giovedì 31 gennaio 2013

l’Unità 31.1.13
Bersani al premier: «Non aiuti la destra»
Il leader Pd: «In Lombardia siamo testa a testa con Pdl-Lega, il nostro è un candidato civico, che scelta fa il Prof?»
A Berlusconi: «Sto trattando per Messi al Bettola Football Club»
di Maria Zegarelli


ROMA A Mario Monti parla da Trieste, a Silvio Berlusconi da Napoli. Pier Luigi Bersani attacca al centro e a destra chiamando al voto utile gli elettori. Davanti agli ultimi sondaggi che danno il centrosinistra in netto vantaggio a livello nazionale e leggermente avanti sia in Lombardia sia in Sicilia, due delle regioni dove si gioca la maggioranza al Senato, il leader Pd esorta i suoi a non dare nulla di scontato.
Combattere «fino all’ultimo giorno perché ogni voto è utile» e «Monti per primo, che in Lombardia appoggia Albertini, dovrebbe capire che noi siamo l’unico partito in grado di dare stabilità al governo e al Paese, gli altri, compreso il Professore, possono dare solo la palude». Pierferdinando Casini legge le agenzie e rispondere, «no grazie, non vogliamo tornare alle nostalgie del passato». Ma per il segretario Monti esarcebando i toni dello scontro con i democratici non fa che dare sponda ai populismi e a Grillo, «molto più forte di quanto riusciamo a vedere dai sondaggi». Al Cavaliere, Bersani, invece, riserva gli affondi più duri. Evoca il rischio di «cloni» del Cavaliere e dice: «Mi auguro che il buon Dio abbia perso lo stampino...».
IL TESTA A TESTA
«È già una notizia il fatto che noi in Lombardia siamo in palese testa a testa spiega durante una conferenza stampa a Trieste La dice lunga su come stanno le cose. Questo deve far riflettere tutti. C`è qualcuno che si chiama “Scelta civica”. Hai mai visto fare
una riflessione? O la spunta Ambrosoli o Maroni, non penso che Albertini la possa spuntare». E se da Roma il ministro Andrea Riccardi replica che Scelta Civica «non si candida per fare da stampella al Pd o al Pdl», ma «guidare l’Italia», Bersani non rinuncia ad appellarsi al senso di responsabilità ora, in Lombardia, come in Sicilia, in Campania e in Veneto (dove la forbice tra centrodestra e centrosinistra è sensibilmente più larga).
Davanti ai continui attacchi dei centristi replica che «Monti s’alza al mattino e tutti i giorni scopre un difetto del Pd . Io per un anno non l’ho mai sentito parlare di un difetto del Pd». Ma quelli erano i tempi del governo tecnico, un’architettura anomala tenuta su dal consenso dei partiti, oggi la musica è cambiata. Tanto cambiata che anche le critiche all’esecutivo Monti non vanno più tanto per il sottile mentre parla ad un’iniziativa elettorale a Napoli: il governo del Professore ha mostrato una «certa sottovalutazione della difficoltà di governare. Perché gli esodati che incontravamo per strada, i lavoratori che incontravamo, non li abbiamo mica mandati dalla Fornero, li abbiamo incontrati noi». Errori sugli esodati e sottovalutazione anche su un altro tema: «Il primo giorno dobbiamo fare leggi ben più pesanti sulla corruzione di quelle che non abbia fatto Monti», dice mentre più tardi su twitter (dove da due giorni cinquetta a ritmi sostenuti) annuncia di aver sottoscritto la campagna del Gruppo Abele e Libera, «Riparte il futuro», contro la corruzione.
Un colpo al centro e uno a destra. Parte dalla crisi durissima e dal pareggio di bilancio e arriva alle notti allegre di Arcore. «Il centrodestra ha ancora il coraggio di parlare nonostante il disastro che ha combinato. Noi non dovevamo essere dove ci siamo trovati, questo è il punto di fondo. Abbiamo mangiato pane e Ruby e festini per degli anni, fino a quando non è arrivato Monti era sesso e viedeotape. Per questo abbiamo dovuto firmare il pareggio di bilancio nel 2013, che altri non hanno firmato».
La speranza legata al voto: «Mandare a casa per sempre Berlusconi e il berlusconismo. In questo giro non siamo solo alternativi per un governo o una legislatura, ma a 20 anni di organizzazione di questo sistema politico. Dobbiamo mettere gli italiani di fronte a questo tema. Dopo Berlusconi, Monti, Grillo, Ingroia cosa c'è lì? Un Paese può andare avanti così? ... Questi che mettono il nome sul simbolo si sono scelti da soli e invece dopo Bersani c'è il Pd. Dobbiamo uscire da questa malattia». La spina nel fianco conficcata dalla vicendadiMps:«Afarelamoraleanoièil Pdl, che ha cancellato il reato di falso in bilancio. Noi lo reintroduciamo il primo giorno di governo il reato di falso in bilancio». Si dice convinto che chi oggi calunnia il Pd ne uscirà male quando tutto sarà chiarito, ma per il momento i sondaggi raccontano di una flessione direttamente legata allo scandalo della banca senese.
E in una Napoli in tilt per il fermo dei trasporti è il richiamo all’acquisto di Balotelli da parte del Milan a far sorridere la platea: «Mentre io ero a Padova e incontravo un'associazione di disabili e parlavamo di problemi seri, Berlusconi trattava su Balotelli. Vi do l'annuncio che sto trattando per Leo Messi per il Bettola footbal club.... A Bettola non c'è la squadra? Tanto mi hanno detto che lui gioca da solo...».

l’Unità 31.1.13
Luciano Gallino
«Dopo le prime assemblee il progetto arancione ha preso una direzione che non condivido Movimenti importanti ma partiti fondamentali»
«Sel e Pd unica speranza di una politica progressista»
di Rachele Gonnelli


«Un cortese distacco». Così il professor Luciano Gallino definisce il suo addio a tutta l’operazione che oggi va sotto il nome di Rivoluzione civile o lista Ingroia. In realtà, al di là dei modi compassati e gentili che gli sono propri, la sua è una bocciatura politica senza appello. Tanto più rilevante perché viene da uno dei padri fondatori di Cambiare Si Può, anzi dal primo firmatario dell’appello, oltre che da uno degli studiosi italiani più quotati a livello internazionale di capitalismo e relazioni sociali, con un curriculum che parte dal centro studi di Adriano Olivetti, passa per l'università di Stanford e approda all'Accademia dei Lincei.
Professore lei ha detto a MicroMega che voterà Sel. Come ha maturato questa svolta rispetto a precedenti collocazioni?
«È successo che ci sono state alcune belle assemblee, molto stimolanti, alle quali ho partecipato. Ma che poi, quando il progetto nato lì come Cambiare Si Può si è calato nella discussione sulle liste e sulle alleanze, la prospettiva si è complicata e ha preso una direzione che personalmente non mi sento di condividere. C'è stata anche una votazione in cui io e altri tra i primi firmatari dell'appello non abbiamo condiviso la scelta, approvata a maggioranza, di accettare di proseguire il cammino indicato da Ingroia. A quel punto avevo delle scelte limitate: non votare, chiedere asilo politico in Tasmania oppure appoggiare una forza che, pur minoritaria, tutto sommato è una voce che dice qualcosa d'interessante sulla finanza e il lavoro, cioè sui temi ai quali ho dedicato gli ultimi 15 anni di studio».
Parla di Sinistra ecologia e libertà?
«Sì».
È tra i delusi dell’eccessiva presenza di partiti nella lista Ingroia?
«No, guardi, pur sottolineando l’importanza dei movimenti, ritengo che la forma partito sia fondamentale, proprio per portare le istanze dei movimenti in Parlamento. Solo non è esattamente moderno ciò che vedo in quella lista, nelle persone che ci sono. Ingroia e i suoi non mi pare abbiano cose interessanti da dire sui temi di cui mi occupo come la riforma delle banche a livello europeo. Non è un rimprovero e non faccio questioni di persone, si occupano di altro, è un fatto di ruolo e di attenzione del tutto legittimo. Ma non mi interessa».
Mi risulta che abbia anche sottoscritto un appello a sostegno di Giulio Marcon, ex portavoce di Sbilanciamoci, insieme ai suoi colleghi Saskia Sassen, Richard Sennett e a intellettuali italiani come Fofi, Castellina e altri.
«Sì, voterei volentieri per Marcon, purtroppo non solo non ci sono le preferenze ma si presenta in Veneto e io voto a Torino. L'ho incontrato a qualche convegno ma soprattutto il sito di Sbilanciamoci è uno dei pochi, uno o due in Italia, che si leggono con profitto». Dunque sceglie il centrosinistra. Cosa dovrebbe fare secondo lei per farci uscire dalla crisi?
«Siamo di fronte ad un bivio e qualcuno ha già deciso quale strada prendere, una strada che ritengo sbagliata. Se Sel e il Pd riusciranno a ottenere l’autonomia in Parlamento è probabile una politica un po’ più progressista. Se invece si dovrà ricorrere ad una alleanza con Monti temo che il tasso di apertura del Pd si possa restringere e che abbia la meglio l’ala più conservatrice, più sensibile alle politiche di austerità europee, anche se con un minimo di attenzione in più di Monti rispetto alle problematiche del lavoro».
Il suo è dunque un ragionamento sul voto utile?
«L’idea del voto utile non mi è mai piaciuta. Inoltre credo che se Sel riesce comunque a portare in Parlamento una parte dei suoi candidati mi auguro che questi potranno fare dichiarazioni, prese di posizione contro il taglio del welfare e le politiche di austerità, contro il patto fiscale che il Pd sostenendo il governo Monti ha approvato con una modifica costituzionale disastrosa. Il pareggio di bilancio nella Costituzione porterà ad una inaudita cessione di sovranità, significa che la nostra politica fiscale sarà fatta a Bruxelles. Un suicidio perché le ricette adottate fin dal 2010 spingeranno i Paesi con strutture meno solide come l’Italia verso un decennio di recessione».
Lei non crede nella ripresa economica a partire dalla seconda metà del 2013? «Sono anni che si fanno previsioni di riprese e ripresine che poi sono ben poca cosa. E anche nel caso questa ripresina ci fosse, se non fondiamo lo sviluppo su altre basi, su una crescita meno forsennata e disastrosa in termini ecologici, finalizzata a beni utili, ad esempio su un’industria meno vorace in termini energetici, non avremo fatto nulla». Per l’Ilva, come per Mps, pensa a un salvataggio statale?
«Mps fa tanto scalpore ma è uno dei casi della finanza-casinò, per usare un termine di Keynes. Certo, hanno trovato in un giorno 3,9 miliardi per Mps e non i 4 miliardi che servono per avviare la bonifica e la riconversione di Taranto, che interessa centinaia di migliaia di persone, lavoratori e famiglie».

l’Unità 31.1.13
Vasco Errani
L’avversario è il patto Berlusconi-Lega.
Monti è irriconoscibile quando ricalca la vecchia politica
Ingroia? Dica se punta all’ingovernabilità
«Il Pd è la forza del cambiamento. In tanti vogliono impedirlo»
di Simone Collini


«Ben venga l’indagine della magistratura e la commissione d’inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena perché così si dimostrerà nei fatti che il Pd è fuori da questa vicenda e che le strumentalizzazioni di questi giorni hanno solo un fine elettoralistico». A Vasco Errani non piace la piega che sta prendendo questa campagna elettorale. Il presidente della Regione Emilia Romagna la considera negativa per il Paese: al centro del confronto dovrebbero esserci le politiche per il lavoro, il sostegno alle imprese, i programmi per la ricerca e per l’innovazione, una nuova idea di sviluppo. «E invece vedo all’opera populismi di vario genere e forze diverse che lavorano per impedire che in Italia ci sia un vero cambiamento». «Siamo ad un passaggio storico, siamo ancora dentro la crisi più grave dal dopoguerra, ci sono proposte per rilanciare il Paese, ma c’è chi non ne vuole parlare».
Sta dicendo che siamo di fronte alle classiche armi di distrazione di massa? E a chi farebbero comodo?
«Alle prossime elezioni la posta in gioco è la prospettiva, il futuro dell’Italia. Abbiamo bisogno di un cambiamento radicale e il Pd ha dimostrato di poterlo realizzare. Ma c’è il rischio che questo cambiamento venga disperso proprio perché si parla d’altro, perché si montano polemiche strumentali e fumose, perché si torna ai messaggi beceri di Berlusconi, perché si stimolano le pulsioni antidemocratiche, come fa Grillo, perché si mettono in campo le tecniche della vecchia politica, come in alcuni casi purtroppo vedo fare anche da Monti».
Andiamo con ordine: il Pd può realizzare il cambiamento necessario al Paese, lei dice. Ma come fa a sostenere che colpire il Pd vuol dire colpire il cambiamento, che non ci siano in campo altre forze in grado di garantirlo?
«Il Pd è stato capace di rispondere alla crisi, e di interpretare la grande domanda di partecipazione, con un percorso che ha ridato qualità alla democrazia. Il Pd è il partito della riforma della politica, un partito che intende ridare valore al sistema democratico, mentre da più parti si assiste alla nascita o al consolidamento di diversi populismi. La qualità democratica ovviamente deve combinarsi con la giustizia sociale e il rilancio del lavoro e dello sviluppo. Ma i nostri oppositori purtroppo sembrano impegnati per lo più a creare ostacoli, a giocare con ostruzionismi e impedimenti».
A chi si riferisce quando parla di diversi populismi?
«A chiunque lavora per delegittimare il valore della politica e della rappresentanza perché punta a un decisore solitario. Ma indubbiamente l’avversario principale è il patto che Berlusconi e la Lega hanno riproposto tal quale, come se non fosse abbastanza il danno prodotto all’Italia, come se non fosse così salato il conto che ancora i cittadini pagano al fallimento di questa destra».
E di Monti, che sostiene che Pd e Pdl impediscono la riduzione della spesa pubblica, cosa pensa?
«Sinceramente faccio fatica a riconoscere Monti in queste ultime settimane».
Monti se la prende con i «partiti tradizionali» e lei gli rimprovera di fare «politica vecchia».
«Cosa c’è di più tradizionale che mettere il proprio nome nel simbolo di una lista elettorale? È ciò che è successo negli ultimi vent’anni e, come si è visto, ha prodotti danni al Paese. Poi, mi stupisce quando sento Monti dire che l’Imu va data ai Comuni. In tutti questi mesi in cui è stato al governo, noi abbiamo chiesto proprio questo, ricevendo però dal governo soltanto dei no. Adesso promette quello che noi chiedevamo? Promette una riduzione delle tasse per 30 miliardi? Forse c’è qualcosa che non va». Forse il tema più insidioso per il Pd è l’accusa di «conservatorismo» rivolta alla Cgil.
«Se l’elemento cardine è il cambiamento, tutti devono sapere che per cambiare bisogna costruire alleanze e progetti che vedano protagonisti il mondo del lavoro e quello dell’impresa. Non si realizza questo progetto costruendo dei muri, o creando spaccature. Il problema vero in questi anni è stato che la destra ha investito sulla frattura del mondo del lavoro. E ha prodotto disastri. Voglio sperare che Monti abbandoni questa strada». Rimane valida la proposta di Bersani per un confronto tra progressisti e moderati?
«Il progetto di Bersani è chiaro, e certamente resta valido. Si tratta di costruire una proposta di governo che promuova le riforme con tutti i soggetti disposti a realizzarle davvero. Ha sempre detto che il dialogo con i moderati è un elemento importante. Ma non ci sono né patti scritti prima, né accordi politicisti. C’è la possibilità di un confronto e un dialogo vero per cambiare il Paese e realizzare politiche per il lavoro e la crescita: si gioca qui la vera partita se vogliamo dare una prospettiva all’Italia, fornire risposte alle nuove generazioni, tornare ad avere un ruolo in Europa per cambiare gli indirizzi nel senso dell’equità sociale e della qualità dello sviluppo».
Che messaggio rivolge ad Ingroia, dopo che la sua compagine ha rifiutato ogni patto di deistenza con il Pd?
«Noi non abbiamo proposto patti a nessuno. Abbiamo fatto un ragionamento politico: si considera un valore la governabilità del Paese oppure si vuole il contrario? Per noi è fondamentale che l’Italia, dopo le elezioni, abbia un governo capace di produrre il cambiamento necessario. Ingroia è d’accordo? Ci sono tante forze che puntano ad un Senato senza maggioranza. Io penso che sarebbe un danno per il Paese».

