle dei "contratti di generazione". "Prenderemo dai 250 ai 300 milioni di euro dai fondi del ministero della Difesa", ha precisato Cahuzac. La decisione ha sorpreso non poco a Parigi. Il Paese si trova impegnato nell’operazione nel Mali, dove, in diversi casi, è emersa una certa carenza a livello di dotazione di equipaggiamenti, mezzi e armi dell’esercito francese.
Non solo: i finanziamenti alla Difesa sono già in Francia in fase di ferrea cura dimagrante. Le spese militari, che ammontavano ancora a 2% del Pil nel 1997, sono rimaste sostenute dopo il 2000, ma già a partire dal 2010 sono intervenuti i primi tagli, a causa della crisi economica.
Con l’arrivo di Hollande al potere, si è decisa un’ulteriore accelerazione della cura dimagrante. Se a fine 2012 le spese militari rappresentevano ancora l’1,55% del Prodotto interno lordo, già nel 2015 si scenderà all’1,3 per cento. Quell’anno il budget complessivo della Difesa ammonterà a 29 miliardi, il 10% in meno di quanto aveva previsto una precedente legge programmatica per il settore. Nel frattempo per risparmiare si ridurrà addirittura il numero di ufficiali: 580 in meno entro la fine del 2013.
Tutti questi tagli, annunciati lo scorso autunno, erano stati salutati con amarezza e polemiche da parte del capo di stato maggiore, l’ammiraglio Edouard Guillaud, che aveva sottolineato come "gli interni di certi aerei militari sono in pessime condizioni, nello scafo di diverse navi lo spessore del metallo è ridotto a un centimetro, tenendo conto anche della pittura. E il telaio di molti carri armati mostra evidenti debolezze". Niente da fare. Hollande e compagnia non sembrano essere stati inteneriti dalle sue lamentele.

l’Unità 30.1.13
Matrimoni gay, la svolta francese

La proposta di legge che legalizza i matrimoni omosessuali è approdata ieri nell’aula dell’Assemblea nazionale francese, dopo la conclusione dei lavori da parte della commissione Affari costituzionali lo scorso 16 gennaio e l’approvazione preliminare in Consiglio dei ministri il 7 novembre.
Il ministro della Giustizia, Christiane Taubira, durante un’audizione presso la Camera bassa francese ha caldeggiato l’approvazione della legge spiegando che «non si tratta di trasformare il matrimonio, ma di aprire il matrimonio attualmente esistente». Il nucleo portante del testo del governo Ayrault era uno dei sessanta impegni per la Francia assunti in campagna elettorale da Hollande è la completa parificazione del matrimonio gay a quello eterosessuale con la possibilità di accedere tanto all’adozione congiunta di un bambino da parte di tutti e due i coniugi, quanto all’adozione del figlio di uno dei due. Attorno a ciò si snodano poi tutte le altre norme che parificano i diritti delle coppie gay a quelle etero in ambito fiscale, assistenziale, pensionistico fino all’estensione del congé d’adoption, un congedo di maternità-paternità per i genitori adottivi omosessuali.
La commissione parlamentare ha poi integrato il testo principalmente in tre punti. Ispirandosi al modello belga, un francese può sposare una persona straniera dello stesso sesso anche se la legge del Paese d'origine dello straniero non lo consente. È stato inoltre meglio esplicitata la possibilità per il coniuge di adottare o di avere in affidamento il bambino precedentemente adottato dall’altro coniuge. Infine, è stata introdotta una norma anti-discriminatoria a favore dei dipendenti omosessuali sposati che rifiutano trasferimenti imposti dai propri datori di lavoro verso Paesi dove l’omosessualità è punita come reato. Sono stati invece respinti tutti gli emendamenti della sinistra radicale che aprivano ai gay la procreazione medicalmente assistita: il governo ha preferito per il momento rinviare la questione, dichiarando che sarà oggetto di una più ampia legge sulla famiglia che sarà varata dal Consiglio dei ministri il prossimo 27 marzo.
I matrimoni omosessuali rappresentano per la Francia un passo successivo a quello compiuto nel 1999, quando erano stati introdotti i patti civili di solidarietà (Pacs), unioni di natura privatistica che in dieci anni hanno raggiunto la cifra record di un milione. Se però i Pacs tra omosessuali nel 1999 erano oltre il 40% del totale, nel 2011 questa percentuale è scesa al 4,7%. Nonostante alcune riforme che ne hanno rafforzato la portata (l’ultima nel 2009), secondo il governo, i Pacs non sarebbero più sufficienti a rispondere alle istanze delle coppie gay. Da qui la necessità di ampliare la nozione di matrimonio, sulla scia di quanto già avvenuto in altri Paesi europei: la prima è stata l’Olanda nel 2001, seguita da Belgio, Spagna, Norvegia, Svezia e, da ultimo, Portogallo. Ragionando anche sulle forme di partenariato civili e incrociando i due fattori (matrimonio-unione civile e adozione sì-adozione no) si individuano nel vecchio continente una serie di modelli. Quelli esistenti in Olanda e Spagna sono i più radicali perché associano matrimonio e adozione. In posizioni intermedie ma per ragioni opposte tra loro Portogallo, da un lato, e Regno Unito e Germania dall’altro. A Lisbona il matrimonio gay è riconosciuto ma non l’adozione; Londra e Berlino non ammettono per il momento il matrimonio omosessuale ma le coppie gay britanniche possono adottare tanto congiuntamente un bambino che singolarmente il figlio di uno dei due partner, mentre quelle tedesche solo il figlio di uno dei due partner.
È evidente che, almeno stando al testo della commissione, il modello francese si avvicinerebbe a quello spagnolo e olandese, tralasciando le tipologie intermedie. Sarà peraltro interessante seguire il contestuale dibattito inglese sul matrimonio omosessuale, dato che il governo Cameron ha presentato un analogo disegno di legge alla Camera dei Comuni lo scorso 24 gennaio.

il Fatto 30.1.13
Il Guatemala del genocidio l’ex dittatore a giudizio
Rios Montt, teologo del massacro, finalmente sotto accusa
di Maurizio Chierici


È scappato per 30 anni come può scappare un dittatore che ha pianificato il genocidio di 1774 indios Maya Ixil e sradicato 126 villaggi, terra bruciata per bruciare l’Esercito dei Poveri, contadini che provavano a resistere alla violenza dei governi di Città del Guatemala. La fuga del generale Efrain Rios Montt è finita. Domani deve rispondere in tribunale dei delitti che ha disegnato in appena due anni del potere conquistato con un colpo di stato. È chiamato a rispondere di altre cose “minori”. Per esempio, l’ordine di stuprare 1.485 ragazze per stravolgere l’etnia indigena che “minaccia la serenità di noi ladinos”. L’inchiesta di un giudice lo costringe agli arresti domiciliari. L’età (86 anni) e il passato di capo di Stato e presidente del Parlamento autorizzano il privilegio. In questi 30 anni non si è mosso di casa e non ha mai abbandonato la poltrona in Parlamento. Militari amici e avversari hanno assicurato il futuro comune autoprocalmando un’amnistia che cancella ogni peccato e autorizza la partecipazione politica.
MALGRADO le inchieste internazionali dei tribunali dei diritti umani e le accuse documentate di Rigoberta Menchu, premio Nobel per la Pace, le carte che ne provano le responsabilità sono rimaste nelle mani di magistrati impotenti davanti all’immunità. E il generale ha giocato con la democrazia nella riscalata del potere. Una volta ha perfino vinto con i voti la presidenza che s’era preso grazie all’intrigo di giovani ufficiali cresciuti alla sua accademia militare. I morti non votano e la borghesia beneficata non crede ai racconti tragici di giornali e tv straniere. Purtroppo due volte capo di stato non si può. Elezioni ripetute con una controfigura che corre nel suo nome e diventa presidente assicurando al teologo del massacro la guida dell’Assemblea nazionale. Insomma, intoccabile fino al 31 dicembre 2011 quando i giudici possono riaprire registi e confermare le indagini col coraggio di chi sfida omertà e massonerie. Finalmente il processo comincia.
Teolgo del massacro non è un gioco di parole. Cattolico devoto, affida le ambizione alla Democrazia Cristiana. Nel ’74 sta per vincere la presidenza con l’aiuto americano, ma un golpe gli ruba il posto. I militari padroni non lo vogliono come nemico, però fuori gioco sì: addetto militare a Madrid da dove torna all’indomani di un terremoto che affloscia il Guatemala. Parla in tv confessa la nuova vocazione: l’eterno gli era apparso annunciando la catastrofe.
E Rios Montt lascia la chiesa di Roma per sposare la setta milionaria del Verbo, California delle multinazionali. Loro a nutrite le ambizioni che nell’82 lo portano alla presidenza con l’imperativo di “cancellare il comunismo dall’America Latina”.
COMINCIA la caccia all’uomo. I contadini che non denunciano i contadini che resistono allo sterminio vengono passati per le armi nelle piazze. Tutti devo vedere. Paesi distrutti, raccolti in fiamme. Il Guatemala diventà un falò e la gente scappa. Attraversa la frontiera porosa del Messico. Ma le truppe di Rios Montt hanno libertà di entrare e fucilare ovunque. Samuel Ruitz, vescovo di San Cristobal, assiste all’esecuzione di 63 fuggiaschi. Denuncia la violazione al suo governo di Città del Messico, il governo non risponde.
L’ho incontrato due volte. Stava arrivando Giovanni Paolo II e lui fa giustiziare 7 contadini “sospettati di ribellione”. Parliamo dopo la sua predica nel tempio del Verbo, zona rosa della capitale: hotel, giardini, ambasciate. “Perché 7 esecuzioni mentre arriva il Papa? ”. “Le rispondo come uomo di Dio e come uomo di Dio spiegherò al Papa di aver voluto evitargli il disagio di un atto dovuto”. Lo rivedo nella sua casa, da presidente del Parlamento. Abbraccia con l’affetto di un padre la giornalista spagnola che mi accompagna. “Perché tanto sangue? ”, vuol sapere la ragazza. “Nel mio paese ordinato è proibito violare la legge”. “E chi l’ha scritta questa legge? ”. “L’ho firmata per il bene del popolo”. Profumava di lavanda come una vecchia signora.

