domenica 3 febbraio 2013

l’Unità 3.2.13
Bersani: basta Berlusconi
«Basta battute e spot da chi ci ha portato sull’orlo del baratro»
Intervista a l’Unità: «Chi ha fallito non prometta. Monti non dimentichi dov’è il pericolo»
di Simone Collini


Pier Luigi Bersani: «Non permetterò di fare altre promesse al Cavaliere dopo che ha lasciato l’Italia in queste condizioni Monti sul Pd ha parlato da Berlusconi in loden»

Il segretario del Pd chiama alla mobilitazione il popolo delle primarie «la nostra atomica» poi avverte Berlusconi: «Basta promesse da chi ha fallito». E sulle tasse dice: «Vanno rese più progressive ma soprattutto bisogna che le paghino tutti»

«Serve un programma di ricostruzione, non battute propagandistiche. Quelle non ce le possiamo più permettere». Pier Luigi Bersani va al rush finale di questa campagna elettorale chiamando alla mobilitazione il popolo delle primarie («È la nostra arma atomica») e illustrando le misure che intende realizzare in caso di vittoria. Ci sono però anche un paio di messaggi chiari che il candidato premier del centrosinistra lancia all’indirizzo degli «inseguitori». Il primo, a uso e consumo di Silvio Berlusconi: «Non permetterò a chi ha fallito, a chi ha portato l’Italia sul ciglio del burrone di fare impunemente altre promesse». Il secondo, per Mario Monti, che dopo l’uscita sul Montepaschi ha datato la nascita del Pd al 1921: «Una battuta da Berlusconi con il loden. Monti non dimentichi dov’è il pericolo, se la prenda con il problema, non con l’unica possibile soluzione. Chi pensa in prospettiva di non escludere una possibilità di collaborazione oggi deve fare attenzione, perché alcune uscite possono rendere tutto molto difficile».
Si sorprende se in campagna elettorale si fanno promesse e si attacca l’avversario politico?
«Mi sorprendo se in una situazione come questa, in cui viviamo la peggiore crisi economica dal dopoguerra ad oggi, il tema al centro della campagna elettorale non è come ne veniamo fuori. Vedo invece che da parte degli inseguitori si cerca il colpo propagandistico. Grillo che promette a tutti mille euro al mese per tre anni, Berlusconi e Monti che assieme in una giornata hanno tolto più di 30 miliardi di tasse sul 2014».
Dice che non è possibile?
«Se lo fosse, ebbene il governo è ancora in funzione, può intervenire per alleviare almeno qualche situazione di maggiore difficoltà. Bisogna smetterla con questo modo di fare, la situazione è troppo difficile per continuare con le promesse. O con gli attacchi all’avversario, come sembra aver suggerito qualche guru americano».
A giudicare dalla reazione che ha avuto, sembra le abbia bruciato più la battuta di Monti sul Pd nato nel ‘21 che quella su voi e Mps: è così?
«Guardi, su Montepaschi io sono perché si vada fino in fondo, perché sono certo che gli sviluppi della vicenda ci consegnerebbero una riflessione su tre questioni. E cioè come si regolano i derivati, come mai in Italia non esiste il reato di falso in bilancio e come si utilizza lo scudo fiscale per operazioni non lecite. Tre questioni su cui in questi anni c’è stato, tra la destra e noi, il più duro degli scontri. Quanto alla battuta di Monti sul Pd, francamente è deplorevole, da Berlusconi con il loden, una battuta che non si può permettere chi ha avuto un reale sostegno da parte nostra».
Ora il Pd per lui è un avversario politico, non crede?
«Il nostro avversario è la destra, è chi ora prova a portare avanti una cancellazione della memoria e dopo aver fallito continua con le promesse. Noi non permetteremo che chi ha governato dieci anni, in una situazione economica più semplice, e non ha abbassato le tasse, ora torni a promettere chissà cosa. E non permetteremo a Pdl e Lega, che hanno coperto gli evasori delle quote latte facendo così pagare ai contribuenti italiani 4 miliardi e mezzo di euro, di parlare ora di alleggerimento fiscale. Lo dico a Berlusconi: non azzardarti a promettere adesso quel che non sei mai stato capace di fare».
Per il Pd un abbassamento delle tasse non è un obiettivo?
«L’obiettivo è favorire consumi e occupazione, una cosa che si può fare abbassando il carico fiscale per i redditi medio bassi, i lavoratori, i pensionati, e sostenendo gli investimenti che danno lavoro».
Perché non sia anche questa una battuta propagandistica dovrebbe dire dove si trovano le risorse per farlo.
«Si trovano in una riqualificazione della spesa pubblica, in una riduzione dei tassi interesse, in un’alienazione del patrimonio pubblico, e soprattutto in un’operazione per aumentare la fedeltà fiscale».
Anche qui: come?
«Facendo girare meno contante, rendendo tracciabili tutti i movimenti finanziari per far emergere la ricchezza, cominciando a chiamare evasione alcune delle cose che oggi si chiamano elusione, perché ci sono caroselli troppo facili su cui girano i soldi tra Italia, estero e di nuovo Italia».
Insomma meno tasse per tutti voi non lo direte?
«Meno tasse per chi ha bisogno di consumare e per chi ha voglia di investire. E bisogna rendere più progressive le imposte che ci sono, a partire dall’Imu, che non dovrebbe essere pagata da chi ha versato fino a 500 euro. E poi diciamo che va tolto il peso dai beni strumentali delle aziende e va caricato sui patrimoni più rilevanti. Operazioni che possono dare sollievo ai consumi per i redditi più bassi e sollecitare gli investimenti, e alle quali andranno affiancati una drastica operazione di semplificazione per l’attività economica e l’allentamento selettivo del patto di stabilità per i Comuni, una ripresa delle politiche industriali in tutti i settori, una quota di investimenti pubblici e l’utilizzo dei fondi strutturali. Questo è un programma di ricostruzione, che non può essere la battuta propagandistica perché siamo già oltre questo tipo di possibilità».
Come giudica le proposte di Monti sul tema del lavoro?
«Stiamo perdendo posti di lavoro a ritmo di 250 mila l’anno. Credo che il problema oggi non sia quello di come si licenzia, ma di come si crea lavoro. E questo non è solo questione di regole, ma soprattutto e finalmente di rilancio dell’attività economica». Come risponde a chi, in Italia, sostiene che all’estero si tifa per un Monti-bis? «Che certe sollecitazioni di pareri esterni a fini interni sono decisamente stucchevoli. La discussione vera che c’è in Europa è che l’Italia è troppo grande per essere salvata, che deve trovare la strada per sé e per l’Europa, e che questo non può avvenire senza un rapporto tra governo e popolo. Il resto sono leggende metropolitane, come si vedrà anche dall’appuntamento che faremo nel fine settimana a Torino insieme a leader e capi di Stato e di governo progressisti provenienti da tutta Europa. Dopo Francia, Romania, Olanda, Repubblica Ceca, è chiaro che sperano possa venire dall’Italia un’ulteriore spinta verso politiche diverse da quelle perseguite negli ultimi anni a livello comunitario».
Diverse in che senso?
«Quella di stabilità è una politica di medio periodo, mentre un intervento sul lavoro è una politica urgente, da applicare immediatamente. I progressisti pensano questo. E non solo i progressisti ma tutto il mondo si aspetta che dal voto in Italia esca una risposta chiara, precisa, che porti stabilità. E la formula che uso io so che viene ben compresa: ci vuole qualcuno che abbia il 51% e che però si comporti come se abbia il 49%. All’estero vogliono un’Italia stabile, con una guida sicura, ma che sia in grado di suscitare anche una riscossa più ampia di quella che può esprimere il solo vincitore». Hollande, in Francia, ha nominato un sottosegretario all’Economia sociale e solidale: pensa a qualcosa di analogo per l’Italia?
«Certamente sul piano di azione di governo, lo sguardo sui grandi temi sociali ci sarà. Ho già detto che nella Sala verde di Palazzo Chigi intendo ricevere non soltanto rappresentanti di Confindustria e dei sindacati ma anche esponenti del mondo dell’associazioni-
smo, del volontariato».
Il presidente della Cei Angelo Bagnasco dice che “la madre di tutte le crisi è l’individualismo”: condivide?
«Alla grande. L’individualismo è l’elemento che ha portato a questo disastro, e non solo in Italia. Abbiamo perso la materia prima, l’idea che ci si salva assieme. Da noi abbiamo visto cosa ha prodotto il leghismo, anche a livello psicologico, sulla divisione dei territori, sull’azione di incoraggiamento delle corporazioni. Bisogna riprendere il grande tema della solidarietà, del progetto comune, dell’unità nazionale, bisogna dare una forte scossa da questo punto di vista perché l’atomizzazione, l’idea che ciascuno si salva da solo, è arrivata a livelli molto preoccupanti». Il Parlamento francese ha approvato l’articolo 1 della legge sul matrimonio gay: prospettive per l’Italia?
«La legislazione tedesca ci indica la strada che consente di regolare le unioni civili delle coppie omosessuali senza provocare traumi».
Veniamo all’iniziativa che avete fatto insieme, lei e Matteo Renzi, venerdì: qual è il messaggio principale che lei vorrebbe rimanesse agli atti?
«Più che un messaggio, lì abbiamo raffigurato quello che siamo. Ho letto sui giornali titoli come pace, tregua. Macché. Anche nel corso della campagna per le primarie, anche nel confronto aspro, noi abbiamo lavorato per il Pd e quindi per l’unico rinnovamento politico vero che si è visto fin qui in Italia. Noi siamo l’alternativa ai partiti personali. Noi non siamo esposti alla domanda che invece si può rivolgere a tutti gli altri. Cosa c’è dopo Berlusconi? E dopo Monti? Dopo Grillo, dopo Ingroia? Noi siamo un partito unito, plurale e aperto. E siamo gli unici ad esserlo, in l’Italia».
C’è chi ha fatto notare che il principale partito della sinistra italiana non farà il comizio di chiusura in un luogo simbolo come piazza San Giovanni, da cui parlerà invece Grillo.
«Noi in questo rush finale non parleremo da una sola piazza. Faremo una grande operazione di gazebo, in migliaia di piazze, in tutto il territorio italiano. Noi siamo ovunque, le primarie ci hanno consentito di scegliere candidati in tutti i territori. A noi non servono conigli tirati fuori dal cappello, mettiamo in moto la nostra forza, che gli altri non hanno, e cioè il popolo delle primarie. Lanceremo questo tipo di offensiva perché è la nostra arma atomica, la nostra chiave, quella che ci farà vincere».
Qualche giornale ha titolato sul “patto” che avrebbe stretto con Renzi, visto che lei ha detto che fatto questo giro si riposa e il sindaco di Firenze ha tanta strada davanti.
«Ma no, nessun patto. Quello che dico è che dopo Bersani c’è il Pd. A me tocca un compito, ma tutti quanti devono sentirsi un carico sulle spalle perché noi siamo il partito riformista del secolo nuovo, e oltre a lavorare per il governo, per costruire l’alternativa dopo venti anni di berlusconismo, dobbiamo impegnarci per dare all’Italia un sistema politico stabile, che oggi non c’è. Il Paese andrà in rovina senza di esso. Il Pd rappresenta un presidio riformista nuovo, originale. Tocca alle nuove generazioni, nei prossimi anni e decenni, lavorare per costruire un sistema politico stabile».

Repubblica 3.2.13
L’ira di Bersani sul Professore
“Il nostro avversario è il Cavaliere ma così salta l’alleanza futura”
di Giovanna Casadio


E COSÌ ieri pomeriggio lo stesso Bersani ha dovuto sudare le proverbiali sette camicie per frenare l’ira dei “big” del partito.
In moltissimi, infatti, lo hanno chiamato mentre stava a Piacenza e tutti si sono lamentati del Professore. La risposta, però, stavolta è stata molto meno prudente che in passato. Ha dovuto ammettere che a questo punto i rapporti con “Mario” si stanno «sfilacciando». E non per colpa del Pd. L’ultimo fendente di Monti sul lavoro viene considerato una «provocazione ». Un tema «sensibile» per un partito a cui Bersani ha
voluto dare una fisionomia laburista. Cosa significa, infatti, quell’invito a una flessibilità hard, se non ripristinare l’articolo 18 com’era nella bozza di riforma Fornero, prima che il Pd ottenesse il compromesso?
Non è però solo il lavoro che avvelena i rapporti tra Bersani e Monti. Resta una ferita aperta l’attacco sul Monte dei Paschi di Siena. Aver messo in discussione l’«etica» dei partiti e la battuta sull’anagrafe del Pd («Voi, nati nel 1921») hanno fatto imbestialire il segretario democratico. Criticare la correttezza dei comportamenti è a suo giudizio «inaccettabile». «Attenzione, - ha ripetuto allora Bersani ai suoi interlocutori - si rischia di arrivare a un punto di non ritorno nel rapporto tra il Professore e noi». Se anche lui tiene a non precludersi l’alleanza - è il ragionamento del segretario - deve cambiare strategia. È fin troppo evidente che in questo modo «si vengono a creare fratture che difficilmente si ricompongono».
Soprattutto trova incomprensibile non concentrare gli attacchi sul centrodestra. I «veri nemici», è la sua bussola, sono Berlusconi e la Lega: bisogna battere loro, senza concessioni a populismi di alcun genere. Invece sembra che Monti strizzi l’occhiolino all’elettorato berlusconiano, e per questo abbia messo nel mirino il centrosinistra. Di certo il Professore sa di avere toccato con la sua ricetta sul lavoro - e l’affondo contro la Cgil - il tasto più sensibile per la coalizione dei Progressisti. Una sciabolata, che il premier uscente assesta con precisione millimetrica. Eppure, anche nel merito degli argomenti, Bersani non condivide le parole del Professore. Si fa mandare le agenzie di stampa con il programma di Scelta Civica e annota tutti i punti deboli. «Veniamo da 250 mila posti di lavoro persi. Questo è l’esito di una legislatura berlusconiana disastrosa. Parlare di regole del mercato del lavoro è del tutto insufficiente, non permette neppure di cogliere i problemi ». Un po’ come fermarsi al dito senza guardare la luna, che è la scommessa di crescita economica senza smantellare i diritti dei lavoratori. L’idea bersaniana è un’altra: ci vogliono un piano industriale, sgravi delle imposte sul lavoro, allentamento del patto di stabilità, la riforma della giustizia civile, norme anti corruzione efficaci, la lotta alle mafie. Nel cassetto, ripete in questi giorni, c’è già la bozza dei provvedimenti da portare nei primi consigli dei ministri e che riguardano lo sviluppo: «Non sono le regole del mercato a creare lavoro». Agitare poi le Cancellerie europee e il Fondo monetario internazionale sta infastidendo in modo particolare Bersani. Che infatti sospenderà per un giorno il tour elettorale, martedì, per incontrare il ministro delle finanze tedesco Schaeuble a Berlino e parlare di Ue al German Council on Foreign Relations. All’Europa e ai suoi leader intende fornire da sé assicurazioni e proposte.
Ma l’irritazione ormai serpeggia in tutti i Democratici, non solo tra i “gauchisti” Damiano e Fassina. E a Largo del Nazareno adesso iniziano a puntare i piedi. «Se Monti vorrà collaborare, deve tener conto delle nostre posizioni. E deve tener conto di una circostanza: la Cgil è il più grande sindacato italiano». «In democrazia - è il ritornello del segretario - funziona che chi vince dà le carte». Un messaggio stavolta lanciato con un certo vigore verso Palazzo Chigi.

Corriere 3.2.13
Ambrosoli chiede il voto ai montiani. E la crescita di Ingroia agita il Pd
L'ex pm: mi avevano offerto due posti «mascherati» al Senato
di Monica Guerzoni


ROMA — Nel Pd torna a diffondersi l'antica sindrome del nemico a sinistra. Di quella sinistra, come ammoniva giorni fa Pier Luigi Bersani, che «rischia di far vincere la destra». Gli ultimi sondaggi confermano come Rivoluzione civile si stia consolidando a discapito di Sel, la forza che il leader democratico ha convintamente voluto dentro la coalizione. Antonio Ingroia incalza e mette in difficoltà i democratici, tanto che Massimo D'Alema lo accusa di aver rimesso in gioco Berlusconi. E in Lombardia è polemica sul candidato presidente Umberto Ambrosoli, che ha evocato lo scenario del voto disgiunto: e se gli elettori che sceglieranno Monti premier, alla Regione votassero per lui?
È il momento dei sospetti incrociati, dei patti segreti e dei presunti inciuci. Il primo a scagliarsi contro l'aspirante governatore di centrosinistra è Gabriele Albertini, convinto che non ci sarà alcun travaso di voti tra nazionale e regionale: «Ambrosoli si sbaglia di grosso... Capisco che si renda conto che qualcosa non funzioni nel gioioso tir da guerra che ha messo insieme per conquistare Palazzo Lombardia, ma non cerchi di emulare Bersani». Tra nazionale e regionale, spera Albertini, non ci sarà alcun travaso di voti.
Roberto Maroni si dice «sconcertato» da Ambrosoli, interpreta il suo appello come la prova di un accordo segreto tra Bersani e Monti e chiama l'avversario «avvocato inciucio», perché avrebbe imparato in fretta le regole della Prima Repubblica: «Fare finta di scontrarsi e poi fare accordi sottobanco». Cosa c'è di vero nelle accuse di Maroni? Nulla, assicura Maurizio Martina. Eppure il segretario regionale del Pd conferma la speranza che Ambrosoli riesca ad attrarre l'elettorato montiano, grazie anche «a una lista di sostegno formata da ex udc e personalità di area moderata, che si chiama Centro popolare lombardo e include persone che hanno guardato a Monti, ma sosterranno Ambrosoli». Le stesse persone che Albertini chiama, ironicamente, i «montiani della riserva indiana».
Sul fianco sinistro è Ingroia a infiammare gli animi. Insinua che Nichi Vendola stia «usando la coalizione del centrosinistra come un taxi, per superare lo sbarramento del 4 per cento» e avverte il leader di Sel: «Nichi, è troppo comodo fare l'anima bella dopo, quando Bersani chiuderà l'accordo con Monti. Poi ti avvicinerai a noi e ti risponderemo che dovevi pensarci prima...». Attacca Bersani e Grillo come «mestieranti della politica» e, anche lui, accusa il leader del Pd di aver stretto «un accordo sottobanco con Monti».
Ingroia pensa che il leader del Pd abbia deciso di fare un governo con Monti dopo le elezioni e per questo «non ha mai risposto» al suo appello per un patto di governo di centrosinistra, puntando invece su un accordo di desistenza: «La proposta diceva che noi dovevamo desistere e che un paio di senatori mascherati dovevano essere presentati nelle liste del Pd. Dico mascherati perché poi Bersani doveva dimostrare a Monti di non aver mai fatto un accordo con me...».
La rivelazione piomba sul Nazareno più come una provocazione. Stefano Fassina, responsabile Economia e candidato nel Lazio, conferma che «la presenza di Ingroia è competitiva su un pezzettino di area alla quale guarda anche Vendola», ma spiega che il Pd ha preferito costruire «un'alleanza credibile». Bersani non tirerà fuori consigli dal cilindro, non farà aperture a Ingroia né «operazioni politiciste», ma rilancerà sul programma. Davvero il Pd non è preoccupato per il calo di Vendola nei sondaggi e la corsa di Ingroia? «La preoccupazione è relativa — scaccia le ombre Fassina — Il modo migliore per affrontarla è non improvvisare soluzioni che ci farebbero perdere credibilità».
Il senatore Stefano Ceccanti teme che sia tardi. Per lui Bersani avrebbe dovuto indire primarie di partito e non di coalizione, evitando così di allearsi con Vendola prima del voto: «Un partito come il nostro doveva accettare di avere il nemico a sinistra, perché così avrebbe preso i voti del centro». Meglio sarebbe stato, secondo Ceccanti, aprire a Vendola solo dopo il voto e intanto provare «a sfondare al centro», anche con l'aiuto di Matteo Renzi. «Una sorta di energetico», che per il sondaggista Nicola Piepoli potrebbe portare a Bersani un quattro per cento in più.

Repubblica 2.3.13
Se il cavallo del Cavaliere vince la corsa elettorale
di Eugenio Scalfari


C’È UNA domanda che mi pongo e che propongo ai cittadini che voteranno (e anche a quelli che finora non hanno intenzione di votare o sono ancora indecisi per chi votare): che cosa accadrebbe in Italia se il Partito democratico non vincesse le elezioni? Né alla Camera né al Senato?
Finora nessuno ha fatto questa domanda e nessuno ovviamente ha dato una risposta. Bersani ha fatto appello al cosiddetto voto di necessità, ma limitatamente ad alcune Regioni il cui esito elettorale può essere determinante per il Senato. Ma il tema è più generale. Se l’è posto soltanto Alfredo Reichlin in un articolo lo scorso venerdì sull’“Unità”, nel quale si è chiesto che cosa accadrebbe se non ci fosse una visione del bene comune come quella proposta dal Pd.
La logica della democrazia parlamentare ci dice che si vota per il meno peggio; votare per il meglio, cioè per il partito con il quale ci si identifica al cento per cento, è pertanto impossibile: ciascuno ha una sua visione del bene comune. Dunque si vota per il meno peggio, partito movimento o lista elettorale che sia, il cui programma e i cui rappresentanti siano i meno lontani dal nostro modo di pensare. Del resto di Winston Churchill restò celebre la battuta che «la democrazia è il peggiore dei sistemi politici ma uno migliore non è stato ancora inventato».
Allora ripeto: che cosa avverrebbe se il Pd fosse scavalcato da un altro partito? E quale?
Gli inseguitori sono quattro, ma di essi solo uno insegue per vincere in tutte e due le Camere: quello di Berlusconi con i suoi alleati, Lega, Grande Sud, Destra, Fratelli d’Italia.
Gli altri non hanno speranze per la Camera, ma possono creare una situazione di ingovernabilità al Senato e quindi una paralisi parlamentare con tutte le conseguenze del caso: la lista civica di Monti con i suoi alleati e Ingroia.
Grillo è un caso a parte. Potrebbe arrivare terzo e perfino secondo ma è molto difficile pensare che divenga primo. E poi i grillini in Parlamento subiranno inevitabilmente una radicale trasformazione; il Parlamento è la sede d’un potere costituzionale, quello legislativo. Voteranno contro tutte le leggi? Vorranno abolire tutte quelle esistenti? Il Movimento “5 stelle” è un’incognita, il suo bacino elettorale è quello degli indecisi che attualmente viaggiano attorno al 10 per cento. La pesca di Grillo si svolge in quel bacino, ma non è il solo. Nel migliore dei casi potrebbe arrivare al 20 per cento e sarebbe un successo enorme ma comunque non sufficiente a dargli la vittoria.
Superare il 20 per cento e magari arrivare al 25 è anche il traguardo vagheggiato da Monti. Ma il solo che può oltrepassare quel traguardo è Berlusconi. È lui l’inseguitore del Pd e dunque che succederebbe se l’inseguitore raggiungesse e superasse l’inseguito? ****
Se questo dovesse accadere crollerebbe in misura catastrofica la credibilità europea e internazionale del nostro Paese; i mercati si scatenerebbero e lo “spread” tornerebbe alle stelle. L’ipotesi di un Berlusconi vincente che riuscisse a “domare” Angela Merkel, cioè la Germania, è puro infantilismo. Accadrebbe però che la Lega conquisterebbe un potere decisivo e spaccherebbe con le sue proposte il Paese in due. Qualora la Germania non si accucciasse ai piedi del redivivo, il Cavaliere ha già previsto ed ha pubblicamente dichiarato che la lira come ritorsione uscirebbe dall’euro. Forse coloro che abboccando alla demagogia berlusconiana pensano che prima o poi l’asino volerà, non hanno ben chiaro che cosa significa il ritorno alla moneta nazionale: le banche americane e la speculazione giocherebbero a palla con la liretta, roba da emigrazione forzata, ma se il Pd non vincerà è esattamente questo che accadrà. Ci sono altre alternative?
Di Grillo abbiamo già detto; tra l’altro sostiene più o meno le stesse corbellerie di Berlusconi. Ma gli altri partiti potrebbero allearsi con il redivivo vincitore? Monti per esempio?
Monti ha governato un anno con la “strana maggioranza” che comprendeva anche il Pdl. Vero è che in quell’anno Berlusconi era praticamente scomparso, oggi viceversa è tornato in scena. Quanto a Monti, ha già dichiarato di essere disposto a ripetere l’esperienza dell’anno scorso sempre che il Cavaliere torni a fare il morto. Ma se il Cavaliere fosse il vincente delle elezioni possiamo star certi che il morto non vorrà tornare a farlo. Oppure potrebbe anche cedere a Monti la presidenza, perché no? Invierebbe a controllarlo il suo cameriere Angelino. Quanto a lui chiederebbe ed otterrebbe un salvacondotto onorifico. E il Pd? Ruota di scorta benvenuta, ma senza Vendola per rompere definitivamente con la propria genealogia politica che — come lo stesso Monti ha affermato — comincia con la nascita del Pci a Livorno nel 1921. Comunisti senza soluzione di continuità, partito vecchio come tutti gli altri salvo la lista civica montiana. E salvo Ingroia, Monti se l’era dimenticato. Anche Ingroia è nuovo di zecca e infatti anche lui non sopporta il vecchio Partito comunista camuffato da riformista e anche lui, da sponda opposta, lavora affinché il Pd affondi.
Noi comunque riteniamo che il centrosinistra vincerà alla Camera perché il “Porcellum”, che è una porcata per quanto riguarda la scelta dei candidati e il meccanismo d’attribuzione del premio al Senato, assicura la governabilità alla Camera.
Per il Senato il discorso è diverso, ma lì non c’è soltanto Monti, c’è anche Casini e non è affatto detto che sia in tutto e per tutto allineato con Monti. Probabilmente, se il Pd vincerà alla Camera ma il Senato fosse senza maggioranza, Casini l’alleanza con Bersani la farebbe e la governabilità sarebbe assicurata, gli impegni con l’Europa mantenuti, la politica economica europea e italiana orientate verso la crescita. Ecco perché il centrosinistra deve vincere. Personalmente sono liberale e non sono nato nel 1921 ma dalla morte di Ugo La Malfa in poi ho votato sempre a sinistra per un partito riformista. Ce n’è uno solo in Italia, riformista e democratico, con attenzione ai deboli, ai giovani, alle donne, al Mezzogiorno e alla laicità dello Stato. Quando Monti ha parlato del Pci come del progenitore del Pd ho visto che accanto a lui c’era il ministro Riccardi della Comunità di Sant’Egidio che approvava annuendo con la testa; evidentemente pensava ai tempi beati della Dc e non mi è affatto piaciuto. Dovrebbe ricordare — Riccardi — che Moro fece l’accordo con Berlinguer per governare il Paese in un momento di gravi difficoltà e per questo ci rimise pure la vita. Nichi Vendola, me lo lasci dire il buon Riccardi, il Berlinguer di allora lo tratterebbe come un figlioccio un po’ più moderato di quanto lui non fosse.
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Si parlerà ancora a lungo dello scandalo Monte dei Paschi, entrato di prepotenza nella campagna elettorale. Ma è un tema che con la politica c’entra soltanto incidentalmente. Il vero tema non è politico, riguarda piuttosto la struttura del sistema bancario, la vertiginosa moltiplicazione dei titoli derivati, le fondazioni e il loro assetto proprietario, i sistemi di vigilanza.
L’articolo di Luciano Gallino pubblicato ieri sul nostro giornale è molto chiaro in proposito: «La banca di Siena ha messo in pratica un modello di affari identico a quello di tutte le banche europee ed è un modello dissennato che sta all’origine della crisi economica in corso dal 2007 e ha portato al dissesto molte decine di banche in quasi tutti i paesi del nostro continente e negli Stati Uniti».
Questo modello va dunque riformato radicalmente in alcuni suoi punti nevralgici che sono i seguenti: 1. Occorre separare (come era stabilito nella nostra legge bancaria del 1936) le banche di credito ordinario dalle banche di affari e di lungo finanziamento. Le prime debbono raccogliere depositi e utilizzarli per finanziare le imprese; il loro capitale deve essere investito soltanto in obbligazioni emesse dallo Stato o da esso garantite.
2. La proprietà delle banche di credito ordinario deve essere affidata ad una pluralità di soci nessuno dei quali possa detenerne il controllo: fondazioni, fondi pensione, enti non-profit (leggi Amato e Ciampi).
3. La vigilanza sulle banche affidata alla Banca centrale, deve avere poteri più penetranti di quelli attuali. In particolare debbono avere il potere di revoca degli amministratori la cui condotta e le cui operazioni presentino aspetti rischiosi per la stabilità della banca ad essi affidata.
La Banca d’Italia, allora guidata da Mario Draghi, chiese più volte al governo che i suoi poteri di vigilanza fossero rafforzati e chiese in particolare di poter revocare gli amministratori. Oggi la vigilanza può solo ricorrere alla “moral suasion” che non è un potere ma una semplice raccomandazione. Analoghe richieste furono fatte dal Fondo monetario internazionale, anch’esso preoccupato per gli scarsi poteri della vigilanza della Banca d’Italia.
Il governo, nella persona del superministro Tremonti, rifiutò. Sarebbe molto opportuno che su questo punto la Banca d’Italia fornisse alla magistratura e alla Corte
dei Conti la documentazione delle sue richieste e la risposta negativa del ministro competente.
Il Presidente della Repubblica è giustamente preoccupato di quanto è accaduto, reclama chiarezza, confida nella magistratura e difende la Banca d’Italia dalle critiche faziose che le vengono rivolte. Ha segnalato anche, e giustamente, possibili “cortocircuiti” tra organi di informazione e autorità giudiziarie, che possano influire negativamente sui depositanti e sul mercato. Occorre tuttavia distinguere tra organi di informazione che ricercano la verità come è loro compito deontologico e istituzionale; possono talvolta incorrere in qualche errore come a tutti può capitare nell’effettuare il loro lavoro. Altra cosa invece avviene quando l’organo di informazione fabbrica notizie inesistenti e le diffonde per influire sui mercati e sulla politica. Queste sono macchine del fango e il cortocircuito che provocano non è occasionale ma consapevole e voluto.
Per rafforzare il risanamento del Monte dei Paschi sarebbe anche molto opportuno a nostro avviso che il ministro dell’Economia nominasse due consiglieri d’amministrazione della banca in occasione del prestito dei Monti-bond. La presenza provvisoria dello Stato nel capitale della banca è garanzia dell’opera di pulizia in corso dopo lo “tsunami” di Mussari e dei suoi accoliti.
Quanto alla fondazione senese, è evidente che debba fortemente diminuire la sua presenza azionaria nella banca. Lo faccia al più presto e discenda al 20 per cento, meglio meno che più.
Post scriptum.
Ieri ed oggi il nostro giornale è presente a Torino come lo fu l’anno scorso a Bologna, con manifestazioni intitolate “la Repubblica delle Idee”: dibattiti, prolusioni, interviste su temi di perdurante attualità. I torinesi hanno affollato le nostre iniziative con un interesse ed una simpatia dell’intera città.
Invio a tutti i colleghi ed amici e al direttore Ezio Mauro i miei più affettuosi auguri e li invio anche ai cittadini di Torino. Nel lontano 1968 fui deputato in quel collegio, indipendente nelle liste del Partito socialista. Amo molto quella città e faccio voti affinché il lavoro, lo sviluppo economico e culturale abbiano la meglio sulla attuale stasi. Torino fu la culla del nostro Risorgimento e uno dei principali centri di crescita e di solidarietà sociale e nazionale.
Questa è la sua vocazione che anche in tempi difficili non è mai stata abbandonata.

