lunedì 4 febbraio 2013

l’Unità 4.2.13
Bersani chiama gli elettori dei gazebo
Lettera del leader del Pd per invitare il popolo delle primarie a una «mobilitazione straordinaria»
«Berlusconi e l’Imu? Una promessa demagogica senza fattibilità ma che strizza l’occhio agli evasori»
di S. C.


«Cara elettrice, caro elettore». Pier Luigi Bersani scrive a militanti e simpatizzanti del Pd per chiedere un impegno in prima persona in questi ultimi venti giorni di campagna elettorale. «C’è bisogno di una mobilitazione straordinaria. Voi avete già partecipato alla costruzione di un nuovo modo di fare politica, attraverso il voto alle primarie. Ora potete essere decisivi con il vostro impegno a sostenere il Pd alle elezioni politiche».
Centinaia di migliaia di lettere ed email sono state spedite soprattutto agli elettori delle regioni chiave per ottenere la maggioranza anche al Senato, quelle che assegnano un alto numero di parlamentari, quelle in bilico, quelle tradizionalmente più difficili da conquistare per il centrosinistra. In Veneto, in Lombardia, in Sicilia ma anche in Campania, nel Lazio, in Puglia, molti di quelli che hanno votato alle primarie per la scelta del candidato premier e poi dei candidati parlamentari si sono visti recapitare in queste ore l’invito ad essere per dirla con una battuta che Bersani fa spesso nei comizi in giro per l’Italia «protagonisti e non soltanto spettatori» in una sfida che sarà decisiva per le sorti del Paese.
ANDARE OLTRE IL GOVERNO MONTI
«La tua iniziativa personale sarà il valore aggiunto che potremo portare nei giorni finali della campagna elettorale», si legge nella lettera, nella quale il leader del Pd rivendica il sostegno al governo Monti («Per il bene del Paese abbiamo sostenuto un governo di transizione. Lo abbiamo fatto lealmente e con trasparenza, anche se non tutto ciò che è stato fatto ci è piaciuto») ma sottolinea che adesso è il momento di voltare pagina. «Bisogna andare oltre l’esperienza del governo di transizione, ci vogliono più lavoro, più equità, più giustizia sociale». Bersani insiste che questo andrà fatto «senza raccontare favole o promettere miracoli», ribadisce che «per ottenere risultati il Paese ha bisogno di un governo stabile» e che «solo il Pd e il centrosinistra oggi sono in grado di offrire questa prospettiva e di caricarsi di questa responsabilità».
Con questa iniziativa Bersani conta di mobilitare uno squadrone di almeno centomila volontari, da aggiungere a quelli già in campo, che per i prossimi venti giorni potranno allestire gazebo nelle principali piazze italiane, fare volantinaggio, porta a porta, ma anche impegnarsi in attività elettorali via web, ciascuno secondo le proprie possibilità e competenze. Con una battuta, il leader del Pd a volte scherza su questa operazione parlando della «nostra arma atomica». Spiega: «Solo noi possiamo mobilitare milioni di protagonisti. Gli altri possono fare solo un altro partito personale. E se mettiamo in moto le nostre forze, non ce n’è per nessuno».
STRIZZATA D’OCCHIO AGLI EVASORI
L’«arma atomica» verrà sganciata ora che è chiaro che sono in molti a lavorare perché non ci sia un governo targato centrosinistra. Silvio Berlusconi è naturalmente il primo tra questi, ma non è il solo. La promessa di ieri di rimborsare l’Imu viene duramente criticata ma non sottovalutata. Dice Bersani al Tg3 della sera che difficilmente si potrà ripetere la storia (l’altra volta il leader del Pdl aveva promesso la cancellazione dell’Ici, e gli aveva portato bene), anche perché la situazione economica e la credibilità del personaggio non consentono di farsi troppe illusioni. «È chiaro a tutti che questa è una promessa demagogica, che non ha fattibilità, poggiata su una copertura di bilancio fantasiosa, che però ha la caratteristica di strizzare l’occhio agli evasori, come piace sempre a Berlusconi». Piuttosto, dice il leader del Pd, bisognerebbe ricordare che quei 4 miliardi e mezzo che servirebbero per ridare indietro l’Imu «sono esattamente la cifra che Berlusconi e la Lega ci hanno fatto pagare per regalarli agli evasori delle quote latte».
Bersani lancia però un messaggio piuttosto chiaro anche all’indirizzo di Monti, a venti giorni dalla chiamata alle urne. La linea del Pd rimane quella di puntare al 51% dei consensi, «perché serve una barra chiara», ma rimanendo «aperti al dialogo» con le forze europeiste e che combattono i populismi. Però, l’indomani dell’uscita di Mario Monti sull’ipotesi di rivedere lo Statuto dei lavoratori, Bersani precisa che ci sarà da «registrare» le diverse posizioni in campo: «Perché, per esempio, se la priorità degli altri davanti a tutti i problemi che abbiamo dovesse essere quella di aprire una rissa su un aspetto o l’altro dello Statuto dei lavoratori, francamente sarebbe molto difficile discutere».

l’Unità 4.2.13
Il manifesto dei progressisti europei
Venerdì a Torino i leader socialdemocratici europei e Martin Schulz, presidente del Parlamento europeo
Bersani domani a Berlino con Schäuble
«Pace, prosperità e progresso»: col Pd a Torino in campo i leader progressisti
La sinistra europea lancia la volata a Bersani
Sabato il videomessaggio di François Hollande
di Simone Collini


Martin Schulz: l’Italia deve voltare pagina con un governo progressista
Dal manifesto di Parigi a quello di Torino: verrà presentato venerdì e sabato al Teatro Regio alla presenza dei leader progressisti europei e dedicato all’unità politica dell’Europa. Domani Bersani volerà a Berlino per incontrare il ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble.

Domani Pier Luigi Bersani vola a Berlino per incontrare ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble, poi invece nel fine settimana sarà il leader del Pd a fare gli onori di casa, quando a Torino arriveranno leader politici, ministri, capi di Stato e di governo che puntano su un’Italia a guida progressista per far voltare pagina all’Europa.
L’appuntamento è al Teatro Regio e in pratica si tratta di una seconda puntata: nel marzo scorso lo stesso Bersani, il segretario della Spd Sigmar Gabriel, il presidente dell’Europarlamento Martin Schulz e altri leader progressisti europei andarono a Parigi a tirare la volata all’allora candidato all’Eliseo François Hollande. Quella giornata e la firma di quello che è stato definito il «manifesto di Parigi», centrato sui temi della crescita, della solidarietà e della democrazia all’interno dell’Unione europea (si parlava tra l’altro della necessità di superare la linea del puro rigore, di introdurre gli Eurobond e la cosiddetta Tobin tax) portarono bene all’aspirante presidente del Partito socialista francese. Venerdì e sabato si ripete, con tanto di photo opportunity a uso e consumo di chi sostiene che all’estero di tifa per un Monti-bis ma soprattutto con la firma di quello che a questo punto si può definire il «manifesto di Torino». Che sarà centrato sulla necessità di realizzare una vera unità politica dell’Europa.
Al Teatro Regio, uniti intorno a Bersani, ci saranno i primi ministri Elio Di Rupo (Belgio), Zoran Milanovic (Croazia) e Victor Ponta (Romania), il ministro dell’economia francese Pierre Moscovici e quello degli esteri olandese Frans Timmermans, il presidente del Parlamento europeo Schulz, il presidente del Pse Sergei Stanishev, il leader del gruppo dei Socialisti e democratici a Strasburgo Hannes Swoboda. Ci saranno i leader dei partiti progressisti
europei Harlem Désir (Ps), Gonzalo Rubalcaba (Psoe) e Sigmar Gabriel (Spd) e anche l’ex cancelliere tedesco Gerhard Schroder.
Hollande invierà un videomessaggio che, stando alle indiscrezioni che arrivano d’Oltralpe dovrebbe essere qualcosa di più di un semplice augurio di buon lavoro, e cioè un discorso di sostegno alla campagna elettorale dei progressisti italiani.
La due giorni, così com’era stato per la firma del «manifesto di Parigi», è organizzata dalla Fondazione per gli studi progressisti europei (Feps) presieduta da Massimo D’Alema, che aprirà i lavori, dalla Fondazione Italianieuropei, dalla fondazione francese Jean Jaurès e dalla tedesca Friedrich Ebert Stiftung. Si deve proprio a questi istituti, vicini rispettivamente al Pd al Ps e all’Spd, il lavoro preparatorio dell’appuntamento e del documento che verrà siglato dai vertici progressisti europei.
Se la carta di Parigi era soprattutto dedicato alla crisi economica, finanziaria e sociale, la «dichiarazione di Torino» si concentra essenzialmente sul tema dell’unione politica dell’Europa. Al documento stanno lavorando studiosi scelti dalle diverse fondazioni. Per l’Italia partecipano all’elaborazione del documento Giuliano Amato, il docente di Istituzioni di diritto pubblico Cesare Pinelli e l’europarlamentare e docente di Storia contemporanea Roberto Gualtieri. Ci vorrà ancora qualche giorno per la stesura definitiva ma il senso del testo è che se non c’è una vera unione politica, se non si affronta il problema della fragilità democratica dell’Unione europea, non si riuscirà a ridare forza e legittimità alle istituzioni comunitarie.
Proprio per sottolineare i rischi di oggi e le opportunità per il domani, il titolo del «manifesto di Torino» dovrebbe richiamare ai concetti di pace, prosperità e progresso. Nelle quattro pagine che stanno girando per le stanze delle fondazioni e delle sedi di partito di Roma, Parigi e Berlino si insiste sul fatto che la crisi economico e finanziaria ha messo in luce la debolezza della governance dell’euro, che l’introduzione della moneta unica non è stata accompagnata da una vera unione economica e che questo ha provocato una mancanza di stabilità.
Per voltare pagina, i partiti progressisti europei propongono di realizzare una sovranità condivisa, utile a fronteggiare la crisi e anche a ridare ai cittadini fiducia nel progetto comunitario. Nel documento, che dovrebbe avere il via libera definitivo nella giornata di venerdì, si dice che l’economia globale richiede una «democrazia sovranazionale» e che l’unione politica dell’Europa è la condizione per dare la vecchio continente un modello di governance economica in grado di garantire stabilità, crescita e solidarietà.
L’intera operazione riuscirà però se gli equilibri comunitari continueranno a spostarsi a favore del fronte progressista. Dopo la Francia, ora gli occhi sono puntati sull’Italia. La due giorni di Torino servirà anche a mostrare che sono in tanti, oltre confine, ad auspicare la vittoria di Bersani. Dice Schulz: «L’Italia si merita di meglio. Deve voltare pagina. L’Europa ha bisogna di una Italia stabile e giusta, con un governo progressista dotato di piena legittimità politica e di una maggioranza chiara. Solo così è possibile cambiare il Paese e, con un’Italia progressista, cambiare l’Europa».

l’Unità 4.2.13
Democrazia, manifesto-bis in Europa
di Paolo Soldini


TRA VENTI GIORNI SI VOTA IN ITALIA. TRA SETTE MESI SI VOTA IN GERMANIA. Comunque vadano le cose e scansando accuratamente il campo minato delle profezie, si può ragionevolmente pensare che nell’autunno prossimo lo scenario politico europeo sarà in ogni caso cambiato. Tra meno di un anno, poi, si voterà in tutti i paesi dell’Unione per eleggere un nuovo parlamento europeo. E forse anche per scegliere direttamente il presidente della Commissione di Bruxelles. Siamo, per dirla con un’espressione un po’ consunta, in un momento davvero cruciale. Venerdì e sabato prossimi, a Torino, studiosi e dirigenti dei partiti socialisti e democratici partiranno dalla solida sostanza di questi fatti per discutere il futuro dell’iniziativa politica dei progressisti europei. Lo hanno già fatto una volta, più o meno nella stessa forma, nel marzo dell’anno scorso a Parigi, quando François Hollande lottava per portare se stesso e un socialista alla guida della Francia. Il manifesto di Parigi («Renaissance for Europe») indicava sostanzialmente modi e forme di un impegno comune, concordato tra i diversi partiti nelle loro realtà nazionali, per andare oltre la politica dell’austerità di bilancio che, propugnata soprattutto dalla Germania della cancelliera Merkel ma sancita dalle autorità di Bruxelles, era allora dominante ma cominciava a mostrare già le crepe che poi si sarebbero manifestate pesantemente nella recessione indotta praticamente in tutti i paesi dell’Unione, anche in quelli virtuosi in fatto di bilanci. Da quel che si può capire, la dichiarazione sulla quale stanno lavorando le fondazioni vicine ai partiti e che verrà resa pubblica solo nei prossimi giorni andrà oltre i contenuti del manifesto di Parigi perché cercherà di dare alle indicazioni che quello conteneva in materia di politica economica e sociale una base politico-istituzionale: la ripresa forte di un «discorso sull’Europa» che dovrebbe toccare il futuro del suo assetto, il cammino verso una più profonda integrazione politica e il modo in cui questa maggiore integrazione dovrebbe tradursi nell’equilibrio dei poteri e delle competenze. A cominciare dalla questione che più di ogni altra ha dominato e domina l’orizzonte dei sentimenti di distacco, dei dubbi e delle scontentezze in modo sempre più evidente diffusi tra i cittadini europei: quella della democrazia. Sono anni e decenni che si parla del «deficit di democrazia» insito nel sistema consolidato delle cessioni di sovranità nazionali prescritte prima dalla Comunità europea e poi dall’Unione. Il problema si è fatto più acuto, fino a divenire insopportabile, con le risposte che i paesi dell’Unione stessa, specie i più forti, hanno dato alla crisi dell’euro. Sempre più il livello delle decisioni si è spostato scavalcando gli strumenti classici della rappresentanza democratica: i parlamenti, gli istituti referendari, in buona misura persino i governi. Questo deficit è avvertito in modo acuto dalle opinioni pubbliche, alimenta rancori e populismi, e in qualche caso è arrivato nei massimi consessi giuridici nazionali, com’è stato il caso, ad esempio, in una serie di sentenze della Corte costituzionale tedesca. Restaurare, o forse meglio: costruire ex novo, la democraticità della governance europea è possibile però soltanto riprendendo la spinta all’integrazione comunitaria. Negli ultimi anni abbiamo assistito a una predominanza dei metodi intergovernativi che è divenuta parossistica quando le fragilità dell’euro e i problemi dei debiti sovrani si sono fatti più forti. L’intera strategia per combattere la crisi, le iniziative e gli strumenti, è stata oggetto di accordi tra i governi che le istituzioni dell’Unione recepivano passivamente se non se ne facevano, com’è accaduto, corresponsabili. Un esempio chiarissimo di questa deriva è il Fiscal compact, ma anche i buoni interventi della Bce sono stati resi possibili solo da difficili negoziati tra i governi.
Se non fraintendiamo il senso del lavoro svolto dalle fondazioni, il senso politico della dichiarazione di Torino dovrebbe stare proprio nella consapevolezza che una conversione della strategia economica dalla mera disciplina di bilancio a un organico disegno di crescita al cui centro ci siano il lavoro, gli investimenti e le tutele sociali non possa non fondarsi proprio su una ripresa forte dello spirito comunitario e federalista. Un passaggio importante, in questo senso, potrebbe essere una iniziativa comune di tutti i partiti per l’elezione diretta, nel 2014, del presidente della Commissione Ue, sulla scia di quanto ha già indicato il parlamento europeo. Se è così, si tratta di un programma impegnativo e, per le varie sinistre dei paesi europei, per niente scontato. Sappiamo quanto anche a sinistra sia stata controversa, finora, l’adesione piena a visioni di piena integrazione e di quanto ancor oggi si soffra, in certi paesi e in certi partiti, a sentir parlare di cessioni di sovranità. Si può sperare che, per questa via, Torino sia l’occasione di un rilancio di idee, proposte e programmi anche per partiti che nelle loro campagne per le elezioni non hanno brillato, finora, per iniziativa.

l’Unità 4.2.13
Il vantaggio è +6 Deciderà il voto delle classi deboli
di Carlo Buttaroni
presidente Tekné