l’Unità 30.1.13
L’umano assoluto di Don Chisciotte
Imperdibile edizione del libro di Cervantes a cura di Francisco Rico
di Giulio Ferroni


Nella collana di Bompiani dedicata ai Classici le gesta dell’hidalgo a caccia di mulini a vento diventano la sublime metafora di un mondo diviso tra l’utopia e la mediocrità della condizione reale

TUTTA LA VARIETÀ MOLTEPLICE ED ETEROGENEA DEL ROMANZO MODERNO, DI QUELLO CHE È STATO, DOPO, IL MONDO ROMANZESCO, SEMBRA come erompere e scaturire dal Don Chisciotte, un libro assoluto, uno dei pochi libri davvero assoluti: con le mille avventure che si dispiegano nelle pagine di Cervantes, nei volumi della prima e della seconda parte, messi a stampa nel 1605 e nel 1615, ma che da lì hanno viaggiato nell’immaginario, con il richiamo di quel tipo umano, di quel fallimentare eroe in cui spesso si riconosce anche chi il libro non l’ha letto o l’ha sfiorato solo da lontano.
In esso la realtà e l’illusione si intrecciano con i grovigli più diversi, bizzarri e pedestri, abnormi e quotidiani, negli atti e nei discorsi del cavaliere dalla triste figura e del suo scudiero Sancho Panza. Nella follia di don Chisciotte nel suo voler credere nella realtà dei romanzi cavallereschi di cui è ossessivo lettore e nella possibilità di partecipare direttamente, nel presente, al loro mondo si manifesta l’attrazione dell’illusione, l’aspirazione impossibile a vivere entro un mondo perfetto e assoluto, a cui l’individuo possa imporre senza limiti la propria forza, il proprio coraggio, per il trionfo e della giustizia, della verità, della bellezza, in cui abbiano campo reale tutte le favolose meraviglie sognate dalle fantasie romanzesche. Ma nella rappresentazione della sua follia si dà anche la critica a quell’illusione, messa a confronto con la volgarità quotidiana, con la mediocre piattezza di un mondo in cui è sempre in agguato l’inganno, la menzogna, la violenza, il sordido squallore, il più bieco egoismo (e, semmai, la giocosa disposizione a beffarsi di chi quel sogno lo prende sul serio).
Don Chisciotte è uno dei più grandi emblemi dell’umano, del nostro essere sospesi tra l’utopia (che forse sgorga da sogni favolosi di ricomposizione e conciliazione) e la mediocrità delle condizioni reale (il contraddittorio, confuso, banale, disgregato darsi dell’esistenza, dei caratteri del mondo). È tutto questo, formidabile immagine della contraddittorietà del nostro essere (anche dell’essere politico, di un essere politico che non rinuncia a cercare il meglio pur nella coscienza della crisi e dello sfacelo): ma nello stesso tempo ci gratifica con la sua indifesa testardaggine, simpatico e sinistro, allucinato e cordiale; è qualcuno a cui alla fine non si può non volere bene, come non si può non volere bene al suo scudiero Sancho e all’autore che lo accompagna ammiccando in un narrare dispiegato e cordiale, pure pieno di trabocchetti, di contorsioni, di manieristici avvolgimenti. Egli finge del resto di attribuire l’invenzione della storia ad un altro autore, l’arabo Cide Hamete Benengeli, e crea incredibili sovrapposizioni tra piani narrativi, come quelle della seconda parte, dove l’eroe e il suo scudiero incontrano personaggi già informati su di essi e sulle loro imprese, avendole già lette nella prima parte.
Per questo e per mille altri motivi il Don Chisciotte ha fatto da nutrimento alla più grande narrativa europea, agendo anche sugli scrittori da esso in apparenza più lontani: e si può avere l’impressione che una delle ragioni di debolezza della più recente narrativa italiana sia data proprio dalla scarsa presenza di questo capolavoro tra le letture correnti.
Allora può essere occasione di un ritorno più intenso di questo grande romanzo l’edizione appena apparsa nella nuova collana dei Classici della letteratura europea con testo integrale a fronte, diretta per Bompiani da Nuccio Ordine (a cura di Francisco Rico, traduzione di Angelo Valastro Canale, pagine 2182, euro 30,00: il testo e la traduzione sono accompagnati da ulteriori apparati e puntuale annotazione).
Nella stessa collana appare contemporaneamente l’edizione di un ampio poema inglese del tardo Cinquecento, che ha molteplici tangenze con la letteratura italiana, finora mai tradotto integralmente nella nostra e in nessun’altra lingua, La regina delle fate (The Faerie Queene) di Edmund Spenser, a cura di Luca Manini, introduzione di Thomas P.Roche jr, pagine 2288: poema d’eroismo e di magia, che sembra proiettarsi ancora, pur se in un’esaltata messa in scena simbolica, su quel mondo di cui il Don Chisciotte registra contraddittoriamente la caduta.
Queste edizioni così appaiate fanno così incontrare simbolicamente questo grande e quasi dimenticato poema, che per la nuova cultura inglese sintetizzava modelli ormai rivolti verso il passato, con il capolavoro al cui seguito si svilupperà tutta la storia del romanzo moderno: e l’introduzione di Rico (a cui spetta anche la cura del testo critico, che riproduce quello da lui approntato per l’edizione critica spagnola uscita per il centenario del 2005) ritrova le ragioni della singolare modernità del Don Chisciotte nel suo radicamento nella realtà concreta della Spagna nel passaggio tra Cinquecento e Seicento, dove era diffuso uso di travestimenti e mascherate in abiti cavallereschi, di tornei e di recitazioni in costume.
Nella sua follia l’hidalgo di provincia, con la sua armatura bizzarra e la sua celata di cartone, porta in giro per la Spagna anche quegli usi spettacolari, quelle diffuse proiezioni teatrali di un orizzonte eroico in realtà sempre più lontano dalla vita quotidiana (a cui in fondo Cervantes, già combattente a Lepanto, non poteva non guardare con una certa nostalgia).
Rico, che è il maggiore studioso della letteratura classica spagnola (ed è anche uno dei maggiori studiosi del Petrarca e dell’umanesimo italiano) mette poi in evidenza la vera e propria semplicità della scrittura di Cervantes, il suo procedere in un flusso continuo, in una lingua che sembra seguire la veloce disponibilità di un narrare affidato alla voce (il che non solo spiega certe sviste e incongruenze, ma le giustifica, attribuisce loro un singolare valore); e indica come il narratore, ponendosi nella prospettiva morale del «giusto mezzo», sappia nel contempo mostrare attenzione a tutti i comportamenti estremi, positivi e negativi (appunto con un senso modernissimo della contraddittorietà dell’esperienza, dell’impossibilità di ricondurla a modelli di perfezione).
Davvero moltissimi sono gli spunti suggeriti da questa edizione e dal lavoro di Rico. Ma c’è una bizzarra possibilità di incontrare Rico, in questi giorni, in un altro libro, da poco uscito presso Einaudi, il bellissimo romanzo di Javier Marias, Gli innamoramenti: qui è Marías dà voce in prima persona ad un personaggio femminile, che si imbatte in Francisco Rico (proprio lui, col
suo nome e cognome, con la sua sapienza, i suoi modi, il suo linguaggio di accademico atipico, poco formale), incontrandolo nel salotto di Luisa, vedova del personaggio intorno alla cui morte ruota la vicenda. E l’autore, tra l’inquieto interrogare su cui si sviluppa il romanzo, si diverte maliziosamente a dare una caricatura del grande studioso, della sua esclusiva passione per la letteratura del siglo de oro, della sua scarsa attenzione a tutto ciò che fuoriesce dal proprio universo.
Conosco di persona Rico, ben noto nel mondo universitario italiano, e non mi so decidere se la caricatura di Marías sia malevola o benevola: sono certo però che Gli innamoramenti sia un formidabile romanzo, uno di quelli che ancora stanno, così «da dopo» sulla scia di quel grande inizio che è Don Chisciotte, che sanno interrogare la contraddittorietà dell’esperienza nei termini del nostro presente; e forse proprio per questo non lo troviamo nelle classifiche, in mezzo a tanta narrativa vuota, trascritta da modelli di vita già fissati dall’apparenza mediatica.
Rispetto a questo orizzonte attuale, ci sarebbe qualche vantaggio ad avvicinarsi ancora e di più al Don Chisciotte: e davvero quella di Rico, a tutt’oggi la sola edizione italiana veramente completa, meriterebbe di sostare in permanenza su tanti tavoli, anche solo per occasioni casuali di lettura o rilettura di qualche capitolo (e non farà male, anche per il lettore poco esperto di spagnolo, qualche sguardo all’originale).

