venerdì 1 febbraio 2013

l’Unità 1.2.13
Bersani: «Banchieri fuori dai partiti»
Il leader Pd risponde a muso duro agli attacchi del premier sulla vicenda Montepaschi
«Come Berlusconi in un giorno ha promesso 30 miliardi in meno di tasse. Perché non lo fa ora?»
di Maria Zegarelli


Chi l’avrebbe mai detto che il serissimo professor Monti avrebbe usato Facebook per lanciare cannonate in campagna elettorale? Lascierà tracce l’ultima infuocata polemica tra il premier uscente e il leader democratico Pier Luigi Bersani sulla vicenda Mps. Il post compare sul profilo Facebook del Professore, come ieri si è ostinato a chiamarlo il segretario Pd: «Per il bene di tutti bisogna tenere i partiti lontani dalle banche. Sono stato accusato in passato di presiedere un governo di banchieri. Ricordo solo che il decreto Salva Italia, voluto dal nostro governo, ha vietato le presenze incrociate nei consigli di amministrazione di banche e compagnie di assicurazioni concorrenti».
La riposta del candidato premier di centrosinistra arriva da Palermo da un affollatissimo Teatro Zappalà, affilata come lama di rasoio: «Io dico a Monti: i banchieri stiano fuori dai partiti». Aggiunge anche che sì, dopo le elezioni il Pd guarderà a Monti per cercare un dialogo su governo e riforme, perché «chi pensasse di creare instabilità sarebbe un irresponsabile», ma adesso la temperatura dei rapporti tra il centro e i democratici scivola verso lo zero termico.
Che sia la destra ad attaccare il Pd su Monti dei Paschi era nel conto «alla stampa di destra dico: non siamo mica mammolette, non pensino di venire a fare i picchiatori... Abbiamo dato mandato agli avvocati di spulciare i giornali di destra. Chi ha sbagliato contro di noi, accusandoci di cose assurde, dovrà pagare. Gli costerà una barca di danari, perché non permetteremo a nessuno di infangare il buon nome del partito» ma il Professore no, Bersani non ci sta. «I banchieri venivano a urlare dietro la mia porta perché io ho introdotto la portabilità dei conti, eliminato il massimo scoperto... Non urlavano dietro la porta di Tremonti», dice a Roma e poi in Sicilia. Una storia questa che già sta costando punti percentuali nei sondaggi al Nazareno e su cui Berlusconi e i suoi si sono avventati come iene sulla preda. Bersani rilancia e in ogni appuntamento elettorale ripete come un mantra quali saranno le parole d’ordine della prossima legislatura e del suo governo se andrà lui a Palazzo Chigi: «Moralità e lavoro». A Palermo promette sin dai primi giorni di mandato una legge sul falso in bilancio, un inasprimento delle pene per la corruzione, trasparenza nella pubblica amministrazione, «perché con i soldi pubblici non si va a fare la spesa». Ora che gli stessi sondaggi raccontano di un avanzamento del centrosinistra sia in Lombardia che in Sicilia il segretario punta a galvanizzare i militanti. «La Sicilia può essere la nostra Florida, ma vedrete chi vince in Italia, vincerà ovunque, alla Camera e al Senato», dice nella terra dove quello che è accaduto ad ottobre, con la vittoria di Rosario Crocetta, solo un anno fa sarebbe stato impensabile. «Qui a ottobre abbiamo smacchiato il giaguaro, ora dobbiamo smacchiare il giaguarone», scherza salutando e ringraziando poco dopo per il lavoro che sta facendo il governatore siciliano che entra in teatro. «Dobbiamo suscitare un’onda positiva, chiamare il popolo delle primarie, che sarà la nostra bomba atomica, e allora non ce ne sarà per nessuno», ripete sottolineando che non sente affatto la vittoria in tasca, che è per questo che bisogna lavorare fino all’ultimo momento, perché «la destra farà di tutto, combatterà fino all’ultimo giorno. S’è comprata anche Balotelli perché gli hanno detto che poteva fruttare uno o due punti percentuali in più». L’obiettivo è quello di vincere «per chiudere l’era della Lega, per fare di questo un Paese solo, unito» e neutralizzare quell’idea «micidiale» della destra che bisognava scaricare la parte di Paese più sofferente e puntare tutto sul Nord.
Torna anche sul «nuovo Monti», quello che insieme a Berlusconi in un giorno «ha promesso 30 miliardi in meno di tasse. Ma dico: sei ancora lì al governo, perché non agisci ora?». Chiede «serietà» al professore ricordandogli «che i guru mondiali poi se ne vanno e i problemi restano». Tira fuori il suo partito «da una campagna elettorale politicista e da cabaret, noi siamo persone serie e promettiamo quello che poi possiamo fare».
Attacca i partiti personali: «Via Bersani c’è il Pd. Ma via Monti chi c’è? E via Ingroia? Via Berlusconi? L’Italia non ne può più di questa anomalia, di questa assenza di futuro, di questi personalismi senza domani. Noi possiamo offrire una prospettiva, gli altri no». In platea qualcuno alza uno striscione. Sopra c’è scritto: «Il piacere delle liste pulite e dell’onestà vale molto più di Balotelli». Argomento bollente in Sicilia: la Commissione di garanzia ha escluso due candidati isolani, Mirello Crisafulli e Antonio Papania, eletti alle primarie con una valanga di preferenze. «Ci sono state vicende anche dolorose, ma il cambiamento non lo fai fischiettando», osserva Bersani. In sala i due esclusi dalle liste non ci sono. Ferita troppo fresca.

l’Unità 1.2.13
Il Pd deve vincere come la Dc nel’48
di Alfredo Reichlin


LA CAMPAGNA ELETTORALE MOSTRA TUTTA LA DIFFICOLTÀ NON SOLO DI DISCUTERE ma perfino di mettere a fuoco la questione su cui il Paese si sta giocando tutto: la «cosa» da cui dipendono tutte le altre, Imu compresa. Parlo della ridefinizione del «rapporto nazionale-internazionale», ovvero del rapporto Italia-mondo. Qui sta il grande cambiamento, che è in atto, e che è di natura storica. Ricordiamoci che l’Italia era cresciuta e si era affermata come media potenza mondiale grazie al ruolo di cerniera che aveva svolto nella strategia della guerra fredda, e quindi, sostanzialmente, in base a un rapporto speciale con gli Stati Uniti.
Questo è cambiato. Il futuro della Penisola dipende adesso dal nostro rapporto con la costruzione della Comunità europea. Una costruzione travagliata e percorsa da difficili problemi, compreso quello di non subire passivamente l’egemonia monetaria tedesca, ma che rappresenta la potenza necessaria minima per fronteggiare il potere della finanza mondiale e perché gli europei con la loro civiltà possano tornare ai vertici dello sviluppo mondiale.
È evidente quindi che la scelta che sta di fronte agli elettori il 24 febbraio è di natura costituente. Essa è simile per certi aspetti a quella che il 18 aprile del 1948 vide la vittoria «necessaria» della Dc. E perché dico necessaria? Perché in quel momento storico la Dc garantiva l’occidentalizzazione dell’Italia e la pace civile. Io c’ero ma il «soviettismo» di noi comunisti alludeva a un’altra storia e non dava allora questa fondamentale garanzia. Ecco perché trovo deprimente il dibattito elettorale che si svolge sui media. Mi si dirà che si parla di programmi. Benissimo. Ma che senso hanno le promesse programmatiche se restiamo ai margini dall’Europa e ci mettiamo nella penosa condizione di non contare più niente?
Vengo così al punto, che io definisco così. Che succede se il Partito democratico non vince le elezioni? Ecco una bella domanda che gli italiani dovrebbero cominciare a porsi. È una strana domanda, che però è posta dalle cose. Riflettiamoci bene. Se le elezioni non le vince il Pd le vincerà un altro. Ma chi? Berlusconi? Ma l’organismo italiano (la società e l’unità dello Stato) può sopravvivere a una vittoria della destra? Me lo chiedo perché noi siamo a quel passaggio di cui ho detto. È evidente che il ritorno di Berlusconi (a parte tutto ciò che di ignobile riporterebbe a galla) isolerebbe drammaticamente l’Italia dall’Europa, ci coprirebbe di disprezzo e aprirebbe anche grossi problemi di sovranità del Paese. Ricordiamoci che il potere non è più solo un fatto nazionale ma si definisce sempre più nella sua relazione con lo scenario internazionale e con le mutazioni che esso sta subendo. Noi, non conteremo più niente e diventeremmo solo il luogo della compravendita di ciò che resta di un grande patrimonio produttivo. Fantasie? Uno scenario simile non è credibile? In effetti sembra anche a me.
Ma poi vedo i processi dissolutivi in atto. Vedo i voti per Grillo e per Ingroia che sono tanti. Vedo l’indifferenza per il dramma della povera gente. Vedo le sparate di Maroni, l’alleato principale di Berlusconi, un naufrago politico che tuttavia se vince in Lombardia può creare problemi molto seri di tenuta del Paese. Certo. C’è molta farsa nel pensare di dividere il Lombardo-Veneto dall’Italia (come ai tempi di Radetzky) e al ritorno dei Borboni a Napoli. Fa ridere. Ma che succede se una grande forza popolare e nazionale non vince le elezioni? Questo è il punto su cui rifletto. La novità è che nel mondo e nell’Italia di oggi questa forza «necessaria» è il Pd. C’è poco da fare. Si è aperto un problema geo-politico e non per caso a un vecchio comunista come me sono tornate in mente le elezioni del 1948.
Mancano quattro settimane al voto. Pongo in modo così brutale questa questione del ruolo storico che il Partito democratico è costretto ad assumere non perché io sia pessimista o perché ritenga debole il nostro discorso elettorale. Vorrei solo alzare l’asticella della sfida. Cosa pensa la classe dirigente italiana di questo passaggio d’epoca? Vuole giocare ancora su due tavoli? Sarò un ingenuo ma mi sembra incredibile che persone serie come quelle che si muovono intorno al prof. Monti e che frequentano ambienti come la Comunità di Sant’Egidio non si rendano conto che è finita un’epoca. Non è solo questione di giustizia. È che non funziona più l’idea di un rilancio dello sviluppo basato sui consumi degli individui in società atomizzate, finanziati a loro volta non dalla crescita della economia reale ma dal debito, e quindi dalla crescita delle rendite finanziarie. Questo è il fatto reale che ci interroga. Un grande fatto.
Il mondo è nuovamente a una svolta. È saltato il circuito consumo-rendita-debito. Piaccia o non piaccia. Bisognerà cominciare a investire sul lavoro, sull’intelligenza umana e sui nuovi bisogni collettivi. Ecco il fatto, un grandissimo fatto. Perché allora gli amici di Monti vogliono impedirci di vincere le elezioni? Perché la loro strategia è «tagliare le ali». Che stupidaggine. La sinistra di Vendola non è come il mondo di Cosentino. E come pensano di governare la necessaria riforma delle società europee: facendo del sindacato il nemico principale? Se è così, vuol dire che non hanno capito la posta in gioco e le forze in campo. È meglio per tutti che vinciamo noi.

l’Unità 1.2.13
La vera incognita delle elezioni
di Francesco Cundari


Nonostante negli ultimi venti anni sia accaduto spesso che il risultato delle elezioni abbia smentito tutti i sondaggi, e piuttosto di rado che li abbia confermati, a leggere i giornali si direbbe che l’esito delle prossime elezioni sia ormai scontato. Talmente scontato che la discussione verte già sull’esatto numero di seggi da attribuire a ciascunpartito.
Talmente scontato che l’unico dubbio rimasto riguarderebbe il vincitore del premio di maggioranza del Senato in Lombardia, e al massimo in un paio di altre Regioni, con tanto di proiezioni sull’entità della futura (eventuale) maggioranza e relative simulazioni sulle possibili alleanze.
A consigliare maggiore cautela, però, non dovrebbe essere soltanto una ragionevole diffidenza nei confronti dei sondaggi. Tra tante discussioni su maggioranze virtuali, alleanze ipotetiche e governi immaginari, sembra infatti passare del tutto inosservata la vera incognita della prossima legislatura. Incognita che non riguarda tanto la dimensione dei singoli gruppi parlamentari, ma la loro tenuta. Il punto non è insomma se la coalizione vincente otterrà 158, 157 o 159 senatori. Il punto è cosa faranno, all’indomani del voto, tutti gli altri.
È l’altra faccia del rinnovamento. Per cogliere le dimensioni del problema basta aver visto anche solo per un minuto i video in cui i candidati alle cosiddette «parlamentarie» del Movimento 5 Stelle si presentavano al loro elettorato virtuale (peraltro meno numeroso dei soli elettori di Bruno Tabacci alle primarie del centrosinistra). Il problema è che un partito personale ha già le sue difficoltà a reggere la permanenza all’opposizione (e tanto più un «non-partito», cioè una semplice lista, assemblaggio delle personalità più disparate). Ma un «non-partito» personale sprovvisto persino della persona del suo leader eponimo, come sarà quello di Beppe Grillo, che come noto alle elezioni non si candida nemmeno, quanto può resistere alle lusinghe, alle trappole, alle difficoltà e alle incertezze della lotta parlamentare? Quanto può resistere senza quello che non è solo il suo capo e il suo simbolo, ma anche il suo unico collante politico, identitario e organizzativo? Tralasciando gli aspetti etici e democratici e guardando solo all’aspetto pratico della questione, è possibile immaginare di dirigere un intero gruppo parlamentare da un blog?
Il problema, però, non riguarda solo i grillini. Tanto i promotori della Rivoluzione civile di Ingroia quanto i sostenitori della Scelta civica di Monti condividono infatti con i cinquestelle il rischio di ritrovarsi eletti e abbandonati. Sia Rivoluzione civile sia Scelta civica appaiono infatti più che altro un cartello di sigle disparate, che solo i rigori dei sondaggi spingono a mettersi insieme, molto provvisoriamente, sotto un comune simbolo, che poi sarebbe il nome del leader (nel caso dei montiani, per giunta, esclusivamente al Senato, giacché alla Camera i candidati dell’Udc e quelli di Fli correranno sotto i simboli dei rispettivi partiti). Una condizione di provvisorietà ulteriormente accentuata dalla diffusa impressione che i leader-federatori, in caso di insuccesso, non abbiano alcuna intenzione di dedicarsi a una faticosa e ingrata opera di difesa, riorganizzazione e rimotivazione delle proprie disperse truppe. Nel caso in cui i risultati elettorali fossero al di sotto delle aspettative, è ragionevole prevedere che le tante diverse sigle provvisoriamente unificate sotto il nome dei rispettivi leader tornerebbero a issare le proprie insegne e ad andare ciascuna per la sua strada. Ed è bene ricordare che le aspettative iniziali, specialmente nel caso della lista Monti, erano parecchio alte. Mentre le prospettive attuali, specialmente per la lista Ingroia, sono parecchio basse.
Del resto, chi potrebbe immaginare un uomo come Mario Monti impegnato notte e giorno in consultazioni con gli alleati sulle presidenze di commissione, chiuso per settimane in riunioni interminabili con i segretari provinciali sulle candidature alle amministrative, occupato l’intera giornata in trattative di corridoio su questo o quell’emendamento. Ma in fondo non è meno arduo immaginare in questo ruolo Antonio Ingroia (specialmente se nell’indolente ritratto che ne ha fatto Maurizio Crozza c’è almeno un grano di verità).
All’indomani del voto, pertanto, potremmo assistere all’erosione (se non proprio all’esplosione) di buona parte delle coalizioni che il 24 febbraio troveremo sulla scheda elettorale. Un processo di scomposizione che tra l’altro lascerebbe letteralmente senza casa decine di parlamentari alla primissima esperienza politica, passati soltanto per la selezione del severo manager della spending review da un lato, dall’altro per la meno severa selezione del pm palermitano (almeno a giudicare dai risultati). Del resto la storia d’Italia insegna che partiti veri, strutturati e vitali, non servono solo per andare al governo. Servono, soprattutto, per non squagliarsi all’opposizione.

La Stampa 1.2.13
Democratici in trincea con l’incubo del 2006
Le analogie con il caso Bnl-Unipol fanno temere per i risultati elettorali
Nel partito qualche dubbio sulla linea aggressiva scelta dal segretario
di Federico Geremicca


Se qualcuno aveva avuto dei dubbi, aveva pensato a uno scatto di nervi o magari a una battuta, bene: si era sbagliato. “Li sbraniamo” è una linea: anzi, è la linea. Voluta da Bersani e ribadita nuovamente ieri: «Non siamo delle mammolette: se pensano di fare i picchiatori con delle mammolette, si sbagliano». E Massimo D’Alema il “duro” per eccellenza - è d’accordo: «Non abbiamo ragione di temere l’accertamento della verità... ».
L’immagine è sicuramente abusata, però stavolta le cose stanno davvero così: il Partito democratico infila l’elmetto e scende in trincea, avendo capito che il caso Montepaschi si è ormai trasformato in una guerra capace di condizionare - e chissà se perfino sovvertire - l’esito dell’intera campagna elettorale. Tutti contro il Partito democratico: a sinistra, al centro e a destra. Un accerchiamento impossibile da sopportare. «Non è consentito a nessuno sfregiare il buon nome del Pd», ha avvertito ieri un Bersani furioso come nei giorni peggiori. E i democrats lo seguono: la maggioranza perchè convinta, e qualcun altro perchè non è che si possano aprire varchi al nemico nel pieno della campagna elettorale.
Quindi, altro che mammolette: elmetto in testa e dagli ai picchiatori. Anche perchè il caso Montepaschi oltre a evocare un temutissimo fantasma, di cui poi diremo - sta già causando danni concreti e visibilissimi. Secondo Tecnè - che registra quotidianamente per Sky le intenzioni di voto degli italiani - il vantaggio del centrosinistra sul centrodestra va progressivamente scemando: ieri, per la prima volta, è sceso sotto la soglia dei cinque punti percentuali (33,6 contro 28,7), passando da un +6,5% ad un meno rassicurante +4,9%. E tutti gli istituti di sondaggio confermano il trend: Pd-Sel sempre in vantaggio, ma decisamente in calo...
Troppe cose ricordano troppo da vicino l’indimenticata campagna elettorale del 2006, con la coalizione di centrosinistra largamente in vantaggio all’inizio e poi rimontata da Berlusconi, fino ad esser raggiunta e costretta - a Palazzo Madama - ad aggrapparsi ai voti dei senatori a vita, di quelli eletti all’estero e agli umori altalenanti dei comunisti alla Turigliatto. Oggi il Pd è in battaglia per evitare lo stesso, identico rischio: e come allora c’è di mezzo un’altra maledettissima banca...
E’ vero che in sede giudiziaria - ma anni dopo - il famoso “abbiamo una banca” detto da Piero Fassino a Giovanni Consorte (si trattava, allora, della scalata Unipol alla Bnl) si è tradotto in una vittoria giudiziaria per l’allora segretario dei Ds: ma quell’affare - secondo ogni istituto di statistica - costò alla coalizione molti punti percentuali e, probabilmente, la piena vittoria (ben più importante) alle elezioni. Roberto Cuillo, al tempo portavoce di Piero Fassino, è esplicito: «Ricordo benissimo quei mesi, le analogie con l’oggi sono impressionanti: non solo per l’affare Unipol-Bnl, ma anche per il tracimare di Berlusconi in ogni format tv. Il risultato? Purtroppo semplice da dire: a dicembre 2005 noi dei Ds eravamo largamente in vantaggio, ad aprile 2006 chiudemmo al Senato con poco più del 17%, avendo perso in tre mesi quasi il 5% dei voti».
Il fantasma del successo che sfuma sul filo di lana - in verità - già aleggiava sul quartier generale del Pd dopo l’inattesa “salita in politica” di Mario Monti: da più di una settimana, però - con l’esplodere del caso Montepaschi - quel fantasma si è insediato stabilmente ai piani alti di Largo del Nazareno seminando acutissimi timori. C’è davvero il rischio che finisca come allora? E’ giusta la linea tutta orgoglio e aggressività messa in campo dal segretario? Il Pd è davvero pienamente d’accordo con Bersani? E nel caso l’emergenza si aggravasse, esiste un “piano B” per arginarla?
Che il Partito democratico sia convintamente unito e compatto dietro il segretario, lo si può escludere senza timori di smentita. Alcuni (pare perfino Rosy Bindi sia tra questi) avrebbero preferito una linea che non accantonasse del tutto la necessità di un’autocritica, convinti che «negare e basta, per sperare nel contrattacco, potrebbe non esser convincente nemmeno per i nostri stessi elettori». L’area liberal storce il naso di fronte a certi affondi di Bersani (soprattutto quando hanno per bersaglio, come da giorni, il premier Mario Monti). E personalità come Matteo Renzi tacciono per non danneggiare ulteriormente la campagna elettorale: ma avevano già messo a verbale critiche e riserve circa il sistema-Siena.
Quel che è certo, però, è che la linea non cambierà: non siamo mammolette, se ci attaccano li sbraniamo. E “piani B” non ce ne sono. «E quale dovrebbe essere il “piano B”? - si chiede Stefano Fassina, responsabile economico del Pd e vicinissimo a Bersani -. Dovremmo discutere le critiche che ci arrivano da Verdini, indagato per bancarotta fraudolenta, oppure ascoltare i consigli - chiamiamoli così - di Mario Monti che ha in lista Alfredo Monaci, che stava nel Cda di Montepaschi? La reazione dei democratici è dura ma legittima, visto che siamo stati noi ad avviare il cambiamento a Siena».
Tutti con l’elmetto, dunque, e tutti in trincea dietro Bersani. E agli attacchi si risponde colpo su colpo: «Monti dice via i partiti dalle banche? Sono d’accordo - annota il segretario -. Io aggiungo: via i banchieri dai partiti. Così siamo a posto». O, almeno, è quel che ardentemente spera...

Corriere 1.2.13
E Bersani carica i suoi: non abbassiamo la guardia
I Democratici preoccupati dai sondaggi puntano sugli elettori «disorientati»
di Maria Teresa Meli


ROMA — Alla «Rimonta» con la R maiuscola, come la chiama il direttore di Europa Stefano Menichini, nel Pd non crede nessuno. Il che non significa che nel Partito democratico non stiano controllando le oscillazioni dei sondaggi. In una settimana la forbice tra centrosinistra e centrodestra è scesa da 6,5 a 4,9 punti in percentuale, stando a Carlo Buttaroni, patron dell'istituto di rilevazioni «Tecnè», ma soprattutto Democrat doc, che per il Pd ha sempre lavorato sulle intenzioni di voto degli elettori italiani. E solo una ventina di giorni fa la distanza era sugli undici punti.
Ma questo non basta a mettere in allarme il quartier generale di largo del Nazareno. Nemmeno le parole di Alessandra Ghisleri hanno provocato il panico. Eppure la sondaggista preferita da Berlusconi sostiene che il Partito democratico ha preso tutto quello che poteva prendere e che nella grande platea degli indecisi e dei potenziali astenuti possono pescare solo il Cavaliere e Mario Monti. Ma al Pd, dove ormai il pasto quotidiano è rappresentato da pane e rilevazioni, hanno commissionato studi solo sulla platea degli astenuti e degli indecisi. Un terzo di loro viene definito dagli esperti «disorientato». Si tratta di quelli che non hanno ancora capito bene che cosa il futuro riserva all'Italia. Sono questi gli elettori che il Pd potrebbe attirare a sé nella campagna elettorale. Poi ci sono i cosiddetti «arrabbiati»: italiani di centrodestra e di centrosinistra che se mai voteranno daranno il loro favore a Grillo. Infine ci sono i «delusi». Questa, secondo i sondaggisti interpellati dal Partito democratico, è la categoria a cui possono attingere sia il Pdl che i moderati di Mario Monti.
Siccome per la prima volta da tempo immemore nel centrosinistra si compulsano più sondaggi e più sondaggisti, a largo del Nazareno c'è anche uno studio che esamina l'Italia delle intenzioni di voto regione per regione. E da qui è emersa una novità. Ossia che in Veneto le candidature del Pdl hanno creato perplessità e resistenze nell'elettorato di centrodestra. Insomma, un altro dato confortante. Ciò detto, però, Pier Luigi Bersani ha raccomandato comunque a capilista, candidati eccellenti e big di partito di «tenere alta la guardia». «Non abbassiamola», è diventata la parola d'ordine del segretario. Che in questi giorni sta incitando tutto il partito a «battersi fino all'ultimo voto».
Già, perché Bersani è convinto che la «battaglia sia aperta» e che non bisogna illudersi: «È vero che manca meno di un mese, ma ricordatevi che saranno giorni lunghissimi». Giorni pesanti, anche. Perché il leader del Partito democratico è convinto che tra le ruote del carro del Pd verranno messi altri ostacoli oltre a quello del «caso Monte dei Paschi di Siena». Ora a largo del Nazareno guardano alla Lombardia. Ma non è tanto il caso delle spese dei consiglieri regionali di quella regione a preoccupare il Pd. È l'inchiesta carsica che riguarda il «sistema Sesto San Giovanni» che impensierisce i piani alti del Partito democratico. Non se ne sa più niente, dopo le ultime rivelazioni su Filippo Penati, e si tratta solo di capire se le novità arriveranno a urne chiuse o aperte.
Comunque Bersani non è tipo da scoraggiarsi, né da demordere. Sa bene che il centrosinistra si sta giocando il tutto per tutto in queste elezioni. E per questa ragione ogni volta che può insiste sempre sullo stesso argomento. Non c'è comizio o cena elettorale in cui il segretario non spieghi, scandendo bene le parole e persino le sillabe: «Non affidiamoci all'idea di avere la vittoria già in tasca. Ragazzi, stiamo attenti perché chi sparge la voce secondo cui il Pd ha già vinto le elezioni sono ambienti interessati a farci perdere. Questa storia viene messa in giro per mettere voti in libertà, facendo sì che i nostri elettori non si sentano obbligati a votare».
Ed è anche per questo che Bersani ha deciso di intensificare la propaganda in questa fase della campagna elettorale. Non a caso dal Pd, fra breve, verranno inviate una marea di email indirizzate a tutti gli elettori delle primarie: quasi tre milioni di italiani. Per il resto, il segretario incrocia le dita. Non ha paura di una vittoria di Berlusconi, perché non è prevista da nessun sondaggista, piuttosto teme quello che ha sempre temuto. Ossia che il centrodestra vinca sia in Sicilia che in Lombardia. Il leader del centrosinistra sa bene che, al di là delle chiacchiere e della propaganda, sono queste le regioni su cui punta il Cavaliere. Già, le due regioni che, per dirla con Bersani, possono tramutare il successo del Pd in una «vittoria azzoppata».