il Fatto 31.1.13
Consiglieri beccati con le mani nella Nutella
Il centrosinistra lombardo indagato per i rimborsi:
Nella lista anche multe Equitalia, quadri e aperitivi
di Davide Vecchi


Esprimono “pieno rispetto per il lavoro della magistratura”, si dicono “certi di poter dimostrare di aver agito correttamente” e si impegnano “a dimettersi nel caso di un rinvio a giudizio”. Ma molti dei 29 consiglieri lombardi del centrosinistra che stanno ricevendo gli avvisi a comparire hanno in tasca un biglietto per Roma o per il Pirellone. Da Giuseppe Civati, l'ex rottamatore proiettato a Montecitorio, ad Alessandro Alfieri, vice segretario renziano del Pd lombardo, già indicato come futuro assessore in una ipotetica giunta di Umberto Ambrosoli. Ma c'è anche l'ex Udc Enrico Marcora oggi candidato nella lista di Gabriele Albertini con la benedizione di Mario Monti. E poi Franco Mirabelli e Francesco Prina, candidati al Senato e a Montecitorio, Angelo Costanza, Carlo Porcari, Carlo Spreafico e Antonio Viotto del Pd; insieme a Chiara Cremonesi, capogruppo di Sel che si è comprata anche il master “vincere le elezioni”.
Tutti indagati per peculato, come i loro colleghi consiglieri di Pdl e Lega. Stessa sorte. Praticamente tutta l'aula dell'ultima legislatura guidata da Roberto Formigoni è finita nella lente della Procura di Milano. Il colpo è duro per il Centro sinistra che veleggiava verso la vittoria di Ambrosoli che ieri ha chiesto ai candidati indagati di impegnarsi a dimettersi in caso di rinvio a giudizio. Pd e Idv hanno accolto la proposta. “Siamo pronti a sottoscrivere l’impegno”, ha detto capogruppo del Pd Luca Gaffuri, indagato anche lui. “Mi sembra una dichiarazione condivisibile e un gesto di trasparenza nei confronti dei cittadini”. Gli ha fatto eco il capogruppo dell'Idv, pure indagato, Stefano Zamponi. “Bisogna dare il segnale di una svolta nella legalità”, ha detto. Sottolineando che però “utilizzare i fondi per acquistare una bandiera italiana da mettere nell’ufficio è diverso dal rifornirsi di cartucce da caccia”. Civati, che fu rottamatore con Matteo Renzi, si limita a incassare il colpo. Ha pubblicato tutto sul suo sito. “Sono fiducioso, ho sempre rendicontato voce per voce tutte le mie spese, che non riguardano pranzi, cene, aperitivi o acquisti di beni per me o per altri, ma solo trasferimenti in qualità di consigliere regionale”. Ma basta a mostrare il fianco. “Io sono contento che indaghino anche su di noi. Poi certo il momento è delicato. Ma non deve passare il 'sono tutti uguali', quindi ben vengano i chiarimenti”. In tutto a Civati la Procura contesta 3.145 euro di alberghi, treni e taxi dal 2008 a tutto il 2012.
Cifre esigue anche per Franco Mirabelli a cui non piace essere accostato al Pdl e alla Lega. “Resta l'amarezza e la rabbia di constatare come si tenti, per una cifra complessiva di 6.000 euro, 100 euro al mese per 5 anni quasi la totalità in spese di rappresentanza, questa è l’entità della somma che mi contestata, di associarmi a chi ho combattuto in questi anni ed è stato protagonista di vicende gravi come quelle a cui abbiamo assistito in Regione Lombardia”. Ma a tre settimane al voto il centrodestra non lascia di certo spazio ai distinguo. Ieri ha avuto gioco facile Roberto Maroni, candidato governatore della Lega. “Caro Ambrosoli, come la mettiamo con la promessa natalizia di liste senza indagati? Casciaball cosmico”, ha scritto su Twitter. Formigoni si è scagliato contro l'avvocato del Patto Civico e ha invitato il sindaco Giuliano Pisapia “a ripetere parola per parola i giudizi molto chiari e pesanti rivolti a dicembre contro i consiglieri del centro-destra e rivolgerli oggi a quelli della sua parte politica”. E ha ricordato di quanto “si siano tutti scandalizzati per il nostro consigliere che si era fatto rimborsare persino un cioccolatino: ora cosa dite? ”. Nel Pd il più attivo è stato il democratico Carlo Spreafico. A lui la procura contesta 47.720 euro dal 2008 al 2012. Oltre a ristoranti e taxi, l'esponente del Pd, si è fatto rimborsare una cartella esattoriale Equitalia emessa dall'ordine dei giornalisti perché il consigliere, nonché pubblicista, si era dimenticato di pagare la quota d’iscrizione: 101 euro.
Ha poi presentato uno scontrino per un “ombrello mini automatico” (9,40 euro), “biscotti 5 stelle” per 3 euro, una confezione di Nutella da 2,70 euro e, tra l'altro, un aperitivo “crodino” al bar Rosso Rubino: 6 euro. Ancora: fototessere (8 euro), ricambi per biciclette (55 euro), biglietti dei mezzi pubblici, gelati, persino una ricevuta da 0,90 centesimi per un parcheggio. Ancora: più di tremila euro al mediaworld per acquisti vari tra cui due BlackBerry e 146,80 euro per il corso d'Inglese in dvd “Speak now”. Che imparare una lingua, prima o poi, è utile. Ma ci sono anche libri e due opere di Romano Trojani acquistate per 4mila euro il 30 gennaio 2012. Il tutto oltre ai “rimborsi per viaggi”: circa cinque mila euro. Ieri Spreafico era irrintracciabile.
Così come Marcora. In un anno e mezzo ha chiesto 13 mila euro di rimborsi ritenuti irregolari. Nel dicembre 2010 ha speso 2380 euro in un colpo solo per il libro “Il bene di tutti, gli affreschi del buon governo”. E oltre ai vari acquisti di francobolli, di materiale per più mille euro alle Poste Italiane, manifesti avvolgibili (404 euro), ci sono pranzi e cene per comitive al ristorante Saint Andrews. 66 coperti nel novembre 2011 (valore 1650 euro), 19 commensali e uno scontrino da 537 euro lo scorso Aprile. Si fa rimborsare un pranzo con Davide Mengacci e un “aperitivo con Alessandro Sancino”, oggi candidato con Ma-rio Monti al secondo posto nella lista lombarda per la Camera.

il Fatto 31.1.13
Paura in Lombardia, Bersani ha un sogno: il ritiro di Albertini
di Wanda Marra


Una riflessione seria” sulle regionali in Lombardia. Pier Luigi Bersani ieri mattina va diritto al punto e dice a Monti: “Noi abbiamo messo in campo una proposta civica, c'è qualcuno che si chiama Scelta civica, vedi mai che faccia una riflessione - ha detto Bersani - finchè ci si punzecchia è la campagna, poi si ha la sostanza, vince chi arriva primo”. Il riferimento è alla decisione del Professore di appoggiare Gabriele Albertini, uno che stava in Forza Italia, invece del candidato democratico, Umberto Ambrosoli. Il segretario Pd vorrebbe - neanche tanto velatamente - che Albertini si ritirasse, così da far vincere Ambrosoli alle Regionali. Una strategia elettorale ormai tanto consolidata, quanto impraticabile: il voto è inutile, se se non è per il Pd. Ha provato ad applicarla ad Ingroia, chiedendo di fatto di ritirare le liste al Senato. Rispetto alla scelta di Monti di “salire” in politica, Bersani oscilla tra la rabbia, l’attacco e la necessità di non alzare troppo i toni, visto che l’accordo post elettorale sembra una strada obbligata. Le paure si moltiplicano: in Lombardia, la presenza di Albertini favorisce Maroni; in Senato è un testa a testa che i sondaggi fotografano ogni giorno, punto più, punto meno, una volta è avanti il centrodestra, un’altra il centrosinistra. E lo scandalo rimborsi non è una cosa che fa bene. Hanno un bel dire dallo staff del segretario che alle rilevazioni loro non ci credono: Palazzo Madama si gioca per un pugno di seggi. Ecco allora perché quello di ieri - spiegano - è stato un messaggio non tanto a Monti ma agli elettori. Perché capiscano che votare Albertini alle Regionali, o il Professore alle politiche, di fatto favorisce il centrodestra. Anche perché ormai pure per la desistenza siamo fuori tempo massimo. Albertini, infatti, dal canto suo ha chiarito che al ritiro non ci pensa proprio. Per rimanere in termini di paura, c’è anche quella che l’accordo per il governo sia sempre più difficile. Ieri c’è stato l’ultimo scontro Vendola - Monti che non se le sono mandate a dire. Il primo ha definito il Prof “rospo” e l’altro ha risposto appellandosi alla crescita esponenziale dello spread, nel caso il governatore della Puglia arrivasse al governo. Una bella atmosfera. Menomale che Bersani si può rifugiare nel noto: “Speriamo che Dio abbia perso lo stampino per Berlusconi”, è la battuta del giorno. E poi: “Lui compra Balotelli? E io porto Messi al Bettola Football Club”.

La Stampa 31.1.13
A Siena è associazione a delinquere
Mussari e altri manager indagati anche per questo reato
Il titolo ancora a capofitto in Borsa: -9,4%
di Guido Ruotolo


Associazione a delinquere. C’è anche questo reato - dopo la truffa, l’aggiotaggio, l’ostacolo agli organi di vigilanza e la turbativa - nell’inchiesta della procura di Siena sul Monte dei Paschi di Siena. Viene contestato all’ex presidente di Mps Giuseppe Mussari, all’ex direttore generale Antonio Vigni, a Gianluca Baldassarri, ex responsabile dell’area finanza, e al suo vice Alessandro Toccafondi. Ma nell’associazione sarebbero coinvolti anche altri funzionari e dirigenti dell’Area Finanza. Una vera e propria «metastasi» della banca senese, che il nuovo gruppo dirigente ha cercato di sanare rinnovando il suo management -150 nuove nomine -, e che è al centro della inchiesta dei pm Aldo Natalini, Antonino Mastasi e Giuseppe Grosso.
Associazione a delinquere, dunque. Con le indagini che vanno avanti, si delinea sempre di più lo scenario di un gruppo di dirigenti e funzionari che ha portato avanti operazioni spericolate, illegali, violando le leggi. E sicuramente nel caso di Gianluca Baldassarri e dell’ex responsabile di Mps Londra Matteo Pontone, anche protagonisti di tangenti. Un testimone ha verbalizzato che i due erano conosciuti «come la banda del 5%, perché su ogni operazione prendevano tale percentuale... ». Questo clan dei colletti bianchi, secondo le ipotesi investigative, pianificava manovre spericolate, rastrellando le risorse della Banca e una volta che queste manovre si trasformavano in boomerang, le tenevano nascoste agli organi di governo e di controllo della Banca, e alla vigilanza. E cercavano di coprire le voragini che si creavano con tentativi, a loro volta falliti, di acquisizioni di titoli tossici.
Il clima in procura è nervoso. L’altro giorno il procuratore capo Tito Salerno era sbottato con una affermazione improvvida, carburante per incendiare ancora di più la Santabarbara: «E’ un’inchiesta esplosiva e incandescente». Era del tutto prevedibile che la reazione della Borsa non si sarebbe fatta attendere e ieri mattina, infatti, il titolo Mps ha perso il 9,4%. E questo nonostante le rassicurazioni del governo, del ministro dell’Economia Vittorio Grilli, intervenuto in Parlamento, e dello stesso presidente di Mps, Alessandro Profumo, che avevano confermato il prestito dello Stato di tre miliardi e novecento milioni di euro, dando così una prospettiva di tenuta all’istituto senese.
A Borsa chiusa, ieri alle 17,30, lo stesso procuratore Salerno, sollecitato dal procuratore generale ed, evidentemente, anche da indicazioni «esterne» (le notizie del crollo in Borsa del titolo, innanzitutto), ha dettato un breve comunicato. Per precisare che «il contesto investigativo è sensibile e complesso esclusivamente rispetto al ruolo svolto nei fatti oggetto di indagine dal precedente management». Dunque, la procura, gli inquirenti, hanno sentito il bisogno di far sapere che indagano esclusivamente sul passato, sul vecchio gruppo dirigente, per l’acquisizione di Antonveneta e per i titoli tossici Santorini ed Alexandria. Sperando che le fibrillazioni e le speculazioni di mercato si stabilizzino e avvertendo tutto il peso di decisioni che potrebbero avere ricadute sociali drammatiche.
Una precisazione che è arrivata poco dopo che alcune indiscrezioni messe in rete avevano confermato che nella inchiesta senese è indagato lo stesso Mps, per la responsabilità amministrativa dei reati commessi o tentati dai suoi amministratori o dipendenti. Ed è iscritto sul registro degli indagati «il legale rappresentante» di Mps Alessandro Profumo.
In una pausa della giornata, gli inquirenti, conversando con i giornalisti, hanno tenuto a precisare che fino adesso nei confronti di Bankitalia e Consob - a differenza dei loro colleghi di
Trani - non hanno trovato nessun comportamento, nessun atto da censurare o che meriti un approfondimento. Al di là delle battute, colpisce che in questa delicatissima inchiesta la sintonia tra gli inquirenti, il nuovo gruppo dirigente di Mps e gli organi di vigilanza sia molto forte. E che gli investigatori della Guardia di finanza del generale Giuseppe Bottillo, e i pm senesi abbiano le idee molto chiare sulle responsabilità e i fatti oggetto dell’inchiesta.