Corriere 30.1.13
Bobbio pacifista anomalo
di Antonio Carioti


Verso il pacifismo filosovietico, che condannava le guerre «imperialiste» e appoggiava quelle «di liberazione», Norberto Bobbio fu sempre critico. Non lo convinceva neppure il principio della non violenza predicato dall'amico Aldo Capitini. La sua ricerca, ripercorsa da Giovanni Scirocco attraverso un'attenta ricerca d'archivio nel saggio L'intellettuale nel labirinto (Biblion edizioni, pp. 126, € 10), perseguiva piuttosto un pacifismo giuridico o istituzionale, fondato su meccanismi di regolazione e risoluzione dei conflitti che limitassero il ricorso alla forza. Ma il problema del «terzo assente» posto da Bobbio, cioè la mancanza di un'autorità sovranazionale in grado d'intervenire efficacemente nelle controversie tra gli Stati, resta aperto. E la stessa parabola del filosofo torinese, scandita da ripetute polemiche con i pacifisti più accesi, conferma che la guerra sfugge al dominio del diritto, poiché ogni giudizio su di essa ha un eminente carattere politico.

La Stampa 30.1.13
Una forza nata nella sinistra radical
Il partito Grillo, a cura di Piergiorgio Corbetta e Elisabetta Gualmini, è edito da il Mulino
di Elisabetta Gualmini


Esce domani Il partito di Grillo , una ricerca edita da il Mulino a cura di Piergiorgio Corbetta e Elisabetta Gualmini. Pubblichiamo qui un’anticipazione dall’introduzione della Gualmini.

Vi sono infatti due distinte modalità per relazionarsi sul piano della ricerca a questo fenomeno totalmente nuovo per il sistema politico italiano. La prima è quella di analizzare in via prioritaria le caratteristiche della leadership di Grillo, il suo ruolo e il suo messaggio politico, e i suoi rapporti con la base. La seconda modalità è quella di esaminare appunto chi sono, da dove vengono e perché si sono mobilitati gli attivisti del M5s. Noi abbiamo privilegiato questa seconda prospettiva, non soffermandoci tuttavia solamente sull’osservazione del presente (per di più ambiguo e sfuggente data la fase di profonda instabilità – anche per crescita – in cui il Movimento si trova oggi), ma allungando lo sguardo anche al passato e – per quanto possibile – al futuro, cercando di avanzare alcune ipotesi sulle linee evolutive del Movimento e cercando di capire in quale traiettoria della storia dei partiti occidentali ed europei esso si posiziona. (...)
Se guardiamo alla fase iniziale del M5s, ci troviamo davanti a una forza politica che affonda le proprie origini nell’humus dei movimenti e dei partiti della sinistra libertaria e radicale, da cui sono nati ad esempio i partiti dei Verdi in Germania e in altri Paesi europei. Si tratta di quella silent revolution caratterizzata dalla lotta per l’affermazione di valori trasversali, postideologici e post-materialisti come i diritti civili e di pari opportunità, la pace, lo sviluppo solidale e l’ecologia. Grillo non è estraneo a questo ambiente culturale, almeno nelle sue rivendicazioni iniziali (contro le multinazionali, a favore di un commercio globale più equo, ecc.).
La sua vicinanza all’area della sinistra è testimoniata poi, sempre agli inizi, dalle prime esibizioni «politiche» alle feste dell’Unità tra gli anni ottanta e novanta, dall’appoggio, seppure turandosi il naso, al governo Prodi del 2006 e dal tentativo di candidarsi alle primarie per la segreteria del Pd nel 2009.
Durante le amministrative 2012, tuttavia, il M5s inizia ad attrarre consensi dagli elettori del centrodestra, anche a fronte dello sfacelo della Lega di Bossi sotto la scure degli scandali e della corruzione, e della frantumazione del Pdl berlusconiano, assumendo una natura sempre più «pigliatutti». Un movimento dunque che nasce in opposizione al sistema vigente dei partiti, di cui si denuncia l’inefficacia e il degrado secondo un arcinoto repertorio populista, e che poi finisce per essere esso stesso un partito, con i propri eletti nelle assemblee regionali e comunali alle prese con problemi intricati da gestire e da risolvere. Un non-partito che assume le vesti del partito, benché con specificità e caratteristiche proprie che qui esamineremo. Che all’inizio raccoglie i transfughi della sinistra e che poi si sposta verso destra, collocandosi alla fine oltre qualsiasi rigida dicotomia tra sinistra e destra. (...)
Se poi guardiamo ai dati elettorali successivi alle amministrative 2012, l’identikit dell’elettoretipo del M5s conferma da un lato la predominanza del centrosinistra, ma dall’altro la crescita importante della componente di centrodestra. Nel post-elezioni 2012, su 100 elettori intenzionati a votare per il M5s, il 34,5% viene da Pd e Idv, cui si aggiunge l’11,8% dalla Sinistra arcobaleno, per un totale del centrosinistra pari al 46,3. Il 33,8% viene da Pdl-Lega-Mpa e il 5,1% dall’Udc, per un totale del blocco di centrodestra pari quasi al 39%.