l’Unità 1.2.13
Anm: «Giù le mani dai nostri caduti»
Il sindacato delle toghe: «Falcone e Borsellino sono patrimonio del Paese Non strumentalizziamo tutto ciò, soprattutto in campagna elettorale»
di Tullia Fabiani


Richiami inopportuni. Paragoni che non è il caso di fare. L’Anm lo ha ricordato, ieri, che «la memoria di Falcone, Borsellino e di tutti i magistrati caduti deve essere mantenuta viva; loro sono un esempio per noi. Altri richiami, soprattutto in campagna elettorale sono inopportuni».
Inopportuno dunque che Antonio Ingroia, ex pm, ora leader di Rivoluzione Civile, facesse certe dichiarazioni. «Le battute e le velate critiche espresse da alcuni magistrati per la mia decisione di candidarmi sono un copione che si ripete. Fu così anche per Giovanni Falcone», aveva detto qualche giorno fa. Provocando la secca reazione di Ilda Boccassini, procuratore aggiunto di Milano: «Come ha potuto Ingroia paragonare la sua piccola figura di magistrato a quella di Giovanni Falcone? Tra loro esiste una distanza misurabile in milioni di anni luce. Si vergogni». Ma l’ex pm non aveva poi resistito a un’ulteriore, velenosa, replica: «La prossima volta pensi e conti fino a tre prima di aprire bocca. Quanto ai suoi personali giudizi su di me, non mi interessano e alle sue piccinerie siamo abituati da anni. Mi basta sapere cosa pensava di me Paolo Borsellino e cosa pensava di lei. Ogni parola in più sarebbe di troppo». Ecco, appunto. Troppo. Quanto detto è stato già abbastanza per sollecitare i vertici dell’Anm a stigmatizzare «polemiche che non vanno alimentate». «Non strumentalizziamo tutto ciò, soprattutto in campagna elettorale», hanno sottolineato Rodolfo Sabelli e Anna Canepa, presidente e vicepresidente. «Falcone e Borsellino hanno aggiunto sono patrimonio del Paese, della magistratura e della legalità: li onoriamo ogni volta, li ricordiamo a tutti i colleghi, anche a coloro che non li hanno conosciuti e che non hanno vissuto quei momenti».
Tra coloro che però quei momenti li hanno vissuti, c’è sicuramente Salvatore Borsellino, fratello di Paolo e presidente dell’associazione antimafia Agende Rosse. A lui era stata proposta una candidatura nella Rivoluzione Civile di Ingroia, ma ha rifiutato perché nel progetto «erano coinvolti partiti in stato di putrefazione come l’Idv».
«Porto il nome di Borsellino, quindi non mi potevo certo associare a nessuno di questi», ha precisato. Con lo stesso spirito si è perciò scagliato contro la polemica tra l’ex pm palermitano e Ilda Boccassini. «Contino entrambi fino a 30 prima di aprire bocca e lascino il nome di mio fratello fuori da questa campagna elettorale», ha dichiarato. «In questo caso il mio amico Ingroia ha già detto una parola di troppo ha poi aggiunto il suo intervento è stato fuori dalle righe. Antonio dovrebbe evitare di riferire cosa avrebbe detto una persona che è morta, gli avevo raccomandato di non tirare fuori il nome di mio fratello in questa campagna elettorale. Perché mio fratello non è mai entrato nelle campagne elettorali, non c’è mai voluto entrare e non ci vorrebbe certo entrare da morto».
Parole altrettanto definitive sono state pronunciate da Maria Falcone, sorella di Giovanni: «Non permetto a nessuno di parlare di Giovanni per autopromuoversi a livello politico». Anche in questo caso però Ingroia non ha resistito: «Io non ho mai usato il nome di Giovanni Falcone per i voti. Lei invece sì, quando si candidò per prendere il seggio al Parlamento europeo e non venne neppure eletta». Inutile dire che su certe polemiche davvero «ogni parola in più sarebbe troppo»; meglio lasciar stare certi paragoni. Per chi pensa di fare la Rivoluzione Civile anche così, troppo non è mai abbastanza.

l’Unità 1.2.13
La vergogna delle leggi razziali
risponde Luigi Cancrini
psichiatra e psicoterapeuta

I provvedimenti antiebraici di Mussolini furono in effetti l’anticamera dell’adesione allo sterminio nazista che avvenne di lì a pochi anni, ma la campagna antisemita era connaturata allo stesso fascismo. Le leggi razziali non nascono dal nulla e non sono un mero prodotto di importazione germanica: le leggi razziali appartenevano alla natura stessa del fascismo.
GIOVANNI TAURASI

Le parole più dure e più indovinate sull’ultima esternazione di Berlusconi sono quelle di Gattegna. Quello che manca a Silvio Berlusconi è il fondamento etico cui le persone perbene tendenzialmente ispirano il loro comportamento pubblico. Difendere Mussolini mentre si partecipa ad una manifestazione sulla Shoah significa semplicemente che l’uomo (Silvio) non si indigna neppure di fronte ad Auschwitz e alla memoria dell’Olocausto. Se lui si fosse trovato al posto di Mussolini, ci ha detto fra le righe, avrebbe fatto lo stesso perché i rapporti di forza con la Germania di Hitler «non permettevano delle alternative» alle leggi razziali e all’ingresso in guerra. L’uomo che mente con tanta facilità in privato e in pubblico, d’altra parte, e che con tanta facilità utilizza il potere politico per avvantaggiare se stesso e i suoi è anche l’uomo che non ha avuto difficoltà a rapportarsi a Mangano, alla mafia e ai capitali mafiosi. Un uomo, lo dice oggi Michael Stuermer, con cui non ci si dovrebbe neppure «sedere allo stesso tavolo» e che ancora aspira, invece, a guidare questo paese. Gridando di volerlo difendere dai «comunisti» cattivi. Come il suo predecessore e ispiratore massimo. Benito i cui peccati veniali lui è stato pronto ieri a «comprendere». Gettando il suo perdono, sul dolore di quelli che erano lì per ricordare i campi di sterminio e le camere a gas al cui funzionamento tanto Benito e i suoi avevano collaborato. Senza mai pentirsene.

La Stampa 1.2.13
Dalle ostriche alla Nutella l’anno della grande abbuffata
Il caso Fiorito ha scoperchiato in tutta Italia lo scandalo dei rimborsi gonfiati
di Mattia Feltri


Cocktail e rilevatore di autovelox Nella nota spese di Renzo Bossi ci sarebbero molti scontrini per cocktail, ma anche per Red Bull e patatine, oltre a un localizzatore di autovelox Cene di pesce Franco «Batman» Fiorito è stato il protagonista degli scandali nel consiglio regionale del Lazio: è sospettato di aver comprato un Suv coi soldi del partito Aperitivi Nicole Minetti è accusata di essersi fatta rimborsare un aperitivo da 832 euro all’Hotel Principe di Savoia di Milano, oltre al libro «Mignottocrazia» Biancheria intima Le consigliere liguri elette con l’Idv, Marilyn Fusco (foto) e Maruska Piredda, avrebbero comprato camicie, pantaloni, ma anche reggiseni push-up e slip
Rettifica: il consigliere regionale lombardo del Pd, Carlo Spreafico, non ha speso 2 euro e 70 per un vasetto di Nutella, ma pari cifra per una piadina che di Nutella era farcita. Però, se si pensa che tutto era cominciato a Roma, qualche mese fa, con le ostriche di Franco «Batman» Fiorito e le cene da 5 mila euro per ottanta ospiti del consigliere Francesco Battistoni (altra rettifica: lui dice 4 mila) al ristorante Pepenero di Capodimonte, lago di Bolsena, sarebbe legittimo considerare l’ipotesi del deciso miglioramento. Mica tanto. I regolamenti lombardi rimborsano le spese soltanto su presentazione dello scontrino, mentre nel Lazio ci si accontentava dell’autocertificazione. Peccato, avremmo qualche dettaglio in più su questo anno a crapule imperiali in cui - oltre all’ostrica presente per questioni di palato e di status in ogni menu e a ogni latitudine - va sempre fortissimo il tartufo: a Milano il consigliere leghista Davide Boni se n’è sbafato per 180 euro (cena da 644), bianco d’Alba, stessa qualità scelta dal collega pidellino Giorgio Pozzi, che radunò sempre al Baretto al Baglioni (cinque stelle Michelin) un po’ d’amici imprenditori a stendere strategie di sviluppo al costo di 3 mila e 320 euro, di cui 200 per vini, 400 per champagne e 882 per il regale tubero.
Parrebbe piuttosto un salto di qualità rispetto alle tagliate di tonno, ai gamberetti in salsa rosa, al risotto allo champagne, alle monumentali tagliatellate, a questi piatti démodé che gonfiavano i prezzi romani perché a tavola accorrevano a decine. Nicole Minetti s’è fatta restituire dal Pirellone 832 euro spesi per un aperitivo di rappresentanza al Principe di Savoia. La sete non è placabile e lo champagne è l’altra costante: Dom Pérignon, Taittinger, Paul Georg. Vecchissima regola: quando si ruba, non si bada a spese. Dalle enoteche arriva il Brunello di Montalcino e pure roba meno impegnativa, Syrah, Primitivo di Manduria. Il giovane Renzo «Trota» Bossi rimarca il salto generazionale gonfiandosi di Red Bull. Invita gli amici e brindano con Mojito, Aperol, Negroni, più sigarette regolarmente rifuse. Il collega federalista Pierluigi Toscani preferisce la Lemonsoda, al gruppo Pd il Crodino, laddove il compagno Spreafico si fa saldare il Biscotto a cinque stelle (Beppe Grillo non c’entra), un gelato Magnum e un paio di coni piccoli. Si sta degradando dal banchetto allo spuntino. Quando ha cali di zucchero, il «Trota» va di patatine Fonzies, ovetti Kinder e biscottini Ringo. Il Toscani ha crolli verticali e ricorre multiculturalmente a pizzette, cannoli, ciambelle, torte sbrisolone, crackers, gelati (senza esagerare: coppetta media e cono medio), frutta, persino ortaggi, e poi zucchero semolato, farina. Già che c’è, fa scorte per casa, pure di salsicce di Norimberga e lecca lecca.
Forse si sbrodolano, si macchiano, chissà: nel Lazio si compravano cravatte Marinella a venti alla volta. In Lombardia si notò l’acquisto di una sciarpa di cachemire. Il capolavoro nasce nel gruppo di Italia dei Valori in Liguria, dove a Maruska Piredda e Marilyn Fusco (splendide fin dalle generalità) si addebitano spese per camicie, felpe, pantaloni, ma anche reggiseni push-up, slip, pareo. Quanto a cura del corpo e presentabilità sociale, ecco borse e profumi Gucci e Bulgari. Per le stanze istituzionali, divani e ficus (totale, 2 mila e 148 euro). Colpisce che i consiglieri dipietristi girino alla comunità le pendenze del cibo dei gatti, ma è ammirevole anche l’amore per la cultura: escono denari per le opere di Giacomo Leopardi, Alessandro Manzoni, e poi Umberto Eco e Niccolò Ammaniti, manuali su Winston Churchill e la Seconda Guerra Mondiale, un’edizione della «Nuova matematica a colori». Come dimenticare che la simpatica Minetti scaricò «Mignottocrazia», il secondo libro che si ha notizia lei abbia impugnato (l’altro è «Cinquanta sfumature di grigio» in lingua inglese sulla spiaggia di Miami). Alla voce hobby sono memorabili i 757 euro ottenuti dall’onnipresente Toscani per cartucce da caccia, i videogames del Trota, elementi di modellismo nell’Idv Liguria, le foto in posa a mille euro della consigliera laziale Veronica Cappellaro (che accumulò un conto di 17 mila euro da Pasqualino al Colosseo), i fuochi d’artificio sempre a cura della Lega dove uno, non si sa chi, s’è fatto indennizzare il costo di una clessidra.
C’è soltanto da immaginare il fitto approvvigionamento di iPad, Blackberry, personal computer, stampanti, tablet, navigatori, telefonini vari. Il «Trota» s’è procurato un Orologio Oregon e un piccolo frigorifero mail colpo di classe del rampollo Bossi è il localizzatore di Autovelox, per circolare alle velocità della sua gioventù senza collezionare multe. Si sospetta che Fiorito coi pubblici denari abbia popolato il garage di Smart e Suv. Più modestamente un suo collega laziale presentava i buoni benzina Ip. Il consigliere lombardo Pd, a cui è stato ripagato l’euro del biglietto del tram, merita il titolo di eroe.

La Stampa 1.2.13
Il capogruppo del Pd Gaffuri
“Chi ha sbagliato pagherà Ma le vere spese pazze sono quelle di Pdl e Lega”
di Paolo Colonnello


Pd Luca Gaffuri, esponente del Partito Democratico
«Solo un minuto che devo pagare il pieno di benzina».
Scusi consigliere
Gaffuri, poi mette in nota spese?
«No, no, eh, eh, eh... pago di tasca mia, anche se sto andando in Regione».
Però molti suoi colleghi si fanno rimborsare.
«Cosa vuole che le dica? Dipende, spesso siamo in giro per la nostra attività politica».
Luca Gaffuri, capogruppo Pd in Regione Lombardia ha da poco ricevuto un invito a comparire. «Le mie spese ammontano a 22 mila euro, di cui 8.000 sono quelle sostenute come capogruppo, avendo a disposizione la carta di credito che usavo quando per esempio ci fermavamo più giorni in giro in Lombardia. Altre spese per 14 mila euro sono relative a spese di rappresentanza, piuttosto che francobolli per spedizioni a cittadini».
Niente di illegale?
«Direi di no».
Certo uno non immaginerebbe mai quanto costi fare il consigliere, eh?
«Il Pd ha rimborsato 72 mila euro in due anni e mezzo a 21 consiglieri per trenta mesi fanno media di 102 euro al mese. Tanto per fare un paragone, i consiglieri della Lega risulta che avevano un budget di 1500 euro al mese, che moltiplicato per 20 consiglieri per 30 mesi, fanno 900 mila euro».
Insomma, non siete uguali agli altri?
«Certo non abbiamo spese per pranzi di nozze o cartucce da caccia».
Vero. Ma la Nutella? Politicamente dove sta?
«Ecco, vede, credo che il consigliere Spreafico abbia fatto un errore a presentare quella ricevuta, ma si tratta di una piadina alla Nutella pagata a un consigliere provinciale alla fine di un convegno... ».
E l’affitto di un box a Lecco?
«Spreafico aveva la sua sede territoriale a Lecco, riconosciuta dalla Regione e collegato aveva questo box che usava come magazzino e parcheggio».
È le bollette di luce e gas a Corbetta del consigliere Prina?
«Idem come sopra, sede territoriale del consigliere, riconosciuta dalla Regione»
Tutto in regola, quindi?
«Ritengo che sia giusto fare una verifica approfondita e che i consiglieri rendano conto di ciò che hanno speso. Noi ci sentiamo a posto e non accettiamo certo lezioni da Pdl e Lega. Comunque se vi saranno delle inopportunità penso che ogni consigliere dovrà motivarlo personalmente. E se ci saranno rinvii a giudizi, le candidature salteranno».

La Stampa 1.2.13
Fuga dagli atenei. Persi in dieci anni 58 mila studenti
Calano anche finanziamenti, corsi e docenti L’università non garantisce più il futuro?
di Flavia Amabile


Ormai è una certezza: l’Università non è più né uno status sociale né un sogno da realizzare a tutti i costi o un parcheggio in attesa di idee migliori. È una scelta effettuata sempre più da chi pensa che valga la pena investirci tempo e denaro perché di lì passerà il suo futuro.
L’ennesima conferma è nel documento del Cun (Consiglio universitario nazionale) indirizzato all’attuale Governo e Parlamento, alle forze politiche impegnate nella competizione elettorale, «ma soprattutto a tutto il Paese».
Dal 2009 il Fondo di finanziamento ordinario (Ffo) è sceso del 5% ogni anno, è scritto nel documento. In dieci anni gli immatricolati sono scesi da 338.482 (2003-2004) a 280.144 (2011-2012), con un calo di 58 mila studenti, vale a dire del 17%. Come se in un decennio fosse scomparso un ateneo come la Statale di Milano, precisa il Cun. La crisi è diffusa in tutt’Italia ed estesa a quasi tutti gli atenei anche se esistono eccezioni come l’ateneo di Bologna dove negli ultimi tre anni le iscrizioni sono aumentate dell’1%.
I 19enni sono più o meno gli stessi - in cifre - negli ultimi 5 anni, ma le loro iscrizioni sono calate del 4% in tre anni: dal 51% nel 2007-2008 al 47% nel 2010-2011.
Né i risultati sono migliori se si guarda al numero dei laureati. L’Italia è molto al di sotto della media Ocse con il suo 34° posto su 36 Paesi. Solo il 19% dei 30-34enni ha una laurea, in Europa la media è del 30%. Il 33,6% degli iscritti è fuori corso mentre il 17,3% non fa esami.
Tutto lascia pensare che il calo non si fermerà presto. Il fondo nazionale per finanziare le borse di studio è stato molto ridotto a partire dai primi anni del governo Berlusconi. Nel 2009 i fondi nazionali coprivano l’84% degli studenti aventi diritto, nel 2011 il 75%.
In sei anni sono stati eliminati 1.195 corsi di laurea. Quest’anno sono scomparsi 84 corsi triennali e 28 corsi specialistici-magistrali. All’inizio si trattava di una necessità di razionalizzare, ora invece soprattutto di fare economia sul personale docente.
Rispetto alla media Ue, in Italia 6.000 giovani in meno si iscrivono ai corsi di dottorato. L’attuazione della riforma del dottorato di ricerca prevista dalla riforma Gelmini è ancora ferma e il 50% dei laureati segue i corsi di dottorato come una forma di volontariato personale, senza borsa di studio.
In sei anni (2006-2012) il numero dei docenti si è ridotto del 22%. Nei prossimi tre si prevede un ulteriore calo. Contro una media Ocse di 15,5 studenti per docente, in Italia la media è di 18,7. Pur considerando il calo di immatricolazioni, il rapporto docenti-studenti è destinato ad aumentare ancora: i docenti sono in calo e lo saranno ancora nei prossimi anni e gli atenei hanno subito forti limitazioni sui contratti di insegnamento. Dal 2001 al 2009 il Fondo di finanziamento ordinario (Ffo), calcolato in termini reali aggiustati sull’inflazione, è rimasto quasi stabile, per poi scendere del 5% ogni anno, con un calo complessivo che per il 2013 si annuncia prossimo al 20%. Impossibile, quindi, programmare la didattica o la ricerca.

Corriere 1.2.13
Pdl e Lombardia bloccano il «riccometro»
Finti poveri, stretta rinviata. Lupi: governo dimissionario. Fornero: lavoro sprecato
di Roberto Bagnoli


ROMA — Il governo rinuncia ad approvare il nuovo «riccometro» — tecnicamente Isee — destinato a rimodulare la situazione economica dei contribuenti per scovare i finti poveri che usufruiscono dei servizi sociali senza averne diritto. Il Consiglio dei ministri, sotto pressione per il no della Regione Lombardia (l'unico tra le 20 Regioni), ha così deciso di lasciar perdere e non ha nemmeno aperto il dossier durante il Consiglio dei ministri. Il titolare del Welfare, Elsa Fornero, non ha nascosto la sua delusione perché «si è sprecato un lavoro fatto con grande serietà e durato molti mesi». Per l'ok definitivo al decreto della presidenza del Consiglio dei ministri (Dcpm) mancavano solo alcuni passaggi come il parere non vincolante delle commissioni parlamentari competenti e il vaglio del Consiglio di Stato.
Ma ora è tutto inutile. Il riccometro, ricordiamo, è lo strumento che, insieme al redditometro per stanare gli evasori, fa parte della manovra per rendere più stringente la spesa pubblica. Doveva essere operativo entro maggio ma la norma era però inciampata nei rilievi della Corte costituzionale per il mancato coinvolgimento di Regioni, Province e Comuni. Dopo una serie di contatti tra il ministero del Welfare e i rappresentanti nazionali degli enti locali, il nuovo strumento ha preso forma. Ma con l'opposizione della Lombardia. Maurizio Lupi, vicepresidente della Camera ed esponente di Comunione e liberazione, motiva il no con due considerazioni. Una politica: «Non si approva una legge così importante che comporta grandi conseguenze per le famiglie con un governo dimissionario». Una di merito: «Non c'è il coefficiente famigliare come noi avevamo chiesto, né si calcolano i costi della famiglia per accedere ai servizi, il governo non ha recepito le nostre osservazioni».
Il sottosegretario al Welfare Cecilia Maria Guerra che, insieme al ministro ha seguito la pratica, la pensa diversamente. «Prima di tutto non sono semplici osservazioni ma richeste che avrebbero comportato la riscrittura del provvedimento — spiega — e poi non capisco perché la Lombardia non le abbia portate avanti prima ma solo adesso, non vorrei che sia tutta una manovra da campagna elettorale». Nel merito Guerra precisa che il «coefficiente familiare non c'è perché le politiche familiari si fanno con il Fisco e le tariffe, l'Isee deve essere il più asettico possibile e deve valere anche, come ha sentenziato la Consulta, a livello nazionale». Insomma non è possibile che ogni Regione si faccia il suo riccometro.
Il provvedimento avrebbe avuto una ricaduta importante sui bilanci delle famiglie. Il Comune di Bologna, per esempio, recentemente, ha fatto delle simulazioni e scoperto che — solo per i servizi scolastici — avrebbe incassato quasi 650 mila euro in più. L'Isee serve per «misurare» la situazione economica del nucleo familiare e accedere ai servizi pubblici: dall'asilo nido all'università, dagli assegni di maternità agli sconti sulle bollette. Ma della riforma, ormai, si occuperà il prossimo esecutivo.

l’Unità 1.2.13
Il futuro de La7: alti rischi per pluralismo e competitività
di Enrico Menduni


Della vendita de La7 da parte di Telecom Italia si parla ormai da molto tempo e il termine della scadenza per presentare le proposte di acquisto è scaduto proprio ieri.
Il pacchetto comprende anche il 51% di Mtv, ma l’asset più goloso sono i multiplex di cui La7 dispone per trasmettere sul digitale terrestre e che hanno profittevoli utilizzazioni nella telefonia e nelle telecomunicazioni.
La7 è una rete intraprendente, simpatica e particolarmente vocata all’informazione, ma perde 120 milioni all’anno e l’ascolto, che può sembrare alto a chi è attento al dibattito politico e di attualità, ha un dato medio del 3,46% nel 2012. Un peso per Telecom Italia sempre meno sostenibile in termini politici prima ancora che finanziari. Delle due offerte rimaste in lizza ora sembra prevalere quella del gruppo Cairo, che è il concessionario della sua pubblicità fino al 2019.
L’offerta di Cairo è quantitativamente bassa, perché Telecom Italia si impegnerebbe a ripianare il debito e aumentare la pubblicità sulla rete; ma soprattutto lascerebbe a Telecom i multiplex che sono al momento l’asset che dà profitto. Quella del «Fondo Clessidra», il concorrente, è più alta (si parla di 300 milioni) ma prevede la cessione dei multiplex. È questo aspetto che sembra favorire Cairo.
Il 7 febbraio, quando si riunirà il Cda di Telecom Italia, forse il nodo si scioglierà, ma gli interrogativi sono molti.
a) La perdita di esercizio de La7, insostenibile per chi non abbia le spalle grosse come Telecom Italia, non è contenibile senza una drastica cura dimagrante e quindi qualsiasi acquirente farà fatica a mantenere l’alto profilo informativo della rete.
Appare quasi che Telecom Italia, cedendo quasi gratuitamente la rete, passi ad altri il compito davvero molto ingrato di tagliare risorse umane e censurare contenuti informativi.
b) È difficile sopravvivere con i colossi generalisti (Rai + Mediaset) e con Sky di nicchia alta (insieme fanno il 90% delle risorse televisive) con una rete e mezza (Mtv Italia) e ascolti al 4%.
c) «Clessidra» sembra interessata solo ai multiplex e non ha nessuna esperienza televisiva. Potrebbe sostanzialmente ridimensionare il canale Tv.
d) Cairo proviene dal gruppo Berlusconi e già si sostiene che il suo arrivo ridimensionerebbe l’aggressività de La7 nei confronti sia del politico Berlusconi che soprattutto dei suoi canali che non versano in buone acque. Anche senza indulgere alla dietrologia, peraltro in questo caso legittima, siamo di fronte a un ridimensionamento del pluralismo informativo in Italia. e) È brutto dirlo così brutalmente, ma non ci sono oggi in Italia le risorse per sette canali generalisti. L’ascolto è un po’ salito per la crisi: 26 milioni di spettatori, più che negli anni Ottanta. Ma sono spettatori senza soldi, la pubblicità sembra preferire Internet e parte dei telecomandi cliccano su canali meno generalisti gratuiti, mentre la fascia alta spende per Sky. Quale Paese europeo si può oggi permettere questo grande ventaglio?
La grande scommessa sarebbe quella di un «disarmo bilanciato» del sistema televisivo generalista, senza perdere in pluralismo informativo e in diversità culturale; anzi, visto che l’uno e l’altra sono in quantità modesta, accrescendoli in modo straordinario. Ma chi è oggi in grado di guidare un processo del genere? È dubbio che la governance del sistema televisivo possa farlo. Intanto ci sono i casi come quello de La7 e il rischio di una perdita secca di competitività e pluralismo.

il Fatto 1.2.13
Affare La 7, ultimo tentativo per fermare il regalo a Cairo, l’amico di Berlusconi
di Stefano Feltri