LA CAMPAGNA ELETTORALE È TUTTA MEDIATICA MA GLI INTERESSI SOCIALI NON SONO SCOMPARSI

Le prossime elezioni segneranno un passaggio storico della nostra Repubblica. Sicuramente sono le più mediatiche e new-mediatiche. Elezioni 2.0, si dice. Ma la «modernità» e le tecnologie al servizio del consenso stanno facendo perdere di vista un aspetto cruciale: il peso della componente sociale negli esiti elettorali. Studiosi come Ballarino, Schadee e Vezzoni, ricordano come «l’associazione tra classe e voto in Italia non è affatto sparita, né sta sparendo. Il concetto di classe conta, a dispetto delle mode intellettuali che lo vogliono defunto e inutilizzabile».
I cambiamenti, semmai, sono stati nella composizione delle classi stesse. Vent’anni di globalizzazione, infatti, hanno modificato l’agglomerato inizialmente composto prevalentemente da operai, a cui si sono aggiunti progressivamente gli impiegati e i lavoratori del settore terziario. Gruppi accomunati da bassi salari e assediati da una crescente precarietà. E non è un caso se proprio in questi paesaggi sociali tendono ad affermarsi i partiti populisti.
Anche negli ultimi anni, in Paesi grandi come gli Stati Uniti o la Francia, la nuova middle class proletarizzata è risultata determinante nel risultato elettorale. Su Obama, ad esempio, sono confluiti i voti dei lavoratori, della classe media, degli operai del settore dell’auto salvato dall’intervento pubblico. «Obama si è schierato con i lavoratori quando ne avevamo bisogno», aveva ricordato il leader del sindacato dei metalmeccanici invitando al voto i propri iscritti. Spesso dimenticata, talvolta data per estinta, la classe operaia si è riaffacciata quindi anche sulla scena politica americana. E il voto dei «colletti blu» è stato determinante per Obama proprio negli Stati-chiave come l’Ohio, dove hanno sede gli stabilimenti Chrysler e molte aziende dell’indotto.
Il tasso di disoccupazione è diminuito negli Usa, in un anno, di oltre un punto e mezzo e la crescita viaggia più velocemente che altrove. Ma proprio qui, a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, la crisi dell’industria manifatturiera, e il calo del peso delle organizzazioni sindacali, determinarono il progressivo distacco dei lavoratori dal Partito democratico americano. Ai leader democratici veniva rimproverato di occuparsi solo di minoranze etniche, e di soggetti assistiti dal welfare. Obama ha cercato di ricomporre la frattura all’interno della middle class, consapevole che tra i lavoratori travolti dalla crisi si giocava la vittoria su Romnie. Un processo di avvicinamento iniziato già nella campagna elettorale del 2008, quando, nel celebre discorso di Filadelfia, il presidente ricordò che «il vero problema non è che qualcuno con una pelle diversa possa rubarti il lavoro, ma che a rubartelo sia l’azienda per cui lavori, per trasferirlo all’estero e aumentare il profitto».
Anche in Francia il voto dei lavoratori è stato determinante. François Hollande e Nicolas Sarkozy aprirono il duello delle presidenziali con un inedito confronto proprio sulle classi medie e popolari, accusandosi a vicenda di non volerle tutelare. Nel 2007 proprio Sarkozy aveva vinto grazie al voto di operai e impiegati, con la promessa di aumentare il potere d'acquisto e di far «lavorare di più per guadagnare di più». Cinque anni dopo è stato il divorzio da quelle fasce ad aprire ad Hollande le porte dell’Eliseo.
Secondo Christophe Guilluy, l’organizzazione sociale del XXI secolo nei Paesi più avanzati rappresenta la sconfitta delle classi popolari. Perché le classi dominanti riescono ad erigere barriere in loro difesa, . .. culturali mentre i più deboli non ci riescono e chiedono che lo faccia lo Stato. La stessa prospettiva del multiculturalismo è diversa se si guadagnano 800 o 10 mila euro al mese. Per vincere la sfida presidenziale François Hollande è riuscito a parlare a coloro che rischiano di scivolare nella periferia sociale, promettendo di ridurre le distanze.
Non ha conquistato tutti i voti, ma ha recuperato quel tanto che è bastato a riportare un socialista alla presidenza.
In Italia si confonde la «fine del voto di classe» con quello che, in realtà, è il declino della capacità di mobilitazione dei partiti. Ma intanto la condizione sociale pesa negli orientamenti elettorali, eccome se pesa. Per molti versi il «voto di classe» si è persino rafforzato a partire dagli anni 90. La sociologia del voto 2008 evidenzia differenze profonde nel comportamento elettorale. Il tasso di astensionismo, per esempio, è molto più elevato tra i disoccupati e, quanti di questi sono andati a votare, si espressi decisamente a favore del centrodestra. Anche tra i lavoratori autonomi e gli imprenditori l’orientamento a destra è più alto della media, mentre i lavoratori precari, nelle passate elezioni, hanno prevalentemente scelto il Pd.
Sicuramente chi è istruito, chi ha un reddito medio-alto ed è inserito in una rete di rapporti, ha più facilità ad avvicinarsi alla sfera politica. Mentre invece a scoraggiare molti cittadini è l’estraneità maturata nella loro vita quotidiana e l’esperienza di una politica spesso impotente nelle cose che contano di più. Partecipa attivamente alla vita politica chi ha (o ritiene di avere) possibilità di incidere. Per questo motivo, da tutte le analisi emerge con chiarezza una configurazione piramidale della partecipazione politica che corrisponde alla configurazione sociale, dove, partendo dal basso e salendo verso il vertice, sono coinvolte quote di popolazione progressivamente sempre minori. Al vertice di questa piramide c’è un nucleo piuttosto ridotto di cittadini fortemente impegnati nella sfera pubblica. Subito al di sotto, si trova una seconda e più ampia fascia di persone che costituisce quella che si può definire «l’opinione pubblica attenta», meno coinvolta del vertice, ma che segue comunque con attenzione il dibattito politico. Un terzo e un quarto livello, più ampi, sono composti dai gruppi socialmente più deboli, quando non marginali, che rappresentano settori della popolazione generalmente poco informati, scarsamente interessati e solo occasionalmente coinvolti. In passato, le reti politiche territoriali costituivano agenti di mobilitazione capaci di fornire occasioni di partecipazione anche alle fasce più popolari. Oggi queste reti si sono notevolmente indebolite. Eppure la componente «sociale» è ancora più importante che in passato nel determinare l’esito del voto. Perché la crisi economica ha fatto scivolare ai margini della società pezzi importanti del ceto medio: e soprattutto chi propone un cambiamento politico ha bisogno di una relazione forte con quei cittadini.

Corriere 4.2.13
L’ex premier spera di guadagnare un 2% E i sondaggisti: la mossa lo aiuta
di Dino Martirano


Alessandra Ghisleri La sondaggista vicina al Cavaliere ha già avviato una rilevazione Marco Bocconi C'è un parallelo tra questa scelta e il contratto con gli italiani
ROMA — Promosso, almeno dai sondaggisti che (ancora a corto di numeri e percentuali sulla mossa choc) vedono in lui il campione della comunicazione. E stavolta, osserva Nicola Piepoli — che cita il saggista Ronald Shone, esperto tra l'altro di tecniche di autoipnosi — il Cavaliere ha applicato una metodologia semplice quanto efficace: «Quella della "visualizzazione creativa"». Davvero «molto bravo — insiste Piepoli — perché Berlusconi ha fatto "vedere" ai telespettatori l'atto della restituzione del "maltolto" in uno dei 15 mila uffici postali disseminati nel territorio nazionale». Insomma, l'ex premier, «agli occhi di quella parte della popolazione che possiede solo una casa modesta, ha reso credibile la sua proposta choc: basterà andare all'ufficio postale più vicino con la ricevuta delle due rate dell'Imu 2012. E lì scatterà il "risarcimento" per la "tassa ingiustamente pagata". Il messaggio è comprensibilissimo». E poco importa se al momento i soldi non ci sono in cassa visto che lo Stato non ha di che pagare nei tempi di legge i suoi fornitori. Ed è un dettaglio ricordare che l'Imu fu varata dal governo Berlusconi e inasprita dal tecnico Monti anche con i voti del Pdl. Per i sondaggisti, conta l'effetto dell'annuncio che parla alla pancia degli elettori. Roberto Weber della Swg di Trieste conferma che i più sensibili alla proposta sulla restituzione dell'Imu sono gli incerti: «Berlusconi punta con forza sui disorientati e sui delusi dal centrodestra. Poi il Cavaliere cerca di dare un profilo più marcato al suo elettorato: lo scopo è quello di restituire una prospettiva a un popolo di centrodestra che solo fino a poche settimane fa era allo sbando». Dunque, quanto pesa in termini di punti percentuali la promessa di Berlusconi? I fedelissimi del Cavaliere lo avrebbero galvanizzato prospettandogli un balzo in avanti del 2-3% nei sondaggi. Si vedrà. Alessandra Ghisleri (Euromedia Research) ha già lavorato in gran segreto alle simulazioni sul tema Imu e ora, che l'annuncio è stato fatto, si appresta a tirare le reti per fornire a Berlusconi i dati veri raccolti sul campo. Altri esperti osservano che è ancora «molto difficile capire se e a chi sottrarrà voti questa mossa del Cavaliere, anche se il suo intento dichiarato è quello di pescare nell'area de delusi dal centrodestra che oscillano tra il non voto, il Pdl e la lista Monti». In ogni caso, da oggi i sondaggisti potranno mettere a fuoco il tema. Due sono le domande:«Lei, per chi vota?» e «Ritiene credibile la proposta di restituire l'Imu?». In mancanza di numeri, tuttavia, Piepoli azzarda: «Mettiamo, per esempio, che questa proposta faccia guadagnare l'1%: lo 0,25% arriva da Grillo, lo 0,25 dall'area del non voto e il rimanente 0,50% è spalmato su tutti i partiti». Per il ricercatore indipendente Marco Bocconi, infine, Berlusconi «è l'unico leader che sa usare gli strumenti di comunicazione. Lo ha fatto con il contratto con gli italiani e con il bollo auto e ora si ripete con Balotelli e la restituzione dell'Imu». Resta da vedere, e questo è il tema principe per i sondaggisti nei prossimi giorni, se gli italiani gli credono ancora.

Repubblica 4.2.13
La promessa di Berlusconi
Molto dipenderà dalla capacità dell’ex presidente del consiglio di essere credibile
I sondaggisti lo promuovono “Mossa disperata ma funziona”
di Annalisa Cuzzocrea


ROMA — Silvio Berlusconi ha sempre amato le “proposte shock”. Il nuovo miracolo italiano, un milione di posti di lavoro, le grandi opere, la cura per il cancro, meno tasse per tutti, sono stati cavalli di battaglia delle sue passate campagne elettorali. Cavalli vincenti, per altro. A seconda dei casi, pur restando materiale da libro dei sogni, lo hanno aiutato ad arrivare primo o a fare grandi rimonte.
Sarà così anche stavolta? La promessa di restituire l’Imu agli italiani funzionerà? Secondo Roberto D’Alimonte, professore di Sistema politico italiano alla Luiss di Roma, quella del Cavaliere è una «mossa disperata». E tutto, ora, dipenderà dal fattore “C”. Ossia da quanta “credibilità” riscuote ancora il leader del centrodestra. E però, spiega Nicola Piepoli, «la proposta scioccante è stata formulata in maniera pratica. Dicendo anche come avverrà la restituzione, in quanto tempo. Una serie di dettagli che mirava proprio ad aumentarne il tasso di credibilità. Riuscendoci». E quindi «senz’altro funziona. Il problema è stabilire quanto. E con chi».
«Tutti oggi vorrebbero vedersi restituita la tassa sulla casa - conferma Fabrizio Masia, di Emg ma non possiamo ancora dire quanto sposta una proposta del genere. Bisognerà lasciar passare del tempo, almeno 4-5 giorni, prima di avere un sondaggio indicativo ». Una cosa però è certa: «Non porta via il consenso acquisito». È d’accordo Roberto Weber, presidente di Swg: «Berlusconi continua a puntare sul recupero dei suoi, sono i delusi del centrodestra che davanti a un’uscita del genere potrebbero essere tentati di dire: “Ma sì”. Nei loro confronti, Berlusconi ha reso più appetibile la sua offerta. Ha dato una prospettiva, dimostra di esserci, e di essere sempre lo stesso».
Non ne è certo il direttore di Ipr Marketing Antonio Noto: «Bisogna capire se gli italiani gli credono o non gli credono. Soprattutto, se gli crede quella parte di elettorato indeciso che in questo momento è decisivo e che oscilla tra il 15 e il 20 per cento. Uno zoccolo duro che nelle ultime settimane è rimasto fermo, e che probabilmente deciderà all’ultimo momento ». Perché «una cosa era 5 o 7 anni fa, un’altra Berlusconi oggi. La proposta è forte, è vero, è ben rappresentata, ma potrebbe essere tanto forte da non essere credibile. L’acquisto di Balotelli o l’estromissione di Cosentino dalle liste, per esempio, non hanno spostato nulla».
Non ci si può basare sulle reminiscenze del passato, Weber è d’accordo: «Le promesse mirabolanti Berlusconi le fa da sempre, ma era un momento diverso. Oggi la credibilità delle forze politiche è al minimo storico». È su questo, che si concentra D’Alimonte, secondo cui «Berlusconi comprende di essere indietro e di dover fare qualcosa di eclatante per rendere possibile una rimonta ». Tanto più l’impresa è difficile, tanto più il leader del Pdl ci ha messo impegno: «Ha circostanziato la promessa, ha detto che i soldi li prenderà dall’accordo con la Svizzera. Ci ha messo dentro anche l’abolizione del finanziamento pubblico, una delle cose che gli italiani desiderano di più». In una parola, ha cercato di risultare credibile perché sa di non esserlo: «Nel sondaggio che Demos ha fatto per Repubblica è ai livelli più bassi di sempre. Soprattutto, è più in basso di tutti gli altri leader ». Al 20,8 per cento di popolarità contro il 64,7 di Renzi, il 48,5 di Bersani, il 42,5 di Monti, il 35 di Grillo. «Ha una credibilità bassissima, ma ha ancora temi, issues, su cui puntare. Bisognerà capire se riuscirà a colpire nel segno, a far scattare un meccanismo per cui i delusi diranno: proviamoci ancora. Crediamogli un’ultima volta».

Corriere 4.2.13
Grillo primo partito tra gli under 23 Il Pd è vicino, Pdl fermo al 12-13%
Giovani, cresce la voglia di votare. Democratici avanti tra i 24-34enni
di Renato Mannheimer


C'è chi, come il sottoscritto, ha visto, nel corso della sua vita, il dipanarsi della prima e della seconda Repubblica e che voterà a fine mese per l'ennesima volta, inevitabilmente memore anche di quanto è accaduto nei decenni passati. In questi casi, il giudizio è formulato anche sulla base dell'esperienza e della credibilità attribuita a questo o a quel leader, a questo o a quel partito.
Ma per i giovanissimi non è sempre così. Una quantità rilevante di elettori voterà in questa occasione per la prima volta. Ci sono oggi in Italia quasi 4 milioni di cittadini tra i 18 e i 23 anni, che affrontano per la prima volta delle consultazioni politiche a livello nazionale. Molti di costoro decideranno specialmente sulla base delle valutazioni e delle impressioni maturate in questa specifica campagna elettorale. A questi si possono anche affiancare i quasi 8 milioni di elettori che hanno tra i 24 e i 34 anni, la cui storia elettorale è comunque relativamente breve. Qual è l'orientamento prevalente di costoro e, in generale, quali sono le scelte che caratterizzano i più giovani?
Nel considerare la distribuzione delle intenzioni di voto delle ultime generazioni, colpisce anzitutto il dato relativo alla elevata partecipazione tra i neo elettori. Sino a qualche tempo fa, infatti, tra i giovani si manifestava il fenomeno contrario: erano tantissimi, fino al 50%, coloro che dichiaravano di volersi astenere, motivando spesso questo comportamento con la difficoltà di comprendere le logiche della politica o una percezione di irrilevanza di quest'ultima. In questa occasione, il quadro pare cambiato: si registra tra chi affronta per la prima volta il voto una rinnovata voglia di esserci e, di conseguenza, di prendere parte alla consultazione. Ciononostante è rimasto, nelle nuove generazioni — specialmente nella più giovane — un atteggiamento di forte scetticismo — se non di disprezzo — nei confronti della politica tradizionale. Si spiega anche così il particolare successo ottenuto dalla lista Movimento 5 Stelle tra chi ha meno di 35 anni e, ancor più, tra chi si colloca sotto i 23. Tra questi ultimi, i 18-23enni, Grillo riesce a conquistare quasi un terzo di elettorato (30,4%), vale a dire il 17% in più che nella popolazione nel suo insieme. In questa categoria di età, il M5S diventa il partito più votato in assoluto, superando, seppur di poco, il Pd. Inoltre, il consenso al M5S appare ancora più elevato tra quei giovani che si trovano in una condizione sociale più difficile perché disoccupati. Ma anche tra i 24-34enni il Movimento del comico genovese ottiene un largo successo, giungendo quasi al 19%, il 5% in più di quanto rilevato tra tutti gli italiani, con una maggiore accentuazione, anche in questo caso, tra chi non ha lavoro. È vero che tra costoro il Pd si conferma come primo partito, al pari di quanto accade per la popolazione nel suo complesso, ma il M5S si colloca nettamente come secondo.
Questo successo del Movimento 5 Stelle è «pagato» da quasi tutti gli altri partiti che ottengono, infatti, tra i giovani un consenso inferiore rispetto alle altre generazioni. La differenza più elevata si riscontra riguardo al Pdl che fa rilevare, tra i 18-23enni, un seguito (pari al 12-13%) di quasi il 7% inferiore alla media nazionale. Ma anche gli altri grandi partiti, come la Lega o il Pd, sembrano (seppure in misura molto inferiore al Pdl) interessare meno le nuove generazioni. Un'eccezione relativa si riscontra solo per alcune delle liste che si collocano su posizioni più estreme (e che un tempo raccoglievano una larga parte del voto giovanile) come Sel da un verso e Fratelli d'Italia dall'altro. Queste formazioni esprimono infatti tra i più giovani un saldo di voti positivo per il 2-3 per cento.
È dunque tra i giovani che affrontano per la prima volta le urne che si riscontra, assai più che in altre categorie, l'atteggiamento di critica generalizzata alla politica (o, talvolta, di antipolitica) che connota il Movimento di Grillo. Se dipendesse solo dai 18-23enni, il comico genovese conquisterebbe alla Camera, secondo l'attuale legge elettorale, la maggioranza assoluta dei seggi. Un forte monito per i partiti tradizionali.

