martedì 5 febbraio 2013


Oggi a Berlino il leader Pd incontra il ministro tedesco delle Finanze Schäuble
l’Unità 5.2.13
Roberto Gualtieri
«Con il manifesto di Parigi abbiamo definito l’agenda Ora dobbiamo collocare quelle idee in una visione dell’Europa politica»
«A Torino si apre la stagione dell’europeismo progressista»
«In Europa c’è solo il Pd: Monti non sta nel Ppe (che non vuole il Pdl), Grillo
e Ingroia non esistono»
di Simone Collini


«Con questa iniziativa non solo si esprime il sostegno delle forze europee di centrosinistra al Pd e a Pier Luigi Bersani, ma si compie un’altra tappa della costruzione di un’agenda dei progressistiper l'Ue». Roberto Gualtieri parla dell’appuntamento che si svolge a Torino venerdì e sabato. Al Teatro Regio ci saranno leader politici, ministri, capi di Stato e di governo provenienti dai quattro angoli dell’Ue. E sotto la Mole firmeranno la cosiddetta «dichiarazione di Torino», un documento centrato sulla necessità di realizzare una vera unità politica dell’Europa. Alla stesura del testo, per l’Italia, stanno lavorando per l’Italia Giuliano Amato, Cesare Pinelli e l'europarlamentare Pd Roberto Gualtieri. Che spiega: «Una delle ragioni dell’attuale egemonia in Europa dei conservatori sono i limiti che i progressisti hanno manifestato nella stagione in cui erano al governo in quasi tutti i Paesi europei, alla fine degli anni 90». Quali limiti?
«Da un lato, la Terza via ha avuto il limite di affidarsi eccessivamente agli effetti della globalizzazione tramite il mercato, dall’altro, c’è stata la permanenza del modello di riformismo nazionale tipico della socialdemocrazia. È mancata cioè una nuova fase politica, che definirei europeismo progressista».
Qual è la sfida che hanno di fronte oggi i progressisti europei?
«Quella di costruire un’Europa politica. La crisi ha mostrato che va rafforzato il processo di integrazione, che serve un governo economico dell’euro, che si deve superare la asimmetria tra una politica monetaria comune e una politica economica lasciata ai singoli Stati. Le forze progressiste in passato hanno saputo costruire lo Stato sociale. Ma ora nell’epoca della finanza globale bisogna realizzare un nuovo ciclo di civilizzazione del capitalismo su base europea».
L'appuntamento di Parigi, nel marzo scorso, e ora quello di Torino possono servire a realizzare questo progetto? «Assolutamente. Alla Fondazione per gli studi progressisti europei va il merito di aver immaginato la possibilità di realizzare questa nuova piattaforma attraverso delle iniziative da organizzare in Francia, Italia e Germania. A Parigi abbiamo in parte definito un'agenda economica progressista, con proposte che allora sembravano utopiche e che oggi non lo sono più, come l'introduzione di una tassazione sulle transazioni finanziarie, o la necessità di riequilibrare rigore e crescita. A Torino, nella seconda tappa di questo percorso, riprenderemo l'elaborazione di questi aspetti però collocandoli in una visione più ampia dell'Europa politica».
Perché?
«Perché una politica europea per la crescita e la coesione sociale richiede un governo economico dell'euro che a sua volta non può essere costruito senza avanzare con decisione sulla strada dell' Europa politica».
L'appuntamento di Torino avrà anche una valenza elettorale favorevole al Pd? «Il Pd è l'unico partito che ha una chiara collocazione europea, all'interno dell'Alleanza dei socialisti e dei democratici. Monti dice che non fa parte del Ppe. Il Ppe dice che non vuole Berlusconi e però non arriva alle debite conclusioni. Grillo, Ingroia non hanno riferimento. Appare chiaro che la nostra è l’unica proposta di governo credibile anche perché è l’unica incardinata sul terreno di una politica europea».
Non si può però dire che Monti sia privo di una visione europeista, non crede? «Il punto è che solo politicizzando l’Europa ci si sottrae alla dialettica pericolosa, per l’Italia e per l’Ue, tra tecnocrati da una parte e populisti dall’altra». Cosa intende dire?
«La polarizzazione tra un’Europa dei tecnici e un’antieuropeismo come quello professato da Berlusconi o da Grillo può essere superata soltanto costruendo una vera dialettica tra progresssiti e conservatori su scala continentale, e battendosi per un’Europa diversa». Basta questo per dire che Monti non può invece garantire una politica realmente europeista?
«Mi ha colpito molto quanto ha scritto Monti nel libro “La democrazia in Europa”, laddove si esprime contro la scelta di un’elezione per così dire diretta da parte dei cittadini del presidente della Commissione europea. I progressisti europei hanno fatto una scelta diversa, che rilanceranno proprio a Torino. Quella cioè di utilizzare le elezioni europee anche per rendere non più frutto di trattative a porte chiuse ma frutto di una decisione degli elettori la scelta del presidente della Commissione».
Cosa intende quando parla di costruzione di un’Europa politica?
«Serve una transizione verso un modello originale di Unione federale, dotata di un sistema di risorse proprie e degli strumenti necessari a un effettivo governo del ciclo economico. Ora che è chiaro a tutti che va corretta la linea dell’austerità, va definito un modello di governance democratica dell’Unione. Emerge infatti forte il nesso tra la correzione della linea dell’austerità e la costruzione di un equilibrio migliore tra disciplina di bilancio, sviluppo e occupazione, da un lato. E, dall’altro, il rafforzamento delle istituzioni europee e del loro carattere democratico. A Torino presenteremo le nostre proposte».