IL FONDO CLESSIDRA MIGLIORA L’OFFERTA. IL PRESIDENTE DI TELECOM BERNABÈ PROVERÀ A BLOCCARE L’AMICO DI BERLUSCONI

La storia di La7 è piena di giorni decisivi. Quello di ieri è stato l’ennesimo di una lunga serie: scadeva il termine per presentare miglioramenti alle offerte vincolanti in vista del consiglio di amministrazione di Telecom, la controllante, che dovrà esaminarle il 7 febbraio. Il fondo Clessidra di Claudio Sposito, di cui è consulente Marco Bassetti, ha ritoccato l’offerta. Così da rimanere in corsa contro Urbano Cairo, il concessionario di pubblicità del canale pronto a comprarselo.
CHI SI ASPETTA che il cda di giovedì prossimo segni la fine della storia si metta l’animo in pace. Franco Bernabè, il presidente di Telecom, che controlla Telecom Italia Media di cui La7 è il pezzo più importante, non ha nessuna fretta. In tutte le occasioni ha ribadito che lui vende solo al giusto prezzo, tanto le sorti di un colosso come Tele-com non dipendono certo da una provincia dell’impero quale è la piccola tv.
La situazione è la seguente. Telecom Italia Media è composta da due tronconi: La7, Mtv e Mtv Pubblicità da una parte e Telecom Italia Broadcasting, cioè antenne e frequenze, dall’altra. La7 e Mtv bruciano cassa, l’infrastruttura guadagna. Nei primi nove mesi del 2012 l’Ebitda, cioè il risultato della gestione prima di interessi sul debito e tasse, era negativo di 47,9 milioni per La7, di 6,5 milioni per Mtv mentre invece era positivo di 32,5 milioni per l’operatore di rete, Telecom Italia Broadcasting (soprattutto grazie all’affitto ad altri soggetti delle piattaforme di trasmissione). Clessidra vuole comprare tutto, la tv e l’infrastruttura, Cairo punta soltanto a La7 e Mtv. E prendendosi quindi la parte meno redditizia, si aspetta che Telecom gli dia un incentivo, una sorta di dote da un centinaio di milioni di euro. In pratica che Bernabè lo paghi per togliere dal perimetro Telecom una fonte di perdite.
I giornalisti di La7 cominciano a essere preoccupati: sono noti i legami di Cairo con Silvio Berlusconi. E con l’imprenditore torinese – suo è anche il Torino calcio – non c’è alcuna garanzia sulla linea editoriale e l’autonomia della televisione, diventata ormai quasi una all news (sono i programmi di informazione a dare identità alla rete). Per il budget 2013 è già previsto un taglio del 30 per cento ai costi.
CHI CONOSCE bene il dossier spiega che Cairo non ha alcun interesse a smontare il “modello La7”: il suo obiettivo, anche da editore, sarà comunque trovare pubblicità. Che arriva soltanto con gli ascolti (e fare una tv commerciale di innocuo intrattenimento è più costoso di una imperniata sull’informazione). Con Cairo, comunque, il legame con Telecom non sarebbe rescisso, visto che l’infrastruttura di trasmissione resterebbe del gruppo telefonico.
Ma è chiaro che in tanti, dentro La7, si sentirebbero più tranquilli con Clessidra, a cominciare dai protagonisti dell’informazione dell’emittente che sperano di trovare un editore puro che garantisca loro un controllo forte sui contenuti. Un accordo che magari si potrebbe sancire versando anche una fiche nella nuova società, secondo un’ipotesi circolata nei mesi scorsi.
IN BORSA gli investitori si divertono a trasformare ogni minima indiscrezione in uno spunto per muovere il titolo: ieri le azioni di Telecom Italia Media hanno chiuso in rialzo di quasi il 6 per cento. Ma la verità è che Bernabè non avrebbe alcuna fretta (e probabilmente alcuna voglia) di liberarsi di La7. Solo che anche lui ha datori di lavoro cui rispondere, cioè i soci di Telco, la holding che controlla Telecom Italia. Sia Mediobanca che le Generali gradirebbero una vendita in tempi rapidi. Ma la burocrazia dell’operazione è abbastanza complessa da permettere al presidente di Telecom di prendere tempo senza mai togliere formalmente dal mercato la televisione.
Non è scontato, però, che il cda si schieri tutto con il presidente, visto l’attivismo di Cairo (e l’offerta concreta di Clessidra, si parla di 350 milioni di euro). C’è ancora una settimana, poi si arriverà all’ennesima giornata decisiva. Anche Cairo, tutto sommato, ha come obiettivo minimo che lo share regga: se supera i 120 milioni di euro di raccolta pubblicitaria la sua provvigione si impenna. E anche l’infinito dibattito sulla cessione del canale aiuta. Bene o male, purché se ne parli.

il Fatto 1.2.13
Regione Lazio
Anche un prete a libro paga, 25 mila euro per dire messa
di Luca Teolato


La riconoscenza ecclesiale val bene una messa, anzi, più di una, tanto paga pantalone. Questo forse avrà pensato il neo, si fa per dire, candidato alla guida della Regione Lazio per il centrodestra, Francesco Storace, quando, governatore della stessa nel 2003, ha deciso di assumere un cappellano in Giunta, al modico costo di 12.500 euro annui per celebrare qualche messa. Importo cresciuto con l’amministrazione Marrazzo a circa 25 mila euro e mantenuto dalla Polverini sugli stessi standard. Risultato: in dieci anni sono stati spesi quasi 200 mila euro di soldi pubblici per celebrare messe alla Regione Lazio. Il fortunato cappellano regionale è padre Achim Schutz, docente di Antropologia teologica presso la Pontificia Università Lateranense e segretario della pontificia Commissione internazionale d’inchiesta su Medjugorje. “Le casse regionali sono in profondo rosso da anni – denuncia Domenico Farina coordinatore Usb Pubblico Impiego – si tagliano posti letto e servizi vari in nome del risanamento economico ma si stipendia un prete per fargli celebrare poche messe all’anno. Uno schiaffo ai cittadini che continuano a pagare sulla propria pelle i disastri delle amministrazioni succedutesi in questi anni”.
ALCUNI DIPENDENTI che usufruiscono del servizio di “assistenza religiosa” sono pronti a giurare che ultimamente padre Schutz viene in Regione ben due volte a settimana per celebrare la messa la mattina presto, otto ore di lavoro al mese per 2 mila euro, spiegazione che non attenua il malcontento di molti impiegati che, lavorando full time, possono soltanto sognare una retribuzione così generosa. “Il cappellano – comunicano dall’ufficio contabilità della Regione – oltre a percepire questo stipendio usufruisce anche dei buoni pasto. Qualsiasi dipendente per ottenerli deve lavorare almeno sette ore e un minuto al giorno, per quale motivo padre Schutz che al massimo viene due ore a settimana deve avere anche questo servizio? ”.
Come se non bastasse la Regione, oltre a stipendiare il cappellano, si fa carico delle spese di manutenzione ordinaria e straordinaria della cappella interna, sacrestia e arredi vari, della pulizia dei locali, del posto auto per il prete e perfino dei rimborsi spese per paramenti sacri, libri liturgici e affini.
“A parte il fatto che siamo nella capitale mondiale delle chiese e c’è una parrocchia di fronte alla Giunta – dichiara Ivano Peduzzi, capogruppo Fds in Regione, candidato di Rivoluzione Civile alle prossime elezioni regionali – la questione è un’altra. Per quale motivo un’amministrazione pubblica deve spendere dei soldi e tanti per delle funzioni religiose? Siamo in uno stato laico, fino a prova contraria, qui si è fatto un salto nel passato di due secoli, siamo ritornati allo stato Pontificio. Uno dei primi impegni da assolvere dopo le elezioni regionali è l’eliminazione immediata di questo servizio a pagamento. Se qualcuno vuole venire a celebrare messa lo faccia pure ma gratis, i soldi pubblici servono ad altro, soprattutto in questo drammatica fase economica, della Regione e del Paese”.
UNA SEPARAZIONE dei poteri non contemplata dalla Polverini che cominciò il suo mandato nel 2010, come governatore della Regione Lazio, proprio con una messa di buon auspicio officiata da don Schutz che nella sua omelia citò un passo del Vangelo secondo Giovanni con un invito “a coltivare la terra”. “Chi riesce ad auto educarsi – disse il cappellano della Regione – e a contribuire alla formazione del genere umano compie un atto di culto”. Viste le ultime vicende che hanno costretto la Polverini alle dimissioni, il buco di 10 miliardi di euro lasciato da Storace nella passata amministrazione da lui presieduta ampliato da Marrazzo e gli scandali vari annessi, questa assistenza religiosa, oltre ad essere uno spreco inconcepibile di risorse pubbliche, sembra essere anche poco efficace.

il Fatto 1.2.13
L’immaginario Pd, quando godere è colpa
Presentati ieri i due spot elettorali firmati dal regista di “Benvenuti al sud”
di Andrea Scanzi


Benvenuti al Sud, poi al Nord e infine nel Pd. Dopo i successi al cinema, Luca Miniero spera di portare fortuna elettorale al Partito Democratico. Firmando i due video-spot, Il bacio (trenta secondi) e Il parto (un minuto). Sono stati presentati ieri. Protagonisti un uomo e una donna (giovani). Obiettivo: accendere “i riflettori su eventi importanti per la vita di ciascuno ma che nell'Italia di oggi rischiano addirittura di suscitare problemi, invece che felicità”. Sono novanta secondi illuminanti, che raccontano con efficacia la Weltanschauung del centrosinistra. La sua idea di mondo, orgogliosamente edulcorata e democraticamente rassicurante. Se il Male esiste, è passeggero e comunque di destra (nonché populista). Il bacio potrebbe essere uno spin-off di Muccino (Gabriele, ma pure Silvio). Il parto sembra il videoclip di una delle 318 canzoni dedicate da Jovanotti a sua figlia. Entrambi i video si chiudono con l’inno speranzoso di Gianna Nannini: “Mi ricordo di te/ sorso d’acqua tra le dita/ Se ti stringo vai via/ pioggia o lacrima tornerai” (è aperto il dibattito se con quel “se ti stringo vai via” il Pd intenda alludere alla vittoria). Slogan finale: “Il nostro sarebbe un paese più bello, se fosse più giusto. Il 24 e 25 vota per l’Italia giusta”.
I VIDEO, ben girati e interpretati, intendono rassicurare. Più che trasmettere grintosa appartenenza, si presentano come placidi balsamo per un elettorato docilmente malmostoso. I dialoghi sono immaginari: i protagonisti non parlano, ma pensano (e già qui c’è dell’autobiografismo). La donna è proiettata nel futuro, l’uomo un tenero bamboccione (“Io penso ai pannolini adesso”, “I figli costano, il lavoro non ce l’ho”). Si evince con media ragionevolezza che il godimento, nel mondo del Pd, assurge a colpa. Prima di baciarsi (e figuriamoci se stessero per fare sesso), il ragazzo e la ragazza palesano dubbi amleticamente strazianti. Emblematica la frase di lei: “Mi piace un sacco, meglio che non lo bacio” (trasposizione fedele del “Vorrei ma non posso” bersaniano). L’appagamento corporeo è un lusso reazionario: nulla conta senza amore (Venditti, prima o poi, torna sempre). La donna, nell’atto di partorire, denota encomiabili afflati femministi: “Oggi in Italia per una donna non è mica facile. E io sto partorendo una bambina”. Il compagno, in un’altra stanza ma sulla stessa lunghezza d’onda emotiva, riflette: “Se sta già pensando alle quote rosa…”. Persino nel momento di diventare padre, l’elettore Pd non pensa a se stesso ma è arrovellato dal dilemma se alle prossime elezioni una Serracchiani Jr. avrà il suo posto in lista. Quel che si dice senso civico. Dai cortometraggi di Miniero emerge l’identikit di un attivista buono e buonista. Un boy scout affidabile e scarsamente godereccio, forse per discostarsi dai cattivi maestri del bunga bunga. Sesso è procreazione, un bacio è per sempre. Ogni cosa è illuminata, come pure penitenziale. Come si cambia per non morire. Come si vota per non godere.

il Fatto 1.2.13
Il “Führer” serbo e la rete “nera” di Trieste
Sempre più forti i legami tra nazionalisti balcanici e italiani
di Elisabetta Reguitti


La matassa nera dall’Est si dipana anche nel Triveneto da quando Goran Davidovi detto il “Führer” ha fatto tappa a Verona in occasione dell’assemblea del Progetto Nazionale fondato dall’imprenditore Piero Puschiavo che in un’intervista aveva dichiarato: “L’unico rimpianto è aver fatto troppo poco per elevare i valori e gli ideali della nostra tradizione nella quale si inserisce la lotta ai gay che sono dei falliti, la loro patologia è incurabile”.
DAVIDOVI invece, condannato a un anno di carcere per istigazione all’odio razziale, nazionale e religioso è il capo del “Nacionalni Stroj” (“Formazione nazionale”) il piccolo movimento serbo di ultra-destra che nel 2011 venne dichiarato fuorilegge dalla Corte costituzionale di Bel-grado. Il “Führer” vive e lavora a Trieste città natale, tra l’altro, di Alba Dorata Italia costola del movimento filonazista greco.
La complessa e frammentata galassia di realtà che cavalcano nazionalismi e localismi prosegue il suo processo di espansione. La nuova rete neonazista, attiva soprattutto in Internet, si estende in Germania, Francia e anche Spagna oltre che nei laboratori dell’Est come Polonia, Ungheria e Romania. Ma comprende anche la Russia e più a sud Grecia, Cipro, passando dall’Italia, la porta d’ingresso sembra dunque essere proprio Trieste dove il quotidiano Il Piccolo ha riportato il fatto e le parole del Davidovi che riferendosi al primo cittadino di Verona, Flavio Tosi, avrebbe detto di apprezzarlo: “Anche se è della Lega Nord, il sindaco è stato appoggiato dai nostri camerati e Piero Puschiavo ha un’ottima collaborazione con la Lega”.
L’unica certezza è che Progetto Nazionale punta verso Roma presentando le sue liste in Veneto sia per la Camera che per il Senato e, sempre secondo il leader serbo, “questo gruppo di rivoluzionari della defunta Fiamma Tricolore ha il sostegno di molte altre organizzazioni nazionalistiche tra cui Veneto fronte skinhead (Vfs) ”.
Secondo le stime, in Europa, sarebbero oltre 250mila i militanti neonazisti cui vanno aggiunti altri 50mila dell’ex “rossa” Russia. Proprio la fine del comunismo avrebbe fatto esplodere numerose micro realtà di filo-nazisti dalla forte impronta xenofoba, sentimenti alimentati dalle gravi situazioni di disagio causate dalla crisi economica soprattutto nelle giovani democrazie come Slovacchia, Repubblica Ceca e Ungheria. I neonazisti spaventano e non poco anche Strasburgo: solo qualche giorno fa, in apertura dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa (Cde), oltre 30 parlamentari hanno sostenuto la richiesta dell’onorevole Fiamma Nirenstein di ritirare le credenziali a due membri del Cde. Si tratta di Tamas Gaudy Nagy del partito ungherese Jobbik e Eleni Zaroulia del greco Alba Dorata.
INTANTO LA Serbia del “Führer” Davidovi guarda all’Unione europea; esattamente un anno fa ha presentato la sua candidatura per l’ingresso alla Ue. Per gli esperti questa decisione avrebbe favorito un’accelerazione delle catture di militari e non accusati di gravi crimini contro l’umanità durante la guerra dell’ex Jugoslavia. Rimane poi ancora tutta aperta la questione dell’indipendenza proclamata unilateralmente del Kosovo. E la matassa nera dell’Est è sempre più ingarbugliata.

il Fatto 1.2.13
Mali. Salvi i manoscritti di Timbuctù

La maggioranza dei manoscritti custoditi nella biblioteca di Timbuctù è sopravvissuta all’attacco condotto dai ribelli islamici, secondo l’agenzia per la tutela della cultura dell’Onu, l’Unesco: “Circa 3 mila” dei 40 mila manoscritti conservati sono stati dati alle fiamme dagli islamisti. LaPresse

Corriere 1.2.13
L'Onu condanna Israele: «Rimuovete tutte le colonie»
di Davide Frattini


GERUSALEMME — I cinquanta testimoni sono stati ascoltati in Giordania perché Israele non ha concesso l'ingresso ai tre magistrati. Non riconosce la missione — «abbiamo deciso di non rispondere alle loro lettere e neppure alle telefonate» — e boicotta il Consiglio per i diritti umani che lo scorso marzo li ha incaricati di valutare «l'influenza delle colonie ebraiche sulla vita nei territori palestinesi».
I risultati di questi mesi d'indagine sono raccolti in trentasette pagine: condannano gli insediamenti costruiti in Cisgiordania e nelle zone di Gerusalemme Est, invitano la comunità internazionale a prendere in considerazione sanzioni economiche e politiche. «Abbiamo messo in evidenza la responsabilità degli Stati, perché questi sono problemi noti a tutti e nessuno fa nulla per risolverli. Anche le aziende private che operano nei o con i territori devono vagliare il rispetto dei diritti umani e delle leggi internazionali». È la prima volta che la proposta di boicottaggio arriva da un organismo delle Nazioni Unite.
Il ministero degli Esteri israeliani definisce il dossier «controproduttivo e fazioso»: «L'unico modo di risolvere tutte le questioni aperte con i palestinesi, compresa la questione degli insediamenti, è negoziare senza pre-condizioni. Interventi come quello dell'Onu minano gli sforzi per trovare un accordo di pace. Il Consiglio per i diritti umani si è già distinto in passato per il suo approccio anti-israeliano, questa è solo una conferma», commenta il portavoce Yigal Palmor. Hanan Ashrawi, tra i leader dell'Organizzazione per la liberazione della Palestina, è esaltata dall'inchiesta: «Offre il quadro sincero ed esemplare delle violazioni israeliane».
La francese Christine Chanet, che ha guidato la Commissione, chiede che lo Stato ebraico «cessi tutte le attività legate all'espansione delle colonie, fornisca un adeguato ed efficace risarcimento alle vittime e inizi immediatamente il processo di ritiro». Gli insediamenti — spiega il magistrato da Ginevra — contravvengono alla Quarta Convezione di Ginevra che proibisce di trasferire la propria popolazione civile in aree occupate: «Un'infrazione che può venire considerata crimine di guerra e finisce sotto la giurisdizione della Corte penale internazionale». A fine novembre l'Assemblea generale dell'Onu ha riconosciuto la Palestina come Stato osservatore, una posizione che permette all'Autorità di Ramallah di ricorrere ai giudici dell'Aja.
Il rapporto calcola 250 colonie realizzate dal 1967 per un totale di 520 mila abitanti: «Un'annessione strisciante che impedisce la nascita di uno Stato palestinese e mina il dritto all'autodeterminazione di un popolo».
I testimoni hanno raccontato degli attacchi organizzati dai coloni. «La Commissione è convinta che la motivazione dietro a questa violenza sia intimidire i palestinesi e spingere la popolazione locale ad andarsene per permettere la crescita delle colonie. I bambini subiscono abusi e per loro è difficile frequentare le scuole, questo limita il diritto di accesso all'educazione».
Già martedì, prima della pubblicazione del dossier, la delegazione israeliana a Ginevra non si è presentata per l'«esame periodico universale», che serve a determinare la situazione umanitaria in tutti i 193 Paesi membri dell'Onu. È la prima volta che uno Stato boicotta l'«esame» ed è la risposta alle iniziative del Consiglio per i diritti umani che il premier Benjamin Netanyahu considera ossessionato da Israele. «Finora ha adottato 91 decisioni: 39 di esse riguardavano noi, tre la Siria e una l'Iran», aveva dichiarato lo scorso marzo.

l’Unità 1.2.13
Israele, il raid in Siria scatena Teheran
Dopo l’attacco aereo a un sito militare vicino Damasco, Iran e Hezbollah avvertono: «Reagiremo»
Nel mirino Tel Aviv
di Umberto De Giovannangeli


Damasco si riserva il diritto di risposta. Beirut, Teheran, Mosca si schierano a fianco del governo siriano. Sale in Medio Oriente la tensione dopo il raid aereo israeliano compiuto in Siria, il primo da cinque anni a questa parte. «Ci saranno serie conseguenze per la città israeliana di Tel Aviv»: così l’Iran, per bocca del viceministro degli Esteri Hossein Amir Abdollahian, citato dai media Usa, minaccia una rappresaglia contro lo Stato ebraico dopo l’attacco aereo contro un sito militare siriano. Una minaccia rilanciata anche dall'ambasciatore siriano in Libano che, dal canto suo, ha affermato che Damasco si riserva il diritto di compiere una rappresaglia contro Israele per l’attacco nella notte tra martedì e mercoledì.
DIRITTO DI RAPPRESAGLIA
La Siria potrebbe «prendere la decisione a sorpresa di rispondere al’'aggressione degli aerei israeliani», afferma il diplomatico, Ali Abdul Karim, citato dal sito Tayyar della Corrente patriottica libera, il partito cristiano di Michel Aoun alleato degli Hezbollah filo-siriani.
L’Egitto condanna «l’aggressione israeliana contro il territorio siriano» e mette in guardia dal ripetersi di simili attacchi che «sono pericolosi per la sicurezza regionale». A sostenerlo è il ministro degli Esteri egiziano Kamel Amr a proposito del raid su un centro di ricerca militare siriano, che, rimarca, è una violazione del diritto internazionale. Amr ha chiesto alla comunità internazionale di contestare formalmente a Israele la responsabilità di queste «aggressioni contro terre arabe».
«Piena solidarietà con la leadership siriana, l’esercito e il popolo». Così Hezbollah, in un comunicato, esprime la sua solidarietà al regime e condanna «l’attacco israeliano contro un centro di ricerca siriano», sostenendo che si è trattato di un tentativo di contrastare le capacità militari arabe e impegnandosi ad essere alleati del presidente Assad. Il segretario generale della Lega araba Nabil el Araby ha condannato «l’odiosa aggressione» israeliana affermando che rappresenta «una violazione chiara della sovranità di uno Stato arabo e contravviene la carta Onu». El Araby ha sollecitato la comunità internazionale ad assumersi la sua responsabilità davanti alle «aggressioni» israeliane ed ha confermato il diritto di Damasco «di difendere la sua terra e la sua sovranità».
L'azione compiuta da Israele ha provocato la reazione della Russia, che attraverso una nota del ministero degli Esteri ha espresso «profonda preoccupazione» per le informazioni relative al fatto e che, «se venissero confermate, starebbero a indicare che siamo di fronte ad attacchi ingiustificati contro obiettivi nel territorio di uno Stato sovrano, un fatto che viola palesemente la Carta Onu e che è inaccettabile a prescindere dalle motivazioni utilizzate per giustificarlo». Di tenore opposto è la reazione di Washington. La Casa Bianca ha messo in guardia la Siria contro ogni tentativo di trasferire armi a Hezbollah, dopo informazioni su un raid israeliano alla frontiera siro-libanese contro un convoglio che trasportava armi provenienti dalla Siria. «Non serve che la Siria destabilizzi ancora di più la regione trasferendo armi a Hezbollah», dichiara Ben Rhodes, vice consigliere alla sicurezza nazionale del presidente Barack Obama, durante una conferenza telefonica. Israele aveva informato gli Stati Uniti della sua intenzione di attaccare obiettivi militari in Siria, stando a quanto rivelato da funzionari Usa al New York Times. Secondo il NYT e il Wall Street Journal i caccia israeliani avrebbero colpito un carico di missili SA-17 di fabbricazione russa, diretto agli Hezbollah libanesi, in una zona a ovest di Damasco.
SILENZIO
Un totale riserbo è stato mantenuto anche ieri dalle autorità, politiche e militari, israeliane. Secondo la stampa di Tel Aviv, il premier Benyamin Netanyahu ha impartito ai ministri l’ordine di non esprimersi in materia. Il giornale filo-governativo Israel ha-Yom sintetizza con un vistoso titolo gli eventi dell’altro ieri al confine siro-libanese dove, secondo fonti stampa, sarebbero stati colpiti missili SA-17 di produzione russa, destinati agli Hezbollah libanesi: «Sono stati avvertiti. Se ne sono infischiati. Sono stati colpiti». Israel ha-Yom aggiunge che ora «l’intera Regione entra in stato di allerta».
Nel Nord di Israele dove nei giorni scorsi sono state installate due batterie di anti-aerea Iron Dome (Cupola di ferro) viene mantenuto un elevato stato di vigilanza e in alcune località i responsabili locali hanno aperto i rifugi. Il Comando delle retrovie riferisce inoltre di un’accresciuta richiesta di maschere antigas.

il Fatto 1.2.13
“Tra Siria e Libano, siamo di nuovo in stato di assedio”
Lo scrittore Yehohshua commenta i raid israeliani e il nuovo governo
“La costruzione di altre colonie mina la possibilità di pace”
di Roberta Zunini


Tel Aviv (Israele) Nella “bolla”, il soprannome con cui gli israeliani chiamano Tel Aviv per sottolinearne i ritmi laici, indifferenti, per non dire leggeri, la preoccupazione non è alta come nel nord del Paese, in prossimità dei confini con il Libano e la Siria. Eppure proprio da qui sono decollati i jet che, dopo aver violato lo spazio aereo libanese e siriano, hanno bombardato un sito militare e un convoglio che trasportava armi pesanti da Damasco alla valle della Bekaa, il territorio libanese sotto il controllo delle milizie sciite di Hezbollah, alleate di Assad e Ahmadinejad, nemici giurati di Israele.
MA, NELLA “BOLLA”, qualcuno molto preoccupato per un possibile peggioramento della situazione nell'area c'è: è Avraham Yehoshua, il più noto tra gli scrittori e intellettuali israeliani. “La situazione ora è molto pericolosa perché Hezbollah sta approfittando dello sfaldamento della Siria per appropriarsi delle armi di Assad di cui è alleato da sempre. Si tratta di un arsenale avanzato che include armi chimiche. Israele ha fatto bene a bombardare perché bisogna impedire che queste armi finiscano nelle mani di Hezbollah, che ha tra i suoi principali obiettivi la distruzione di Israele”.
Yeoshua sostiene che sia dovere delle forze armate israeliane difendere la sicurezza interna del Paese, anche se, per farlo, sono costrette a violare i confini di uno Stato sovrano. Ma difendere Israele significa anche mettere a punto una strategia politica che abbia come obiettivo principale la ripresa dei negoziati di pace con i palestinesi.
“SPERO CHE SIA vero ciò che hanno riportato fonti giordane e cioè che Hamas è disposta a riconoscere lo Stato israeliano. Se è così, anche noi dobbiamo riconoscere Hamas come interlocutore, in attesa che si riunisca all'Anp di Abu Mazen. E spero che dopo il cambiamento avvenuto nel nostro panorama politico con le elezioni del 22 gennaio, il reciproco riconoscimento sarà più facile”.
Votando in buona parte per Yesh Atid, il neo partito di centro del giornalista televisivo Yair Lapid, gli israeliani hanno dimostrato che non ritengono più la politica della destra, dei coloni, interpretata dal Likud di Netanyahu e da Ysrael Beitenu di Liebermann, l'unica in grado di salvare il Paese dalla crisi economica e dall'estremismo dei coloni. “Questo è un momento cruciale per noi, abbiamo davvero bisogno di un ‘salvataggio’ perché considero lo stallo dei negoziati e la costruzione di nuove colonie nei Territori occupati voluti dal governo uscente, non solo un limite per la nascita di un vero Stato palestinese, quanto una minaccia per la sopravvivenza di Israele in sè. Se non ci sarà un vero Stato palestinese, non ci sarà nemmeno uno Stato israeliano basato sull'identità ebraica”.
Attraverso l'espansione e la costruzione di nuove colonie ebraiche in Palestina, viene eroso in continuazione il territorio che appartiene agli arabi mentre su quello israeliano vivono migliaia di palestinesi di nazionalità israeliana.
“LE STATISTICHE e la realtà stessa mostrano che sono proprio questi ultimi, assieme agli ebrei israeliani ultraortodossi, a crescere più velocemente. Vorrei che Lapid trovi la forza di chiedere il blocco delle colonie. Altrimenti Israele diventerà uno Stato bi-nazionale costituito da una popolazione prevalentemente araba ed ebraica ultraortodossa”.
Sarebbe la sconfitta definitiva dello Stato sionista, nato su basi laiche e socialiste. Proprio in questi giorni Shally Yachimovic, la leader del Labour party - la formazione politica dei padri fondatori dello Stato israeliano - ha fatto sapere che i suoi 15 neo deputati non entreranno nella coalizione di governo. “Nessuno però glielo aveva chiesto. Mentre il Labour continuerà a stare all'opposizione, vorrei che Yair Lapid riusisse a trovare un accordo con i partiti di centro come Kadima e soprattutto Hatnuah di Tzipi Livni per sommare i loro seggi (8 in tutto, ndr) e condizionare la politica del primo ministro che sarà sicuramente ancora Netanyahu”.
Qualora l'operazione dovesse riuscire il blocco di Lapid avrebbe in tutto 27 seggi contro i 31 del Likud-Beitenu, diventando molto più di un semplice ago della bilancia. “Ho un timore però. Non sono sicuro che questo movimento costituito appena un anno fa sia in grado di consolidarsi e non sparire o venire soffocato dai marpioni del Likud, come è già successo nel passato”. Lasciando tutto come prima.