l’Unità 3.2.13
Sondaggisti metereologi e l’oracolo della marmotta
di Sara Ventroni


CHI SALE, CHI SCENDE, CHI È STABILE. Se assunti giornalmente, i sondaggi aumentano il tasso ansiogeno. Non ci resta che affidarci al vaticinio. Dobbiamo reagire alle oscillazioni degli zero virgola niente. Alle classifiche di gradimento del giorno. La verifica dei concorrenti è più crudele della giuria tecnica di Sanremo. Più perfida dei giudizi inappellabili degli «Amici» di Maria De Filippi. Gli elettori dovrebbero immedesimarsi nel campione, e invece si sentono vessati dal dominio capriccioso dei numeri.
Nando Pagnoncelli chiede «con chi andresti in vacanza?», Renato Mannheimer fa il bambino discolo da Bruno Vespa e Alessandra Ghisleri, numerologa di fiducia del Cav, confonde liberismo con liberalismo. I sondaggisti sono il must del momento. Tutti li vogliono. Tutti li cercano perché un cartello, in trasmissione, non può mai mancare. Fresco e croccante la mattina, e gommoso di sera, come la rosetta. Il tasso degli indecisi cala solo per disperazione.
In questo labile scenario, camuffato dal rigore statistico, ci affidiamo al buon senso. Per sapere se usciremo dal lungo inverno del berlusconismo, non ci resta che affidarci all’oracolo della marmotta. Come ogni anno, il 2 febbraio, a Punxsutawney, cittadina della Pennsylvania, si è celebrato il «Giorno della marmotta», un evento nel quale Phil, famoso roditore, esce dalla sua casetta di legno e, controllando l’ombra proiettata a terra, stabilisce quanto ancora durerà l’inverno.
Proprio ieri Phil, scrutando la propria ombra, ha decretato che quest’anno la primavera arriverà in anticipo. È un responso raro: non convenzionale ma affidabile, con tanto di certificazione del sindaco, e convincente almeno quanto il film di Harold Ramis, «Ricomincio da capo», con Bill Murray. Lì Phil Connors, omonimo della marmotta, è un cinico impenitente, un metereologo senza anima, un Luca Mercalli disilluso da Fazio, incattivito dalla vita, inviato dalla tv per un servizio sul folkloristico «Grounhog Day». Phil prende alla leggera l’oracolo della marmotta (facile metafora di rinascita), cade in un loop temporale e rimane intrappolato in un circolo vizioso. Ogni mattina, alle 06.00 in punto, viene svegliato dalla radio che trasmette la stessa canzone (I Got You Babe di Sonny & Cher) e gli eventi si ripetono uguali ogni giorno. All’inizio il reporter è eccitato: sfrutta la ripetizione per prendersi gioco di tutti, ma alla lunga si stanca e cade in depressione. È talmente disperato che pur di tornare alla normalità, si lancia da un palazzo. Si suicida. Ma niente. Phil Connors non muore e non vive. Il 2 febbraio si ripete, irrimediabilmente uguale, con gli stessi sketch, gli stessi pronostici, le stesse battute e le stesse reazioni. Finché, annoiato da se stesso, Phil non prova a spezzare l’incantesimo. Si guarda intorno e cerca di fare qualcosa di buono per gli altri. Solo allora il tempo rientra nei cardini. Il presente torna a girare e annuncia primavera anticipata. Alla faccia dei metereologi che minacciano, col solito bollettino, la prevedibile bufera quotidiana.

La Stampa 3.2.13
L’Europa i sondaggi e la realtà
di Gian Enrico Rusconi


Dopo “la comunicazione-choc” del Cavaliere, è annunciata una straordinaria performance di Beppe Grillo in piazza San Giovanni a Roma che, astutamente gestita, diventerà un evento televisivo. Sono due segnali estremi della strada intrapresa dal sistema mediatico che ha sequestrato il discorso politico.
Siamo davvero tutti ridotti a spettatori passivi? In realtà ci sono milioni di cittadini - pur perplessi e pensosi – che si divertono alle battute di Grillo o di Crozza (forse meno a quelle di Berlusconi) ma sanno distinguere ancora lo spettacolo dalla politica. Ma per i sondaggisti questi milioni di cittadini sono meno interessanti dei milioni di incerti, considerati il bacino da cui attingere quei piccoli numeri che segnalano gli spostamenti di scelta di partito. Ogni sera li annunciano alla tv o ai loro finanziatori. Spostamenti che – dicono o lasciano credere – avvengono grazie all’influenza della comunicazione televisiva o meglio ancora con gli choc da essa registrati. Giocando con questi numeri e postamenti i sondaggisti tengono in apprensione i politici che siedono nervosi al loro fianco nei talk-show. Il sondaggio è ormai parte integrante del sistema mediatico-politico. Da registrazione oggettiva della situazione tende ad essere previsione che mira ad autoadempiersi. I sondaggisti sono diventati i moderni aruspici che osservavano le viscere degli animali sacrificali per prevedere il futuro e per condizionarlo. Non a caso parlano volentieri della «pancia della gente», che i loro numeri interpreterebbero.
Anni fa si prendeva in giro Berlusconi perché si muoveva sulla base delle indicazioni demoscopiche. Oggi lo fanno tutti. La «sondaggiocrazia» si è affiliata a quella «democrazia mediatica» sulla quale sono già stati scritti tanti saggi. Ora è diventata luogo comune, non solo condiviso ma positivamente accettato. Con un ulteriore passo in avanti (o indietro, dovremmo dire) nel linguaggio dei politici fatto per aggredire, talvolta al limite dell’offesa personale.
Mi chiedo come sarà possibile dopo le elezioni ricostituire una civiltà della comunicazione politica democratica, in Parlamento e fuori.
Per il momento dobbiamo prendere atto di questa situazione. E’ una mutazione irreversibile della nostra democrazia, entro cui vanno messi a fuoco alcuni problemi.
Cominciamo da Mario Monti che da fattore innovativo e di attrazione, sta diventando elemento di ulteriore polarizzazione. Con il suo comportamento spigoloso e con il modo maldestro di esprimersi smentisce quella stoffa di statista che molti osservatori (estimatori e critici) gli avevano accreditato – pur accettando connaturata in lui la prevalente competenza tecnico-economica. Invece entrando direttamente nella competizione politica e adeguandosi ad essa, il professore non raggiungerà il suo obiettivo di ottenere un consenso tale da portarlo direttamente al governo – cui legittimamente aspira. Al contrario sta promuovendo un irrigidimento, soprattutto a sinistra con argomentazioni ideologiche che denotano una sorprendente insensibilità. E’ strano per un uomo che dice di guardare sempre all’Europa. Monti farebbe nel Parlamento europeo le stesse affermazioni che fa a casa nostra sul partito democratico ad esempio? A parte l’imperdonabile gaffe sulla sua fondazione nel 1921, anche il discorso di «tagliare le ali» lo farebbe davanti ad un partito socialdemocratico tedesco che pure ha le sue «ali»?
Non si è capito se il professore, che non raggiungerà la maggioranza, ha previsto anche qualche ipotesi di governo di coalizione. O lascia intenzionalmente ancora tutto indeterminato? Se è così, non mi sembra un atteggiamento onesto rispetto ai suoi potenziali elettori. Soprattutto è un atteggiamento «molto vecchio» e assai poco europeo.
Insisto sul tema Europa perché sta diventando un punto esplosivo. Una semplicistica identificazione tra Monti e l’Europa da indicatore positivo si è rovesciata nel clima sociale di oggi nel suo contrario. E’ un’arma polemica, utilizzata da ultimo da Berlusconi. In uno dei suoi interventi, per la verità confuso e pasticciato, sulla questione monetaria e bancaria in Europa, il Cavaliere ha proposto (sia pure ipoteticamente) l’uscita dall’euro ma soprattutto una battaglia frontale contro la Germania della Merkel. Ponendosi in esplicito antagonismo a Monti tenta di creare una pesante immagine del professore succube alla politica di solo rigore dell’Europa e di amico particolare della Merkel, a sua volta ridotta a stupida caricatura.
Nessuna delle due accuse è vera, ma stupisce che Monti non sia capace di raccontare come stanno davvero le cose. Non riesce a spiegare bene come lui stia cercando di convincere i partner europei nei vari organismi comunitari a favore della linea che si suole chiamare «crescita». Ma per fare questo non bastano calcoli tecnici, perché occorrono argomenti di grande respiro sociale e ideale che purtroppo non sono nelle corde montiane. Il professore non si rende conto che il tema Europa dovrebbe essere il pezzo forte della sua comunicazione a tutti i cittadini che si trovano esposti a facili demagogie. Si limita a reagire in modo seccato e un po’ supponente, soprattutto contro i rozzi attacchi del Pdl e della Lega.
Questo vale anche per il suo presunto feeling particolare con la Merkel. Un’analisi attenta dei loro contatti nel corso dell’anno passato arriva a conclusioni molto differenti. Ma il vero problema (come più volte si è scritto su questo giornale) è la scandalosa mancanza di rapporti seri tra le classi politiche italiana e tedesca. Se si vuole costruire un’Europa politica non bastano un paio di visite di cortesia.
Queste considerazioni dovrebbero valere anche e soprattutto per un confronto interno tra l’europeista Monti e il Pd, che è sempre assai attento alle tematiche d’Europa. Questo confronto è stato sinora evitato da entrambe le parti per la ipercompetitività che caratterizza la campagna elettorale. Con danno reciproco.
Se si va avanti così, con questo tipo di competizione elettorale esasperata, si arriverà alla fine stremati e reciprocamente incattiviti. E’ la deprimente prospettiva che abbiamo davanti, se non si cambia drasticamente e subito.

Corriere 3.2.13
Guru delle previsioni indovini immaginari
di Danilo Taino


Lanciate in alto una moneta. Ne saprete di più su cosa succederà dopo le prossime elezioni che non ascoltando gli esperti e i chiaroveggenti dei dibattiti televisivi. Sopraffatti dal volume del discorso elettorale, tendiamo a dimenticare gli studi statistici che hanno dimostrato la sostanziale incapacità dei professionisti delle previsioni di… azzeccare le previsioni. Non dovremmo. Dopo un lavoro ventennale, Philip Tetlock, professore di Psicologia all'università della Pennsylvania, qualche anno fa ha provato non solo che gli esperti non indovinano il futuro più delle altre persone ma anche che più sono prestigiosi (e remunerati) più sbagliano. Tetlock scelse 284 persone che si guadagnavano da vivere «commentando o facendo consulenza sulle tendenze politiche ed economiche». Alla fine del lungo studio, raccolse 82.361 previsioni. Dopo averle analizzate con metodi statistici, scoprì che gli esperti sarebbero stati più efficaci se avessero dato risposte casuali alle domande che aveva posto. Come sottolineò egli stesso, avrebbe cioè ottenuto risultati migliori un gruppo di scimmie che avesse lanciato 82.361 dardi a un bersaglio con scritte sopra le domande, freccette che si sarebbero distribuite uniformemente.
Inoltre, stabilì che sapere qualcosa di un tema può leggermente migliorare le previsioni, ma ben presto la quantità di nozioni che un commentatore possiede diventa un handicap e gli errori aumentano. Di base, è che chi è ritenuto un guru pecca quasi sempre di un eccesso di fiducia in se stesso. Il lavoro di Tetlock — pubblicato in un libro considerato fondamentale, Expert Political Judgement, Il senno politico esperto — ha confermato ciò che centinaia di altri studi avevano già sostenuto: gli esperti sanno prevedere peggio delle formule statistiche e degli algoritmi (e naturalmente anche dei sondaggi).
Tetlock, che è uno psicologo, va oltre, cerca le ragioni delle sue scoperte. Nota per esempio che alcuni esperti prevedono meglio (ma solo un po') di altri. E ciò dipende dal modo in cui pensano. A seconda che appartengano a una o all'altra delle categorie umane individuate (con riferimento ad Archiloco) da Isaiah Berlin: il riccio o la volpe. Il riccio è meno abile a fare previsioni perché «sa una cosa grande», cioè ha un sistema di riferimento coerente, con un centro, che gli permette a esempio di chiudersi e alzare gli aculei quando è in pericolo. Ha molte probabilità di sbagliare perché la sua visione centrale lo porta a fare previsioni auto-riferite. Sbaglia spesso e di grosso, anche se quando indovina lo fa in misura trionfale: è il caso di Winston Churchill che sbagliò tutto sull'indipendenza dell'India ma fu un gigante su Hitler. La volpe, invece, non ha pensieri e comportamenti unificati da una visione, si muove in risposta alle situazioni: secondo Tetlock, fa previsioni mediamente migliori. Mai, comunque, come quelle delle scimmie. Teniamone conto, davanti alla tv.

Repubblica 3.2.13
Landini: “Nessuna certezza sul futuro ma pronti al confronto se la Fiat cambia”
Il segretario della Fiom: bisogna partire dai diritti in fabbrica
di Paolo Griseri


NEL mondo del lavoro italiano si scontrano due modelli: quello concertativo renano-germanico e quello autoritario anglosassone. In questi anni di debolezza del lavoro manifatturiero e di prevalenza della finanza sull’industria, siamo passati dalla democrazia contrattata in fabbrica di tipo tedesco alla prevalenza del capitale sul lavoro tipica del modello che si realizza in Usa e in Inghilterra e che traccia una linea invalicabile, un «onoff » senza appello, tra i sommersi e i salvati. Così il segretario generale della Fiom, Maurizio Landini, racconta le ragioni di fondo dello scontro sul lavoro di cui la vicenda Fiat è, ancora una volta, l’emblema. Ed è proprio intorno alla Fiat, nella città che è tuttora fisicamente presente nell’acronimo del Lingotto, che ruotano le due interviste pubbliche sul palco del teatro Carignano: quella di ieri pomeriggio a Landini, condotta dal vicedirettore di Repubblica, Massimo Giannini, e quella di questa mattina a Sergio Marchionne, guidata da Ezio Mauro.
«Repubblica è quel pezzo di terra in cui è possibile far incontrare a poche ore di distanza, sullo stesso palcoscenico, Maurizio Landini e Sergio Marchionne », sottolinea Concita De Gregorio presentando la due giorni torinese. Uno spazio di confronto possibile, forse non ancora per una tregua ma almeno per un chiarimento sulle ragioni del dissenso.
Landini mette subito in campo la ragione più profonda della rotta di collisione con Marchionne: «Non si può immaginare che sia l’azienda a decidere con quali sindacati trattare e con quali no. Il diritto a rappresentare i lavoratori dipende dalle scelte dei lavoratori e non dalla volontà degli amministratori delegati». Dietro queste parole la polemica sulla rappresentanza, la scelta della Fiat, avallata dagli altri sindacati, di trattare solo con chi firma gli accordi. Per quella scelta a Pomigliano «dopo i risultati del referendum del 2010, venne costituita una società apposita con l’obiettivo di escludere la Fiom dalla rappresentanza in fabbrica. È un bene, ed è anche il frutto delle nostre battaglie in tribunale, se proprio in questi giorni l’azienda ha deciso di sciogliere la società e di riassorbire tutti i lavoratori, cassintegrati e no, in un’unica azienda». Dunque, pur attribuendo anche alla Fiom, il merito indiretto della scelta aziendale, Landini non considera negativamente l’ultima mossa della Fiat nel cratere di Pomigliano. E, proprio rifacendosi al modello tedesco, pronuncia la frase che forse è l’apertura più esplicita della giornata: «Marchionne dovrebbe sapere che dire no è anche condizione per dire dei sì. Non serve neanche alla Fiat avere dei sindacati che dicono sempre sì anche quando fai cose che non stanno in piedi».
L’apertura, almeno nei toni, non impedisce al leader della Fiom, passaggi particolarmente duri come quando definisce «scene un po’ coreane che non misurano il consenso reale», gli applausi delle tute blu di Grugliasco (in maggioranza Fiom) all’arrivo di Marchionne il giorno dell’inaugurazione dello stabilimento. Ma subito dopo il segretario dei metalmeccanici della Cgil si dice «aperto al confronto con la Fiat se la Fiat cambia » e quando Giannini gli propone di fare una domanda a Marchionne, Landini chiede che «con la Fiat e anche con il nuovo governo si apra un confronto per discutere di come garantire un futuro produttivo agli stabilimenti italiani. Perché finora non abbiamo certezze sulle strategie e le scelte del Lingotto in Italia».
Nell’intervista di Giannini, Landini ha chiamato più volte in causa la politica. Per denunciare che «anche alla Fiat i partiti hanno lasciato soli i lavoratori, limitandosi a fare il tifo per questa o quella scelta elettorale in occasione dei referendum sui contratti di fabbrica. In questo modo la politica ha finito per scaricare su chi lavora in linea ogni responsabilità». Poi ha rivendicato «la scelta della Fiom di stare nella società, di fare politica facendo sindacato, perché fin dalla nostra nascita, all’inizio del Novecento, non siamo un sindacato di mestiere ma un sindacato generale che si propone di modificare lo stato di cose esistente».
La proposta della Fiom alla Fiat è dunque quella di tornare a un modello concertativo sullo schema di quel che accade in Europa centrale, modello che peraltro lo stesso amministratore delegato del Lingotto aveva mostrato di perseguire nei primi anni della sua presenza ai vertici della Fiat. Basteranno queste aperture più nei toni che nella sostanza a riaprire davvero un confronto che è interrotto ormai dal giugno del 2010? A riportare la Fiat su schemi di relazioni sindacali di tipo socialdemocratico? Questa mattina sarà Marchionne a rispondere alle domande.

l’Unità 3.2.13
Su cultura e sviluppo va fatta una battaglia seria
Tra tagli e degrado, Monti non ha invertito la rotta dopo Berlusconi. Ma arte e paesaggio sono assi strategici, da porre al centro dei programmi elettorali
di Vittorio Emiliani


A venti giorni da un voto nazionale e regionale importantissimo che può chiudere un ventennio di berlusconismo distruttivo per la cultura e per l’identità nazionale, un ventennio di inquinamento profondo dei pozzi dei saperi fondamentali e di esaltazione provinciale dell’individualismo più becero, bisogna con maggior forza far entrare nel dibattito politico la «ricostruzione» della cultura italiana in ogni ambito. Essa è la leva forte per uscire dall’orrendo pantano in cui il Paese è stato cacciato, per una sua effettiva, durevole rinascita internazionale. Su questo punto altamente strategico il governo Monti purtroppo non è servito a invertire la spinta berlusconiana verso un degradante declino. Anzi, il ministro Lorenzo Ornaghi è stato, per negatività, pari se non peggiore dei predecessori Galan e Bondi. Il budget del Ministero, già modesto rispetto ai Paesi sviluppati, è stato ancora tagliato con l’accetta: del 40 % nell’ultimo decennio. Per la parte riguardante la cultura la stessa Agenda Monti si è rivelata di una pochezza disarmante, confondendo cultura e turismo. Il compito strategico di risollevare la cultura in generale e di farne, con la ricerca, la leva essenziale della rinascita generale del Paese spetta dunque al centrosinistra, alla sinistra, spetta al Partito democratico anzitutto e al suo alleato Sel, a quanti sostengono questo blocco riformatore. Ma nel dibattito elettorale ciò si avverte ancora troppo poco rispetto al disastro in cui siamo precipitati: con archivi e biblioteche (eccezionali per storia e dotazione) ridotti a luoghi spenti e disertati, oggetto di autentiche ruberie come la vicenda dei Girolamini documenta, con grandi musei, alcuni da poco finiti di restaurare splendidamente, che lottano per rimanere aperti come devono, con la rete essenziale dei musei civici che rischia di sfibrarsi, con la didattica in generale, a partire da quella museale, azzerata, con Soprintendenze che non hanno mezzi né personale tecnico per garantire una vera tutela del patrimonio aggredito da ogni parte, specie nel paesaggio sfigurato e nei centri storici oggetto di nuovi insidiosi assalti. Mentre il Paese frana e smotta a ogni pioggia appena battente, avendo anche in questo caso disossato le autorità pubbliche, mentre la Lega Nord proponeva di gestire tragicomicamente regione per regione persino il Po e il centrodestra non istituiva le Autorità di distretto votate in Europa. O si faceva avanzare lo smembramento, allo stesso barbaro modo, di Parchi nazionali come Stelvio e Gran Paradiso, e si lasciavano gli altri Parchi in una condizione di indigenza che vuol dire impotenza contro speculatori edilizi, bracconieri, cacciatori, disboscatori, ecc.
Il Malpaese rischia dunque di sopraffare il Belpaese e anche gli appelli – come quello recentissimo per l’alluvione di Sibari (e parlo di Sibari, tesoro archeologico) – rischiano ormai di cadere nel vuoto, di non venire raccolti da una stampa sorda e dalla stessa Rai che ha cancellato le trasmissioni culturali o le ha relegate a notte fonda oppure all’ora dei pasti, se va bene. Appiattita sui peggiori modelli della tv commerciale.
Nell’era berlusconiana, proseguita anche col governo dei tecnici, si sono tagliati i viveri di sopravvivenza al cinema, pericolante e però sempre creativo, al teatro, che pure continuava a conquistare spettatori, alla musica di ogni genere. Certo che in passato vi sono stati, specie negli ex enti lirici, sprechi e rendite parassitarie e ve ne sono ancora. Ma non è così che si interviene su un corpo malato se lo si vuole, se lo si deve curare. Coi tagli lineari alla Tremonti si sono letteralmente amputate parti del corpo vivo della cultura. Il taglio dei trasferimenti erariali ha spinto i Comuni da un lato a schiacciare l’acceleratore dell’edilizia speculativa pur di fare cassa, dall’altro a ridurre l’attività culturale decentrata, a spegnere le luci di teatri storici restaurati e di moderne sale da musica e da prosa, con effetti a cascata di incalcolabile gravità.
Mille altre cose vi sarebbero da denunciare e quindi da proporre. Ma qui mi fermo, sottolineando solo come la formidabile «rete» dei nostri parchi e paesaggi, dei nostri quattromila musei, delle duemila aree archeologiche, delle centomila chiese, dei quarantamila castelli e torri, dei ventimila centri storici, di migliaia di biblioteche antiche e di decine di migliaia di archivi ecclesiastici e civili, degli ottocento teatri storici e di tanto altro ancora sia la nostra identità storica e sia anche, se tutelata adeguatamente, se fatta vivere decorosamente, gran parte dell’attrattiva turistica. Di oggi e ancor più di domani.
Eppure si calcola che il sistema produttivo della cultura occupi quasi 1 milione e mezzo di addetti. Perché il centrosinistra, la sinistra, il Pd non rilancia – a partire da l’Unità una grande, generosa, illuminata battaglia per la cultura come la madre di tutte le battaglie, anche del lavoro e dell’occupazione qualificata?