La Stampa 4.2.13
Un Pd troppo attendista si ritrova (ancora) a inseguire il Cavaliere
Mal gestito il vantaggio che gli attribuivano i sondaggi
di Fabio Martini


Il segretario Pd Pier Luigi Bersani ha puntato molto sull’«usato sicuro» forte del grande vantaggio iniziale nei sondaggi

A forza di aspettare, è arrivata la zampata del Cavaliere. E rischia di far male. Per un motivo che trova d’accordo i «registi» dell’ultima vittoria del centrosinistra quella del 2006, che però fece registrare anche - e qui sta il punto dolente - una formidabile rimonta di Silvio Berlusconi: l’errore che il Pd che potrebbe ripeterere sette anni dopo è l’attendismo, limitarsi ad amministrare passivamente il vantaggio accumulato nei mesi precedenti. Sostiene Claudio Velardi, capo dello staff di Massimo D’Alema ai tempi di Palazzo Chigi: «Finora Bersani non ha fatto una proposta che sia una, ha scelto l’usato sicuro ma a questo punto la campagna elettorale non la guida lui, l’ha presa in mano Berlusconi e puoi solo andargli dietro». Sostiene Silvio Sircana, portavoce di Romano Prodi nella campagna del 2006, vittoriosa per un soffio: « Col vantaggio che aveva, il Pd avrebbe potuto fare la sua campagna a testa alta, senza curarsi degli altri. E invece si è scelta la strada del gioco di rimessa, ma vivendo di rendita e rinunciando ad un messaggio emozionale-sentimentale, si rischia».
Nella memoria dei capi del Pd ci sono almeno due campagne elettorali con Berlusconi in campo, che dovrebbe essere impossibile dimenticare: quella del 1994, quando Achille Occhetto, forte delle vittorie in grandi città e di sondaggi incoraggianti, coniò baldanzosamente la «gioiosa macchina da guerra», ma poi fu nettamente sconfitto. Quella più recente, del 2006, quando a tre mesi dalle elezioni i principali istituto di sondaggio concordavano nell’accreditare l’Unione di Prodi di 5-6 punti di vantaggio che parevano quasi incolmabili. In quella occasione però Berlusconi fu protagonista di una grande rimonta, grazie a due «numeri»: lo show alla Convention di Confindustria a Vicenza dove prese di mira gli «imprenditori di sinistra», i grandi quotidiani, il «pessimismo dilagante»; il secondo show arrivò in coda al secondo dei match televisivi con un Romano Prodi fino a quel punto giudicato molto efficace dagli osservatori ma che fu colpito al cuore dalla inattesa promessa berlusconiana di togliere l’Imu.
Un precedente, assieme a tanti altri, che avrebbe dovuto «vaccinare» la sinistra e spiazzarla un po’ meno di quanto non appaia in queste ore? «Una cosa è certa - dice Roberto Weber, leader di Swg, uno dei più accreditati istituti di sondaggi - la sinistra invece di demonizzarlo, dovrebbe studiarlo bene Berlusconi». Un modo soft per dire che dopo 20 anni e tre sconfitte, la sinistra ancora non conosce il Cavaliere, o quanto meno non ha imparato a contrastarlo? «Vogliamo dirla tutta? Il punto non è Berlusconi è la sinistra» sostiene ancora Velardi, anni fa autore di un libro importante, «L’anno che doveva cambiare l’Italia», che raccontò le elezioni del 2006. E spiega: «Berlusconi sta messo peggio che nel 2006, è una statua di cera che si porta dietro la storia delle Olgettine e le tante sconfitte. La sua credibilità è scesa da tempo, ma nel frattempo non è aumentata la credibilità della sinistra. Il Pd alla fine vincerà ma con un margine ristretto e questo perché si è presentato con un profilo vecchio e con un messaggio dai toni talmente dimessi che oramai è impossibile cambiare: Bersani ha puntato da anni su questo profilo».
Sul breve come reagire alla sortita berlusconiana? Come neutralizzarla? «Io - dice Giulio Santagata, responsabile della campagna dell’Unione del 2006 - non avrei fatto prendere a Berlusconi lo spazio che ha preso, ma a questo punto va fatta un’operazione-verità, con tanto di date. Le promesse del passato, o non le ha mantenute. O quando le ha mantenute, sono state un disastro, non stavano in piedi. Si può sintetizzare così: l’abolizione integrale dell’Ici l’abbiamo pagata con l’Imu». Sostiene Weber: «Due strade: puntare sulla ragionevolezza e rimotivare al massimo il proprio elettorato». Ma alla fine, dopo il rientro definitivo in campo di Berlusconi, uno come Velardi che conosce la forma mentis dei capi del Pd non ha dubbi: «Per negarla o per contrastarla, per 20 giorni si parlerà di Imu e al Pd non resterà che tornare a demonizzare il pericolo di Berlusconi per recuperare qualche voto».

Repubblica 4.2.13
La paura del capo centrista per i consensi in discesa dell’Udc: “Se andiamo al 3% non tengo il partito. Vogliono rendermi irrilevante”
E tra il Professore e Casini ora cala il gelo
di Tommaso Ciriaco


ROMA — «Credevamo di arrivare al 5%, ora speriamo nel 4%. MA con il 3% non tengo il partito, io non ci sto dormendo la notte... ». L’incubo di Pier Ferdinando Casini ha le sembianze di un flop elettorale. Il leader centrista accusa Mario Monti di averlo condotto per mano in un vicolo cieco, saccheggiando il consenso dell’Udc a favore della sua lista personale. I due si sentono poco e da giorni a via dei due Macelli è scattato l’allarme. I sondaggi, infatti, fotografano un’emorragia di voti che nessuno riesce a tamponare. Uno scenario fosco. Anche perché tutti i sondaggi deprimono le sue aspettative. Sebbene i precedenti in qualche modo lo consolano: «I sondaggisti ci sottostimano sempre». Ma per reagire all’emergenza, il capo dell’Udc ha deciso di intraprendere una campagna tv che lo porterà a Ballarò, Porta a Porta e Otto e mezzo.
Ora, però, la tensione sta aprendo uno vero e proprio scontro dentro il Listone centrista. L’Udc, infatti, imputa la discesa verticale dei consensi soprattutto a Monti. Alla sua lista personale che alla Camera ruba consenso allo Scudocrociato e alla scelta di condurre una campagna elettorale “aggressiva” che mette in ombra gli alleati. Casini l’ha capito bene e sta organizzando le contromosse. Ha consegnato agli ambasciatori del Professore un messaggio: «Se puntate a rendermi irrilevante, io sono pronto a fare un gruppo autonomo al Senato... ». Certo, lo scenario scissionista è giudicato dai centristi più avveduti solo una provocazione per evitare di «prendere un’altra fregatura dopo il voto». Non solo perché i candidati del listone di Palazzo Madama hanno sottoscritto un impegno ad aderire al gruppo unico, ma anche perché solo se l’area Monti infrangerà la soglia del 18%, allora i “casiniani” avranno la speranza di eleggere 10 senatori, il minimo per formare un gruppo autonomo. Non solo. L’ex presidente della Camera ha iniziato a prendere le distanze dagli attacchi del Professore al Pd. Lui vuole mantenere aperto il dialogo con Bersani e D’Alema. E, in caso, anche avviare un dialogo “autonomo” con i Democratici se Monti dovesse arrivare ad una frattura con i futuri alleati e se non dovesse adeguatamente tutelare gli interessi centristi. Che nel caso di Casini significa la presidenza del Senato. Insomma il leader Udc non vuole il ruolo del semplice «donatore di sangue».
Sta di fatto che il peso delle tre liste montiane della Camera determinerà a urne chiuse anche gli equilibri dell’area di centro. Servirà a stabilire le quote del partito che verrà, se davvero si concretizzerà la prospettiva messa nero su bianco davanti al notaio. In questo senso l’attivismo di Andrea Riccardi rappresenta un ulteriore campanello d’allarme. Il ministro coltiva da sempre un legame importante con l’associazionismo bianco e con le gerarchie vaticane. Ha strappato per diversi “cattolici doc” posti utili in lista e nel suo tour in giro per l’Italia non manca mai di fare tappa anche nelle sedi vescovili. Per gli Udc una temibile calamita dei voti cattolici.

Repubblica 4.2.13
Quei centomila voti in Lombardia che decideranno le sorti del governo
La battaglia dei leader per conquistare i seggi del Senato
di Curzio Maltese


MILANO NELLE piazze, ai mercati, ai cancelli delle fabbriche, i candidati inseguono gli elettori che corrono a casa davanti alle televisioni, mai così padrone del gioco, neppure quando Berlusconi era davvero Berlusconi e non la maschera di Carnevale di se medesimo. Se poi al dato meteorologico si aggiunge il clima politico, l’inverno dell’antipolitica e una certa algidità dei candidati, tira davvero un freddo da biscia. Non ho mai visto in tanti anni in Lombardia una campagna elettorale così decisiva eppure tanto fredda, pallida e smorta. Il voto dell’Italia si decide in Lombardia e quello lombardo in un’area pedemontana di quattro milioni di abitanti. Alla fine, spiegano gli esperti, significa che il futuro governo del Paese, maggioranza e minoranza in Parlamento, spread e compagnia, tutto può essere deciso da centomila voti nella fascia di paesotti da Varese a Brescia. Gli stessi centomila voti indecisi che da settimane fanno ballare la bilancia dei sondaggi, ora dalla parte del centrosinistra, ora sull’asse Pdl-Lega, un punto o due al massimo.
Con una simile posta in gioco, ti aspetti di assistere a una battaglia campale, pancia a terra, comune per comune, quartiere per quartiere.
Tanto più che per la prima volta mancano le due macchine da guerra che hanno dominato la scena lombarda e non solo degli ultimi venti anni, Roberto Formigoni e Umberto Bossi. Formidabili animali da campagna elettorale, capaci di battere ogni borgo pur di ramazzare un altro pugno di voti. Oggi Formigoni passa la giornata a twittare con rancore e il Senatur a casa ad arringare il Trota. Il campo è libero. Ma nessuno se lo prende. Il candidato del primo centrosinistra che potrebbe vincere la Lombardia, l’avvocato Umberto Ambrosoli, ha finora svolto una campagna definita dai giornali di Varese e Bergamo «milanocentrica », il che da queste parti equivale a un insulto. Ambrosoli si è sforzato di tenere fuori i partiti, circondato da un pezzo di società civile milanese, nomi peraltro non famosissimi neppure in città, e di non usare mai la memoria del padre Giorgio, eroe boghese di un’altra Italia. Nobile scrupolo, non fosse che qui nella grande provincia già molti non ricordano Giorgio Ambrosoli e scambiano il cognome con «quello delle caramelle », abituati a vedere figli di industriali nelle schiere del centrosinistra. È difficile avvistare oltre la cerchia dei Navigli pure Gabriele Albertini, che sembra correre ancora per la poltrona di sindaco e non per il Pirellone. In compenso si vede dappertutto il faccione di Roberto Maroni, con i suoi manifesti tre per sei su sfondo azzurro e una vagonata di soldi a disposizione, «grazie ai fondi di Roma ladrona » come dice Albertini. Ma nei comizi «l’è minga il Bossi» sospirano i militanti. C’è poi la candidata del Movimento 5 Stelle, la quarantenne Silvana Carcano, accreditata di un 10 per cento, in disciplinata attesa dell’avvento di loro signore Beppe Grillo, l’unico che riempia le piazze a qualsiasi temperatura.
In mancanza di una campagna elettorale degna di questo nome, accade quel che può ed era prevedibile. Ogni settimana il vantaggio del centrosinistra, regalato dai disastri della giunta Formigoni, si è limato fino a scomparire, sotto i colpi della danarosa offensiva leghista e degli scandali e scandaletti. Quello grosso del Monte dei Paschi e quello minimo della Nutella, forse il più scemo della lunga storia degli scandali nazionali. I magistrati hanno mandato una raffica di avvisi di garanzia ai consiglieri del Pd in regione per rimborsi impropri, un paio per cifre superiori ai centomila euro, altri per quattro soldi compresa la Nutella («devo giustificare 3 mila euro in cinque anni, un euro e mezzo al giorno» fa il conto Pippo Civati), più sette avvisi di garanzia a consiglieri Pd per la somma di zero euro. Proprio così, zero euro, ma il fascicolo era già aperto. Ognuno può fare i dovuti paragoni con i 4,5 miliardi di multe regalati dalla Lega agli evasori delle quote latte e pagate dai contribuenti italiani, con i fantastiliardi spariti nei meandri della sanità «d’eccellenza» di Formigoni, con le tangenti rosse e milionarie del «sistema Sesto», con gli appalti loschi della ‘ndrangheta e perfino coi diamanti del «cerchio magico» di Bossi. Ma tanto basta, nel carrozzone di anti e telepolitica, per mettere tutti quanti nel mucchio dei ladri. Nella casa piacentina, un passo dalla terra da sempre straniera per la sinistra, Pierluigi Bersani non si dà pace e prepara la controffensiva. «Ai miei ho detto di alzare la voce.
Non è possibile che un barattolo di Nutella cancelli vent’anni di disastri, sprechi e furti. Non dobbiamo inseguire gli imbonitori, perché su quel terreno vincono loro. Ma neppure assistere da signori del fair play a questa indegna asta per l’ultimo voto. Berlusconi promette 30 miliardi di sgravi fiscali, più il rimborso dell’Imu. Maroni, invece di nascondersi per lo scandalo delle quote latte, rilancia con l’abolizione dell’Irap, dell’Imu e il bollo auto gratis. Grillo annuncia un salario garantito a tutti di mille euro al mese per tre anni, al modico costo di 100 miliardi per le casse dello stato. Più che la Lombardia del 2013, pare la Napoli del dopoguerra, con la differenza che almeno il comandante Lauro il pacco di pasta e la seconda scarpa poi glieli portava. Ma io mi rifiuto di credere che i lombardi abbocchino. Se gli facciamo discorsi seri sul lavoro, il credito, l’innovazione, ci seguiranno e si può vincere ». Il piano di Bersani prevede un’invasione negli ultimi giorni. Lui stesso partirà per un giro della pedemontana, sulle tracce di quella via dei distretti attraversata per anni con Enrico Letta, in una delle poche iniziative efficaci del centrosinistra nel Nord. Dice di aver parlato «quasi soltanto di Lombardia» nell’incontro fiorentino con Matteo Renzi, il quale ha accettato subito di lanciare la sfida nella tana del nemico, nella Varese della Lega e ora anche di Mario Monti. Si mobilita anche Nichi Vendola, che ha deciso di trascurare la sua Puglia per trasferirsi nella settimana decisiva al Nord: «Il paragone della Lombardia con l’Ohio delle elezioni americane è sbagliato per difetto _ nota il governatore _ La Lombardia è l’Ohio più la Florida più la Virginia. Si decide tutto là». Daniele Marantelli, detto il leghista rosso, che dirige il traffico della campagna del Pd nella pedemontana, saluta con sollievo gli annunci: «Questa è un’occasione unica per il centrosinistra. Come quando leggi in autostrada: prossima uscita 300 chilometri. Non capisco perché i leader del centrosinistra non abbiano già trasferito qui il quartier generale».
A voler combattere, gli argomenti non mancherebbero. Le promesse mancate del federalismo, il disastro delle politiche industriali di Berlusconi e Tremonti, gli scandali dell’era Formigoni, le decine di migliaia di aziende costrette a licenziare o a chiudere, il flop della Malpensa e così via. Senza contare lo spettro del fallimento dell’Expo 2015, un appuntamento al quale i lombardi continuano a credere meno degli stranieri, che si sono già iscritti in massa, con il record di 120 paesi partecipanti e oltre 20 milioni di visitatori previsti. Alla fine saranno centomila voti a decidere il governo della Lombardia e dell’Italia, più o meno gli abitanti di Varese città. Se la campagna elettorale non si scalda, se la gente rimane a casa a guardare le televisioni, non c’è neppure bisogno di sprecare i soldi dei sondaggi per sapere fin d’ora chi sarà il vincitore.