Repubblica 1.2.13
Janet, lo scienziato dell’ipnosi scomunicato da Freud
L’uomo che scoprì l’inconscio
Esce in Italia “L’automatismo psicologico” un classico alle origini della psicoanalisi
di Massimo Ammaniti


È stato finalmente pubblicato in Italia il libro di Pierre Janet L’automatismo psicologico (Cortina, pagg. 519, euro 37), la cui importanza è opportunamente sottolineata nell’introduzione di Francesca Ortu. Il libro fu originariamente pubblicato in Francia nel 1889, dopo essere stato presentato alla Sorbonne come tesi di dottorato in filosofia. Infatti Pierre Janet iniziò la sua carriera come filosofo, coetaneo di Henri Bergson, che lo avrebbe sostenuto successivamente nel 1902 per l’assegnazione della cattedra di psicologia sperimentale presso il Collège de France, sottolineandone le capacità e il metodo rigoroso con cui aveva condotto le sue ricerche psicologiche e i suoi esperimenti. I suoi lavori di psicologia dinamica erano stati apprezzati e citati da Freud e Jung con cui tuttavia si crearono forti tensioni, sia per il riconoscimento della priorità delle scoperte sia anche per il contrasto fra l’approccio positivistico di Janet e quello più spiritualista della psicoanalisi.
Influenzato dal clima culturale che si respirava in Francia, in cui veniva dato ampio rilievo alla suggestione e all’ipnotismo anche con l’organizzazione di spettacoli pubblici, Janet iniziò i suoi studi a Le Havre dove insegnava filosofia, ipnotizzando una giovane donna, Léonie, non solo direttamente ma anche a distanza, attraverso prescrizioni suggestive che lei avrebbe eseguito. Da queste prime osservazioni Janet intraprese un lavoro sistematico di ricerca in ospedale con numerosi pazienti, che fu successivamente presentato nella sua tesi L’automatisme psychologique.
Nel libro venivano approfonditi i fenomeni psicologici definiti di automatismo totale, come ad esempio il sonnambulismo e la catalessia, ma anche quelli di automatismo parziale che occupano soltanto una parte della mente, come le distrazioni o la presenza di stati psicologici simultanei caratterizzati da immagini improvvise, che irrompono nella mente mentre il pensiero è rivolto altrove. Janet collegò questi fenomeni psicologici alla rottura di due attività fondamentali della mente, quella creatrice che opera realizzando nuove sintesi, dando vita alla coscienza personale e quella riproduttrice che riattiva «sintesi antiche che in passato avevano la loro ragion d’essere». In altri termini questi fenomeni automatici e non controllabili sono legati alla riattivazione inconsapevole di precedenti esperienze archiviate nella memoria ed associate ad un restringimento della coscienza.
Ben presto queste scoperte sullo psichismo subconscio sarebbero entrate in rotta di collisione con la psicoanalisi come avvenne nel 1913 in un Congresso internazionale. Nella sessione dedicata alla psichiatria Janet lesse un saggio critico sulla psicoanalisi che Jung avrebbe dovuto difendere. Nel suo intervento Janet si assunse il merito di aver introdotto il metodo catartico nella cura delle nevrosi, basato sul chiarimento delle esperienze traumatiche che le avevano provocate, mentre la psicoanalisi lo aveva solo ulteriormente sviluppato. Anche il metodo freudiano dell’interpretazione dei sogni e la teoria dell’origine sessuale delle nevrosi venivano frontalmente attaccate da Janet, si trattava di un «sistema metafisico» che non aveva ancora raggiunto lo stadio della scientificità.
Le reazioni degli psicoanalisti non tardarono: Freud, pur avendo citato alcune ricerche di Janet, criticò il suo lavoro e addirittura Ernest Jones lo accusò pubblicamente di disonestà, affermando che le scoperte di Freud erano assolutamente indipendenti. Va anche ricordato che Janet dovette affrontare anche altre polemiche dopo la morte di Charcot: il clima in Francia era cambiato e si guardava con sempre maggiore sospetto l’ipnosi e le osservazioni nel campo dell’isteria, ritenute speculazioni inconsistenti, come ad esempio la discussa metalloterapia di Charcot.
Fino alla recente rivalutazione della sua opera Janet era sconosciuto al grande pubblico, a differenza di Freud ma anche di Charcot. Probabilmente la sua ridotta notorietà è legata al suo carattere, era una persona piuttosto schiva e indipendente che non ebbe alcun maestro, ad esempio Charcot o Ribot, e non creò una propria scuola. Quando morì nel 1947 la sua morte passò quasi inosservata, anche a causa di uno sciopero dei tipografi in quei giorni.
Ma perché l’opera di Janet è tornata alla ribalta, studiata e citata da psicologi e psichiatri? Negli ultimi anni la clinica e la ricerca hanno messo in luce l’importanza della dissociazione, definita da Janet automatismo, soprattutto nella patologia psichica legata ai traumi. Si tratta di una difesa psichica che viene messa in atto quando la mente è sopraffatta da un evento traumatico e serve ad allontanare automaticamente dalla coscienza gli affetti e i ricordi legati al trauma. Quantunque eliminate dalla coscienza queste immagini mentali traumatiche tendono tuttavia a ricomparire sotto forma di flashback, oppure di incubi o sogni.
Ma la dissociazione non riguarda solo le patologie posttraumatiche, interessa anche il grande settore dei disturbi di personalità in cui possono comparire stati dissociativi, ad esempio il distacco da sé stessi o da quello che si sta vivendo o anche il ritiro in rifugi mentali lontani dalla realtà. E più di cento anni fa Janet aveva anticipato osservazioni che la ricerca clinica ha messo in luce negli ultimi anni: al disotto del funzionamento psichico cosciente vi è un mondo subconscio caratterizzato da istinti ed emozioni più elementari che creano un’alternanza di stati di coscienza diversi che comportano fenomeni di automatismo psicologico non collegati alla personalità. E per usare le parole di Janet deriverebbero da uno stato di «miseria psicologica », legata ad un’impotenza ad assimilare e condensare stati psicologici, a volte in modo stabile, altre volte in modo transitorio. Ma forse questa miseria psicologica è sperimentata da ognuno di noi, infatti fin dalla nascita ricorriamo ad automatismi psicologici quando ci troviamo ad affrontare situazioni difficili che non sappiamo risolvere in altro modo.

Repubblica 1.2.13
Dopo l’articolo di “Repubblica” su sacro e contemporaneo
Perché l’arte deve rimanere senza dio
di Mario Perniola

Da qualche tempo la Chiesa cattolica mostra un nuovo e lodevole interesse nei confronti dell’arte contemporanea, nella speranza di ripristinare quel rapporto di collaborazione con gli artisti che portò nel Medioevo e nel Barocco ad esiti eccelsi. Una preoccupazione sottolineata su questo giornale con l’articolo Dio senza arte (20 gennaio) in cui Maurizio Ferraris poneva la questione in questi termini: se scompare l’arte sacra, che fine fa il canone occidentale basato in gran parte su di essa? Che l’argomento sia attuale è dimostrato anche da interventi apparsi subito dopo su Avvenire in cui si ribadiva l’intenzione della Chiesa di aprirsi all’arte contemporanea. Tuttavia questa buona intenzione trova ostacoli, genera fraintendimenti e crea equivoci. Da un lato si ha l’impressione che l’atteggiamento degli artisti nei confronti della Chiesa sia meramente opportunistico e dettato soltanto dalla supposizione di trovare un committente meno rapace del mercato e più affidabile delle amministrazioni pubbliche; dall’altro ci si chiede se non sia più vantaggioso dal punto di vista della visibilità mediatica e dell’attendibilità nel campo artistico internazionale stare dalla parte della trasgressione, della blasfemia e dell’irriverenza che non dalla parte della fede, del rispetto e della deferenza nei confronti della religione.
La ragione fondamentale di questo malinteso sta nel fatto che lo statuto dell’arte dal Romanticismo in poi è radicalmente cambiato rispetto al passato. L’artista non è più l’artigiano del Medioevo, né il portatore di un sapere professionale, ma l’adepto di una nuova religione, che ha i suoi canoni, la sua gerarchia, le sue reliquie, i suoi martiri, i suoi santi, le sue istituzioni e così via. Perciò sembra opportuno che la Chiesa prenda atto che il mondo dell’arte è una religione per definizione autonoma con la quale si deve misurare alla pari. Ciò mi sembra impossibile senza l’esistenza di autorevoli mediatori laici, che appartengano a pieno titolo a un mondo che sta agli antipodi della mentalità clericale. In fondo l’idea che l’arte stia dalla parte del male si basa ancora sul presupposto che esista una differenza tra il bene e il male.
L’atteggiamento ostile all’arte visuale non è quindi nichilistico: già Platone sosteneva che l’arte era lontana di due gradi dal vero e in molte culture (come quella ebraica e quella islamica) esiste una profonda diffidenza nei confronti delle immagini. Al polo opposto il cristianesimo ortodosso considera l’icona non come una semplice rappresentazione della divinità, ma come il punto di unione tra il mondo visibile e quello invisibile.
Bisogna aggiungere che la religione dell’arte è diventata nel corso del Novecento qualcosa di molto strano, perché il dubbio e addirittura l’irrisione nei confronti di se stessa è ormai parte essenziale della sua essenza. Oggi un’opera d’arte che non contenga elementi di auto-critica e di auto-contestazione appartiene al kitsch, al dilettantismo o alla comunicazione mass-mediatica. In altre parole, l’arte è tale solo se è nello stesso tempo anche meta-arte e anti-arte. L’enigma, la simulazione, il plagio, l’equivoco, il paradosso, la contraddizione, l’antinomia, il dilemma, la mise en abîme
sono pratiche correnti del fare artistico contemporaneo. Perfino la smaterializzazione e addirittura l’autodistruzione dell’artefatto sono state considerate come operazioni artistiche.
Non è nemmeno necessario produrre opere: si può essere artisti a pieno titolo solo producendo idee e progetti irrealizzabili, praticando stili di vita alternativi e rivoluzionari, compiendo atti iconoclastici, vandalici e perfino terroristici. A tutto ciò bisogna aggiungere che l’arte è sempre stata per eccellenza il luogo in cui ogni sorta di psicopatologie e di perversioni vengono legittimate e convalidate. Fintanto che tutte le devianze restano contenute nel vaso di Pandora dell’arte, la società e la Chiesa sono relativamente protette da queste. Non è prudente scoperchiarlo.

Repubblica 1.2.13
Marx e lotta di classe per capire il nuovo Egitto
L’incerta transizione democratica dei Fratelli musulmani
di Lucio Caracciolo


Il futuro dell’islam politico africano, arabo e levantino si gioca all’ombra delle piramidi. Qui sorse nel 1928 la Fratellanza musulmana. Dopo ottantacinque anni di radicamento nella società, di opposizione ai colonizzatori, alla monarchia e ai regimi militari socialisteggianti e neutralisti (Nasser) o liberisti e filoccidentali (Sadat, Mubarak), di persecuzioni e patteggiamenti con il potere costituito, ora i Fratelli sono chiamati a governare. La rivolta di popolo che il 25 gennaio 2011 ha travolto Mubarak ha proiettato i Fratelli a occupare lo spazio scavato dai rivoluzionari della prima ora, privi di un capo, di un progetto, di una struttura unitaria. Quale massima forza organizzata della società egiziana, la Fratellanza ha sveltamente allestito un suo braccio politico, il partito Libertà e giustizia, ha vinto le sei elezioni finora svoltesi nel “nuovo” Egitto e sembra certa di affermarsi nello scrutinio politico di aprile. Per meriti propri e per l’inconsistenza delle opposizioni, un misto di fellul (avanzi di regime) riciclati, liberali, socialisti, nasserian-nazionalisti, cristiani copti e giovani reduci di Piazza Tahrir, con scarso radicamento nel paese ma palpabile insofferenza reciproca. In Occidente li chiamiamo laici, quindi democratici, per distinguerli dagli islamisti in odore di sovversivismo teocratico e dalla galassia salafita riconvertita alla politica, spesso confusa con i jihadisti. Quasi l’avversione all’islamismo valesse la patente di laicità. Per non farci mancare nulla, sullo slancio del comparativismo assegniamo ai Fratelli il centro, ai laici la sinistra e ai salafiti la destra, scambiando la rivoluzione egiziana per quella francese.
Le analogie traviano. Poiché dal primo faraone Menes (circa 3.150 a. C.) a Morsi non risulta che l’Egitto sia mai stato una democrazia liberale, le equazioni correnti nei media occidentali paiono smentite. È un fatto che il potere dei Fratelli — come la robusta influenza dei salafiti — scaturisce dalle urne. È altrettanto incontestabile che esso sia imperniato sul primo presidente democraticamente eletto della storia egiziana. Le opposizioni, sconfitte al voto, puntano sui tribunali e sulla piazza. Questo non significa affatto che i Fratelli siano democratici per vocazione o che laici e copti non lo siano. Esprime la cogenza dei ruoli: alla Fratellanza di governo e ai salafiti le urne convengono (almeno per ora). Alle opposizioni le elezioni sono andate e forse andranno ancora di traverso.
La stabilizzazione democratica dell’Egitto presuppone la legittimazione reciproca fra sei poteri: presidente, parlamento, tribunali, militari, burocrazia e piazza. Assistiamo invece alla polarizzazione fra islamisti e antislamisti. In mezzo, il partito del sofà (kanaba), gli attendisti che fiutano l’aria per schierarsi col vincitore. Al coperto, lo Stato profondo, che aggrega militari, finanzieri e imprenditori — talvolta le tre categorie si riflettono nella stessa persona.
La vera sfida per i Fratelli è la disastrata economia nazionale. Per un paese di circa 85 milioni di anime — oltre ai 6 milioni e mezzo in diaspora — che è il massimo importatore mondiale di grano e che pompa dall’estero più energia di quanta ne produca, le conseguenze economiche della transizione sono di ardua gestione. La crescita è assai ridotta (attorno al 2% per quest’anno, forse meno il prossimo), la disoccupazione ufficiale al 12,5%, il turismo agonizza. Restano i proventi del Canale di Suez, le declinanti rimesse degli emigrati e poco altro. Con le riserve di valuta pregiata precipitate da 36 a meno di 15 miliardi di dollari nel biennio post-Mubarak e con la lira che si svaluta ogni giorno, non resta che contare sul fraterno aiuto del Qatar, peloso sponsor dei Fratelli.
L’emergenza economica inasprisce la contrapposizione politica, esaspera lo scontro sociale. Del quale i nostri media inclinano a trascurare il rilievo nella genesi e nell’evoluzione dei moti che hanno sconvolto l’Egitto. Le categorie euristiche occidentali, impiegate a sproposito in altri campi, potrebbero utilmente applicarsi alla radice socioeconomica della rivoluzione egiziana, come di altre “primavere”. Qui possono soccorrerci le teorie di un pensatore iperoccidentale come il renano Karl Marx: le insurrezioni tunisina ed egiziana sono anche lotta di classe. È la tesi del geografo Habib Ayeb, per il quale «in entrambi i casi si è potuto osservare il rifiuto di una popolazione emarginata a continuare a vivere nella marginalità». Rivolta degli oppressi e degli affamati, incardinata in specifici teatri territoriali, dalla negletta Nubia fino ai labirinti del Cairo e alle zone depresse del Delta. Nella cui area industriale centrale, a Mahalla al-Kubra, scoppiarono nel 2006 gli scioperi operai che preannunciavano la crisi finale del regime.
Allargando l’orizzonte, scopriamo che l’incerta transizione egiziana sta contribuendo a destabilizzare il territorio nazionale. Specie nel Sinai: la penisola cuscinetto tra Egitto e Israele, con la Striscia di Gaza in mano a Hamas, filiale palestinese dei Fratelli, è terra di scorribande e attentati terroristici. Con risultati devastanti per il turismo sul Mar Rosso. Le locali tribù beduine diffidano degli “egiziani”, come tengono a definire gli altri abitanti del paese. Sentimento condiviso dai confratelli del Deserto occidentale, a ridosso della Cirenaica in ebollizione. Se poi consideriamo le guerre sudanesi e le dispute sulle acque del grande fiume attorno al quale è fiorita una delle massime civiltà della storia, si trae che nessuna frontiera egiziana è tranquilla. La transizione alla democrazia sarà lunga, sempre che non deragli.

giovedì 31 gennaio 2013

l’Unità 31.1.13
Bersani al premier: «Non aiuti la destra»
Il leader Pd: «In Lombardia siamo testa a testa con Pdl-Lega, il nostro è un candidato civico, che scelta fa il Prof?»
A Berlusconi: «Sto trattando per Messi al Bettola Football Club»
di Maria Zegarelli


ROMA A Mario Monti parla da Trieste, a Silvio Berlusconi da Napoli. Pier Luigi Bersani attacca al centro e a destra chiamando al voto utile gli elettori. Davanti agli ultimi sondaggi che danno il centrosinistra in netto vantaggio a livello nazionale e leggermente avanti sia in Lombardia sia in Sicilia, due delle regioni dove si gioca la maggioranza al Senato, il leader Pd esorta i suoi a non dare nulla di scontato.
Combattere «fino all’ultimo giorno perché ogni voto è utile» e «Monti per primo, che in Lombardia appoggia Albertini, dovrebbe capire che noi siamo l’unico partito in grado di dare stabilità al governo e al Paese, gli altri, compreso il Professore, possono dare solo la palude». Pierferdinando Casini legge le agenzie e rispondere, «no grazie, non vogliamo tornare alle nostalgie del passato». Ma per il segretario Monti esarcebando i toni dello scontro con i democratici non fa che dare sponda ai populismi e a Grillo, «molto più forte di quanto riusciamo a vedere dai sondaggi». Al Cavaliere, Bersani, invece, riserva gli affondi più duri. Evoca il rischio di «cloni» del Cavaliere e dice: «Mi auguro che il buon Dio abbia perso lo stampino...».
IL TESTA A TESTA
«È già una notizia il fatto che noi in Lombardia siamo in palese testa a testa spiega durante una conferenza stampa a Trieste La dice lunga su come stanno le cose. Questo deve far riflettere tutti. C`è qualcuno che si chiama “Scelta civica”. Hai mai visto fare
una riflessione? O la spunta Ambrosoli o Maroni, non penso che Albertini la possa spuntare». E se da Roma il ministro Andrea Riccardi replica che Scelta Civica «non si candida per fare da stampella al Pd o al Pdl», ma «guidare l’Italia», Bersani non rinuncia ad appellarsi al senso di responsabilità ora, in Lombardia, come in Sicilia, in Campania e in Veneto (dove la forbice tra centrodestra e centrosinistra è sensibilmente più larga).
Davanti ai continui attacchi dei centristi replica che «Monti s’alza al mattino e tutti i giorni scopre un difetto del Pd . Io per un anno non l’ho mai sentito parlare di un difetto del Pd». Ma quelli erano i tempi del governo tecnico, un’architettura anomala tenuta su dal consenso dei partiti, oggi la musica è cambiata. Tanto cambiata che anche le critiche all’esecutivo Monti non vanno più tanto per il sottile mentre parla ad un’iniziativa elettorale a Napoli: il governo del Professore ha mostrato una «certa sottovalutazione della difficoltà di governare. Perché gli esodati che incontravamo per strada, i lavoratori che incontravamo, non li abbiamo mica mandati dalla Fornero, li abbiamo incontrati noi». Errori sugli esodati e sottovalutazione anche su un altro tema: «Il primo giorno dobbiamo fare leggi ben più pesanti sulla corruzione di quelle che non abbia fatto Monti», dice mentre più tardi su twitter (dove da due giorni cinquetta a ritmi sostenuti) annuncia di aver sottoscritto la campagna del Gruppo Abele e Libera, «Riparte il futuro», contro la corruzione.
Un colpo al centro e uno a destra. Parte dalla crisi durissima e dal pareggio di bilancio e arriva alle notti allegre di Arcore. «Il centrodestra ha ancora il coraggio di parlare nonostante il disastro che ha combinato. Noi non dovevamo essere dove ci siamo trovati, questo è il punto di fondo. Abbiamo mangiato pane e Ruby e festini per degli anni, fino a quando non è arrivato Monti era sesso e viedeotape. Per questo abbiamo dovuto firmare il pareggio di bilancio nel 2013, che altri non hanno firmato».
La speranza legata al voto: «Mandare a casa per sempre Berlusconi e il berlusconismo. In questo giro non siamo solo alternativi per un governo o una legislatura, ma a 20 anni di organizzazione di questo sistema politico. Dobbiamo mettere gli italiani di fronte a questo tema. Dopo Berlusconi, Monti, Grillo, Ingroia cosa c'è lì? Un Paese può andare avanti così? ... Questi che mettono il nome sul simbolo si sono scelti da soli e invece dopo Bersani c'è il Pd. Dobbiamo uscire da questa malattia». La spina nel fianco conficcata dalla vicendadiMps:«Afarelamoraleanoièil Pdl, che ha cancellato il reato di falso in bilancio. Noi lo reintroduciamo il primo giorno di governo il reato di falso in bilancio». Si dice convinto che chi oggi calunnia il Pd ne uscirà male quando tutto sarà chiarito, ma per il momento i sondaggi raccontano di una flessione direttamente legata allo scandalo della banca senese.
E in una Napoli in tilt per il fermo dei trasporti è il richiamo all’acquisto di Balotelli da parte del Milan a far sorridere la platea: «Mentre io ero a Padova e incontravo un'associazione di disabili e parlavamo di problemi seri, Berlusconi trattava su Balotelli. Vi do l'annuncio che sto trattando per Leo Messi per il Bettola footbal club.... A Bettola non c'è la squadra? Tanto mi hanno detto che lui gioca da solo...».

l’Unità 31.1.13
Luciano Gallino
«Dopo le prime assemblee il progetto arancione ha preso una direzione che non condivido Movimenti importanti ma partiti fondamentali»
«Sel e Pd unica speranza di una politica progressista»
di Rachele Gonnelli