Corriere 3.2.13
Ripartire dall’articolo 9 della Costituzione
di Matteo Orfini

Responsabile Cultura e Informazione del Pd

Caro direttore, «la cultura non è al centro della campagna elettorale» è il lamento che in questi giorni si leva sempre più spesso. Una considerazione più che fondata, che purtroppo non riguarda solo la politica: quanto abbiamo dovuto aspettare perché il sistema dell'informazione si accorgesse della tragedia di Sibari? Per questo, la proposta-appello lanciata da Roberto Esposito e Ernesto Galli della Loggia per l'istituzione di un ministero della Cultura, in luogo dell'attuale ministero dei Beni culturali, va salutata con favore, se può servire a smuovere l'opinione pubblica. Certo, il problema non può essere ridotto a mera questione nominalistica: Esposito e Galli della Loggia osservano giustamente che l'Italia attraversa una crisi che è, nel profondo, una crisi culturale, e che c'è bisogno di ridefinire «un'idea di Paese». Questo però è un problema che investe la politica nel suo complesso, e da cui il Pd si sente investito in tutte le sue articolazioni. Ci vuol più di un ministero (e di un ministro, attualmente vacante), ci vuole un governo che ne sia consapevole, ed è il governo al quale il Pd sta lavorando. Per questo ormai da anni abbiamo guardato alla cultura prima di tutto come a un diritto dei cittadini, un bene comune da curare con amore, ma anche come a una possibile via d'uscita dalla crisi.
Investire sul sapere, sulla creatività, sulla cultura è indispensabile per rendere più forte non solo la democrazia italiana, ma un sistema industriale che ha bisogno di puntare sull'innovazione e non sulla ragionieristica riduzione di costi, da scaricare ovviamente sul mondo del lavoro. Non aver valorizzato i giovani formati dalle nostre università è la ragione per cui i loro padri, descritti come ipergarantiti, sono oggi anch'essi precari come i loro figli, perché precarie sono le mille imprese in crisi per cui lavorano. Imprese che per rilanciarsi avrebbero bisogno di un Paese che le aiuti a innovare. Per invertire questo declino serve dunque una scelta decisa. E servono politiche di riforma serie, che rimettano al centro la cultura e che consentano alla Repubblica di garantire l'applicazione dell'articolo 9 della Costituzione. Quindi interventi che interrompano il declino a cui il disinteresse ha destinato archivi e biblioteche statali, siti archeologici e patrimonio culturale. Esattamente quelle proposte che Stella nell'editoriale di ieri giustamente invoca e che avrebbe trovato già elaborate nel dettaglio, se solo le avesse cercate nel programma del Pd sulla cultura, o semplicemente utilizzando Google.
Certo, constatarne l'esistenza avrebbe smentito la sua tesi, per la verità ormai di scuola: quella del disinteresse dell'intera politica per questi temi. Ma per fortuna dell'Italia e della cultura, è una tesi infondata.

l’Unità 3.2.13
Mps, tre filoni di indagine
E i conti sospetti allo Ior
di Claudia Fusani


Da lunedì raffica di interrogatori. Una decina gli indagati
I magistrati al lavoro sulle carte dell’acquisto di Antoveneta; sulle speculazioni sui derivati; sul rastrellamento di azioni Bnl nel 2005

Conti correnti riferibili a dirigenti del Monte dei Paschi sarebbero stati aperti presso lo Ior, l’istituto opere religiose che è il braccio finanziario della finanza vaticana e cattolica. La scoperta, indiscrezioni che si rincorrono da giorni e mai smentite, potrebbe aprire scenari nuovi nelle indagini dei pm Antonino Nastasi, Aldo Natalini e Giuseppe Grosso e affidate al Nucleo valutario della Guardia di Finanza.
Lo Ior, il forziere più inviolato dall’autorità giudiziaria e impermeabile alle rogatorie, custodisce circa 44 mila conti correnti a disposizione di ecclesiasti, dipendenti del Vaticano ma anche enti privati e privilegiati. Niente di male, quindi, se i massimi dirigenti dell’istituto senese avessero scelto di custodire qualche ricchezza privata all’interno delle mure vaticane.
La cosa cambierebbe se i flussi di danaro ricostruiti dall’Uif (Financial intelligence unit) della Banca d’Italia indicassero che in quei conti sono finiti guadagni di operazioni finanziarie estero su estero e che hanno riguardato anche gli ultimi anni di vita di Rocca Salimbeni, quelli oggetto dell’inchiesta della procura di Siena. Che sono, soprattutto, quelli dell’acquisto di banca Antonveneta (2007-2008) per un impegno totale, comprensivo di accollamento dei debiti della banca padovana, di 17 miliardi. Una cifra enorme che ha dissanguato i forzieri di Rocca Salimbeni, da sempre, cioè da cinque secoli, tra i più liquidi nel sistema creditizio italiano. Una voragine da cui i dirigenti dell’istituto, all’insaputa e comunque raggirando ipotizzano sin qui le indagini i soci e le disposizioni degli organismi di controllo hanno cercato di uscire cominciando a scommettere e speculare su una serie di titoli tossici (Alexandria e Santorini) che rischiano di esporre la banca per ulteriori 700 milioni di euro. «Fuori legge» anche il prestito obbligazionario da un miliardo di euro (l’ormai famoso bond Fresh) che la banca ha sottoscritto per acquistare Antonveneta limitando l’aumento di capitale a cinque miliardi in modo da tenere la Fondazione al 50,6% nella proprietà di Mps.
L’inchiesta è tortuosa. Si sviluppa in tre diversi fascicoli (l’ultimo riguarda il rastrellamento di azioni Bnl nel 2005) e sta per affrontare una settimana decisiva in cui saranno sentiti, con tanto di inviti a comparire, la decina di indagati per associazione a delinquere finalizzata a truffa, aggiotaggio, falso in bilancio, turbativa di mercato e omessa comunicazione agli organismi di vigilanza. Domani si dovrebbe esaurire la lista dei testimoni. Manca all’appello Antonio Rizzo, l’ex dirigente Dresder bank che a verbale davanti ai magistrati milanesi (in un’inchiesta collegata) ha parlato della «banda del 5 per cento» facendo i nomi di Gianluca Baldassarri, dal 2001 al 2011 capo dell’Area Finanza di Mps, e del suo vice a Londra Matteo Pontone. Tra i testimoni sono stati sentiti anche Anna Maria Tarantola, ex capo della Vigilanza di Banca d’Italia. Nei giorni scorsi Gabriello Mancini, presidente della Fondazione Montepaschi, destinatario di una perquisizione (ma non indagato) a maggio scorso.
Per cinque ore i pm hanno sentito anche Luigi Gotti Tedeschi, ex presidente dello Ior fino a maggio 2012 e da sempre responsabile per l’Italia del Banco di Santander presieduto dal potentissimo Emiliano Botin. In quelle ore a tu per tu con i magistrati e gli investigatori del Valutario della Finanza Gotti Tedeschi è stato interpellato a lungo anche sui suoi rapporti con Giuseppe Mussari e Gianluca Baldassarri. Il verbale è stato secretato. E se Gotti Tedeschi ha ribadito di non aver avuto un ruolo operativo di primo piano nella triangolazione Santander-Antonveneta-Mps («avvenne tutto direttamente e ai massimi livelli»), di certo non ha potuto negare la forte intesa con il giovane Mussari. Quando Gotti Tedeschi ha avuto le prime difficoltà giudiziarie (2010, procura di Roma, inchiesta per riciclaggio), l’allora presidente del Monte dichiarò senza se e senza ma in favore di Gotti Tedeschi. E quando a maggio 2012 il Professore è stato costretto a lasciare il vertice dello Ior, per un paio di mesi è girato il nome di Mussari come suo successore. Mussari, già coinvolto nello scandalo Monte dei Paschi, già costretto, in aprile, da Bankitalia a lasciare Rocca Salimbeni e nonostante tutto ben saldo ai vertici dell’Abi.
IL RASTRELLAMENTO AZIONI BNL
Le indagini ipotizzano che truffa e falso in bilancio siano finalizzati a nascondere danaro e creare provviste su conti esteri. Tangenti magari travestite da super-premi per manager e broker che a vario titolo, soprattutto a Londra, si sono occupati dell’acquisto Antonveneta e delle speculazioni sui derivati. Una ventina di milioni, che non è detto siano illeciti, li ha segnalati lo stesso Baldassarri grazie allo scudo fiscale. Una bella provvista, travestita da plusvalenza, l’Area Finanza di Mps la ricava anche dal rastrellamento di 132 milioni di azioni Bnl fatto nel 2005 per ostacolare la scalata di Unipol e Consorte. Quel pacchetto di titoli viene poi ceduto a Deutsche bank Londra dichiarandolo però come prestito e quindi esente da tassazione. Invece era una vera e propria vendita per cui Mps intascò milioni di tasse mai pagate. Solo uno dei modi, secondo l’accusa, di creare fondi neri.

l’Unità 3.2.13
È la finanza che domina la politica, anche a Siena
di Nicola Cacace


SI CHIAMA “IL RITORNO DELLE ELITES” IL NUOVO LIBRO in cui Rita Di Leo analizza come, nella società globale e
grazie al potere della finanza, le elites economiche sono tornate a dominare la politica, cioè i governati, come non accadeva dall’antichità per altri poteri, regale, religioso, militare. Questa del potere dell’economia è una novità assoluta, per la prima volta nella storia gli uomini dell’economia, grazie allo strapotere assunto dalla finanza, hanno nelle proprie mani il governo della società, lo Stato, i corpi intermedi, i partiti.
Siena con la sua fondazione e la sua banca, può essere citata anche come uno dei casi emblematici di dominio della politica da parte della finanza. Da trent’anni Siena ha avuto tre sindaci, Vittorio Mazzoni della Stella dall’’83 al ’90, Pierluigi Piccini dal ’90 al 2001 e Maurizio Cenni dal 2001 al 2011, tutti alti funzionari del MPS, ripeto, tutti provenienti dalla banca. Dopo che Bersani, rispondendo alle tante provocazioni e strumentalizzazioni elettorali aveva seccamente risposto “via i partiti dalle banche ma via anche i banchieri dai partiti”, viene a proposito una dichiarazione di uno che del rapporto partiti-banche ne deve sapere parecchio, parlo del primo sindaco della serie sopra citata, Mazzoni della Stella, dichiarare “i vertici di MPS sono tutte persone che hanno scelto loro i politici” (gonews.it,1/2).
Un paese serio dovrebbe essere più attento alla raccomandazione del presidente Napolitano di “salvaguardare gli interessi del paese nei modi di portare avanti questa polemica”, far lavorare la magistratura e le autorità preposte, Banca d’Italia, Consob e ministero dell’Economia (controllore delle fondazioni bancarie) lasciandole fuori da attacchi, per ora ingiustificati, che possono nuocere solo al paese. E bisognerebbe accelerare quelle riforme delle fondazioni, da tempo attese, in grado di ridurre l’intreccio biunivoco, con la politica, trasformandole in vere Spa, come detta la legge Ciampi del ’99, togliendo agli Enti locali la possibilità di essere dominanti nelle nomine dei consigli d’amministrazione delle banche, come avveniva alla fondazione MPS.
Per tornare all’intreccio politici-banchieri, è giusto ricordare che è stato il primo sindaco venuto dalla politica e non dalla banca, Franco Ceccuzzi, deputato nella XV e XVI legislatura rispettivamente per Ulivo e PD ad aver determinato il cambiamento dei vertici della banca, con le nomine di Alessandro Profumo presidente e Fabrizio Viola amministratore delegato e, per questo, ad essere stato dimissionato da colleghi contrari al rinnovamento della bvanca. C’è voluto un politico, non ex banchiere, ad avviare il rinnovamento, pagando anche di persona col commissariamento del Comune. È un caso assai poco citato da quanti blaterano in questi giorni sullo scandalo MPS.
Questo non per diminuire la gravità di quanto è successo a Siena di cui magistratura ed autorità dovranno essere inflessibili nell’accertare le responsabilità, ma per cercare di rispondere all’invito del nostro Presidente a “salvaguardare il patrimonio di prestigio del nostro sistema bancario anche fuori dall’Italia”, cosa che, purtroppo non fanno, troppi vecchi e nuovi attori della campagna elettorale.

La Stampa 3.2.13
La pax senese Pd-Pdl Al Monte c’era posto anche per la destra
di Gianluca Paolucci


Quando arrivava la stagione delle nomine nelle partecipate del Monte scoppiava il putiferio», ricorda dietro la promessa dell’anonimato un importante uomo politico del Pdl senese. «Arrivavano curriculum e telefonate da Roma e da Firenze».
A riceverli c’era Andrea Pisaneschi, avvocato e docente universitario senese poco più che cinquantenne, consigliere di Mps dal 2002 in quota prima Forza Italia e Pdl poi e, secondo le ricostruzioni, «uomo di raccordo» tra la banca e il coordinatore nazionale del Pdl Denis Verdini. La «pax senese» tra Ds e opposizione, anello politico del «groviglio armonioso» che porta gli uomini di Forza Italia nel cuore del Monte dei Paschi viene siglata nel 2000, con Piccini sindaco di Siena e dominus degli allora Ds locali. Risale ad allora la decisione politica di allargare la rappresentanza nella Fondazione alle forze d’opposizione. Così quando nel 2001 viene rinnovata la deputazione della Fondazione Mps, tra gli otto «nominati» dal comune entra anche Fabrizio Felici, già consigliere comunale di Siena e segretario provinciale di Forza Italia.
Alla presidenza doveva arrivare lo stesso Piccini ma a sorpresa finirà invece Giuseppe Mussari, all’epoca «solo» un giovane avvocato vicino ai Ds. Al successivo rinnovo del consiglio di Mps, nel 2003, tra i nomi indicati dalla Fondazione compaiono due consiglieri di «area» Pdl, Pisaneschi e Carlo Querci. Coordinatore regionale di Forza Italia è Denis Verdini, che poi diventerà coordinatore nazionale del Pdl.
Per questa via, entreranno nei cda delle controllate, accanto agli esponenti di area Ds e Margherita, anche gli uomini di Forza Italia. Ovvero, di Denis Verdini, che grazie alla vicinanza con Berlusconi acquisiva sempre più potere a Roma come a Siena. Come Pier Ettore Olivetti Rason, anche lui indagato nelle inchieste fiorentine sul caso Verdini, che negozia il presito di 150 milioni alla Btp e diventa consigliere di Paschi Gestione Immobiliare. O ancora Pietro Pecorini, avvocato anche lui, che nel 2008 entra nel consiglio della piemontese Biverbanca da poco entrata nel perimetro di Mps. In questo patto politico rientra, viene ricostruito, rientrerebbe anche la presidenza di Antonveneta. L’anno è sempre il 2008, il Pdl ha appena vinto le elezioni e Mps deve rinnovare il consiglio della banca padovana. Un testimone diretto della vicenda racconta che fu proprio un accordo a livello politico a portare l’avvocato Pisaneschi alla presidenza.
L’accordo funziona con soddisfazione di tutte le parti, evidentemente. Almeno fino a quando, nel gennaio 2011, non viene indagato nell’ambito delle indagini per il crac della Baldini-Tognozzi-Pontello (Btp), l’impresa di costruzioni che porterà al collasso il Credito Fiorentino dello stesso Verdini. Tra le operazioni finite sotto la lente della procura di Firenze, che indaga sul crac, c’è anche un prestito sindacato da 150 milioni concesso da un pool di banche con Mps capofila, esposto per 60 milioni. Poi Unipol Banca (50 milioni), Credito Fiorentino (10), Cariprato (20) e Banca Mb (10). E una serie di intercettazioni dove Pisaneschi rassicura Riccardo Fusi della Btp che malgrado tutti i guai della Btp la banca non creerà problemi per quel prestito: «Si rifà il punto anche con me, che c’avrei piacere. Dopodiché io riacchiappo Pompei, riacchiappo Vigni (rispettivamente un alto dirigente e il direttore generale di Mps, ndr), riacchiappo tutti quelli che devo riacchiappare... ». Nella stessa inchiesta viene intercettato anche Mussari, che non risulta indagato. Verdini lo chiama per chiedergli di intercedere in prima persona per far aumentare di 10 milioni la quota di Mps nel prestito alla Btp, ma l’incremento non verrà mai approvato. Pisaneschi, dopo le rivelazione sull’indagine, viene costretto a dimettersi ed esce di scena. Fino a ieri.

il Fatto 3.2.13
La verità di Consorte: “Ecco i segreti della finanza rossa”
Prima dell’estate dei “furbetti” nel 2005 c’era un piano tra Monte Paschi e Unipol per il polo targato sinistra
di Gianni Barbacetto


Milano. Rivincita? Sì, questo potrebbe essere il momento della rivincita. Lui, Gianni Consorte, era il “cattivo”, il “furbetto rosso” che nel 2005 si lancia, in pessima compagnia, alla conquista di Bnl durante l'estate delle scalate. Quelli del Monte Paschi erano invece i “buoni”, quelli che si erano tenuti lontani dalla “razza mattona” dei Ricucci e compagnia, dicendo un sonoro no a Massimo D'Alema e Piero Fassino che li avrebbero invece voluti al fianco di Consorte nell'assedio a Bnl.
Sfida tra Bologna e Siena
Nell'estate 2005 si è combattuta (anche) una disfida tra Bologna e Siena. Una guerra fratricida che ha spezzato il cuore della finanza rossa. Oggi Giuseppe Mussari e gli uomini della vecchia gestione Mps sono travolti dallo scandalo. “Cattivi” anche loro. Chissà se Consorte assapora il gusto della vendetta. “Ma no. Non mi interessa infierire sui miei vecchi avversari che oggi provano cosa vuol dire essere attaccati ogni giorno dai giornali. A me interessa soltanto ristabilire la verità dei fatti di allora, che forse spiega anche quello che sta succedendo oggi”.
L'ex presidente, amministratore delegato e padre-padrone di Unipol è stato processato per le scalate. “E assolto per l'aggiotaggio su Bnl”, dice. Nel gennaio 2006 si è dimesso da ogni carica. Ha lasciato la compagnia di via Stalingrado, a Bologna, “l'assicurazione dei comunisti” diventata grande azienda, buttata nei giochi pericolosi della finanza italiana, senza stare troppo a guardare i compagni d'avventura. “Quando me ne sono andato”, dice, “ho però lasciato un gruppo con 300 milioni di utile, un patrimonio netto di 6,2 miliardi, un giro d'affari di 10,5. Non voglio fare confronti con altre situazioni”.
Ora assiste al crollo dei suoi vecchi nemici. “Ma le cose non sarebbero andate così”, continua Consorte, “se Mussari e gli altri del Montepaschi mi avessero dato retta. Avremmo conquistato Bnl e loro non si sarebbero svenati per comprare Antonveneta”. Nel 2005 Consorte tentò di coinvolgere Mps nella scalata alla banca romana. D'Alema, indicato come il gran regista politico dell'operazione, era d'accordo. Fassino non faceva solo il tifo, ma telefonava ripetutamente a Franco Ceccuzzi, allora segretario dei Ds senesi, per convincerli a schierare Mps al fianco di Unipol.
Il no di Ceccuzzi
Siena disse no. Non voleva stare in una cordata con il comando a Bologna. E Ceccuzzi spiegava: “Saremo anche medioevali, noi di Siena, ma abbiamo le calcolatrici e i computer: abbiamo fatto i calcoli, l'affare non ci conviene. Con quei compagni di strada, poi... ”. Peccato che un paio d'anni dopo, abbiano comprato Antonveneta pagandola carissima. Da qual momento, è stato tutto un rilanciare di derivati e contratti segreti, swap e fresh, un poker folle con molti bluff per tentare di aggiustare i conti, o almeno di nascondere quelli veri.
L’opa su Bnl in contanti
“Le racconterò una cosa che smentisce seccamente questa storia delle calcolatrici”, dice Consorte. “Nell'aprile 2005 io e il vicepresidente Ivano Sacchetti abbiamo proposto a Mussari di fare lui l'operazione: un'opa su Bnl in contanti che gli avrebbe permesso di arrivare attorno al 60 per cento e avere così il controllo della banca. Avevo calcolato che gli sarebbe costato 4,8 miliardi. Alla fine, Mussari avrebbe fuso Mps con Bnl e il Monte Paschi sarebbe diventato la più grande banca italiana. A noi avrebbe dato due o trecento filiali che avrebbero razionalizzato la sua rete e fatto crescere la nostra Unipol Banca. Sa la verità? Ero già d'accordo con l'allora governatore di Bankitalia Antonio Fazio. Anzi, era stato lui a chiederci di fare l'operazione, così da fermare i baschi di Bbva, il Banco di Bilbao che aveva lanciato una Ops (offerta pubblica di scambio) per conquistare Bnl. Loro pagavano con la carta, scambiando titoli, noi avremmo pagato cash. Avremmo vinto”. Contenti tutti, anche Fazio, impegnato a garantire “l'italianità delle banche”.
Il tradimento di Generali
“Unipol era dal 2001 che cercava di comprare azioni Bnl”, racconta Consorte. “Assicurazioni Generali si era impegnata con noi per cederci il suo pacchetto dell'8 per cento. Poi, nel 2004, l'amministratore delegato di Generali, Giovanni Perissinotto, comincia a raccontarci balle, ci dice che l'accordo era decaduto e intanto si era messo d'accordo con Diego Della Valle e Bbva. È a quel punto che io cerco un'altra strada. Propongo a Mussari di fare lui l'opa. Mi risponde di no. Allora parto da solo. Cerco un accordo con Bbva. Poi nel giugno 2005 chiedo a Mussari di venderci il loro pacchetto di Bnl: Montepaschi aveva un 4-5 per cento, se non ricordo male, tanto che esprimeva un uomo nel consiglio d'amministrazione della banca romana. Mussari mi ha risposto ancora di no. Allora, tra il 1 e il 15 luglio 2005 – non un giorno prima – avvio contatti con gli uomini del cosiddetto 'contropatto' Bnl (da Francesco Gaetano Caltagirone a Stefano Ricucci, da Danilo Coppola a Vito Bonsignore), che non avevo mai visto prima, per acquistare le loro azioni Bnl”.
Si accalora, Consorte, mentre racconta la sua verità. “Mi hanno fermato. Riempito d'accuse infondate. Processato. Sa, non mi stupisce di aver avuto contro gente come Diego Della Valle o Luca Cordero di Montezemolo. Quello che mi ha ferito è l'avversione di interi settori della sinistra. Io sono e resto un uomo di sinistra. Ho vissuto quegli attacchi come un tradimento. Sì, mi sono sentito tradito”.
Con Gillo, ma di sinistra
Che cosa voterà Consorte, alle prossime elezioni? “Non mi faccia parlare di politica. Non glielo dico, per chi voto”. È stato scritto che il “furbetto rosso” è passato a sostenere Beppe Grillo e il Movimento 5 stelle. “Ma no. Io sono andato, è vero, ai banchetti di Grillo qui a Bologna, a mettere anche la mia firma affinché il movimento potesse presentarsi alle elezioni. Questo sì, ma mi sembra un elementare dovere di democrazia. Ma per chi voto non glielo dico, altrimenti lei prova a farmi parlare di Massimo D'Alema e di Pier Luigi Bersani... Le dico soltanto che io sono e resto un uomo di sinistra. Ma indipendente”.
Il rastrellamento segreto
Meglio tornare a parlare di azioni e di scalate. “Buono, poi, Della Valle. Mica conferisce i suoi titoli ai baschi del Banco di Bilbao, alla fine. Se li tiene stretti, per poi venderli a caro prezzo a Bnp Paribas, come fanno infine anche i baschi di Bbva”.
È stato scritto in questi giorni che Mps avrebbe comunque aiutato Consorte, rastrellando segretamente azioni Bnl. “Una balla. Monte Paschi non mi ha aiutato per niente. Anzi: se ha comprato azioni Bnl, lo ha fatto per danneggiarci, perché gli acquisti alzano il prezzo del titolo, rendendo così meno appetibile la nostra offerta, che era molto buona, di pagare nell'Opa 2,70 euro ad azione. Monte Paschi in quelle settimane ha fatto invece un'altra operazione, secondo quanto leggo sui giornali: ha speculato sul titolo Unipol senza pagare le tasse, tanto che ci sarebbe un'indagine fiscale in corso. Ma questo io non lo so, lo apprendo dalla stampa”.
La politica, in questa grande storia che incrocia partiti e banche, passioni e interessi, per Gianni Consorte resta sullo sfondo. “Io lo so lei dove vuole arrivare, ma io di queste cose non parlo. Glielo ripeto: resto un uomo di sinistra. Indipendente da tutti”.

il Fatto 3.2.13
Silenziatore all’inchiesta, il Colle sotto accusa
Dalla Lega a Grillo a Ingroia e Di Pietro
Niente censure ma i grandi partiti tacciono
A Siena almeno 10 indagati
di Stefano Feltri