Repubblica 4.2.13
La posta in gioco delle elezioni
di Guido Crainz


Ma nei partiti e nel Paese c’è davvero consapevolezza della posta realmente in gioco? Stiamo avvicinandoci solo a importanti elezioni politiche o dobbiamo anche comprendere perché pesanti macerie si siano aggiunte a quelle, ingloriose e nefaste, della “prima Repubblica”? In realtà non può essere rimosso il nodo di una “seconda Repubblica” giunta sin sull’orlo del baratro, eppure la crisi drammatica di trent’anni di storia sembra affacciarsi nel dibattito politico solo come riferimento generico e quasi rituale. Non sembra aver innescato quei profondissimi ripensamenti che sarebbero necessari per avanzare ai cittadini proposte realmente credibili. In questo sostanziale vuoto sembrano muoversi molte dinamiche e molte “normali anomalie” di una campagna elettorale che ha talora risvolti surreali: una campagna in cui le battute di Maurizio Crozza inquietano qualche leader più degli attacchi degli avversari.
Registriamo così ogni giorno l’orgogliosa sicumera con cui Berlusconi rispolvera “patti con gli italiani” sprofondati da tempo nell’oblio e nel grottesco, o prendiamo atto di quella “concordia discors” fra contrapposte figure della politica-spettacolo che ci è riconsegnata dai talk show di Michele Santoro, ma non riusciamo a capire perché tutto questo possa essere riproposto con un qualche successo. Perché non sia crollato nei sondaggi un leader che ha portato il Paese alla rovina. Perché possano riaffacciarsi le figure più ridicole o più prive di pudore e credito, da Scilipoti a Storace. E perché sia stato così difficile per il centrodestra escludere dalle liste, e in extremis, almeno due o tre dei candidati più impresentabili. Anche sullo sfondo di questo vi sono sia mali cresciuti nel tempo sia un’assuefazione ad essi che non ha trovato anticorpi adeguati. L’indecente immagine di Berlusconi assopito durante la commemorazione della Shoah rischia così di proporci non solo e non tanto il ritratto eloquente di un leader senza principi e senza valori ma anche l’inquietante metafora di una parte del Paese.
Dove iniziare allora l’opera di risanamento? Quali forze mettere realmente in gioco per dare avvio ad un lavoro di lunghissimo periodo, ad una Ricostruzione economica, civile, politica ed etica? E quando, se non ora?
Nel modo con cui il centrosinistra si presenta agli italiani questa piena consapevolezza sembra spesso mancare. Sembra lontano quel colpo d’ala che sarebbe necessario per avanzare una proposta radicalmente nuova rispetto al passato: ad esempio rispetto alle sue precedenti prove di governo, terminate entrambe — al di là delle differenze — con pesanti sconfitte elettorali. Sconfitte che lasciarono segni profondissimi, e le cui ragioni non sono certo scomparse dalla memoria dei cittadini: difficile stupirsi, allora, se il Pd fatica ancor oggi a “sfondare” oltre la sua area tradizionale. Quali sono i cardini che differenziano più nettamente e chiaramente il centrosinistra attuale da quello di allora? E quali sono i nuovi, brucianti nodi sul tappeto? Si pensi almeno a quelli su cui possono far leva, strumentalmente, i peggiori populismi e la più nefasta antipolitica: ad es. la “questione Europa”, non affrontabile realmente senza un salto di qualità complessivo, non solo italiano. O le lacerazioni nel rapporto fra politica e cittadini, che avrebbero imposto da tempo risposte di moralizzazione drastiche ed esemplari. Davvero contro le sirene populiste è adeguato anche su questo terreno l’“usato sicuro”? È sufficiente cioè la riproposizione degli aspetti più presentabili della vecchia politica? Non sembra proprio che sia così. Molte vicende ci ricordano, ad esempio, che nella nostra Repubblica
l’occupazione partitica di ogni spazio possibile è male antico e consolidato, largamente precedente alle più recenti degenerazioni e alle indagini giudiziarie, e tale da estendersi anche a chi era stato a lungo escluso dal Palazzo. Lo racconta bene perfino la remota storia del vecchio Pci, coinvolto almeno in parte nella lottizzazione già al suo primo avvicinarsi all’area del potere: all’indomani delle elezioni del 1976 lo testimoniarono bene le nomine alla Rai, al Monte dei Paschi di Siena e in altre banche (questo giornale fu il più deciso nel segnalarlo criticamente). E dopo il 1989, nello sciogliersi e rifondarsi di quel partito, svanì rapidamente nel nulla la proposta di uscire anche unilateralmente dalle realtà più abnormi (ad esempio nella sanità), avanzata addirittura a Congresso dal suo segretario, Achille Occhetto. Alla lunga distanza è facile comprendere quanto sarebbe stato salutare invece accentuare ulteriormente una drastica distanza dalle pratiche e dalle derive di un sistema in sfacelo: pochissime voci, allora, continuarono a chiederlo.
Ancora alla vigilia di Tangentopoli, del resto, Norberto Bobbio scriveva: “Se questa prima repubblica (…) è alla fine, finisce male, malissimo. Per chi come me appartiene alla generazione che ha assistito piena di speranza alla sua nascita, questa considerazione è molto amara. La gestazione della seconda repubblica, se dovrà nascere, sarà lunga. Forse non avrò neppur il tempo di vederne la fine. Ma poiché, se nascerà, nascerà con gli stessi uomini che non solo sono falliti ma sono inconsapevoli del loro fallimento, non potrà che nascere male, malissimo, come male, malissimo è finita la prima”. Era il 1991, ma Bobbio decise allora di non pubblicare quell’articolo: gli sembrava troppo pessimistico. Più di vent’anni dopo esso ci appare profetico, e attuale.

Repubblica 4.2.13
Landini: “L’ad del Lingotto attacca tutto quello che non può comprare”
Ma Fassino applaude: Torino centrale nei piani aziendali
di Valentina Conte


ROMA — Marchionne provoca, Landini risponde. La temperatura dello scontro tra il manager e il sindacato a lui più ostile si alza quando ieri il numero uno della Fiat si rivolge con durezza a Volkswagen e Fiom. «Faccio fatica a pronunciare quel nome», dice riferendosi alla prima. «Presuntuosa » la seconda, a «pretendere un confronto». È evidente che «Marchionne attacca tutto quello che non può comprare», ribatte Landini. E cioè «la Volkswagen e Fiom», appunto. Il segretario dei metalmeccanici Cgil, a cui il manager consiglia di «trovare un metodo per collaborare con gli altri» sindacati, replica stizzito: «È inutile che cerchi capri espiatori. Il punto vero è che sta riducendo l’occupazione e gli stabilimenti.
Ha chiuso Termini Imerese, Irisbus e la Cnh di Imola, quei lavoratori sono figli di nessuno».
Non che a Mirafiori fili tutto liscio. Mentre Marchionne parla sul palco del Carignano, la Fiom distribuisce all’ingresso del teatro una lettera dei suoi iscritti indirizzata proprio a lui. «Caro dottor Marchionne, Torino e Mirafiori vogliono risposte certe e tutti i lavoratori meritano ascolto e rappresentanza, anche quelli come noi che lei non ha convinto»,
scrivono. «Sono molti di più i giorni in cui restiamo in cassa integrazione di quelli che trascorriamo a lavorare. I prodotti annunciati per Mirafiori continuano a cambiare e il tempo passa: è successo per la 500L ora prodotta in Serbia e per i mini Suv, spostati a Melfi. La prospettiva è di attendere ancora. Forse l’annuncio di giugno, ma sarà quello buono? Ognuno di noi ha perso dall’inizio della crisi tra i 14 e i 17 mila euro netti».
Intanto volano scintille tra Marchionne e il sindacato. «Prima di Landini non ho avuto nessun problema con la Fiom», attacca ancora l’ad Fiat. «È stato Marchionne e non la Fiom a cambiare linea, uscendo dal contratto nazionale», rilancia il segretario. «È lui che sta violando la Costituzione e lo Statuto dei lavoratori, negando la libertà dei lavoratori di scegliersi il sindacato». Con Landini si schiera solo l’ex collega, candidato per Sel, Giorgio Airaudo: «Mirafiori continua a essere la Cenerentola. Neanche oggi Marchionne ci ha detto cosa produrrà a Torino». Mentre Luigi Angeletti, Uil, ironizza: «Il consiglio di Marchionne a Landini è ottimo. Peccato che non lo seguirà perché ha smesso di fare il sindacalista e fa solo politica». Il Pd è invece soddisfatto delle parole del manager Fiat. «Un discorso di verità », per il sindaco di Torino Fassino, «che riconferma in modo inequivoco la volontà sua e di Fiat di scommettere sull’Italia e su Torino». Più prudente il governatore leghista del Piemonte, Cota: «Aspettiamo i fatti anche per Mirafiori, dopo Grugliasco».

La Stampa 4.2.13
Una poltrona per tutti Così a Siena si passa dalla politica in banca
Politici, sindacalisti, parenti: incarico garantito ai fedeli di partito
di Gianluca Paolucci


«Pensa che non mi è toccata nemmeno una poltrona in una partecipata», dice un ex politico senese per descrivere il livello di rottura con il suo partito. Perché alla fine un posto nelle controllate e partecipate del Monte spuntava sempre. E se non ti spettava, l’avevi combinata davvero grossa.
L’elenco è pressoché sterminato. Secondo il bilancio 2011, l’ultimo disponibile, il Gruppo Mps è composto di 34 controllate integrali, due consolidate proporzionalmente e circa 60 partecipate controllate congiuntamente o «sottoposte a influenza notevole». Circa 100 consigli d’amministrazione con almeno cinque membri ciascuna, fa alcune centinaia di poltrone disponibili.
Si può iniziare però da Maurizio Cenni, ex sindaco per due mandati, ex funzionario e sindacalista Mps, nel maggio 2011 lascia la poltrona di primo cittadino e torna in banca. Passano sei mesi e nel dicembre dello stesso anno viene promosso e nominato vicedirettore generale vicario di Mps Gestione Crediti banca. Ancora più singolare la storia di Pierluigi Piccini, predecessore di Cenni. Rompe col suo partito, passa all’opposizione in aperta polemica con tutti. Ma dal 2001 e fino al novembre scorso è presidente Mps France a 450 mila euro all’anno.
Per chi non veniva dalla banca c’era comunque qualche poltrona. Fabio Ceccherini, presidente della provincia ai tempi di Antonveneta, adesso è vicepresidente di Mps Capital services. Accanto a lui siede Claudio Vigni, ex segretario generale della Cgil di Siena. Il capitolo del sindacato merita un discorso a parte. Fabio Borghi, predecessore di Claudio Vigni, arriva fino al cda della banca, in una singolare rivisitazione in salsa senese del modello tedesco. Con il cambio del cda della capogruppo è rimasto comunque in banca. Adesso è presidente di Mps Leasing and Factoring. Accanto a lui siede Antonio Degortes, impreditore di successo nel settore locali notturni e discoteche. Ma è anche figlio di Aceto, storico fantino del Palio, grande amico di Mussari e socio dell’ex presidente nell’allevamento dei cavalli per il Palio, come Già del Menhir, vincitore di uno storico Palio per l’Istrice. Prima del leasing si era occupato di Mps Belgio, con un passaggio nel cda. Sempre a Mps Belgio sarebbe finito anche un socio di Antonio Degortes. Il capitolo «figli di» non può però prescindere da Aldo Berlinguer, docente universitario, consigliere di Antonveneta e figlio di Luigi, ex rettore dell’Università di Siena. Tornando alla categoria dei politici trombati, non si può non menzionare Luca Bonechi, ex segretario provinciale Ds, nel cda della Sansedoni, immobiliare partecipata da banca e Fondazione. Alessandro Starnini, anche lui ex presidente della provincia come Ceccherini, è nel board delle Immobiliare Novoli. Per l’ex assessore Moreno Periccioli c’è Antonveneta e ancora Mps Leasing. A Michele Logi, già assessore provinciale, tocca invece la Popolare Spoleto. In Antonveneta siede anche Mauro Rosati, ex consigliere comunale. Ovviamente ce n’è per tutti, come imponeva la «pax senese». Leonardo Bandinelli, di area cattolica, vice direttore degli industriali toscani, è vice presidente PopSpoleto.
Un elenco pressoché sterminato che potrebbe continuare. Basterà ricordare appena il nuovo ad Fabrizio Viola ha messo mano al dossier partecipate, sono saltati fuori 1,5 milioni di euro di risparmi solo tagliando i posti nei consigli. Poca cosa, certo.

Corriere 4.2.13
Le strategie della malinconia
di Silvia Vegetti Finzi


Dinnanzi a eventi di cronaca che turbano profondamente l'opinione pubblica come l'infanticidio, il suicidio giovanile, la violenza contro le donne, sorge spontanea la domanda: che cosa si poteva fare per evitarli? Di solito la risposta esorta a cogliere i segnali di malessere prima che sfocino, attraverso misteriosi percorsi, in comportamenti estremi. Ma una raccomandazione così vaga e generica non fa che colpevolizzare le persone già coinvolte nella tragedia, senza aggiungere nulla alla comprensione e alla prevenzione dei fatti. È giusto intercettare i segnali di disagio mentale appena insorgono ma per leggerli e interpretarli la sensibilità non basta, occorre conoscere l'alfabeto e la grammatica che li organizza. A questa esigenza risponde, quanto mai opportunamente, un libro atteso da tempo, I segreti della mente (Rizzoli, pp. 360, 18) scritto dal grande psichiatra Vittorino Andreoli, noto sia come autore di saggi che hanno interpretato la nostra epoca sia come direttore della collana «Biblioteca della mente». Il testo, di pregevole divulgazione, si propone di favorire la prevenzione dei disturbi mentali tramite la loro precoce individuazione.
Non si tratta solo dei malesseri più gravi ma anche dei disagi che s'incontrano ogni giorno come la malinconia, l'ansia e, nei bambini, le difficoltà di attenzione, l'ipermotilità, i tic, l'insonnia. Rivolto a tutti, il saggio procede nella convinzione che tra salute e malattia mentale non vi sia contrapposizione in quanto la patologia dipende soltanto da una eccessiva intensità dei medesimi elementi. La paura, ad esempio, uno stato di allerta funzionale alla sopravvivenza dell'individuo, diventa negativa solo quando, come negli attacchi di panico, annulla le capacità di adattamento necessarie per vivere nel mondo. Di solito la crisi acuta è preceduta da indizi che, non essendo riconosciuti, si aggravano diventando sintomi e i sintomi, aggregandosi, si trasformano in disturbi funzionali. Le cause possono essere obiettive — biologiche e ambientali — e soggettive, derivanti da esperienze personali. Senza avere la presunzione di svelare «i segreti della mente», Andreoli mette ordine nella varietà delle disfunzioni psichiche inserendole in uno schema esplicativo semplice e convincente che comprende quattro strategie: la negazione del mondo (schizofrenie), la fuga dal mondo (depressione e dipendenze), la maniacalità (esaltazione dell'io), il minimalismo (chiusura esistenziale).
Nella seconda parte il saggio, aprendo un ambito sinora riservato agli specialisti, insegna a cogliere e decifrare, sin dal loro insorgere, le manifestazioni del malessere mentale. Ma le conoscenze così acquisite, premette Andreoli, non autorizzano i lettori a cimentarsi con diagnosi e cure «fai da te». Servono piuttosto a favorire il dialogo tra paziente e medico considerando il disturbo psichico non una fotografia statica, ma una narrazione filmica che può in ogni momento mutare il suo svolgimento.
Ogni capitolo prende in esame una categoria di disfunzioni, ne descrive le manifestazioni, le suddivide in quadri sintomatici e le esemplifica nella storia di un malato, che può essere anche un personaggio famoso, a riprova che il disturbo mentale non è una vergogna da nascondere. Una trattazione particolare è dedicata ai disagi psichici nelle varie fasi dell'evoluzione umana, dall'infanzia alla vecchiaia. Il quadro si completa con una descrizione dei fattori ambientali che possono causare patologie mentali (le abitazioni, gli spostamenti, gli spazi del lavoro e del divertimento). E si conclude con alcune riflessioni sugli ambiti e i percorsi di cura dei disagi e dei disturbi della mente.
Una ricca e articolata batteria di indici consente infine di utilizzare questo ricchissimo testo per una consultazione mirata, una sorta di «dialogo personalizzato» che infrange il senso di solitudine e di abbandono che spesso accompagna l'esperienza della malattia mentale.

Corriere 4.2.13
Gli incontri allo Ior e quel conto coperto all'istituto vaticano
di Paolo Mondani


Il testimone lavora in Vaticano e tutti i giorni, confuso tra migliaia di turisti, percorre le strade che giungono a Porta Sant'Anna. Varcato l'ingresso, il Torrione San Pio V è cinquanta metri sulla sinistra, pochi scalini per imboccare il portoncino, si sale all'ultimo piano, un'immensa sala circolare: ecco lo Ior.
Secondo il suo racconto è lì che si sarebbero svolte «importanti e delicate riunioni per la costruzione dell'operazione Antonveneta», tra il direttore Paolo Cipriani, Monsignor Piero Pioppo e Andrea Orcel, il banchiere di area cattolica che nel 2007 seguiva banca Santander nella scalata ad Abn Amro e subito dopo venne nominato advisor di Montepaschi nella conquista di Antonveneta. Ora Orcel è passato a Ubs, ma in quel periodo era presidente della divisione «global markets & investment banking» della sede londinese di Merrill Lynch, ha cinquant'anni ed è uno dei più riconosciuti banker d'Europa, molto legato a Emilio Botín, a Gotti Tedeschi e in ottimi rapporti con Mediobanca, che insieme all'americana Merrill Lynch, erano gli advisor di Montepaschi. A Rocca Salimbeni la raccontano così: «Mussari pendeva dalle labbra di Orcel che è il vero ispiratore dell'operazione su Antonveneta». Sui quotidiani economici dell'epoca si leggevano commenti compiaciuti del suo nuovo successo. Durante l'estate del 2007, quando Orcel capisce che Botín per pagare Antonveneta deve svenarsi, già immagina a chi venderla e muove determinato verso Montepaschi.
Chiediamo al nostro testimone come fa a dire che Orcel incontrò gli uomini dello Ior: «Ho visto molto perché per quell'operazione furono aperti almeno quattro conti intestati a quattro organizzazioni religiose che coprono cinque personaggi che hanno avuto un ruolo chiave nella costruzione dell'acquisto di Antonveneta». Su quale banca italiana si appoggiano quei conti Ior? «Alla Banca del Fucino, sede di via Tomacelli a Roma».
A questo punto il nostro testimone mostra un foglietto con il numero di uno dei quattro conti, il 779245000141, aperto il 27 ottobre 2008, codice shift IOPRVAVX che rappresenta «la conferma dell'avvenuta ricezione di denaro», segue l'identificativo D779245000141 che «segnala il deposito di 100 mila euro in contanti avvenuto il 21 novembre 2009». Infine, con l'identificativo D7421H500002, su quel conto «arrivano 1,2 milioni di euro in tre tranche da 400 mila l'una che successivamente vengono interamente prelevati», soldi che sarebbero serviti a pagare «le persone utilizzate nel 2007 per organizzare la seconda vendita di Antonveneta».
Giuseppe Mussari è entrato due volte nell'orbita dei Sacri Palazzi. Prima e dopo l'arrivo di Gotti Tedeschi ha fatto parte della ristretta schiera di candidati alla presidenza dello Ior. Evidentemente i rapporti sono di strettissima fiducia. Chiediamo al nostro testimone chi si nasconde dietro il conto di cui ci ha fornito gli estremi: «Io ho visto nome e cognome».
Aprire un conto allo Ior non è un reato, ma se un'organizzazione religiosa copre quel conto, perché lo fa? Ad oggi non ci sono risposte e per noi non è nemmeno possibile avere prova dell'esistenza del conto «perché ai computer dello Ior non si può accedere con pen-drive, né si possono fare stampate o scattare foto dato che un software impedisce a qualsiasi macchina fotografica di leggere la videata». Per questa ragione il nostro testimone ha solamente un numero scritto a mano su un foglio di carta. Rimane da chiedergli perché fa tutto questo. Risponde così: «L'opinione pubblica deve sapere come stanno le cose, non c'è un altro modo, anche perché dall'interno il cambiamento non può venire». E dall'esterno nessuna autorità terza può verificare quanto è stato raccontato, perché lo Ior non è una banca come le altre. Il Vaticano può smentire ogni parola e sarà complicato rintracciare i conti annotati dal nostro testimone.