«Un cortese distacco». Così il professor Luciano Gallino definisce il suo addio a tutta l’operazione che oggi va sotto il nome di Rivoluzione civile o lista Ingroia. In realtà, al di là dei modi compassati e gentili che gli sono propri, la sua è una bocciatura politica senza appello. Tanto più rilevante perché viene da uno dei padri fondatori di Cambiare Si Può, anzi dal primo firmatario dell’appello, oltre che da uno degli studiosi italiani più quotati a livello internazionale di capitalismo e relazioni sociali, con un curriculum che parte dal centro studi di Adriano Olivetti, passa per l'università di Stanford e approda all'Accademia dei Lincei.
Professore lei ha detto a MicroMega che voterà Sel. Come ha maturato questa svolta rispetto a precedenti collocazioni?
«È successo che ci sono state alcune belle assemblee, molto stimolanti, alle quali ho partecipato. Ma che poi, quando il progetto nato lì come Cambiare Si Può si è calato nella discussione sulle liste e sulle alleanze, la prospettiva si è complicata e ha preso una direzione che personalmente non mi sento di condividere. C'è stata anche una votazione in cui io e altri tra i primi firmatari dell'appello non abbiamo condiviso la scelta, approvata a maggioranza, di accettare di proseguire il cammino indicato da Ingroia. A quel punto avevo delle scelte limitate: non votare, chiedere asilo politico in Tasmania oppure appoggiare una forza che, pur minoritaria, tutto sommato è una voce che dice qualcosa d'interessante sulla finanza e il lavoro, cioè sui temi ai quali ho dedicato gli ultimi 15 anni di studio».
Parla di Sinistra ecologia e libertà?
«Sì».
È tra i delusi dell’eccessiva presenza di partiti nella lista Ingroia?
«No, guardi, pur sottolineando l’importanza dei movimenti, ritengo che la forma partito sia fondamentale, proprio per portare le istanze dei movimenti in Parlamento. Solo non è esattamente moderno ciò che vedo in quella lista, nelle persone che ci sono. Ingroia e i suoi non mi pare abbiano cose interessanti da dire sui temi di cui mi occupo come la riforma delle banche a livello europeo. Non è un rimprovero e non faccio questioni di persone, si occupano di altro, è un fatto di ruolo e di attenzione del tutto legittimo. Ma non mi interessa».
Mi risulta che abbia anche sottoscritto un appello a sostegno di Giulio Marcon, ex portavoce di Sbilanciamoci, insieme ai suoi colleghi Saskia Sassen, Richard Sennett e a intellettuali italiani come Fofi, Castellina e altri.
«Sì, voterei volentieri per Marcon, purtroppo non solo non ci sono le preferenze ma si presenta in Veneto e io voto a Torino. L'ho incontrato a qualche convegno ma soprattutto il sito di Sbilanciamoci è uno dei pochi, uno o due in Italia, che si leggono con profitto». Dunque sceglie il centrosinistra. Cosa dovrebbe fare secondo lei per farci uscire dalla crisi?
«Siamo di fronte ad un bivio e qualcuno ha già deciso quale strada prendere, una strada che ritengo sbagliata. Se Sel e il Pd riusciranno a ottenere l’autonomia in Parlamento è probabile una politica un po’ più progressista. Se invece si dovrà ricorrere ad una alleanza con Monti temo che il tasso di apertura del Pd si possa restringere e che abbia la meglio l’ala più conservatrice, più sensibile alle politiche di austerità europee, anche se con un minimo di attenzione in più di Monti rispetto alle problematiche del lavoro».
Il suo è dunque un ragionamento sul voto utile?
«L’idea del voto utile non mi è mai piaciuta. Inoltre credo che se Sel riesce comunque a portare in Parlamento una parte dei suoi candidati mi auguro che questi potranno fare dichiarazioni, prese di posizione contro il taglio del welfare e le politiche di austerità, contro il patto fiscale che il Pd sostenendo il governo Monti ha approvato con una modifica costituzionale disastrosa. Il pareggio di bilancio nella Costituzione porterà ad una inaudita cessione di sovranità, significa che la nostra politica fiscale sarà fatta a Bruxelles. Un suicidio perché le ricette adottate fin dal 2010 spingeranno i Paesi con strutture meno solide come l’Italia verso un decennio di recessione».
Lei non crede nella ripresa economica a partire dalla seconda metà del 2013? «Sono anni che si fanno previsioni di riprese e ripresine che poi sono ben poca cosa. E anche nel caso questa ripresina ci fosse, se non fondiamo lo sviluppo su altre basi, su una crescita meno forsennata e disastrosa in termini ecologici, finalizzata a beni utili, ad esempio su un’industria meno vorace in termini energetici, non avremo fatto nulla». Per l’Ilva, come per Mps, pensa a un salvataggio statale?
«Mps fa tanto scalpore ma è uno dei casi della finanza-casinò, per usare un termine di Keynes. Certo, hanno trovato in un giorno 3,9 miliardi per Mps e non i 4 miliardi che servono per avviare la bonifica e la riconversione di Taranto, che interessa centinaia di migliaia di persone, lavoratori e famiglie».

l’Unità 31.1.13
Vasco Errani
L’avversario è il patto Berlusconi-Lega.
Monti è irriconoscibile quando ricalca la vecchia politica
Ingroia? Dica se punta all’ingovernabilità
«Il Pd è la forza del cambiamento. In tanti vogliono impedirlo»
di Simone Collini


«Ben venga l’indagine della magistratura e la commissione d’inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena perché così si dimostrerà nei fatti che il Pd è fuori da questa vicenda e che le strumentalizzazioni di questi giorni hanno solo un fine elettoralistico». A Vasco Errani non piace la piega che sta prendendo questa campagna elettorale. Il presidente della Regione Emilia Romagna la considera negativa per il Paese: al centro del confronto dovrebbero esserci le politiche per il lavoro, il sostegno alle imprese, i programmi per la ricerca e per l’innovazione, una nuova idea di sviluppo. «E invece vedo all’opera populismi di vario genere e forze diverse che lavorano per impedire che in Italia ci sia un vero cambiamento». «Siamo ad un passaggio storico, siamo ancora dentro la crisi più grave dal dopoguerra, ci sono proposte per rilanciare il Paese, ma c’è chi non ne vuole parlare».
Sta dicendo che siamo di fronte alle classiche armi di distrazione di massa? E a chi farebbero comodo?
«Alle prossime elezioni la posta in gioco è la prospettiva, il futuro dell’Italia. Abbiamo bisogno di un cambiamento radicale e il Pd ha dimostrato di poterlo realizzare. Ma c’è il rischio che questo cambiamento venga disperso proprio perché si parla d’altro, perché si montano polemiche strumentali e fumose, perché si torna ai messaggi beceri di Berlusconi, perché si stimolano le pulsioni antidemocratiche, come fa Grillo, perché si mettono in campo le tecniche della vecchia politica, come in alcuni casi purtroppo vedo fare anche da Monti».
Andiamo con ordine: il Pd può realizzare il cambiamento necessario al Paese, lei dice. Ma come fa a sostenere che colpire il Pd vuol dire colpire il cambiamento, che non ci siano in campo altre forze in grado di garantirlo?
«Il Pd è stato capace di rispondere alla crisi, e di interpretare la grande domanda di partecipazione, con un percorso che ha ridato qualità alla democrazia. Il Pd è il partito della riforma della politica, un partito che intende ridare valore al sistema democratico, mentre da più parti si assiste alla nascita o al consolidamento di diversi populismi. La qualità democratica ovviamente deve combinarsi con la giustizia sociale e il rilancio del lavoro e dello sviluppo. Ma i nostri oppositori purtroppo sembrano impegnati per lo più a creare ostacoli, a giocare con ostruzionismi e impedimenti».
A chi si riferisce quando parla di diversi populismi?
«A chiunque lavora per delegittimare il valore della politica e della rappresentanza perché punta a un decisore solitario. Ma indubbiamente l’avversario principale è il patto che Berlusconi e la Lega hanno riproposto tal quale, come se non fosse abbastanza il danno prodotto all’Italia, come se non fosse così salato il conto che ancora i cittadini pagano al fallimento di questa destra».
E di Monti, che sostiene che Pd e Pdl impediscono la riduzione della spesa pubblica, cosa pensa?
«Sinceramente faccio fatica a riconoscere Monti in queste ultime settimane».
Monti se la prende con i «partiti tradizionali» e lei gli rimprovera di fare «politica vecchia».
«Cosa c’è di più tradizionale che mettere il proprio nome nel simbolo di una lista elettorale? È ciò che è successo negli ultimi vent’anni e, come si è visto, ha prodotti danni al Paese. Poi, mi stupisce quando sento Monti dire che l’Imu va data ai Comuni. In tutti questi mesi in cui è stato al governo, noi abbiamo chiesto proprio questo, ricevendo però dal governo soltanto dei no. Adesso promette quello che noi chiedevamo? Promette una riduzione delle tasse per 30 miliardi? Forse c’è qualcosa che non va». Forse il tema più insidioso per il Pd è l’accusa di «conservatorismo» rivolta alla Cgil.
«Se l’elemento cardine è il cambiamento, tutti devono sapere che per cambiare bisogna costruire alleanze e progetti che vedano protagonisti il mondo del lavoro e quello dell’impresa. Non si realizza questo progetto costruendo dei muri, o creando spaccature. Il problema vero in questi anni è stato che la destra ha investito sulla frattura del mondo del lavoro. E ha prodotto disastri. Voglio sperare che Monti abbandoni questa strada». Rimane valida la proposta di Bersani per un confronto tra progressisti e moderati?
«Il progetto di Bersani è chiaro, e certamente resta valido. Si tratta di costruire una proposta di governo che promuova le riforme con tutti i soggetti disposti a realizzarle davvero. Ha sempre detto che il dialogo con i moderati è un elemento importante. Ma non ci sono né patti scritti prima, né accordi politicisti. C’è la possibilità di un confronto e un dialogo vero per cambiare il Paese e realizzare politiche per il lavoro e la crescita: si gioca qui la vera partita se vogliamo dare una prospettiva all’Italia, fornire risposte alle nuove generazioni, tornare ad avere un ruolo in Europa per cambiare gli indirizzi nel senso dell’equità sociale e della qualità dello sviluppo».
Che messaggio rivolge ad Ingroia, dopo che la sua compagine ha rifiutato ogni patto di deistenza con il Pd?
«Noi non abbiamo proposto patti a nessuno. Abbiamo fatto un ragionamento politico: si considera un valore la governabilità del Paese oppure si vuole il contrario? Per noi è fondamentale che l’Italia, dopo le elezioni, abbia un governo capace di produrre il cambiamento necessario. Ingroia è d’accordo? Ci sono tante forze che puntano ad un Senato senza maggioranza. Io penso che sarebbe un danno per il Paese».

il Fatto 31.1.13
Consiglieri beccati con le mani nella Nutella
Il centrosinistra lombardo indagato per i rimborsi:
Nella lista anche multe Equitalia, quadri e aperitivi
di Davide Vecchi


Esprimono “pieno rispetto per il lavoro della magistratura”, si dicono “certi di poter dimostrare di aver agito correttamente” e si impegnano “a dimettersi nel caso di un rinvio a giudizio”. Ma molti dei 29 consiglieri lombardi del centrosinistra che stanno ricevendo gli avvisi a comparire hanno in tasca un biglietto per Roma o per il Pirellone. Da Giuseppe Civati, l'ex rottamatore proiettato a Montecitorio, ad Alessandro Alfieri, vice segretario renziano del Pd lombardo, già indicato come futuro assessore in una ipotetica giunta di Umberto Ambrosoli. Ma c'è anche l'ex Udc Enrico Marcora oggi candidato nella lista di Gabriele Albertini con la benedizione di Mario Monti. E poi Franco Mirabelli e Francesco Prina, candidati al Senato e a Montecitorio, Angelo Costanza, Carlo Porcari, Carlo Spreafico e Antonio Viotto del Pd; insieme a Chiara Cremonesi, capogruppo di Sel che si è comprata anche il master “vincere le elezioni”.
Tutti indagati per peculato, come i loro colleghi consiglieri di Pdl e Lega. Stessa sorte. Praticamente tutta l'aula dell'ultima legislatura guidata da Roberto Formigoni è finita nella lente della Procura di Milano. Il colpo è duro per il Centro sinistra che veleggiava verso la vittoria di Ambrosoli che ieri ha chiesto ai candidati indagati di impegnarsi a dimettersi in caso di rinvio a giudizio. Pd e Idv hanno accolto la proposta. “Siamo pronti a sottoscrivere l’impegno”, ha detto capogruppo del Pd Luca Gaffuri, indagato anche lui. “Mi sembra una dichiarazione condivisibile e un gesto di trasparenza nei confronti dei cittadini”. Gli ha fatto eco il capogruppo dell'Idv, pure indagato, Stefano Zamponi. “Bisogna dare il segnale di una svolta nella legalità”, ha detto. Sottolineando che però “utilizzare i fondi per acquistare una bandiera italiana da mettere nell’ufficio è diverso dal rifornirsi di cartucce da caccia”. Civati, che fu rottamatore con Matteo Renzi, si limita a incassare il colpo. Ha pubblicato tutto sul suo sito. “Sono fiducioso, ho sempre rendicontato voce per voce tutte le mie spese, che non riguardano pranzi, cene, aperitivi o acquisti di beni per me o per altri, ma solo trasferimenti in qualità di consigliere regionale”. Ma basta a mostrare il fianco. “Io sono contento che indaghino anche su di noi. Poi certo il momento è delicato. Ma non deve passare il 'sono tutti uguali', quindi ben vengano i chiarimenti”. In tutto a Civati la Procura contesta 3.145 euro di alberghi, treni e taxi dal 2008 a tutto il 2012.
Cifre esigue anche per Franco Mirabelli a cui non piace essere accostato al Pdl e alla Lega. “Resta l'amarezza e la rabbia di constatare come si tenti, per una cifra complessiva di 6.000 euro, 100 euro al mese per 5 anni quasi la totalità in spese di rappresentanza, questa è l’entità della somma che mi contestata, di associarmi a chi ho combattuto in questi anni ed è stato protagonista di vicende gravi come quelle a cui abbiamo assistito in Regione Lombardia”. Ma a tre settimane al voto il centrodestra non lascia di certo spazio ai distinguo. Ieri ha avuto gioco facile Roberto Maroni, candidato governatore della Lega. “Caro Ambrosoli, come la mettiamo con la promessa natalizia di liste senza indagati? Casciaball cosmico”, ha scritto su Twitter. Formigoni si è scagliato contro l'avvocato del Patto Civico e ha invitato il sindaco Giuliano Pisapia “a ripetere parola per parola i giudizi molto chiari e pesanti rivolti a dicembre contro i consiglieri del centro-destra e rivolgerli oggi a quelli della sua parte politica”. E ha ricordato di quanto “si siano tutti scandalizzati per il nostro consigliere che si era fatto rimborsare persino un cioccolatino: ora cosa dite? ”. Nel Pd il più attivo è stato il democratico Carlo Spreafico. A lui la procura contesta 47.720 euro dal 2008 al 2012. Oltre a ristoranti e taxi, l'esponente del Pd, si è fatto rimborsare una cartella esattoriale Equitalia emessa dall'ordine dei giornalisti perché il consigliere, nonché pubblicista, si era dimenticato di pagare la quota d’iscrizione: 101 euro.
Ha poi presentato uno scontrino per un “ombrello mini automatico” (9,40 euro), “biscotti 5 stelle” per 3 euro, una confezione di Nutella da 2,70 euro e, tra l'altro, un aperitivo “crodino” al bar Rosso Rubino: 6 euro. Ancora: fototessere (8 euro), ricambi per biciclette (55 euro), biglietti dei mezzi pubblici, gelati, persino una ricevuta da 0,90 centesimi per un parcheggio. Ancora: più di tremila euro al mediaworld per acquisti vari tra cui due BlackBerry e 146,80 euro per il corso d'Inglese in dvd “Speak now”. Che imparare una lingua, prima o poi, è utile. Ma ci sono anche libri e due opere di Romano Trojani acquistate per 4mila euro il 30 gennaio 2012. Il tutto oltre ai “rimborsi per viaggi”: circa cinque mila euro. Ieri Spreafico era irrintracciabile.
Così come Marcora. In un anno e mezzo ha chiesto 13 mila euro di rimborsi ritenuti irregolari. Nel dicembre 2010 ha speso 2380 euro in un colpo solo per il libro “Il bene di tutti, gli affreschi del buon governo”. E oltre ai vari acquisti di francobolli, di materiale per più mille euro alle Poste Italiane, manifesti avvolgibili (404 euro), ci sono pranzi e cene per comitive al ristorante Saint Andrews. 66 coperti nel novembre 2011 (valore 1650 euro), 19 commensali e uno scontrino da 537 euro lo scorso Aprile. Si fa rimborsare un pranzo con Davide Mengacci e un “aperitivo con Alessandro Sancino”, oggi candidato con Ma-rio Monti al secondo posto nella lista lombarda per la Camera.

il Fatto 31.1.13
Paura in Lombardia, Bersani ha un sogno: il ritiro di Albertini
di Wanda Marra


Una riflessione seria” sulle regionali in Lombardia. Pier Luigi Bersani ieri mattina va diritto al punto e dice a Monti: “Noi abbiamo messo in campo una proposta civica, c'è qualcuno che si chiama Scelta civica, vedi mai che faccia una riflessione - ha detto Bersani - finchè ci si punzecchia è la campagna, poi si ha la sostanza, vince chi arriva primo”. Il riferimento è alla decisione del Professore di appoggiare Gabriele Albertini, uno che stava in Forza Italia, invece del candidato democratico, Umberto Ambrosoli. Il segretario Pd vorrebbe - neanche tanto velatamente - che Albertini si ritirasse, così da far vincere Ambrosoli alle Regionali. Una strategia elettorale ormai tanto consolidata, quanto impraticabile: il voto è inutile, se se non è per il Pd. Ha provato ad applicarla ad Ingroia, chiedendo di fatto di ritirare le liste al Senato. Rispetto alla scelta di Monti di “salire” in politica, Bersani oscilla tra la rabbia, l’attacco e la necessità di non alzare troppo i toni, visto che l’accordo post elettorale sembra una strada obbligata. Le paure si moltiplicano: in Lombardia, la presenza di Albertini favorisce Maroni; in Senato è un testa a testa che i sondaggi fotografano ogni giorno, punto più, punto meno, una volta è avanti il centrodestra, un’altra il centrosinistra. E lo scandalo rimborsi non è una cosa che fa bene. Hanno un bel dire dallo staff del segretario che alle rilevazioni loro non ci credono: Palazzo Madama si gioca per un pugno di seggi. Ecco allora perché quello di ieri - spiegano - è stato un messaggio non tanto a Monti ma agli elettori. Perché capiscano che votare Albertini alle Regionali, o il Professore alle politiche, di fatto favorisce il centrodestra. Anche perché ormai pure per la desistenza siamo fuori tempo massimo. Albertini, infatti, dal canto suo ha chiarito che al ritiro non ci pensa proprio. Per rimanere in termini di paura, c’è anche quella che l’accordo per il governo sia sempre più difficile. Ieri c’è stato l’ultimo scontro Vendola - Monti che non se le sono mandate a dire. Il primo ha definito il Prof “rospo” e l’altro ha risposto appellandosi alla crescita esponenziale dello spread, nel caso il governatore della Puglia arrivasse al governo. Una bella atmosfera. Menomale che Bersani si può rifugiare nel noto: “Speriamo che Dio abbia perso lo stampino per Berlusconi”, è la battuta del giorno. E poi: “Lui compra Balotelli? E io porto Messi al Bettola Football Club”.

La Stampa 31.1.13
A Siena è associazione a delinquere
Mussari e altri manager indagati anche per questo reato
Il titolo ancora a capofitto in Borsa: -9,4%
di Guido Ruotolo


Associazione a delinquere. C’è anche questo reato - dopo la truffa, l’aggiotaggio, l’ostacolo agli organi di vigilanza e la turbativa - nell’inchiesta della procura di Siena sul Monte dei Paschi di Siena. Viene contestato all’ex presidente di Mps Giuseppe Mussari, all’ex direttore generale Antonio Vigni, a Gianluca Baldassarri, ex responsabile dell’area finanza, e al suo vice Alessandro Toccafondi. Ma nell’associazione sarebbero coinvolti anche altri funzionari e dirigenti dell’Area Finanza. Una vera e propria «metastasi» della banca senese, che il nuovo gruppo dirigente ha cercato di sanare rinnovando il suo management -150 nuove nomine -, e che è al centro della inchiesta dei pm Aldo Natalini, Antonino Mastasi e Giuseppe Grosso.
Associazione a delinquere, dunque. Con le indagini che vanno avanti, si delinea sempre di più lo scenario di un gruppo di dirigenti e funzionari che ha portato avanti operazioni spericolate, illegali, violando le leggi. E sicuramente nel caso di Gianluca Baldassarri e dell’ex responsabile di Mps Londra Matteo Pontone, anche protagonisti di tangenti. Un testimone ha verbalizzato che i due erano conosciuti «come la banda del 5%, perché su ogni operazione prendevano tale percentuale... ». Questo clan dei colletti bianchi, secondo le ipotesi investigative, pianificava manovre spericolate, rastrellando le risorse della Banca e una volta che queste manovre si trasformavano in boomerang, le tenevano nascoste agli organi di governo e di controllo della Banca, e alla vigilanza. E cercavano di coprire le voragini che si creavano con tentativi, a loro volta falliti, di acquisizioni di titoli tossici.
Il clima in procura è nervoso. L’altro giorno il procuratore capo Tito Salerno era sbottato con una affermazione improvvida, carburante per incendiare ancora di più la Santabarbara: «E’ un’inchiesta esplosiva e incandescente». Era del tutto prevedibile che la reazione della Borsa non si sarebbe fatta attendere e ieri mattina, infatti, il titolo Mps ha perso il 9,4%. E questo nonostante le rassicurazioni del governo, del ministro dell’Economia Vittorio Grilli, intervenuto in Parlamento, e dello stesso presidente di Mps, Alessandro Profumo, che avevano confermato il prestito dello Stato di tre miliardi e novecento milioni di euro, dando così una prospettiva di tenuta all’istituto senese.
A Borsa chiusa, ieri alle 17,30, lo stesso procuratore Salerno, sollecitato dal procuratore generale ed, evidentemente, anche da indicazioni «esterne» (le notizie del crollo in Borsa del titolo, innanzitutto), ha dettato un breve comunicato. Per precisare che «il contesto investigativo è sensibile e complesso esclusivamente rispetto al ruolo svolto nei fatti oggetto di indagine dal precedente management». Dunque, la procura, gli inquirenti, hanno sentito il bisogno di far sapere che indagano esclusivamente sul passato, sul vecchio gruppo dirigente, per l’acquisizione di Antonveneta e per i titoli tossici Santorini ed Alexandria. Sperando che le fibrillazioni e le speculazioni di mercato si stabilizzino e avvertendo tutto il peso di decisioni che potrebbero avere ricadute sociali drammatiche.
Una precisazione che è arrivata poco dopo che alcune indiscrezioni messe in rete avevano confermato che nella inchiesta senese è indagato lo stesso Mps, per la responsabilità amministrativa dei reati commessi o tentati dai suoi amministratori o dipendenti. Ed è iscritto sul registro degli indagati «il legale rappresentante» di Mps Alessandro Profumo.
In una pausa della giornata, gli inquirenti, conversando con i giornalisti, hanno tenuto a precisare che fino adesso nei confronti di Bankitalia e Consob - a differenza dei loro colleghi di
Trani - non hanno trovato nessun comportamento, nessun atto da censurare o che meriti un approfondimento. Al di là delle battute, colpisce che in questa delicatissima inchiesta la sintonia tra gli inquirenti, il nuovo gruppo dirigente di Mps e gli organi di vigilanza sia molto forte. E che gli investigatori della Guardia di finanza del generale Giuseppe Bottillo, e i pm senesi abbiano le idee molto chiare sulle responsabilità e i fatti oggetto dell’inchiesta.

Corriere 31.1.13
In dieci anni l’ex presidente dell’Associazione bancaria italiana ha versato al Pd 683 mila euro
I contributi dei banchieri ai partiti
Da Mussari a Palenzona, da Verdini a Mancini: ecco le sottoscrizioni private
di Sergio Rizzo


ROMA — Mai e poi mai si potrà rimproverare a Giuseppe Mussari di non essere stato generoso con il suo partito. In dieci anni ha versato nelle casse del Pd di Siena e della locale federazione Ds la bellezza di 683.500 euro. L'ultimo assegno da 99 mila euro quando era già presidente dell'Abi.
Lui solo conosce il reale significato di quei legittimi finanziamenti. Noi sappiamo solo che nessun altro banchiere, in Italia, è stato tanto pubblicamente prodigo verso un partito quanto lui. E quanto altri amministratori della banca e della fondazione senesi. Sono almeno una ventina i dirigenti e i manager del Monte che per anni, regolarmente, hanno finanziato la politica. Soprattutto il Pd e i Ds di Siena, che hanno incassato in una decina d'anni un milione e mezzo di euro grazie ai contributi liberali di costoro. Nell'elenco c'è anche, con 125 mila euro versati fra il 2010 e il 2011, il presidente della Banca Antonveneta Ernesto Rabizzi. Insieme al presidente della Sansedoni, l'immobiliare della Fondazione, Luca Bonechi, al consigliere della stessa Fondazione Paolo Fabbrini, agli ex consiglieri della Banca Toscana Moreno Periccioli e Alessandro Piazzi, ai revisori Giovacchino Rossi e Marcello Venturini, ai consiglieri Fabio Borghi e Saverio Carpinelli, all'ex vicepresidente della Banca Toscana Aldighiero Fini... Senza contare i tanti ex politici cui la banca ha offerto una comoda ricollocazione. Con loro, stima Libero, si arriva a un paio di milioni.
Sbaglierebbe, tuttavia, chi pensasse che i soldi degli amministratori del Monte abbiano preso una sola direzione. Come si capisce dai 10 mila euro offerti nel 2004 dal presidente della fondazione Gabriello Mancini alla Margherita. Partito finanziato (6.750 euro) pure dal suo referente, il presidente del consiglio regionale toscano Alberto Monaci, il quale aveva già dato 14 milioni di lire nel 2000 al Partito popolare. Ma gli eredi senesi della Dc, allora, potevano contare anche su contributi per 60 milioni da parte di Giuseppe Catturi, consigliere di molte società del gruppo come la Banca 121 che il Monte aveva acquistato a caro prezzo dalle famiglie salentine Gorgoni e Semeraro. E proprio Lorenzo Gorgoni, al quale venne riservato un posto nel consiglio del Monte, finanziò nel 2005, con 25 mila euro più altrettanti di sua sorella Antonia, la campagna elettorale del forzista Raffaele Fitto in Puglia.
Del resto, l'aveva soccorso già nel 1999, prima ancora di vendere ai toscani la propria banca, con una ventina di milioni. Perché se il Monte è certo un caso limite, la commistione fra banchieri e politica non è fatto raro né recente. Basta dire che per anni il coordinatore del Pdl Denis Verdini è stato contemporaneamente deputato e presidente del Credito cooperativo fiorentino, nonostante il divieto sancito da una legge del 1953. E questo in virtù della deroga, comprensibile per l'epoca ma assurda oggi, che quella legge concedeva agli incarichi nelle coop. Deputato e banchiere, finanziava pure il suo partito. In due anni, 74 mila euro. Ma non è forse un banchiere anche Silvio Berlusconi, azionista di Mediolanum, nonché principale finanziatore di Forza Italia e del Pdl? Una briciolina ce l'ha messa nel 2005 anche il suo socio di banca, Ennio Doris. Diecimila euro.
La banca, altri, se la sono invece fatta addirittura mentre erano in Parlamento. Ricordate la leghista Credieuronord, finita in un crac imbarazzante? Era amministrata da un consiglio in cui figuravano non pochi onorevoli: da Stefano Stefani al presidente della commissione Bilancio Giancarlo Giorgetti, al sottosegretario all'Interno (!) Maurizio Balocchi.
Impossibile poi, per la serie dei banchieri-politici in carica, non ricordare Fabrizio Palenzona, al tempo stesso presidente della Provincia di Alessandria e consigliere di Mediobanca grazie alla vicepresidenza di Unicredit ottenuta per conto della Fondazione CrT: dove si era praticamente autonominato come rappresentante della sua Provincia. Fra il 2004 e il 2005 Palenzona ha dato alla Margherita 34 mila euro.
Poco più di 18 mila ne ha invece versati a quel partito il vicepresidente della Fondazione CrT, Agostino Gatti. Il presidente della Fondazione Cassa di Bologna, Filippo Sassoli de' Bianchi, aveva invece preferito nel 2001 dare 25 milioni di lire a Berlusconi. Mentre il presidente della Bnl Luigi Abete, ritenuto vicino prima al Ppi e quindi alla Margherita, nel 1999 figurò fra i finanziatori dell'Italia dei Valori di Antonio Di Pietro. Con 49 milioni di vecchie lire.