Corriere 31.1.13
In dieci anni l’ex presidente dell’Associazione bancaria italiana ha versato al Pd 683 mila euro
I contributi dei banchieri ai partiti
Da Mussari a Palenzona, da Verdini a Mancini: ecco le sottoscrizioni private
di Sergio Rizzo


ROMA — Mai e poi mai si potrà rimproverare a Giuseppe Mussari di non essere stato generoso con il suo partito. In dieci anni ha versato nelle casse del Pd di Siena e della locale federazione Ds la bellezza di 683.500 euro. L'ultimo assegno da 99 mila euro quando era già presidente dell'Abi.
Lui solo conosce il reale significato di quei legittimi finanziamenti. Noi sappiamo solo che nessun altro banchiere, in Italia, è stato tanto pubblicamente prodigo verso un partito quanto lui. E quanto altri amministratori della banca e della fondazione senesi. Sono almeno una ventina i dirigenti e i manager del Monte che per anni, regolarmente, hanno finanziato la politica. Soprattutto il Pd e i Ds di Siena, che hanno incassato in una decina d'anni un milione e mezzo di euro grazie ai contributi liberali di costoro. Nell'elenco c'è anche, con 125 mila euro versati fra il 2010 e il 2011, il presidente della Banca Antonveneta Ernesto Rabizzi. Insieme al presidente della Sansedoni, l'immobiliare della Fondazione, Luca Bonechi, al consigliere della stessa Fondazione Paolo Fabbrini, agli ex consiglieri della Banca Toscana Moreno Periccioli e Alessandro Piazzi, ai revisori Giovacchino Rossi e Marcello Venturini, ai consiglieri Fabio Borghi e Saverio Carpinelli, all'ex vicepresidente della Banca Toscana Aldighiero Fini... Senza contare i tanti ex politici cui la banca ha offerto una comoda ricollocazione. Con loro, stima Libero, si arriva a un paio di milioni.
Sbaglierebbe, tuttavia, chi pensasse che i soldi degli amministratori del Monte abbiano preso una sola direzione. Come si capisce dai 10 mila euro offerti nel 2004 dal presidente della fondazione Gabriello Mancini alla Margherita. Partito finanziato (6.750 euro) pure dal suo referente, il presidente del consiglio regionale toscano Alberto Monaci, il quale aveva già dato 14 milioni di lire nel 2000 al Partito popolare. Ma gli eredi senesi della Dc, allora, potevano contare anche su contributi per 60 milioni da parte di Giuseppe Catturi, consigliere di molte società del gruppo come la Banca 121 che il Monte aveva acquistato a caro prezzo dalle famiglie salentine Gorgoni e Semeraro. E proprio Lorenzo Gorgoni, al quale venne riservato un posto nel consiglio del Monte, finanziò nel 2005, con 25 mila euro più altrettanti di sua sorella Antonia, la campagna elettorale del forzista Raffaele Fitto in Puglia.
Del resto, l'aveva soccorso già nel 1999, prima ancora di vendere ai toscani la propria banca, con una ventina di milioni. Perché se il Monte è certo un caso limite, la commistione fra banchieri e politica non è fatto raro né recente. Basta dire che per anni il coordinatore del Pdl Denis Verdini è stato contemporaneamente deputato e presidente del Credito cooperativo fiorentino, nonostante il divieto sancito da una legge del 1953. E questo in virtù della deroga, comprensibile per l'epoca ma assurda oggi, che quella legge concedeva agli incarichi nelle coop. Deputato e banchiere, finanziava pure il suo partito. In due anni, 74 mila euro. Ma non è forse un banchiere anche Silvio Berlusconi, azionista di Mediolanum, nonché principale finanziatore di Forza Italia e del Pdl? Una briciolina ce l'ha messa nel 2005 anche il suo socio di banca, Ennio Doris. Diecimila euro.
La banca, altri, se la sono invece fatta addirittura mentre erano in Parlamento. Ricordate la leghista Credieuronord, finita in un crac imbarazzante? Era amministrata da un consiglio in cui figuravano non pochi onorevoli: da Stefano Stefani al presidente della commissione Bilancio Giancarlo Giorgetti, al sottosegretario all'Interno (!) Maurizio Balocchi.
Impossibile poi, per la serie dei banchieri-politici in carica, non ricordare Fabrizio Palenzona, al tempo stesso presidente della Provincia di Alessandria e consigliere di Mediobanca grazie alla vicepresidenza di Unicredit ottenuta per conto della Fondazione CrT: dove si era praticamente autonominato come rappresentante della sua Provincia. Fra il 2004 e il 2005 Palenzona ha dato alla Margherita 34 mila euro.
Poco più di 18 mila ne ha invece versati a quel partito il vicepresidente della Fondazione CrT, Agostino Gatti. Il presidente della Fondazione Cassa di Bologna, Filippo Sassoli de' Bianchi, aveva invece preferito nel 2001 dare 25 milioni di lire a Berlusconi. Mentre il presidente della Bnl Luigi Abete, ritenuto vicino prima al Ppi e quindi alla Margherita, nel 1999 figurò fra i finanziatori dell'Italia dei Valori di Antonio Di Pietro. Con 49 milioni di vecchie lire.

La Stampa 31.1.13
Dal Palio al Guatemala la Fondazione chiude i rubinetti
Erogazioni limate a 5 milioni. Ma potrebbero anche essere bloccate del tutto
di Gianluca Paolucci


Cinque milioni di euro, se va bene. Altrimenti niente. Il documento programmatico della Fondazione Mps mette nero su bianco ciò che i senesi avevano già capito da tempo: la stagione delle vacche grasse è finita. E considerato l’ammontare delle erogazioni fatte dalla Fondazione degli anni precedenti, la notizia non è comunque di quelle ben recepite. Anche perché influenzerà necessariamente una tradizione locale come quella del Palio
La novità vera è piuttosto che la Fondazione andrà a cercarsi i soldi fuori dalla banca. Data la situazione di difficoltà dell’istituto di credito, che nella migliore delle ipotesi tornerà all’utile nell’esercizio 2014 (ovvero niente dividendi per le casse della fondazione fino al 2015), a Palazzo Sansedoni hanno aguzzato l’ingegno. Quindi l’unica area che viene previsto di rafforzare è quella di fund raising, ovvero il reperimento risorse. Come? Sviluppando «una serie di relazioni nazionali e internazionali volte, da un lato, a trovare dei finanziamenti per i progetti di interesse, dall’altro, a sviluppare un’attività di consulenza a favore degli stakeholder per la partecipazione a bandi di finanziamento nazionali e internazionali».
Nuovi flussi di denaro Sempre questa funzione potrà poi - ed è questa forse la novità più rilevante trasformarsi in «consulente», magari anche retribuito, fornendo servizi «agli stakeholder, alle società strumentali e alle partecipate. Tali servizi - è scritto nel documento - potrebbero diventare una fonte di flussi positivi per la Fondazione, ovvero rappresentare una nuova forma di erogazioni indirette verso il territorio». Una rivoluzione copernicana - se applicata e funzionante - del mondo delle Fondazioni bancarie e non solo di Mps. Che hanno funzionato, dalla loro istituzione nel 1995 a oggi, secondo un principio molto semplice: incasso un sacco di soldi di dividendi dalla banca conferitaria e distribuisco più o meno organicamente sul territorio.
Facile, quando le cose vanno bene. E va detto che a Siena si erano fatti prendere un po’ la mano. Nel 2010, quando già le cose non stavano andando granché per la banca e per le banche in generale, l’elenco dei contributi occupa 48 pagine e contiene tra le altre cose 10 mila euro per l’associazione amici del Guatemala, 5 mila per l’Associazione Amici del movimento operaio e contadino della provincia di Siena (per lo svolgimento della «attività istituzionale»), mille euro al circolo Arci di San Rocco a Pilli, delizioso paesino della provincia.
Cinquemila euro per l’acquisto delle divise della Filarmonica di San Casciano dei Bagni, mentre solo mille alla Filarmonica della vicina Chiusi. Al di là delle note di colore, c’è un elenco sterminato di associazioni e progetti di grande impatto sul territorio o nel mondo della solidarietà.
I progetti incompiuti Il problema maggiore del semi-azzeramento deciso dall’Ente è però una serie di progetti partiti negli precedenti, quando ancora le vacche erano belle grassocce.
Interventi destinati spesso ai piccoli comuni della provincia, per i quali la fondazione si era impegnata a pagare le rate dei mutui per rifare la pavimentazione a San Giovanni d’Asso, realizzare una mensa scolastica ad Abbadia San Salvatore. Tutti i progetti già avviati, nelle nuove linee programmatiche messe nero su bianco dalla fondazione, dovrebbero avere la priorità e quindi ottenere i fondi promessi. Ma c’è il problema che i soldi potrebbero non bastare per tutti. Basti dire che l’argomento dei mutui lasciati «scoperti» dalla Fondazione ha portato al commissariamento del comune di Siena. E che potrebbe avere un impatto analogo su un lungo elenco di piccoli comuni della provincia, anche loro contagiati dalla voglia di magnificenza del capoluogo.
Nella necessità di recuperare risorse, la Fondazione potrebbe anche ricorrere così alla cessione di parte della quota in Mps. Si tratta della già annunciata soglia del 33,5%, che potrebbe scendere ulteriormente in caso pagamento in azioni delle cedole dei Monti-bond.

l’Unità 31.1.13
Sono finiti i fondi
Solidarietà e cultura in crisi a Siena
La città ha sempre contato sulle generose erogazioni della Fondazione, adesso non ci sono più risorse e molti ne soffrono gli effetti
di Sonia Renzini


La povertà è una brutta piaga e Siena a torto o a ragione è costretta a farci i conti. È l’altra faccia della floridità degli anni appena trascorsi, quando Mps era una banca blasonata che riempiva le bocche di tutti solo per meriti e virtù. Ma questo era prima, l’ora è fatto di soldi che non ci sono più, e di associazioni sportive e di volontariato, di enti culturali e parrocchie che dovranno ripartire da zero e fare da sé, perché le erogazioni della Fondazioni cadevano a pioggia su tutti, nessuno escluso. Dall’Aism per la sclerosi multipla all’Unione dei ciechi, dall’Asedo, che si occupa di persone down, all’associazione paraplegici, ma anche quelli del tiro a piattello, tutti potevano contare al momento giusto sulla manna della Fondazione per portare avanti attività e progetti che contribuivano a un certo modello di welfare e facevano calare la spesa sanitaria della città di diversi punti sotto la media nazionale.
UNA MANNA
E per forza, una serie di servizi, come il trasporto per persone in difficoltà e l’assistenza domiciliare agli anziani, erano interamente finanziati con i soldi della Fondazione. Perfino due asili, per non dire dei progetti della Provincia, da «Un buono per amico», che prevede l’accompagnamento di una persona disabile a vedere la partita, a «Un euro all’ora per badanti», un contributo per integrare la spesa delle famiglie che hanno un anziano in casa. Una situazione idilliaca, sotto molti punti di vista, che ha cominciato a sgretolarsi un anno fa con il commissariamento del Comune. «Da quel momento la situazione è cominciata a diventare drammatica – dice Agostino D'Ercole, presidente della Consulta dell’handicap, che raggruppa varie associazioni senesi del settore Tanto più perché si è unita ai tagli sul sociale a livello nazionale Una signora che ha una figlia cerebrolese mi ha detto che da un giorno all’altro si è ritrovata senza nemmeno più un’ora di assistenza per la figlia, da 24 che erano». Ancora, nel 2012 il comune di Siena nel mese di marzo prevedeva 320 ore di assistenza per gestire le varie situazioni di persone in difficoltà, dopo il commissariamento sono diventate 86. Con il commissariamento, dunque, iniziano le prime avvisaglie, in termini numerici significa che i soldi erogati si riducono a 21 milioni di euro dai 197 milioni che erano nel 2007. Sembrava già brutta, invece il bello doveva ancora venire, ieri la certezza. Le ultime notizie sono nere che più nere non si può: le nuove erogazioni per il 2013 prevedono 5milioni di euro massimo, ma anche niente se la situazione peggiorerà. Poche righe che bastano a cancellare la vita sociale, culturale e religiosa di tutta una città che in 14 anni, dal 1996 al 2010, ha potuto contare su oltre due miliardi di euro della Fondazione. «Era come un rubinetto di acqua corrente che si apriva e spargeva benessere intorno a sé», dice un volontario di un’associazione di disabili che vuole mantenere l’anonimato. Poche migliaia di euro qua, qualche centinaia di là, qualche volta, certo, anche somme più sostanziose, ma sta di fatto che proprio tutti riuscivano a raccattare qualche briciola. La prassi era consolidata, verso aprile maggio veniva emanato il bando ordinario, in base al quale istituzioni e associazioni presentavano le loro progettualità, poi a novembre usciva la graduatoria nella quale figuravano un migliaio di soggetti dei vari settori. Negli ultimi anni, per rilanciare l’economia, si è aggiunto un altro bando specifico per le opere interamente cantierabili. In compenso ora c’è il buio. Cosa succederà? «Scenderemo in strada per autofinanziarci vendendo mele gardenie», conclude D’Ercole.