Corriere 4.2.13
Fede e maestri laici

Il dialogo di Napolitano con il cardinale Ravasi
di Armando Torno

D omani con il «Corriere della Sera» sarà in edicola (disponibile anche in e-book) il volume dal titolo Il Dio ignoto (pp. 116, €5,90). Vi sono stati raccolti gli interventi del presidente Giorgio Napolitano, del cardinale Gianfranco Ravasi e del direttore Ferruccio de Bortoli; quest'ultimo il 5 ottobre dello scorso anno coordinò l'incontro organizzato dal «Cortile dei Gentili» ad Assisi, ponendo domande e intervenendo egli stesso. Quel dialogo tra la massima autorità italiana e il ministro della cultura del Vaticano è ora un libro. Con degli arricchimenti.
L'incontro è migliorato con il tempo, ovvero le parole di Assisi si sono liberate dai ceppi della cronaca per trasformarsi in temi di riflessione. Napolitano, pur ricordando istituzioni e maestri laici, si è soffermato sulla propria formazione religiosa e sulle successive scelte non confessionali; Ravasi, attento ai riferimenti biblici, si è spinto in quegli spazi dove la fede avverte i dubbi. Non ha negato di averne provati, anche perché Giobbe arrivò al punto di rappresentare il Signore come un mostro e Gesù, dinanzi al proprio destino mortale, urlò: «Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?». E il Padre non rispose.
Dunque, il dialogo di Assisi arricchito. Si troveranno innanzitutto i testi della giornata con le note che completano i riferimenti. Per esempio, si è accennato al discorso di Paolo all'Areopago di Atene: in tal caso si chiarisce, con i passi degli Atti degli Apostoli, quel che l'apostolo ha detto e quanto è avvenuto. Oppure è riportata una frase della nostra Costituzione che nel discorso era soltanto accennata. O le ultime volontà di Norberto Bobbio, figura presente nell'intervento conclusivo di Napolitano; sono riprese da uno stralcio di un suo scritto: «Desidero funerali civili in comune accordo con mia moglie e i miei figli».
Poi si sono evidenziati i riferimenti bibliografici. Chiamando in causa Georges Bernanos o Benedetto Croce, Thomas Mann o Edgar Lee Masters, era necessario ricordare le opere da cui sono state tratte idee e immagini. Né poteva mancare, data la natura del dialogo, un elenco delle citazioni bibliche. E tra i testi aggiunti ne segnaliamo due: uno del cardinale Ravasi, dedicato «Alla frontiera del credere e del non credere», l'altro di padre Laurent Mazas (Direttore esecutivo del «Cortile dei Gentili») che fa da prefazione al libro. Ci si accorge rileggendo le considerazioni sul «Dio ignoto» che ad Assisi è stata scritta una pagina di riferimento. Il suo messaggio si può riassumere così: non importa se crediamo o no, è giunto il momento di riparlare e di riflettere ancora una volta su Dio.
Nell'allestimento curato nel 2006 da Peter Mussbach per un'opera di Pascal Dusapin c'era un enorme orologio sul quale i cantanti recitavano e scivolavano (lo ricorda anche Luca Zenobi nel suo acuto saggio su Faust, appena edito da Carocci). Era il tempo che li stava spingendo oltre le coordinate di scena. Un giorno, magari riproponendo l'opera, non importa quando, qualcuno si accorgerà che dalle tacche delle ore e dalla trama non usciranno più le accuse a un protagonista megalomane ma le nostre domande. Sempre più assillanti. Su quel Dio che ci è impossibile ignorare.

l’Unità 4.2.13
«Il mio doc contro i Cie»
Il regista Fernand Melgar ne ha filmato uno in Svizzera
«Vol spécial» è un duro atto d’accusa alle politiche discriminatorie europee nei confronti degli extracomunitari Una forma di «fascismo soft» spiega l’autore figlio di migranti
di Flore Murard-Yovanovitch


COM’È NATO IL PROGETTO DI «VOL SPÉCIAL», PRIMO FILM IN EUROPA AD ESSERE GIRATO IN UN CENTRO DI DETENZIONE AMMINISTRATIVA PER MIGRANTI?
«Il mio film precedente, La forteresse (2008), trattava delle condizioni di accoglienza dei richiedenti asilo in Svizzera. Vol spécial ne è il seguito logico. Attraverso la conoscenza di un traduttore iracheno a cui era stato negato l’asilo, brutalmente arrestato senza aver commesso alcun reato, ho scoperto l’universo della detenzione amministrativa. Io stesso sono figlio di migranti spagnoli irregolari, arrivati in Svizzera negli anni ’60 e da sempre interessato alla tematica dell’illegalità. Nella terra natale del diritto umanitario e delle convenzioni sui diritti umani, esistono 28 centri di espulsioni per “sans papiers”. Il centro di detenzione di Frambois, a due passi del Palazzo delle Nazioni a Ginevra e dove è stato girato Vol Spécial, ha la particolarità di essere il risultato di un “approccio sociale alla detenzione”; per questo motivo abbiamo avuto l’accesso: per la prima volta in Europa, una troupe è entrata al suo interno. Prima quei luoghi censurati erano stati filmati solo da cellulari o sotto stretto controllo delle autorità. Noi abbiamo potuto girare il quotidiano della detenzione per 3 mesi, dopo aver fatto 6 mesi di sopralluoghi.
Lei sceglie di appoggiare la cinepresa, a distanza quasi «neutra», tra detenuti e guardiani. È il risultato di una riflessione teorica su cos’è il documentario?
«Il mio cinema è di osservazione in presa diretta della realtà. Prima di girare mi sono immerso sei mesi nel centro per cogliere e capire la macchina amministrativa. Solo dopo aver capito che entrambi, guardiani e detenuti, sono presi nella trappola di un folle sistema burocratico, che schiaccia entrambi, ho iniziato a girare. Ma soprattutto, dopo aver capito che i guardiani potrebbero essere Lei e io. Mi sono avvicinato al cuore della contraddizione di Frambois, del tentativo di applicare in modo più “umano” una legge disumana: di “migliorare” un luogo disumanizzato». Prima sensazione quando siete penetrati per la prima volta in un centro di detenzione?
«La banalità del male di Hannah Arendt. Ogni funzionario fa solo il suo lavoro e partecipa del sistema, con timbri, dossier e ordini. La deresponsabilizzazione individuale però non ti sottrae dalla responsabilità collettiva, perché questa detenzione dei migranti, nata prima come misura eccezionale, è stata votata da una vasta maggioranza di cittadini svizzeri nel 1984 (la Loi fédérale sur les mesures de contraintes). Negli anni, la durata della detenzione è stata estesa fino a 24 mesi poi ridotta a 18 mesi, la norma in tutti stati membri dell’Ue».
Alla sua uscita il film è stato accolto da violente polemiche, il presidente della giuria del festival di Locarno, Paulo Branco, non ha esitato a bollare il film come «fascista». «Vol spécial» non lascia indifferenti...
«Alla sua uscita ha creato un vero e proprio “malessere” a causa della sua carica di denuncia nei confronti del ruolo che ha avuto la Svizzera sotto il nazismo e della sua politica xenofoba. Ognuno si è sentito “messo in causa”. Io non faccio documentari “militanti” perché non spiego cosa pensare allo spettatore ma cerco di risvegliare le coscienze. Posso dire che il mio è un cinema “engagé”. Vol Spécial è un film di guerra, su un odierno “campo di concentramento” (anche se nessun paragone storico è lecito) che sembra “normale”... La prassi della detenzione amministrativa, senza processi né giudici né controllo della società civile, è il risultato di un potere amministrativo discrezionale, una forma di fascismo “soft”».
Ma cosa succede all’Europa nel suo rapporto con i migranti, quali sono le fratture e i processi storici in corso?
«Le muraglie della Fortezza sono sempre meno fisiche ma legali. In realtà, oggi, una vera guerra è in corso contro i migranti, con suoi fronti, i suoi campi, le sue deportazioni. Ma con la politica di esternalizzazione delle frontiere, quei maltrattamenti sono allontanati dallo sguardo dei cittadini europei. L’Occidente ha reso l’emigrazione, una prassi dagli albori dell’umanità, un crimine: rinchiude su base discriminatoria richiedenti asilo e migranti per necessità economiche, dentro centri chiusi, isolati dal resto della società».
Dopo quest’esperienza diretta della disumanizzazione che il suo film racconta, pensa come scriveva Michel Bounan nel «La vie innommable», che stiamo assistendo in modo passivo all’«olocausto prossimo»?
«È molto difficile interpretare il presente quando si vive nell’occhio del ciclone. Non credo che l’Europa di oggi sia capace di riprodurre l’eliminazione sistematica messa in opera dal nazismo con la Shoah. Non credo nemmeno sia lecito e non mi avventurerei in nessun paragone storico in materia. Mi limito, però, a cogliere che la rappresentazione attuale della popolazione migrante in Europa, per certi versi, testimoni di una meccanica intrinsecamente similare. In Svizzera, malgrado il tasso di disoccupazione sia bassissimo, il partito di destra dell'Udc che raccoglie il più grande numero di voti nei suffragi popolari, svolge una propaganda anti-migranti nello stesso stile di quella antisemita degli anni Trenta. Basta guardare i manifesti dove gli stranieri sono rappresentati come animali (corvi, pecore e ratti). Credo quindi che la questione non sia se esiste il rischio oggi di una politica eliminazionista, ma di interrogarsi sul fatto che rinchiudere queste persone, senza che abbiano commesso alcun reato, evidenzi già una discriminazione su base razziale. Senza contare le decine di sparizioni nei campi esternalizzati dell’Europa, di cui non si sa pressoché nulla».

l’Unità 4.2.13
Siria: l’attacco israeliano rilancia Assad
Parla il raìs che si erge a vittima di un piano di «destabilizzazione ordito dai sionisti»
Gerusalemme indirettamente ammette il raid
Teheran apre all’opposizione siriana
di U. D. G.


Bashar al-Assad torna a parlare. E a vestire i panni, improbabili, del raìs indomito vittima del complotto ordito da Usa e dal «nemico sionista». Il presidente siriano ha accusato Israele di voler «destabilizzare» e «indebolire» la Siria, dopo il raid aereo dei caccia con la stella di David che ha preso di mira mercoledì impianti militari vicino Damasco. L’attacco israeliano contro un complesso di ricerca scientifica a Jamraya, nella provincia di Damasco, «svela il vero ruolo giocato da Israele», in collaborazione con le forze straniere nemiche e i loro agenti sul territorio siriano, per destabilizzare la Siria e indebolirla», dichiara Assad, nel corso di un colloquio con il capo del Consiglio per la sicurezza nazionale iraniana, Saeed Jalili. Il presidente siriano ha denunciato il «vero ruolo» dello Stato ebraico, impegnato in un piano per «indebolire la Siria con la collaborazione di forze nemiche straniere».
ESCALATION
«La Siria, con la consapevolezza della sua gente, il potere del suo esercito e la sua adesione al percorso di resistenza, è in grado di affrontare le attuali sfide e affrontare qualsiasi aggressione che possa avere come obiettivo il popolo siriano», ammonisce Assad, come riferito dall’agenzia stampa di Stato Sana.
Ehud Barak, ministro della Difesa uscente israeliano, proprio ieri ha implicitamente confermato l’attacco aereo sferrato dallo Stato ebraico in Siria. Barak si è astenuto da una conferma diretta dell'accaduto, ma nel corso della Conferenza sulla Sicurezza di Monaco ha parlato di «un’altra prova che quando diciamo qualcosa la rispettiamo. Diciamo che non crediamo possa essere consentito portare in Libano sistemi avanzati di armi». Secondo ufficiali Usa, il raid ha colpito un convoglio carico di armi diretto al gruppo libanese Hezbollah. La versione di Damasco è che invece l’attacco ha colpito un centro di ricerca scientifica. «Hezbollah dal Libano e gli iraniani sono gli unici alleati rimasti ad Assad», ha proseguito Barak. Quando il presidente siriano cadrà, ha aggiunto definendo imminente questo passo, «sarà un duro colpo per gli iraniani e per Hezbollah» che «pagheranno delle conseguenze». Le emittenti televisive siriane Al-Ikhbariya TV e il canale di Stato hanno trasmesso un filmato che mostrerebbe le conseguenze dell’attacco aereo compiuto da Israele. Le immagini mostrano auto, camion e veicoli militari distrutti, un edificio con finestre esplose e interni danneggiati.
Contro Gerusalemme Israele si scaglia anche la Turchia. Il primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan ha accusato Israele di aver fatto «terrorismo di Stato» con il raid aereo compiuto in territorio siriano, «una violazione inaccettabile ha aggiunto del diritto internazionale». «Coloro che trattano Israele come un bambino viziato devono aspettarsi da parte sua qualunque cosa in qualunque momento», sottolinea Erdogan. «L’ho detto e lo ripeto: Israele ha la mentalità di chi pratica il terrorismo di Stato».
La cronaca diplomatica di ieri ha avuto come indubbio protagonista l’Iran. Teheran sembra volersi muovere a tutto campo. Il ministro degli Esteri iraniano, Ali Akbar Salehi, ha elogiato la volontà espressa dal capo dell’opposizione siriana, Ahmed Moaz al Khatib, di dialogare a determinate condizioni con il regime. «È un buon passo in avanti», ha dichiarato Salehi parlando della proposta di Khatib, con il quale ha avuto «un incontro molto postivo» a margine della Conferenza sulla sicurezza di Monaco. Il colloquio potrebbe contribuire a «trovare una soluzione per porre fine alla guerra civile in Siria», afferma il capo della diplomazia iraniana. Siamo pronti ai colloqui con l’opposizione» e «a essere parte della soluzione», ribadisce Salehi. Ma aggiunge, riferendosi alle richieste internazionali perché Assad lasci: «Non abbiamo bisogno di indicazioni dall’esterno».
Cronaca di guerra: almeno 15 persone, tra cui una donna e cinque bambini, sono morte in un raid dell’esercito siriano contro un palazzo ad Aleppo, seconda città del Paese. Lo ha denunciato l’Osservatorio siriano dei diritti umani (Osdh). «Abbiamo identificato undici persone, tra cui una donna e cinque bambini, e possiamo confermare che altre quattro sono state uccise in questo raid», ha affermato Rami Abdel Rahmane, presidente dell’ong, aggiungendo che il bilancio potrebbe essere rivisto verso l’alto, perché «alcuni abitanti si trovano ancora sotto le macerie».

l’Unità 4.2.13
Hamdeen Sabahi
Nelle elezioni presidenziali ha ottenuto il 20,7% dei voti
È uno dei leader dell’opposizione Nasseriano, guida ora il Partito della Dignità
«A Morsi dico: l’Egitto non subirà un nuovo dittatore»
di Umberto De Giovannangeli