La Stampa TuttoSccienze 30.1.13
Sheldrake: in laboratorio ora voglio la rivoluzione
“La mia lotta ai 10 dogmi che accecano la ricerca”
Una ricetta provocatoria: “E adesso ripartiamo dalla teoria dei campi morfici”
di Gabriele Beccaria


La coscienza: una delle grandi sfide della ricerca del XXI secolo
La teoria Secondo gli esperimenti condotti da Rupert Sheldrake i campi morfici mettono in rapporto tutti gli organismi viventi

Eretico Rupert Sheldrake si dice affascinato dai fenomeni che si manifestano ai margini della scienza ufficiale: è a partire da queste realtà che vuole provare a estendere i campi di indagine della ricerca ufficiale

Il biologo ottocentesco Thomas Henry Huxley, universalmente noto come il «mastino di Darwin» per l’appassionata difesa dell’evoluzionismo, è passato alla storia anche per una frase fortunata: «E’ il destino delle nuove verità cominciare come eresie e finire come superstizioni». E’ questo il punto da cui è partito un altro biologo britannico, Rupert Sheldrake, celebre tanto per gli studi sull’invecchiamento cellulare quanto per le provocazioni sperimentali e teoriche, in nome di una ricerca libera e coraggiosa, dalle indagini sulla telepatia degli animali fino alla teoria dei «campi morfici». E infatti il suo nuovo saggio edito da Urra si chiama «Le illusioni della scienza», un titolo che nell’originale suona ancora più esplicito: «The science delusion».
Laureato a Cambridge e Harvard e già membro della Royal Society, considerato uno degli evoluzionisti più brillanti della sua generazione, autore di 80 «papers» e vincitore del prestigioso «University Botany Prize», l’oggi settantenne Sheldrake non ha remore a dichiararsi deluso dai 10 assunti a cui i colleghi di ogni latitudine si ostinano - accusa lui - a credere ciecamente, stando attenti a non evocare mai l’esercizio del dubbio che ha forgiato i trionfi del metodo scientifico. Così ha scritto 300 pagine appassionate per chiedersi, tra le altre cose, se davvero ogni fenomeno sia unicamente meccanico, se la somma di materia ed energia sia sempre la stessa, se le leggi di natura siano immutabili, se la coscienza non sia altro che un’attività della mente. Inoltrandosi in questo labirinto concettuale e sperimentale, Sheldrake sostiene che la scienza del XXI secolo è diventata una cattedrale del dogmatismo, sempre meno adatta a indagare l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo. Professore, il suo progetto di rifon­ dare la scienza è più che ambizioso. Per qualcuno addirittura velleita­ rio. Ma del decalogo materialistico che lei denuncia qual è il punto più debole? «Penso che di talloni d’Achille il materialismo ne abbia proprio 10! Non uno solo. Ma il più ovvio è il fallimento nel capire la coscienza. L’assunto-base è che la materia sia l’unica realtà. Perciò la coscienza dev’essere un suo prodotto o un suo aspetto. Significa che la mente non è altro che l’attività del cervello. I filosofi della mente del XX secolo hanno fatto sforzi enormi per provare che la coscienza non esiste e che è un’illusione o un epifenomeno. Ma sono approcci poco convincenti».
Quali sono le sue controdeduzioni? «Definire la coscienza come un’illusione non la spiega, ma la presuppone, dato che l’illusione è una forma della coscienza stessa. E sostenere che sia nient’altro che il risultato di cause fisiche e chimiche, insieme con eventi casuali, fa del sistema di pensiero dei materialisti il prodotto della loro stessa attività cerebrale, su cui non hanno controllo cosciente. In altre parole devono credere nel materialismo, visto che il cervello li obbliga a farlo. Ecco perché un simile sistema di pensiero è auto-contradditorio: chiunque ci creda deve anche credere che la sua convinzione sia l’inevitabile conseguenza dell’attività del cervello e non una questione di scelta». Mentre boccia il materialismo, lei fa discutere per la teoria della «risonan­ za morfica», secondo la quale ogni specie e ogni individuo attinge a una memoria collettiva e, così facendo, contribuisce allo sviluppo della pro­ pria progenie: può spiegare di che si tratta a un non addetto ai lavori? «La risonanza morfica non è ristretta alla biologia. E’ un principio generale di memoria che, secondo la mia ipotesi, opera ovunque nella natura. Si applica anche ai sistemi fisici, come le molecole e i cristalli. E suggerisce che le cosiddette “leggi di natura” siano simili a consuetudini e che l’intero processo dell’evoluzione sia in realtà un’interazione tra creatività e consuetudini stesse».
Se questa è la teoria, quali sono le prove che il suo nuovo pa­ radigma esista e fun­ zioni? «Ci sono prove dell’esistenza della risonanza morfica in chimica, biologia e psicologia. In chimica la teoria prevede che gli elementi si cristallizzino tanto più facilmente quanto più sono diffusi. La teoria prevede anche che i punti di fusione delle nuove sostanze si alzino, mentre i loro campi morfici diventano più forti. E ci sono evidenze che succeda proprio questo».
E in biologia? «Dai test con i moscerini della frutta si è osservato che quanto più spesso si sviluppano in modo anormale tanto più probabili diventano queste trasformazioni anomale. Studiando il comportamento animale, per esempio, si vede che, quando i topolini vengono addestrati per imparare una nuova azione in un luogo specifico, possono poi assorbirla anche altrove e con maggiore facilità. Lo si è notato in una lunga serie di test a Harvard, Edinburgo e Melbourne».
E in psicologia? «Qui la teoria prevede che per gli individui debba essere più facile imparare “cose” che altri hanno già fatto. Nel XX secolo i punteggi medi del quoziente di intelligenza sono saliti di oltre il 30% in tutto il mondo. Il fenomeno è noto come “Flynn Effect”: ritengo che confermi la risonanza morfica, perché gli individui non sono diventati più intelligenti, ma, semplicemente, dimostrano più facilità nell’eseguire i test. E’ proprio ciò che ci si dovrebbe aspettare sulla base della risonanza morfica». C’è una ricerca che, secondo lei, può essere considerata come il punto di inizio del nuovo pensiero scientifico che trascende i confini del materialismo? «C’è un libro scritto di recente dal filosofo americano Thomas Nagel, “Mind and cosmos: why the materialist neo-Darwinian conception of nature is almost certainly false”: dimostra che la concezione materialistica è incompatibile con l’esistenza di una mente consapevole e che conduce a una comprensione distorta dell’evoluzione. Invoca quindi il ritorno alla teleologia nel pensiero scientifico, in particolare l’accettazione del ruolo del fine e dello scopo, tutti elementi che sono stati banditi dalla ricerca già a partire dal XVII secolo. Considero questo saggio complementare al mio libro, che discute non solo concetti filosofici, ma anche i passi concreti e gli esperimenti che potrebbero condurre le scienze verso nuove direzioni». Lei si considera un eretico? E che rapporti ha con i colleghi biologi? «Mi considero uno scienziato che fa ricerca e raccoglie prove secondo i principi scientifici. Vedo, tuttavia, che molti miei colleghi sono prigionieri delle pressioni sociali e dell’inerzia istituzionale. In pubblico, per loro, è difficile esprimere idee non convenzionali. In privato, però, sono spesso più aperti. Ecco perché ho rapporti di amicizia con molti scienziati, i quali dimostrano un interesse crescente per le mie idee. Ma considerano più sicuro parlarne in privato piuttosto che in pubblico».

Rupert Sheldrake Biologo : EX DIRETTORE DEL PERROTT­ WARRICK PROJECT A «Dalla CAMBRIDGE biologia OGGI È «FELLOW» DELL’INSTITUTE OF NOETIC SCIENCES A SAN FRANCISCO ­ URRA

La Stampa TuttoScienze 30.1.13
I poteri straordinari della musica: a volte cambiano il cervello
Convegno a Trieste sulle terapie “con le note”
di Nicla Panciera


L’evento «Musica e neuro­ psicologia cognitiva dello sviluppo»: è il convegno organizzato dall’Irccs Burlo Garofolo che si terrà l’1 e il 2 febbraio a Trieste