Ha ragione Claudio Sardo...In gioco, un’immagine di società, il discorso sulle forme di vita, un’idea della pianta uomo e di convivenza umana
C’è una comune disposizione d’animo, di anima politica, che unisce e raccorda oggi cattolici e sinistra, l’estraneità dell’individualismo dal proprio orizzonte generalmente umano, che è poi quello specificamente politico...
Si evidenzia qui il bisogno di una nuova unità, emergenziale, tra questione antropologica e questione sociale...
Con le unghie e con i denti, uscirne fuori, ecco un compito per cui vale la pena di battersi...

l’Unità 5.2.13
I cattolici, la sinistra e la sfida nazionale
di Mario Tronti


Ha ragione Claudio Sardo a mettere in evidenza la doppia reciproca sfida che dai cattolici viene alla sinistra e che dalla sinistra investe i cattolici. Questi non sono più, come un tempo, due mondi internamente compatti.
Il movimento operaio da una parte, il cattolicesimo politico dall’altra. Oggi sono due mondi articolati, ognuno a suo modo plurale, ognuno ormai complexio oppositorum. Tema strategico, il loro rapporto, non per la cattura del consenso, ma per il governo del Paese e per la ricostruzione, sempre più urgente, di un ethos pubblico.
In gioco, un’immagine di società, il discorso sulle forme di vita, un’idea della pianta uomo e di convivenza umana, nell’irrompere salutare della differenza, come bandiere della modernità, che un post-moderno sregolato e selvaggio ha lasciato cadere nella polvere e che vanno raccolte, insieme, da credenti liberi e da non credenti responsabili. Un’operazione di intenso spessore neo-umanistico, in risposta all’ultimo disagio di civiltà che la crisi economico-finanziaria e politico-sociale ha definitivamente messo a nudo.
Un passaggio elettorale non può disperdere la necessità di questo confronto. Anzi, è l’occasione per rilanciarlo, nei modi opportuni. Forse mettendo per un momento da parte i principi irrinunciabili e piuttosto disponendosi in ascolto delle domande più urgenti che vengono dal basso della società. È indubbio che a questo ascolto, siano più di tutti gli altri disponibili i cattolici e la sinistra. E allora da qui conviene partire. Con un atteggiamento di sobria confidenza con le persone che lavorano, che faticano, che soffrono, e non per loro colpa biblica, ma per il sistema ingiusto che li opprime. Sobria confidenza e cioè solidarietà alla pari, comune destino, e non demagogia populista da fuori e dall’alto, che fino a ieri veniva solo da Arcore, ora la vediamo venire anche dalla Bocconi. Miracoli della campagna elettorale: almeno qui da noi, finché non si metterà la parola fine a questa eterna favola del lupo e dell’agnello. I tanti voti, come i tanti spiccioli, ce li hanno i poveri: messi insieme, servono ai ricchi per tenere al sicuro i loro patrimoni.