«Processate Mohamed Morsi». La richiesta di Piazza Tahrir viene fatta propria dal principale gruppo dell’opposizione egiziana, il Fronte di salvezza nazionale (Fsn). Dopo i sanguinosi scontri 57 morti che hanno marchiato il secondo anniversario della caduta del regime di Hosni Mubarak, e alla luce del video-shock del manifestante denudato, picchiato selvaggiamente e trascinato via a forza dalla polizia, l’Fsn ha chiesto che «tutti i responsabili di omicidi, torture e arresti illegali siano processati equamente, a partire dal presidente». Del Fsn, Hamedeen Sabahi è, assieme a Mohamed El Baradei e Amr Moussa, il leader più autorevole. Cinquantotto anni, leader del Partito della Dignità, alle elezioni presidenziali del 2012, Sabahi ha ottenuto il 20,7% dei voti, finendo al terzo posto. In questa intervista concessa a l’Unità, Sabahi afferma che «l’opposizione è interessata al dialogo, ma il dialogo nazionale può avvenire solo dopo che sarà posto fine allo spargimento di sangue e i responsabili processati».
Il video che mostra la polizia denudare e picchiare selvaggiamente un manifestante al Cairo ha scioccato l’opinione pubblica egiziana e ha suscitato forti preoccupazioni nella comunità internazionale.
«Quel video è già storia. Lo è perché racconta del rischio crescente di un ritorno al passato, quando a dominare era l’arbitrio e la violenza del potere. Ciò è intollerabile. L’opposizione è unita nel chiedere che tutti i responsabili di omicidi, torture e arresti illegali vengano processati equamente...». Compreso il presidente Mohamed Morsi, recita il comunicato del Fronte di salvezza nazionale di cui lei è uno dei leader.
«Morsi non può ritenersi al di sopra della legalità. L’Egitto ha eletto un presidente, non un dittatore. Morsi ha raggiunto il potere democraticamente, ma sta dimostrando di non saperlo esercitare democraticamente. Puntando sul pugno di ferro, il presidente cerca di mascherare i suoi fallimenti, in particolare in campo economico e sociale. Morsi e i Fratelli Musulmani avevano promesso pane, giustizia sociale, libertà e lavoro per i giovani. Non una di queste promesse è stata mantenuta. In gioco è il futuro dell’Egitto. Un futuro che l’attuale potere islamista non può garantire».
Come uscire da questo vicolo cieco. È pensabile uscire dalla crisi con il muro contro muro tra Morsi e l’opposizione? «Non è questo ciò che vogliamo. Non siamo quelli del tanto peggio, tanto meglio... Nei giorni scorsi abbiamo rilanciato la proposta di lavorare per dar vita a un governo di unità nazionale di emergenza con tutte le correnti politico-religiose. Su questo avevamo registrato alcune aperture dal fronte islamista, ma poi il potere ha imboccato la strada della repressione. Una strada che mette in pericolo la stessa transizione democratica»
Il dialogo è dunque impraticabile?
«Il dialogo esige la fine dello spargimento di sangue e che i responsabili vengano processati. Dialogo non è sinonimo di connivenza, tanto meno è garanzia di impunità. Chiediamo verità, giustizia e nessuna copertura per i responsabili dell’ennesimo bagno di sangue. Il dialogo non può avere come pegno il sangue dei martiri».
In precedenza lei ha sottolineato come Mohamed Morsi abbia raggiunto il potere democraticamente...
«Aggiungerei, e non è un aspetto secondario, approfittando della mancanza di unità e di organizzazione dell’opposizione. La costituzione del Fronte di salvezza nazionale nasce dalla consapevolezza di quanto abbiano pesato personalismi e divisioni nel dare dell’Egitto una immagine fuorviante...».
Di quale immagine parla?
«Quella di un Paese a maggioranza islamista. La realtà non è affatto questa. I Fratelli Musulmani vincono approfittando delle divisioni e così hanno cercato di “rubare” la rivoluzione. Ma siamo ancora in tempo per fermarli».
Lei non chiude le porte ad un governo nazionale di emergenza. Quali dovrebbero esserne gli impegni prioritari ? «Riscrivere la Costituzione perché divenga davvero la Costituzione di tutti gli egiziani e non, come è ora, fonte di divisione nazionale e intervenire sulle condizioni di vita della gente, puntando soprattutto sul lavoro ai giovani». L’Egitto è un Paese chiave per la stabilità del Medio Oriente. Una delle questioni cruciali è il rispetto degli accordi di pace con Israele. Qual è in merito la sua posizione?
«L’Egitto è interessato alla stabilità, ma questa stabilità non può fondarsi sulla negazione del diritto del popolo palestinese a uno Stato indipendente. La stabilità non può fondarsi sull’oppressione dei palestinesi. Non si tratta di chiedere all’Egitto di rispettare gli accordi di Camp David, si tratta di esigere da Israele il rispetto delle risoluzioni 242 e 338 delle Nazioni Unite. Chi non rispetta accordi e risoluzioni non va cercato al Cairo, ma a Tel Aviv».

La Stampa 4.2.13
Google e il Pentagono alleati nella “cyberwar” contro la Cina
Washington potenzia il Commando anti hacker. Il colosso hi-tech: Pechino, minaccia per il Web
di Maurizio Molinari


Il Commando anti hacker del Pentagono salirà da 900 a 4900 unità

Per Google la Cina è la «superpotenza più pericolosa del mondo» e il Pentagono dimostra di condividere l’analisi al punto da trarne le immediate conseguenze, potenziando il «Cyber Command». Le mosse del gigante dell’«information technology», di base a Menlo Park, California, e della Difesa degli Stati Uniti ci si accorge vanno nella stessa direzione. Per comprendere l’entità della convergenza bisogna iniziare da «The New Digital Age», il libro scritto a quattro mani dal ceo di Google Eric Schmidt e Jared Cohen, titolare del centro studi «Google Ideas». I co-autori hanno forti legami con l’amministrazione Obama: sin dalla campagna del 2008 Schmidt è un consigliere informale di Barack - che ha più volte tentato di coinvolgerlo nel governo mentre Cohen, 31 anni, è un veterano del Dipartimento di Stato dove si è dedicato a studiare le trasformazioni del Medio Oriente, arrivando a scrivere «Children of Jihad» sugli umori delle nuove generazioni, più sensibili all’hi-tech che al fondamentalismo. Il nuovo volume, che uscirà in aprile per i tipi di Random House, sovrappone sviluppo dell’hi-tech e relazioni internazionali, indicando nella Cina il principale ostacolo e avversario alla libertà su Internet. La tesi di Schmidt e Cohen è che «gli smartphone consentiranno presto ai pastori africani di informarsi sull’oscillazione del prezzo del latte e sulla presenza di predatori nei paraggi», consentendo agli abitanti dei Paesi più poveri e isolati di mettere sulla difensiva i regimi autoritari. Da qui la convinzione che la Cina sia l’avversario più minaccioso perché «è la nazione più attiva ed efficiente nel filtrare le informazioni che raggiungono i suoi cittadini» come nello sviluppare «generazioni di hacker» capaci di aggredire aziende e nazioni straniere.
«In un mondo sempre più digitale la volontà del governo cinese e delle sue aziende statali di ricorrere al crimine cibernetico è destinata a portargli vantaggi politici ed economici», sostengono Schmidt e Cohen, ipotizzando che Pechino possa riuscire a «dividere Internet» creando un’area digitale alternativa a quella che si origina dagli Stati Uniti. Lo scontro che si annuncia sarà duro e inizierà sul terreno commerciale, «perché le corporation cinesi usano gli hacker a fini di spionaggio guadagnando terreno illegalmente sui rivali americani».
La definizione di «superpotenza» dunque è destinata ad adattarsi all’era digitale e la Cina è il grado di esserlo, grazie a giganti pubblici come Huawei che puntano ad aumentare il controllo del mercato globale delle telecomunicazioni non solo per business ma negli interessi di Pechino. È tale orizzonte che aiuta a comprendere perché il ministro della Difesa, Leon Panetta, negli ultimi giorni di incarico ha ordinato di portare da 900 a 4900 i dipendenti del «Cyber Command» guidato da Keith Alexander. A dispetto degli ingenti tagli al bilancio, Panetta lascia in eredità al successore un rafforzamento che lascia intendere come i compiti del «Cyber Command» siano mutati: se finora doveva difendere gli Usa dal rischio di devastanti blitz, ora braccherà gli avversari. Come riassume Jeffrey Carr, analista di cybersicurezza: «Obama ha deciso di flettere i muscoli cibernetici».

Repubblica 4.2.13
A Pechino uno su cinque è pagato per “reinventare la pubblica opinione”. E il caso del New York Times rilancia lo scandalo
La Lunga Marcia della censura
di Giampaolo Visetti


Nella capitale un residente su cinque è pagato dalle autorità per “controllare e reinventare la pubblica opinione”.
Così i nudi di Michelangelo vengono coperti dai pixel di Stato e il New York Times preso di mira dagli hacker
Sul web un’armata di 2 milioni di “spin doctor” è incaricata di diffondere “energia positiva online” a favore del governo.

PECHINO LA CENSURA in Cina, come lo smog, non si distingue con certezza. C’è una certa nebbia, questo sì, ma si confonde. Dopo qualche anno però parte qualche colpo di tosse e se il tuo giornale ti chiede di parlarne un po’, trovi decine di storie alternative, più urgenti, come dire, che potrebbero funzionare. Di censura a Pechino ci si ammala così: si arriva a convincersi di esserne ossessionati, a proteggerla per spirito di obiettività, infine a sfruttarla come scudo alla pigrizia. Convivere con una censura redazionalmente archiviata come «vecchio film», ai corrispondenti stranieri riserva non sottovalutabili comodità. Una su tutte: l’alibi di ferro per restare sempre e comunque seduti davanti al computer, con l’orecchio onestamente sintonizzato sulla melodia rassicurante della propaganda. Questo confortevole abbandono al non voler nemmeno sapere se dietro all’apparenza si cela un’altra verità, o se la realtà abbia maggior titolo sociale di essere affermata rispetto all’interpretazione pre-elaborata dal partito-Stato, è l’apatia fatalista con cui da quasi sessantacinque anni il popolo cinese avvolge l’autoritarismo che lo soggioga. Si vive stretti, finendo con il trovare all’angustia pregi innumerevoli, e altrettanti difetti a quella semplificazione che parte del mondo si ostina a chiamare obiettività. In questi giorni, a chi scrive da Pechino, è stata recapitata una fiorita scatola rossa. È un regalo per festeggiare l’inizio dell’anno lunare del Serpente Nero d’Acqua e contiene due chili di dolci tradizionali. Il gentile pensiero è dell’Ufficio Informazione della capitale, che ringrazia gli «amici stranieri» che hanno collaborato a «chiarire alla comunità internazionale» la «vera grandezza dell’ascesa cinese». Forse nessuno, tra i destinatari, ha mai saputo di operare per un tale obbiettivo. Eppure, per le autorità, non conta. Una lettera elenca decine di eventi gloriosi a cui durante l’anno pochissimi hanno presenziato, come il settimo simposio internazionale sulla fragola.
Biscotti e missiva servono a funzionari che per fare carriera devono giustificarsi con altri funzionari, su, fino al massimo livello: tranquilli, là fuori tutto è sotto controllo. Va detto: offrire agli amici i dolcetti cinesi cucinati da censura e propaganda, scoccia, come un brufolo sul naso proprio la sera che non ci voleva. La scatola rossa però, certo per sbaglio, può anche non arrivare. Si fa finta di nulla, ma è chiaro che non si smette di pensarci e il peggio è che si congettura su come guadagnarsela la prossima volta. Così, tanto per gioco, come una foca che salta ad afferrare il pesce sospeso dall’addestratore. È comprensibile che descrivere la nuova censura della Cina come uno smog, una tortina al fagiolo, o una bella carpa rossa, risulti deludente. Il punto è che, nella potenza non democratica che per la prima volta si appresta a comandare l’umanità, nessuno può oggi sottrarsi alla sua impalpabile, cordialissima e conveniente dittatura. Censura, propaganda e repressione si trasformano nell’immagine unica che un individuo riesce ad ottenere della realtà in cui è immerso e infine di se stesso.
Questa straordinaria Cina inesistente, che vogliamo disperatamente sia un successo e di cui comunque non possiamo più privarci, è il pesciolino pescato per tutti dalla censura: e per la prima volta, da mangime ad uso interno, punta a diventare il nuovo foraggio unico globale. Qualche storia esemplare può servire, per non farsi venire strane idee sulla Città Proibita, ma è il cuore della questione che dobbiamo sentire, da subito, battere: la censura cinese, da strumento di rimozione arcaico, nazionale, ideologico ed etico, sta completando la sua trasformazione in sistema di negazione moderno, internazionale, economico e culturale. In Occidente i casi recenti più amati dalla nostra contro-propaganda, sono quelli che eccitano fantasie cinematografiche, discussioni con parole incomprensibili, atti né provabili né smentibili, o consolidati modelli spionistici della storia. Il New York Times ha appena denunciato un «attacco militare» degli hacker cinesi dopo la rivelazione di uno scandalo che coinvolge il premier uscente Wen Jiabao e la sua famiglia. I pirati informatici di Pechino, per cercare il traditore che ha passato agli Usa le prove della corruzione finanziaria del patrio potere, per mesi avrebbero violato la rete del giornale e la controversia potrebbe addirittura approdare alla Wto. L’associazione della stampa estera ha rivelato che sono decine i corrispondenti dalla Cina ad essere gratificati dalle medesime attenzioni. In un Paese al 173° posto su 179 per il livello della libertà di stampa, invasioni elettroniche, furti telematici, registrazioni telefoniche e oscuramenti, risparmiano nemmeno i media del partito.
Una bella ripassatina, per lesa maestà, l’hanno ricevuta di recente anche Wall Street Journal, Washington Post, Reuters, Cnn e l’agenzia Bloomberg, rea di aver mirato direttamente al nuovo segretario Xi Jinping. La corrispondente di Al Jazeera, Melissa Chan, nel maggio scorso è stata la prima, dopo 38 anni, ad essere stata espulsa con il ricatto del mancato rinnovo del permesso di soggiorno. La televisione del Qatar è stata costretta a chiudere la redazione inglese di Pechino e l’anchorman più famoso della tivù di Stato, Yang Rui, ha avuto il buon gusto di definire la collega, in una controllata diretta della prima serata, «puttana straniera». A essere sinceri, Yang Rui, obbediente soldatino del «Dipartimento per la propaganda del partito comunista cinese», ha aggiunto anche che «è ora di fare piazza pulita dell’immondizia straniera». Non l’hanno preso sul serio nemmeno i rivoluzionari nostalgici di Mao, allora non ancora in rotta, ma il segnale lanciato dai leader dei prossimi dieci anni è risultato sufficientemente chiaro.
La Cina è censura e propaganda, altrimenti non è, o diventa un’altra inimmaginabile cosa: questo dettaglio, partito comunista ed esercito non lo consentiranno ed è opportuno che l’Occidente se lo appunti bene in vista, sopra l’elenco dei suoi debiti. In gennaio poi, a Canton, è scoppiato il caso del Southern Weekly. Una mattina i giornalisti, tutti iscritti al partito, sono scesi sotto il giornale, hanno denunciato di essere stati obbligati a pubblicare un editoriale favorevole al prossimo presidente Xi Jinping e a stracciare un commento a favore della Costituzione, che già imporrebbe libertà di stampa e di espressione, oltre che la democrazia. Inaudito, dopo Tiananmen: sciopero, manifesti ripresi in tivù, folla di simpatizzanti, web ribollente e agenti smaniosi di testare i manganelli. È durata un paio di giorni, il tempo che la stella nascente del partito, Hu Chunhua, prendesse le misure ai tempi nuovi della web-community.
Il neo governatore del Guandong ha lasciato gridare e rivendicare, ha rispedito i soldati in camerata, ha rimosso un paio di funzionari troppo zelanti e ha infine «trattato». Rivolta finita: un successo per il potere, un capolavoro per la propaganda. Non senza fretta, come per la quisquilia che in decine di metropoli cinesi respirare è una pretesta «pericolosa per la salute», o che desiderare cibo commestibile è una «prepotenza sovversiva», o che rodersi il fegato vedendo le fuoriserie dei vecchi funzionari gonfie di ragazzine con una naturale predisposizione per il ballo e qualche gioiello è una «degenerazione anticollettivista dell’invidia capitalista», si è concluso che però lassù «qualcosa si muove». Su questo, non c’è dubbio: ma cosa? I passi indietro della censura-propaganda-repressione, le storiche aperture che elettrizzano le no-stop news, sono questi. Cinesi e stranieri vengono convinti a ignorare che il Tibet è inaccessibile da un anno e che si è cominciato a condannare a morte chi «istiga» a darsi fuoco contro Pechino. Nella capitale un residente su cinque è pagato dalle autorità per «controllare e reinventare la pubblica opinione». Il capo della propaganda, Lu Wei, ha organizzato un esercito di 2 milioni e 60 mila «spin doctor», incaricati di «diffondere energia positiva online». Dopo il bisticcio con il New York Times, negli Usa sono a rischio 300 mila account di Twitter, mentre tutti gli internauti ciraibi nesi che frequentano Weibo, dotati di «patente a punti» in base al tasso di adulazione, sono costretti a registrarsi documento alla mano. Nell’anno del Congresso, le «notizie negative» sono state «sconsigliate». Non si può chiedere perché un treno è deragliato, o perché 34 minatori sono rimasti sepolti sotto una miniera di carbone. Per chi vive qui è umiliante confessarlo: ma ci si abitua alla «wei-governance», come viene presentata la censura di Weibo, si convive con «l’ecologia di internet », o con la «purificazione dei temi caldi». Non per fare i difficili, ma si stenta a segnalare che centinaia di ideogrammi, anche quasi innocenti come «gelsomino», risultino oscurati causa assonanza irriguardosa, che i nudi delle statue di Michelangelo vengano pudicamente coperti a colpi di pixel di Stato, o che nemmeno una mezza coscia sfugga all’amputazione morale del film “Titanic”. Per dire: io confesso di aver steso un velo, di ignavia e di repulsione verso le prevedibili finte indignazioni democraticamente corrette, sulla censura delle scene di «Skyfall » in cui i cinesi fanno la parte dei cattivi. Mesi fa, non una parola sulle sforbiciate contro «Men in Black 3», o contro «Pirati nei Caraibi», colpevole di aver presentato cinesi sfregiati e addirittura calvi. A continuare, finirebbe peggio: grazie alla prodigiosa macchina della persuasione, un popolo che corrisponde ad un sesto degli umani sulla terra è convinto che il Nobel per la pace Liu Xiabo sia un terrorista, accetta che da maggio sia sparito l’eroe epurato Bo Xilai, a un passo dal vertice del potere, o trova patriottico che il Nobel per la letteratura Mo Yan non fiati per suggerire libertà di espressione ai suoi connazionali.
Vecchie cronache di un regime, per dinosauri delle Guerre Fredde che ignorano come quando il pezzo sia destinato all’economia, tutto si debba tradurre, con rilevabile ipersalivazione, nelle «dinamiche fisiologiche di una super-potenza in crescita». Per semplicità: la notizia oggi è che la nuova censura cinese non può più permettersi di cancellare la verità solo in Cina, ma ha la missione di negarla lontano, all’estero, ovunque essa provi a nascere, meglio se negli Usa. Colpa dei nuovi media. Non ci sono visti, filtri, tagli, hacker, dottrine e muraglie che tengano: l’affare «New York Times-Wen Jabao » ha aperto un fronte globale sconosciuto, quello oltre il quale Pechino è costretta a spingersi per negare la realtà alla radice ed escludere fisicamente dai fatti chi ha il dovere di descriverli. È la formula di Lu Benfu, mente discreta dell’e-security dell’Accademia cinese delle scienze: «Se non si sa, non esiste. Ma se lo dici a tutti prima di tutti, anche l’inesistente è ovvio». Per questo, a chi vive a Pechino, finisce con il non apparire certo cosa oggi sia la censura in Cina: sarà per lo smog, se c’è, per la scatola rossa, se è arrivata, o per quel pesciolino, ammesso che qualcuno si dia realmente cura di tenerlo sospeso tra le dita.