Il presidente della Repubblica ha chiesto cautela nelle notizie relative alle indagini sul caso Monte Paschi perché è preoccupato che ne risenta Mario Draghi, presidente della Bce, in quanto ex governatore della Banca d’Italia. Ma il suo invito a evitare “cortocircuiti” tra giudici e giornalisti è stato letto come un invito a ridimensionare lo scandalo della banca toscana.
ROBERTO MARONI, il segretario della Lega Nord, si attira insulti e polemiche per una frase durante un comizio: “Non vorrei che ci fosse qualche cattivo pensiero di chi dice che, adesso, lo fa perché la vicenda Mps riguarda il Pd, il partito di cui lui ha fatto parte”. Ovvie e immediate repliche dai diretti interessati. Mentre Beppe Grillo, sotto la pioggia di Bologna, grida che “ il loro presidente della Repubblica dice che ci vuole la privacy, vuole mettere sotto silenzio questo sfascio. È incredibile”. Oscar Giannino, il giornalista candidato premier di Fermare il declino, contesta la “sordina” e suggerisce che in tanti sono preoccupati “che l'inchiesta di Siena riveli le segrete carte del primo partito della sinistra”. Antonio Ingroia, di Rivoluzione civile, non vede alcun corto circuito tra giornali e giustizia: “Il cortocircuito più grave è quello tra politica, banche e finanza”. Idem Antonio Di Pietro: “Ci auguriamo che nessuno ostacoli la libertà d’informazione”.
Campagna elettorale, ovviamente. Ma col passare dei giorni – e nonostante gli appelli di Napolitano – attorno al Monte Paschi si coagulano tensioni su tutti i livelli. Da Milano il Procuratore Edmondo Bruti Liberati lascia intendere di non aver gradito l’ingerenza della Procura di Trani che sta provando a inserirsi nelle indagini sulla banca senese, di cui già si occupa Siena e, in parte, Milano (ora pure Roma): “Ci sono uffici di procura ove sembra che la regola della competenza territoriale sia un optional: vi è stata al riguardo una gara tra diversi uffici, ma sembra che la new entry abbia acquistato una posizione di primato irraggiungibile”, dice Bruti Liberati. E tutti capiscono che ce l’ha con Mi-chele Ruggiero, il pm di Trani che indaga su Mps sulla base di un esposto dell’Adusbef, un’associazione di risparmiatori.
ANCHE LA PROCURA di Roma si è infilata nello scandalo senese. Ma ieri una delle ragioni per aprire un’indagine romana si è sgonfiata: il Tar, tribunale amministrativo, ha rigettato la richiesta dell’associazione di consumatori Codacons che voleva bloccare i Monti bond. Il Codacons se l’era presa con la Banca d’Italia, che ha dato il via libera al finanziamento straordinario da 3,9 miliardi fornito dal governo al Monte. Bankitalia chiede anche che il Codacons sia condannato per “lite temeraria”, cioè per aver agito in giudizio senza abbastanza elementi. Le uniche ragioni per avere un’inchiesta a Roma è che si indaghi su Bankitalia e Consob (entrambe hanno sede nella Capitale). Ma per ora così non è. E molti si attendono che tutto confluisca a Siena. I pm senesi, fedeli al monito quirinalizio, sono riservatissimi e non fanno trapelare nulla. Ma per la prossima settimana sono attesi i primi avvisi di garanzia: si parla di una decina di indagati per reati che vanno dall’ostacolo alla vigilanza alla truffa, fino all’associazione per delinquere. Sono attesi i primi interrogatori già da lunedì.
PER ORA NON ci sono politici coinvolti: i magistrati senesi si sono premurati di chiarire che le indagini riguardano soltanto il top management precedente. E quindi possono stare tranquilli sia gli attuali amministratori, il presidente Alessandro Profumo e l’amministratore delegato Fabrizio Viola, che l’autorità di vigilanza, cioè la Banca d’Italia. I politici invece hanno qualche ragione in più per essere inquieti. Il lungo interrogatorio di Gabriello Mancini, il presidente della Fondazione Monte Paschi che controlla la banca dimostra che i magistrati non si concentrano solo sul livello dell’istituto, ma pure sulla Fondazione, da sempre tramite tra attività bancaria e politi

l’Unità 3.2.13
Ingroia contro Vendola: «Usa il Pd come un taxi»
di Maria Zegarelli


L’ex pm di Parlermo attacca il centrosinistra sulla desistenza
Migliore (Sel): «La nostra alleanza suggellata da milioni di persone,
la sua soltanto da tre segretari di partito»

Ne ha per tutti, Pd, Sel, Monti e Grillo. L’ex pm Antonio Ingroia eroe solitario contro il resto della politica parla ai delusi di Sel e di M5S, elettori preziosi per scalare la vetta dell’8% necessaria al Senato, invitandoli ad entrare nel suo movimento. «Porte aperte a tutti» dice. A tutti meno che al Pd, «reo» di fare accordi sottobanco con Monti e aver proposto a Rivoluzione civile un patto di desistenza con tanto di senatori garantiti in lista al Senato. Porte che si aprono e si chiudono mentre volano stracci. «Bersani da una parte e Grillo dall’altra si sono mostrati mestieranti della politica perché chi guarda al bene del Paese cerca il dialogo e un’alternativa di governo», dice nel corso di un’iniziativa elettorale a Palermo. Chi si salva? «Apprezzo M5S ma sempre meno chi li guida. Grillo ha avuto paura del confronto e che una parte del suo elettorato transitasse da noi».
Altro nemico: Nichi Vendola che «sta usando la coalizione del centrosinistra come un taxi per superare lo sbarramento del 4%. Noi siamo più coraggiosi. Troppo comodo pensare di fare l’anima bella dopo». Come il Pd, d’altra parte. «Io ricordo spiega che la proposta diceva che noi dovevamo desistere, e un paio di senatori “mascherati” dovevano essere presentati nelle liste del Pd. Mascherati perché non si doveva riconoscere che erano nostri e Bersani poteva dimostrare a Monti che non aveva fatto accordi con noi». E qui è Maurizio Migliavacca, dal Nazareno, a rispondere a stretto giro di posta: «Io non ricordo di aver incontrato Ingroia. Credo di non averlo mai visto di persona. E non mi risultano trattative del mio partito con il suo Movimento, nessun mercato dei posti al Senato. Noi abbiamo lanciato un appello alla responsabilità, soprattutto in Lombardia dove la partita è apertissima. Ingroia non ha accolto l’appello e di questo risponderà agli elettori». Dunque una battaglia che si consuma soprattutto con il centrosinistra e con i grillini di sicuro Ingroia non può guardare a destra, dove è nota la incompatibilità con i magistrati in questa caccia al voto che vale l’approdo in Parlamento.
L’ATTACCO A SEL
Ma l’ex pm in aspettativa e in attesa di capire come andranno le elezioni prima di decidere se tornare in Guatemala è soprattutto a Sel che punta. Dopo la vicenda dei fuoriusciti dal partito del governatore pugliese (Alfonso Gianni, Carmine Fotia, Francesco Cantafia, Rosario Costaro e Saverio Cipriano) che se sono andati definendo quelle di Sel «primarie finte» e i candidati «un drappello di 23 persone calate dall’alto», lascia intendere che il bottino potrebbe essere molto più sostanzioso. «Questi fuoriusciti da Sel si vanno moltiplicando pronostica so che ce ne sono altri che stanno uscendo anche dal M5S di Grillo. Spero che siano sempre di più gli italiani che vogliono entrare in questa casa».
Una casa, la sua, nata «soltanto un mese fa, che ha porte aperte a chi vuole venire liberamente da noi». Quanto alle polemiche con il governatore «noi non facciamo lotte contro nessuno, è Vendola semmai che ci accusa di stalinismo». Il leader di Sel non gli dedica più di una battuta veloce: «Ingroia gioca la sua partita... gli auguro buona fortuna». Gennaro Migliore spende qualche parola in più: «Ci accusa di aver preso un taxi? La nostra è una coalizione suggellata da milioni di italiani che hanno partecipato alle primarie e con il loro voto hanno legittimato anche la Carta di Intenti del centrosinistra; la sua è una coalizione decisa con tre segretari di partito, Di Pietro, Ferrero e Diliberto. Una lista arcobaleno destinata a sciogliersi dopo le elezioni per le evidenti contraddizioni». Quanto al passaggio di alcuni esponenti di Sel a Rivoluzione civile, Migliore è tranchant: «Qualcuno di loro è la terza volta in sei mesi che annuncia di essersene andato. Preferisco non commentare».
Lasciata Palermo per raggiungere Napoli, Ingroia torna sui democratici: «Fino alle prossime elezioni la porta è certamente chiusa con il Pd. Dopo il voto se, finalmente, il Partito democratico dovesse capire che con Monti non si può fare un governo progressista e di centrosinistra, ma che si può solo con Rivoluzione civile, potremmo riaprirgli la porta che, per il momento, è chiusa». Fa un po’ come Antonio Di Pietro che ogni tanto ricorda al Pd di decidere da che parte stare: o con noi o con Monti. Come se dal Pd non avessero già risposto. A entrambi.

l’Unità 3.2.13
Nella storia della sinistra ci sono risorse oggi molto utili
di Marco Almagisti


SARÀ PROPRIO UN DESTINO INELUTTABILE PER LA SINISTRA ITALIANA DOVER RICORRERE A GARANZIE CENTRISTE PER ASSUMERE RESPONSABILITÀ DI GOVERNO? Basta uno sguardo all’Europa per avvertire l’esistenza di un problema: il declino di Sarkozy ha schiuso le porte dell’Eliseo al leader socialista francese Hollande. L’empasse dei conservatori inglesi ha corroborato l’avanzata elettorale dei laburisti di Milliband. Anche in Germania, le politiche rigoriste di Angela Merkel hanno dato nuova linfa all’iniziativa dei socialdemocratici. In Italia, invece, la crisi del berlusconismo è equiparata da molti osservatori «indipendenti» all’inaffidabilità di una sinistra ancora incerta riguardo al proprio profilo culturale. Si tratta solo di polemiche scontate da campagna elettorale oppure in esse si riflettono anche questioni da tempo irrisolte?
Per non limitarci ad interpretare con gli strumenti della cronaca politica quanto si presenta quale risultato di una lunga storia, dobbiamo fare riferimento ad alcune caratteristiche di lungo periodo della sinistra italiana. Mentre nel resto d’Europa la sinistra è stata guidata negli ultimi decenni da esponenti dichiaratamente riformisti, l’anomalia italiana nasceva ieri dall’egemonia esercitata dal Pci (anche attraverso il confronto con le componenti, minoritarie, dei cattolici democratici), ed è proseguita, in tempi recenti, con un’ampia rimozione della specificità storica della sinistra italiana ad opera di alcuni fra i suoi stessi dirigenti e intellettuali.
Chi ritiene che la storia della sinistra in Italia non sia affatto tutta da buttare ha osservato quanto il Pci abbia svolto un ruolo essenziale nell’avvicinare milioni di italiani alla politica e nel consolidare la democrazia italiana. Tuttavia, l’egemonia del più grande partito comunista dell’Occidente, nel contesto internazionale della Guerra Fredda, ha comportato un prezzo rilevante: la configurazione del sistema politico italiano quale «democrazia bloccata», in cui non si poteva realizzare l’alternanza al governo e, pertanto, la classe dirigente diventava inamovibile.
A differenza che in Francia, la sfida lanciata negli anni Settanta dai socialisti ai comunisti non ha comportato la modernizzazione del fronte progressista. La lotta per l’egemonia a sinistra si è conclusa con «morti» (il Psi) e «feriti» (il Pci, rallentato nell’assunzione esplicita di un profilo riformista), ma senza vincitori. Anzi, l’aspetto sorprendente è che per qualcuno «la lotta continua»: mentre ha perduto ormai di senso nella società, il conflitto fra socialisti e comunisti è avvertito ancora come attuale all’interno del ceto politico. Infatti, nel nome di un anacronistico anticomunismo, parte consistente del ceto politico del Psi di Craxi è diventato classe dirigente del centrodestra di Berlusconi.
É derivata anche da tali dinamiche l’eccessiva indeterminatezza ideologica della sinistra riformista italiana negli anni Ottanta e Novanta, che si é tradotta nella timidezza, quando non nella rinuncia, a difendere le ragioni e i meriti di un modello di società fondata sul Welfare, che ha garantito sviluppo e prosperità all’Europa per decenni. Per porre fine a tale inerzia il Pd di Bersani ha scelto quale guida della propria azione il richiamo ad un’Italia giusta, ossia la proposta di un modello di convivenza alternativo alla prospettiva neo-conservatrice dell’ultimo trentennio, orientata alla privatizzazione di ogni rischio sociale. Superando contrapposizioni arbitrarie e fuorvianti (nuovo/vecchio; politica/antipolitica; istituzioni/società) il segretario del Pd indica con chiarezza quale è la questione centrale oggi, in Italia e in Europa: l’adattamento del Welfare alle sfide globali e locali, invece del suo smantellamento. Tale richiamo «forte» ad una missione alta della politica e della sinistra può risultare decisivo nell’Italia di questi giorni, scossa e prostrata dalla crisi, e può aiutare a ricostruire quelle connessioni così necessarie fra partiti e cittadini.
Infatti, una concezione della storia della sinistra italiana incentrata solo sui conflitti interni al ceto politico rischia di far smarrire la complessità di vicende che non riguardano solo la classe politica. Non si può ricostruire la storia della sinistra italiana prescindendo dalle speranze e dalle passioni di milioni di persone che nel corso dei decenni hanno alimentato la partecipazione politica e sociale in modi tutt’altro che banali o conformisti, ossia che hanno sedimentato negli anni un «capitale sociale» che ha irrobustito la trama della nostra convivenza civile e costituito un valore aggiunto in grado di arricchire la stessa azione politica.
Recuperare la continuità di questa storia consente di valorizzare la dimensione locale nella quale la politica (interventista e inclusiva) delle forze di sinistra ha assicurato per decenni lo sviluppo economico ad intere regioni e dalla quale negli ultimi anni provengono nuove domande di efficienza e partecipazione e la cui rappresentanza non può essere lasciata al localismo populista. Soprattutto, radicare in questa storia il progetto riformista del Pd significa rivendicare un ruolo essenziale della sinistra nella storia dell’Italia repubblicana e indicare il riferimento a un’idea di società che da tale ruolo scaturisce.
Valorizzazione tale esperienza costituisce l’unica base solida dalla quale poter cominciare un dialogo con quelle forze moderate che si renderanno disponibili a interloquire per le riforme.

il Fatto 3.2.13
Carta d’identità
Destra e sinistra esistono nei fatti, non nelle parole
di Furio Colombo


Affronto un problema nello stesso tempo drammatico e banale: Destra e Sinistra ci sono ancora? Una premessa prima di rispondere. Quando dico “sinistra” non intendo marxismo, ma qualcosa che tenterò di definire di volta in volta, in prossimità della difesa del lavoro. Quando dico " destra" è chiaro che dovrò districarmi fra le tre destre italiane, quella di mercato (detta anche neoliberista) quella di potere (dunque neo o vetero fascista) e quella che si dedica a invocare tradizioni, valori, forze armate, famiglia "naturale", lotta all'aborto fatto uguale a omicidio. Per chiarezza userò di nuovo i paragrafi numerati.
UNO, TI DICONO che Destra e sinistra non significano più niente. Qui bisogna essere chiari. È vero se ci riferisce ad alcuni partiti che, sulla scena politica di oggi, si dichiarano di sinistra e vogliono continuamente "riformare il lavoro" (ovvero accettano il dettato di destra secondo cui il problema comincia dal lavoro e non dal vuoto di capacità dirigenziale). E se si accetta che si dicano " di destra" partiti come La Lega Nord, collezionista di privilegi, esenzioni, eccezioni e premi validi solo per la parte politica che il partito rappresenta, senza la minima nozione di mercato. Ma non è vero se si vuol far credere che qualcosa (vuoi la tecnologia, vuoi la globalizzazione), ha annullato ogni differenza sul modo di concepire vita e destino degli esseri umani, che dovrà d'ora in poi essere uguale per tutti. È un modo per dire, con definizione orwelliana, che ognuno deve stare dove sta, sotto, sopra o in mezzo, senza portare disordine con le sue pretese di progresso sociale, senza la petulanza di reclamare merito e premio per un suo presunto valore, se non appartiene al clan giusto.
DUE, SI FA AVANTI la pretesa del centro, come luogo mite di aggregazione che attrae e non respinge, rassicura e non attacca, pacifica e non divide, e, come ideologia, si affida al buon senso. Parole sante ma non vere. Il centro è poroso. E per una ragione che non staremo a spiegare, si imbeve rapidamente di "antichi valori tradizionali" che tendono a invadere ogni spazio di dibattito politico.
Tre, la miglior risposta alla fine di destra e sinistra e' un vasto e solido aggregato politico a cui sono state tagliate le ali e abbassati i toni. Dubito che sia un argomento in grado di dimostrare che la " vecchia" contrapposizione non c'è più. Dov'è il punto in cui una proposta di governo comincia ad essere estrema, e da dove viene la certificazione del pericolo? Se è oggettiva vuol dire che destra e sinistra sono li, intatte, a ingombrare la scena. Se è soggettiva, descrive la presenza rischiosa di un arbitro che e' anche governo. Ovvio che si tratta di un non senso.
Quattro, entrano allora in scena, come in uno strano circo, "conservatori" e "innovatori": Abbiamo di nuovo i due termini di una contrapposizione netta camuffata solo dalla denominazione. Esempio: difendere la Resistenza è " conservazione". E il ritorno del fascismo (ungherese o di Casa. Pound) è "innovazione". Ma, ma come si vede, si usano riferimenti temporali al prima e al dopo per cambiare o nascondere il senso e degli eventi, e questo è un inganno.
CINQUE, WELFARE e mercato. Il welfare è male perché spreca risorse, il mercato e' bene perché le impiega a buon fine. Il suggerimento e' di affidarsi al mercato, che è agile, snello e disinteressato (non si era detto che c’è una mano invisibile?) e diffidare del welfare, che si trascina una burocrazia sprecona e costosa. Eppure Il New Deal roosveltiano è stato un mondo capitalistico che ha funzionato benissimo (anzi ha resuscitato il Paese America da una crisi gravissima) con una forte cura di solidarismo sociale, di sostegno ai più deboli, persone e imprese. Il periodo di esaltazione del mercato e di premio ai più ricchi inaugurato da Ronald Reagan è stato un capitalismo che ha quasi abolito il Welfare e promesso miracoli che il mercato non poteva compiere e non ha compiuto. Inoltre, abolendo quasi ogni regola come atto di venerazione per il mercato e la sua infinita saggezza, ha provocato un disordine economico pericoloso per tutti. Ha portato alla grande crisi economica che stiamo ancora vivendo. Ma ha esaltato e non abolito la contrapposizione che, in termini tradizionali, possiamo ancora chiamare destra e sinistra. Sei. Più Stato o meno Stato? Anche questa domanda camuffa il vecchio argomento. Meno Stato significa ognuno per se e i poveri si arrangino. Infine: si puo' essere "oltre"? Si può essere "sopra"? Forse Dio. "Oltre" vorrebbe dire un nuovo ordine mondiale di cui non si ha notizia. "Sopra" significa sentirsi nella postazione napoleonica illustrata da David per dirci come un imperatore assisteva alle sue battaglie dalle colline. Ma poi quell'imperatore doveva vincere quelle battaglie e quando le perdeva, essendo parte (la parte vinta) pagava. Dunque era sopra la collina ma non sopra la mischia. Come si vede, la democrazia. si restringe se un uso arbitrario delle parole fa perdere il filo e copre i pezzi del gioco. Meglio riconoscere che l'ospedale senza tickets è di sinistra e che la medicina privata è di destra. Suona semplice, un po’ alla Celentano, ma racconta i fatti. E consente di decidere.

Corriere La Lettura 3.2.13
Destra / Sinistra



il Fatto 3.2.13
Sisma dell’Aquila
Casa dello Studente in omaggio alla Curia
di Ludovica Aristotile e Erina Mucciante


LA SAN CARLO BORROMEO EDIFICATA DOPO IL TERREMOTO SU TERRENI EX AGRICOLI DELLA DIOCESI ABRUZZESE È GESTITA DALLA CHIESA, CHE NE DIVERRÀ PROPRIETARIA

L’Aquila Elargizione o favoritismo? È questa la domanda che ruota intorno alla nuova casa dello studente San Carlo Borromeo de L’Aquila, donata dalla Regione Lombardia al capoluogo abruzzese in seguito al sisma del 6 aprile 2009 e che da allora è gestita dalla curia senza che il passaggio abbia richiesto gare d’appalto. La struttura è costata 7,5 milioni di euro di fondi FAS (fondi aree sottoutilizzate) della Regione Lombardia dei quali circa 497 mila euro sono stati offerti dall’Associazione Volontari Italiani del Sangue. I lavori sono iniziati nel giugno 2009 e terminati nel novembre dello stesso anno in vista dell’apertura dell’anno accademico 2009-2010.
IL TERRENO su cui è stata edificata la struttura è di proprietà dell’Arcidiocesi de L’Aquila: era un terreno agricolo perciò il comune de L’Aquila votò una mozione per renderlo edificabile. Infatti la mattina del 16 Giugno 2009 la Regione Lombardia, la Regione Abruzzo, la Provincia de L’Aquila, il Comune de L’Aquila, il Dipartimento della Protezione civile e l’Arcidiocesi Metropolita de L’Aquila firmano un Accordo di Programma in cui sottoscrivono che la gestione della residenza universitaria spetta alla Regione Abruzzo che l’amministrerà attraverso le sue articolazioni, l’ADSU (Azienda Regionale del Diritto allo Studio), essendo la San Carlo Borromeo un edificio pubblico. Poi, però, nel pomeriggio viene siglata una scrittura privata tra il presidente della Regione Abruzzo, Gianni Chiodi e l’arcivescovo metropolita de L’Aquila, Giuseppe Molinari che prevede il passaggio della gestione della San Carlo Borromeo dall’ADSU alla curia senza alcuna gara d’appalto.
IL SINDACO de L’Aquila, Massimo Cialente, rivela che fu il presidente Roberto Formigoni a chiedergli di affidare la gestione all’Arcidiocesi aquilana. La conferma arriva anche dal presidente della Regione Abruzzo, Gianni Chiodi che riferisce: “La donazione fu concordata tra Regione Lombardia e Comune de L’Aquila e dovettero per forza coinvolgere la Regione Abruzzo. La sera prima del consiglio comunale che doveva approvare la convenzione, mi chiamò il sindaco de L’Aquila Massimo Cialente e mi disse che una parte della sua maggioranza gli avrebbe creato problemi. Così mi chiese di fare due protocolli e non uno solo com’era stato inizialmente previsto. Io lo accontentai, considerata la penuria di alloggi all’epoca. Per quello che ricordo la curia deve seguire le procedure pubbliche nell’assegnazione delle residenze universitarie”. Infatti l’accordo aggiuntivo recita: “L’Arcidiocesi de L’Aquila si impegna a gestire detta residenza universitaria in conformità e nel rispetto delle norme, delle regole e delle tariffe vigenti, facendole proprie, così come stabilite dall’Azienda Regionale del Diritto allo Studio”. Ma per l’anno 2009-2010 la curia non fornisce un regolare bando pubblico per l’assegnazione dei 122 posti letto. Il direttore della S. Carlo Borromeo, don Luigi Maria Epicoco, attribuisce la mancata pubblicazione del bando all’azienda per il diritto allo studio, ma Francesco D’Ascanio, presidente ADSU smentisce: “Non abbiamo pubblicato il bando per la San Carlo Borromeo perché non ne abbiamo nessuna titolarità in quanto la gestione della San Carlo Borromeo è stata poi affidata alla curia”. Attualmente l’ADSU gestisce a L’Aquila una sola casa dello studente, ovvero la Caserma Campomizzi che in seguito al crollo della casa dello studente in via XX Settembre nel sisma del 6 Aprile 2009 è stata adibita a residenza universitaria e offre circa 400 posti letto. Per l’anno 2009-2010 la curia ha invece personalmente selezionato i ragazzi da inserire nella San Carlo Borromeo tramite le segnalazioni AVIS o le domande che arrivavano direttamente all’Arcidiocesi aquilana come riferito dal direttore della San Carlo Borromeo.
QUANDO LA VICENDA fu nota, si registrò la dura reazione dell’Udu, il sindacato studentesco che fece ricorso al Tar in quanto molti ragazzi ne restarono esclusi. Dopo numerose battaglie, però, come afferma Marco Taraborrelli dell’Udu, dovettero abbandonare il ricorso, per cui non ci fu mai una sentenza né a favore dell’Arcidiocesi né dell’Udu. Come se non bastasse, il 17 maggio 2010 la San Carlo Borromeo viene inserita nell’ACRU, Associazione di Collegi e Residenze Universitarie di ispirazione cristiana, che si impegna a trasmettere un’educazione cattolica agli studenti che ne fanno parte. Sorge quindi spontanea una domanda: Roberto Formigoni ha voluto realmente aiutare la città de L’Aquila o fare un favore alla Chiesa? Quel che è certo è che la curia ha già fatto un affare: si ritroverà fra 30 anni la proprietà della San Carlo Borromeo, un immobile del valore di 7,5 milioni di euro sorto su un terreno che non era edificabile e che adesso lo è diventato.

il Fatto 3.2.13
Il progettista Usa: F 35? è solo un bidone volante
A Presa diretta tre esperti bocciano l’aereo che acquisteremo
di Daniele Martini