«La musica è un sistema comunicativo non meno importante del linguaggio, ma solo nell’ultimo decennio è diventata oggetto di indagini neuroscientifiche con particolare attenzione al contributo che può dare all’approccio riabilitativo delle malattie neurologiche». Sul potere della musica non ha dubbi Giuliano Avanzini, primario emerito dell’Istituto Neurologico Carlo Besta a Milano, anche grazie alle nuove evidenze scientifiche: «La musica rappresenta un canale privilegiato di comunicazione e, infatti, è parte fondamentale dei riti che scandiscono la vita di quasi tutte le collettività umane. La sua origine evolutiva sta nella capacità di aggregare emotivamente gli individui, favorendo la condivisione delle esperienze».
Oggi, però, a incuriosire i ricercatori non sono tanto gli effetti sociali, ma le trasformazioni, anche permanenti, che induce nel cervello e i tanto vantati miglioramenti delle nostre capacità cognitive. I vantaggi che deriverebbero dalla pratica musicale vanno dall’accelerazione dello sviluppo del coordinamento a quello della concentrazione. Troppo ottimismo? «Qualunque attività che impegni una certa funzione del cervello può migliorarne l’efficienza, anche a vantaggio di altre funzioni. Nel caso della musica, la cui pratica coinvolge numerose abilità percettive, motorie, mnesiche e immaginative, sappiamo che il suo studio migliora l’apprendimento di lingue straniere e, anche se la documentazione scientifica è meno solida, la capacità matematica - spiega il neurofisiologo -. Per quanto riguarda poi le capacità motorie, a parte il caso della danza, le evidenze provengono dalla patologia». Nel Parkinson - aggiunge - «si perdono alcuni automatismi ritmici, ad esempio quelli rilevanti per la camminata, e quindi la musica apporta evidenti benefici grazie alla potente capacità di imporre il ritmo in chi ne è partecipe. Nel caso dell’Alzheimer, invece, se ne sfrutta l’aspetto comunicativo per recuperare la perdita della dimensione sociale che la malattia comporta».
I vantaggi di un precoce esercizio musicale, inoltre, possono permanere nel lungo periodo, anche quando lo studio della musica viene sospeso, in seguito alle modificazioni di strutture e funzioni cerebrali che la pratica induce. «Grazie ad una fondamentale proprietà, la plasticità cerebrale, il sistema nervoso è in grado di garantire il migliore adattamento degli organismi all’ambiente. La persistenza delle modificazioni cambia in rapporto a variabili solo in parte conosciute. Una di queste è la regione cerebrale di volta in volta coinvolta. Ad esempio, l’ippocampo è dotato di proprietà biologiche che lo rendono particolarmente atto a modificazioni importanti per la memoria - dice Avanzini -. Un’altra variabile, poi, è l’età. La plasticità neurale è più efficiente nell’infanzia, quando le modificazioni della fisiologia e anatomia del cervello indotte dall’esperienza possono modificarne in modo persistente le funzioni. Questo vale per ogni genere di attività».
E allora qual è lo specifico della musica? «Ha caratteristiche proprie che la distinguono non solo dallo sport, quanto alla sfera cognitiva e a quella delle emozioni, ma anche dalle altre attività artistiche, rispetto alle quali impegna in modo coordinato funzioni percettive e motorie. E c’è anche la concomitante coloritura emotiva». Per spiegare la completezza dell’esperienza musicale, Avanzini cita il musicologo del XIX secolo Eduard Hanslick: «Le ingegnose combinazioni di bei suoni, il loro concordare ed opporsi, il loro sfuggirsi e raggiungersi, il loro crescere e morire, questo è ciò che in libere forme si presenta all’intuizione del nostro spirito». «A mio parere - conclude - queste parole evocano bene il vissuto della musica, sfiorando l’ineffabile». Musica composta, eseguita e ascoltata. Un invito per tutti.

Giuliano Avanzini Neurofisiologo: È PRIMARIO EMERITO DELL’ISTITUTO NEUROLOGICO CARLO BESTA DI MILANO IL SITO DELL’IRCSS BURLO GAROFOLO : HTTP://WWW.BURLO.TRIESTE.IT/"

La Stampa TuttoScienze 30.1.13
Neuropsichiatria
“Gli adolescenti si aiutano così”
Perché spesso gli esperti sbagliano e i genitori non capiscono i segnali d’allarme
di Gianna Milano


Le tragedie di cronaca costringono il mondo degli adulti a confrontarsi con il malessere dei giovani. Dal tredicenne che si uccide perché ha preso un brutto voto alla quattordicenne che si toglie la vita, probabile vittima del bullismo dei compagni, fino alle tragedie estreme, come quella di Adam Lanza, che negli Usa stermina una folla di bambini inermi.

Tutte storie che rivelano una sofferenza sempre più diffusa e inascoltata, legata all’età «ingrata» per eccellenza, l’adolescenza. Troppo spesso gli stati depressivi vengono banalizzati come turbe, l’isolamento scambiato per timidezza, l’insonnia protratta come un problema momentaneo e le droghe come «avventure». In molti casi, invece, si agita un forte disagio psicologico: che cosa favorisce questo «mal di vivere»? E quali fattori rendono i giovani così vulnerabili? Sergio De Filippis, lei è docen­ te di psichiatria all’Università La Sapienza di Roma e si occu­ pa di doppia diagnosi, vale a dire della dipendenza da dro­ ghe che contribuisce all’in­ sorgere di episodi psicotici: perché la cultura medica ha tardato tanto ad attribuire specifiche caratteristiche al­ l’adolescenza? «Nella cultura tribale l’adolescenza è sdoganata attraverso rituali di passaggio, spesso vere e proprie cerimonie, che traghettano il giovane all’età adulta nel breve spazio richiesto per superare il rituale stesso. Le società di oggi, invece, hanno esautorato i rituali, forse per il decadere di una cultura religiosa, ideologica e sociale, forse per la crescente attitudine degli adulti a voler “spianare la strada” ai propri cuccioli. O forse perché l’accesso al mondo adulto è diventato sempre meno appetibile per i giovani, quando addirittura spaventoso. Assistiamo così ad adolescenze interminabili, in cui i figli non diventano adulti e i genitori possono illudersi così di non invecchiare». Anche la psichiatria, però, ha le sue colpe, non avendo af­ frontato abbastanza le pecu­ liarità di un’età tanto critica. «La formazione medico-psichiatrica non prevede uno spazio in cui si approfondiscano le peculiarità dell’adolescenza. La neuropsichiatria infantile è concentrata sui bambini e non sui ragazzi dai 14 ai 18 anni. Troppo grandi per la neuropsichiatria infantile e troppo piccoli per la psichiatria degli adulti. Questo si rispecchia nei servizi territoriali, che mancano di strutture dedicate agli adolescenti. Si crea così un vuoto di competenze che contribuisce a far perdere tempo prezioso, allontanando la richiesta di ascolto del giovane e della famiglia».
E i genitori? «Spesso negano il problema o non lo riconoscono: “L’ha lasciato la ragazza...”, “è sotto pressione per gli esami...”, “è solo intrippato di pc...”. Hanno scarsa consapevolezza della malattia psichica, dei sintomi e di come può evolvere. La diagnosi, quando arriva, è spesso in ritardo. E le patologie riconosciute solo quando diventano gravi e corrono il rischio di cronicizzarsi».
Quali i fattori scatenanti? «Alla base ci possono essere fattori genetici, epigenetici e anche possibili alterazioni dei neurotrasmettitori, come la serotonina e la dopamina, legate a diverse funzioni del cervello. Ovviamente c’entrano anche l’ambiente e la cultura. Essere ragazzi oggi è difficile. Il confronto e la competizione sono forti e l’ansia da prestazione talora schiacciante. Gli stimoli sono enormi e, se la famiglia non li contiene, il rischio è grande. Pochi genitori sanno per esempio che cosa fanno i figli su Facebook, con chi comunicano e cosa comunicano». Quali sono i segnali che do­ vrebbero fare da campanello d’allarme per i genitori? «Se un ragazzino è ansioso, ritirato, sta troppo in casa, naviga in rete per ore con il “vuoto”, e non sa tirar fuori le sue emozioni, anche se a scuola prende ottimi voti, deve mettere in allerta i genitori. I segnali di una sofferenza psicologica che i grandi (genitori e insegnanti) dovrebbero cogliere, quindi, ci sono, ma la consapevolezza è scarsa». Si può tracciarne un breve elenco? «La mancanza di rapporti significativi con i coetanei e la tendenza a isolarsi; i fallimenti scolastici reiterati con uno scarso investimento su di sé; certe fissazioni o fobie alimentari; le paure irrazionali (come prendere l’autobus o uscire di casa); le crisi di rabbia; gli atteggiamenti autoaggressivi; l’incongruità fra situazione e comportamento (come ridere a sproposito); la chiusura con aspetti depressivi; gli sbalzi d’umore; la frequenza di piccoli incidenti, come cadere oppure tagliarsi; l’incapacità di essere adeguati a uno specifico contesto». È vero che tra i fattori scate­ nanti di queste patologie c’è il consumo in aumento di so­ stanze stupefacenti? «Sì. Le doppie diagnosi di tossicodipendenza e disturbi della psiche - legati all’uso di droghe, cannabinoidi, ecstasy, cocaina, e pasticche varie - stanno crescendo: in tre anni sono aumentate del 13%. E la frequenza del problema rischia di mascherarne la serietà. L’uso di sostanze stupefacenti tende a interferire con la capacità dei giovani di far fronte ai sentimenti che sono una componente necessaria alla crescita. Lo “screening”, quindi, andrebbe fatto prima che si manifesti la psicopatologia. Ma, se manca una collaborazione forte tra scuola e famiglia, diventa difficile individuare il problema per tempo e intervenire per prevenire il peggio». In pratica come devono agire i genitori? «Una volta che il disagio del ragazzo è individuato, genitori e figli vanno coinvolti in un programma di psicoeducazione che renda gli uni e gli altri consapevoli della natura del disturbo psichico, dei sintomi che lo caratterizzano, dell’andamento e della prognosi. Occorrono spazi adatti ad accogliere separatamente adolescenti e genitori per avviarli, a seconda delle necessità, anche a trattamenti di psicoterapia. Per il giovane significa far sì che il suo “agito” possa diventare anche “pensato” e che le angosce che si accompagnano alle trasformazioni dell’adolescenza prendano nome e senso. Ma, oltre ai colloqui individuali, irrinunciabile è il trattamento di gruppo: è nel confronto con i propri pari che l’adolescente può sperimentare le sue competenze cognitive, emotive e sociali».
Quando ricorrere ai farmaci? «Non vanno demonizzati. Una terapia con farmaci può servire a evitare i rischi di una escalation della psicopatologia, riducendo i sintomi».