Repubblica 4.2.13
Parla Soumaya Gharshallah, direttore del Museo fiore all’occhiello del Paese Espone opere d’arte delle quattro religioni. E per questo è preso di mira dagli integralisti
Tunisi, la pasionaria del Bardo “Così difendo la nostra Primavera”
di Stefania Di Lellis


TUNISI Non si vedono neanche gli occhi, coperti da un paio di occhiali anni Ottanta. Solo un velo nero che ondeggia trasportato da ballerine color cuoio tra un atleta romano nudo e una Torah sottovetro. Baya non è l’unica visitatrice di stretta osservanza islamica nei corridoi del Bardo. Il museo fiore all’occhiello della Tunisia, ma anche cruccio della nuova minoranza rumorosa degli ultrà delle fede che assediano il paese, è punteggiato di donne in niqab accompagnate da uomini con barba d’ordinanza. E poi guide velate e studentesse con l’hijab, il copricapo delle musulmane un po’ meno intransigenti. «Vede, per me avere queste donne qui dentro è un successo», spiega Soumaya Gharshallah. Trentacinque anni, un bambino di tre, è l’unica curatrice di museo della Tunisia e una delle poche nel mondo arabo. La chiamano quella del 'museo plurale'. Aggettivo che suona quasi blasfemo in un paese dove cresce sempre di più la voce di quelli che a chi reclama democrazia e dialogo rispondono con il pensiero unico di Dio.
La straordinaria collezione di mosaici romani, paleocristiani, ebraici e islamici ha appena riaperto le porte a Tunisi dopo un grande restauro che ha consentito il raddoppio della superficie espositiva e un restyling che ha consegnato il Bardo alla lista dei musei da vivere e non solo da visitare. Ma vivere un’arte che parla di quattro religioni diverse può essere anche una rivoluzione. Ed è questa la battaglia che sta riuscendo a Soumaya.
Direttore, mentre voi inauguravate il nuovo Bardo i salafiti a pochi chilometri da qui, a La Marsa, assaltavano una mostra di arte 'degenerata'. Avete avuto paura anche voi? Crede che le opere esposte qui dentro possano rischiare il destino dei Buddha di Bamyan distrutti dai Taliban in Afghanistan?
«Per un momento abbiamo avuto paura. Non per la sicurezza qui dentro: accanto c’è l’edificio della Corte costituzionale e non manca lo schieramento di polizia. E neanche per la mia sicurezza personale. Non è questo il punto. La paura è quella di vedere il mio paese trasformarsi in un luogo dove non si ha la coscienza e l’orgoglio del proprio patrimonio nazionale. Se questo avviene è grave».
Sta succedendo?
«Gli scontri sul velo all’università, gli attacchi agli artisti e ai giornalisti: sono segnali preoccupanti. Ma ci sono anche molti elementi che fanno sperare. Posso citargliene uno? Il 14 gennaio abbiamo celebrato i due anni dalla rivoluzione con una giornata 'porte aperte', biglietto di ingresso gratis. Bene: siamo stati letteralmente invasi dai visitatori. Donne velate, i loro mariti. Bambini, ragazzi, vecchi. Guardi che non era scontato. Qui dentro ci sono opere romane, cristiane, giudaiche non solo islamiche».
Arte pericolosa per i salafiti?
«Anche su questo dobbiamo lavorare. Stiamo organizzando percorsi tematici per le scuole. Leggiamo stupore negli occhi dei ragazzi, dei bambini quando spieghiamo loro che certi valori, certe religioni non vengono solo dall’Occidente ma provengono dalla nostra storia, dalla Tunisia, dall’Africa. Rimangono sorpresi e affascinati. E lo sa che succede? Il giorno dopo tornano con le famiglie. Con le loro mamme velate, con i loro papà religiosi».
Una rivoluzione?
«Questo più che un museo archeologico è un museo di civiltà. Racconta il passato della Tunisia, che è sempre stato un mélange di culture, da sempre abbiamo vissuto insieme. L’importante è accettare le differenze. Questa è la democrazia e questo va insegnato ai giovani».
È difficile per una donna, per di più giovane, fare tutto questo?
«Abbiamo rovesciato Ben Ali, abbiamo fatto una rivoluzione per dare fiducia ai giovani. Ci sono ancora diffidenze, difficoltà. Ma credo che le cose andranno meglio quando si saranno risolti problemi pressanti per noi come per tutti i tunisini. Le difficoltà economiche ci strangolano. Difficile per noi muoversi tra le ristrettezze di budget e la burocrazia, difficilissimo vivere per tanti, troppi in questo paese. E la fame può essere una minaccia ».
Che rischi vede?
«La Tunisia sta ancora cercando la via giusta per avanzare. Non siamo abituati a libertà e democrazia e c’è chi vuole approfittarne per il proprio tornaconto. La strada è lunga».
Lei ha partecipato alle manifestazioni che hanno costretto Ben Ali a' dégager', ad andarsene?
«Ognuno fa la rivoluzione a suo modo. Sul web abbiamo manifestato tutti. In piazza alcuni. Io ho deciso di lavorare ogni giorno, freneticamente: cercavo di catalogare più opere possibile perché nessuno potesse approfittare del cambiamento per rubare l’anima del paese, perché si ritrovassero i beni trafugati dal dittatore e dalla famiglia. Anche questo è combattere. Perché il nuovo paese abbia la sua memoria. Perché la memoria può essere rivoluzione».
Lei non porta il velo. Che direbbe a una donna che accetta o sceglie di coprirsi interamente?
«Rispetto la tua scelta. Consenti anche a me di scegliere».

Corriere 4.2.13
I Quaderni di Gramsci erano trenta Parola di Tania e di Togliatti
Le lettere della cognata e del Migliore citano il testo mancante
di Luciano Canfora


Nello scorso giugno, discutendosi alla Biblioteca del Senato il libro interessante ma troppo affrettato di Giuseppe Vacca su Vita e pensieri di Antonio Gramsci, e venendo inevitabilmente in taglio la questione, ormai sul tappeto, dell'integrità o meno del corpus dei Quaderni gramsciani, Massimo D'Alema ebbe una felice e a suo modo illuminante battuta: «Non me lo vedo un Togliatti che distrugge un Quaderno, piuttosto lo conserva per un tempo successivo». Effettivamente è questo l'atteggiamento mentale che si dovrebbe avere quando si discorre di grandi testi che hanno costituito, di per sé e in quanto tali, un fatto politico, e che dunque sono soggetti alle vicissitudini, ai tempi e alle necessarie prudenze della politica. Questo vale sempre, non soltanto nel caso di un movimento — quello comunista — che fu anche, nel bene e nel male, una chiesa, come ha rivendicato di recente Mario Tronti celebrando i 90 anni di Pietro Ingrao.
Le raccolte fondanti degli scritti di coloro che sono stati, nella azione e nel pensiero, personaggi storici decisivi hanno di necessità subìto vicende testuali determinate dalle esigenze di chi, dopo di loro e in nome loro, ha agito. Si potrebbe partire dalla tormentata e affascinante vicenda del canone neotestamentario, e si potrebbe seguitare sul filo dei millenni. Ma, per tenerci al fenomeno storico del comunismo, viene in mente la censura esercitata da Karl Kautsky — più o meno in accordo con l'autore — nell'atto di pubblicare l'ultimo scritto di Engels (1895). E si potrebbe ricordare il destino testuale del cosiddetto testamento di Lenin, che mi è accaduto di ricostruire qualche anno addietro per le edizioni della Fondazione Corriere della Sera: testo per lunga pezza dato per inesistente, e perciò ritenuto inesistente dalla massa dei militanti (ma non dalla élite dirigente) e alla fine sfoderato con clamore e distorsioni interpretative nel corso del kruscioviano XX Congresso del Pcus (1956) e solo allora finalmente inserito nelle opere complete di Lenin (da Mosca alle parigine Editions sociales, ai romaneschi Editori Riuniti). E quanto a opere complete si potrebbe largamente esemplificarne la intenzionale incompletezza — quando l'autore non sia un poeta parnassiano, ma un politico che ha fatto storia — dovuta a ragioni tutte politiche: le quali vanno capite e giudicate non col metro dello scandalo, ma della intelligenza storica. Si pensi alle lacune nella edizione nazionale di Mazzini.
Non paia troppo irenico questo modo di vedere le cose. Nel fuoco dello scontro diviene comprensibile tanto l'occultamento, nelle opere «complete» di Gramsci, della lettera sua al Partito comunista russo (ottobre 1926), culminante nel profetico giudizio «state distruggendo l'opera vostra», quanto la volontà di tirarla fuori, quella cruciale lettera, da parte di chi non accettava più o riteneva ormai anacronistica la voluta rimozione di quel testo. Siffatte opposte volontà non si manifestano quasi mai in garbata successione diacronica, ma, più spesso, scendono in lotta l'una contro l'altra. E posso capire quanto sia stata e sia tuttora disagevole la posizione di chi difende la storia sacra di partito fino ad essere superato dalla ricerca scientifica, ostinandosi in tale atteggiamento anche quando si è smarrito l'oggetto cui quella storia si riferiva.
È questo il caso che si è venuto sviluppando intorno al primo e soprattutto al secondo saggio che Franco Lo Piparo ha dedicato alla storia del testo dei Quaderni di Gramsci. Il merito principale del recentissimo saggio L'enigma del Quaderno (Donzelli) è di aver finalmente avviato il lavoro che si doveva fare da tempo: mettere in ordine e vagliare le fonti riguardanti la consistenza di quell'importante corpus. Nello svolgere tale meritorio lavoro, di cui certamente gli editori premurosi del corpus gli saranno grati, egli si è imbattuto in fenomeni che meritavano di essere posti in luce. Un esempio tra tanti è la traduzione di una frase che è anche la prima attestazione sulla consistenza del corpus. Si tratta di una lettera in lingua russa di Tania Schucht, prima tutrice del lascito gramsciano, alla famiglia a Mosca, scritta appena 28 giorni dopo la morte di Gramsci. Ora sappiamo che Tania scrisse: «i Quaderni di Antonio sono in tutto XXX (scritto così) pezzi (XXX štuk)». La traduzione adoperata dal Vacca suonava strambamente: «i Quaderni di Antonio saranno una trentina»! Che dunque i Quaderni, a parte i 4 di traduzioni, fossero esattamente 30 e non 29 come nell'edizione Gerratana, resta ormai assodato. E mette conto osservare che il dato è confermato da Togliatti stesso in una lettera a Manuilskij scritta due settimane più tardi, l'11 giugno '37: «Esistono 30 quaderni da lui scritti, che contengono una rappresentazione materialistica della storia d'Italia» (definizione acuta e pertinente, che ovviamente non riguarda i 4 quaderni di traduzioni dalle fiabe dei fratelli Grimm o da un trattato di linguistica).
Da quel momento in avanti si oscilla, nelle fonti sinora disponibili, tra 30, 32 e 34 Quaderni (mai 33 quanti sono quelli fin qui noti). E dunque ci sarà pure un problema — che in filologia si chiama la recensio dei testimoni conservati o perduti — per gli studiosi che da tempo si affannano su questi testi. Problema che non si risolve (come fece tempo addietro Guido Liguori, l'autore del Gramsci conteso) invocando il turbamento in cui versava l'animo di Togliatti, quando disse e scrisse che i Quaderni erano 34, perché due giorni prima era stato fucilato Mussolini.
Non è il caso di addentrarsi qui ulteriormente nella trama sottile dei riferimenti che lo studio di Lo Piparo raccoglie e mette a frutto, lontano ormai dalle escursioni ideologiche che disturbavano il precedente suo saggio. Spiace invece osservare che, in un momento di malumore, il Vacca, prima ancora di aver letto il volume, abbia definito le nuove acquisizioni documentali che stanno emergendo in questo e in altri ambiti delle ricerche: «ossicini di Cuvier» (piccoli indizi da cui si traggono grandi ricostruzioni). C'è da augurarsi invece che, al di là delle inevitabili effervescenze della prima ora (intervista a Simonetta Fiori, «la Repubblica», 2 febbraio), anche questo nuovo studio rallegri il lavoro dell'officina gramsciana tuttora all'opera, cui è da augurare serenità e filologico progresso.

Repubblica 4.2.13
Cyber bulli, terrore dei ragazzini “Più pericolosi di droga e pedofili”
“Save the children”: aggrediscono via chat e sms senza pietà
di Vladimiro Polchi


ROMA — Arrivano i “cattivi” di nuova generazione: la carica dei bulli 2.0. Dimenticate i tipacci che rubano la merenda o tormentano con scherzi crudeli i deboli della classe. Oggi i prepotenti fanno gruppo sui social network, si nascondono dietro l’anonimato dei nickname, aggrediscono la vittima via sms, chat e forum. Sono i nemici dei nativi digitali: li chiamano cyber bulli. Per il 72% dei ragazzi italiani, sono loro il pericolo numero uno.
In vista del Safer Internet Day che si celebra domani in tutta Europa, una ricerca di Save the Children fotografa l’uso delle nuove tecnologie come strumento di aggressione tra i giovani “internettiani”. Stando all’indagine (svolta da Ipsos su un campione di 810 ragazzi tra i 12 e i 17 anni) il bullismo è avvertito dai giovani come il maggior pericolo del loro tempo (72%), più della droga (55%), delle molestie da parte di adulti (44%) e delle malattie sessualmente trasmissibili (24%). Ma quali sono i motivi per i quali si è presi di mira? Le caratteristiche fisiche (67%), la timidezza (67%), l’essere considerate brutte per le ragazze (59%), l’orientamento sessuale (56%), l’essere straniero (43%) e persino la disabilità (31%). Meno importante è l’orientamento politico o religioso. Il bullismo ha radice nelle relazioni reali (scuola 80%, piazzetta 67%) e rinforzo in quelle virtuali. Il mix è infatti totale: il 65% dei ragazzi afferma che quando una persona viene presa di mira lo è ovunque nel mondo reale e virtuale. I social network sono il mezzo preferito dal cyber bullo (61%), che di solito colpisce la vittima attraverso la diffusione di foto denigratorie (59%) o tramite la creazione di gruppi “contro” (57%). Lo conferma il racconto di una bambina: «Faccio la V elementare e nella mia classe siamo quasi tutte su Facebook. Un giorno le mie compagne mi invitano a entrare in un gruppo “anti”, cioè fatto apposta per prendere in giro una persona. Con mamma lo abbiamo segnalato a Facebook, così l’hanno chiuso».
Le esperienze di cyber bullismo sono molto diffuse, sembrano avere toccato 4 ragazzi su 10. Per un aiuto ci si rivolge spesso alle madri: il 46% conosce la password del profilo del figlio (nota al 36% dei papà). Il mondo digitale è terreno di caccia dei nuovi bulli e non potrebbe essere altrimenti: il 19% dei ragazzi è connesso a internet per più di 5 ore al giorno. Molteplici i comportamenti a rischio: i giovani mandano foto (28%) nudi o seminudi agli amici e il 19% si spoglia davanti alla webcam in cambio di regali. «I nativi digitali sono attori di un mondo complesso che scuola e famiglia non possono affrontare da soli — sostiene Valerio Neri, direttore generale di Save the Children Italia — nel 2007 furono istituiti gli Osservatori Regionali sul bullismo. Era prevista una valutazione anche in itinere del loro operato. Che ne è stato? Sarebbe forse opportuno verificare, per non partire ogni volta da zero». Un rimedio potrebbe essere il confronto tra ragazzi, alla pari, «lavorare sui “bulli” più consapevoli per trasformarli nel contrario, cioè in leader di atteggiamenti anti-bullistici».