Forse bisogna metterla così, per rompere l’incantesimo di un mondo rovesciato. E per dire che dal governo guarderemo il mondo dall’altro lato. Per punire nessuno. Per garantire a ciascuna parte la sua legittima funzione, anche alla ricchezza, che deve servire però al bene comune e non al privilegio dei pochi. Per assicurare a chi dalla vita ha potuto avere troppo poco, o addirittura niente, quel valore non negoziabile che è la dignità umana. Perché senza dignità non c’è libertà, quella libertà che sta sempre sulla bocca dei potenti. Senza dignità, c’è la tentazione, e di più, c’è l’obbligazione della servitù. C’è il rifugio illusorio del salvarsi da solo, partecipando a mani nude alla lotta brutale per l’esistenza, in una competizione impari con chi ha a disposizione le armi del privilegio di nascita e di risorse. C’è una comune disposizione d’animo, di anima politica, che unisce e raccorda oggi cattolici e sinistra, l’estraneità dell’individualismo dal proprio orizzonte generalmente umano, che è poi quello specificamente politico. Si evidenzia qui il bisogno di una nuova unità, emergenziale, tra questione antropologica e questione sociale. Non è solo un problema di particolare momento, si tratta tra l’altro di riuscire a sollevare il discorso pubblico ad altezze incompatibili rispetto alla palude volgare, indecente, in cui l’ha precipitato il racconto berlusconiano, leghista, grillino e quant’altro lo insegue, per imitazione, su questo terreno.
Bisogna avere fiducia nella capacità di riconoscimento tra le varie offerte politiche da parte delle persone, prese singolarmente. Anche se va mantenuta una punta di scetticismo sui movimenti di opinione collettiva, ora gravemente inquinati dalla magia della comunicazione di massa. Penso che alla fine il modo più efficace per ottenere il necessario consenso sia sempre quello di presentarsi per quello che si è. Questo sono. E per questo chiedo di essere scelto. Penso che in una campagna elettorale una forza politica debba comportarsi come il maestro con gli allievi, come il padre con i figli. Non con una vocazione pedagogica, non per insegnare come si deve essere, che cosa si deve fare, in che modo si deve vivere. Ma semplicemente dicendo, anzi mostrando: io sono così, io faccio questo, io vivo in questo modo. Una esemplarità, dove ognuno, specchiandosi, ritrova, può ritrovare, e appunto riconoscere, il meglio di sé.
E allora, però, è indispensabile avere dietro un percorso di esperienze inattaccabili, è necessario poter presentare non solo un bagaglio di idee alternative, ma una generazione di uomini e di donne in grado di portarle nel quotidiano della loro esistenza. Questa è la nobiltà di essere partito. Si è persa. Va recuperata. Non siamo fuori tempo massimo. Siamo in un tempo difficile per la serietà delle intenzioni. Con le unghie e con i denti, uscirne fuori, ecco un compito per cui vale la pena di battersi.