La Stampa 31.1.13
Fassina: “Rivedere la legge Ciampi Ci vuole più ricambio”
“Separare le banche dalle Fondazioni sarebbe un grave errore
Pur con tutti i limiti, sono state uno spazio di democrazia economica”
di Alessandro Barbera


Fassina, la Fondazione Mps si dice pronta a scendere sotto il 33% della banca. Una buona notizia?
«Pronti a scendere? Mi pare che la situazione li costringa a cedere quote».
La banca potrebbe essere scalata? Lei sarebbe favorevole a nuovi soci?
«La priorità è far tornare in salute la banca, così come trovare imprenditori in grado di aiutare la sua crescita».
Fior di liberali consigliano la nazionalizzazione a tempo, altri la vorrebbero commissariata. Lei no?
«Bisogna dare la possibilità a Profumo e Viola di procedere con il piano di risanamento e creare le condizioni perché il prestito venga restituito».
C’è chi teme per i quattro miliardi di noi contribuenti. Nel Pdl dicono che quei soldi lo Stato non li rivedrà mai. Che ne pensa?
«Il prestito è precauzionale. Serve a coprire la forte esposizione della banca verso i titoli di Stato. Ma per rassicurare chi è preoccupato per il modo in cui vengono usate le risorse si potrebbe imporre la nomina di un rappresentante del Tesoro nel consiglio di amministrazione della banca».
Lei non crede che se siamo arrivati a questo punto è perché la Fondazione ha voluto mantenere a tutti i costi il controllo della banca?
«Ricordo sempre che a Siena c’era un sindaco - Ceccuzzi - che ha pagato un prezzo politico molto alto per aver tentato di cambiare lo status quo. Ciò detto, è vero: la Fondazione si è ostinata a mantenere il controllo e la legge Ciampi non ha funzionato a dovere. Per questo sono convinto che andrebbe cambiata».
Come?
«Rafforzandola, per evitare in futuro che qualche Fondazione possa avere la tentazione di riprendere il controllo delle banche partecipate».
Metterebbe una nuova soglia quantitativa?
«Quel che conta è evitare una presenza di controllo e nel caso intervenire».
Secondo lei le banche dipendono troppo dalle Fondazioni?
«Hanno trovato un rapporto positivo».
Eppure proprio Profumo fu mandato via da Unicredit per mano delle Fondazioni che ne lamentavano l’eccesso di indipendenza. Non è cosi?
«Allora le cause furono diverse, non dipese solo da questo».
Non c’è ancora troppa politica nelle Fondazioni?
«Nel riformare la legge Ciampi si potrebbe qualificare la composizione delle nomine di provenienza politica».
Che significa? E come? Con un manuale Cencelli?
«Per evitare ossificazioni si potrebbero imporre regole sul ricambio ai vertici delle Fondazioni, garanzie sulle competenze dei nominati».
E come la mettiamo con la Corte costituzionale che ha sancito la natura privatistica delle Fondazioni?
«Io credo che regole diverse e nuove, senza spirito punitivo, sarebbero nell’interesse di tutti».
Non è possibile immaginare che banche e Fondazioni prendano due strade diverse una volta per tutte?
«Sarebbe un grave errore. Pur con tutti i limiti di un circuito chiuso, le Fondazioni sono state uno spazio di democrazia economica. Chi potrebbe sostituirle? Il fondo sovrano di qualche regime autocratico? Qualche fondo speculativo con sede nei paradisi fiscali? Vogliamo i fallimenti a catena del sistema bancario americano? »

Corriere 31.1.13
La nuova schedatura contro i finti poveri
Riccometro, oggi il nuovo decreto sull'Isee
di Enrico Marro


ROMA — Dopo il nuovo redditometro per stanare gli evasori arriva la riforma del riccometro per dare la caccia ai finti poveri. Il governo ha infatti deciso di andare avanti, nonostante l'opposizione della Lombardia che la scorsa settimana aveva bocciato in sede di Conferenza Stato-Regioni il decreto della presidenza del Consiglio di revisione dell'Isee, indicatore della situazione economica equivalente, meglio noto come riccometro, che serve a ottenere una serie di prestazioni sociali, dagli asili nido alle case popolari.
Su un altro fronte, quello previdenziale, il governo ha intanto risolto il problema di coloro che, con 15 anni di contributi versati prima della riforma Amato del '92, rischiavano di perdere il diritto alla pensione di vecchiaia a causa della riforma Fornero che ha aumentato il requisito a 20 anni. Il ministro del Lavoro, Elsa Fornero, ha infatti dato il via libera a una circolare dell'Inps che mantiene i 15 anni per chi li aveva maturati prima della riforma Amato. Vengono così salvaguardate circa 65 mila persone secondo le stime, in gran parte donne, che altrimenti sarebbero state costrette alla contribuzione volontaria oppure avrebbero perso il diritto alla pensione.
Ma torniamo al riccometro. Oggi il Consiglio dei ministri dovrebbe approvare una «deliberazione motivata» sulla riforma dell'Isee che consente di superare il mancato accordo con la Conferenza delle Regioni, dovuto al voto negativo della Lombardia che avrebbe voluto criteri meno stringenti sui nuclei familiari. Insieme al redditometro il nuovo riccometro è parte integrante della manovra sui conti pubblici ed è finalizzato a evitare abusi nelle prestazioni sociali. L'Isee serve per misurare la situazione economica della famiglia per l'accesso a una serie di servizi pubblici: dagli assegni di maternità agli sconti sulle bollette della luce e del telefono. Si prevede una valutazione più attenta del patrimonio. Non solo auto di lusso, moto potenti e barche ma anche l'ammontare dei conti correnti, gli investimenti in azioni, fondi d'investimento e anche in Bot e Btp. Forte la stretta sui redditi immobiliari. I nuovi criteri prendono a riferimento il valore delle case e dei terreni ai fini Imu, cioè con la rendita rivalutata del 60%. Si potrà però sottrarre il mutuo residuo ed è previsto un abbattimento di un terzo per chi vive nella casa. Previste norme anti-furbi per l'individuazione dei nuclei familiari. Non importa se i coniugi hanno una diversa residenza anagrafica. Saranno considerati nuclei distinti solo se c'è una separazione giudiziale o l'omologazione di una separazione consensuale. Invece, e questo va a favore della famiglie, un figlio maggiorenne non convivente con la famiglia ma a suo carico ai fini Irpef farà parte a pieno titolo del reddito familiare complessivo.

il Fatto 31.1.13
Anche dopo B. la stampa non è tanto libera
di Alessandro Oppes


Reporters sans Frontières aggiorna i criteri di elaborazione della Classifica mondiale della libertà di stampa, ma per l'Italia cambia ben poco: 57° posto nel 2013, rispetto al 61° dello scorso anno. Diretta conseguenza del fatto, come rilevano dall'Ong con sede a Parigi, che il nostro paese “non ha ancora depenalizzato la diffamazione”, mentre “le istituzioni strumentalizzano pericolosamente la legge bavaglio”. È per questo che continuaiamo a essere quasi il fanalino di coda dell'Unione Europea (peggio di noi solo la Grecia, scivolata dal 70° all'84° posto, e la Bulgaria, 87a), mentre una parte consistente dei paesi membri - 16 - sono nelle prime 30 posizioni di una classifica guidata ancora una volta dalla Finlandia, davanti a Olanda e Norvegia, e che si chiude, al solito, con Turkmenistan, Corea del Nord ed Eritrea.
L'ITALIA si mantiene persino un gradino sotto l'Ungheria che, ricorda Rsf, “paga ancora il prezzo delle sue riforme legislative liberticide, che hanno trasformato considerevolmente l'esercizio del giornalismo nel paese”.
Per la prima volta, l'organizzazione internazionale pubblica anche un “indicatore annuale globale”, che misura il livello generale di libertà d'informazione nel mondo, considerata la diffusione delle nuove tecnologie e l'interdipendenza tra governi, cittadini e produzione e distribuzione delle informazioni su scala planetaria. Con un punteggio da 0 a 100 (dove zero rappresenta un rispetto totale alla libertà dei media), l'Europa ha 17,5 punti (ma l'Italia è a 26,11), mentre in coda, nonostante la Primavera araba, restano Medio Oriente e Maghreb, con 48,5 punti.
Tra i paesi che hanno visto peggiorare notevolmente la situazione della libertà di stampa, spicca il caso del Mali, scivolato di 25 posizioni, al 99° posto. Sempre preoccupante la situazione di Siria, Bahrein e Yemen, mentre Israele, i cui giornalisti godono di un buon livello di libertà, è stato penalizzato nella graduatoria in seguito agli attacchi ai professionisti dell'informazione nei Territori palestinesi.

Repubblica 31.1.13
Libertà d’informazione nel mondo Italia al 57° posto dietro il Niger


ROMA — Italia ancora indietro quanto a libertà d’informazione a causa di una cattiva legislazione sulla stampa. E’ il dato che emerge dal rapporto 2013 di “Reporter senza frontiere” che colloca il nostro Paese al 57esimo posto della classifica, addirittura dietro Botswana e Niger; appena quattro posizioni meglio rispetto al 2012. Una tendenza, secondo lo studio, comune ad altre nazioni europee ma, in Italia, aggravata dalla «mancata depenalizzazione del reato di diffamazione » e da un «diffuso uso di pericolose leggi bavaglio». Per Franco Siddi, segretario Fnsi, «non meritiamo questa posizione anche se permangono notevoli anomalie sul piano legislativo». «I quattro punti guadagnati rispetto all’anno scorso — continua il leader del sindacato della stampa — sono un piccolo passo avanti ma certamente non un risultato di cui andare fieri».

l’Unità 31.1.13
La Francia: stop alla pillola contraccettiva
La Diane 35 avrebbe causato 4 morti in 25 anni. Gli esperti: rischio basso, non va considerato
Elisabetta Canitano: «Noi ginecologi non sappiamo come comportarci»
di Cristiana Pulcinelli


Si chiama Diane 35, è utilizzata come antiacne ma anche come anticoncezionale in vari paesi europei compresa l’Italia. Ora in Francia non si venderà più. L’Agenzia nazionale per la sicurezza dei medicinali francese ha ordinato lo stop alla commercializzazione di questa pillola prodotta dalla casa farmaceutica tedesca Bayer, ma anche dei suoi equivalenti generici. Il provvedimento entrerà in vigore tra tre mesi. Nel frattempo, ha detto Dominique Maraninchi direttore dell’Agenzia, i pazienti non dovrebbero interrompere il trattamento: «Esistono molte altre opzioni terapeutiche». Diane 35 è accusata di aumentare il rischio di tromboembolie venose e arteriose. Secondo i dati forniti dall’Agenzia, sarebbe responsabile di 125 trombosi e 4 decessi causati da una trombosi venosa negli ultimi 25 anni. Il farmaco aveva avuto l’autorizzazione per la vendita solo come farmaco antiacne, mentre da molti anni viene prescritto come anticoncezionale.
Si è aperto così un altro capitolo della guerra alla pillola cominciata Oltralpe già a settembre scorso quando il ministro della sanità, Marisol Touraine, aveva annunciato che a partire da settembre 2013 le pillole contraccettive di terza e quarta generazione non sarebbero state più rimborsate dal servizio sanitario. Si tratta di pillole utilizzate da circa due milioni di donne francesi e che venivano rimborsate al 65%. La decisione era stata presa dopo che la Haute Autorité de Santé aveva rilevato nelle donne in trattamento con queste pillole «un rischio di complicazioni trombovenose due volte più alto rispetto a quello corso dalle donne sotto trattamento con pillole di seconda generazione». Anche se, spiegava l’autorità, «il rischio resta tuttavia basso: 3-4 casi ogni 10mila donne che le utilizzano».
La seconda puntata risale a dicembre scorso: sui giornali esce la notizia che Marion Larat, una ragazza di 25 anni invalida al 65% per colpa di un ictus, ha intentato causa alla Bayer. A causare l’ictus, secondo i legali della ragazza, sarebbe stato un contracettivo di terza generazione prodotto dal colosso tedesco preso da Marion. L’11 gennaio scorso è arrivata una nuova dichiarazione del ministro Touraine: «La Francia vuole limitare la prescrizione delle pillole contraccettive di terza e quarta generazione». Non solo, dunque, la paziente a cui vengono prescritte se le deve pagare da sola, ma la prescrizione può avvenire solo nel caso in cui la donna non possa per qualche motivo prendere le pillole di concezione più vecchia. Per fare questo, la Francia deve però rivolgersi all’Europa: il ministro chiede così all’Agenzia dei farmaci europea (Ema) di riesaminare questi farmaci.
In realtà, il fatto che le pillole più recenti comportassero un rischio maggiore di formazione di trombi era già conosciuto. «Le pillole combinate contengono un estrogeno e un progestinico – spiega Elisabetta Canitano, ginecologa e presidente di Vita di donna, un’associazione per la tutela della salute della donna Quelle di prima e seconda generazione però usavano un progestinico più vicino al testosterone, un ormone presente soprattutto negli uomini, e quindi davano effetti collaterali come l’insorgenza di acne, la crescita di peli, l’aumento di peso. La ricerca si è allora indirizzata su progestinici che non avessero questi effetti e sono nate così le pillole di terza e quarta generazione. Però, è aumentato il rischio di trombosi. Questo spiegherebbe anche il caso Diane 35, una pillola di vecchia generazione ma che usa un progestinico simile a quelli più moderni, scarsamente virilizzante, anzi usato contro acne e ipertricosi». Tuttavia, parliamo di un rischio molto basso: «Una donna giovane, non fumatrice e con la pressione normale ha più probabilità di essere centrata da un fulmine», secondo una dichiarazione rilasciata da Carlo La Vecchia, epidemiologo dell’Istituto Mario Negri. Un rischio così basso che finora era stato poco o nulla preso in considerazione anche dalle autorità: un comunicato dell’Ema datato 11 gennaio 2013 sosteneva che «non c’è al momento nessuna nuova evidenza che suggerisca un cambiamento del profilo di sicurezza di qualsiasi contraccettivo combinato oggi sul mercato. Quindi non c’è ragione per cui una donna debba smettere di usarlo». «Noi ginecologi non sappiamo come comportarci – dice Canitano -. Le pillole di terza e quarta generazione sono molto prescritte. Tra l’altro sono appena uscite dal copyright e sono stati lanciati sul mercato 4 farmaci equivalenti». Certo è che se non verranno rimborsate dalla Francia sarà più difficile prescriverle. «Una perdita enorme per le case farmaceutiche che le producono – continua Canitano e un guadagno immenso per chi produce le pillole di seconda generazione...».