Repubblica 4.2.13
Nel suo saggio in uscita domani Marco Revelli analizza la crisi dei sistemi di rappresentanza e il futuro delle istituzioni
Senza democrazia
La politica a caccia di nuove “forme”
di Marco Revelli


Nel passaggio dalla riflessione colta alle retoriche politiche prevalenti, quelle che erano domande e individuazioni di rischi sono diventate perentorie certezze. La formula ha perso il punto interrogativo per assumere l’esclamativo: «Non può esserci democrazia senza partiti! ». L’ha scritto sotto il titolo impegnativo A cosa serve la politica?
Massimo D’Alema, sia pur ammettendo la difficoltà del compito di convincerne gli elettori («Non basta riaffermare ciò che è indiscutibilmente vero: non c’è democrazia senza i partiti»). L’ha ripetuto, in un accorato appello radiofonico, Rosy Bindi («Senza i partiti non c’è democrazia e il cittadino è costretto a scegliere tra i tanti populismi che si annidano nel nostro Paese o le tecnocrazie che ci dettano ricette da organismi che non hanno fondamento democratico»). L’ha ripreso sul fronte politico opposto Maurizio Lupi in veste di vicepresidente della Camera («Non possiamo far vincere il populismo di chi vorrebbe cancellare la politica e i partiti che ne sono la massima espressione. Senza i partiti non c’è democrazia»).
L’ha ribadito infine, con tutta l’autorevolezza istituzionale che gli deriva dall’alta carica ricoperta, il presidente Giorgio Napolitano in un citatissimo discorso tenuto a Mestre al Teatro Toniolo nel settembre del 2012: «Non può esserci democrazia funzionante senza il canale dei partiti politici. Nessuna nuova o più vitale democrazia può nascere dalla demonizzazione dei partiti». Tutti con l’obiettivo di affermare perentoriamente la tesi che alla centralità dei partiti politici non c’è alternativa, secondo la logica del «tutto o niente ». E di porre un Paese spaesato e attonito di fronte alla necessità di accettare l’improbabile prospettiva di un qualche recupero dei partiti politici al loro compito storico e alla loro natura originaria di gestori della partecipazione, pena la perdita della possibilità stessa di partecipare e decidere.
In realtà non è così. Il nesso tra la democrazia e la “forma-partito” così come essa si è strutturata nell’ultimo sessantennio non è affatto così esclusivo e indissolubile. La democrazia dei moderni si è definita concettualmente e praticamente ben prima che comparisse all’orizzonte il “partito di massa” e che esso divenisse il monopolista quasi esclusivo del processo di partecipazione e di rappresentanza. Può sopravvivere alla fine di quel monopolio e di quella centralità, rinnovandosi nei contenuti e nelle procedure. Né l’attuale crisi dei partiti nella loro espressione storica ci pone di fronte alle alternative “terminali” e “assolute” che la retorica della “fine della democrazia” sembrerebbe richiamare: il “partito politico” non scompare istantaneamente in ogni forma e in ogni luogo. S’indebolisce, certo. Si modifica: può subire una metamorfosi selettiva, più profonda in alcune realtà geopolitiche e sociali, meno in altre. Per molti aspetti l’ha già
subita. È mutato nel profondo, nei suoi stessi codici genetici.
Esattamente come l’impresa capitalistica ha mutato il proprio “paradigma” socio-produttivo nella transizione alla modernità post-industriale e post-fordista — assumendo una formale orizzontalità tecnico- operativa e accentuando la propria sostanziale verticalità nei meccanismi del comando e dell’agire strategico — allo stesso modo la forma organizzativa “partito” si è “dissipata” alla base, allentando il proprio radicamento territoriale e sociale, annacquando i propri legami identitari, e si è verticalizzata. Ha accentuato il trasferimento “in alto” dei propri centri di comando. Ne ha rafforzato il grado di autonomia rispetto alla massa dei militanti e degli elettori. E ha visto nascere — in quello che era il proprio “ambiente” originario nel senso tecnico del termine, nel proprio environment naturale — altre forme di rappresentanza degli interessi e delle culture, reti più o meno lunghe di partecipazione parallela o alternativa, culture, soggettività, aggregazioni che hanno complicato il “gioco”. Moltiplicato gli attori. Relativizzato i poteri.
È da tempo — da un paio di decenni almeno — che il partito politico ha smesso di svolgere nei nostri sistemi istituzionali cosiddetti avanzati il proprio ruolo storico. E che la nostra democrazia rappresentativa ha mutato natura e logica di funzionamento. Il fenomeno, soprattutto in Italia, è stato mascherato in qualche misura dalla sostanziale continuità di buona parte della classe politica e del personale professionale di partito, sopravvissuto alle pur rilevanti contorsioni dei rispettivi supporti organizzativi. Ma le dis-connessioni sono state numerose, ed evidenti: basti pensare alla toponomastica politica e parlamentare dove non vi è settore in cui si trovi ancora traccia delle antiche etichette anche se vi siedono spesso le medesime facce. Basta dare un’occhiata alla simbologia politica — sensibilissimo indicatore dei sommovimenti profondi delle appartenenze e delle identità — resettata sistematicamente con un processo di sradicamento che ricorda per molti versi l’ondata biblica che ha spopolato il nostro entroterra montano. O, ancora, è sufficiente curiosare tra le pieghe del nostro territorio con occhio avvertito, censire l’infinità di sedi dismesse nelle periferie urbane o nei piccoli centri, le vecchie insegne stinte, le bacheche di quartiere ingial-lite, per cogliere il processo esteso di “sottrazione” dai luoghi dell’abitare della rete organizzativa partitica, in un esodo verso il centro e verso l’alto che lascia al livello del suolo il vuoto.

Repubblica 4.2.13
E Sartre disse a Baader “Basta con il terrorismo”
Lo “Spiegel” rivela il colloquio tra il filosofo e il fondatore della Raf
di Andrea Tarquini


BERLINO Già anziano e pieno di dubbi, ma carico di prestigio, il grande intellettuale critico della gauche tentò di fermare il partito armato, e di redimere l’artefice degli Anni di piombo. Andò apposta a trovarlo nel carcere di massima sicurezza di Stammheim presso Stoccarda, ma non riuscì a fargli cambiare idea. Ripartì celando dietro dichiarazioni ufficiali contro la repressione la sua delusione profonda, e tenendosi dentro il senso di sconfitta. Sembra un film, invece è una storia vera, top secret fino a ieri. L’eroe sconfitto e l’antieroe caparbio, si chiamavano Jean-Paul Sartre e Andreas Baader. Accadde il 4 dicembre 1974. Quasi quarant’anni dopo, i protocolli segreti di quel colloquio in carcere sono stati resi pubblici. Sono un documento storico, rivelato da Der Spiegel, che ha ottenuto dalle autorità la trascrizione pressoché integrale del colloquio, stilata con diligenza e persino con precise annotazioni sugli umori dei due, da parte dei poliziotti presenti.
«Le masse, guardiamo alle masse», esordì l’autore de La nausea, Critica della ragione dialettica, Situazioni e di tanti testi-chiave della cultura contemporanea. «La Rote Armee Fraktion ha intrapreso azioni con cui il popolo non era d’accordo». Un j’accuse e un monito chiaro, contro la scelta della lotta armata e del terrorismo in una democrazia. Baader rispose arrogante e impassibile: «È stato constatato che il venti per cento della popolazione simpatizza con noi».
L’idea dell’incontro era venuta a Ulrike Meinhof, la pasionaria delle Br tedesche. Sperava che il grande Sartre, già prigioniero della Wehrmacht e resistente, vedesse nella Repubblica federale uno Stato-erede del Reich e nei terroristi quasi una reincarnazione
dei partigiani. Ma il muro dell’incomprensione si levò subito tra i due. «So di quelle statistiche», replicò Sartre, «sono state pubblicate ad Amburgo». Baader s’illuse di averlo convinto, e partì alla carica: «La situazione in Germania dipende da piccoli gruppi, nella legalità e nell’illegalità».
Immediata, dura e chiarissima venne la risposta di Sartre: «Queste azioni sono giustificabili in Brasile (dove allora era al potere una brutale dittatura militare, ndr), ma non in Germania». Perché mai?, chiese Baader infastidito e sorpreso. «In Brasile », rispose il premio Nobel, «singole azioni sono state necessarie per cambiare la situazione, quelle azioni sì che furono il necessario lavoro di base». Baader, annotarono i poliziotti, appariva sempre più irritato. Perché qui è diverso?, domandò. «Qui non c’è il tipo di condizione del proletariato che c’è in Brasile», tentò di convincerlo Sartre. Il terrorista allora divenne ostile. Ricordò (nelle comode celle d’isolamento lui e gli altri avevano radio e tv) che Sartre aveva appena definito “un crimine” l’assassinio di un giudice a Berlino da parte dei terroristi. «Pensavo che lei fosse venuto come amico, non come giudice ».«Voglio discutere con lei dei vostri princìpi», tentò ancora Sartre, «Difficile», ribatté il terrorista. Poi, annotarono i poliziotti, prese a leggere più volte frasi fatte di un suo comunicato di tre pagine dattiloscritto. «Il processo obiettivo attraversa contraddizioni... nell’offensiva la sinistra in Germania è accerchiata e isolata, la annienteranno... lo stato d’emergenza è in preparazione, l’offensiva contro di noi non è visibile, gli strumenti del capitalismo sembrano naturali; la politica del nemico di classe…». A quel punto Sartre lo interruppe, con un soprassalto: «Scusi, non riesco capire, che vuol dire “la politica del nemico di classe?”».
Tentativo inutile. Baader tornò a leggere, parlò di «due linee, la frazione del Capitale e quella del debole riformismo... noi vediamo la possibilità di una dittatura strisciante, ecco la speciale situazione tedesca, il capitalismo Usa impone la sua politica». Nello scarno locale per i colloqui strettamente sorvegliati a Stammheim, si respirava sempre più un’atmosfera di dialogo tra sordi. Sartre ripeté con la massima chiarezza: «Guardi, le azioni della Rote Armee Fraktion non raccolgono nessuna eco nella Repubblica federale. Attacchi armati sono certamente giusti in paesi come il Guatemala, ma non qui».
Baader rispose con una provocazione, gli suggerì di creare gruppi armati in Francia. «Eh no, non credo proprio che il terrorismo sarebbe una cosa buona per la Francia», replicò Sartre. Baader, annotarono i poliziotti, si mostrò deluso, aveva sperato in un appoggio di Sartre al partito armato. Il visitatore da Parigi se ne andò in silenzio, alla conferenza stampa si limitò a criticare la “inumana” detenzione in isolamento di Baader e degli altri terroristi. La stampa tedesca sparò a zero su di lui. Baader, Gudrun Ensslin e gli altri capi storici della Raf morirono suicidi in cella il 18 ottobre 1977 dopo il blitz antiterrorismo contro il jet Lufthansa dirottato a Mogadiscio per ottenere la loro liberazione. L’ultrasinistra parlò di omicidio, ma i loro avvocati — disse l’inchiesta — avevano procurato loro le armi per uccidersi. Sartre scomparve tre anni più tardi, all’apice della gloria, senza mai narrare a nessuno quel suo disperato tentativo di risparmiare all’Europa gli anni di piombo del partito armato.

La Stampa 4.2.13
In principio ci sono i diritti la politica può ripartire di qui
Stefano Rodotà presenta il suo libro «Il diritto di avere diritti»
di Juan Carlos De Martin


Ai più giovani il nome di Stefano Rodotà probabilmente ricorderà la battaglia per l’acqua pubblica, coronata dallo straordinario successo del referendum popolare del giugno 2011. Ad altri invece ricorderà l’introduzione in Italia delle norme per la protezione dei dati personali (privacy) o la proposta di emendare l’articolo 21 della Costituzione per introdurvi il diritto di accesso a Internet. Per chi segue più da vicino la produzione accademica e l’attività pubblica di Stefano Rodotà, l’elenco di temi è naturalmente molto più lungo, spaziando dalla bioetica alla democrazia elettronica, dal diritto privato ai beni comuni.
Una molteplicità di temi dotata però di un’intima coerenza, un centro che connette i temi tra loro e che li rende articolazioni di un unico discorso, ovvero il discorso sui diritti. Ciò era già chiaro a chiunque avesse seguito con attenzione gli interventi di Stefano Rodotà, ma ora col suo ultimo libro il cuore delle sue riflessioni si dispiega con particolare chiarezza e ricchezza, rendendo al contempo maggiormente esplicite le connessioni tra le sue articolazioni. Il titolo, Il diritto di avere diritti (Laterza, pp. 426, € 20), è tratto da Le origini del totalitarismo di Hannah Arendt. Nella prima parte del libro Rodotà ricorda che la dimensione dei diritti è «fondativa e fragilissima», una dimensione che ha sempre bisogno di venire argomentata e difesa, tanto più in un periodo di grave crisi economica e politica come quello che stiamo vivendo. Si tratta inoltre di attualizzare la narrazione dei diritti, analizzando gli elementi di novità e evitando sia gli entusiasmi immotivati sia i rigetti aprioristici.
La seconda e la terza parte del libro sono dedicate rispettivamente alla persona e alla macchina. Se la parte dedicata alla persona si concentra sui concetti di dignità, autodeterminazione e identità, la parte dedicata alla macchina esplora le evoluzioni - gravide di conseguenze di cui per ora sono visibili solo le prime avvisaglie - nel campo delle tecnologie biologiche, nanotecnologiche e digitali. Riguardo al digitale, Rodotà si interroga in particolare su come proteggere Internet, «il più grande spazio pubblico che l’umanità abbia mai conosciuto», insidiato sia dal potere economico sia dall’invasività degli Stati.
Il diritto di aver diritti è un libro fortemente politico, e non solo per il tema che tratta, ma anche perché Rodotà ricorda costantemente che i diritti potrebbero rappresentare una straordinaria opportunità di rilancio per la politica; un’occasione per riacquistare legittimità e incisività tornando a occuparsi della vita delle persone, dei loro corpi, delle loro esigenze e aspirazioni quotidiane. I molti movimenti per i diritti che in questi anni si sono attivati in tutto il mondo sono la prova tangibile dell’opportunità che finora la politica, però, non ha colto.
Con Il diritto di avere diritti uno dei più importanti intellettuali pubblici italiani ci offre gli strumenti per affrontare la realtà - complessa e densa di sfide inedite - di questo inizio di secolo. Lo fa rifiutando tanto le semplificazioni quanto gli impulsi a rincantucciarsi nel passato. Lo fa animato dal desiderio di esplorare il confine in costante evoluzione della dignità umana.
Stefano Rodotà presenta il suo libro «Il diritto di avere diritti» oggi alle 21 al Circolo dei lettori di Torino. Con l’autore ci saranno Juan Carlos De Martin, Elisabetta Galeotti, Ugo Mattei e Anna Masera

Repubblica 4.2.13
Viaggio su Solaris in versione integrale
La prima traduzione completa del capolavoro fantascientifico di Lem
di Dario Pappalardo


Stanislaw Lem preferiva la versione di Clooney a quella di Tarkovskij. Non digerì mai la trasposizione cinematografica che del suo Solaris fece il maestro del cinema russo: troppe scene oniriche e un’introduzione bucolica inventata di sana pianta. Meglio allora il remake hollywoodiano firmato da Steven Soderbergh nel 2002: piatto sì, ma più fedele al romanzo. Eppure il regista “traditore” Tarkovskij e lo scrittore “tradito” Lem hanno condiviso, almeno nelle versioni italiane dei loro capolavori, un destino comune: la mutilazione. Il film uscì in Italia nel 1972 tagliato di cinquanta minuti. Il romanzo l’anno successivo (ma l’originale era del 1961) per l’Editrice Nord, che lo adattò dalla traduzione inglese (a sua volta ripresa dal francese) snellita per ragioni editoriali di decine di pagine. Mondadori, nel 1982, ristampò lo stesso testo.
Sellerio, oggi, vendica l’autore morto intanto nel 2005: Solaris è stato tradotto per la prima volta direttamente dall’originale polacco da Vera Verdiani). Un bel saggio di Francesco M. Cataluccio accompagna la nuova edizione ricostruendo genesi e fortuna del romanzo. Fortuna che era andata via via evaporando e che nemmeno la performance di George Clooney, rivelatasi un fallimento al cinema, contribuì a rilanciare. L’etichetta della fantascienza affibbiata a Solaris ha finito per deludere gli amanti del genere spaziale tutto astronavi e battaglie galattiche, che qui non trovano pane per i loro denti. E per non interessare gli appassionati di letteratura tout court.
Lem, che casualmente aveva per cognome la sigla del modulo lunare (Lunar Excursion Module), costruisce un universo in cui l’ignoto non arriva da fuori, ma da dentro. Solaris è un pianeta “vivente”, composto da un oceano di neutrini che provocano allucinazioni agli astronauti che entrano nella sua orbita. I neutrini pensanti prendono forma di desideri e incubi degli umani. Chiunque si avvicini al pianeta vede materializzate davanti agli occhi figure provenienti dal proprio inconscio. In quello dello psicologo Chris Kelvin, spedito su Solaris per indagarne i misteri (è lui la voce narrante), c’è il fantasma della moglie Harey, morta suicida, che, puntualmente, compare. Come gli androidi di Dick, consapevoli di non essere umani, anche i “visitatori” di Lem sono pienamente al corrente del loro difetto di realtà. La falsa Harey sa di non poter esistere se non in funzione dell’inconscio del marito. Nasce da qui il dramma del simulacro che cerca la morte come il suo originale.
Per Lem la fantascienza descrive i limiti della conoscenza umana: la tecnologia del futuro non risolve i problemi del presente, ma mette in luce le fratture insanabili di sempre. Il pianeta qui non è territorio di conquista, ma di sfida. Solaris è una enorme struttura cerebrale con cui i singoli uomini devono rapportarsi con il rischio, o la speranza, di impazzire. Lo scrittore polacco viene più volte accostato a Philip K. Dick, di cui, per ragioni cronologiche, può considerarsi un precursore. Ma tra i due non correva buon sangue. Lem considerava l’ispiratore di Blade Runner «un visionario tra i ciarlatani ». Dick accusò il collega di essere una spia comunista. Intanto l’Associazione americana di scrittori di fantascienza si era affrettata a ritirare la tessera di socio onorario all’autore di Solaris.
La colpa? Aver criticato un genere letterario «appiattito tra due estremi: le ingenue inversioni del mondo reale e le facili invenzioni di mondi fiabeschi». A Lem non interessavano né le une, né le altre.