L’F-35 è il peggior aereo che abbiamo mai costruito”. La sentenza lapidaria è di uno che di aerei da combattimento se ne intende: Pierre Sprey, il padre dell’americano F-16, uno dei jet più riusciti e usati. Sprey è stato intervistato da Riccardo Iacona e la sua testimonianza sarà trasmessa questa sera su Rai3 nel programma Presadiretta dedicato agli F-35, i jet che l’Italia vorrebbe comprare dalla Lockheed Martin spendendo la bellezza di 13 miliardi di euro e mettendo in conto di spenderne più del doppio e forse il triplo nell’arco di un ventennio, dal momento che quei jet sono dei succhia soldi per la manutenzione e la gestione. Assieme al progettista Sprey sono stati sentiti da Iacona altri personaggi autorevoli: Walter Pincus, giornalista del Washington Post, premio Pulitzer per gli articoli scritti sui temi della difesa e il primo ad indagare negli Usa sull’affare del cacciabombardiere F-35. E Winslow Wheeler, consigliere per la sicurezza di senatori americani sia democratici sia re-pubblicani, compreso John Mc-Cain, pilota in Vietnam e nel 2008 candidato alla presidenza contro Barack Obama. Dalle tre testimonianze emerge un giudizio unanime e duro: quell’aereo è un affarone per chi vende, cioè la Lockheed. Ma è un bidone per chi compra, Stati Uniti e Italia compresa, perché è nato storto e sta procedendo di male in peggio. Se l’Italia lo acquistasse farebbe un errore grave.
LE VALUTAZIONI raccolte da Iacona sono così crude da sorprendere lo stesso giornalista che con Il Fatto confronta l’approccio aperto e senza reticenze alla questione F-35 negli Stati Uniti con quello italiano. Qui domina l’autoreferenzialità dei vertici militari, la scarsità di informazioni alla stampa e la debolezza della politica, succube della logica distorta del fatto compiuto. Il capo del governo, Mario Monti, mentre tagliava a destra e manca non ha mosso un muscolo di fronte alla spesa stratosferica per gli F-35; il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, dice che bisogna rivedere il programma, ma “solo un po’” e Silvio Berlusconi, dopo aver spalancato le porte agli F-35, fiutato il vento ora rivela che “in cuor suo” era contrario (ieri Monti ha ricordato che l'Italia ha aderito al programma con il governo D’Alema e poi con Berlusconi).
Le interviste dei tre esperti americani affiancano il dossier ufficiale e altrettanto clamoroso del Dipartimento della Difesa (Pentagono).
Anche i tecnici del governo Usa hanno elencato i difetti del cacciabombardiere, a cominciare dal rischio che possa esplodere in volo se colpito da un fulmine, circostanza per niente remota per un aereo. Tempo fa il senatore McCain aveva definito l’F-35 “uno scandalo e una tragedia”, ora il suo consigliere accusa: “L’F-35 ha problemi tecnici che non si possono risolvere perché è un progetto sbagliato. Questo aereo non è buono per nessuna delle sue funzioni. In compenso costa una fortuna”. All’inizio la Lockheed aveva detto sarebbe costato solo 45 milioni di dollari ciascuno e siamo già a 200 milioni di dollari. “Se l’Italia lo comprasse adesso, la versione più semplice vi costerebbe questa cifra, quella a decollo verticale 20 o 30 milioni in più. E quando li avrete comprati non avrete finito di spendere perché questi aerei hanno un costo operativo pazzesco”. Secondo Wheeler la tecnica della Lockheed per piazzare gli F-35 è semplice e astuta: “Ha cominciato a produrre gli aerei prima di terminare i test... ti prendono all’amo prima ancora di dirti cosa stai comprando”.
IL GIORNALISTA Pincus si pone retoricamente la domanda: “A cosa serve l’F-35, cosa ce ne facciamo? ”. E la risposta è: “Non c’è nessuno, Cina, Russia, nessun paese che possieda un’arma minimamente comparabile con questo aereo, che ci possa minacciare”. Quindi non è indispensabile acquistarlo e se non lo è per gli Usa figuriamoci per l’Italia. Alla domanda quanto costa, anche Pincus non può fare a meno di arrendersi all’indeterminatezza che circola in tutto il mondo: “400 miliardi di dollari in 20 anni per 2000 esemplari, ma è una previsione ottimistica. Quanto costerà ogni F-35 non lo sa nessuno”. Il progettista Sprey spiega in dettaglio come nella versione per portaerei il gancio per l’atterraggio sia disegnato male e passi sopra il cavo di acciaio per la frenata o rischi di tranciarlo. Sarcastica la considerazione: “Stiamo parlando di uno degli aerei più sofisticati al mondo e non riusciamo a disegnare bene un gancio? ”. Secondo Sprey l’F-35 “balla molto per la pessima aerodinamica” e inoltre “ha restrizioni sulla velocità perché altrimenti si brucia la coda” e poi “l’impianto elettrico è pericoloso” e dal momento che “il carburante sta tutto intorno al motore... e in guerra è importante evitare che l’aereo possa esplodere solo perché da terra ti colpiscono con un kalashnikov... questo è l’aereo più infiammabile che abbiamo mai costruito”. Infine il “software è un disastro” e se “il visore del casco non funziona non puoi controllare l’aereo, perché non ci sono sistemi di navigazione nel cockpit”.

l’Unità 3.2.13
Spranghe, botte e insulti Raid razzista nel barese
A Triggiano tre giovani entrano in un centro d’accoglienza
Aggrediti tre nordafricani e un’operatrice
di Vincenzo Ricciarelli


BARI Insulti razzisti e botte: arrestati a Triggiano, nel barese, tre giovani accusati di aver aggredito tre extracomunitari e l'educatrice di un centro accoglienza. Si è trattato di una vera e propria spedizione punitiva presso un centro di accoglienza hanno aggredito con un cavo d'acciaio e una spranga in ferro tre nordafricani e un'educatrice e per questo sono finiti agli arresti domiciliari. Armati di un cavo d'acciaio e di una spranga in ferro i tre hanno fatto irruzione nel centro di accoglienza “Esedra” di via Capurso, a Triggiano. Lì si sono scagliati contro tre nordafricani ospiti della struttura e un'operatrice, picchiandoli selvaggiamente e insultandoli con epiteti razzisti. Subito dopo si sono dileguati ma le vittime hanno allertato i carabinieri e grazie alle loro indicazioni i militari sono riusciti a rintracciare subito dopo i responsabili dell'aggressione.
Ad arrestarli i carabinieri di Triggiano, gli aggressori tre giovani del luogo di 28, 27 e 22 anni. Le accuse: lesioni personali, violenza privata e discriminazione razziale. A far scattare l'allarme una telefonata al 112 che ha fatto convergere una gazzella presso una comunità di accoglienza per stranieri in via Capurso, dove un'educatrice e tre cittadini egiziani riferivano di essere stati poco prima picchiati selvaggiamente e insultati con epiteti a sfondo razziale da un gruppetto di giovani che si sono poi dileguati. I tre giovani rapidamente individuati sono stati sottoposti a perquisizione e sono stati trovati in possesso di un cavo lungo 3 metri e di una spranga.
Le vittime, come detto un'educatrice che opera nella struttura e tre cittadini egiziani richiedenti asilo, hanno raccontato ai militari che, per motivi non ancora chiariti, erano stati poco prima picchiati selvaggiamente e insultati con epiteti a sfondo razziale da un gruppetto di giovani, armati con un cavo d`acciaio e una spranga in ferro, poi fuggiti. Sono scattate le ricerche, sulla base delle descrizioni fisiche e degli indumenti indossati fatte dalle vittime, e i carabinieri hanno rintracciare i tre nella zona. Sottoposti a perquisizione sono stati trovati in possesso degli oggetti poi sequestrati. Arrestati, su disposizione della Procura della Repubblica di Bari, i tre giovani si trovano
agli arresti domiciliari. La cooperativa "Esedra" di Triggiano ha un ruolo simbolico, dal punto di vista dei temi civili e dell’immigrazione, in quanto rappresenta una realtà radicata e consolidata nel settore dei servizi sociali, che non limita la sua attività sul territorio della cittadina ma fa da riferimento anche per la città capoluogo e molti paesi della provincia di Bari. Già da diversi anni adotta la strategia di «fare sistema» con altre cooperative attraverso il "Consorzio Meridia", costituito da 25 strutture del settore. Per quanto riguarda i minori e le problematiche relative, oltre a quelle legate ai richiedenti asilo e all’immigrazione in generale, "Esedra" gestisce due comunità: una si trova a Triggiano, che nasce come prima attività della cooperativa e porta per l'appunto il nome "Esedra", per 9 minori; ed una a Noicattaro in zona Parchitello. Dal ' 92 ad si è passati da 6 a 50 operatori impegnati. Attualmente il totale degli operatori impegnati in tutte le strutture e i servizi è di 100 persone.

l’Unità 3.2.13
Roma
Fiamme al campo nomadi. Black out per 350 mila
di Felice Diotallevi


ROMA Venerdì sera un improvviso black out. I romani lo hanno subito, ma non capito. Ieri mattina una misteriosa interruzione di strada, presidiata dai vigili urbani, nei pressi del Ponte di ferro, che collega la zona Portuense all’Ostiense. Una nuvola di fumo che avvolge la parte inferiore del ponte dell’Industria spiega questi due eventi lontani nel tempo: sotto, i vigili del fuoco lavorano con le manichette per spegnere l'incendio che in pochi istanti ha divorato una baracca. Nessun ferito, ma le fiamme dirette verso il campo nomadi hanno raggiunto e bruciato una conduttura dell'Acea che conteneva i cavi elettrici collegati a quattro centraline: i «cervelli» che alimentano altrettanti quartieri investiti dalle 19.30 a mezzanotte da un black out. Così, all'improvviso, venerdì sera, moltissime abitazioni dell'Ostiense, Testaccio, Monteverde Vecchio e della zona di piazzale della Radio e viale Marconi, sono rimaste senza luce. Spenti anche i semafori di decine di incroci e il traffico è impazzito. Migliaia di automobilisti sono rimasti bloccati negli incolonnamenti che si sono formati in un attimo. Alcuni per precedenze non date e piccoli dispetti -, hanno perso le staffe arrivando alle mani.
«L'incidente spiegano dall'Acea ha riguardato centraline di media potenza che servono molte utenze in quel quadrante della città. I nostri tecnici sono intervenuti immediatamente per sostituire i cavi bruciati e ripristinare la fornitura di energia elettrica. Ma l'intera operazione ha richiesto tre ore prima che la situazione potesse tornare alla normalità». Ma i problemi più evidenti si sono avuti in strada, anche se con il passare delle ore la situazione è migliorata. Il ponte sul quale sono intervenute molte squadre di pompieri e dell'Acea insieme con le pattuglie della Municipale è invece rimasto chiuso al traffico fino a tarda sera per motivi di sicurezza. Le fiamme hanno infatti danneggiato la conduttura elettrica che si trova all'interno della costruzione e per questo motivo i vigili del fuoco hanno eseguito un lungo sopralluogo, sia per spegnere i focolai nascosti nella struttura sia per verificare che l'incendio non avesse causato problemi di stabilità.
Altre indagini dovranno ora stabilire cosa abbia invece provocato il rogo della baracca, abitata da alcuni senza tetto che frequentano le sponde del Tevere. L’ipotesi dolosa non è stata esclusa, anche perché in quel momento nella costruzione non c’era nessuno. E anche durante l'intervento dei vigili del fuoco non è stato visto fuggire nessuno. Nelle settimane scorse le forze dell'ordine hanno effettuato nella stessa zona alcuni interventi di bonifica del greto del Tevere dove si erano accampati immigrati stranieri, fra il lungotevere Dante e Magliana.
Quello di ieri è uno dei black out elettrici più lunghi che hanno interessato la Capitale negli ultimi tempi. E anche quello che ha colpito un territorio molto vasto, abitato da oltre 350 mila persone. Nel dicembre dello scorso anno ma allora durò «solo» un paio d'ore l'interruzione dell'energia elettrica interessò invece l'area del II Municipio, in particolare i Parioli: a causa di un improvviso sovraccarico delle linee, fu necessario togliere la corrente ad alcune centraline per ripristinare il servizio e impedire nuovi incidenti.

l’Unità 3.2.13
Ma siamo ancora un Paese civile?
risponde Luigi Cancrini


Due barboni bruciano in un sottopasso romano, eretici involontari. Arsi vivi dall'inquisizione dello spread, di quella economia rampante che li lascia fuori, banditi, rigettati. Quasi senza parole... un'onda che respinge le frasi assassine di chi dice ogni giorno che ci rubano il lavoro, che ci rubano lo spazio, che ci rubano il tempo. E gli ultimi si carbonizzano, muoiono, con loro brucia la nostra umanità.
Paolo Izzo

Viviamo, così dicono, in un Paese civile. Il Paese in cui per un intero anno si è vissuto in funzione dello spread, tuttavia, è anche il Paese in cui 70.000 persone vivono da barboni. Senza assistenza e senza protezione. Il Paese in cui, negli altri Paesi «civili» non è così, la povertà aumenta e i fondi per l'assistenza sociale diminuiscono. Un Paese in cui il Chaplin de «Il Monello» non troverebbe un letto per dormire in un asilo pubblico perché quei letti sono sempre di meno e perché quelli che ne hanno bisogno sono sempre di più. Bisogna prenotarsi, come per le suites dei grandi alberghi dove hanno accesso i ricchi. I bilanci dei Comuni, unici titolari di responsabilità nel campo dell'assistenza sociale, sono sempre più incerti, le Asl hanno ricevuto ordini dalle regioni di non spendere per alcolisti e tossicodipendenti che chiedono di entrare in Comunità Terapeutica perché per loro bastano, nel nome della spending review, il carcere o la strada, la strada o il carcere. C'è, dicono, il volontariato ma il volontariato che dovrebbe fare? Il nostro, mi dico, non è un Paese civile, anche se forse è possibile, con un governo nuovo, che si ponga almeno il problema di ridiventarlo.

il Fatto 3.2.13
Storie di rom e di vigili
risponde Furio Colombo


CARO COLOMBO, ho appena ascoltato alla radio questa notizia: “Polizia, carabinieri, Guardia di finanza e vigili urbani circondano un campo nomadi con l’assistenza di un elicottero che sorvola il campo per tutta la notte, e lo rivoltano da cima a fondo in cerca di droga, refurtiva, danaro, e persone da arrestare”. La notizia finisce così: “L’operazione è finita all’alba, non è stata trovata refurtiva o droghe e non vi è stato alcun arresto”. Vuol dire che li hanno tenuti tutti svegli quella notte, compresi i bambini, per dimostrare che il nostro civile Paese con i rom non scherza. Ti piace?
Enrica

NON MI PIACE, ma noto una traccia di civiltà: non hanno trovato nulla e non hanno fatto finta di avere trovato qualcosa o di avere arrestato qualcuno. Resta il fatto che, dai tempi in cui uno della Lega secessionista faceva finta di essere il ministro dell’Interno del Paese da cui si voleva separare, le “visite” ai campi nomadi sembrano sempre missioni di guerra da svolgere di notte, in tenuta da scontro, senza alcun riguardo al fatto che il presunto pericolo viene da comunità composte per metà di donne e per metà di bambini. Ma c’è anche un’altra Italia e ci sono altri italiani. Per esempio Gianpietro G., il vigile urbano milanese che ha rifiutato di sgomberare un piccolo appartamento di una casa popolare, abitato da una mamma rom con tre bambini piccoli, nonostante gli ordini ricevuti. Il caso, che agenzie giornalistiche hanno reso pubblico senza rivelare il nome completo dell'agente, è reso interessante e anche esemplare per due fatti. Il primo è che il Comando ha prontamente punito il vigile Gianpietro (e bisognerebbe sapere se si tratta di una punizione che ha conseguenze per il futuro professionale del vigile). Ma il secondo fatto è che i colleghi del Sindacato Asia/Usb lo hanno premiato. Sentite la motivazione: “Siamo fieri di avere tra i nostri iscritti molti vigili come Gianpietro, belle persone dotate di grande umanità che sanno decidere quando un ordine è ingiusto. Tenere oltre cinquemila case del patrimonio pubblico sfitte e, contemporaneamente, sbattere le famiglie in strada è immorale, specialmente per una città come Milano, che si definisce civile ed europea. Ci auguriamo che non resti un esempio isolato e che questo senso umanitario si diffonda tra i colleghi della Polizia locale”. Anche noi ce lo auguriamo. L’obiezione di coscienza, non per negare diritti ma per garantire diritti, potrebbe essere una straordinario gesto nonviolento di civiltà. Grazie al vigile Gianpietro e grazie alla giornalista del Fatto Reguitti che ha diffuso la notizia

l’Unità 3.2.13
ROMA
600 firme per salvare il cinema America


Tante firme, quasi 600 per l'appello lanciato dagli architetti e firmato anche da molti cittadini, per salvare il Cinema America di Trastevere a Roma, progettato da Angelo Di Castro a metà anni '50, che rischia di essere abbattuto per lasciare spazio a venti miniappartamenti e due piani di garage sotterraneo. Fra i promotori i professori universitari Alessandra Muntoni e Giorgio Muratore; l'urbanista Paolo Berdini e l'architetto e designer Maria Rita Intrieri. L’idea dell’appello nasce dalla mostra «Prossima fermata: Cinema America», organizzata nei locali della sala cinematografica dai ragazzi dall’Assemblea Giovani al Centro (che dallo scorso novembre hanno occupato lo stabile), e intende contrastare con decisione il destino che sembrerebbe dover attendere l’America: quello dell’abbattimento, per lasciar spazio a una moderna palazzina che la società proprietaria, la «Progetto Uno Srl», ha già provato a realizzare nel 2006, fermata in quell’occasione da un Comitato di cittadini del Quartiere che si formò per l’occasione. «Chiediamo che l'iter progettuale – si legge nell’appello – venga fermato e che si promuova un'azione di riqualificazione di uno dei pochi spazi culturali e aggregativi nel centro di Roma».

l’Unità 3.2.13
Piazza Tahrir, cronaca di stupri quotidiani
«Il regime ha usato per anni la violenza sessuale come arma sociale»
Durante le manifestazioni, molte donne aggredite, denudate e violentate
Almeno 25 vittime nell’ultimo anno
Gli attivisti hanno creato gruppi di difesa e assistenza medica e legale
di Umberto De Giovannangeli


L’altra faccia di Piazza Tahrir. Quella sporca, impresentabile. La faccia della violenza contro le donne. Venerdì scorso, durante una manifestazione, una donna è stata aggredita e ferita ai genitali con un’arma da taglio. Non è stata l’unica a essere attaccata in questo modo. Altre donne sono state umiliate, denudate e stuprate, in mezzo alla gente. Branchi di uomini, raccontano gli attivisti dell’Operazione antimolestie sessuali, si divertivano a circondare le donne, a palpeggiarle e a penetrarle con le dita. Secondo un’altra organizzazione, Tahrir Bodyguard, le aggressioni sono state almeno 25. Almeno sei manifestanti hanno dovuto ricevere cure mediche. È possibile che si tratti di balordi pagati per infiltrarsi nelle manifestazioni e attaccare le donne, tanto le egiziane quanto le straniere, meglio se giornaliste: in quel caso, farà più scalpore. Certo, sono tanti e succede con regolarità. Riflette Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International in Italia: «Che si tratti di provocazioni o che vi sia nella società egiziana, e dunque anche nel movimento rivoluzionario, una componente profondamente misogina, alimentata dalla totale impunità di cui godono gli aggressori, anche quando sono pubblici ufficiali, il risultato è quello di allontanare le donne dalle piazze e, più in generale, dalla possibilità di prendere parte alle decisioni sul futuro dell’Egitto. Non credo che il principale obiettivo del presidente Morsi e dei Fratelli mussulmani sia garantire la loro incolumità».
SENZA PAURA
Contro tutto questo, le attiviste continuano a tenere alta la testa, a organizzarsi e a denunciare, come fa il movimento Nazda. Perché, scrive una sopravvissuta alla violenza sessuale a Tahrir, quando una donna viene aggredita, viene aggredito tutto il Paese. La dinamica è sempre la stessa: un gruppo di uomini circonda una donna e comincia a spogliarla e a palpeggiarla. La donna aggredita è poi abbandonata nuda per strada. Nei casi più gravi ha subìto uno stupro o è stata ferita con armi da taglio.
Per combattere questa pratica gli attivisti si sono organizzati in gruppi per fornire alle vittime assistenza medica, legale e psicologica. Uno di questi è l’Operation anti-sexual harassment, che il 25 gennaio ha registrato diciannove casi di violenze in cui le donne erano state spogliate e violentate in pubblico. «È stata una delle peggiori giornate di cui siamo testimoni», ha detto al Guardian Leil-Zahra Mortada, portavoce dell’organizzazione. «Tra gli attivisti ci sono donne che in passato hanno subìto violenze. Pur conoscendo il pericolo a cui vanno incontro, si mettono lo stesso a disposizione», scrive Tom Dale del sito Egypt Independent, che ha assistito personalmente a un attacco durante le manifestazioni di venerdì. «Stavo camminando in un’area della piazza dove di solito viene posizionato il palco e, trenta metri più avanti, ho visto formarsi un crocicchio di persone con al centro una donna che urlava. Ho cercato di avvicinarmi. Quando l’ho vista era completamente nuda e terrorizzata. Era difficile avvicinarsi perché molti di quelli che dicevano di volerla aiutare erano in realtà i suoi aggressori», racconta il giornalista.
Il racconto di Dale è simile a quello che una vittima ha scritto per il sito del gruppo femminista Nazra ed esperienze simili sono state raccolte su Twitter da @TahrirBodyguard, un’altra organizzazione in difesa delle donne. «Mi vergogno per l’Egitto, il Paese in cui vivo da ormai dieci anni», scrive Ursula Lindsey sul blog The Arabist. «Questi atti dobbiamo chiamarli per quello che sono: stupri di gruppo. Non corrispondono alla mia esperienza dell’Egitto, dove le continue molestie e la misoginia sono sempre state bilanciate da una sensazione generale di sicurezza».
Drammatica è il resoconto di uno stupro di gruppo pubblicato sul sito www. Nazra.it dalla donna che ne è stata vittima, nel novembre 2012. La donna racconta di essere scesa in piazza per protestare e di aver perso di vista l’amica a causa dei lacrimogeni sparati dalla polizia. Più tardi, quando gli effetti del gas si erano consumati, la donna ha intravisto l’amica circondata da centinaia di uomini che la spogliavano e assalivano. Dopo aver provato, invano, ad aiutarla, è stata spinta a terra divenendo lei stessa oggetto dell’attenzione dei violentatori che, dopo averla separata a forza dagli amici, l’hanno portata in una strada appartata e denudata. Quando è riuscita a scappare e rifugiarsi nell’androne di un palazzo, il portiere si è rifiutato di lasciarla entrare e così è stata raggiunta di nuovo. A quel punto ha sentito qualcuno in mezzo ad un gruppo di giovani dire: «La prendiamo e poi uno alla volta, ragazzi...». Dopo essere sfuggita di nuovo ed esserle stata rifiutata la protezione sia in un caffè che in un negozio di elettrodomestici, la donna è stata «salvata» da uno dei suoi violentatori che ha deciso di farle da scudo e portarla finalmente all’ospedale. «Quando ho sentito storie come la mia ripetersi nelle ultime manifestazioni ho deciso di parlare», scrive la donna. «Il regime ha usato per anni la violenza sessuale contro le donne come arma. È una piaga sociale, non solo politica».
Nihal Zaad Zaghloul ha 26 anni e ha subito molestie da parte di un gruppo di uomini in piazza Tahrir. «Toccavano ogni centimetro del mio corpo... sentivo decine di mani sul mio seno e nelle mie parti intime racconta -. Anche dopo essermi allontanata e aver trovato rifugio dietro una catena umana di persone unitesi per difenderci, era il caos totale. C’erano ancora uomini che cercavano di toccarmi. Ero terrorizzata non riuscivo a vedere i miei amici, non potevo uscire. Ero bloccata...». Non è chiaro chi siano i responsabili delle violenze sessuali, ma secondo Operation anti-sexual harassment, sono commesse da chi si oppone alle proteste. «Si tratta di attacchi organizzati perché capitano sempre negli stessi angoli di piazza Tahrir e seguono lo stesso schema», sostiene Mortada. Secondo un rapporto del 2008 redatto dall’Egyptian centre for women’s rights, l’83 per cento delle egiziane ha subìto molestie sessuali. Il problema è reso più grave dal fatto che i colpevoli raramente sono puniti. «Non possiamo più accettare che succeda», dichiara un esponente di Tahrir Bodyguard, secondo cui gli attacchi derivano da una cultura maschilista dominante: «Dobbiamo affrontare il problema non solo al Cairo, ma in tutto l’Egitto».

l’Unità 3.2.13
Parigi dice il primo sì ai matrimoni tra gay
Con 249 voti a favore e 97 contrari approvato il primo articolo del ddl
Permetterà agli omosessuali di sposarsi e adottare bambini
Scontata l’approvazione finale. Protestano centrodestra e mondo religioso
di Marco Mongiello


La vittoria più importante nella lunga battaglia per i matrimoni gay è stata salutata da un lungo applauso dei deputati della sinistra francese e dalle voci che scandivano a ritmo «Egalité! Egalité!». Ieri mattina a Parigi l’Assemblea nazionale ha adottato con 249 voti a favore e 97 contrari il primo articolo del controverso disegno di legge che rende possibile il matrimonio e le adozioni per gli omosessuali. «Un voto storico», hanno commentato alcuni.
Prima di arrivare all’approvazione di tutto il testo il dibattito parlamentare, iniziato la settimana scorsa, andrà avanti ancora un’altra decina di giorni, ma ormai il successo è dato per scontato. Ieri è passato l’articolo più importante, quello che afferma che «il matrimonio è contratto tra due persone di sesso differente o dello stesso sesso». Fuori dall’aula il presidente dell’Assemblea, il socialista Claude Bartolone, ha offerto un mazzo di fiori al ministro della Giustizia, Christiane Taubira, che proprio ieri ha compiuto 61 anni.
UN LUNGO PERCORSO
È stata la combattiva politica della Guyana francese a mettere a punto il progetto di legge «matrimonio per tutti» e a sfidare per mesi le critiche, gli insulti e le manifestazioni della destra. «Siamo onorati e fieri di aver superato questa prima tappa – ha dichiarato noi affermeremo la libertà per tutti di poter scegliere il proprio partner con cui costruire un avvenire comune. Non c'è alcuna ragione per cui lo Stato non debba garantire i diritti del matrimonio».
Per il presidente socialista Francois Hollande la votazione di ieri è un altro passo verso la realizzazione della promessa fatta in campagna elettorale.
In Francia le unioni tra omosessuali sono riconosciute dal 1999 attraverso i cosiddetti Pacs (Pacte civile de solidarité), che però sono ben lontani da garantire gli stessi diritti del matrimonio e non permettono le adozioni.
Il 7 novembre quindi il ministro Taubira ha presentato il progetto di legge «matrimonio per tutti», che ha scatenato le proteste del mondo cattolico. L’arcivescovo di Parigi e presidente della Conferenza episcopale francese, il cardinale André Vingt-Trois l’ha definito «un attentato alla famiglia». Dopo un primo momento di esitazione la destra dell’Ump, il partito dell’ex presidente Francois Sarkozy, ha deciso di cavalcare il movimento contrario ai matrimoni omosessuali e ha partecipato alle manifestazioni del 17 novembre e del 13 gennaio, ritrovandosi in piazza insieme agli estremisti di destra e agli integralisti cattolici. Il 27 gennaio la sinistra ha risposto con una manifestazione a Parigi a sostengo del disegno di legge. Poi, quando il 29 gennaio è iniziato il dibattito parlamentare, la battaglia si è trasferita nell’Assemblea nazionale.
La destra ha scelto la via dell’ostruzionismo e ha presentato circa 5000 emendamenti. La sinistra ha tagliato gli interventi dei suoi deputati per accelerare il dibattito, durato fino a tarda sera. «La maggioranza ha fatto un lavoro straordinario», ha commentato il ministro della Giustizia.
Quando il testo sarà approvato definitivamente, forse il 12 febbraio, la Francia si aggiungerà agli altri sei Paesi europei in cui il matrimonio tra omosessuali è già legge: Belgio, Olanda, Svezia, Danimarca, Spagna e Portogallo. Sono 8 invece i Paesi che permettono le adozioni, mentre le unioni civili esistono in altri 10 Stati membri.
REAZIONI IN ITALIA
«E una conquista di civiltà per tutta l’Europa», ha commentato Anna Paola Concia, deputata e candidata al Senato per il Partito Democratico e ad oggi l’unico personaggio politico donna ad aver dichiarato la propria omosessualità. «L’avanzamento dei diritti e la piena uguaglianza giuridica è oramai evidentemente una strada obbligata per tutti i Paesi europei», ha aggiunto, «chi oggi si scaglia contro i diritti delle coppie omosessuali deve quindi sapere che sta facendo una battaglia antistorica, anti-moderna ed anti-europea». Se Pier Luigi Bersani sarà premier, ha detto la deputata Pd, «farà una legge di stampo europeo per dare gli stessi doveri e gli stessi diritti alle coppie omosessuali».
Il voto francese è stato definito «una battaglia di civiltà per la piena uguaglianza dei diritti» dal leader di Sel, Nichi Vendola, e «un insulto all’umanità» dal presidente della Commissione Cei per il laicato, il vescovo Domenico Sigalini.
Da parte sua, il leader dell’Udc Pierferdinando Casini ha ribadito la sua contrarietà a qualsiasi riconoscimento delle unioni tra omosessuali. Per non creare imbarazzi oggi il suo alleato e premier Mario Monti dovrà evitare accuratamente di sollevare la questione nell’incontro a Parigi proprio con il presidente francese Hollande.