Sergio De Filippis Psicoterapeuta: È PROFESSORE DI PSICHIATRIA ALL’UNIVERSITÀ LA SAPIENZA DI ROMA

Corriere 30.1.13
La scienza e la libertà Le due lezioni di Rita
Un grande premio Nobel tra cultura, slanci, ironia e capacità di indignazione
di Massimo Piattelli Palmarini


Rita Levi-Montalcini è stata la perfetta incarnazione del motto «omnia munda mundis», tutto è puro per i puri. L'immensa sua popolarità degli ultimi anni non l'ha mai scalfita. In genuina congenita modestia si schermiva dall'ammirazione e dai complimenti, quasi riparandosi fisicamente sollevando appena appena il palmo di quelle sue mani diafane, dicendo: «Ma no, ma no, vi prego, non dite questo, ci mancherebbe!». L'ammirazione per la sua persona veniva da lei recepita come un tributo alla dignità delle donne nella scienza in genere. Rifiutava con garbato rigore la parola genio e nemmeno tollerava che le si attribuisse un'intelligenza fuori del comune. Ciò di cui era fiera era aver perseguito senza tentennamenti ipotesi nuove, essersi discostata dall'inerzia e dal conservatorismo della scienza di routine, aver letto nel loro volto i nuovi, sorprendenti dati sperimentali. Niente di più, niente di più di questo, soleva ripetere. Pur indefettibile nella sua difesa del ruolo delle donne nella scienza, non era una femminista. Detestava ogni pretesto femminile sfruttato per difendere la mediocrità e la sinecura. Ricordo che una volta mi disse costernata che ben cinque (se ben ricordo il numero, ma certo più di due o tre) delle sue giovani collaboratrici si erano messe in maternità a tempo indeterminato: «Non posso sostituirle — precisò — e il laboratorio adesso è paralizzato». Ma se ne doleva come ci si può dolere di un'alluvione o di un terremoto, senza amarezza e senza insinuare colpe. In tema di politica della scienza era tutt'altro che tenera nei confronti di certe cose e di certe persone. Il suo candore non le impediva di diventare aspra nel condannare comportamenti inverecondi e vecchie magagne accademiche.
Uno schietto sense of humour accompagnava queste sue tirate e le ingentiliva. Una volta mi riferì, ridendo ed imitandolo, che, pochi giorni addietro, l'allora presidente di un importantissimo ente scientifico (non farò nomi), nel ricevere degli scienziati stranieri di chiara fama, aveva pomposamente usato il «noi». «Pensa, ha proprio detto "we, the president, welcome you". Ma si crede di essere un re!?». Ne rideva, piuttosto amaramente. Mi disse che l'episodio collimava con il carattere del personaggio e con la sua pessima condotta nella direzione della scienza in Italia. In materia di politica più in generale, una volta disse (e questo credo proprio sia stato riportato anche dalla stampa): «L'unica libertà che ci resta è quella di indignarci». Infatti, tante cose non le parevano «munda» e queste non le tollerava.
La sua autoironia a volte era travolgente. Mi raccontò, ridendone, il seguente aneddoto. Trasportata in auto da un posto all'altro, da una sua conferenza a un'altra, a volte nello stesso giorno, mi confessò che a volte perdeva la cognizione del luogo. In Toscana, le discordie campanilistiche tra città e città sono a volte vecchie di secoli, percolanti addirittura da antiche guerre guerreggiate. Ebbene, trasportata in una città toscana, con un improvviso cambiamento di programma, annunciatole con scuse, si trova di colpo in uno stadio, su una tribuna con alcune autorità locali, di fronte a un microfono e a una moltitudine ammirata. Esordisce dicendo: «Grazie, cari, della vostra splendida accoglienza. Sono così contenta di essere a X». Ma era invece a Y, una città che non vedeva affatto X di buon occhio. Subito si sollevò un boato di protesta, però presto acquetato, certo, immaginai io, per il rispetto dovuto a una così deliziosa persona, allora già anziana, seppur non ancora anzianissima. Si scusò profusamente e poi iniziò la sua conferenza. Rideva dell'episodio, ma ne era ancora un po' imbarazzata.
La sua gratitudine per chi le offriva aiuto e facilitazioni era commovente. Mi disse, alcuni anni or sono, che Diego Della Valle la colmava di ogni generosità, dall'auto con autista fino all'aereo privato in speciali occasioni. Aggiunse, di tutto cuore: «Ma pensa, che caro, che generosità!». Niente considerava le fosse dovuto, tutto era per lei una sorpresa. Queste attenzioni la rendevano addirittura un po' perplessa. I due episodi che ho già recentemente raccontato, il signore che ferma la macchina, scende per baciarle la mano, ringraziandola «di esistere» (sic) e l'altro signore che esce dal ristorante, ritorna con un mazzo di fiori, portato poi dal cameriere al tavolo di Rita e si inchina con tutta la famiglia, la lasciarono grata, ma anche sorpresa e un po' sconcertata. Mi disse, sottovoce: «Che care, che brave persone».
Era sorprendente e commovente vedere come, semplicemente esistendo (appunto), Rita facesse scaturire nelle persone il loro lato migliore. Una volta, a Roma, al ristorante Il Bolognese, alla fine di una colazione tra noi due, che volle assolutamente offrire lei, non ammettendo che fossi io, invece, ad invitarla, mise sul piattino del conto una mancia spropositata (una banconota, allora, di 50.000 lire). Pensando lo avesse fatto a causa della sua non perfetta vista e della sua distrazione per le cose minori, stavo per farglielo notare. Il cameriere, premuroso, mi precedette. «No, professoressa, è troppo, è troppo». E le riconsegnò la banconota. Rita ringraziò e disse: «Mi dica Lei quello che è giusto». Il gentile cameriere, inchinandosi leggermente, declinò ogni mancia e assicurò che andava bene così. Mi parve, una volta di più, che Rita fosse come circondata da una bolla invisibile di buoni sentimenti, un mini-mondo che rendeva migliore chi ci entrava. Del tutto simile era il suo giudizio sulle sue letture scientifiche. Si entusiasmava per i buoni lavori, soprattutto (ma ovviamente non solo) quelli delle scienziate donne, e bollava senza mezzi termini le pubblicazioni boriose e senza sostanza. Sempre con un pizzico di humour.
Mi ringraziò, a suo tempo, di aver preconizzato, sul Corriere della Sera con pochi giorni di anticipo, il suo Nobel. Avevo scritto un articolo sul conferimento a Rita del premio Lasker e avevo aggiunto che è insensato, come spesso si sente dire e anche si legge, in Italia, che il tale o il talaltro è «candidato al Nobel» (sic). Il concetto è privo di contenuto, perché nessuno si «candida» al premio Nobel e la selezione avviene nel più assoluto segreto, fino al momento dell'annuncio pubblico. Concludevo dicendo che, però, se (insistevo su quel se) questo concetto avesse avuto un senso, lo si sarebbe tranquillamente applicato a Rita. Pochi giorni dopo il Nobel arrivò veramente. Un certo numero di miei amici era addirittura persuaso che avessi avuto una spiata, cosa non solo non vera, ma addirittura impossibile. Ai suoi ringraziamenti, Rita aggiunse, in perfetto candore: «Hai rischiato grosso!». In altrettanto candore, risposi che solo la tempistica di quel premio poteva essere incerta, ma non la sua assegnazione. «Ma no, ma no, caro, che dici». Conclusi che la notizia le era giunta proprio di sorpresa. Così era Rita. Sulla tomba di Newton, c'è una luminosa iscrizione latina, che penso si possa perfettamente attagliare anche a Rita. «Si congratulino tra loro i mortali che tra loro sia esistita una tale gemma del genere umano».