Corriere 5.2.13
Il «Concordato materiale»
di Alberto Melloni


Se c'è qualcuno che ha un debito particolare di riconoscenza verso Giorgio Napolitano è la gerarchia della Chiesa. Non è l'unica. Ma certo la complessa struttura dell'autorità ecclesiastica — la Conferenza episcopale, la segreteria di Stato, gli organi di un'ispirata azione pre-politica diventata politica in un lampo — ha trovato nella linea del presidente della Repubblica il sentiero per uscire da una situazione che sarebbe eufemistico definire complessa. Il concerto offerto ieri dall'ambasciatore Francesco Greco al Papa e al capo dello Stato doveva celebrare l'anniversario dei Patti Lateranensi. In realtà festeggia il «concordato materiale» che Napolitano lascia in eredità al suo successore e che va al di là dei rapporti, per definizione «eccellenti», fra Stato e Chiesa.
Durante tutta l'era Berlusconi le autorità ecclesiastiche sembravano convinte che il (solo) centrodestra potesse ridare forza alla Chiesa in una società per loro illeggibile. Quando il cardinal Bertone archiviò la presidenza Ruini, iniziò l'attesa di uno sganciamento: che non arrivò né allora né mai. E invece arrivò un diluvio di maldicenza e scandali che hanno disgustato i fedeli.
È stato Napolitano che a fine del 2011 ha inventato una via di uscita. Nominando Mario Monti e affidandogli la guida del governo tecnico, il Quirinale ha consentito al Vaticano di uscire dall'incubo di esser condannati a una sempre più imbarazzante difesa d'ufficio di Silvio Berlusconi. L'episcopato ha colto l'occasione. Le scaramucce fra Cei e Vaticano, che nemmeno il Papa aveva potuto sedare, si sono chetate. E Benedetto XVI ha trovato in Monti un interlocutore capace di moderare l'euroscetticismo pontificio degli ultimi anni. «Mimare» Napolitano è stato insomma per tutte le autorità della Chiesa il modo per poter fare una scelta senza fare scelte. E senza correre rischi.
Poi sono arrivati l'inverno delle primarie, i primi profumi di elezioni e la salita in politica di Monti: cosa che non poteva che trovare il rispettoso «discontento» di chi — il capo dello Stato — lo aveva iscritto in una lista — quella dei senatori — che inizia con Camillo Benso conte di Cavour e nella quale a maggio ritornerà lo stesso Napolitano.
Ma anche quel discontento ha «coperto» la Santa Sede, prima lanciatasi in un inedito sostegno a Monti e poi rapida a battere in ritirata non appena il Professore ha pronunciato la parola «coscienza». Ha dato ansa ai leader cattolici di Todi per posizionarsi nelle retrovie elettorali. Ha fatto uscire allo scoperto le molte posizioni dei vescovi. Da quella del ferrarese monsignor Negri, che ha dato il suo sostegno ai cattolici rimasti a destra, a quella del confratello reggiano monsignor Camisasca, che ha sdoganato il cristiano «adulto» Romano Prodi. Fra i leader della Cei il cardinal Bagnasco ha lanciato una chiamata al voto che potrebbe rivolgersi ai delusi del centrodestra, ma che riprende i richiami del capo dello Stato. Il cardinal Betori, invece, ha riconosciuto che i cattolici presenti in tutti gli tre schieramenti (dunque perfino i negletti del Pd) si misurano con culture «altre» in una logica di confronto che richiama molti appelli del Quirinale. E monsignor Crociata, con un richiamo esplicito alla democrazia «sostanziale» di marca dossettiana, ha riproposto il problema di una dialettica autentica e pacata che ha autorevoli echi al Colle. Dall'altra parte il cardinal Sepe ha personalmente guidato Monti fra le opere di Sant'Egidio, per dare un segnale plateale del sogno suo e di altri di trovare nel premier uscente una sponda conservatrice e presentabile: forte del fatto che non la Chiesa, ma proprio Napolitano lo ha «inventato», e dunque...
In questo moltiplicarsi di voci della Chiesa tutti continuano a far riferimento a Napolitano, per una ragione o per l'altra. E forse il merito maggiore del capo dello Stato è, paradossalmente, aver fatto uscire allo scoperto quelle tante voci: che fra loro ve ne siano alcune che guardino a destra è normale; che non si sentano solo quelle è un bene.

Corriere 5.2.13
L’analisi di Paolo Prodi su Cristianesimo e potere
Società civile, il terzo incomodo del dualismo tra Stato e Chiesa
di Marco Rizzi