Repubblica 3.2.13
Nel bunker prigioniero di uno psicopatico il dramma di Ethan tiene in ansia l’America
Il bimbo malato di autismo ostaggio da sei giorni di un reduce del Vietnam
di Vittorio Zucconi


WASHINGTON ANCORA non sappiamo come andrà finire la parabola nera di Ethan, il bambino rapito da un reduce del Vietnam di 65 anni e segregato con lui nel rifugio blindato due metri sotto la terra rossiccia e polverosa dell’Alabama che il vecchio si era pazientemente costruito. Non lo sappiamo perché anche nel corposo catalogo della condizione umana, tra massacri e sette fanatiche, un caso come questo di Midland City, profondissimo sud del sud americano, non ha letteratura precedente. E dunque qualunque finale, qualsiasi «ending» dal più lieto al più impronunciabile, è possibile.
La figura del sequestratore è invece tutt’altro che inedita. Come lui, migliaia. Veterano della US Navy nella guerra d’Indocina, piccolo per la media americana ad appena un metro e 70, magro al punto di essere emaciato dietro una barba grigia, irsuta e lunga da Abate Faria, Jimmy Lee Dykes — Lee, come il nome del rimpianto generalissimo Sudista ribelle — è qualcuno che potreste incontrare ovunque nella nazione continente. È un «survivalist», un uomo solo contro tutti, ruzzolato dalla bella uniforme della marina militare lungo il piano inclinato della paranoia e del fallimento fino a questo non luogo dell’Alabama a vivere con la propria pensione di sottufficiale della Navy e con i mostri che si inseguono nella sua mente.
È un «conspiracy nut», uno che vede ovunque complotti orditi da agenzia di spionaggio, sette, massonerie di illuminati, cricche planetarie cosmopolite, immigrati, polizie, satelliti occhiuti, e naturalmente «negri» che quotidianamente erodono la sua libertà e il suo diritto alla felicità. Rotolato fino all’Alabama, ultimo ridotto dell’anti-Stato visto come tirannide del Nord contro i ribelli del Sud, si era comperato uno straccio di terra inutile che nessuno voleva, per 500 dollari. Ci aveva piazzato la roulotte nella quale viveva sopra la terra e per mesi aveva scavato e fortificato un loculo rinforzato di tre metri per due, le dimensioni di una cella, due metri nella terra.
A chi osava avvicinarlo spiegava che era un rifugio anti-tornado, evento meteo frequente in quelle terre, che avrebbe sbriciolato il suo camper. Lo aveva imbottito di scatolame, cibi secchi, galloni di acqua, per sopravvivere almeno un mese. Lo aveva collegato alla rete elettrica per alimentare un televisore, necessario per tenere d’occhio le trame del mondo esterno. Era proibito avvicinarsi e il cane di un vicino, che aveva osato avventurarsi nel pezzetto di strada sterrata che porta al suo sepolcro per viventi, era stato ucciso a colpi di tubatura di piombo da idraulico.
Naturalmente, da buon «survivalist » aveva anche armi, complemento indispensabile al kit della paranoia complottista. Lo aveva imbracciato lunedì scorso. Con quello era salito sullo scuolabus giallo alla fermata. Aveva ucciso il conducente che aveva tentato di spingerlo via. Aveva fatto scendere tutti i passeggeri, bambini del kindergarten come Ethan fino agli scolari di quinta e poi, quando si era reso conto che trenta bambini non sarebbero stati controllabili né contenibili in due metri per tre, li aveva lasciati andare.
Tutti, meno Ethan. Lui non poteva saperlo, a Ethan soffre di autismo, forse la sindrome più crudele per quello che lo avrebbe aspettato nella tomba bunker.
Da allora, attorno al nulla, e al tubo di plastica che funziona da presa d’aria e da comunicazione con il sottosuolo, la terra rossa e povera attorno alla roulotte di Jimmy Lee è un accampamento militare. Ci sono almeno dieci auto della polizia locale, di Stato e dello Fbi, perché il rapimento è un reato federale. Tre elicotteri della Guardia Nazionale fanno a turno ad alzarsi e sollevare polverone, non servendo a nulla, altro che a fare la gioia degli show tv e dei telegiornali. Quaranta uomini e donne SWAT, della forze speciali delle polizie, sono appostati, in tenuta da combattimento e fucili da cecchini attorno al campo.
Arrivano i turisti dell’orrido, che si mescolano ai 2.300 abitanti di Midland per pregare, attaccare invocazioni con le puntine da disegno alle porte, farsi intervistare da inviati e inviate senza avere niente da dire. Per riempire le ore e le antenne.
Non si capisce che cosa voglia, lo sciagurato Abate Faria nella sua solitudine intombata. Non fa richieste. Sa di essere nei guai più profondi, perché è un omicida e un sequestratore, dunque responsabile di due massimi reati che in Alabama significano siringa mortale. Pare che l’assalto al bus e il rapimento di Ethan siano stati scatenati da una convocazione in tribunale per rispondere delle minacce ai vicini, dell’uccisione del cane e di un comportamento antisociale che aveva agitato i paesani. E che lui temesse, o sapesse, che un’indagine più approfondita avrebbe riesumato altri scheletri dal suo passato.
Ethan, dicono sindaco, sceriffo, psicologi, psichiatri, medici paracadutati dalle network attorno a questo che a noi ricorda, in circostanze molto diverse, il dramma lancinante di Vermicino, sta bene. Riceve medicinali attraverso il tubo. Si sente che là sotto la tv funziona ed è quasi sempre sintonizzata sul canale Discovery e sulla rete pubblica PBS soltanto quando trasmette programmi per giovanissimi al mattino. La voce che ripete incessantemente «I want my mommy», voglio la mia mamma, come farebbe qualsiasi bambino di 5 anni autistico o no, è ancora forte, vivace, sana. Non si negozia, non si dialoga. Non si progettano irruzioni, perché il passaggio è troppo stretto. Iniettare gas soporiferi attraverso il tubo è troppo rischioso: la dose che servirebbe per tramortite il vecchio potrebbe uccidere il bambino. Si aspetta, si prega molto, perché questa è «Jesus Country », la terra dei supercristiani. Ogni auto porta sul paraurti «l’Ichthys», il profilo del pesce simbolo della cristianità e gli adesivi con la certezza che «Jesus Saves», Gesù ti Salva. Ci vorrebbe, infatti, un miracolo. Ethan vieni fuori.

l’Unità 3.2.13
L’invisibile «Quaderno»
Franco Lo Piparo rilancia la caccia con un altro saggio
Una spy story senza corpo del reato e basata su indizi estremamente fragili. Perché la tesi di un taccuino rubato è altamente inverosimile
di Bruno Gravagnuolo


PIÙ CHE UNA SPY STORY È UN NOIR MA SENZA CORPO DEL REATO Almeno al momento, e dove la vittima sarebbe il «vero Gramsci» occultato da Togliatti e Sraffa in limine mortis e subito dopo la scomparsa a Roma il 27 aprile 1937. Insomma Franco Lo Piparo rilancia. E dopo il suo I due carceri di Gramsci. La prigione fascista e il labirinto comunista (Donzelli 2012) dà alle stampe un nuovo saggio, «instant» e in simultanea con le indagini della Commissione che al Gramsci sta vagliando l’ipotesi di un «quaderno gramsciano rubato». Che è poi la materia del contendere, al centro sia de I due carceri che dell’odierno remake L’enigma del quaderno (Donzelli, pp.128, Euro 18).
Ecco la tesi di Lo Piparo, linguista e studioso di Gramsci: Gramsci abbandonò il comunismo, sia quello ideale che quello più concreto e tragico del 900. Per approdare a liberalismo e socialdemocrazia. E lo fece via via. Coltivando prima il sospetto di esser stato catturato da un «abbaglio» e condannato da un tribunale ben più ampio di quello fascista. Poi la certezza che le sue idee erano incompatibili con quelle leniniste e comuniste, per non dire di quelle staliniane. Infine elaborando una sorta di abiura condensata in un quaderno scomparso ma esistente, dal prigioniero stesso vergato, e che sarebbe «comprovato» e rivelato da vari indizi, sorretti da altrettanti argomenti.
Ma vediamo i punti principali. Il primo per Lo Piparo è questo: i Quaderni del Carcere sono trenta e non ventinove, come risulta dalle varie edizioni. E qualcuno appunto avrebbe sottratto un taccuino, ritenendolo esplosivo e dirompente: una sorta di abiura o distacco dal mondo ideale stesso di Gramsci. Ma perché trenta e non ventinove? Perché argomenta Lo Piparo il numero che compare più volte è trenta. E non ventinove. Compare quando le sorelle Schucht rivendicanti contro Togliatti il possesso dei Quaderni dichiarano nel 1941 a Mosca di possedere «trenta pezzi» o «una trentina in tutto» di fascicoli, a seconda della traduzione dal russo (la prima è di Lo Piparo, la seconda di Rossana Platone). E poi: fu Togliatti stesso a dire al Teatro San Carlo a Napoli il 29 Aprile 1945 di avere in mano 34 quaderni, di cui mostrò un esemplare. Infine, argomento filologico principe di lo Piparo, dai 34 mancherebbe un 32, stante il salto nella numerazione romana ad opera di Tatiana Schucht dal XXXI al XXXIII. E stante pure il ritrovamento sotto l’etichetatura del quaderno XXIX di una precedente etichettatura avente la sigla XXXII. E proprio su questo sta lavorando la famosa Commissione insediata al Gramsci, con dentro Lo Piparo, Canfora, Frosini, Cospito, Francioni e Vacca, massimi studiosi gramsciani.
Che ha demandato, al’Istituto italiano del Restauro una perizia grafica per decifare e attribuire la «mano» delle etichette: solo di Tatiana o anche di qualcun altro? E tuttavia, in attesa della risposta peritale sul punto specifico, alcuni dati appaiono assodati. E cioè, i Quaderni in tutto erano a rigore 33: 29 teorici e quattro di traduzioni. Più due quaderni vuoti e inutilizzati dal prigioniero: il 17 bis e 17 ter. E fanno così 35. Ma ad essi va aggiunto il registro-indice delle note dei manoscritti avviato dalla Schucht, subito dopo la morte di Gramsci e che resta incompleto. Dunque materialmente si trattava, e si tratta, di 36 «pezzi», che possono diventare trenta se si considerano solo i taccuini teorici e il registro. Oppure 34, se si sommano i pezzi teorici al registro. Nel primo caso dunque le sorelle Schucht potevano parlare di trenta, mentre nel caso di Togliatti viene fuori il numero 34. Dov’è il mistero, visto che in entrambi i casi una risposta comunque c’è? Quanto alle etichette Gianni Francioni massimo filologo gramsciano e responsabile della nuova edizione critica nazionale ha già spiegato su l’Unità del 27 febbraio 2012 che gli sbalzi di numerazione sono dovuti agli errori materiali di Tatiana. Che apponeva avanti e sul retro numerazioni non congruenti e non coincidenti. Avanti in lettere romane, e dietro in cifre arabe, sbagliando e rietichettando di continuo. In altri termini, quando mancano gli ultimi cinque quaderni da etichettare, Tatiana commette degli errori di calcolo. Cosicché da XXVIII in poi, rubricato giustamente, il XXIX rivela esser stato etichettato prima dal numero XXXII, e poi ricoperto. Anche il XXX presenta un’etichetta strappata prima da Tatiana e così il XXXI. Mentre il XXXIII ha accanto un 10 arabo e la dizione «la filosofia di Benedetto Croce», vergata da Gramsci. Infine nel XXXIV, sul retro c’è un 34 arabo e un 4 in rosso (come sempre due diverse etichettature: avanti e sul retro). Insomma le discrasie derivano da pasticci fatti da Tatiana, nella fretta di classificare e ordinare i manoscritti.
Prima di affidarli all’ambasciata sovietica, il 7 luglio 1937, e da dove i testi nel dicembre partiranno per di Mosca. Ma prima ancora c’è un’incontro tra Tatiana e Sraffa a Roma, di cui la prima riferisce alla sorella Giulia il 5 luglio. Tania racconta di aver mostrato a Sraffa tre quaderni, per mostrargli come sta lavorando a riordinarli. E da ciò Lo Piparo trae la conseguenza che Sraffa avrebbe tenuto per sé due taccuini, inoltrandoli a Mosca e tenendone un terzo per sé (nascosto nello scrigno segreto di Togliatti!).
La prova? Starebbe in un’altra lettera. Dove Tania scrive sempre il 7 luglio a Sraffa: «Ieri ho consegnato i quaderni (tutti quanti) e anche il catalogo che avevo iniziato». E quel «tutti quanti» diventa la prova che Tania oltre a esprimere disappunto, voleva dire che non aveva potuto consegnare altro che quelli che le erano rimasti: meno quelli sottrattigli da Sraffa. Arbitrario e troppo fantastico. Roba appunto da «fantasia logica», quella invocata da Lo Piparo. Che vale forse a fare arte verosimile, non scienza o filologia. E forse nemmeno arte compiuta. Visto che la prova il «Quaderno mancante» non è credibile neppure nel «plot». Troppo inverosimile.

l’Unità 3.2.13
Se l’uomo è il centro
Le strade della filosofia nella crisi della politica
Stiamo assistendo alla fine della polis? Il pensiero ha ancora un destino
nella sfera pubblica o guarda oltre di essa?
Un’analisi che lega tre recenti libri su Spinoza: di Carlo Sini, Biagio De Giovanni e Massimo Adinolfi
di Vincenzo Vitiello


«CERTO È STRANO NON ABITARE PIÙ LA TERRA»: QUESTO MESTO VERSO DI RILKE DESCRIVE NON LA CRISI DEL NOSTRO TEMPO, MA IL SUO TRIONFO. Il trionfo dell’appropriazione umana della terra e del tempo, il trionfo della storia e della politica. A questa appropriazione, che, seguendo il racconto di Genesi (2, 19-20), inizia da quando Dio concesse all’uomo la facoltà di dar nome agli animali della terra e del cielo, la filosofia ha dato un contributo notevole, concependo la vita buona come quella vita che si realizza nella comunità degli uomini padroni della terra e di tutto quanto sulla terra cresce e vive.
Mestizia di poeta separato dal mondo, quella di Rilke? O non piuttosto un sentimento, frustrato, di più profonda partecipazione alla vita del tutto? Forse la crisi della polis, sottraendo alla filosofia il suo tema principale – la res publica, come la suprema res humana – apre l’orizzonte del pensiero oltre la soglia dell’umano. Si tratterebbe di una vera e propria rivoluzione in filosofia, che, in contrasto con quella «copernicana di Kant, definirei «tolemaica», dacché segna il passaggio dalla riflessione del mondo a partire dall’uomo alla considerazione dell’uomo muovendo dal mondo. E qual filosofo della nostra modernità ha contribuito a questa trasformazione più e meglio di Spinoza?
Biagio de Giovanni, filosofo della politica che ha sempre accompagnato l’attività di studioso con l’impegno politico, in un suo recente libro, Hegel e Spinoza. Dialogo sul moderno, ha ampiamente argomentato che la risposta di Spinoza alla crisi del moderno – la scissione io-mondo – è più «avanzata» di quella hegeliana, perché non «redime» il finito, assorbendolo nel processo della universale ragione come suo momento necessario, ma lo «salva», e cioè lo «serba» nella sua finitezza, entro il «libero» spazio della sostanza eterna.
Altra volta ho rilevato la vicinanza di questa interpretazione della sostanza spinoziana all’Ereignis di Heidegger, l’evento puro che tutto pro-voca ed accoglie, e nulla impone. Vi torno su, in questa sede, perché Spinoza – lo Spinoza che de Giovanni non esita a dire «il mio Spinoza» –, pur teorizzando la razionalità dello Stato, procede oltre il «politico», verso quella fondazione etica della ‘comunità’ che non è in potere della comunità. Per l’autore del Tractatus teologico-politicus e del Tractatus politicus «sostanza» è il nome della «natura» in cui l’uomo abita, e solo perché abita in essa, può comunicare con altri, può, cioè, far comunità.
L’etica di Spinoza ha come tema la natura che non è solo punti, linee e figure geometriche, è sovratutto corpo vivente, Leib, e cioè: passione, sentimento, amore e odio, letizia e tristezza, immaginazione. È, nel linguaggio di Rilke, la Terra oltre la Città: la Terra che «salva» l’uomo nella sua finitezza e libertà. È questo il messaggio? Il nuovo messaggio della filosofia?
Nel 1991-92 – son passati vent’anni! – Carlo Sini tenne un corso alla Statale di Milano su La verità pubblica e Spinoza. Pubblicato la prima volta nel 2005, è stato riedito nel IV volume, tomo I, delle sue Opere, in questo inizio d’anno. Essendo stato già recensito su queste pagine, posso andar subito all’essenziale, che è già tutto nello stile del testo, che ha conservato l’andamento della lectio, della lettura. Della lettura non d’un libro, ma del mondo, quale si es-pone nel pensiero che si fa nell’atto stesso di dirsi, di scriversi. Questa la verità pubblica del mondo (e non sul mondo). Verità che non è, perché in via di farsi, come il mondo.
In questa pratica di pensiero Spinoza da «oggetto» diviene soggetto del pensiero, sorgente che non si conosce, meglio: che non è altrove che in ciò che essa alimenta. Pertanto non ha senso voler distinguere quello che è di Spinoza da quello che è di Sini – e non perché non lo si possa fare, ma perché facendolo, si cristallizza il pensiero, gli si toglie vita. Sini leggendo Spinoza, lo «continua» (per usare il verbo felicemente scelto da Massimo Adinolfi per il titolo del suo libro, appunto: Continuare Spinoza). Di qui l’arditezza delle analisi siniane, dalla negazione che gli attributi della sostanza siano due, pensiero ed estensione, o addirittura infiniti, alla affermazione che l’essenza della sostanza è «espressa» nel «sive» che congiunge-separa Dio e natura: Deus sive natura.
Invero le due tesi dicono il medesimo: perché se «i due nomi (pensiero ed estensione) sono l’identico trascolorare della sostanza nella loro differenza», cosa mai può essere la sostanza fuor del «trascolorare»?
Il «sive» è il segno, la traccia che l’evento del trascolorare lascia nel pensiero, come nel corpo, in cui trascolora. Ma l’evento non è la traccia: pensieri e corpi, per dirla con Spinoza, non sono la sostanza. La verità pubblica del mondo non è il mondo. L’evento puro, il mondo, di cui il «sive» è segno o traccia, «non è pensabile (...)e non è da pensare».
L’evento puro del trascolorare dell’Indifferente nelle differenze non lo si pensa, lo si vive. In esso e di esso viviamo. Nella verità pubblica, oltre la verità pubblica: nella polis, oltre la polis. È un libero «trovarsi accanto» a uomini come a erbe e pietre e animali, oltre il «con-esserci» dell’ordine giuridico, delle leggi e della giustizia. Sini chiama mondo, quel che Rilke nomina terra. Pur nella grande differenza di metodo, intenti e scrittura, le analisi di de Giovanni e di Sini convergono nel risultato.
Lontani entrambi dal mito della terra incontaminata, trovano la terra, o, come entrambi amano dire, il mondo ciò che dà stabilità e potenza al fare nei conflitti della politica e pur nelle distruzioni delle guerre. Qui, nell’aiuola che ci fa feroci, e non altrove si «salva» il finito. O meglio: è già da sempre salvato. La nostra «salvezza» (de Giovanni), la nostra «eternità» (Sini), non è certo nella miseria delle nostra differenze, ma nella sovrabbondante ricchezza della sostanza, dell’evento, del mondo, che, peraltro, è solo in quelle differenze. Fuor di queste sarebbe solo Silenzio.
Mi chiedo se non sia questa un’ultima rassicurazione – necessaria all’uomo per non pensare alla morte: dell’uomo, del mondo, della Terra. Per Spinoza il filosofo pensa la vita, non la morte. Per Spinoza.

l’Unità 3.2.13
Buon compleanno Archimede
Un genio molto amato che realizzò la prima rivoluzione scientifica
di Pietro Greco


Fondatore della meccanica, inventore di una miriade di strumenti, teorico superbo e grandissimo matematico Una mente illuminata che dagli specchi ustori al calcolo dei numeri ha cambiato anche la nostra vita. Eureka!

NE HANNO CANTATO LA FIGURA I PIÙ GRANDI POETI LATINI: CATULLO, ORAZIO, VIRGILIO. NE HANNO RACCONTATO LA STORIA ALCUNI TRA I PIÙ GRANDI STORICI E LETTERATI DELL’ANTICHITÀ: Plutarco, Polibio, Cicerone. Ne ha sfogliato avidamente i libri Federico II, lo stupor mundi, re nel Mezzogiorno d’Italia e Imperatore del Sacro Romano Impero. Più tardi e più lontano, l’americano Walt Disney lo ha eletto, forzando un po’ la storia e anche l’epistemologia, a eroe dei fumetti e a genio dell’invenzione.
Alcune frasi a lui attribuite – Eureka! Ho trovato!; datemi una leva e solleverò il mondo – sono conosciute e ripetute ancora oggi ai quattro angoli del mondo.
E i bambini di tutto il pianeta, ancora oggi, conoscono le sue gesta (vere o presunte) e lo vedono, nelle immagini dei libri di testo, mentre con uno specchio ustorio difende la sua città incendiando le navi romane che la tengono d’assedio; mentre immerge una corona d’oro in una bacinella; mentre con un dito e un ingegnoso marchingegno vara una grossa nave; mentre esce nudo dalla vasca da bagno esclamando, appunto: «Eureka!».
Il mito di pochi personaggi, come Archimede da Siracusa, ha sfidato e vinto l’usura del tempo. Anche se il rischio, come rileva Lucio Russo nel libro dedicato alla scienza ellenistica, La rivoluzione dimenticata, è «di ricordarlo sì, ma come un personaggio leggendario, al di fuori della storia». E della scienza.
Invece Archimede è stato un personaggio storico. Un grande scienziato. Uno dei più grandi di ogni tempo. Ed è nato – se la ricostruzione di Giovanni Tzetzes, filologo bizantino del XII secolo è corretta – in un giorno e in un mese sconosciuti del 287 avanti Cristo. Dunque quest’anno, 2013, ne celebriamo il duemilatrecentesimo anniversario.
UNA STORIA MISTERIOSA
Della sua storia personale sappiamo poco. E quel poco che sappiamo non sempre ha solida fondamenta. Molti dicono che sia figlio di Fidia, un astronomo da cui avrebbe ereditato la passione per la scienza. Altri dicono che sia stato un parente di Gerone II, il tiranno di Siracusa. Di certo era suo amico e ne frequentava la corte. Di certo al figlio di Gerone, Gelone II, Archimede ha dedicato uno dei suoi libri.
Pare che abbia studiato ad Alessandria d’Egitto, la capitale di quella comunità di dotti ellenisti che sotto Tolomeo I, proprio negli anni in cui Archimede veniva alla luce, realizzò la prima, grande rivoluzione scientifica della storia.
Una rivoluzione di cui sentiamo gli effetti ancora oggi. E non solo indirettamente, perché la nostra scienza affonda le sue radici, anche se sono radici piuttosto contorte, nella scienza ellenistica. Ma anche direttamente: non sono forse gli Elementi di Euclide uno dei libri tuttora più letti al mondo? Già Euclide. È nato in Grecia, non si sa esattamente dove, ma è morto ad Alessandria, in Egitto, nel 286 avanti Cristo, un anno dopo la nascita di Archimede. Ha animato, insieme ad altri, il Museo e la Biblioteca voluti ad Alessandria da Tolomeo. Ed è considerato, a giusta ragione, il più grande geometra dell’antichità e di tutti i tempi. Ebbene Archimede andò a studiare, da giovane, proprio presso la Biblioteca di Alessandria, prima di ritornare nella sua Siracusa. Nella città africana frequenta e lavora probabilmente con gli allievi di prima generazione di Euclide. E forse vi ritorna più volte in età adulta.
Ebbene, se Euclide è il più grande geometra dell’antichità e di ogni tempo, Archimede è il più grande matematico e il primo fisico matematico dell’antichità e uno dei più grandi di ogni tempo. Intanto può essere considerato, a giusta ragione, il fondatore della meccanica. Non perché sia il primo a parlare dei fenomeni della meccanica. Ma perché è il primo a parlarne in termini scientifici, matematizzati, formalmente ben impostati. E, infatti, nel famoso libro Sull’equilibrio dei piani in cui tratta – eh, sì – anche, delle leve, affronta i temi della fisica proprio come Euclide aveva affrontato i temi della geometria: con una logica ipotetico-deduttiva. Da due insiemi di semplici postulati, infatti, Archimede deduce una serie di proposizioni fisiche: «stabilendo così quella stretta relazione tra la matematica e la meccanica che – scrive lo storico Carl Boyer – doveva diventare così importante sia per la fisica sia per la matematica».
Col medesimo metodo fonda l’idrostatica. Parte da un postulato e ottiene una serie di considerazioni, sempre quantitative, che vanno dal famoso principio di galleggiamento dei corpi alla densità specifica dei materiali. Il libro di riferimento, in questo caso, è Sul galleggiamento dei corpi. Cosicché tanto l’episodio della vasca, quanto quello dell’immersione della corona d’oro in acqua sono, se non veri, del tutto verosimili.
Ma Archimede non è solo il più grande fisico teorico del mondo antico. È anche, come abbiamo detto, un grande matematico. Anzi, il più grande matematico di epoca ellenistica e, quindi, uno dei maggiori di ogni tempo. Nell’Arenario propone un sistema per l’uso facile e il calcolo dei grandi numeri, con un metodo posizionale ed equivalente alla nostra notazione esponenziale. Archimede utilizza questo metodo, tra l’altro, per esprimere il risultato dei suoi calcoli sul numero di granelli di sabbia necessari a riempire l’universo. Nel suo trattato Sulla misurazione del cerchio propone, con il metodo dell’esaustione, il tema della «quadratura del cerchio» e, di fatto, introduce quell’idea di limite che oggi è alla base dell’analisi matematica. Con lo stesso metodo di esaustione propone la Quadratura della parabola.
Nel libro Della sfera e del cilindro dimostra, tra l’altro, che il volume di una sfera è pari ai 2/3 del volume di un cilindro in cui è inscritta. Risultato notevole, di cui, pare, vada particolarmente fiero, tanto da volerlo raffigurato a mo’ di epitaffio sulla sua tomba. Ad Archimede si deve, inoltre, una misura particolarmente precisa di p. Nel trattato sulle Spirali, la sua opera forse più difficile, non solo calcola l’area del giro di una spirale, ma anticipa un metodo che sarà poi alla base, un paio di millenni dopo, della geometria differenziale.
DAL CILINDRO ALLE SPIRALi
A proposito di metodologia, solo nel 1906 è stato riscoperto il Metodo, una lunga lettera indirizzata a Eratostene, in cui Archimede spiega in dettaglio i due metodi principali, appunto, per giungere ai risultati esposti nei suoi libri. Archimede è dunque un grande teorico. Un vero e proprio filosofo della scienza. A lui, forse più che a ogni altro, dobbiamo l’idea che la conoscenza dell’universo fisico può diventare molto profonda attraverso l’uso della matematica. Ma anche attraverso l’uso della tecnologia. La conoscenza fisica, infatti, produce nuova tecnologia. E nessuno più di Archimede lo dimostra praticamente: con l’invenzione e l’uso degli specchi ustori (specchio di Archimede), con l’invenzione della coclea, la vite per il sollevamento dell’acqua (vite di Archimede), con l’invenzione della carrucola mobile e del sistema esteso delle leve per il sollevamento di carichi pesanti, con l’invenzione della vite senza fine (usata nel già citato varo della grande nave voluta da Gerone). Ma il rapporto tra scienza e tecnologia è biunivoco. La messa a punto di nuovi strumenti tecnologici consente di ottenere nuove conoscenze sul mondo, aumentando la possibilità di «interrogare la natura».
È infatti con Archimede, ma anche con una miriade di altri scienziati ellenistici, che la scienza diventa «madre di sua madre», generando nuova tecnologia. Ma non per questo la tecnologia cessa di essere madre della scienza. Nel senso che l’innovazione tecnologica genera nuova conoscenza. Ne sono una plastica prova proprio i planetari meccanici, come quello di Archimede, il cui sviluppo culmina, per quanto ne sappiamo, nel «meccanismo di Anticitera» realizzato, da un autore che ci è ignoto, nella seconda metà del secondo secolo a.C.: si tratta di un vero e proprio calcolatore astronomico, con innumerevoli ingranaggi a ruote dentate come quelle inventate da Archimede, capace di calcolare con esattezza il moto di tutti pianeti. Il meccanismo consente non solo di creare un calendario cosmologico preciso, ma offre la possibilità di studiare i movimenti astronomici. Di fare astronomia.
Come si sa, Archimede partecipa in maniera attiva alla difesa di Siracusa posta sotto assedio dai Romani durante la seconda guerra punica. Malgrado le sue macchine belliche (catapulte e forse specchi ustori), la città siciliana è sconfitta e nell’anno 212 a.C. il più grande scienziato dell’antichità viene ucciso da un soldato romano che non lo ha riconosciuto. La leggenda vuole che Archimede inutilmente lo preghi di fargli ultimare una dimostrazione matematica, prima di essere giustiziato. Quel soldato è un po’ l’emblema di Roma, che non sa riconosce il valore della scienza ellenistica e, di fatto, l’uccide.
Pare che Cicerone, un secolo e mezzo anni dopo la caduta di Siracusa, trovi la tomba di Archimede e la faccia restaurare. Carl Boyer nota, con marcata ironia, che questo può essere considerato il massimo contributo dato da Roma alla matematica. Dopo Archimede, infatti, nessuno scienziato creativo nascerà in Italia e nell’intera Europa occidentale per oltre un millennio e mezzo. Per ritrovarne un altro occorre attendere Leonardo Fibonacci e il XIII secolo.
Le opere di Archimede saranno riscoperte nel Vecchio Continente e tradotte tra Toledo e Palermo solo a partire dal XII secolo. Ma con loro si misureranno tutti i grandi del Rinascimento (da Piero Della Francesca a Luca Pacioli, da Niccolò Tartaglia, a Commandino a Leonardo da Vinci) e tutti i pionieri della nuova scienza: da Galileo Galilei a Johannes Kepler a Isaac Newton.