Repubblica 31.1.13
L’Ungheria contro gli scrittori dissidenti “Screditano il Paese, via la cittadinanza”
Proposta dell’Accademia delle belle arti. “Ora la Ue intervenga”
di Andrea Tarquini


BERLINO — Per essere veri patrioti occorre fedeltà alla patria, al confronto il talento non vale nulla. Se non ci stai, rischi di perdere la cittadinanza. Minacce impossibili in Europa? Errore, è il nuovo credo nella politica culturale del governo di destra nazionalpopulista euroscettico di Viktor Orbàn. Lui di persona, l’autocrate, non si pronuncia. Ma lascia parlare i suoi turiferari. «Dovremmo pensare a una revoca spirituale della cittadinanza per scrittori come Gyorgy Konràd, Péter Esterhàzy o Imre Kertész», ha detto Adam Medveczky, dirigente dell’accademia un tempo prestigiosa. Parliamo dei tre massimi scrittori magiari viventi, Kertész Nobel 2002 della letteratura. Strappare la patria ai letterati: lo fece Hitler con Mann e Brecht.
«Sono parole di pochi estremisti, ma il governo non li sconfessa. Il pericolo più serio è perdere al consenso sui valori liberal i giovani, esposti a informazione e propaganda ufficiali», dice Péter Esterhàzy, che aggiunge: «L’Europa non farebbe male a farsi sentire, ma tocca a noi lottare».
«Chi è nato come ungherese, ma all’estero insulta e danneggia l’Ungheria, non può essere considerato ungherese”, ha insistito Medveczky. Rafforzato da dichiarazioni del presidente dell’Accademia delle belle arti ungherese (Mma), Gyorgy Fekete: «Nessun membro della nostra accademia può permettersi d’ignorare la sensazione dell’appartenenza genetica alla nazione». Nemmeno sotto il comunismo gli intellettuali venivano minacciati in modo così brutale.
Tragedia ungherese, ancora un atto. Non è bastato a Orbàn riscrivere in senso autoritario e nazionalista la Costituzione, né epurare funzione pubblica, ministeri, magistratura, né istituire la Nmhh, l’autorità-grande fratello di controllo sui media. E va ogni giorno più avanti, scommettendo sui silenzi colpevoli dell’Unione europea. «Non appoggeremo più opere non patriottiche », ha detto Fekete. Statue dell’ex dittatore fascistoide e alleato di Hitler, Miklos Horthy, erette ovunque, libri antisemiti
suggeriti dal governo come testi obbligatori a scuola, consegna della Nmhh ai giornalisti a esaltare in ogni articolo “l’identità nazionale”.
L’Ungheria membro di Ue e Nato, che mendica a Ue e Fmi crediti per non finire come Atene, spara a zero sui valori comuni europei. I perdenti non sono solo i valori costitutivi dell’Europa: gli estremisti neonazi e negazionisti di Jobbik (terza forza in Parlamento) si vedono il terreno dei consensi strappato dall’abile demagogia di Orbàn. Nazionalismo, retorica etnica, riabilitazione di Horthy, lavoro obbligatorio in uniforme arancione in stile Guantanamo per i rom. Orbàn cerca sempre più consensi rubando i temi e le soluzioni alla destra più radicale. Fino alle proposte di togliere la cittadinanza ai massimi scrittori, appunto. E l’Europa, su Budapest tace.

l’Unità 31.1.13
Israele, lampi di guerra Caccia colpiscono in Siria
Bombardato un convoglio di armi alla frontiera tra Siria e Libano. No comment di Gerusalemme
di Umberto De Giovannangeli


Israele entra nel teatro di guerra siriano. I caccia con la stella di David hanno bombardato un convoglio di armi al confine tra Siria e Libano. «Le forze aeree israeliane hanno fatto saltare in aria un convoglio che aveva appena attraversato il confine dalla Siria verso il Libano», ha detto la fonte, rimasta anonima. La notizia arriva dopo che, nella mattinata, fonti occidentali avevano riferito che l’altra notte l’Air Force israeliana aveva compiuto una serie di raid aerei contro obiettivi al confine tra Siria e Libano.
ESCALATION
«Israele mantiene la massima vigilanza di fronte alle attività regionali dell'Iran e segue con attenzione la sorte degli arsenali di armi mortali in Siria, un Paese che va spaccandosi». Nei giorni scorsi, aprendo la seduta settimanale del consiglio dei ministri il premier israeliano Benyamin Netanyahu aveva sciolto le riserve, lanciando l'ennesimo messaggio alla comunità internazionale.
Lo aveva fatto alla vigilia delle indiscrezioni trapelate dal suo vice, Silvan Shalom, a proposito di una riunione a porte chiuse tenuta dai vertici della sicurezza nazionale pochi giorni dopo l'esito delle legislative. Una consultazione lampo, durante la quale i fedelissimi di Netanyahu avevano discusso per la prima volta l’apertura di un’ondata di raid preventivi volti ad impedire che gli arsenali chimico-batteriologi siriani i più grandi dell’intera regione potessero finire nelle mani delle milizie sciite libanesi di Hezbollah o di gruppi legati ad al Qaeda.
E ieri, i raid, sono arrivati nel consueto format adottato da Tzahal: lampo. In un lampo Israele è sceso in campo in prima linea nel conflitto che da oltre 22 mesi devasta il popolo siriano. I suoi caccia hanno bombardato un convoglio di armi al confine con il Libano, calcando perfettamente la linea intrapresa di recente nel corso dell’operazione «Pilastro della difesa» condotta nei confronti delle cellule terroristiche di Hamas. «Le forze aeree di Tel Aviv hanno fatto saltare in aria un convoglio che aveva appena attraversato il confine dalla Siria verso il Libano», ha spiegato una fonte parlando a condizione di anonimato, viste le delicate dimensioni della questione.
Una seconda voce, proveniente da ambienti della sicurezza, ha tuttavia precisato che «l’obiettivo, colpito intorno a mezzanotte, al momento dell’attacco si trovava ancora nel territorio siriano». Entrambe le fonti hanno inoltre registrato un «alto livello», definito «inusuale», di attività dell’aviazione israeliana nello spazio aereo libanese negli ultimi due giorni. L’esercito di Beirut ha confermato la notizia: «Dalle 8:30 di ieri alle 2 notturne di mercoledì diversi aerei da guerra di Israele sono entrati per almeno 16 volte nello spazio aereo libanese». «Ogni giorno ci sono sorvoli israeliani, ma ieri erano molto più intensi del solito», ha puntualizzato, poi, una terza fonte alla France Presse. Un ufficiale statunitense, con la condizione dell’anonimato, ha dichiarato che il raid ha colpito un convoglio di camion. Un portavoce dell’esercito israeliano non ha voluto confermare la notizia. L’attacco è stato lanciato solo pochi giorni dopo che Israele ha trasferito a nord due batterie del suo sistema anti-missile Iron Dome, a fronte del crescente timore che il conflitto siriano possa riversare armi in Libano.
Il raid aereo, è stato prontamente smentito dalle autorità libanesi «Le notizie di raid israeliani al confine siro-libanese sono semplici dicerie», afferma l’agenzia di Stato libanese Nna e snobbato dagli organi d’informazione ufficiali di Damasco, rischia ora di aprire una nuova spaccatura in seno al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, già profondamente diviso dall’ostruzionismo manifestato a più riprese da Pechino e Mosca. Una divisione che ieri ha costretto lo stesso inviato speciale di Onu e Lega araba, Lakhdar Brahimi, a ricordare a Washington e Bruxelles che non ha intenzione di mollare il proprio incarico, ma che al contempo i Quindici hanno l’obbligo di esercitare una pressione più consistente verso il regime di Bashar al-Assad.
Intanto Israele mantiene un elevato stato di allerta nel Nord del Paese. La radio militare ha spiegato che in particolare esiste il timore che armamenti sofisticati, e non necessariamente chimici, passino dalla Siria agli Hezbollah. Radio Gerusalemme ha riferito che in alcune zone di Israele si è notato ieri un netto aumento delle persone che ritirano maschere antigas dalle apposite postazioni del comando delle retrovie: erano state allestite da mesi, ma finora erano state spesso ignorate.

il Fatto 31.1.13
I Tuareg schiacciati tra islamici e neri
Si teme la vendetta delle etnie locali nei confronti della minoranza che ha appoggiato i jihadisti
di Anna Jannello


L’esercito francese ha preso il controllo, ieri mattina, dell’aeroporto di Kidal, il più lontano avamposto del profondo nord maliano, 1.500 chilometri dalla capitale Bamako. I francesi sono arrivati da soli, senza l’appoggio delle forze del Mali e dei paesi della Cedeao (Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale) come invece era successo nella riconquista di Gao (sabato 26 gennaio) e Timbuctu (lunedì 28 gennaio). Non ci sono stati scontri: la città, 26 mila abitanti, è sotto il controllo dei tuareg dell’Mnla (Movimento per la liberazione dell’Azawad) che l’hanno ripresa ai loro alleati della prima ora, i militanti di Ansar Dine, capitanati da Iyad Ag Ghali - leader della rivolta degli “uomini blu” all’inizio degli anni Novanta, poi convertitosi al salafismo - e ora d’accordo con i guerriglieri di Abou Zeid, l’emiro di Aqmi, nel voler imporre la sharia e convertire tutto il Mali in un paese integralista.
Messi all’angolo da diversi mesi, i Tuareg dell’Mnla rientrano in scena occupando Kidal e, a quanto afferma un comunicato, anche altre cittadine dell’Azawad, le tre regioni del nord - di cui avevano proclamato l’indipendenza da Bamako il 6 aprile 2012 - dalle quali erano stati scacciati a fine giugno dai gruppi islamisti di Aqmi, Mujao e Ansar Dine.
Un ritorno che, proclamano, è a difesa delle popolazioni locali, esposte alle rappresaglie dell’esercito malia-no e dei gruppi terroristici. “Non c’impegneremo in operazioni militari contro le forze internazionali”, ha dichiarato Mossa Ag Attaher, portavoce del movimento. Anzi, l’Mnla offre alla Francia la disponibilità a combattere insieme contro il terrorismo. Un aiuto di cui i francesi e le forze della Cedeao avranno bisogno se, liberate le capitali del Nord, vorranno continuare la lotta per scacciare Aqmi e soci dai contrafforti dell’Adrar des Ifoghas, da quasi un decennio base dei loro traffici e rifugio sicuro (anche per gli ostaggi occidentali che ancora vi sono detenuti).
L’AUTODETERMINAZIONE dell’Azawad – la richiesta avanzata dall’Mnla che da ottobre ha rinunciato a parlare d’indipendenza - trova però una fiera opposizione nel governo di Bamako e nell’opinione pubblica del sud del Paese, abitato da altre etnie, da sempre ostili ai tuareg. L’Assemblea nazionale ha votato all’unanimità, martedì 29 gennaio, una road map per la transizione (in vista delle elezioni sospese da fine aprile 2012) in cui si ribadisce che il governo deve esercitare la sua sovranità su tutto il territorio nazionale e deve essere recuperata l’integrità territoriale.
Un bel dilemma per la Francia, disposta a riconoscere che “i Tuareg, quando sono nel loro territorio nel nord del Mali sono a casa loro ed è importante rispettarli e considerarli alla pari degli altri maliani”, come ha affermato il ministro della Difesa Jean-Yves Le Drian, ma scesa in guerra al fianco del Mali, uno stato sovrano. “Mi augurerei un dialogo con il movimento Tuareg”, azzarda Marco Lombardi, professore di sociologia all’università Cattolica di Milano “però questo sul piano politico significa rompere con i governi di Mali, Algeria, Niger, Mauritania. Troppo rischioso”.

Repubblica 31.1.13
Fuga dalle fabbriche ora la Cina cerca operai
Popolazione che invecchia e tanta voglia di “scrivania”. Pechino si scopre senza tute blu. Con il rischio di un’emergenza produttiva
di Giampaolo Visetti


TIANJIN LA TROMBA d’aria del lavoro cinese è partita e i mercati dell’Asia, sensibili come bracconieri, stanno già dando l’allarme: l’operaio cinese è in via di estinzione. Nel 2012, per la prima volta, in Cina la popolazione in età lavorativa è diminuita. Gli individui tra 15 e 59 anni sono 937 milioni, 3,4 milioni in meno rispetto al 2011.