Dall'ambiente agli embrioni
Pensiero e ricordi di chi l'ha conosciuta
Un mese fa ci lasciava Rita Levi-Montalcini. Da oggi è in edicola
con il Corriere della Sera il suo libro «Abbi il coraggio di conoscere». Raccogliendo l'esortazione kantiana al sapere aude, a utilizzare con coraggio e determinazione le proprie facoltà intellettuali, il premio Nobel per la Medicina si confronta con i grandi interrogativi del nostro tempo: dalla salvaguardia dell'ambiente alla sperimentazione sugli embrioni, dalla cura del cancro alla tutela dei diritti fondamentali dell'uomo. Il volume è un'edizione aggiornata di quello uscito nel 2004 per Rizzoli: 295 pagine, integrato con testi critici di Isabella Bossi Fedrigotti («Una vita senza tregua»), Aldo Cazzullo («I'm my own husband», «Sono il marito di me stessa»), Sara Gandolfi («La signorina che coltivava il coraggio di ribellarsi») e Massimo Piattelli Palmarini («La libertà di indignarsi»). Quest'ultimo intervento è riportato qui sopra. Da oggi il libro sarà acquistabile per un mese al prezzo di 8,90 euro (più quello del quotidiano).

Repubblica 30.1.13
La battaglia della pillola “Oggi più rischiosa di ieri” l’Europa apre un’inchiesta
Ictus e trombosi: pioggia di cause su Big Pharma
di Elena Dusi


QUANDO, il 14 dicembre, Marion Larat fece causa alla casa produttrice della sua pillola per “attentato all’integrità umana” non sapeva quale reazione a catena internazionale avrebbe innescato. La 25enne francese è invalida al 65% per via di un ictus e il contraccettivo orale da lei usato — insieme a tutte le formulazioni di terza e quarta generazione diffuse a partire dagli anni ‘80 — oggi è sottoposto a procedura di riesame da parte dell’Ema, l’Agenzia europea che si occupa della sicurezza dei farmaci.
La richiesta di riesame è stata avanzata dal governo francese l’l’11 gennaio. Parigi denuncia che le pillole di terza e quarta generazione sono più pericolose di quelle di seconda. Un’abbondanza di dati, pubblicati fra gli altri dal British Medical Journal
e divulgati dalla stessa Ema, dimostra che le pillole più recenti hanno un rischio di ictus e trombosi doppio rispetto a quelle di seconda generazione: 4 casi su 10mila per ogni anno di utilizzo, rispetto ai 2 delle vecchie formulazioni. Il ministero della Salute francese ha annunciato che da fine marzo smetterà di rimborsare le donne che usano la terza generazione, invitando i medici a prescrivere di preferenza la seconda. Se l’Ema troverà fondata la richiesta di Parigi, gli altri paesi europei dovranno adattarsi a questa direttiva.
«I contraccettivi orali più recenti — spiega Carlo La Vecchia, epidemiologo dell’Istituto Mario Negri e dell’università di Milano — erano stati messi a punto per ridurre gli effetti collaterali: non solo il rischio di ictus e trombosi, ma anche la ritenzione idrica e i rari disturbi dermatologici. E invece, per quanto riguarda il pericolo di formazione di trombi, si è ottenuto l’effetto opposto. Stiamo parlando però di numeri estremamente piccoli. Una donna giovane, non fumatrice e con la pressione normale ha più probabilità di essere centrata da un fulmine».
Marion Larat, però, oggi non è sola. Il suo avvocato Philippe Courtois ha preannunciato che alla denuncia della ragazza si stanno per associare altre 30 donne, tutte tra i 17 e i 48 anni, che per via della pillola sarebbero state colpite da ictus (15 casi), embolia polmonare (3 casi), trombosi venosa profonda o flebite. Una signora è morta, le altre sono rimaste invalide, in alcuni casi paralizzate ai quattro arti.
In attesa di riunirsi il 4 febbraio, l’Ema ha diffuso un comunicato per tranquillizzare le donne che si affidano regolarmente alla pillola. Secondo i dati dell’agenzia, “il 99,95% delle utilizzatrici nell’arco di un anno non manifesta alcun effetto collaterale serio” e la protezione contro le gravidanze indesiderate “è quasi al 100%”.
L’inquietudine di Parigi potrebbe sembrare esagerata, se non ci fosse una domanda lasciata senza risposta. A parità di efficacia, perché una pillola più rischiosa ha rimpiazzato una pillola più sicura? Un comunicato diffuso a novembre dall’Haute Autorité de Santé francese spiega che “nessuno studio dimostra che le pillole di terza generazione apportino benefici su effetti collaterali come acne, aumento di peso, nausea, dolore al seno”. All’interrogativo La Vecchia risponde senza esitazione: «Marketing. È un fenomeno che conosciamo bene in farmacologia: accade spesso che la seconda generazione di un medicinale sia effettivamente migliore è più sicura della prima. E infatti le prime pillole usate negli anni ‘60 e ‘70, che contenevano dosi di estrogeno 3 o 4 volte più alte delle attuali, sono scomparse dalla circolazione. Poi però accade che inizino a comparire generazioni nuove che non necessariamente sono migliori, ma che, come nel caso della pillola contraccettiva, costano di più». Per le case farmaceutiche, bersagliate da richieste di risarcimento sempre più numerose (la Bayer negli Usa ha pagato 750 milioni di dollari per 3.500 donne e ha ancora 3.800 giudizi da affrontare), il conto potrebbe però non chiudersi in attivo.

Repubblica 30.1.13
“È vero, con i nuovi mix di ormoni problemi aumentati del 70%”
Lamberto Manzoli, dell’università di Chieti, ha studiato gli effetti su 45mila donne


ROMA — Lamberto Manzoli e i suoi colleghi dell’università di Chieti nel 2012 hanno calcolato il rischio di trombosi e ictus su un campione di 45mila donne che usano la pillola contraccettiva.
Quali sono stati i vostri risultati?
«Le pillole di terza e quarta generazione, secondo i nostri dati, hanno un rischio del 70% circa più alto rispetto a quelle di seconda. La prima generazione invece non è più in circolazione. Le dosi di estrogeno erano troppo alte».
Perché terza e quarta generazione vengono usate, se sono più pericolose?
«Si tratta di rischi comunque molto bassi in valore assoluto. Avvenne qualcosa di simile per la terapia ormonale sostitutiva: dopo aver messo a punto un prodotto efficace e sicuro, le case farmaceutiche iniziarono una guerra dei brevetti per trovare formule sempre migliori».
Ma in questo caso non è avvenuto il contrario?
«Dipende da quale variabile prendiamo in considerazione, se il rischio di tromboembolia o la percentuale di gravidanze evitate».
Ma per quale motivo le nuove pillole causano più problemi?
«Il meccanismo non è chiaro. Tutti gli ormoni hanno effetti su molti apparati diversi. Quelli somministrati attraverso le pillole potrebbero agire sulle pareti dei vasi sanguigni o essere legati a fattori infiammatori. La medicina non ha una risposta precisa a questa domanda».
(e. d.)