l’Unità 3.2.13
Nasce Ariadne, la biblioteca archeologica online


Giovedì prossimo, 7 febbraio, presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma si terrà la presentazione del progetto europeo Ariadne ( Advanced Research Infrastructur e for Archaeological Dataset Networking in Europe), finanziato nell'ambito delVII Programma Quadro della Commissione Europea che ha per obiettivo la creazione di un'infrastruttura europea di dati archeologici per la ricerca.
L’obiettivo è consentire agli archeologi e studiosi del mondo antico di accedere online agli archivi digitali dei vari Paesi europei e di poter usare le nuove tecnologie come elemento della metodologia della ricerca archeologica. Grazie ad Ariadne si creerà un'unica interfaccia virtuale che consentirà agli utenti un accesso simultaneo a molteplici banche dati contenenti i risultati dei
ricercatori europei. La biblioteca digitale così creata si aggiungerà, a livello scientifico, ad altre iniziative come Europeana, la
biblioteca digitale europea con cui è prevista una collaborazione, per rendere sempre più accessibile il grande patrimonio di documentazione prodotto dalla ricerca archeologica nei vari paesi.Con Ariadne anche l'archeologia entra nel mondo dell'e-science.

l’Unità 3.2.13
1968 l’anno più lungo del secolo
di Bruno Bongiovanni


CI SONO COSE CHE PAIONO ALL’ORDINE DEL GIORNO. C’È ADDIRITTURA CHI SOSTIENE, ANCHE SU GIORNALI ILLUSTRI, CHE L’ACQUISTO DI BALOTELLI FARÀ VINCERE A BERLUSCONI LE ELEZIONI. SE COSÌ FOSSE, VORREBBE DIRE CHE CE LO MERITIAMO. Ma non ci credo. La patria di Dante – qualcuno spieghi a Silvio chi è stato – ha un’altra storia.
Comunque, va ricordato, anche se ne parliamo poco e se non sembra in sintonia con il presente, che siamo a 45 anni dal ‘68. Che cos’è stato? Forse una non ben definibile mistura di sineddoche e di metonimia, vale a dire la sintesi, quanto alla periodizzazione, della parte per il tutto (un anno per tanti anni) e del contenente per il contenuto (un anno per eventi diversi comprese l’offensiva del Tet e l’uccisione di Martin Luther King che lo contraddistinguono)? Del ‘68, del resto, non si sa bene quando collocare l’inizio (sicuramente prima) e ancor meno quando collocare la fine (sicuramente moltissimo dopo).
Non è stato del resto l’unico anno a rappresentare un significato determinato o addirittura un punto di non ritorno. Nessun anno, tuttavia, è stato prolungato in una misura così palesemente abnorme.
Ciò non è accaduto neppure agli anni enormemente più significativi e decisivi del passato, come il 1789 (già il ‘91, il ‘92, il ‘93, il ‘94, il ‘95 hanno avuto, ciascuno, un’inconfondibile identità) o come il 1848 (già il ‘49, tra Roma, Budapest e Venezia, è stato un’altra cosa). Si può anche avanzare il sospetto che si sia in Italia voluto emancipare il futuro prossimo, e in particolare il successivo decennio, dai numerosi lampi oscuri che l’hanno angustiato (da piazza Fontana a Ustica e Bologna). Per ottenere questo obiettivo si sarebbe cioè prolungato l’anno più mite.
Vi sono però anche grottesche periodizzazioni, come l’inesistita seconda repubblica, non nata nel 1994 e non morta nel 2011. Veniamo così al 2001-2011. Da Genova alla crisi economica.
E scavalchiamo il decennio della mediocrità, dell’incultura e della corruzione.

La Stampa 3.2.13
Donne arabe, la rivoluzione incomincia dal cinema
La moglie silenziosa di “Pierre de patience”, le madri in conflitto di “Il figlio dell’altra”, la ragazza ribelle di “Il nero ti sta bene”
 di Fulvia Caprara


Le noir (te) vous va si bien di Jacques Bral, una giovane araba (Sofiia Manousha) a Parigi ogni giorno esce di casa coperta dal velo per poi entrare in un bar e cambiarsi
Il figlio dell’altra Due madri, una israeliana e l’altra palestinese scoprono che i loro bambini sono stati scambiati nella culla
Pierre de patience Storia di una donna afghana sposata il cui marito torna dalla guerra in coma

La forza delle donne nel cuore delle guerre, in mezzo a conflitti senza soluzione. Da qualche tempo, al cinema, la tenacia femminile è tornata di gran moda. Un misto unico e speciale, fatto di astuzia e tolleranza, energia e capacità di sopportazione, coraggio e indipendenza. Contro l’avanzare dei fondamentalismi religiosi, sotto il velo imposto da una parte della cultura islamica, in Medio Oriente, in Arabia Saudita, a Parigi e nelle altre nazioni d’Europa dove gli equilibri multiculturali tentano d’imporsi tra mille difficoltà, un esercito di madri, sorelle, fidanzate, mogli e amanti combatte per l’integrazione. Sul grande schermo le loro storie si moltiplicano, ricostruite in tanti film, sempre di più, spesso co-prodotti con la Francia, spesso proiettati ai Festival internazionali, spesso proibiti al pubblico che li ha ispirati. Durante l’ultima edizione dei Rendez-vous di Unifrance ne sono stati presentati diversi, pronti per arrivare sui nostri schermi nei prossimi mesi. Raccontare i fatti dal punto di vista delle donne è, già di per sè, come spiega lo scrittore afghano Atiq Rahimi, autore del libro Pierre de patience da cui ha tratto l’omonimo film, un gesto fondamentale: «La religione, la cultura e la politica hanno imposto la censura e l’auto-censura. Perciò, nel mio Paese, l’atto del dire ha un valore esistenziale enorme. Narrando la propria storia, la protagonista del mio racconto si realizza e si rivela attraverso la parola». La sua non è una vita semplice, anzi. Sposata a un uomo tornato dalla guerra in coma, la donna, che vive in un villaggio ai piedi di Kabul, confida i suoi segreti al marito che non può ascoltarla nè aiutarla. Nemmeno quando viene stuprata da un soldato, nemmeno quando, dopo la violenza, scopre inaspettatamente se stessa, il suo corpo, i suoi desideri: «Non è una vittima della situazione, ha il suo carattere, la sua determinazione, si pone domande, a iniziare da quella sul perchè vive con un uomo che non ha scelto. Portare alla luce vicende di donne afghane è un modo per restituire loro la parola che gli è stata levata. Non a caso l’identità della letteratura afghana è molto femminile».
Di sicuro chiaroscuri e contraddizioni appartengono più alla cultura delle donne che a quella dei maschi. Nel Figlio dell’altra, regia di Lorraine Levy (che si definisce ebrea e atea) due madri, una israeliana (Emmanuelle Devos) e l’altra palestinese (Areen Omari), si ritrovano a gestire una situazione impossibile. I loro bambini sono stati scambiati nella culla al momento della nascita, l’ebreo è cresciuto da palestinese e viceversa. I mariti e i figli maschi reagiscono, all’inizio, con violenza. Tocca alle mogli, a poco a poco, rimettere insieme i pezzi di due famiglie spezzate: «La storia - dice Devos - mi ha fatto pensare a una tragedia greca, tocca corde profondissime». Qualcuno ha criticato l’happy end, il fatto che, alla fine, i due nuclei trovino il modo di andare avanti insieme: «Ho visto il film come una favola, un pretesto per parlare dell’argomento. Nella realtà in Israele c’è molto più odio. Sono nata e cresciuta in Francia e certo non sono io la persona adatta a dire che cosa si dovrebbe fare per migliorare la situazione. Come donna sono ottimista, ma penso, in verità, che lì sia veramente impossibile risolvere il problema. La realtà è troppo complicata». Il figlio dell’altra (nelle sale a metà marzo) «è stato acquistato ovunque - sottolinea Devos -, ma in Israele non è mai uscito».
La cronaca, anche quella nera, dimostra, tragicamente, che le questioni sono ancora tutte aperte. In Le noir (te) vous va si bien di Jacques Bral, una giovane araba che vive a Parigi ogni giorno esce di casa coperta dal velo per poi entrare in un bar e cambiarsi, diventando uguale alle sue coetanee occidentali. Ma vivere due vite non è semplice, soprattutto quando si ha un padre come Moncef, strenuamente attaccato alle tradizioni e convinto che sia arrivato il momento di trovare un marito per la figlia. Interpretato da Sofiia Manousha, rivelazione dei César di quest’anno, il film è pubblicizzato con una frase che suona come una dichiarazione di guerra: «Non permettere a nessuno di scrivere la storia della tua vita».
Il compito spetta solo e unicamente a chi la possiede. Lo sa perfettamente Wadjda, piccola mattatrice della Bicicletta verde, cresciuta in Arabia Saudita, in un sobborgo di Riyadh, decisa a battere la concorrenza dell’amico Abdullah con cui, stando alle regole della comunità, non potrebbe giocare e tantomeno sfrecciare sulle sue amatissime due ruote. Lo sanno le mogli costrette a trasportare ogni giorno pesanti secchi d’acqua nella Sorgente dell’amore di Radu Mihailehanu, in un piccolo villaggio del Nord Africa. Lo sanno le donne combattive del musical libanese di Nadine Labaki E ora dove andiamo?, e lo sa anche Monica Bellucci, protagonista, per la prima volta velata, di Rhino Season, regia dell’iraniano dissidente (vive in esilio in Turchia) Bahman Ghodabi. Bellucci è la moglie mai dimenticata di un uomo (poeta curdo vivente ma non citato per motivi di sicurezza) che, finalmente libero dopo 30 anni di prigione e di torture, parte alla sua ricerca: «Sono italiana e vengo da un Paese in cui, solo 60 anni fa, il delitto passionale era ammesso, e dove le donne hanno lottato a lungo per ottenere il rispetto dei loro diritti. Per questo posso immaginare quanto possa essere difficile, oggi, la vita di un’iraniana».

Corriere 3.2.13
Siamo tutti un po' egiziani
La terra dove apparve il primo Stato organizzato ha sempre sedotto e assimilato i suoi conquistatori
di Cecilia Zecchinelli

«I suoi cieli imbottiti di placida polvere d'oro, l'immobile andare delle dune gialle, gli alti triangoli imperativi delle Piramidi e le palme serene che benedicono il grasso padre Nilo…». Frasi sorprendenti scoprendo che a scriverle fu Marinetti, padre del Futurismo e nemico di ogni «passatismo», archeologia compresa. Tornato nel 1930 nella natale Alessandria, anche lui cadde (o ricadde) nel Fascino dell'Egitto, come Mondadori titolò il reportage. Non fu, e non è, il solo. Se ora il Paese evoca caos politico e violenza, se è oggetto di analisi che spesso lo riducono a luogo di scontro tra Islam e laicità, l'importanza di questa terra e l'attrazione da essa esercitata hanno resistito ai millenni. In quello che gli arabi chiamano Mashreq o Levante, e noi Vicino Oriente, nel Mediterraneo e oltre questi confini, l'Egitto ha sempre occupato un posto speciale. E non tanto per le palme o le dune, non solo per le Piramidi.
All'inizio di tutto fu il Nilo, che per gli egiziani ancora oggi è al bahr, il mare, nonostante la piena annuale che per mesi inondava ogni cosa sia oggi un ricordo lontano. Evento unico, sorprendente, rituale (la prima ondata era una lacrima di Iside, Dea Madre per eccellenza), che rese necessario un forte potere centrale per piegare quell'acqua ai bisogni dell'uomo. Fu così che nel 3150 a.C. qui nacque il primo Stato unificato, che si svilupparono più che altrove le scienze e le arti, un pensiero religioso orientato al monoteismo. Dalla Libia alla Siria di oggi, l'impero dei Faraoni si estese politicamente ma la sua influenza culturale fu più vasta: mercanti fenici, pirati dell'Egeo, mercenari greci ne divulgarono le meraviglie. Nel 450 a.C., quando era sotto i persiani, Erodoto lo visitò e fu incantato. Poi vennero altri invasori: greci, romani, bizantini. Ognuno lasciò qualche segno, anche negativo, come il rogo della biblioteca d'Alessandria con i romani o l'abbandono definitivo dell'antica scrittura quando Teodosio I impose il cristianesimo e la fine dei riti pagani. Ma l'Egitto ogni volta resisteva, si piegava ma conservava un'anima distinta, assimilando piuttosto che venir assimilato. Un esempio? Il grande Iskàndar, Alessandro il Macedone, che fondò la sua città alla fine del Delta e nel remoto deserto di Siwa, dall'oracolo seppe di esser figlio di Amon, supremo dio egizio.
Lo stesso avvenne con l'arrivo degli arabi nel 640, l'evento più incisivo. Negli ultimi 14 secoli molti uomini chiave venivano da lontano. Ma qui arrivati si piegarono al Paese, ne presero la cultura. Successe alla dinastia illuminata dei Fatimidi, gli sciiti venuti dalla Tunisia e dominanti per un secolo anche in Sicilia; al grande curdo siriano Saladino; a Baibars l'ex schiavo turco, primo sultano mamelucco. Accadde a Mohammad Ali, il khedivè riformatore che a inizio Ottocento fondò lo Stato moderno: più egiziano di molti egiziani, era nato in Albania.
Ma l'Egitto attira ed emana. I suoi figli di oggi, discendenti dagli antichi camiti (solo il 5% ha antenati arabi) trasmettono tendenze, pensieri. Ispirano l'intero mondo arabo-musulmano fino alle comunità di immigrati in quell'Europa che, chiusa la fase orientalista apertasi nel XVII secolo (l'incanto per le Mille e una notte, le scoperte e i saccheggi archeologici, l'omaggio di Napoleone con la Description de l'Égypte), ora più che subirne il fascino li guarda con sgomento e spesso con sufficienza. Giustificati, certo: il Paese è nel caos, il ristagno destinato a durare, perfino la mitica Alessandria cosmopolita di Marinetti (e Ungaretti, Kavafis, Durrell) non esiste più.
Eppure è in Egitto che sono nate le due grandi utopie arabe moderne: il panarabismo e l'Islam politico. Gamal Abdel Nasser è stato il leader della regione più amato, nonostante la sconfitta del 1967 e il partito unico. Il suo sogno di un mondo arabo unito è svanito, ma ha lasciato un germoglio: tra i giovani di oggi, quelli di Tahrir in prima fila, l'idea di un'unione dei popoli, non dei governi, è stata un fil rouge delle primavere arabe, i social network l'hanno resa possibile se non (ancora?) vittoriosa. Più fortunata pare la sorte del pensiero della Fratellanza musulmana, nata a Ismailiya 84 anni fa e ora al potere dal Cairo a Tunisi, fortissima ovunque e ispiratrice, nelle sue deviazioni, perfino di Al Qaeda.
Nella teologia, che in terra d'Islam ha un peso enorme, in Egitto non c'è solo Al Azhar, eterna guida dell'ortodossia sunnita. C'è Nasr Abu Zaid, il maggiore esegeta liberale del Corano, condannato come apostata e scomparso nel 2010, ma ancora maestro di migliaia di musulmani. Ed Egitto significa femminismo arabo, nato al Cairo cento anni fa, di cui simbolo non dimenticato fu il gesto con cui Hoda Shaarawi, nel 1923, si tolse in pubblico il velo. Oggi, nella galassia delle attiviste arabe, la veterana è ancora un'egiziana, Nawal Saadawi.
Nella cultura sono tantissimi gli egiziani eccellenti. Nagib Mahfouz, unico letterato arabo a vincere il Nobel, ha lasciato eredi come Gamal Ghitani o il più internazionale Alaa Al Aswani. Il cinema arabo è stato a lungo sinonimo di Egitto, con i registi dell'età dell'oro come Shadi Abdel Salam e Yusuf Shahin, e oggi mantiene il primato. Lo stesso per la musica: «nessuno eguaglierà mai l'eccelsa Umm Kalthum» (parole di Mahfuz), il cui feretro nel 1975 fu seguito da quattro milioni di egiziani per le vie del Cairo e la cui voce risuona ancora dalla Striscia di Gaza alle banlieu di Parigi. Ma tra le star attuali gran parte è egiziana, a partire da Amr Diab. E poi la tv, la danza (del ventre), il teatro, l'arte in generale. Diffusi grazie ai satelliti e alla Rete: l'unico «dialetto» compreso da Rabat a Bagdad è ancora l'egiziano.
«In realtà l'Egitto non è più l'indiscusso motore culturale arabo, dagli anni 80 molti Paesi hanno sviluppato una loro produzione seppur spesso rivolta al consumo locale», dice Andrew Hammond, da 20 anni in Medio Oriente, autore di Pop Culture: Arab World. «Ora è in primo piano il Golfo, ma non tanto con una produzione autoctona, piuttosto come facilitatore di quella degli altri Paesi. Artisti, registi, creativi vanno a Dubai o in Qatar, sedi dei grandi network come Al Jazeera, dei grandi e ricchissimi musei».
Nell'era del «glocal» e con la rivoluzione incompiuta la tradizionale affermazione degli egiziani che il loro Paese sia la «madre del mondo» crea dubbi, in effetti, perfino sul Nilo. Ma di fasi buie l'Egitto ne ha già viste tante, molti «Faraoni» sono emersi e caduti. E la convinzione generale, o almeno la speranza, è che sia solo questione di tempo.

Corriere La Lettura 3.2.13
L'Occidente salvato a Maratona
Per Richard A. Billows senza l'epica vittoria ateniese sui persiani non avremmo avuto la grande civiltà classica del V secolo. Forse
di Antonio Carioti


Conoscere in anticipo le mosse del nemico può consentire di rovesciare situazioni difficilissime. Accadde a Maratona, in una notte di agosto (ma secondo alcuni storici era settembre) del 490 a.C., quando i comandanti ateniesi appresero, grazie alla diserzione di alcuni greci arruolati nell'esercito persiano, che gli invasori stavano reimbarcando parte delle loro truppe, in particolare la temibile cavalleria, per circumnavigare l'Attica e colpire Atene, rimasta quasi indifesa. Nella successiva discussione prevalse Milziade, che voleva attaccare al levar del sole, per sfruttare la divisione delle forze nemiche prima che le operazioni d'imbarco terminassero.
Nonostante la superiorità numerica, ancora consistente, dello schieramento avverso, i greci travolsero i persiani, ne uccisero circa 6.400 ed ebbero appena 200 caduti. Ma riuscirono a catturare solo sette navi. Il resto della flotta salpò e si diresse verso la capitale dell'Attica per cogliere un'immediata rivincita. Allora gli ateniesi si misero rapidamente in marcia per tornare a difendere la città. Fu un'impresa epica, forse ancora più faticosa della precedente battaglia, percorrere decine di chilometri armati di tutto punto nella canicola estiva. Ma quando i persiani videro i nemici che affluivano di fronte alla baia dove intendevano approdare, preferirono girare la prua delle navi e accettare la sconfitta.
Sarebbero tornati dieci anni dopo, impiegando forze ben maggiori, ma si sarebbero trovati di fronte una solida coalizione delle maggiori città greche, Atene e Sparta in testa, che li avrebbe sbaragliati sul mare a Salamina e per terra a Platea. Tuttavia quella del 490 a.C., sostiene lo storico Richard A. Billows della Columbia University (New York) nel saggio Maratona (Il Saggiatore), fu la battaglia più importante. Senza quella vittoria, che salvò Atene, il resto della Grecia non avrebbe mai potuto resistere alla successiva aggressione.
Non solo. Basta considerare come i persiani avevano trattato le città elleniche ostili (per esempio Mileto ed Eretria) dopo averle espugnate, con deportazioni in massa della popolazione, per capire che tutte le meraviglie del V secolo ateniese (teatro, arte, filosofia, architettura, storiografia) forse non avrebbero mai visto la luce. E la cultura classica non sarebbe esistita, o avrebbe preso un corso diverso. Insomma, conclude Billows, i 9.000 ateniesi che vinsero a Maratona, assieme a 600 alleati di Platea, «salvarono la civiltà occidentale».
In casi del genere c'è il rischio di eccedere nella retorica. Non va dimenticato, sottolinea lo storico tedesco Wolfgang Will nel libro Le guerre persiane (tradotto un anno fa dal Mulino), che conosciamo quegli eventi attraverso il punto di vista dei greci, in particolare di Erodoto, e che certo i loro avversari li vissero in modo diverso. Anzi, scrive Will, «non si può negare che, sotto la dominazione ateniese prima e spartana poi, i greci siano stati più oppressi di quanto non lo fossero stati dai persiani». Non è neppure escluso che, se lo scontro di Maratona avesse avuto un esito diverso, l'imperatore Dario I si sarebbe accontentato di restaurare ad Atene un sistema di governo autoritario (l'ex tiranno Ippia era suo alleato), senza infierire troppo sulla città. E magari il regime popolare sarebbe stato poi restaurato, come avvenne alla fine del V secolo, dopo la sconfitta ateniese nella guerra del Peloponneso.
La gamma delle ipotesi, quando si ragiona in termini controfattuali, resta sempre molto ampia. E la conclusione di Billows, benché ragionevole, pecca forse di determinismo. Più modestamente si può dire che senza il trionfo greco a Maratona, oggi non si disputerebbe una gara di atletica chiamata così, anche se l'episodio del corridore che si precipita ad Atene per annunciare la vittoria e viene stroncato dallo sforzo è solo un'invenzione, di cui Erodoto non parla. Eppure oggi la parola «maratona» è nota soprattutto per quel motivo. D'altronde non è raro, nella vicenda umana, che la leggenda prevalga sulla storia.