La Stampa 31.1.13
Dal Palio al Guatemala la Fondazione chiude i rubinetti
Erogazioni limate a 5 milioni. Ma potrebbero anche essere bloccate del tutto
di Gianluca Paolucci


Cinque milioni di euro, se va bene. Altrimenti niente. Il documento programmatico della Fondazione Mps mette nero su bianco ciò che i senesi avevano già capito da tempo: la stagione delle vacche grasse è finita. E considerato l’ammontare delle erogazioni fatte dalla Fondazione degli anni precedenti, la notizia non è comunque di quelle ben recepite. Anche perché influenzerà necessariamente una tradizione locale come quella del Palio
La novità vera è piuttosto che la Fondazione andrà a cercarsi i soldi fuori dalla banca. Data la situazione di difficoltà dell’istituto di credito, che nella migliore delle ipotesi tornerà all’utile nell’esercizio 2014 (ovvero niente dividendi per le casse della fondazione fino al 2015), a Palazzo Sansedoni hanno aguzzato l’ingegno. Quindi l’unica area che viene previsto di rafforzare è quella di fund raising, ovvero il reperimento risorse. Come? Sviluppando «una serie di relazioni nazionali e internazionali volte, da un lato, a trovare dei finanziamenti per i progetti di interesse, dall’altro, a sviluppare un’attività di consulenza a favore degli stakeholder per la partecipazione a bandi di finanziamento nazionali e internazionali».
Nuovi flussi di denaro Sempre questa funzione potrà poi - ed è questa forse la novità più rilevante trasformarsi in «consulente», magari anche retribuito, fornendo servizi «agli stakeholder, alle società strumentali e alle partecipate. Tali servizi - è scritto nel documento - potrebbero diventare una fonte di flussi positivi per la Fondazione, ovvero rappresentare una nuova forma di erogazioni indirette verso il territorio». Una rivoluzione copernicana - se applicata e funzionante - del mondo delle Fondazioni bancarie e non solo di Mps. Che hanno funzionato, dalla loro istituzione nel 1995 a oggi, secondo un principio molto semplice: incasso un sacco di soldi di dividendi dalla banca conferitaria e distribuisco più o meno organicamente sul territorio.
Facile, quando le cose vanno bene. E va detto che a Siena si erano fatti prendere un po’ la mano. Nel 2010, quando già le cose non stavano andando granché per la banca e per le banche in generale, l’elenco dei contributi occupa 48 pagine e contiene tra le altre cose 10 mila euro per l’associazione amici del Guatemala, 5 mila per l’Associazione Amici del movimento operaio e contadino della provincia di Siena (per lo svolgimento della «attività istituzionale»), mille euro al circolo Arci di San Rocco a Pilli, delizioso paesino della provincia.
Cinquemila euro per l’acquisto delle divise della Filarmonica di San Casciano dei Bagni, mentre solo mille alla Filarmonica della vicina Chiusi. Al di là delle note di colore, c’è un elenco sterminato di associazioni e progetti di grande impatto sul territorio o nel mondo della solidarietà.
I progetti incompiuti Il problema maggiore del semi-azzeramento deciso dall’Ente è però una serie di progetti partiti negli precedenti, quando ancora le vacche erano belle grassocce.
Interventi destinati spesso ai piccoli comuni della provincia, per i quali la fondazione si era impegnata a pagare le rate dei mutui per rifare la pavimentazione a San Giovanni d’Asso, realizzare una mensa scolastica ad Abbadia San Salvatore. Tutti i progetti già avviati, nelle nuove linee programmatiche messe nero su bianco dalla fondazione, dovrebbero avere la priorità e quindi ottenere i fondi promessi. Ma c’è il problema che i soldi potrebbero non bastare per tutti. Basti dire che l’argomento dei mutui lasciati «scoperti» dalla Fondazione ha portato al commissariamento del comune di Siena. E che potrebbe avere un impatto analogo su un lungo elenco di piccoli comuni della provincia, anche loro contagiati dalla voglia di magnificenza del capoluogo.
Nella necessità di recuperare risorse, la Fondazione potrebbe anche ricorrere così alla cessione di parte della quota in Mps. Si tratta della già annunciata soglia del 33,5%, che potrebbe scendere ulteriormente in caso pagamento in azioni delle cedole dei Monti-bond.

l’Unità 31.1.13
Sono finiti i fondi
Solidarietà e cultura in crisi a Siena
La città ha sempre contato sulle generose erogazioni della Fondazione, adesso non ci sono più risorse e molti ne soffrono gli effetti
di Sonia Renzini


La povertà è una brutta piaga e Siena a torto o a ragione è costretta a farci i conti. È l’altra faccia della floridità degli anni appena trascorsi, quando Mps era una banca blasonata che riempiva le bocche di tutti solo per meriti e virtù. Ma questo era prima, l’ora è fatto di soldi che non ci sono più, e di associazioni sportive e di volontariato, di enti culturali e parrocchie che dovranno ripartire da zero e fare da sé, perché le erogazioni della Fondazioni cadevano a pioggia su tutti, nessuno escluso. Dall’Aism per la sclerosi multipla all’Unione dei ciechi, dall’Asedo, che si occupa di persone down, all’associazione paraplegici, ma anche quelli del tiro a piattello, tutti potevano contare al momento giusto sulla manna della Fondazione per portare avanti attività e progetti che contribuivano a un certo modello di welfare e facevano calare la spesa sanitaria della città di diversi punti sotto la media nazionale.
UNA MANNA
E per forza, una serie di servizi, come il trasporto per persone in difficoltà e l’assistenza domiciliare agli anziani, erano interamente finanziati con i soldi della Fondazione. Perfino due asili, per non dire dei progetti della Provincia, da «Un buono per amico», che prevede l’accompagnamento di una persona disabile a vedere la partita, a «Un euro all’ora per badanti», un contributo per integrare la spesa delle famiglie che hanno un anziano in casa. Una situazione idilliaca, sotto molti punti di vista, che ha cominciato a sgretolarsi un anno fa con il commissariamento del Comune. «Da quel momento la situazione è cominciata a diventare drammatica – dice Agostino D'Ercole, presidente della Consulta dell’handicap, che raggruppa varie associazioni senesi del settore Tanto più perché si è unita ai tagli sul sociale a livello nazionale Una signora che ha una figlia cerebrolese mi ha detto che da un giorno all’altro si è ritrovata senza nemmeno più un’ora di assistenza per la figlia, da 24 che erano». Ancora, nel 2012 il comune di Siena nel mese di marzo prevedeva 320 ore di assistenza per gestire le varie situazioni di persone in difficoltà, dopo il commissariamento sono diventate 86. Con il commissariamento, dunque, iniziano le prime avvisaglie, in termini numerici significa che i soldi erogati si riducono a 21 milioni di euro dai 197 milioni che erano nel 2007. Sembrava già brutta, invece il bello doveva ancora venire, ieri la certezza. Le ultime notizie sono nere che più nere non si può: le nuove erogazioni per il 2013 prevedono 5milioni di euro massimo, ma anche niente se la situazione peggiorerà. Poche righe che bastano a cancellare la vita sociale, culturale e religiosa di tutta una città che in 14 anni, dal 1996 al 2010, ha potuto contare su oltre due miliardi di euro della Fondazione. «Era come un rubinetto di acqua corrente che si apriva e spargeva benessere intorno a sé», dice un volontario di un’associazione di disabili che vuole mantenere l’anonimato. Poche migliaia di euro qua, qualche centinaia di là, qualche volta, certo, anche somme più sostanziose, ma sta di fatto che proprio tutti riuscivano a raccattare qualche briciola. La prassi era consolidata, verso aprile maggio veniva emanato il bando ordinario, in base al quale istituzioni e associazioni presentavano le loro progettualità, poi a novembre usciva la graduatoria nella quale figuravano un migliaio di soggetti dei vari settori. Negli ultimi anni, per rilanciare l’economia, si è aggiunto un altro bando specifico per le opere interamente cantierabili. In compenso ora c’è il buio. Cosa succederà? «Scenderemo in strada per autofinanziarci vendendo mele gardenie», conclude D’Ercole.

La Stampa 31.1.13
Fassina: “Rivedere la legge Ciampi Ci vuole più ricambio”
“Separare le banche dalle Fondazioni sarebbe un grave errore
Pur con tutti i limiti, sono state uno spazio di democrazia economica”
di Alessandro Barbera


Fassina, la Fondazione Mps si dice pronta a scendere sotto il 33% della banca. Una buona notizia?
«Pronti a scendere? Mi pare che la situazione li costringa a cedere quote».
La banca potrebbe essere scalata? Lei sarebbe favorevole a nuovi soci?
«La priorità è far tornare in salute la banca, così come trovare imprenditori in grado di aiutare la sua crescita».
Fior di liberali consigliano la nazionalizzazione a tempo, altri la vorrebbero commissariata. Lei no?
«Bisogna dare la possibilità a Profumo e Viola di procedere con il piano di risanamento e creare le condizioni perché il prestito venga restituito».
C’è chi teme per i quattro miliardi di noi contribuenti. Nel Pdl dicono che quei soldi lo Stato non li rivedrà mai. Che ne pensa?
«Il prestito è precauzionale. Serve a coprire la forte esposizione della banca verso i titoli di Stato. Ma per rassicurare chi è preoccupato per il modo in cui vengono usate le risorse si potrebbe imporre la nomina di un rappresentante del Tesoro nel consiglio di amministrazione della banca».
Lei non crede che se siamo arrivati a questo punto è perché la Fondazione ha voluto mantenere a tutti i costi il controllo della banca?
«Ricordo sempre che a Siena c’era un sindaco - Ceccuzzi - che ha pagato un prezzo politico molto alto per aver tentato di cambiare lo status quo. Ciò detto, è vero: la Fondazione si è ostinata a mantenere il controllo e la legge Ciampi non ha funzionato a dovere. Per questo sono convinto che andrebbe cambiata».
Come?
«Rafforzandola, per evitare in futuro che qualche Fondazione possa avere la tentazione di riprendere il controllo delle banche partecipate».
Metterebbe una nuova soglia quantitativa?
«Quel che conta è evitare una presenza di controllo e nel caso intervenire».
Secondo lei le banche dipendono troppo dalle Fondazioni?
«Hanno trovato un rapporto positivo».
Eppure proprio Profumo fu mandato via da Unicredit per mano delle Fondazioni che ne lamentavano l’eccesso di indipendenza. Non è cosi?
«Allora le cause furono diverse, non dipese solo da questo».
Non c’è ancora troppa politica nelle Fondazioni?
«Nel riformare la legge Ciampi si potrebbe qualificare la composizione delle nomine di provenienza politica».
Che significa? E come? Con un manuale Cencelli?
«Per evitare ossificazioni si potrebbero imporre regole sul ricambio ai vertici delle Fondazioni, garanzie sulle competenze dei nominati».
E come la mettiamo con la Corte costituzionale che ha sancito la natura privatistica delle Fondazioni?
«Io credo che regole diverse e nuove, senza spirito punitivo, sarebbero nell’interesse di tutti».
Non è possibile immaginare che banche e Fondazioni prendano due strade diverse una volta per tutte?
«Sarebbe un grave errore. Pur con tutti i limiti di un circuito chiuso, le Fondazioni sono state uno spazio di democrazia economica. Chi potrebbe sostituirle? Il fondo sovrano di qualche regime autocratico? Qualche fondo speculativo con sede nei paradisi fiscali? Vogliamo i fallimenti a catena del sistema bancario americano? »

Corriere 31.1.13
La nuova schedatura contro i finti poveri
Riccometro, oggi il nuovo decreto sull'Isee
di Enrico Marro


ROMA — Dopo il nuovo redditometro per stanare gli evasori arriva la riforma del riccometro per dare la caccia ai finti poveri. Il governo ha infatti deciso di andare avanti, nonostante l'opposizione della Lombardia che la scorsa settimana aveva bocciato in sede di Conferenza Stato-Regioni il decreto della presidenza del Consiglio di revisione dell'Isee, indicatore della situazione economica equivalente, meglio noto come riccometro, che serve a ottenere una serie di prestazioni sociali, dagli asili nido alle case popolari.
Su un altro fronte, quello previdenziale, il governo ha intanto risolto il problema di coloro che, con 15 anni di contributi versati prima della riforma Amato del '92, rischiavano di perdere il diritto alla pensione di vecchiaia a causa della riforma Fornero che ha aumentato il requisito a 20 anni. Il ministro del Lavoro, Elsa Fornero, ha infatti dato il via libera a una circolare dell'Inps che mantiene i 15 anni per chi li aveva maturati prima della riforma Amato. Vengono così salvaguardate circa 65 mila persone secondo le stime, in gran parte donne, che altrimenti sarebbero state costrette alla contribuzione volontaria oppure avrebbero perso il diritto alla pensione.
Ma torniamo al riccometro. Oggi il Consiglio dei ministri dovrebbe approvare una «deliberazione motivata» sulla riforma dell'Isee che consente di superare il mancato accordo con la Conferenza delle Regioni, dovuto al voto negativo della Lombardia che avrebbe voluto criteri meno stringenti sui nuclei familiari. Insieme al redditometro il nuovo riccometro è parte integrante della manovra sui conti pubblici ed è finalizzato a evitare abusi nelle prestazioni sociali. L'Isee serve per misurare la situazione economica della famiglia per l'accesso a una serie di servizi pubblici: dagli assegni di maternità agli sconti sulle bollette della luce e del telefono. Si prevede una valutazione più attenta del patrimonio. Non solo auto di lusso, moto potenti e barche ma anche l'ammontare dei conti correnti, gli investimenti in azioni, fondi d'investimento e anche in Bot e Btp. Forte la stretta sui redditi immobiliari. I nuovi criteri prendono a riferimento il valore delle case e dei terreni ai fini Imu, cioè con la rendita rivalutata del 60%. Si potrà però sottrarre il mutuo residuo ed è previsto un abbattimento di un terzo per chi vive nella casa. Previste norme anti-furbi per l'individuazione dei nuclei familiari. Non importa se i coniugi hanno una diversa residenza anagrafica. Saranno considerati nuclei distinti solo se c'è una separazione giudiziale o l'omologazione di una separazione consensuale. Invece, e questo va a favore della famiglie, un figlio maggiorenne non convivente con la famiglia ma a suo carico ai fini Irpef farà parte a pieno titolo del reddito familiare complessivo.

il Fatto 31.1.13
Anche dopo B. la stampa non è tanto libera
di Alessandro Oppes


Reporters sans Frontières aggiorna i criteri di elaborazione della Classifica mondiale della libertà di stampa, ma per l'Italia cambia ben poco: 57° posto nel 2013, rispetto al 61° dello scorso anno. Diretta conseguenza del fatto, come rilevano dall'Ong con sede a Parigi, che il nostro paese “non ha ancora depenalizzato la diffamazione”, mentre “le istituzioni strumentalizzano pericolosamente la legge bavaglio”. È per questo che continuaiamo a essere quasi il fanalino di coda dell'Unione Europea (peggio di noi solo la Grecia, scivolata dal 70° all'84° posto, e la Bulgaria, 87a), mentre una parte consistente dei paesi membri - 16 - sono nelle prime 30 posizioni di una classifica guidata ancora una volta dalla Finlandia, davanti a Olanda e Norvegia, e che si chiude, al solito, con Turkmenistan, Corea del Nord ed Eritrea.
L'ITALIA si mantiene persino un gradino sotto l'Ungheria che, ricorda Rsf, “paga ancora il prezzo delle sue riforme legislative liberticide, che hanno trasformato considerevolmente l'esercizio del giornalismo nel paese”.
Per la prima volta, l'organizzazione internazionale pubblica anche un “indicatore annuale globale”, che misura il livello generale di libertà d'informazione nel mondo, considerata la diffusione delle nuove tecnologie e l'interdipendenza tra governi, cittadini e produzione e distribuzione delle informazioni su scala planetaria. Con un punteggio da 0 a 100 (dove zero rappresenta un rispetto totale alla libertà dei media), l'Europa ha 17,5 punti (ma l'Italia è a 26,11), mentre in coda, nonostante la Primavera araba, restano Medio Oriente e Maghreb, con 48,5 punti.
Tra i paesi che hanno visto peggiorare notevolmente la situazione della libertà di stampa, spicca il caso del Mali, scivolato di 25 posizioni, al 99° posto. Sempre preoccupante la situazione di Siria, Bahrein e Yemen, mentre Israele, i cui giornalisti godono di un buon livello di libertà, è stato penalizzato nella graduatoria in seguito agli attacchi ai professionisti dell'informazione nei Territori palestinesi.

Repubblica 31.1.13
Libertà d’informazione nel mondo Italia al 57° posto dietro il Niger


ROMA — Italia ancora indietro quanto a libertà d’informazione a causa di una cattiva legislazione sulla stampa. E’ il dato che emerge dal rapporto 2013 di “Reporter senza frontiere” che colloca il nostro Paese al 57esimo posto della classifica, addirittura dietro Botswana e Niger; appena quattro posizioni meglio rispetto al 2012. Una tendenza, secondo lo studio, comune ad altre nazioni europee ma, in Italia, aggravata dalla «mancata depenalizzazione del reato di diffamazione » e da un «diffuso uso di pericolose leggi bavaglio». Per Franco Siddi, segretario Fnsi, «non meritiamo questa posizione anche se permangono notevoli anomalie sul piano legislativo». «I quattro punti guadagnati rispetto all’anno scorso — continua il leader del sindacato della stampa — sono un piccolo passo avanti ma certamente non un risultato di cui andare fieri».

l’Unità 31.1.13
La Francia: stop alla pillola contraccettiva
La Diane 35 avrebbe causato 4 morti in 25 anni. Gli esperti: rischio basso, non va considerato
Elisabetta Canitano: «Noi ginecologi non sappiamo come comportarci»
di Cristiana Pulcinelli


Si chiama Diane 35, è utilizzata come antiacne ma anche come anticoncezionale in vari paesi europei compresa l’Italia. Ora in Francia non si venderà più. L’Agenzia nazionale per la sicurezza dei medicinali francese ha ordinato lo stop alla commercializzazione di questa pillola prodotta dalla casa farmaceutica tedesca Bayer, ma anche dei suoi equivalenti generici. Il provvedimento entrerà in vigore tra tre mesi. Nel frattempo, ha detto Dominique Maraninchi direttore dell’Agenzia, i pazienti non dovrebbero interrompere il trattamento: «Esistono molte altre opzioni terapeutiche». Diane 35 è accusata di aumentare il rischio di tromboembolie venose e arteriose. Secondo i dati forniti dall’Agenzia, sarebbe responsabile di 125 trombosi e 4 decessi causati da una trombosi venosa negli ultimi 25 anni. Il farmaco aveva avuto l’autorizzazione per la vendita solo come farmaco antiacne, mentre da molti anni viene prescritto come anticoncezionale.
Si è aperto così un altro capitolo della guerra alla pillola cominciata Oltralpe già a settembre scorso quando il ministro della sanità, Marisol Touraine, aveva annunciato che a partire da settembre 2013 le pillole contraccettive di terza e quarta generazione non sarebbero state più rimborsate dal servizio sanitario. Si tratta di pillole utilizzate da circa due milioni di donne francesi e che venivano rimborsate al 65%. La decisione era stata presa dopo che la Haute Autorité de Santé aveva rilevato nelle donne in trattamento con queste pillole «un rischio di complicazioni trombovenose due volte più alto rispetto a quello corso dalle donne sotto trattamento con pillole di seconda generazione». Anche se, spiegava l’autorità, «il rischio resta tuttavia basso: 3-4 casi ogni 10mila donne che le utilizzano».
La seconda puntata risale a dicembre scorso: sui giornali esce la notizia che Marion Larat, una ragazza di 25 anni invalida al 65% per colpa di un ictus, ha intentato causa alla Bayer. A causare l’ictus, secondo i legali della ragazza, sarebbe stato un contracettivo di terza generazione prodotto dal colosso tedesco preso da Marion. L’11 gennaio scorso è arrivata una nuova dichiarazione del ministro Touraine: «La Francia vuole limitare la prescrizione delle pillole contraccettive di terza e quarta generazione». Non solo, dunque, la paziente a cui vengono prescritte se le deve pagare da sola, ma la prescrizione può avvenire solo nel caso in cui la donna non possa per qualche motivo prendere le pillole di concezione più vecchia. Per fare questo, la Francia deve però rivolgersi all’Europa: il ministro chiede così all’Agenzia dei farmaci europea (Ema) di riesaminare questi farmaci.
In realtà, il fatto che le pillole più recenti comportassero un rischio maggiore di formazione di trombi era già conosciuto. «Le pillole combinate contengono un estrogeno e un progestinico – spiega Elisabetta Canitano, ginecologa e presidente di Vita di donna, un’associazione per la tutela della salute della donna Quelle di prima e seconda generazione però usavano un progestinico più vicino al testosterone, un ormone presente soprattutto negli uomini, e quindi davano effetti collaterali come l’insorgenza di acne, la crescita di peli, l’aumento di peso. La ricerca si è allora indirizzata su progestinici che non avessero questi effetti e sono nate così le pillole di terza e quarta generazione. Però, è aumentato il rischio di trombosi. Questo spiegherebbe anche il caso Diane 35, una pillola di vecchia generazione ma che usa un progestinico simile a quelli più moderni, scarsamente virilizzante, anzi usato contro acne e ipertricosi». Tuttavia, parliamo di un rischio molto basso: «Una donna giovane, non fumatrice e con la pressione normale ha più probabilità di essere centrata da un fulmine», secondo una dichiarazione rilasciata da Carlo La Vecchia, epidemiologo dell’Istituto Mario Negri. Un rischio così basso che finora era stato poco o nulla preso in considerazione anche dalle autorità: un comunicato dell’Ema datato 11 gennaio 2013 sosteneva che «non c’è al momento nessuna nuova evidenza che suggerisca un cambiamento del profilo di sicurezza di qualsiasi contraccettivo combinato oggi sul mercato. Quindi non c’è ragione per cui una donna debba smettere di usarlo». «Noi ginecologi non sappiamo come comportarci – dice Canitano -. Le pillole di terza e quarta generazione sono molto prescritte. Tra l’altro sono appena uscite dal copyright e sono stati lanciati sul mercato 4 farmaci equivalenti». Certo è che se non verranno rimborsate dalla Francia sarà più difficile prescriverle. «Una perdita enorme per le case farmaceutiche che le producono – continua Canitano e un guadagno immenso per chi produce le pillole di seconda generazione...».