L' uscita della raccolta di saggi di Paolo Prodi su Cristianesimo e potere (pp. 232, 22) offre l'occasione per una riflessione sul problema del rapporto tra fede, politica e modernità, e la connessa questione del rapporto tra Stato e confessioni religiose. Secondo Prodi, lo Stato moderno, affermatosi in Occidente nel corso del secondo millennio, trae origine dal confronto con il potere sacrale dei pontefici, di cui assunse le forme e a cui progressivamente impose delle limitazioni, senza tuttavia espellere il sacro e la religione dalla società. Nasce da qui l'idea di laicità dello Stato, oggi in pericolo — osserva Prodi — «sotto il duplice attacco dei fondamentalismi e delle nuove religioni politiche».
Inizialmente utilizzato per analizzare la formazione dello Stato, il dualismo di sacro e secolare è divenuto per Prodi una chiave interpretativa generale, sino a ritenerlo la matrice di ogni aspetto della modernità, dall'economia di mercato alla libertà di coscienza. Così, né la Riforma protestante, né l'Illuminismo o la Rivoluzione francese segnano una discontinuità nella storia dell'Occidente; tantomeno lo sarebbe lo Stato moderno neutrale nelle questioni religiose; anzi, esso rappresenta l'esito necessario del dualismo del Cristianesimo occidentale.
In realtà, il conflitto tra potere sacro e secolare riguardava il controllo di una realtà che rimase sostanzialmente omogenea nel nome della fede cristiana sino alla Riforma luterana. Questa, però, non causò solo la frattura dell'unità religiosa dell'Occidente, bensì introdusse la legittimità sociale e culturale del non credere in alcun dio, conseguente alla possibilità di scegliere (o di esserne costretti) a quale versione del Dio cristiano affidarsi. Inizia qui un processo di pluralizzazione che porta alla nascita, con l'Illuminismo, di un soggetto autonomo di produzione di valori, non riconducibili né allo Stato, né alla Chiesa: la società civile, contro la cui ascesa si alleano invano trono e altare. Lo Stato liberal-democratico otto-novecentesco rappresenta il tentativo di integrare la molteplicità dei valori, inclusi quelli religiosi, presenti nella società civile, proclamandosi neutrale di fronte ad essi.
La caratteristica saliente della modernità non consiste dunque nella secolarizzazione, così come intesa da Prodi, bensì nel pluralismo — culturale, politico, religioso, valoriale — in cui si sono venute articolando le società occidentali all'interno dei diversi Stati nazionali, con una marcata accelerazione che dal Novecento arriva ad oggi. La più autorevole formulazione di questa tesi si deve al sociologo Peter Berger, che ha inoltre mostrato come la forma più pragmatica assunta dall'Illuminismo in America ne abbia determinato l'esito originale: rispetto alla laicité della tradizione europea, la netta separazione tra Stato e Chiese negli Usa garantirebbe maggiormente non solo l'autonomia del religioso, bensì la sua stessa presenza nella società.
In ogni caso, i problemi che devono affrontare oggi sia le religioni, sia le democrazie occidentali non sono riducibili all'opposizione tra credenti (quale che sia il loro Dio) e Stato, tra sacro e secolare, tra laicità dello Stato e dimensione pubblica della religione. Si tratta invece, per la Chiesa, di ripensare la propria presenza in una società irriducibilmente plurale e, di converso per la politica, di trovare nuove forme di integrazione, impedendo la balcanizzazione della società. A questo scopo, il dualismo individuato da Prodi, ammesso sia mai esistito, non sembra di grande utilità sul piano analitico.

l’Unità 5.2.13
Napolitano e il Papa: «Sette anni di ascolto reciproco»
di Marcella Ciarnielli