Il signor Zhou Yiu commercia migranti da quando aveva sedici anni. Ha cominciato acquistando treni di contadini ed ex rivoluzionari maoisti nello Hunan, da smistare nei cantieri edili di Pechino e nel suo nascente porto nella baia sul Mar Giallo. «Quarant’anni fa — dice nel suo sproporzionato ufficio imbottito di sedie basse e larghe, accostate a tavoli in sandalo rosso — bastava dire a un funzionario locale del partito che ti servivano trentamila uomini, e una settimana dopo li avevi davanti, pronti a costruire la patria». Una ciotola di riso, i soldi per tornare al villaggio prima del capodanno lunare, e la Cina organizzò il più grande esercito di operai della storia. «Voi li chiamate schiavi — dice il cinquantenne milionario che controlla oggi legalmente un quarto della forza-lavoro per le industrie di Stato della seconda economia del pianeta — ma per noi restano patrioti. Anche l’Europa si è ricostruita grazie al sacrificio degli emigranti, è successo in America, avviene in Africa. Uscire dall’essenzialità è un’ambizione che costa la vita di qualche generazione».
Il signor Zhou indica uno sconfinato parcheggio semivuoto, cinquanta piani più in basso, come contemplando il corso ormai deciso delle cose. Stormi di uomini già fatti, scendono da furgoni avvolti nello smog e vengono fatti risalire sulle navette di aziende rimaste con la catena di montaggio scoperta. È sempre tardi, nemmeno il tempo di spegnere la sigaretta: non ci sono più salariati per tutti. Il distretto industriale tra Pechino e Tinjin somiglia oggi ad uno di quegli anfratti invisibili alla deriva nell’oceano, non rilevati dai radar, ma al centro dei quali si esercitano i piccoli vortici destinati a trasformarsi nei più devastanti cicloni.
«La Cina — dice Zhou — sta esaurendo le braccia robuste. È come una foresta dove si è tagliato troppo in fretta, senza piantare. E il mercato continua a spostarsi dove c’è paglia che subito brucia». Gru, ciminiere e stabilimenti sempre più fitti, sembrano smentire il vaticinio di una fabbrica-Paese costretta a chiudere reparti che valgono più di una nazione europea. La tromba d’aria del lavoro cinese però è partita e i mercati dell’Asia, sensibili come bracconieri, stanno già dando l’allarme: l’operaio cinese è in via di estinzione, incompiuto come un pinguino, candidato a diventare vecchio prima di essere riuscito a diventare ricco.
Nel 2012, per la prima volta, in Cina la popolazione in età lavorativa è diminuita. Gli individui tra 15 e 59 anni sono 937,27 milioni, 3,45 milioni in meno rispetto al 2011. Un granello di polvere che si stacca dalla Grande Muraglia. Nel punto più fragile, però, e anche le autorità, se si parla di tute blu, hanno la visione posteriore di un trilobita del paleozoico. «Il calo purtroppo — dice Ma Jiantang, direttore dell’Ufficio nazionale di statistica — indica una tendenza. Tra oggi e il 2025 la Cina perderà 10 milioni di lavoratori all’anno ed entro il 2030 mancheranno quasi 200 milioni di teste. Non è solo un’emergenza produttiva». Le industrie costiere, dal Guangdong allo Zhejiang investono già su rosse armate di robot che dovranno sostituire ingrigiti drappelli di meccanici. Ma il primo avviso della scomparsa dell’operaio cinese, proprio nell’anno in cui Pechino è chiamata a riaccendere la ripresa globale, fa suonare campanelli negli uffici seminati su tutto il pianeta consegnato alla“GrandeFabbrica”.«La gente sparisce dalle piante degli
organici — dice Gu Baochang, docente all’universitàRenmin — perché diventa vecchia. Oggi i cinesi anziani sono circa 200 milioni, meno di un sesto della popolazione.
Nel 2030 saranno 360 milioni, quasi un quarto, per arrivare a 400 milioni entro vent’anni. Non avremo più contadini, né operai, ma neppure qualcuno che paghi servizi, medicine e pensioni». Può ricordare le chiacchiare annoiate dei gerontocrizzati parlamenti europei. Ma qui il metro è quello smisurato della Cina e se si perdono 200 milioni di operai, per guadagnare 400 milioni di anziani, l’impatto di questo nuovo continente sociale del secolo, ha la forza di sconvolgere il mondo.
La trasformazione non svuota del resto solo i parcheggi delle società interinali delle megalopoli. Dentro le fabbriche, le facce di chi protesta per disporre di oltre due minuti per andare in bagno, non sono più quelle dell’epoca d’oro. «Nel 1990 — dice l’economista della Tsinghua, Zhiu Shijian — l’età media dell’operaio cinese era di 24 anni. Nel 2000 è salita a 37, ora si aggira sui 49. È raddoppiata, mentre la produttività dei lavoratori si è ridotta a un terzo. Macchinari a parte, servono tre persone per svolgere le mansioni prima affidate ad una. Una nazione, come un organismo, non si sveglia vecchia di colpo, una certa mattina».
Sotto accusa, questa volta, non c’è solo la legge del figlio unico. La spietata selezione di Stato, in oltre trent’anni, ha risparmiato all’universo oltre 400 milioni di umani consumanti. È un sacrificio di massa che ha costruito 55 milioni di «nidi vuoti», come i cinesi chiamano le case abitate da un genitore abbandonato, ma che incide sempre meno sulla demografia. «Se anche il partito concedesse a chiunque di mettere al mondo i neonati che desidera — dice Hu Yanqin, operaia di un villaggio del Gansu che lotta contro il deserto del Gobi — non assisteremmo ad una festa di bambini. I figli ormai costano troppo anche in Cina, succhiano ogni risorsa e non restituiscono nulla». La prova è Shanghai. Il 37% degli sposi, a cui è riconosciuto il permesso di allargare la famiglia, rinunciano anche al primogenito. Da 18 nascite ogni mille abitanti, nel 2000, si è crollati a 8. Si realizza lo schemaincubo della nuova leadership comunista, il “4-2-1”: famiglie con quattro nonni, due genitori e un solo figlio che per confuciano rispetto dovrebbe poi provvedere a tutti. Un’utopia, nella terra promessa dei centri commercia-li, governata da dirigenti ineffabilmente transitati dall’«arricchirsi è glorioso» al «non consumare è abominevole».
Ma come gli eroi dell’urbanizzazione cinese hanno imparato a sopportare, l’estinzione dell’operaio da 100 dollari al mese è un cataclisma assai più profondo di contingenze rimediabili, quali fertilità e longevità della specie. I nuovi figli unici, a morire avvelenati nel capannone di un terzista che esporta t-shirt in Occidente, non ci pensano nemmeno. Il traguardo è l’università, una scrivania, il mutuo per la seconda casa, le vacanze ad Hainan. In dieci anni gli atenei cinesi sono così raddoppiati, toccano quota 2.420 e ogni anno dalle aule tracimano 8,3 milioni di neolaureati. Ancora non bastano e il governo ha investito altri 250 miliardi di dollari per trasformare la più gigantesca massa di lavoratori a basso costo nella più numerosa categoria di colletti bianchi da ceto medio. Per l’ultimo balzo, il sorpasso sugli Usa, servono manager. «Il potere si rende conto — dice Guan Anxin, sociologo dell’Accademia delle scienze di Pechino — che la stagione
operaia volge al termine anche in Cina. Non accadrà domani, ma il destino è chiaro. Cinquecento milioni di operai sono invecchiati, duecento milioni di ragazzi imboccano altrestrade, i laureati migliori vanno all’estero. La carenza di braccia e di cervelli, pone per la prima volta il problema drammatico dei diritti e del costo del lavoro. Pagare il giusto è necessario per accelerare l’urbanizzazione e promuovere la ristrutturazione economica, aumentando i consumi interni. Ma in Cina, chi ci prova, per ora chiude».
È la ragione per cui nelle storiche regioni industriali, nella tenaglia tra carenza di manodopera, scioperi, aumenti della paga e crollo dell’export, si assiste per la prima volta anche alla fuga delle imprese. Il salario operaio medio, in una metropoli in espansione come Chongqing, è schizzato all’equivalente di 300 euro al mese. In Vietnam si resta sui 100 dollari, in Thailandia e nel Sudest asiatico si scende a 80, in Bangladesh e Birmania si lavora per un dollaro al giorno. Quantità e costo degli operai sono solo una delle valutazioni, non quella decisiva, che inducono gli investitori a scegliere il luogo dove produrre. La pressione politica induce più di un ritorno eccellente in Occidente e il ministero del Commercio cinese ha rivelato che per la prima volta nel 2012 gli investimenti diretti esteri sono scesi del 3,7%. Si sono arenati a 111 miliardi di dollari, mentre sempre più aziende cinesi e multinazionali, «per coprirsi le spalle in Oriente», cominciano a delocalizzare in Paesi emergenti più competitivi. «La scintilla di questa rivoluzione produttiva — dice Andrew Heath, direttore marketing del più grande gruppo cinese di macchine utensili — è il declino dell’operaio cinese giovane e a costi stracciati. Nella fascia bassa, la Cina ha perso il vantaggio accumulato e la transizione porta ineluttabilmente verso l’orbita indiana, prossimo monopolista dei beni globali di consumo. Nella produzione media e alta però, fino ad oggi riservata a Giappone e Corea del Sud, Pechino sta riprendendo il suo slancio, offrendo il più ricco mercato di ogni tempo».
Da ex contadini e operai in via d’estinzione, i cinesi provano a reinventarsi tecnici e manager, per fingersi finalmente sazi e insoddisfatti giocatori di Borsa, come europei e americani. I salariati rossi diventano azionisti in nero e i fondi del partito possono acquistare in saldo i reperti archeologici della post-industrializzazione occidentale. Mancano operai? «Problema più superato di loro — dice l’economista Ha Jiming — i confini anche in Asia resistono solo per i politici mediocri e l’elettronica ha bisogno di scienziati e di ingegneri, non di schiavi che girano bulloni». È chiaro che una vecchia Cina capitalista delocalizzata, faro della ricerca e circondata da nuove Cine più giovani che non contano le ore, muta le prospettive virtuali che i guru di Davos preconizzano affondando lo stiletto nella fondue.
I mercati finanziari soffrono e l’euro avvista nuove tempeste, ma è solo l’ignorata estinzione dell’operaio cinese, il cuore malato del low cost, che può contribuire a spiegare perché.
A Tianjin mancano pochi giorni al capodanno lunare e per la prima volta Zhou Yiu non riesce a sostituire i migranti in viaggio verso villaggi lontani. Le fabbriche- clienti lo tempestano di telefonate, offrono premi da tedeschi, ma niente, si devono fermare. Il fornitore di uomini, sprovvisto di merce, non risponde nemmeno più al cellulare. «Guardo certi lavoratori sopravvissuti che da anni piazzo in regioni agli antipodi, tra miniere, fornaci e concerie — dice — e penso che cambia tutto. Resistono perché hanno stuoli di parenti da sfamare e non sono ammalati abbastanza. Qualcuno lo sento amico, come il commilitone di una battaglia sospesa ». Dice «cambia» e «sospesa ». Pechino perde gli operai, ma scrive già un’altra storia e i suoi occhi vagano su orizzonti nuovi che noi ancora non vediamo.

Corriere 31.1.13
Il Nazismo 80 Anni dopo. Responsabilità «perenne»
di Paolo Lepri


Il tempo non muta il giudizio, non cambia i termini dello scontro tra bene e male. «Perenne» è stata la parola chiave della visione storica con cui la Germania ha ricordato ieri l'ottantesimo anniversario della ascesa al potere di Adolf Hitler e ha celebrato la giornata della Memoria. La «responsabilità» tedesca per i crimini del nazismo non è destinata a pesare meno con il passare degli anni e il modo con cui una dittatura ha potuto rapidamente sviluppare la sua trama criminale, in quella prima metà del 1933, deve rappresentare un «avvertimento» permanente. A scegliere in due occasioni quell'aggettivo, l'aggettivo «perenne», è stata Angela Merkel, convinta che la democrazia e la libertà «non si impongano da sole» ma abbiano bisogno dello sforzo e del coraggio di tutti. E dell'impegno a non dimenticare. Bastarono pochi mesi, a partire da quel 30 gennaio in cui Hitler si fece nominare cancelliere, per distruggere la civiltà di un Paese. L'incendio del Reichstag, i decreti speciali, lo scioglimento dei partiti politici furono le tappe successive di una folle avventura. E la lettura di Angela Merkel di quanto avvenne dopo che l'ex imbianchino austriaco salutò la folla dalla finestra del palazzo di Wilhelmstrasse, non è stata né neutra né evasiva. Inaugurando la mostra «Berlino 1933, verso la dittatura» nello spazio della Topografia del terrore, dove un tempo sorgeva la centrale della Gestapo, la cancelliera ha ricordato che «professori e studenti si unirono volentieri ai nazisti, solo pochi mesi dopo, per bruciare i libri ritenuti sovversivi». Era il 10 maggio dello stesso anno nella Bebelplatz, non lontano da dove Angela Merkel parlava. L'ascesa dei nazisti — ha continuato — fu resa possibile dalla collaborazione dell'élite della società tedesca ma anche, e soprattutto, dal fatto che la «maggioranza della popolazione ha almeno tollerato quanto stava avvenendo». E nei dodici anni seguenti, definiti dal presidente del Parlamento Norbert Lammert, «un'eternità dell'orrore», furono troppi quelli che non vollero vedere. «La maggioranza delle persone guardava dall'altra parte quando incontrava per strada una persona che come me aveva una stella gialla sul vestito», ha detto la giornalista e scrittrice tedesco-israeliana Inge Deutschkron, sopravvissuta all'Olocausto, oratrice ufficiale nella cerimonia del Bundestag. Ancora una volta, quelle pronunciate in momenti come questi sono parole scomode che non fanno sconti, come purtroppo avviene talvolta altrove, né alla Storia né agli uomini. È la lezione di un Paese che oltre quaranta anni fa si è inginocchiato con Willy Brandt, di fronte al monumento del ghetto di Varsavia. Sono stati gesti che hanno convinto, che hanno indicato il cammino. Come racconta per esempio Marcel Reich-Ranicki. Quando il grande critico letterario disse al cancelliere della Ostpolitik che proprio in quella piazza della capitale polacca, dove era stato condotto insieme a migliaia di altri ebrei, aveva visto per l'ultima volta il padre e la madre prima che venissero caricati nei treni per Treblinka «uno dei due aveva le lacrime agli occhi». «Willy Brandt o io? Non ricordo più, ma ricordo bene che pensai che la decisione di stabilirmi in Germania non era stata un errore». Da allora non ha cambiato idea.