Repubblica 31.1.13
L’Ungheria contro gli scrittori dissidenti “Screditano il Paese, via la cittadinanza”
Proposta dell’Accademia delle belle arti. “Ora la Ue intervenga”
di Andrea Tarquini


BERLINO — Per essere veri patrioti occorre fedeltà alla patria, al confronto il talento non vale nulla. Se non ci stai, rischi di perdere la cittadinanza. Minacce impossibili in Europa? Errore, è il nuovo credo nella politica culturale del governo di destra nazionalpopulista euroscettico di Viktor Orbàn. Lui di persona, l’autocrate, non si pronuncia. Ma lascia parlare i suoi turiferari. «Dovremmo pensare a una revoca spirituale della cittadinanza per scrittori come Gyorgy Konràd, Péter Esterhàzy o Imre Kertész», ha detto Adam Medveczky, dirigente dell’accademia un tempo prestigiosa. Parliamo dei tre massimi scrittori magiari viventi, Kertész Nobel 2002 della letteratura. Strappare la patria ai letterati: lo fece Hitler con Mann e Brecht.
«Sono parole di pochi estremisti, ma il governo non li sconfessa. Il pericolo più serio è perdere al consenso sui valori liberal i giovani, esposti a informazione e propaganda ufficiali», dice Péter Esterhàzy, che aggiunge: «L’Europa non farebbe male a farsi sentire, ma tocca a noi lottare».
«Chi è nato come ungherese, ma all’estero insulta e danneggia l’Ungheria, non può essere considerato ungherese”, ha insistito Medveczky. Rafforzato da dichiarazioni del presidente dell’Accademia delle belle arti ungherese (Mma), Gyorgy Fekete: «Nessun membro della nostra accademia può permettersi d’ignorare la sensazione dell’appartenenza genetica alla nazione». Nemmeno sotto il comunismo gli intellettuali venivano minacciati in modo così brutale.
Tragedia ungherese, ancora un atto. Non è bastato a Orbàn riscrivere in senso autoritario e nazionalista la Costituzione, né epurare funzione pubblica, ministeri, magistratura, né istituire la Nmhh, l’autorità-grande fratello di controllo sui media. E va ogni giorno più avanti, scommettendo sui silenzi colpevoli dell’Unione europea. «Non appoggeremo più opere non patriottiche », ha detto Fekete. Statue dell’ex dittatore fascistoide e alleato di Hitler, Miklos Horthy, erette ovunque, libri antisemiti
suggeriti dal governo come testi obbligatori a scuola, consegna della Nmhh ai giornalisti a esaltare in ogni articolo “l’identità nazionale”.
L’Ungheria membro di Ue e Nato, che mendica a Ue e Fmi crediti per non finire come Atene, spara a zero sui valori comuni europei. I perdenti non sono solo i valori costitutivi dell’Europa: gli estremisti neonazi e negazionisti di Jobbik (terza forza in Parlamento) si vedono il terreno dei consensi strappato dall’abile demagogia di Orbàn. Nazionalismo, retorica etnica, riabilitazione di Horthy, lavoro obbligatorio in uniforme arancione in stile Guantanamo per i rom. Orbàn cerca sempre più consensi rubando i temi e le soluzioni alla destra più radicale. Fino alle proposte di togliere la cittadinanza ai massimi scrittori, appunto. E l’Europa, su Budapest tace.

l’Unità 31.1.13
Israele, lampi di guerra Caccia colpiscono in Siria
Bombardato un convoglio di armi alla frontiera tra Siria e Libano. No comment di Gerusalemme
di Umberto De Giovannangeli


Israele entra nel teatro di guerra siriano. I caccia con la stella di David hanno bombardato un convoglio di armi al confine tra Siria e Libano. «Le forze aeree israeliane hanno fatto saltare in aria un convoglio che aveva appena attraversato il confine dalla Siria verso il Libano», ha detto la fonte, rimasta anonima. La notizia arriva dopo che, nella mattinata, fonti occidentali avevano riferito che l’altra notte l’Air Force israeliana aveva compiuto una serie di raid aerei contro obiettivi al confine tra Siria e Libano.
ESCALATION
«Israele mantiene la massima vigilanza di fronte alle attività regionali dell'Iran e segue con attenzione la sorte degli arsenali di armi mortali in Siria, un Paese che va spaccandosi». Nei giorni scorsi, aprendo la seduta settimanale del consiglio dei ministri il premier israeliano Benyamin Netanyahu aveva sciolto le riserve, lanciando l'ennesimo messaggio alla comunità internazionale.
Lo aveva fatto alla vigilia delle indiscrezioni trapelate dal suo vice, Silvan Shalom, a proposito di una riunione a porte chiuse tenuta dai vertici della sicurezza nazionale pochi giorni dopo l'esito delle legislative. Una consultazione lampo, durante la quale i fedelissimi di Netanyahu avevano discusso per la prima volta l’apertura di un’ondata di raid preventivi volti ad impedire che gli arsenali chimico-batteriologi siriani i più grandi dell’intera regione potessero finire nelle mani delle milizie sciite libanesi di Hezbollah o di gruppi legati ad al Qaeda.
E ieri, i raid, sono arrivati nel consueto format adottato da Tzahal: lampo. In un lampo Israele è sceso in campo in prima linea nel conflitto che da oltre 22 mesi devasta il popolo siriano. I suoi caccia hanno bombardato un convoglio di armi al confine con il Libano, calcando perfettamente la linea intrapresa di recente nel corso dell’operazione «Pilastro della difesa» condotta nei confronti delle cellule terroristiche di Hamas. «Le forze aeree di Tel Aviv hanno fatto saltare in aria un convoglio che aveva appena attraversato il confine dalla Siria verso il Libano», ha spiegato una fonte parlando a condizione di anonimato, viste le delicate dimensioni della questione.
Una seconda voce, proveniente da ambienti della sicurezza, ha tuttavia precisato che «l’obiettivo, colpito intorno a mezzanotte, al momento dell’attacco si trovava ancora nel territorio siriano». Entrambe le fonti hanno inoltre registrato un «alto livello», definito «inusuale», di attività dell’aviazione israeliana nello spazio aereo libanese negli ultimi due giorni. L’esercito di Beirut ha confermato la notizia: «Dalle 8:30 di ieri alle 2 notturne di mercoledì diversi aerei da guerra di Israele sono entrati per almeno 16 volte nello spazio aereo libanese». «Ogni giorno ci sono sorvoli israeliani, ma ieri erano molto più intensi del solito», ha puntualizzato, poi, una terza fonte alla France Presse. Un ufficiale statunitense, con la condizione dell’anonimato, ha dichiarato che il raid ha colpito un convoglio di camion. Un portavoce dell’esercito israeliano non ha voluto confermare la notizia. L’attacco è stato lanciato solo pochi giorni dopo che Israele ha trasferito a nord due batterie del suo sistema anti-missile Iron Dome, a fronte del crescente timore che il conflitto siriano possa riversare armi in Libano.
Il raid aereo, è stato prontamente smentito dalle autorità libanesi «Le notizie di raid israeliani al confine siro-libanese sono semplici dicerie», afferma l’agenzia di Stato libanese Nna e snobbato dagli organi d’informazione ufficiali di Damasco, rischia ora di aprire una nuova spaccatura in seno al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, già profondamente diviso dall’ostruzionismo manifestato a più riprese da Pechino e Mosca. Una divisione che ieri ha costretto lo stesso inviato speciale di Onu e Lega araba, Lakhdar Brahimi, a ricordare a Washington e Bruxelles che non ha intenzione di mollare il proprio incarico, ma che al contempo i Quindici hanno l’obbligo di esercitare una pressione più consistente verso il regime di Bashar al-Assad.
Intanto Israele mantiene un elevato stato di allerta nel Nord del Paese. La radio militare ha spiegato che in particolare esiste il timore che armamenti sofisticati, e non necessariamente chimici, passino dalla Siria agli Hezbollah. Radio Gerusalemme ha riferito che in alcune zone di Israele si è notato ieri un netto aumento delle persone che ritirano maschere antigas dalle apposite postazioni del comando delle retrovie: erano state allestite da mesi, ma finora erano state spesso ignorate.

il Fatto 31.1.13
I Tuareg schiacciati tra islamici e neri
Si teme la vendetta delle etnie locali nei confronti della minoranza che ha appoggiato i jihadisti
di Anna Jannello


L’esercito francese ha preso il controllo, ieri mattina, dell’aeroporto di Kidal, il più lontano avamposto del profondo nord maliano, 1.500 chilometri dalla capitale Bamako. I francesi sono arrivati da soli, senza l’appoggio delle forze del Mali e dei paesi della Cedeao (Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale) come invece era successo nella riconquista di Gao (sabato 26 gennaio) e Timbuctu (lunedì 28 gennaio). Non ci sono stati scontri: la città, 26 mila abitanti, è sotto il controllo dei tuareg dell’Mnla (Movimento per la liberazione dell’Azawad) che l’hanno ripresa ai loro alleati della prima ora, i militanti di Ansar Dine, capitanati da Iyad Ag Ghali - leader della rivolta degli “uomini blu” all’inizio degli anni Novanta, poi convertitosi al salafismo - e ora d’accordo con i guerriglieri di Abou Zeid, l’emiro di Aqmi, nel voler imporre la sharia e convertire tutto il Mali in un paese integralista.
Messi all’angolo da diversi mesi, i Tuareg dell’Mnla rientrano in scena occupando Kidal e, a quanto afferma un comunicato, anche altre cittadine dell’Azawad, le tre regioni del nord - di cui avevano proclamato l’indipendenza da Bamako il 6 aprile 2012 - dalle quali erano stati scacciati a fine giugno dai gruppi islamisti di Aqmi, Mujao e Ansar Dine.
Un ritorno che, proclamano, è a difesa delle popolazioni locali, esposte alle rappresaglie dell’esercito malia-no e dei gruppi terroristici. “Non c’impegneremo in operazioni militari contro le forze internazionali”, ha dichiarato Mossa Ag Attaher, portavoce del movimento. Anzi, l’Mnla offre alla Francia la disponibilità a combattere insieme contro il terrorismo. Un aiuto di cui i francesi e le forze della Cedeao avranno bisogno se, liberate le capitali del Nord, vorranno continuare la lotta per scacciare Aqmi e soci dai contrafforti dell’Adrar des Ifoghas, da quasi un decennio base dei loro traffici e rifugio sicuro (anche per gli ostaggi occidentali che ancora vi sono detenuti).
L’AUTODETERMINAZIONE dell’Azawad – la richiesta avanzata dall’Mnla che da ottobre ha rinunciato a parlare d’indipendenza - trova però una fiera opposizione nel governo di Bamako e nell’opinione pubblica del sud del Paese, abitato da altre etnie, da sempre ostili ai tuareg. L’Assemblea nazionale ha votato all’unanimità, martedì 29 gennaio, una road map per la transizione (in vista delle elezioni sospese da fine aprile 2012) in cui si ribadisce che il governo deve esercitare la sua sovranità su tutto il territorio nazionale e deve essere recuperata l’integrità territoriale.
Un bel dilemma per la Francia, disposta a riconoscere che “i Tuareg, quando sono nel loro territorio nel nord del Mali sono a casa loro ed è importante rispettarli e considerarli alla pari degli altri maliani”, come ha affermato il ministro della Difesa Jean-Yves Le Drian, ma scesa in guerra al fianco del Mali, uno stato sovrano. “Mi augurerei un dialogo con il movimento Tuareg”, azzarda Marco Lombardi, professore di sociologia all’università Cattolica di Milano “però questo sul piano politico significa rompere con i governi di Mali, Algeria, Niger, Mauritania. Troppo rischioso”.

Repubblica 31.1.13
Fuga dalle fabbriche ora la Cina cerca operai
Popolazione che invecchia e tanta voglia di “scrivania”. Pechino si scopre senza tute blu. Con il rischio di un’emergenza produttiva
di Giampaolo Visetti


TIANJIN LA TROMBA d’aria del lavoro cinese è partita e i mercati dell’Asia, sensibili come bracconieri, stanno già dando l’allarme: l’operaio cinese è in via di estinzione. Nel 2012, per la prima volta, in Cina la popolazione in età lavorativa è diminuita. Gli individui tra 15 e 59 anni sono 937 milioni, 3,4 milioni in meno rispetto al 2011.

Il signor Zhou Yiu commercia migranti da quando aveva sedici anni. Ha cominciato acquistando treni di contadini ed ex rivoluzionari maoisti nello Hunan, da smistare nei cantieri edili di Pechino e nel suo nascente porto nella baia sul Mar Giallo. «Quarant’anni fa — dice nel suo sproporzionato ufficio imbottito di sedie basse e larghe, accostate a tavoli in sandalo rosso — bastava dire a un funzionario locale del partito che ti servivano trentamila uomini, e una settimana dopo li avevi davanti, pronti a costruire la patria». Una ciotola di riso, i soldi per tornare al villaggio prima del capodanno lunare, e la Cina organizzò il più grande esercito di operai della storia. «Voi li chiamate schiavi — dice il cinquantenne milionario che controlla oggi legalmente un quarto della forza-lavoro per le industrie di Stato della seconda economia del pianeta — ma per noi restano patrioti. Anche l’Europa si è ricostruita grazie al sacrificio degli emigranti, è successo in America, avviene in Africa. Uscire dall’essenzialità è un’ambizione che costa la vita di qualche generazione».
Il signor Zhou indica uno sconfinato parcheggio semivuoto, cinquanta piani più in basso, come contemplando il corso ormai deciso delle cose. Stormi di uomini già fatti, scendono da furgoni avvolti nello smog e vengono fatti risalire sulle navette di aziende rimaste con la catena di montaggio scoperta. È sempre tardi, nemmeno il tempo di spegnere la sigaretta: non ci sono più salariati per tutti. Il distretto industriale tra Pechino e Tinjin somiglia oggi ad uno di quegli anfratti invisibili alla deriva nell’oceano, non rilevati dai radar, ma al centro dei quali si esercitano i piccoli vortici destinati a trasformarsi nei più devastanti cicloni.
«La Cina — dice Zhou — sta esaurendo le braccia robuste. È come una foresta dove si è tagliato troppo in fretta, senza piantare. E il mercato continua a spostarsi dove c’è paglia che subito brucia». Gru, ciminiere e stabilimenti sempre più fitti, sembrano smentire il vaticinio di una fabbrica-Paese costretta a chiudere reparti che valgono più di una nazione europea. La tromba d’aria del lavoro cinese però è partita e i mercati dell’Asia, sensibili come bracconieri, stanno già dando l’allarme: l’operaio cinese è in via di estinzione, incompiuto come un pinguino, candidato a diventare vecchio prima di essere riuscito a diventare ricco.
Nel 2012, per la prima volta, in Cina la popolazione in età lavorativa è diminuita. Gli individui tra 15 e 59 anni sono 937,27 milioni, 3,45 milioni in meno rispetto al 2011. Un granello di polvere che si stacca dalla Grande Muraglia. Nel punto più fragile, però, e anche le autorità, se si parla di tute blu, hanno la visione posteriore di un trilobita del paleozoico. «Il calo purtroppo — dice Ma Jiantang, direttore dell’Ufficio nazionale di statistica — indica una tendenza. Tra oggi e il 2025 la Cina perderà 10 milioni di lavoratori all’anno ed entro il 2030 mancheranno quasi 200 milioni di teste. Non è solo un’emergenza produttiva». Le industrie costiere, dal Guangdong allo Zhejiang investono già su rosse armate di robot che dovranno sostituire ingrigiti drappelli di meccanici. Ma il primo avviso della scomparsa dell’operaio cinese, proprio nell’anno in cui Pechino è chiamata a riaccendere la ripresa globale, fa suonare campanelli negli uffici seminati su tutto il pianeta consegnato alla“GrandeFabbrica”.«La gente sparisce dalle piante degli
organici — dice Gu Baochang, docente all’universitàRenmin — perché diventa vecchia. Oggi i cinesi anziani sono circa 200 milioni, meno di un sesto della popolazione.
Nel 2030 saranno 360 milioni, quasi un quarto, per arrivare a 400 milioni entro vent’anni. Non avremo più contadini, né operai, ma neppure qualcuno che paghi servizi, medicine e pensioni». Può ricordare le chiacchiare annoiate dei gerontocrizzati parlamenti europei. Ma qui il metro è quello smisurato della Cina e se si perdono 200 milioni di operai, per guadagnare 400 milioni di anziani, l’impatto di questo nuovo continente sociale del secolo, ha la forza di sconvolgere il mondo.
La trasformazione non svuota del resto solo i parcheggi delle società interinali delle megalopoli. Dentro le fabbriche, le facce di chi protesta per disporre di oltre due minuti per andare in bagno, non sono più quelle dell’epoca d’oro. «Nel 1990 — dice l’economista della Tsinghua, Zhiu Shijian — l’età media dell’operaio cinese era di 24 anni. Nel 2000 è salita a 37, ora si aggira sui 49. È raddoppiata, mentre la produttività dei lavoratori si è ridotta a un terzo. Macchinari a parte, servono tre persone per svolgere le mansioni prima affidate ad una. Una nazione, come un organismo, non si sveglia vecchia di colpo, una certa mattina».
Sotto accusa, questa volta, non c’è solo la legge del figlio unico. La spietata selezione di Stato, in oltre trent’anni, ha risparmiato all’universo oltre 400 milioni di umani consumanti. È un sacrificio di massa che ha costruito 55 milioni di «nidi vuoti», come i cinesi chiamano le case abitate da un genitore abbandonato, ma che incide sempre meno sulla demografia. «Se anche il partito concedesse a chiunque di mettere al mondo i neonati che desidera — dice Hu Yanqin, operaia di un villaggio del Gansu che lotta contro il deserto del Gobi — non assisteremmo ad una festa di bambini. I figli ormai costano troppo anche in Cina, succhiano ogni risorsa e non restituiscono nulla». La prova è Shanghai. Il 37% degli sposi, a cui è riconosciuto il permesso di allargare la famiglia, rinunciano anche al primogenito. Da 18 nascite ogni mille abitanti, nel 2000, si è crollati a 8. Si realizza lo schemaincubo della nuova leadership comunista, il “4-2-1”: famiglie con quattro nonni, due genitori e un solo figlio che per confuciano rispetto dovrebbe poi provvedere a tutti. Un’utopia, nella terra promessa dei centri commercia-li, governata da dirigenti ineffabilmente transitati dall’«arricchirsi è glorioso» al «non consumare è abominevole».
Ma come gli eroi dell’urbanizzazione cinese hanno imparato a sopportare, l’estinzione dell’operaio da 100 dollari al mese è un cataclisma assai più profondo di contingenze rimediabili, quali fertilità e longevità della specie. I nuovi figli unici, a morire avvelenati nel capannone di un terzista che esporta t-shirt in Occidente, non ci pensano nemmeno. Il traguardo è l’università, una scrivania, il mutuo per la seconda casa, le vacanze ad Hainan. In dieci anni gli atenei cinesi sono così raddoppiati, toccano quota 2.420 e ogni anno dalle aule tracimano 8,3 milioni di neolaureati. Ancora non bastano e il governo ha investito altri 250 miliardi di dollari per trasformare la più gigantesca massa di lavoratori a basso costo nella più numerosa categoria di colletti bianchi da ceto medio. Per l’ultimo balzo, il sorpasso sugli Usa, servono manager. «Il potere si rende conto — dice Guan Anxin, sociologo dell’Accademia delle scienze di Pechino — che la stagione
operaia volge al termine anche in Cina. Non accadrà domani, ma il destino è chiaro. Cinquecento milioni di operai sono invecchiati, duecento milioni di ragazzi imboccano altrestrade, i laureati migliori vanno all’estero. La carenza di braccia e di cervelli, pone per la prima volta il problema drammatico dei diritti e del costo del lavoro. Pagare il giusto è necessario per accelerare l’urbanizzazione e promuovere la ristrutturazione economica, aumentando i consumi interni. Ma in Cina, chi ci prova, per ora chiude».
È la ragione per cui nelle storiche regioni industriali, nella tenaglia tra carenza di manodopera, scioperi, aumenti della paga e crollo dell’export, si assiste per la prima volta anche alla fuga delle imprese. Il salario operaio medio, in una metropoli in espansione come Chongqing, è schizzato all’equivalente di 300 euro al mese. In Vietnam si resta sui 100 dollari, in Thailandia e nel Sudest asiatico si scende a 80, in Bangladesh e Birmania si lavora per un dollaro al giorno. Quantità e costo degli operai sono solo una delle valutazioni, non quella decisiva, che inducono gli investitori a scegliere il luogo dove produrre. La pressione politica induce più di un ritorno eccellente in Occidente e il ministero del Commercio cinese ha rivelato che per la prima volta nel 2012 gli investimenti diretti esteri sono scesi del 3,7%. Si sono arenati a 111 miliardi di dollari, mentre sempre più aziende cinesi e multinazionali, «per coprirsi le spalle in Oriente», cominciano a delocalizzare in Paesi emergenti più competitivi. «La scintilla di questa rivoluzione produttiva — dice Andrew Heath, direttore marketing del più grande gruppo cinese di macchine utensili — è il declino dell’operaio cinese giovane e a costi stracciati. Nella fascia bassa, la Cina ha perso il vantaggio accumulato e la transizione porta ineluttabilmente verso l’orbita indiana, prossimo monopolista dei beni globali di consumo. Nella produzione media e alta però, fino ad oggi riservata a Giappone e Corea del Sud, Pechino sta riprendendo il suo slancio, offrendo il più ricco mercato di ogni tempo».
Da ex contadini e operai in via d’estinzione, i cinesi provano a reinventarsi tecnici e manager, per fingersi finalmente sazi e insoddisfatti giocatori di Borsa, come europei e americani. I salariati rossi diventano azionisti in nero e i fondi del partito possono acquistare in saldo i reperti archeologici della post-industrializzazione occidentale. Mancano operai? «Problema più superato di loro — dice l’economista Ha Jiming — i confini anche in Asia resistono solo per i politici mediocri e l’elettronica ha bisogno di scienziati e di ingegneri, non di schiavi che girano bulloni». È chiaro che una vecchia Cina capitalista delocalizzata, faro della ricerca e circondata da nuove Cine più giovani che non contano le ore, muta le prospettive virtuali che i guru di Davos preconizzano affondando lo stiletto nella fondue.
I mercati finanziari soffrono e l’euro avvista nuove tempeste, ma è solo l’ignorata estinzione dell’operaio cinese, il cuore malato del low cost, che può contribuire a spiegare perché.
A Tianjin mancano pochi giorni al capodanno lunare e per la prima volta Zhou Yiu non riesce a sostituire i migranti in viaggio verso villaggi lontani. Le fabbriche- clienti lo tempestano di telefonate, offrono premi da tedeschi, ma niente, si devono fermare. Il fornitore di uomini, sprovvisto di merce, non risponde nemmeno più al cellulare. «Guardo certi lavoratori sopravvissuti che da anni piazzo in regioni agli antipodi, tra miniere, fornaci e concerie — dice — e penso che cambia tutto. Resistono perché hanno stuoli di parenti da sfamare e non sono ammalati abbastanza. Qualcuno lo sento amico, come il commilitone di una battaglia sospesa ». Dice «cambia» e «sospesa ». Pechino perde gli operai, ma scrive già un’altra storia e i suoi occhi vagano su orizzonti nuovi che noi ancora non vediamo.

Corriere 31.1.13
Il Nazismo 80 Anni dopo. Responsabilità «perenne»
di Paolo Lepri


Il tempo non muta il giudizio, non cambia i termini dello scontro tra bene e male. «Perenne» è stata la parola chiave della visione storica con cui la Germania ha ricordato ieri l'ottantesimo anniversario della ascesa al potere di Adolf Hitler e ha celebrato la giornata della Memoria. La «responsabilità» tedesca per i crimini del nazismo non è destinata a pesare meno con il passare degli anni e il modo con cui una dittatura ha potuto rapidamente sviluppare la sua trama criminale, in quella prima metà del 1933, deve rappresentare un «avvertimento» permanente. A scegliere in due occasioni quell'aggettivo, l'aggettivo «perenne», è stata Angela Merkel, convinta che la democrazia e la libertà «non si impongano da sole» ma abbiano bisogno dello sforzo e del coraggio di tutti. E dell'impegno a non dimenticare. Bastarono pochi mesi, a partire da quel 30 gennaio in cui Hitler si fece nominare cancelliere, per distruggere la civiltà di un Paese. L'incendio del Reichstag, i decreti speciali, lo scioglimento dei partiti politici furono le tappe successive di una folle avventura. E la lettura di Angela Merkel di quanto avvenne dopo che l'ex imbianchino austriaco salutò la folla dalla finestra del palazzo di Wilhelmstrasse, non è stata né neutra né evasiva. Inaugurando la mostra «Berlino 1933, verso la dittatura» nello spazio della Topografia del terrore, dove un tempo sorgeva la centrale della Gestapo, la cancelliera ha ricordato che «professori e studenti si unirono volentieri ai nazisti, solo pochi mesi dopo, per bruciare i libri ritenuti sovversivi». Era il 10 maggio dello stesso anno nella Bebelplatz, non lontano da dove Angela Merkel parlava. L'ascesa dei nazisti — ha continuato — fu resa possibile dalla collaborazione dell'élite della società tedesca ma anche, e soprattutto, dal fatto che la «maggioranza della popolazione ha almeno tollerato quanto stava avvenendo». E nei dodici anni seguenti, definiti dal presidente del Parlamento Norbert Lammert, «un'eternità dell'orrore», furono troppi quelli che non vollero vedere. «La maggioranza delle persone guardava dall'altra parte quando incontrava per strada una persona che come me aveva una stella gialla sul vestito», ha detto la giornalista e scrittrice tedesco-israeliana Inge Deutschkron, sopravvissuta all'Olocausto, oratrice ufficiale nella cerimonia del Bundestag. Ancora una volta, quelle pronunciate in momenti come questi sono parole scomode che non fanno sconti, come purtroppo avviene talvolta altrove, né alla Storia né agli uomini. È la lezione di un Paese che oltre quaranta anni fa si è inginocchiato con Willy Brandt, di fronte al monumento del ghetto di Varsavia. Sono stati gesti che hanno convinto, che hanno indicato il cammino. Come racconta per esempio Marcel Reich-Ranicki. Quando il grande critico letterario disse al cancelliere della Ostpolitik che proprio in quella piazza della capitale polacca, dove era stato condotto insieme a migliaia di altri ebrei, aveva visto per l'ultima volta il padre e la madre prima che venissero caricati nei treni per Treblinka «uno dei due aveva le lacrime agli occhi». «Willy Brandt o io? Non ricordo più, ma ricordo bene che pensai che la decisione di stabilirmi in Germania non era stata un errore». Da allora non ha cambiato idea.

La Stampa 31.1.13
E Parigi riscopre il lato oscuro di Hugo
La mostra sulla passione esoterica del romanziere nata dopo la morte dell’adorata figlia Leopoldine
di Fulvia Caprara


Il lato paranormale rilancia lo scrittore tra le tendenze giovanili

Nel primo ambiente c’è il tavolino a tre gambe, seguono i disegni, le fotografie, i testi, le ricostruzioni delle sedute cui partecipava buona parte della famiglia, soprattutto Charles, il terzogenito, considerato medium dalle capacità spiccate. Era in grado di dettare e disegnare messaggi preziosi per entrare in contatto con i trapassati. Nella casa di Victor Hugo, al numero 6 di Place des Vosges, una mostra descrive per la prima volta le passioni esoteriche di uno dei più eccelsi romanzieri di Francia, svelando la connessione stretta tra brani di vita e personaggi dei suoi celeberrimi racconti. Si scopre che, insieme alle avventure letterarie e politiche, lo scrittore ne ha vissuta anche una, importante, nel mondo del soprannaturale «Se di certi fatti la scienza non vuole saperne - diceva l’autore l’ignoranza li accoglierà». E allora meglio contrastare il buio del cuore con la luce della conoscenza, spingendosi su territori rifiutati dal razionalismo, ma sicuramente utili alla creatività, e soprattutto al processo di elaborazione dei grandi lutti. Esplorando l’edificio affacciato sui giardini della piazza, prima di raggiungere gli appartamenti dove si svolgeva la vita pubblica e privata di Hugo, si capisce, per esempio, che il ricorso alle «tavole parlanti» rispondeva al desiderio di ritrovare Leopoldine, la figlia adorata morta per annegamento insieme al marito. Un dolore che Hugo tentò di superare sublimandolo attraverso alcuni dei suoi personaggi femminili. Davanti al quadro di Leopoldine, di cui è conservato anche il semplice abito da sposa (le nozze erano state celebrate nella vicina chiesa di Saint-PaulSaint-Louis, la stessa dove nel romanzo si sposano Cosette e Marius) e perfino un pezzetto del vestito con cui la ragazza si fece ritrarre, è inevitabile pensare a Fantine, la giovinetta che, nei Miserabili, muore precocemente nei bassifondi di Parigi. E da lì, con un salto breve, si arriva subito a Anne Hathaway, protagonista del primo capitolo del musical e della trasposizione cinematografica, anche lei esile e bruna, pronta a tornare dall’aldilà, nel finale, per accogliere tra le sue braccia il morente Jean Valjean
Così la mostra, Entrée des médiums: Spiritisme et Art de Hugo à Breton diventa subito di gran moda, in sintonia con l’epopea Les Miserables, ricordata nei manifesti che campeggiano ovunque pubblicizzando il film. Seguendo il lato oscuro di Hugo, le frequentazioni con Delphine de Girardin che, nel 1853, gli suggerì la pratica degli incontri spiritici, e il legame stretto con Charles che, grazie alla sua speciale sensibilità, divenne in qualche modo ispiratore del padre, il mondo dei Miserabili e di altre opere si apre a una nuova, affascinante lettura. Se la vita terrena è solo dolore e sofferenza, ce ne dev’essere un’altra, raggiungibile anche da i vivi, in cui i giusti finalmente dico-
no la loro indicando la strada a chi è rimasto a combattere contro le materiali sfortune. Si spiega così l’esistenza al nero dell’ex-forzato Jean Valjean destinato a trovare la vera pace solo postmortem, e si spiegano le tante, giovani vittime che punteggiano la storia. Treppiedi, trance, sensitivi sono ancora di salvezza per chi, come Hugo, non riesce ad accettare le sparizioni precoci di amici e congiunti. Fatalità implacabili, contro cui nemmeno la crema dell’intellighenzia francese del periodo, aveva modi per opporsi. Anzi, le «tavole parlanti» divennero in seguito per molti intellettuali e artisti (Victorien Sardou, Fernand Desmoulin, Yves Tanguy) fonte di creazioni originali, mentre le figurette emaciate, vestite di pochi stracci (come Cosetta), disegnate dal grande pensatore durante o in seguito alle sedute sono embrioni dei futuri personaggi. Non a caso, all’epoca, si disse che la fonte della sua arte fosse ultraterrena. Di sicuro, vagando tra gli spazi oscuri e i pavimenti scricchiolanti, osservando le istantanee scattate a medium posseduti da misteriose identità, si afferra in pieno il senso di Hugo per l’aldilà. Quel lato paranormale che, improvvisamente, dopo tanta cultura scolastica, rilancia il romanziere nel cuore delle passioni giovanili più contemporanee. Se Hugo, dilaniato dalla sofferenza per la fine della figlia, aveva preso a inseguire fantasmi, oggi, forse, avrebbe potuto scrivere una sua versione di Twilight. O, meglio, di Harry Potter. In fondo anche il piccolo mago, come Cosetta, ha perso la madre da bambino.