ROMA Poche parole «in forma di simbolico pubblico commiato» quelle che il presidente della Repubblica nella fase finale del suo mandato ha rivolto al Papa e a quanti affollavano la sala Nervi in Vaticano per il tradizionale concerto in occasione dell’anniversario dei Patti Lateranensi e che hanno riservato un applauso scrosciante all’intervento del Capo dello Stato. L’occasione è stata colta per ricordare «con particolare commozione» i numerosi incontri che Napolitano ha avuto in questi anni con il Pontefice, alcuni «propiziati da un comune amore per la musica», molti altri «nel corso di questi sette difficili anni, difficili non solo per il mio Paese in un mondo sempre più interdipendente» per confrontarsi sulle contingenze, per confermare «una serena e fiduciosa cooperazione tra Stato e Chiesa al servizio del bene comune nel pieno rispetto della distinzione tra la sfera politica e la sfera religiosa», parole queste ultime dette dal Papa.
È stato «il nostro un reciproco ascoltarci». Un dialogo, ha detto Napolitano che «molto mi ha arricchito: sull’Italia, sull’Europa, sulla pace e sulla stessa politica intesa come dimensione essenziale dell’agire umano, sulle radici ideali e morali dell’impegno politico».
E questi sono stati gli argomenti del colloquio «intenso e cordiale» si legge in una nota vaticana, durato circa venti minuti, che Benedetto XVI e il Capo dello Stato hanno avuto prima di raggiungere le altre autorità presenti in sala: i presidenti delle Camere e il premier uscente, molti esponenti della politica, ambasciatori, e anche il segretario del Pd Bersani e Matteo Renzi, il sindaco di Firenze, la città del Maggio la cui orchestra si è esibita in concerto.
Durante il colloquio «significativo» anche il Papa ha ricordato i sette anni in cui con Napolitano «ci siamo incontrati più volte e abbiamo condiviso esperienze e riflessioni». Anche ieri, infatti, si è parlato della necessità di una prospettiva costruttiva per i problemi che l’Italia deve affrontare.
Un concerto per celebrare la «specialissima intesa e sintonia che tanto ha contribuito alla stabilità di un Paese troppo spesso afflitto da travagliate divisioni, intesa che trovò il suo momento più alto nella partecipazione attiva e convinta della Santa Sede e della Chiesa italiana alle celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia». Così l’Ambasciata d’Italia presso la Santa Sede ha illustrato in una nota il concerto in onore di Benedetto XVI e di Giorgio Napolitano che negli anni passati si svolgeva in primavera ed era offerto dal presidente della Repubblica al Papa, nell’anniversario della sua ascesa al Soglio pontificio. Quest’anno, invece, il concerto è stato offerto, tramite l’Ambasciata d’Italia presso la Santa Sede, al presidente Napolitano, in vista del termine del suo settennato, «come un laico ringraziamento».

Repubblica 5.2.13
Benedetto XVI e Napolitano al concerto per i Patti Lateranensi
La preoccupazione del Papa “Attento al voto degli italiani”


ROMA — «Attenzione e partecipazione» del Papa per «gli importanti appuntamenti che attendono il popolo italiano». E’ stato un incontro quasi fra due vecchi amici. Il Pontefice e il presidente della Repubblica venti minuti a tu per tu, prima del concerto nella Sala Nervi in Vaticano per celebrare l’anniversario dei Patti Lateranensi (firmati 84 anni fa). Un colloquio nel corso del quale, oltre a questioni internazionali particolarmente a cuore al Papa come il Medio Oriente, Benedetto XVI avrebbe confidato a Giorgio Napolitano una certa preoccupazione per la delicata scadenza elettorale che attende gli italiani fra venti giorni. Tradotta poi, nella nota ufficiale del Vaticano, in quelle parole sulla «attenzione» alle prossime scadenze italiane. Nessun riferimento politico esplicito, ovviamente, al ritorno in campo di Berlusconi, ma una qualche apprensione per la tenuta morale e sociale. Napolitano ha messo in evidenza nel colloquio il comune auspicio di «una prospettiva costruttiva per il futuro dell’Italia».
Poi, il presidente della Repubblica prende la parola nella affollatissima sala vaticana, rivolgendo un saluto al Papa dai toni molto intesi, e commossi. Anche perché, come sottolinea lo stesso Napolitano, è l’occasione per un suo «simbolico pubblico commiato» visto che coincide con la parte finale del settennato. Passaggio accolto da scroscianti applausi, a cominciare dal premier Monti, Bersani e Matteo Renzi, presente come sindaco di Firenze, considerato che il concerto è stato eseguito dall’orchestra del Maggio musicale fiorentino diretta da Zubin Metha. Il richiamo ai Patti Lateranensi, osserva Napolitano, consente di misurare la lunga strada percorsa «verso una serena e fiduciosa cooperazione tra Stato e Chiesa al servizio del bene comune, nel pieno rispetto della distinzione tra la sfera politica e la sfera religiosa». Poi si è rivolto direttamente al Papa che lo ascoltava, «molto mi dice la memoria dei nostri incontri, nel corso di questi sette difficili anni». Un «reciproco ascoltarsi» che «molto mi ha arricchito nel dialogo sull’Italia, sull’Europa, sulla pace e sulla stessa politica intesa come dimensione essenziale dell’agire umano». Il Papa ricambia, «ci siamo incontrati più volte e abbiamo condiviso esperienze e riflessioni».
(u. r.)