Corriere La Lettura 3.2.13
E Leningrado sconfisse la fame
Il diario di una sedicenne testimonia la strenua resistenza della popolazione nella città sul mar Baltico circondata dai tedeschi
di Fabrizio Dragosei


Il giorno in cui i tedeschi invasero l'Urss, Lena Muchina andò regolarmente a scuola a Leningrado. Quel 22 giugno del 1941, la vita di una studentessa di 16 anni cambiò per sempre. Come nei mesi immediatamente seguenti sarebbe cambiato l'ottimismo che discendeva direttamente dalla lettura dei bollettini di guerra sovietici: i tedeschi invasori «respinti su tutta la linea di confine»; gli aviatori russi che vincono ogni duello aereo perché «i nervi scossi del nemico non reggono la tensione»; i tedeschi che «vanno in battaglia ubriachi e colgono al volo la prima occasione per darsi prigionieri».
A volte, più dei libri di storia, i documenti scritti dai protagonisti riescono a dare un quadro degli avvenimenti chiarissimo. È il caso del libro Il diario di Lena (Mondadori), che si aggiunge ora a quelli, già pubblicati in passato, di ragazzi che vissero la terribile epopea dell'assedio di Leningrado, la città sul Baltico che rimase per 900 giorni chiusa nella morsa delle armate tedesche. Di Tanja Saviceva, che morì a 14 anni, ci sono giunte solo poche pagine, nelle quali racconta come la fame uccideva chi era vicino a lei. Yura Rjabinkin, uno studente di 16 anni come Lena Muchina, scrive pagine intense, nelle quali registra i cambiamenti avvenuti in lui man mano che le condizioni peggioravano. Così confessa di aver rubato da un barattolo in cucina, di aver «sottratto ogni possibile briciola a mamma e a Irina», di aver mangiato un gatto.
Lena alterna momenti di grande sconforto a pagine di speranza. Quando, per esempio, vengono aumentate le razioni di pane, da 125 a 200 grammi al giorno: «Che felicità! Vorrei gridarlo con quanto fiato ho in gola». Dopo aver sfondato le difese sovietiche, le armate del generale von Leeb nel settembre del 1941 chiusero in una morsa la città che oggi è tornata all'antico nome di San Pietroburgo. Stalin si era preoccupato solo di evacuare i macchinari necessari alla continuazione della guerra, lasciando a Leningrado due milioni e mezzo di civili. Tutti si attendevano l'attacco che avrebbe portato alla caduta della antica capitale. Ma Hitler aveva idee diverse. Leningrado non aveva una importanza strategica, non valeva la pena di sprecare le forze: la città sarebbe caduta per fame.
Così iniziò il terribile assedio, durante il quale morirono almeno ottocentomila civili, soprattutto nell'inverno 1941-1942, uno dei più freddi. Fin dall'inizio Lena e i suoi coetanei vengono mandati a lavorare, scavare fossati, assistere i feriti. Ma allo stesso tempo continuano le lezioni. A dicembre non c'è più riscaldamento, manca l'energia elettrica, i tubi dell'acqua sono gelati. La gente muore di inedia, nelle case, per strada. Ma il 27 dicembre Lena va a teatro a vedere Un nido di nobili di Turgenev: «Mi è piaciuto tantissimo, se fosse per me andrei a teatro tutti i giorni», annota nel diario. Ma subito dopo aggiunge che non andrà più ad assistere a una rappresentazione, perché la gioia del teatro «non è nemmeno lontanamente paragonabile alla sofferenza che provo ogni volta che devo tornare a casa». Il 31 dicembre Lena festeggia «con ben duecento grammi di pane», ma poi tre giorni dopo assiste alla morte di Aka, una amica che abitava nella stessa casa. Nei primi giorni del 1942 lo sconforto sembra prendere il sopravvento: «Ormai non ci resta che metterci a letto e morire», scrive il 3 gennaio. L'8 febbraio muore la mamma. Solo dopo tre giorni la ragazza riuscirà a portare la salma all'obitorio. Ma poi le cose iniziano a migliorare, grazie anche alla cosiddetta «strada della vita» creata sul lago Ladoga ghiacciato, attraverso la quale giungono un po' di rifornimenti. «Sono diventata ricca. Ho un barattolo di miglio, uno di orzo e un altro di farina saracena», scrive il 17 febbraio.
Con la primavera, la vita riprende, si rivedono i tram in giro per Leningrado, si pensa a evacuare i civili. Lena viene portata via. Sopravviverà alla guerra, anche se non avrà mai la gioia di veder pubblicato il suo diario, uscito solo ora. Tanti altri saranno meno fortunati e l'assedio verrà rotto solo nel 1943, dopo l'offensiva invernale sovietica che provocò tra le altre cose, molto più a sud, la disfatta dell'Armata italiana in Russia.

Corriere La Lettura 3.2.13
Alla ricerca della prima città europea
Un sito fortificato del 4700 a.C. in Bulgaria riapre il caso Esperti divisi. In ballo la caccia agli sponsor americani
di Roberta Scorranese


«Beati gli antichi che non avevano un'antichità! » ironizzava Diderot in un'epoca, il Settecento, che fece delle «rovine» un culto estetico-religioso. Oggi invece, in tempi di pragmatismo economico, paradossalmente la corsa alla scoperta delle antiche vestigia sembra un rumoroso richiamo alle origini documentate, pedigree di «nobiltà paleozoica». Così, se mezzo secolo fa gli scavi del britannico James Mellaart che portarono alla luce il sito neolitico di Çatalhöyük, in Turchia, venivano austeramente commentati sulle riviste specializzate, nel novembre scorso la notizia del ritrovamento della «più antica città europea» in Bulgaria ha attraversato, come una corrente trans-mediale, tv, giornali, siti, blog. È successo nell'area di Provadia, sulle coste del Mar Nero: il team guidato da Vassil Nikolov, direttore dell'Istituto nazionale di Archeologia di Sofia, ha trovato un vasto insediamento fortificato, sorto seimila anni fa. Niente di strano, a prima vista: l'area della penisola balcanica e in generale quel lembo attraversato dal Danubio, ha lasciato affiorare numerosi reperti preistorici. Ma questa volta è diverso: Nikolov parla di una «città». «Il sito — dice il professore — prende il nome di Solnitsata, saliera, dai vasti giacimenti di sale che hanno strutturato quell'economia. Il sale era preziosissimo: alimento e mezzo di conservazione dei cibi, era anche moneta di scambio. Di qui l'organizzazione sociale complessa che abbiamo ipotizzato, e la fortificazione». Una «città», dunque, perché abbastanza popolata secondo i ricercatori di Sofia (350 abitanti) e mura alte tre metri che difendevano le saline, nonché edifici a due piani. Quanto basta per innescare un dibattito arroventato: John Chapman, archeologo dell'Università di Durham, sostiene che gli abitanti, presumibilmente, fossero molti meno e dunque ritiene improprio il titolo di città. «Siamo sempre — sospira Andrea Cardarelli, ordinario di Protostoria europea all'Università La Sapienza di Roma — al solito problema: quello della distinzione tra villaggio, insediamento o città è un dilemma che ci rincorre da decenni. E talvolta inutilmente».
Perché il concetto di «città» è complesso. Per Max Weber è un luogo del «divenire storico», che dunque oltrepassa i confini di produttività economica e aggregazione sociale, per fondere le cose in un organismo deputato alla crescita e alla dialettica tra le classi sociali. Non è una questione, insomma, solo di dimensioni o di densità di popolazione. «Tanto è vero — continua Cardarelli — che tra il concetto di "insediamento" e "città antiche", l'archeologia si imbatte spesso in grandi agglomerati proto-urbani, organizzati e coesi». Realtà interessanti, come il caso delle Terramare, villaggi dell'età del Bronzo che 1.600 anni prima di Cristo tracciarono una direttrice commerciale dalla Val Camonica alle sponde del Po: erano depositi di merci, soprattutto materiali che arrivavano via mare, come l'ambra dal Mar Baltico. Ben prima c'erano stati i grandi insediamenti agricoli, per quelle civiltà che riuscirono a separare la terra dall'acqua. «Cosa difficilissima — commenta Raffaele De Marinis, docente di Preistoria all'Università di Milano — ma la ricompensa era l'immortalità della memoria nei secoli. Pensiamo alla bassa Mesopotamia, dove fiorì la città di Uruk, nei pressi dell'Eufrate. Stratificazione sociale e specializzazione del lavoro sono le caratteristiche che fecero di questo villaggio, nel IV millennio avanti Cristo, una vera città». Crescita, organizzazione del lavoro e una serrata dialettica tra progresso e burocrazia, dunque, erano alla base delle città antiche, o insediamenti fortificati che fossero. Alcuni erano occupati solo «stagionalmente», come certi abitati tra Romania nord-orientale, Moldavia e Ucraina, tra V e IV millennio: case disposte in fila, officine per la lavorazione di vari materiali, un assetto che sembra una «frontiera» per contenere le aspirazioni di espansione delle popolazioni ai confini. A volte i fossati non erano strumenti difensivi, ma fonte di approvvigionamento idrico, come nella Puglia del Neolitico. Villaggi e città cambiano con il progresso: tra il VI e il V millennio a. C. in gran parte dell'Europa centrale le case si allungano orizzontalmente e compaiono i granai, segno di un'economia agricola più sofisticata. E l'intensificarsi di cittadelle d'altura, nell'area tra le attuali Francia e Germania, è indice di crescente conflittualità tra le diverse comunità. Mentre si raffina il concetto di sistema sociale, inevitabilmente si acuisce il confronto con gli agglomerati simili. Naturale. «La città antica allora — continua Cardarelli — è un concetto elastico, che noi archeologi mettiamo continuamente in discussione. Non so se quella bulgara possa dirsi una città». Ma la rinnovata, post-classica (si potrebbe azzardare) passione per le rovine richiama una strana ostalgie, nostalgia di un'appartenenza impalpabile, a volte nemmeno conosciuta. Come quando il nobile gallo-romano Rutilio Namaziano sospirava sui ruderi di Populonia: «Il tempo vorace ha inghiottito le grandi mura... e noi non vogliamo accettare la dissoluzione dei nostri corpi mortali, quando vediamo che anche le città possono morire? ». E perché questa improvvisa, affannosa corsa all'origine più antica? Nel 2012, mentre Nikolov annunciava la scoperta della città di Provadia, in Spagna era stato da poco reso pubblico il ritrovamento di una sorta di fortino militare a La Bastida, risalente a circa 4.200 anni fa. E gli scavi a Klimonas, Cipro, portavano alla luce uno dei più antichi insediamenti agricoli mai rinvenuti su un'isola del Mediterraneo, circa 9.000 anni prima di Cristo. Appena due anni prima, nel 2010, a Hamresanden, nel sud della Norvegia, era stata trovata una «piccola Pompei», insediamento rimasto intatto per 5.500 anni, coperto da circa un metro di sabbia. Molte di queste spedizioni archeologiche sono finanziate da privati e, come nel caso di Provadia, da Fondazioni americane come la Gibson Foundation. E il sospetto che l'annuncio «a effetto» serva anche per attrarre l'attenzione (e il finanziamento) non può non sfiorare, senza nulla togliere alla serietà dei team archeologici, supportati da pubblicazioni scientifiche. «Il problema — dicono sia Cardarelli che De Marinis — è che i soldi pubblici per la ricerca scarseggiano, specie nei Paesi del Mediterraneo: l'appoggio dei privati diventa importante». Per gli Stati Uniti, ma anche per la Germania, promuovere spedizioni archeologiche è un fatto di prestigio. L'Inghilterra ne ha fatto letteratura. E se la Cina al momento si sta concentrando sulla riscoperta del proprio (sfavillante) passato, gli archeologi sono sicuri che ben presto diventerà uno dei finanziatori di punta di spedizioni occidentali. Ovviamente l'Italia, con i suoi 2.500 siti archeologici, è al centro di un interesse che perdura da secoli, dalla passione di Winckelmann a quella, recente, del filantropo David Woodley Packard (figlio del fondatore della Hewlett-Packard, colosso informatico), che con la sua fondazione Packard Humanities Institute ha finanziato la manutenzione e il consolidamento di Ercolano.

Corriere La Lettura 3.2.13
La tassa sui celibi (ma non sulle nubili)
La gabella si basava su una doppia discriminazione, tra donne e uomini e tra sposati e no

Come nell'antichità, era il frutto ideologico di una politica che mirava a nazioni popolose
Ma l'esito risultò inverso: vi fu un decremento demografico, anche se lo Stato si riempì le tasche
di Carlo Vulpio


E' «singol» (single), diremmo oggi di una persona non sposata (sì, d'accordo, per evitare accuse di discriminazione sessista e obiezioni politicamente corrette lo diremmo anche di chi non ha una relazione stabile). Sulla carta d'identità del «singol» però non troveremo scritto single — e meno male —, ma celibe, o nubile. Celibe, lo sappiamo tutti, si dice soltanto dell'uomo non sposato, mentre per la donna si dice nubile. Anche se in verità Alessandro Manzoni ne I promessi sposi definisce Perpetua «celibe». Secondo l'etimologia, celibe è l'uomo privo di talamo, cioè — e questo fin dalla Grecia antica — l'uomo privo di un letto o di una camera nuziale, nubile invece sta per donna da sposare o, ancora più precisamente, da «prendere» in sposa. Ma a questo punto bisogna fermarsi un attimo. Perché siamo già di fronte alla contestatissima (oggi) contrapposizione tra un soggetto, diciamo così, attivo (l'uomo) e uno passivo (la donna), che durante il fascismo fu invece alla base di un ragionamento e poi di una misura demografico-fiscale passata alla storia come tassa sul celibato.
Prevista dal Regio decreto legge numero 2.132 del 19 dicembre 1926 ed entrata in vigore il 13 febbraio 1927, l'imposta gravava, appunto, soltanto sui celibi, dato che il regime fascista voleva sì accrescere il numero dei matrimoni, e quindi incrementare le nascite, ma non riteneva di poter mettere sullo stesso piano uomini e donne, sebbene non perdesse occasione di celebrare la donna come madre e «angelo del focolare». Che pagassero soltanto i «signorini», dunque. Per fasce di età e per aliquote di reddito. Settanta lire per i giovani dai 25 ai 35 anni, cento lire fino ai 50 e cinquanta lire superati i 50 anni. Più, come si è detto, una somma calcolata in base all'aliquota di reddito prodotto dal celibe. Una tassa «ideologica» fin che si vuole, ma concreta come tutte le tasse quando si tratta di aumentarne l'importo, anche al di là dei risultati ottenuti. E infatti non passa nemmeno un anno che anche la tassa sul celibato raddoppia. E poi raddoppia ancora nel 1934. E nel '36 viene estesa anche ai celibi residenti nelle colonie. I quali, se non si fossero decisi a cambiare stato civile, sarebbero stati bersaglio di un'ulteriore penalità: in materia di lavoro, in caso di assunzioni o promozioni, a loro sarebbero stati preferiti gli uomini sposati e, tra questi, gli sposati con figli.
Sarebbe però troppo facile e persino ingiusto immaginare i legislatori fascisti nei panni del principe Giovanni e del suo strisciante consigliere sir Biss (nel celebre cartoon Robin Hood, di Wolfgang Reitherman, 1973, Walt Disney), mentre esultano per i denari raccolti con una indiscriminata imposizione fiscale. Il principe Giovanni che esclama: «Tasse! Tasse! Bellissime e adorabili tasse!», e sir Biss che lo adula: «Sire, Voi siete bravissimo a convincere i poveri a farvi omaggio dei loro risparmi» evocano molto meglio il tempo presente che non il Ventennio. Persino la figura dell'occhiuto e spietato sceriffo di Nottingham si troverebbe molto più a suo agio oggi, in una Agenzia delle Entrate, che non allora, a minacciare di pignoramento gli evasori della tassa sul celibato. I quali, poveretti, quando non erano oggetto dello scherno altrui — frutto delle insinuazioni che la condizione di celibi stuzzicava circa la loro sessualità — potevano almeno consolarsi con la storia. E con la storia di Roma in particolare, a cui il fascismo non mancava mai di richiamarsi con la prosopopea che conosciamo.
Racconta Carla Fayer (indimenticata docente di Antichità romane all'Università Gabriele d'Annunzio di Pescara-Chieti), nel suo libro La familia romana. Aspetti giuridici e antiquari (edizioni L'Erma di Bretschneider), che dei celibi si occuparono già nel 403 avanti Cristo i censori Marco Furio Camillo e Marco Postumio Albino, i quali, «imposero a coloro che erano giunti celibi alla vecchiaia di versare all'erario una somma a titolo di punizione», poiché, argomentavano i censori, «la natura, come vi dà la legge del nascere, così vi dà quella del generare». Tre secoli dopo, nel 131 a.C., il discorso viene ripreso da un altro censore, Quinto Cecilio Metello Macedonico, che tiene un discorso pubblico per esortare i celibi a prender moglie. E nel 46 a.C. è Cicerone che esorta Cesare a favorire l'incremento demografico e a vietare il celibato. E Cesare fa di più. Per far fronte alla diminuzione della popolazione causata dalle guerre, istituisce anche dei premi per le famiglie numerose. Infine, ecco l'imperatore Augusto, che con un solenne discorso rivolto ai celibi e agli orbi (chissà perché questa «equiparazione») chiarisce che il matrimonio e la procreazione sono le finalità della sua nuova legislazione matrimoniale. «Nel 18 a.C. Augusto fece approvare la lex Iulia de maritandis ordinibus», scrive Carla Fayer, «che imponeva pene piuttosto dure ai celibi e alle nubili; e celibi, termine comprendente anche le donne, erano considerati i maschi fra i 25 e i 60 anni e le donne fra i 20 e i 50». Andò a finire che il celibe perse anche la capacità giuridica. Non poteva ereditare e non poteva nemmeno partecipare a festeggiamenti e spettacoli pubblici.
Benito Mussolini aveva ben presenti questi illustri precedenti e infatti non manca di citarli nel suo famoso discorso dell'Ascensione, tenuto il 26 maggio 1927 alla Camera dei deputati, nel quale spiega le ragioni della nuova politica demografica del regime. «La tassa sui celibi dà dai 40 ai 50 milioni — dice Mussolini —. Ma voi credete realmente che io abbia voluto questa tassa soltanto a questo scopo? Ho approfittato di questa tassa per dare una frustata demografica alla Nazione. Qualche inintelligente dice: siamo in troppi. Gli intelligenti rispondono: siamo in pochi. Affermo che, dato non fondamentale ma pregiudiziale della potenza politica, e quindi economica e morale delle Nazioni, è la loro potenza demografica». Ma il Duce intuisce che c'è un problema. E si chiede: «Queste leggi sono efficaci?». Risposta: «Le leggi sono come le medicine, sono efficaci se sono tempestive».
Dalla decrescita del tasso di natalità che ne seguì — passata dal 29 per mille del 1926 al 25,2 per mille del 1930 e poi al 23,2 del 1937 — si dovrebbe dedurre che o la cura fu intempestiva o le medicine erano sbagliate. Anche se in realtà, oltre agli effetti della Grande Depressione del 1929, c'era un altro fattore che giocava contro la crescita della popolazione: l'elevato tasso di mortalità — in particolare di quella infantile —, dovuto alla povertà, che in diverse regioni italiane aveva il volto della miseria, come emerse dal censimento del 1931. E proprio il censimento, condotto da quell'Istituto centrale di Statistica del Regno (l'Istat) inaugurato nel 1926 e messo alla diretta dipendenza della presidenza del Consiglio, testimoniava dell'importanza attribuita dal regime alla statistica, considerata il migliore strumento per conoscere caratteristiche e trasformazioni della popolazione.
Tanto che da quel momento i censimenti verranno svolti non più ogni dieci anni, ma ogni cinque, consentendo di calibrare al meglio l'adozione di una serie di misure, come l'esenzione dalle tasse per le famiglie numerose, gli assegni familiari per i lavoratori dipendenti, i prestiti matrimoniali, i premi di nuzialità e quelli per le madri prolifiche, i periodi di riposo per le madri lavoratrici prima e dopo il parto, la riduzione delle tariffe ferroviarie per i viaggi di nozze. Misure che — al di là di come la si pensi — costituivano una politica per le famiglie e che nonostante tasse bizzarre come quella sul celibato (abolita il 27 luglio 1943, alla prima riunione del governo Badoglio) impongono un interrogativo che non si può eludere: esiste oggi una politica per le famiglie (e per le unioni di altro tipo) degna di questo nome e all'altezza dei tempi?

Repubblica 3.2,12
Quella figura misteriosa sepolta sotto le gocce di colore di Pollock
di Melania Mazzucco


Seminare parole sulla carta. Erigere un muro di caratteri, e poi inabissarsi nelle proprie pagine come in un labirinto. È il sogno di molti scrittori. Può sembrare un modo strano per cominciare un discorso su Jackson Pollock, il mito dell’avanguardia americana degli anni ’50, il rude cowboy del Wyoming, paragonato a Marlon Brando e James Dean: ma è esattamente questa la sensazione, insieme riposante e angosciante, che mi comunicano le sue opere. Come fossero dei muri che l’artista ha eretto intorno a sé, o dei mari in cui si è tuffato per annegarvi. Infatti se gli scrittori possono realizzare la fuga nell’opera solo in metafora, o finendo in manicomio, un pittore può farlo davvero. E Pollock ci è entrato dentro col corpo, con le mani, e lì è rimasto – cristallizzato, salvo, come un insetto in una goccia d’ambra.
La mia lettura è influenzata dal titolo di questo quadro. Gli storici dell’arte non attribuiscono troppa importanza ai titoli dei quadri, perché sanno che di rado gli artisti li scelgono da soli, e spesso nascono invece a quadro finito, dietro suggerimento di un amico intellettuale, poeta, critico. In questo caso, del traduttore Ralph Manheim, vicino di casa del pittore. Io però sono di quelli che nei musei si ingobbiscono per leggere la didascalia, anche se il quadro in questione rappresenta un sacco di tela o un escremento. E mi mettono a disagio le esposizioni dove ci sono ottanta opere “senza titolo”. Perché, anche se non raffigurano nulla, esse hanno pur sempre un soggetto – cioè un senso per chi le ha create. Poiché nessuna opera si realizza da sé: nemmeno se fatta sotto dettatura automatica dell’inconscio. Anche Pollock classificò molte sue opere col nome “untitled”, seguito da un numero, una lettera e l’anno di creazione. Ma ai due quadri che prediligo, Full fathom five e Deep, ha messo dei titoli “verticali”. Come se volesse assimilare la superficie orizzontale del quadro agli spazi dell’oceano o del cielo. Pollock finì per odiare ciò che gli altri apprezzavano della sua opera: il sembrare frutto del caso. Dunque mi piace pensare che Full fathom five dica molto dell’opera in questione e di lui.
Si tratta di un quadro astratto alto quasi un metro e trenta: del 1947, è uno dei primi esempi dello stile che diventerà inconfondibilmente suo. Filamenti di colore sgocciolato sulla tela formano arabeschi e ideogrammi enigmatici. Domina il verde, con inserti di bianco, arancione e rosso, fra geroglifici di linee nere. La superficie è butterata di relitti della vita materiale del pittore, incastrati sulla tela come in un collage: bottoni, fiammiferi, puntine, monete, sigarette con la cartina strappata, tappi di tubetti di colore
e chiavi. Allora l’insieme assume una forma quasi antropomorfa: sembra di intravedere una figura prigioniera sotto lo strato di pittura.
Ed è esattamente così. Le foto a raggi X effettuate per il restauro hanno svelato che esiste davvero una figura, in piedi, con un braccio alzato, sotto la ragnatela di linee. È come se Pollock l’avesse seppellita dentro il suo quadro. Questo infatti significa Full fathom five: A cinque braccia sul fondo. È la canzone che Ariel canta a Ferdinando nella Tempestadi Shakespeare, descrivendo il padre che il giovane crede annegato. A cinque braccia sul fondo giace dunque un cadavere.
Ma il cadavere di chi? Si potrebbe rispondere: della figura – cioè della pittura tradizionale che Pollock, alla ricerca della sua identità, sta abbandonando. Dunque cancella, sfregia, seppellisce, con un atto liberatorio, tutto ciò che lo ha preceduto. Alcuni anni più tardi, teorizzò che l’artista moderno non può esprimere il suo tempo, l’aeroplano, la bomba atomica, la radio, nelle vecchie forme della passata cultura. Ogni età trova la sua propria tecnica. La tecnica che avrebbe messo a punto Pollock – più o meno da questo quadro – aboliva il pennello, la tavolozza, il cavalletto. Prevedeva una tela stesa sul pavimento, e la distribuzione del colore direttamente dal tubetto, mediante lo sgocciolamento (il “dripping”). La pittura diventava espressione delle energie dell’inconscio, azione (“action painting”), e l’atto della creazione più importante del suo esito. Questa tecnica è stata paragonata all’orgasmo, all’inseminazione, e anche alla minzione.
Allora si può forse rispondere diversamente. La figura che giace sul fondo è l’artista stesso. Aveva scelto di dipingere sul pavimento perché, come dichiarò in un’intervista rilasciata nei giorni di Full fathom five, così si sentiva parte del quadro – poteva camminarci intorno, ed essere letteralmente nel quadro. Un metodo simile a quello degli indiani del west che lavorano sulla sabbia.
Quando sono nel mio quadro, disse, non sono cosciente di quello che faccio, un quadro ha una vita propria, che devo lasciar emergere. E la lasciò emergere, fra il 1947 e il 1950 – l’epoca d’oro di Pollock, quattro anni scarsi in cui realizzò i suoi capolavori, in uno stato di grazia febbrile. Poi tentò di cambiare strada – senza successo, perché la critica lo aveva ormai identificato con la formula degli Untitled.
Allora entrò in crisi e si smarrì. Si ritrovò nel 1953, con Deep: ancora un titolo che evocava l’abisso. Nel bianco della tela una crepa oscura accogliente come una vagina indicava un varco, e una via di scampo. Pollock si nascose per l’ultima volta dentro la sua opera, e forse era già in salvo quando l’11 agosto del 1956 la macchina che guidava ubriaco si schiantò contro un palo e lo uccise.

L’OPERA
Jackson Pollock: Full Fathom Five (1947) New York, MoMA

L’ARTISTA
Jackson Pollock (1912-1956), pittore americano. Originario del Wyoming, studia a New York, è affascinato dai messicani Orozco e Siqueiros e da Picasso. Diventa il maggiore esponente dell’action painting: la pittura nella sua opera si fa “gesto”

Repubblica 3.2.13
Stasera in tv su Iris
“L’infernale Quinlan”, viaggio nel mondo di Welles


UNO dei capolavori di Orson Welles, L’infernale Quinlan, è la proposta di Iris alle 22.50. Il celebre, vertiginoso e lunghissimo piano sequenza iniziale (più di 4 minuti) è l’invito di Welles a addentrarsi in un noir fatto di sangue, corruzione, sesso e vendetta. Protagonisti un piedipiatti dalla dubbia moralità, Hank Quinlan (lo stesso Welles) e un funzionario messicano della Commissione panamericana antidroga, Miguel “Mike” Vargas (Charlton Heston). La versione originale del film, uscita nel 1958, in realtà non è il vero progetto registico di Welles. La Universal ritenendo incomprensibile l’intreccio, rimontò la pellicola aggiungendo nuove scene girate da Harry Keller. Questi eliminò quasi 15 minuti di girato e lo intitolò Touch of Evil.
Nel 1998, sulle basi del memoriale del regista, lo storico Jonathan Rosenbaum e il montatore Walter Murch ne riconfezionarono l’idea originale. Nel film anche il cameo di Marlene Dietrich, la bruna chiromante Tanya di cui Quinlan è innamorato.
Orson Welles nel film “L’infernale Quinlan”