La Stampa 31.1.13
E Parigi riscopre il lato oscuro di Hugo
La mostra sulla passione esoterica del romanziere nata dopo la morte dell’adorata figlia Leopoldine
di Fulvia Caprara


Il lato paranormale rilancia lo scrittore tra le tendenze giovanili

Nel primo ambiente c’è il tavolino a tre gambe, seguono i disegni, le fotografie, i testi, le ricostruzioni delle sedute cui partecipava buona parte della famiglia, soprattutto Charles, il terzogenito, considerato medium dalle capacità spiccate. Era in grado di dettare e disegnare messaggi preziosi per entrare in contatto con i trapassati. Nella casa di Victor Hugo, al numero 6 di Place des Vosges, una mostra descrive per la prima volta le passioni esoteriche di uno dei più eccelsi romanzieri di Francia, svelando la connessione stretta tra brani di vita e personaggi dei suoi celeberrimi racconti. Si scopre che, insieme alle avventure letterarie e politiche, lo scrittore ne ha vissuta anche una, importante, nel mondo del soprannaturale «Se di certi fatti la scienza non vuole saperne - diceva l’autore l’ignoranza li accoglierà». E allora meglio contrastare il buio del cuore con la luce della conoscenza, spingendosi su territori rifiutati dal razionalismo, ma sicuramente utili alla creatività, e soprattutto al processo di elaborazione dei grandi lutti. Esplorando l’edificio affacciato sui giardini della piazza, prima di raggiungere gli appartamenti dove si svolgeva la vita pubblica e privata di Hugo, si capisce, per esempio, che il ricorso alle «tavole parlanti» rispondeva al desiderio di ritrovare Leopoldine, la figlia adorata morta per annegamento insieme al marito. Un dolore che Hugo tentò di superare sublimandolo attraverso alcuni dei suoi personaggi femminili. Davanti al quadro di Leopoldine, di cui è conservato anche il semplice abito da sposa (le nozze erano state celebrate nella vicina chiesa di Saint-PaulSaint-Louis, la stessa dove nel romanzo si sposano Cosette e Marius) e perfino un pezzetto del vestito con cui la ragazza si fece ritrarre, è inevitabile pensare a Fantine, la giovinetta che, nei Miserabili, muore precocemente nei bassifondi di Parigi. E da lì, con un salto breve, si arriva subito a Anne Hathaway, protagonista del primo capitolo del musical e della trasposizione cinematografica, anche lei esile e bruna, pronta a tornare dall’aldilà, nel finale, per accogliere tra le sue braccia il morente Jean Valjean
Così la mostra, Entrée des médiums: Spiritisme et Art de Hugo à Breton diventa subito di gran moda, in sintonia con l’epopea Les Miserables, ricordata nei manifesti che campeggiano ovunque pubblicizzando il film. Seguendo il lato oscuro di Hugo, le frequentazioni con Delphine de Girardin che, nel 1853, gli suggerì la pratica degli incontri spiritici, e il legame stretto con Charles che, grazie alla sua speciale sensibilità, divenne in qualche modo ispiratore del padre, il mondo dei Miserabili e di altre opere si apre a una nuova, affascinante lettura. Se la vita terrena è solo dolore e sofferenza, ce ne dev’essere un’altra, raggiungibile anche da i vivi, in cui i giusti finalmente dico-
no la loro indicando la strada a chi è rimasto a combattere contro le materiali sfortune. Si spiega così l’esistenza al nero dell’ex-forzato Jean Valjean destinato a trovare la vera pace solo postmortem, e si spiegano le tante, giovani vittime che punteggiano la storia. Treppiedi, trance, sensitivi sono ancora di salvezza per chi, come Hugo, non riesce ad accettare le sparizioni precoci di amici e congiunti. Fatalità implacabili, contro cui nemmeno la crema dell’intellighenzia francese del periodo, aveva modi per opporsi. Anzi, le «tavole parlanti» divennero in seguito per molti intellettuali e artisti (Victorien Sardou, Fernand Desmoulin, Yves Tanguy) fonte di creazioni originali, mentre le figurette emaciate, vestite di pochi stracci (come Cosetta), disegnate dal grande pensatore durante o in seguito alle sedute sono embrioni dei futuri personaggi. Non a caso, all’epoca, si disse che la fonte della sua arte fosse ultraterrena. Di sicuro, vagando tra gli spazi oscuri e i pavimenti scricchiolanti, osservando le istantanee scattate a medium posseduti da misteriose identità, si afferra in pieno il senso di Hugo per l’aldilà. Quel lato paranormale che, improvvisamente, dopo tanta cultura scolastica, rilancia il romanziere nel cuore delle passioni giovanili più contemporanee. Se Hugo, dilaniato dalla sofferenza per la fine della figlia, aveva preso a inseguire fantasmi, oggi, forse, avrebbe potuto scrivere una sua versione di Twilight. O, meglio, di Harry Potter. In fondo anche il piccolo mago, come Cosetta, ha perso la madre da bambino.

Repubblica 31.1.13
Massoni
Quegli uomini in nero nascosti tra politica e affari
È in un paese senza borghesia e con pochi princìpi che si creano solidarietà per il denaro e per il comando
Il Grande Oriente conta 22 mila fratelli. Ma tanti aderiscono a liste regolari o irregolari, sempre in lotta fra loro
di Alberto Statera


La massoneria? «Conta davvero molto più di quanto si immagini». Parola di Cesare Geronzi, ultimo “banchiere di sistema”, tranne il superstite Giovanni Bazoli. E se allora si provasse a ribaltare la vulgata che vuole la politica unica responsabile dello scandalo del Monte dei Paschi di Siena e si guardasse un po' più nel capitalismo feudal-relazionale percorso da solidi intrecci di esoterismo massonico, che può tingersi di rosso e anche di bianco? Nessuno negherà che a Siena la rossa la politica sceglie da sempre attraverso la Fondazione i manager del Monte. Ma chi è il Leone e chi la Volpe, la politica o l'economia? Il Centauro che combina insieme forza e astuzia a Siena ha un timbro platealmente iniziatico persino nella toponomastica.
Ma è in tutta l'Italia senza borghesia e con pochi princìpi che si annodano in nome del potere e del denaro legami e solidarietà trasversali. Tra l'alta burocrazia e la finanza, tra gli alti gradi delle forze armate e l'università, tra i servizi segreti e le grandi imprese, tra i gabinetti ministeriali, i tribunali amministrativi, naturalmente la politica e persino le sacre stanze vaticane. Racconta Geronzi, campione per un trentennio dei poteri trasversali nelle memorie consegnate a Massimo Mucchetti: «Una volta andai a trovare nel suo nuovo ufficio in Vaticano un importante prelato che era appena stato elevato alla porpora cardinalizia. Nell'avvicinarmi alla sua scrivania rimasi di sale. Sul montante lungo era applicato un tondo che recava in bassorilievo i simboli massonici». Curioso, peraltro, lo stupore dell'ex banchiere “di sistema” visto che il suo sodale Gianni Letta è il
trait d'union tra chiesa, Opus Dei e massoneria, ruolo che per tre lustri ha svolto con passione da Palazzo Chigi e che ha continuato a svolgere imponendo alcuni catto-massoni nel governo di Mario Monti. Il quale ha dovuto smentire la sua affiliazione: «Non sono massone e non so neanche bene cosa sia la massoneria». Sarebbe un torto all'intelligenza credere che davvero il presidente del Consiglio, ex presidente della Bocconi, ex commissario europeo e grande consulente della finanza internazionale da decenni, frequentatore di tutti i consessi del potere mondia-le, a cominciare da Bilderberg, non sappia che cos'è la massoneria. Ma il Gran Maestro del Grande Oriente d'Italia Gustavo Raffi si era forse spinto un po' troppo oltre quando aveva dichiarato: «Mario Monti è un gran galantuomo, potenzialmente ha tutte le carte in regola per essere un ottimo fratello».
Il Grande Oriente d'Italia, 22 mila fratelli e 762 logge, centinaia di “bussanti” che per entrare devono attendere i passaggi di fratelli anziani all'Oriente eterno è la maggiore “obbedienza” italiana, ma tante altre, regolari e irregolari, pullulano quasi sempre in lotta tra loro, dilaniate da lotte intestine, travolte dall'indebolimento del “fondamento iniziatico” e dalla “profanizzazione”. Raffi, avvocato ravennate con antichi rapporti professionali col Monte dei Paschi di Siena, Gran Maestro da quattordici anni, è al centro di una combattiva opposizione interna, che ha portato alla costituzione di una sorta di corrente, come nei partiti politici, denominata Grande Oriente d'Italia Democratico.
Per accrescere il suo prestigio, vorrebbe parlare inglese perché la Gran Loggia Unita d'Inghilterra, è la madre di tutte le massonerie mondiali. Ma non può perché il Grande Oriente d'Italia non è più riconosciuto da Londra. Fu espulso per volontà del duca di Kent dopo l'ultima scissione del 1993, dodici anni dopo lo scandalo della P2 di Licio Gelli, quando il Gran Maestro Giuliano Di Bernardo fondò la Gran Loggia Regolare d'Italia, invocando la revoca del riconoscimento al GOI e ottenendolo per sé. Non contento, ha fondato anche l'Accademia degli Illuminati, che si richiama agli Illuminati di Baviera e si riunisce una volta l'anno a Roma. Tra i suoi adepti, Di Bernardo colloca più o meno esplicitamente, come ha confessato al giornalista Ferruccio Pinotti, anche il presidente di
Intesa San Paolo Giovanni Bazoli, oltre a Vincenzo De Bustis, il banchiere considerato vicino a D'Alema che portò al Monte dei Paschi per un prezzo considerato allora esorbitante la Banca del Salento. E poi ancora Carlo Freccero, ex Fininvest e poi Rai, Rubens Esposito degli Affari legali Rai, Sergio Bindi, ex consigliere Rai e antico portaborse del democristiano Flaminio Piccoli, Severino Antinori, specialista della fecondazione assistita, il filosofo Vittorio Mathieu, il generale Bartolomeo Lombardo, ex Sismi. Banche, informazione, medicina, cultura, Servizi segreti, non manca niente. Ma la Rai sembra un luogo privilegiato di coltura della massoneria se è vero, come testimonia il professor Aldo Mola, che a un certo punto al Grande Oriente giunse in dote una Loggia coperta, retta dal Venerabile Giorgio Ciarocca, di cui facevano parte Cesare Merzagora, Eugenio Cefis, Giuseppe Arcaini dell'Italcasse, nonché Guido Carli, Enrico Cuccia, Raffaele Ursini, Michele Sindona e Ettore Bernabei, notoriamente soprannumerario dell'Opus Dei.
Anche la Gran Loggia d'Italia, obbedienza di Piazza del Gesù-Palazzo Vitelleschi, al contrario di Di Bernardo, non gode di buona reputazione a Londra perché il 30 per cento dei fratelli sono sorelle, unica obbedienza tra le grandi famiglie massoniche italiane che ammette la presenza femminile, trascurando la tradizione britannica che concepisce invece la massoneria come un club esclusivamente maschile. «Certo – spiega Alessandro Meluzzi, ex deputato di Forza Italia, massone, ma anche diacono della comunità di Pierino Gelmini – la Loggia implica un'iniziazione solare, mentre le donne rappresentano la metà lunare del cielo, le stelle d'oriente e non di occidente».
«L'idiota religione massonica è roba da diciottesimo secolo», disse Benedetto Croce. E in certi casi come dargli torto? Ma è possibile che grandi banchieri e uomini d'affari misurino le loro mosse sui binari dell'ortodossia massonica? È escluso, ma non è affatto escluso che utilizzino per i loro scopi più o meno commendevoli la miriade di confraternite del potere che impiombano questo paese. Di certo «non è vero che tutti i massoni sono delinquenti, ma non ho mai conosciuto un delinquente che non fosse anche un massone», disse il massone Felice Cavallotti prima di essere ucciso in duello da un suo fratello massone.

Repubblica 31.1.13
Il politologo Giorgio Galli: “Democrazia debole”
“Chi decide è altrove”
intervista di Concetto Vecchio


Un organismo permanente gestisce relazioni segrete
È una rete che continua a rigenerarsi sotto altre forme con personaggi che sopravvivono ai diversi scandali
Un esempio per tutti è rappresentato da Luigi Bisignani”

«Il punto centrale dello scandalo Monte dei Paschi a me pare questo: c’è un potere insondabile che sta altrove e che decide carriere, impone decisioni, approfittando della debolezza del sistema politico, che in Italia non è mai stato così debole e screditato». Giorgio Galli, 85 anni, politologo, autore di molti saggi, dalla Dc alla P2, dal terrorismo rosso al nazismo magico di Hitler, dalla sua casa di Milano dice: «Le grandi concentrazioni economiche sono il nuovo Leviatano».
Come definirlo? Un potere parallelo, un doppio livello?
«La democrazia rappresentativa, come potere basato sul consenso, sui voti del Parlamento, è da tempo incrinata in favore di altri poteri, non trasparenti. Non è un problema solo italiano. Uno studioso americano, David Rothkopf, ha scritto un libro,
Superclass. La nuove élite globale e il mondo che sta realizzando,
in cui ha cercato di spiegare i meccanismi di cooptazione nei consigli d’amministrazione».
Per l’onorevole Sposetti, del Pd, è una storia di massoneria.
«Certe carriere appaiono inspiegabili. Ci si dà tanto da fare per eleggere parlamentari che contano pochissimo e quasi nulla si sa invece di chi comanda, e perché, nel capitalismo globalizzato. Questi altri poteri plasmano dirigenze che non passano per il consenso».
Ma il consiglio d’amministrazione di una banca non è un Parlamento.
«Sì, ma conta infinitamente di più. Mi chiedo come sia possibile che la Banca d’Italia si sia fatta imbrogliare: vuol dire che c’è un sistema reale che stabilisce certi destini ben al di sopra delle istituzioni che conosciamo».
E come si forma questo sistema di relazioni?
«Questo è quel che un politologo oggi dovrebbe approfondire. Quando studiai la P2 mi accorsi che la sua vera essenza non risiedeva nella lettura che gli aveva dato la commissione Anselmi: Gelli non meditava alcun colpo di Stato, ma aveva creato una grande camera di compensazione, legami invisibili che avevano sostituito i reali centri decisionali. La P2 nell’81 sembrava finita e invece…».
Invece uno della P2 è diventato più volte premier.
«Il che conferma la mia tesi. Un organismo permanente per gestire relazioni occulte, tanto più che questa rete continua a rigenerarsi, sotto altre forme. Una volta è la P3, poi la P4, e con figure che in qualche modo sopravvivono ai vari scandali, come
quel Bisignani».
La storia di queste rete è stata sottovalutata?
«Temo di sì. Il fatto che questo scandalo scoppi in campagna elettorale non va letto come una manovra contro il Pd. Che ci siano strumentalizzazioni può darsi, ma il Monte dei Paschi finanziava tutti. Qualcuno, però, ha deciso che la vicenda doveva esplodere adesso, con queste modalità, e probabilmente decreterà anche quel che avverrà dopo le elezioni».
Non è una lettura troppo dietrologica?
«È saltato il bilanciamento dei poteri. Nel dopoguerra Fiat ed Edison avevano il loro peso sulla società, ma il sistema politico era forte. Poi, alla fine degli anni Settanta, questo equilibrio si spezza, e da allora questi nuovi tipi di potere si sono rafforzati».
Tecnicamente questa rete non è massoneria?
«La massoneria è uno dei canali di questi poteri, ma non penso sia l’unico, forse nemmeno il più importante. Possiamo chiamarla in tanti modi, ma il suo fine è questo: mettere uomini privi di consenso “con i soldi degli altri”, per citare il felice libro di Luciano Gallino, in posti strategici a decidere su cose che grandissimamente toccano tutti noi».