Repubblica 30.1.13
Hannah Arendt
Esce in Germania il film sulla filosofa tedesca, autrice del celebre libro “La banalità del male”
Interpretato da Barbara Sukowa, racconta la sua partecipazione al processo ad Adolf Eichmann
di Andrea Tarquini


BERLINO Con Wim Wenders, Werner Herzog, Margarethe von Trotta e tanti altri il grande cinema tedesco ci stupì e ci incantò dagli anni Sessanta a prima della caduta del Muro. Ora il film made in Germany torna a una sfida importante con Margarethe von Trotta e il suo Hannah Arendt, in uscita in Germania. Il film è dedicato alla grande filosofa, storica e scrittrice tedesca emigrata negli States, ma non racconta tutta la sua biografia, bensì un momento decisivo della sua carriera. Quello in cui Hannah Arendt fu testimone e cronista d’eccezione a Gerusalemme, al processo per crimini contro l’umanità ad Adolf Eichmann, l’ingegnere dell’Olocausto. Lei che studiò a fondo la genesi di ogni totalitarismo, e provocò e irritò la sinistra comparando il nazionalsocialismo al socialismo reale staliniano, allora fece ancora un altro balzo in avanti: raccontò e poi descrisse in celebre libro la “banalità del male”.
«Molta gente a sinistra allora la schivò, la evitò, perché lei pronunciò verità scomode, già nel 1951 nel suo libro sul totalitarismo paragonò i crimini nazisti con quelli del comunismo sovietico, e a noi di sinistra ciò suonava sospetto», dice Margarethe von Trotta nella recente, bellissima intervista a due voci che ha concesso a Marie Luise Knott e Christiane Peitz del quotidiano liberal berlinese Der Tagesspiegel, insieme a Barbara Sukowa, l’attrice tedesco-americana di origini polacche. «Ancora oggi», continua von Trotta, «ci sono persone che rifiutano il pensiero di Hannah Arendt perché analizzò entrambi i totalitarismi».
Il processo ad Adolf Eichmann, ricordiamolo, fu uno dei più grandi eventi mediatici del dopoguerra. L’ingegnere che eseguì con precisione industriale assoluta l’ordine hitleriano della «soluzione finale del problema ebraico», si era nascosto in Argentina. Nel 1960 un commando dell’intelligence israeliano, giunto a Buenos Aires con falsi contratti da tecnici edili a bordo di un DC4 con falsa matricola civile, lo sequestrò e lo portò in Israele. Al processo, le cui riprese restano memorabili (e in alcune parti compaiono anche nel film della von Trotta), Eichmann ammise, da freddo ingegnere privo d’emozioni, ogni colpa descrivendo qualsiasi minimo dettaglio, da come dovevano funzionare i forni alla quantità di gas Zyklone-B usata ogni volta. Fu condannato a morte e impiccato.
Hannah Arendt scrisse per i media americani il grande resoconto del processo e ora il cinema riporta agli occhi delle giovani generazioni tedesche quella memoria terribile che per fortuna viene insegnata loro ogni giorno a scuola. Un ruolo difficile da interpretare per la protagonista del film. «Se devo affrontare una parte», dice Barbara Sukowa, «non mi pongo troppe domande, ma ho letto il copione senza sapere molto di Hannah Arendt, poi informandomi mi sono stupita di quanto tempo dedicava al teatro, ai concerti, agli amici». Piccola difficoltà: Barbara Sukowa non fumatrice ha dovuto imparare ad avere una sigaretta in mano a ogni scena, perché «Hannah Arendt senza sigaretta non è realistica».
Margarethe von Trotta ha studiato a lungo ogni dettaglio di Hannah Arendt, ogni video o filmato disponibile su di lei o su sue interviste. «La sua intervista alla tv pubblica con Guenter Gaus» racconta la regista «mi colpì sulle prime per la sua apparente arroganza, ma poi capii che quello era anche il suo charme, tra sorrisi e senso dell’umorismo». Il film sulla Arendt si inserisce in una ideale trilogia cinematografica che von Trotta ha dedicato ad altrettante figure femminili decisive nella storia tedesca, tutte peraltro interpretate da Barbara Sukowa: da Rosa Luxemburg nel film del 1986 alla mistica Hildegard von Bingen in Vision del 2009. La regista spiega di aver studiato a lungo la storia di Hannah, prima di decidere la prospettiva dalla quale raccontarla. «Non mi convinceva fare un film generico sulla sua fuga in Francia dal nazismo, sulla prigionia nel Lager, sull’esilio in America. Volevamo dedicare la pellicola al suo pensiero, per far riflettere gli spettatori, come se il film fosse tratto dai suoi appunti, per questo ci siamo concentrati sulla sua resa dei conti con la storia, al processo contro Adolf Eichmann; come ogni eroe positivo, anche Hannah Arendt ha bisogno nella narrazione filmica di un antieroe».
Il film è preciso in ogni particolare, notano von Trotta e Barbara Sukowa. Dai momenti in cui l’allora direttore del New Yorker, Wiliam Shawn, aspettava nervoso il testo del reportage di Hannah sul processo ad Eichmann divorando le matite, fino ai dettagli più minuti: «Hannah Arendt non era una donna grigia vestita di grigio come molti la ricordano » nota Barbara Sukowa, «usava sempre il rossetto, e indossava una collana di perle o un braccialetto prezioso, e vestiva sempre con gonna e pullover, non amava i jeans».

il Fatto 30.1.13
Facebook-dipendenti? C’è la clinica psichiatrica
di Caterina Soffici


Londra Guardate Facebook o Twitter più di 10 volte al giorno o per più di mezz’ora in tutto (almeno che non sia il vostro lavoro)? E la mattina, quando vi svegliate, il vostro primo pensiero va alla doccia e al caffè, oppure appena aperto l’occhio agguantate l’iPhone e iniziate a spippolare impazienti di conoscere cosa è successo nel mondo virtuale mentre voi, poveri tapini, stavate sprecando tempo prezioso dormendo? Controllate il telefonino anche mentre giudate? Sono tutti sintomi da tenere sotto controllo. Potreste ritrovarvi, un giorno non troppo lontano, nel reparto del dottor Richard Graham all’ospedale psichiatrico Tavistock and Portman di Belsize Park, a Londra.
Qui, in questa struttura del Servizio Sanitario Nazionale britannico, sono specializzati proprio nel trattamento delle dipendenze da Internet e da Social Media, patologie in crescita. Una recente ricerca condotta dall’Università del North Carolina ha scoperto che quando qualcuno ci ritwitta o ci concede un “like” su Facebook riceviamo una piccola iniezione di dopamina, un neurotrasmettitore associato proprio con le dipendenze. Mentre per uno studio dell’Università di Chicago, la mania di Facebook può creare più dipendenza di alcool o sigarette. E soprattutto è più difficile da smettere.
LA CLINICA psichiatrica del dottor Graham è finita sui giornali britannici per la vicenda di un giovane giocatore di calcio (Marvin Sordell dei Bolton Wanderers), entrato in un vortice ossessivo da social network. Il suo manager si è rivolto alla clinica chiedendo aiuto, dopo che il ventunenne attaccante di colore è rimasto vittima di un attacco razzista su Twitter. Pare che questo epiosodio, unito alla nostalgia di casa e al cattivo inserimento nella squadra, abbia creato un caso pericoloso di disadattato da social media, incapace di staccare gli occhi dal video.
Un caso limite, chiaramente. Ma ogni anno i pazienti cronici e acuti aumentano. Il dottor Graham ha curato l’anno scorso un centinaio di persone. E su queste patologie spiega un sacco di cose interessanti. Per esempio che twittare e postare su Facebook sono spesso un surrogato o un’appendice della vita reale. Vi ha lasciato la ragazza? Postate una foto di voi sorridenti per farle vedere che non ve ne frega niente. Nella realtà virtuale si compensano spesso gli errori e i fallimenti reali. Perché la vita sui social media ti dà la possibilità di creare una seconda identità. E quelli che controllano di continuo l’aggiornamento delle notizie? Graham usa il termine “sorveglianza”, che è una patologia associabile a una forma di depressione con una attività cerebrale che può impegnare il vostro cervello anche per 18 ore al giorno.
NELLE SEDUTE alla clinica mentale di Belzise Park i pazienti condividono le proprie esperienze, come agli Alcolisti Anonimi. E così alla domanda di Graham: cosa fate quando è impossibile connettersi, c’è chi usa la parola “sollievo” e chi invece parla di “sintomi da astinenza” (“sono ansioso di non poter controllare cosa sta succedendo. Insomma sono molto più felice online”) E chi racconta: “In tutto ho fatto 145.066 tweet, ci sto 8 ore al giorno, la rete è come un’ancora di salvataggio”. Secondo il dottor Graham la maggior parte degli utenti di Twitter e Fb oscillano tra comportamenti compulsivi e ossessivi, ma solo i casi più gravi si possono definire “dipendenze”. Per tutti il consiglio è uno: provare a stare lontani dai social media almeno per 72 ore.