Repubblica 31.1.13
Massoni
Quegli uomini in nero nascosti tra politica e affari
È in un paese senza borghesia e con pochi princìpi che si creano solidarietà per il denaro e per il comando
Il Grande Oriente conta 22 mila fratelli. Ma tanti aderiscono a liste regolari o irregolari, sempre in lotta fra loro
di Alberto Statera


La massoneria? «Conta davvero molto più di quanto si immagini». Parola di Cesare Geronzi, ultimo “banchiere di sistema”, tranne il superstite Giovanni Bazoli. E se allora si provasse a ribaltare la vulgata che vuole la politica unica responsabile dello scandalo del Monte dei Paschi di Siena e si guardasse un po' più nel capitalismo feudal-relazionale percorso da solidi intrecci di esoterismo massonico, che può tingersi di rosso e anche di bianco? Nessuno negherà che a Siena la rossa la politica sceglie da sempre attraverso la Fondazione i manager del Monte. Ma chi è il Leone e chi la Volpe, la politica o l'economia? Il Centauro che combina insieme forza e astuzia a Siena ha un timbro platealmente iniziatico persino nella toponomastica.
Ma è in tutta l'Italia senza borghesia e con pochi princìpi che si annodano in nome del potere e del denaro legami e solidarietà trasversali. Tra l'alta burocrazia e la finanza, tra gli alti gradi delle forze armate e l'università, tra i servizi segreti e le grandi imprese, tra i gabinetti ministeriali, i tribunali amministrativi, naturalmente la politica e persino le sacre stanze vaticane. Racconta Geronzi, campione per un trentennio dei poteri trasversali nelle memorie consegnate a Massimo Mucchetti: «Una volta andai a trovare nel suo nuovo ufficio in Vaticano un importante prelato che era appena stato elevato alla porpora cardinalizia. Nell'avvicinarmi alla sua scrivania rimasi di sale. Sul montante lungo era applicato un tondo che recava in bassorilievo i simboli massonici». Curioso, peraltro, lo stupore dell'ex banchiere “di sistema” visto che il suo sodale Gianni Letta è il
trait d'union tra chiesa, Opus Dei e massoneria, ruolo che per tre lustri ha svolto con passione da Palazzo Chigi e che ha continuato a svolgere imponendo alcuni catto-massoni nel governo di Mario Monti. Il quale ha dovuto smentire la sua affiliazione: «Non sono massone e non so neanche bene cosa sia la massoneria». Sarebbe un torto all'intelligenza credere che davvero il presidente del Consiglio, ex presidente della Bocconi, ex commissario europeo e grande consulente della finanza internazionale da decenni, frequentatore di tutti i consessi del potere mondia-le, a cominciare da Bilderberg, non sappia che cos'è la massoneria. Ma il Gran Maestro del Grande Oriente d'Italia Gustavo Raffi si era forse spinto un po' troppo oltre quando aveva dichiarato: «Mario Monti è un gran galantuomo, potenzialmente ha tutte le carte in regola per essere un ottimo fratello».
Il Grande Oriente d'Italia, 22 mila fratelli e 762 logge, centinaia di “bussanti” che per entrare devono attendere i passaggi di fratelli anziani all'Oriente eterno è la maggiore “obbedienza” italiana, ma tante altre, regolari e irregolari, pullulano quasi sempre in lotta tra loro, dilaniate da lotte intestine, travolte dall'indebolimento del “fondamento iniziatico” e dalla “profanizzazione”. Raffi, avvocato ravennate con antichi rapporti professionali col Monte dei Paschi di Siena, Gran Maestro da quattordici anni, è al centro di una combattiva opposizione interna, che ha portato alla costituzione di una sorta di corrente, come nei partiti politici, denominata Grande Oriente d'Italia Democratico.
Per accrescere il suo prestigio, vorrebbe parlare inglese perché la Gran Loggia Unita d'Inghilterra, è la madre di tutte le massonerie mondiali. Ma non può perché il Grande Oriente d'Italia non è più riconosciuto da Londra. Fu espulso per volontà del duca di Kent dopo l'ultima scissione del 1993, dodici anni dopo lo scandalo della P2 di Licio Gelli, quando il Gran Maestro Giuliano Di Bernardo fondò la Gran Loggia Regolare d'Italia, invocando la revoca del riconoscimento al GOI e ottenendolo per sé. Non contento, ha fondato anche l'Accademia degli Illuminati, che si richiama agli Illuminati di Baviera e si riunisce una volta l'anno a Roma. Tra i suoi adepti, Di Bernardo colloca più o meno esplicitamente, come ha confessato al giornalista Ferruccio Pinotti, anche il presidente di
Intesa San Paolo Giovanni Bazoli, oltre a Vincenzo De Bustis, il banchiere considerato vicino a D'Alema che portò al Monte dei Paschi per un prezzo considerato allora esorbitante la Banca del Salento. E poi ancora Carlo Freccero, ex Fininvest e poi Rai, Rubens Esposito degli Affari legali Rai, Sergio Bindi, ex consigliere Rai e antico portaborse del democristiano Flaminio Piccoli, Severino Antinori, specialista della fecondazione assistita, il filosofo Vittorio Mathieu, il generale Bartolomeo Lombardo, ex Sismi. Banche, informazione, medicina, cultura, Servizi segreti, non manca niente. Ma la Rai sembra un luogo privilegiato di coltura della massoneria se è vero, come testimonia il professor Aldo Mola, che a un certo punto al Grande Oriente giunse in dote una Loggia coperta, retta dal Venerabile Giorgio Ciarocca, di cui facevano parte Cesare Merzagora, Eugenio Cefis, Giuseppe Arcaini dell'Italcasse, nonché Guido Carli, Enrico Cuccia, Raffaele Ursini, Michele Sindona e Ettore Bernabei, notoriamente soprannumerario dell'Opus Dei.
Anche la Gran Loggia d'Italia, obbedienza di Piazza del Gesù-Palazzo Vitelleschi, al contrario di Di Bernardo, non gode di buona reputazione a Londra perché il 30 per cento dei fratelli sono sorelle, unica obbedienza tra le grandi famiglie massoniche italiane che ammette la presenza femminile, trascurando la tradizione britannica che concepisce invece la massoneria come un club esclusivamente maschile. «Certo – spiega Alessandro Meluzzi, ex deputato di Forza Italia, massone, ma anche diacono della comunità di Pierino Gelmini – la Loggia implica un'iniziazione solare, mentre le donne rappresentano la metà lunare del cielo, le stelle d'oriente e non di occidente».
«L'idiota religione massonica è roba da diciottesimo secolo», disse Benedetto Croce. E in certi casi come dargli torto? Ma è possibile che grandi banchieri e uomini d'affari misurino le loro mosse sui binari dell'ortodossia massonica? È escluso, ma non è affatto escluso che utilizzino per i loro scopi più o meno commendevoli la miriade di confraternite del potere che impiombano questo paese. Di certo «non è vero che tutti i massoni sono delinquenti, ma non ho mai conosciuto un delinquente che non fosse anche un massone», disse il massone Felice Cavallotti prima di essere ucciso in duello da un suo fratello massone.

Repubblica 31.1.13
Il politologo Giorgio Galli: “Democrazia debole”
“Chi decide è altrove”
intervista di Concetto Vecchio


Un organismo permanente gestisce relazioni segrete
È una rete che continua a rigenerarsi sotto altre forme con personaggi che sopravvivono ai diversi scandali
Un esempio per tutti è rappresentato da Luigi Bisignani”

«Il punto centrale dello scandalo Monte dei Paschi a me pare questo: c’è un potere insondabile che sta altrove e che decide carriere, impone decisioni, approfittando della debolezza del sistema politico, che in Italia non è mai stato così debole e screditato». Giorgio Galli, 85 anni, politologo, autore di molti saggi, dalla Dc alla P2, dal terrorismo rosso al nazismo magico di Hitler, dalla sua casa di Milano dice: «Le grandi concentrazioni economiche sono il nuovo Leviatano».
Come definirlo? Un potere parallelo, un doppio livello?
«La democrazia rappresentativa, come potere basato sul consenso, sui voti del Parlamento, è da tempo incrinata in favore di altri poteri, non trasparenti. Non è un problema solo italiano. Uno studioso americano, David Rothkopf, ha scritto un libro,
Superclass. La nuove élite globale e il mondo che sta realizzando,
in cui ha cercato di spiegare i meccanismi di cooptazione nei consigli d’amministrazione».
Per l’onorevole Sposetti, del Pd, è una storia di massoneria.
«Certe carriere appaiono inspiegabili. Ci si dà tanto da fare per eleggere parlamentari che contano pochissimo e quasi nulla si sa invece di chi comanda, e perché, nel capitalismo globalizzato. Questi altri poteri plasmano dirigenze che non passano per il consenso».
Ma il consiglio d’amministrazione di una banca non è un Parlamento.
«Sì, ma conta infinitamente di più. Mi chiedo come sia possibile che la Banca d’Italia si sia fatta imbrogliare: vuol dire che c’è un sistema reale che stabilisce certi destini ben al di sopra delle istituzioni che conosciamo».
E come si forma questo sistema di relazioni?
«Questo è quel che un politologo oggi dovrebbe approfondire. Quando studiai la P2 mi accorsi che la sua vera essenza non risiedeva nella lettura che gli aveva dato la commissione Anselmi: Gelli non meditava alcun colpo di Stato, ma aveva creato una grande camera di compensazione, legami invisibili che avevano sostituito i reali centri decisionali. La P2 nell’81 sembrava finita e invece…».
Invece uno della P2 è diventato più volte premier.
«Il che conferma la mia tesi. Un organismo permanente per gestire relazioni occulte, tanto più che questa rete continua a rigenerarsi, sotto altre forme. Una volta è la P3, poi la P4, e con figure che in qualche modo sopravvivono ai vari scandali, come
quel Bisignani».
La storia di queste rete è stata sottovalutata?
«Temo di sì. Il fatto che questo scandalo scoppi in campagna elettorale non va letto come una manovra contro il Pd. Che ci siano strumentalizzazioni può darsi, ma il Monte dei Paschi finanziava tutti. Qualcuno, però, ha deciso che la vicenda doveva esplodere adesso, con queste modalità, e probabilmente decreterà anche quel che avverrà dopo le elezioni».
Non è una lettura troppo dietrologica?
«È saltato il bilanciamento dei poteri. Nel dopoguerra Fiat ed Edison avevano il loro peso sulla società, ma il sistema politico era forte. Poi, alla fine degli anni Settanta, questo equilibrio si spezza, e da allora questi nuovi tipi di potere si sono rafforzati».
Tecnicamente questa rete non è massoneria?
«La massoneria è uno dei canali di questi poteri, ma non penso sia l’unico, forse nemmeno il più importante. Possiamo chiamarla in tanti modi, ma il suo fine è questo: mettere uomini privi di consenso “con i soldi degli altri”, per citare il felice libro di Luciano Gallino, in posti strategici a decidere su cose che grandissimamente toccano tutti noi».

Repubblica 31.1.13
Machiavelli, cinquecento anni dopo titrovato il bando della cattura


FIRENZE — Ritrovato, all’Archivio di Stato di Firenze dai ricercatori di Harvard, il documento originario del bando della cattura di Nicolò Machiavelli, datato 19 febbraio 1513 e allora letto da un araldo in 52 punti della città. Il momento storico sarà rievocato (con tanto di araldo) il prossimo 19 febbraio, esattamente cinquecento anni dopo la stesura del Principe, opera alla quale Machiavelli cominciò a dedicarsi nel periodo del suo esilio a Sant’Andrea in Percussina. Si darà così inizio alle celebrazioni dello scrittore, ricordato con mostre e convegni durante tutto l’anno.

Repubblica 31.1.13
Contro Darwin
L’eresia di Nagel: “Per spiegare il mondo non basta la natura”
Il filosofo americano attacca l’idea che la scienza deterministica possa comprendere la coscienza
di  Maurizio Ferraris


In Mente e cosmo. Perché la concezione materialista neo-darwiniana della natura è quasi certamente falsa (Oxford University Press 2012) Thomas Nagel (uno dei maggiori filosofi americani, nato a Belgrado nel 1937, professore di filosofia e diritto alla New York University) si propone di mettere in dubbio il senso comune della nostra epoca. La sua idea è che il dibattito tra darwiniani e fautori del “disegno intelligente” dell’universo non ha provato la bontà delle tesi di questi ultimi, ma ha rivelato delle fragilità nei primi. Insomma, pur dichiarandosi ateo, e dunque escludendo l’esistenza di una mente ordinatrice dell’universo, Nagel afferma che l’ipotesi darwiniana non riesce a spiegare fenomeni come la coscienza, il sapere e i valori.
In effetti, che vantaggio c’è ad avere una coscienza, che, come diceva Amleto, ci rende vigliacchi? E come si può spiegare l’emergere dell’intelligenza dalla materia? Un difensore di Darwin come Daniel Dennett sostiene che, proprio come il vivente è composto di elementi inorganici, a cui ritornerà (nella qual cosa non troviamo niente di miracoloso), così l’intelligenza può benissimo partire da elementi non intelligenti.
Nagel tuttavia vede in questa concezione un partito preso riduzionistico, che appare ancora più evidente quando la coscienza e l’intelligenza giungono a livelli più astratti, che sembrano escludere la stessa necessità di un genere umano che li pensi. Come scriveva nel 1974 in un articolo che lo rese celebre, Che cosa si prova a essere un pipistrello? (in questi giorni tradotto come volumetto da Teodoro Falchi per Castelvecchi) «i numeri transfiniti sarebbero esistiti anche se la peste nera avesse sterminato tutti gli uomini prima che Cantor li scoprisse». Ora, quale sarebbe il vantaggio evolutivo dei numeri transfiniti? Un neo-darwiniano come Stephen Jay Gould avrebbe detto che si tratta di effetti collaterali di un sistema nervoso centrale più sviluppato (che è in sé un vantaggio evolutivo). Nagel invece asserisce che questo è uno dei tanti aspetti del mondo che il darwinismo non è in grado di spiegare.
Il vero obiettivo del libro di Nagel, tuttavia, non è criticare il darwinismo (anche se è facile immaginare che il suo libro sarà adoperato a quello scopo), bensì, in positivo, proporre un’idea giusta e ambiziosa di una scienza più ampia, quasi di un rinato sapere speculativo nello stile dell’idealismo tedesco. Il tratto fondamentale di questa scienza allargata consiste nel far ricorso non soltanto a spiegazioni causali (A causa B) ma anche a spiegazioni finali, ricorrendo a quella che nel gergo filosofico si chiama “teleologia”: A causa B perché lo scopo di B era C. Ad esempio, l’uomo ha sviluppato una massa cerebrale superiore agli altri primati perché era parte di un processo orientato verso un fine, quello di avere una coscienza, perché, come diceva un grande partigiano della teleologia, Dante, «fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza».
In questo appello Nagel si richiama ad Aristotele. Ma il suo vero predecessore mi sembra il Leibniz del Discorso di metafisica (1686), critico dei “nouveaux philosophes” dei suoi tempi, che volevano bandire le cause finali dalla fisica. Secondo Leibniz, il fisico che volesse spiegare la natura solo con le cause efficienti non sarebbe meno limitato di uno storico che, per spiegare la presa di una piazzaforte, non tenesse conto degli obiettivi del generale che aveva ingaggiato la battaglia ma si limitasse a dire che la polvere da sparo era riuscita a spingere un corpo duro e pesante contro le mura della piazzaforte, facendole crollare.
Ora, la richiesta di una scienza più ampia è un vasto disegno. Ma per attuarsi non ha bisogno di rinunciare a Darwin, senza contare che per evitare l’egemonia della scienza ci si può attestare su posizioni più tradizionali ma perfettamente efficaci. Per esempio quella di Putnam, che in La filosofia nell’età della scienza (a cura di Mario De Caro e David Macarthur, recentemente uscito dal Mulino) ricorda che in tantissimi campi — a cominciare dall’etica — si può e si deve fare filosofia senza la scienza, ma non contro la scienza.
Quanto poi all’esigenza di una scienza teleologica, si potrebbe osservare che le scienze naturali (e non solo le scienze sociali, dove il ricorso alle cause finali è onnipresente) sono intrinsecamente teleologiche, senza che per questo lo sia la natura. Questo lo aveva visto benissimo il Kant della Critica del giudizio: quando, con lo sguardo dello scienziato, osserviamo la natura, la consideriamo come un tutto e ne ipotizziamo dei fini. L’epistemologia, cioè quello che sappiamo o crediamo di sapere, è intrinsecamente teleologica: se ci mostrano la sezione di un occhio non riusciamo a raccapezzarci sino a che non ipotizziamo che l’occhio è fatto per vedere, e a quel punto diviene chiara la funzione della pupilla, del cristallino, della retina. Ma l’ontologia, quello che c’è, non è necessariamente teleologica. Lo è nel mondo sociale, non nel mondo naturale a cui si riferisce l’ipotesi di Darwin.
Dire che il fine dell’occhio è vedere ci aiuta a capirne il funzionamento proprio come dire che fare gol è l’obiettivo delle squadre di calcio ci permette di capire le partite. Ma questo non ci obbliga a sostenere che l’occhio è intrinsecamente creato per vedere più di quanto ci autorizzi a dire che il naso è stato creato per sorreggere gli occhiali. Può essere un caso evolutivo. Disponendo di un tempo lungo come quello che ci separa dal Big Bang e di un materiale grande come l’universo, si può arrivare a tutto, coscienza e numeri transfiniti compresi, proprio come la biblioteca di Babele immaginata da Borges contiene tutto, compresi il giorno e l’ora esatta della nostra morte. Tranne che questa informazione, non si sa quanto evolutivamente utile, è seppellita tra miliardi di altre ore e giorni probabili o improbabili, e miliardi di miliardi di volumi senza alcun senso compiuto.

Repubblica 31.1.13
Carezze
Uno studio americano pubblicato su Nature ha identificato i neuroni che percepiscono il tocco affettuoso
I massaggi attivano i recettori e producono nel cervello una sensazione di gratificazione e relax
di Elena Dusi


ROMA La carezza è qualcosa di unico. Abbiamo sulla pelle dei nervi speciali per percepirla e delle zone speciali nel cervello per goderne il calore. Il senso del tatto va bene per toccare gli oggetti normali. Per la pelle delle persone amate la natura ci ha dotato di un “organo” diverso: un circuito nervoso che parte dalle mani, finisce nella testa ed è dedicato esclusivamente alle coccole, sia nell’uomo che negli animali. Questo “senso della carezza” si aggiunge agli altri cinque. Non sente i pizzichi, resta indifferente se urtiamo uno spigolo. La sua unica funzione è percepire i segnali della pelle che indicano affetto, amicizia, gioco e amore all’interno di un gruppo.
“I neuroni del massaggio che spiegano come mai sia un piacere essere accarezzati” è il titolo di copertina di Nature oggi. La rivista racconta la scoperta delle cellule nervose specializzate nella percezione di un tocco affettuoso. Gli autori sono i neuroscienziati del California Institute of Technology di Pasadena, che hanno studiato un gruppo di topolini sottoposti a un massaggio simile a quello della mamma. I neuroni dell’affetto non si limitano ad attivarsi al momento della carezza. A loro volta producono nel cervello una sensazione di gratificazione e relax: ecco perché coccole non siamo mai sazi.
A mettere i ricercatori sulla pista dei “neuroni dei massaggi affettuosi” era stata un decennio fa una donna svedese che, a causa di una malattia infettiva aveva perso il senso del tatto, ma non la sensibilità alle carezze. Non sentiva nulla se la si colpiva con uno schiaffo ma percepiva “una sensazione piacevole” quando la si accarezzava con le dita o con una piuma a una velocità di circa tre centimetri al secondo. Nel suo cervello il tocco gentile era associato all’attivazione di aree legate alle emozioni e all’eccitazione sessuale. «Ipotizzammo — spiegò all’epoca il ricercatore dell’ospedale universitario di Goteborg Hakan Olausson — che esistessero dei nervi incaricati di trasmettere al cervello la sensazione piacevole di una carezza».
I “sensori delle coccole” — si è scoperto oggi — sono distribuiti sulla pelle a eccezione del palmo delle mani e delle piante dei piedi e con una concentrazione maggiore su avambracci e viso. Che la natura abbia dato tanta importanza a un meccanismo come la
carezza, addirittura dedicandole un circuito di neuroni specializzato, è stupefacente solo all’apparenza. I deficit emotivi mostrati dai bambini cresciuti in orfanotrofio e privati del contatto fisico con i genitori sono infatti noti da tempo. E molti animali non nascondono il loro piacere quando possono strofinarsi o coccolarsi fra loro o con l’uomo: dai gatti che fanno le fusa alle scimmie che passano ore a pulire il pelo ai compagni con cui vogliono stringere amicizia.
Dall’ipotesi alla dimostrazione: oggi i ricercatori del Caltech sono riusciti effettivamente a individuare i “neuroni delle coccole”. Con un esperimento sui topolini hanno osservato le terminazioni nervose che producono una particolare proteina se vengono massaggiate affettuosamente. E hanno dimostrato che questi sensori sono insensibili a stimoli diversi come pizzichi o pressioni. A differenza delle fibre nervose normali, che trasmettono le sensazioni alla velocità di 60 metri al secondo, il “canale delle carezze” non ha nessuna fretta e fa arrivare il suo messaggio al passo di unmetro al secondo. Gli stessi massaggi troppo frettolosi (con una velocità superiore ai 10 centimetri al secondo) perdono la loro carica di dolcezza e sensualità, tanto da essere derubricati al ruolo di sensazioni tattili anonime.
Pur essendo lento, il segnale della coccola non conosce ostacoli e viene percepito anche in presenza di una sensazione di dolore. L’ipotesi secondo cui il palmo della mano è meno sensibile alle carezze è legata probabilmente alla distinzione fra fibre nervose lente e veloci. Un organo prensile dalle funzioni così complesse e raffinate è infatti inzeppato di fibre rapide, e questo andrebbe a discapito di quelle dedicate alle coccole. In compenso il “senso” della carezza è fra i più sviluppati già al momento della nascita. E l’emozione piacevole nel cervello non viene prodotta solo dal contatto diretto con la pelle altrui, ma anche — e con pari intensità — dall’osservazione di un altro individuo mentre viene accarezzato.
La scienza delle coccole, partita alla scoperta di uno dei segnali sociali più potenti e misteriosi dell’uomo e di molti altri animali, è oggi uno dei temi più affascinanti fra quelli affrontati nei laboratori. Peccato solo che i ricercatori del Caltech non si accontentino, e ci promettano un giorno anche un farmaco capace di simulare le coccole, stimolando le fibre nervose ad hoc quando di coccole vere c’è carestia.

Repubblica 31.1.13
La genetica non basta a spiegare le emozioni
di Michela Marzano


Al tempo di Darwin, quando si parlava del carattere evolutivo e innato delle emozioni, si trattava solo di ipotesi scientifiche. Oggi, la scienza sembra dimostrarcelo con certezza: le emozioni non sarebbero altro che una risposta automatica agli stimoli esterni che si ricevono. Ecco perché, dopo i famosi neuroni specchio, oggi è la volta dei neuroni delle carezze: come ogni altra emozione, anche il piacere che si prova quando una mano ci sfiora delicatamente dipenderebbe da un circuito neuronale geneticamente predisposto. E la cultura? E l’inconscio? E tutto il mistero che circonda i sentimenti e che, nonostante le numerose scoperte scientifiche, non svanirà mai perché non è certo un neurone a dirci per quale motivo fremiamo sotto le carezze di una persona mentre restiamo indifferenti di fronte a quelle di un’altra?
Gli etnologi e gli antropologi sanno bene che il modo di esprimere sentimenti ed emozioni dipende in parte dalla cultura e dall’educazione che si riceve. Il corpo umano non è solo un corpo biologico, geneticamente capace di emozioni, ma anche e soprattutto un luogo simbolico attraverso cui si esprime il proprio mondo interiore. Ecco perché ognuno di noi, per poter anche solo provare un’emozione, deve poterla riconoscere come parte integrante del proprio repertorio psicologico e culturale. Chi non ha imparato ad esteriorizzare la rabbia o la gioia, non potrà farlo nonostante la presenza nel cervello di tutti questi neuroni specializzati. Quanto alle passioni dell’anima, per utilizzare un’espressione cara a Descartes, non sono mai semplici reazioni corporee. Proprio perché accanto alle risposte innate di fronte agli stimoli esterni, esiste qualcosa che di innato non ha proprio niente: tutto quello che abbiamo vissuto fin da bambini quando i nostri genitori ci accarezzavano oppure ci tenevano a distanza; tutto quello che cerchiamo di riprodurre oppure, al contrario, di riparare; tutto quello che speriamo di ricevere dalle persone che amiamo e che forse non riceveremo mai. È questo il mistero delle emozioni umane. Un mistero che, nonostante tutte le scoperte scientifiche, resta (e forse resterà per sempre) intatto.