Repubblica 31.1.13
Machiavelli, cinquecento anni dopo titrovato il bando della cattura


FIRENZE — Ritrovato, all’Archivio di Stato di Firenze dai ricercatori di Harvard, il documento originario del bando della cattura di Nicolò Machiavelli, datato 19 febbraio 1513 e allora letto da un araldo in 52 punti della città. Il momento storico sarà rievocato (con tanto di araldo) il prossimo 19 febbraio, esattamente cinquecento anni dopo la stesura del Principe, opera alla quale Machiavelli cominciò a dedicarsi nel periodo del suo esilio a Sant’Andrea in Percussina. Si darà così inizio alle celebrazioni dello scrittore, ricordato con mostre e convegni durante tutto l’anno.

Repubblica 31.1.13
Contro Darwin
L’eresia di Nagel: “Per spiegare il mondo non basta la natura”
Il filosofo americano attacca l’idea che la scienza deterministica possa comprendere la coscienza
di  Maurizio Ferraris


In Mente e cosmo. Perché la concezione materialista neo-darwiniana della natura è quasi certamente falsa (Oxford University Press 2012) Thomas Nagel (uno dei maggiori filosofi americani, nato a Belgrado nel 1937, professore di filosofia e diritto alla New York University) si propone di mettere in dubbio il senso comune della nostra epoca. La sua idea è che il dibattito tra darwiniani e fautori del “disegno intelligente” dell’universo non ha provato la bontà delle tesi di questi ultimi, ma ha rivelato delle fragilità nei primi. Insomma, pur dichiarandosi ateo, e dunque escludendo l’esistenza di una mente ordinatrice dell’universo, Nagel afferma che l’ipotesi darwiniana non riesce a spiegare fenomeni come la coscienza, il sapere e i valori.
In effetti, che vantaggio c’è ad avere una coscienza, che, come diceva Amleto, ci rende vigliacchi? E come si può spiegare l’emergere dell’intelligenza dalla materia? Un difensore di Darwin come Daniel Dennett sostiene che, proprio come il vivente è composto di elementi inorganici, a cui ritornerà (nella qual cosa non troviamo niente di miracoloso), così l’intelligenza può benissimo partire da elementi non intelligenti.
Nagel tuttavia vede in questa concezione un partito preso riduzionistico, che appare ancora più evidente quando la coscienza e l’intelligenza giungono a livelli più astratti, che sembrano escludere la stessa necessità di un genere umano che li pensi. Come scriveva nel 1974 in un articolo che lo rese celebre, Che cosa si prova a essere un pipistrello? (in questi giorni tradotto come volumetto da Teodoro Falchi per Castelvecchi) «i numeri transfiniti sarebbero esistiti anche se la peste nera avesse sterminato tutti gli uomini prima che Cantor li scoprisse». Ora, quale sarebbe il vantaggio evolutivo dei numeri transfiniti? Un neo-darwiniano come Stephen Jay Gould avrebbe detto che si tratta di effetti collaterali di un sistema nervoso centrale più sviluppato (che è in sé un vantaggio evolutivo). Nagel invece asserisce che questo è uno dei tanti aspetti del mondo che il darwinismo non è in grado di spiegare.
Il vero obiettivo del libro di Nagel, tuttavia, non è criticare il darwinismo (anche se è facile immaginare che il suo libro sarà adoperato a quello scopo), bensì, in positivo, proporre un’idea giusta e ambiziosa di una scienza più ampia, quasi di un rinato sapere speculativo nello stile dell’idealismo tedesco. Il tratto fondamentale di questa scienza allargata consiste nel far ricorso non soltanto a spiegazioni causali (A causa B) ma anche a spiegazioni finali, ricorrendo a quella che nel gergo filosofico si chiama “teleologia”: A causa B perché lo scopo di B era C. Ad esempio, l’uomo ha sviluppato una massa cerebrale superiore agli altri primati perché era parte di un processo orientato verso un fine, quello di avere una coscienza, perché, come diceva un grande partigiano della teleologia, Dante, «fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza».
In questo appello Nagel si richiama ad Aristotele. Ma il suo vero predecessore mi sembra il Leibniz del Discorso di metafisica (1686), critico dei “nouveaux philosophes” dei suoi tempi, che volevano bandire le cause finali dalla fisica. Secondo Leibniz, il fisico che volesse spiegare la natura solo con le cause efficienti non sarebbe meno limitato di uno storico che, per spiegare la presa di una piazzaforte, non tenesse conto degli obiettivi del generale che aveva ingaggiato la battaglia ma si limitasse a dire che la polvere da sparo era riuscita a spingere un corpo duro e pesante contro le mura della piazzaforte, facendole crollare.
Ora, la richiesta di una scienza più ampia è un vasto disegno. Ma per attuarsi non ha bisogno di rinunciare a Darwin, senza contare che per evitare l’egemonia della scienza ci si può attestare su posizioni più tradizionali ma perfettamente efficaci. Per esempio quella di Putnam, che in La filosofia nell’età della scienza (a cura di Mario De Caro e David Macarthur, recentemente uscito dal Mulino) ricorda che in tantissimi campi — a cominciare dall’etica — si può e si deve fare filosofia senza la scienza, ma non contro la scienza.
Quanto poi all’esigenza di una scienza teleologica, si potrebbe osservare che le scienze naturali (e non solo le scienze sociali, dove il ricorso alle cause finali è onnipresente) sono intrinsecamente teleologiche, senza che per questo lo sia la natura. Questo lo aveva visto benissimo il Kant della Critica del giudizio: quando, con lo sguardo dello scienziato, osserviamo la natura, la consideriamo come un tutto e ne ipotizziamo dei fini. L’epistemologia, cioè quello che sappiamo o crediamo di sapere, è intrinsecamente teleologica: se ci mostrano la sezione di un occhio non riusciamo a raccapezzarci sino a che non ipotizziamo che l’occhio è fatto per vedere, e a quel punto diviene chiara la funzione della pupilla, del cristallino, della retina. Ma l’ontologia, quello che c’è, non è necessariamente teleologica. Lo è nel mondo sociale, non nel mondo naturale a cui si riferisce l’ipotesi di Darwin.
Dire che il fine dell’occhio è vedere ci aiuta a capirne il funzionamento proprio come dire che fare gol è l’obiettivo delle squadre di calcio ci permette di capire le partite. Ma questo non ci obbliga a sostenere che l’occhio è intrinsecamente creato per vedere più di quanto ci autorizzi a dire che il naso è stato creato per sorreggere gli occhiali. Può essere un caso evolutivo. Disponendo di un tempo lungo come quello che ci separa dal Big Bang e di un materiale grande come l’universo, si può arrivare a tutto, coscienza e numeri transfiniti compresi, proprio come la biblioteca di Babele immaginata da Borges contiene tutto, compresi il giorno e l’ora esatta della nostra morte. Tranne che questa informazione, non si sa quanto evolutivamente utile, è seppellita tra miliardi di altre ore e giorni probabili o improbabili, e miliardi di miliardi di volumi senza alcun senso compiuto.

Repubblica 31.1.13
Carezze
Uno studio americano pubblicato su Nature ha identificato i neuroni che percepiscono il tocco affettuoso
I massaggi attivano i recettori e producono nel cervello una sensazione di gratificazione e relax
di Elena Dusi


ROMA La carezza è qualcosa di unico. Abbiamo sulla pelle dei nervi speciali per percepirla e delle zone speciali nel cervello per goderne il calore. Il senso del tatto va bene per toccare gli oggetti normali. Per la pelle delle persone amate la natura ci ha dotato di un “organo” diverso: un circuito nervoso che parte dalle mani, finisce nella testa ed è dedicato esclusivamente alle coccole, sia nell’uomo che negli animali. Questo “senso della carezza” si aggiunge agli altri cinque. Non sente i pizzichi, resta indifferente se urtiamo uno spigolo. La sua unica funzione è percepire i segnali della pelle che indicano affetto, amicizia, gioco e amore all’interno di un gruppo.
“I neuroni del massaggio che spiegano come mai sia un piacere essere accarezzati” è il titolo di copertina di Nature oggi. La rivista racconta la scoperta delle cellule nervose specializzate nella percezione di un tocco affettuoso. Gli autori sono i neuroscienziati del California Institute of Technology di Pasadena, che hanno studiato un gruppo di topolini sottoposti a un massaggio simile a quello della mamma. I neuroni dell’affetto non si limitano ad attivarsi al momento della carezza. A loro volta producono nel cervello una sensazione di gratificazione e relax: ecco perché coccole non siamo mai sazi.
A mettere i ricercatori sulla pista dei “neuroni dei massaggi affettuosi” era stata un decennio fa una donna svedese che, a causa di una malattia infettiva aveva perso il senso del tatto, ma non la sensibilità alle carezze. Non sentiva nulla se la si colpiva con uno schiaffo ma percepiva “una sensazione piacevole” quando la si accarezzava con le dita o con una piuma a una velocità di circa tre centimetri al secondo. Nel suo cervello il tocco gentile era associato all’attivazione di aree legate alle emozioni e all’eccitazione sessuale. «Ipotizzammo — spiegò all’epoca il ricercatore dell’ospedale universitario di Goteborg Hakan Olausson — che esistessero dei nervi incaricati di trasmettere al cervello la sensazione piacevole di una carezza».
I “sensori delle coccole” — si è scoperto oggi — sono distribuiti sulla pelle a eccezione del palmo delle mani e delle piante dei piedi e con una concentrazione maggiore su avambracci e viso. Che la natura abbia dato tanta importanza a un meccanismo come la
carezza, addirittura dedicandole un circuito di neuroni specializzato, è stupefacente solo all’apparenza. I deficit emotivi mostrati dai bambini cresciuti in orfanotrofio e privati del contatto fisico con i genitori sono infatti noti da tempo. E molti animali non nascondono il loro piacere quando possono strofinarsi o coccolarsi fra loro o con l’uomo: dai gatti che fanno le fusa alle scimmie che passano ore a pulire il pelo ai compagni con cui vogliono stringere amicizia.
Dall’ipotesi alla dimostrazione: oggi i ricercatori del Caltech sono riusciti effettivamente a individuare i “neuroni delle coccole”. Con un esperimento sui topolini hanno osservato le terminazioni nervose che producono una particolare proteina se vengono massaggiate affettuosamente. E hanno dimostrato che questi sensori sono insensibili a stimoli diversi come pizzichi o pressioni. A differenza delle fibre nervose normali, che trasmettono le sensazioni alla velocità di 60 metri al secondo, il “canale delle carezze” non ha nessuna fretta e fa arrivare il suo messaggio al passo di unmetro al secondo. Gli stessi massaggi troppo frettolosi (con una velocità superiore ai 10 centimetri al secondo) perdono la loro carica di dolcezza e sensualità, tanto da essere derubricati al ruolo di sensazioni tattili anonime.
Pur essendo lento, il segnale della coccola non conosce ostacoli e viene percepito anche in presenza di una sensazione di dolore. L’ipotesi secondo cui il palmo della mano è meno sensibile alle carezze è legata probabilmente alla distinzione fra fibre nervose lente e veloci. Un organo prensile dalle funzioni così complesse e raffinate è infatti inzeppato di fibre rapide, e questo andrebbe a discapito di quelle dedicate alle coccole. In compenso il “senso” della carezza è fra i più sviluppati già al momento della nascita. E l’emozione piacevole nel cervello non viene prodotta solo dal contatto diretto con la pelle altrui, ma anche — e con pari intensità — dall’osservazione di un altro individuo mentre viene accarezzato.
La scienza delle coccole, partita alla scoperta di uno dei segnali sociali più potenti e misteriosi dell’uomo e di molti altri animali, è oggi uno dei temi più affascinanti fra quelli affrontati nei laboratori. Peccato solo che i ricercatori del Caltech non si accontentino, e ci promettano un giorno anche un farmaco capace di simulare le coccole, stimolando le fibre nervose ad hoc quando di coccole vere c’è carestia.

Repubblica 31.1.13
La genetica non basta a spiegare le emozioni
di Michela Marzano


Al tempo di Darwin, quando si parlava del carattere evolutivo e innato delle emozioni, si trattava solo di ipotesi scientifiche. Oggi, la scienza sembra dimostrarcelo con certezza: le emozioni non sarebbero altro che una risposta automatica agli stimoli esterni che si ricevono. Ecco perché, dopo i famosi neuroni specchio, oggi è la volta dei neuroni delle carezze: come ogni altra emozione, anche il piacere che si prova quando una mano ci sfiora delicatamente dipenderebbe da un circuito neuronale geneticamente predisposto. E la cultura? E l’inconscio? E tutto il mistero che circonda i sentimenti e che, nonostante le numerose scoperte scientifiche, non svanirà mai perché non è certo un neurone a dirci per quale motivo fremiamo sotto le carezze di una persona mentre restiamo indifferenti di fronte a quelle di un’altra?
Gli etnologi e gli antropologi sanno bene che il modo di esprimere sentimenti ed emozioni dipende in parte dalla cultura e dall’educazione che si riceve. Il corpo umano non è solo un corpo biologico, geneticamente capace di emozioni, ma anche e soprattutto un luogo simbolico attraverso cui si esprime il proprio mondo interiore. Ecco perché ognuno di noi, per poter anche solo provare un’emozione, deve poterla riconoscere come parte integrante del proprio repertorio psicologico e culturale. Chi non ha imparato ad esteriorizzare la rabbia o la gioia, non potrà farlo nonostante la presenza nel cervello di tutti questi neuroni specializzati. Quanto alle passioni dell’anima, per utilizzare un’espressione cara a Descartes, non sono mai semplici reazioni corporee. Proprio perché accanto alle risposte innate di fronte agli stimoli esterni, esiste qualcosa che di innato non ha proprio niente: tutto quello che abbiamo vissuto fin da bambini quando i nostri genitori ci accarezzavano oppure ci tenevano a distanza; tutto quello che cerchiamo di riprodurre oppure, al contrario, di riparare; tutto quello che speriamo di ricevere dalle persone che amiamo e che forse non riceveremo mai. È questo il mistero delle emozioni umane. Un mistero che, nonostante tutte le scoperte scientifiche, resta (e forse resterà per sempre) intatto.