Repubblica 5.2.13
La pari dignità dei figli di Dio
di Vito Mancuso


Nella sua prima conferenza stampa da responsabile vaticano per la famiglia monsignor Vincenzo Paglia ha infatti pronunciato parole che, in Vaticano, sull’argomento spinosissimo dei diritti civili delle coppie gay, io non ricordo siano mai state pronunciate.
Naturalmente, nelle sue parole al primo posto non poteva non esserci la difesa del primato della famiglia tradizionale, come è giusto che sia nell’impostazione cattolica e non solo cattolica, visto che il primato della famiglia tradizionale è un’impostazione condivisa da tutte le grandi tradizioni spirituali dell’umanità, sia religiose sia filosofiche, che non hanno mai conosciuto un matrimonio tra persone dello stesso sesso. Ma non può non sorprendere il fatto che monsignor Paglia abbia parlato di un necessario riconoscimento dei diritti civili delle coppie di fatto, includendo esplicitamente tra queste, oltre alle coppie eterosessuali, anche quelle omosessuali. «I diritti individuali vanno garantiti », ha detto, aggiungendo che vanno trovate «soluzioni di diritto privato», «all’interno del codice di diritto privato», per tenere conto anche degli aspetti «patrimoniali ». È la prima volta che un ministro vaticano riconosce esplicitamente e pubblicamente l’esistenza delle coppie omosessuali rendendole soggetto di diritti? A me pare di sì, e non posso non salutare questa affermazione come un significativo passo in avanti. Ricordo infatti che la Santa Sede si è espressa sempre in modo contrario rispetto
alla tutela delle coppie omosessuali anche a livello di diritto privato: in Italia tutti ricordano la ferma opposizione contro il progetto del governo Prodi a proposito dei cosiddetti “dico”, mentre nel 2008 l’osservatore permanente della Santa Sede all’Onu, monsignor Celestino Migliore, si espresse contro un progetto della Francia che chiedeva la depenalizzazione universale dell’omosessualità, contrarietà ribadita nel 2011 dall’osservatore permanente della Santa Sede presso l’ufficio dell’Onu a Ginevra monsignor Silvano Tomasi. Ieri invece, in Vaticano, monsignor Paglia ha dichiarato che «un conto è il tema del matrimonio gay, sul quale è nota la nostra posizione, un altro sono le discriminazioni. Nel mondo ci sono forse 25 Paesi dove l’omosessualità è reato. Mi augurerei che come Chiesa combatteremo tutto questo».
Una sterzata abbastanza netta rispetto all’intransigenza esibita finora, anche in considerazione del fatto che alla fine del 2012 papa Benedetto XVI in un’udienza pubblica aveva ricevuto una politica ugandese di nome Rebecca Kadaga, promotrice di azioni legislative particolarmente dure contro la convivenza degli omosessuali. Monsignor Paglia ha detto invece che occorre riaffermare «la pari dignità di tutti i figli di Dio, tutti in questo senso sono santi, perché hanno il sigillo di Dio, nessuno non ce l’ha; e dunque tutti sono intoccabili », parole che hanno fatto risentire un po’ di profumo evangelico nelle sale del potere vaticano.
Il cardinal Martini aveva espresso una posizione analoga. Dopo aver sottolineato
che «Dio ci ha creati uomo e donna, e perciò la dottrina morale tradizionale conserva delle buone ragioni» di modo che «la coppia omosessuale in quanto tale non potrà mai essere equiparata in tutto al matrimonio», aveva aggiunto: «Sono pronto ad ammettere il valore di un’amicizia duratura e fedele tra due persone dello stesso sesso », quindi «non è male che due persone abbiano una certa stabilità e in questo lo Stato potrebbe anche favorirli; non condivido la posizione di chi, nella Chiesa, se la prende con le unioni civili». Fino a ieri la posizione di chi se la prende con le unioni civili era ampiamente maggioritaria nella Chiesa cattolica. Dopo le aperture del nuovo Presidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia le cose sono cambiate?

l’Unità 5.2.13
Bersani: «Un piano per scuole e ospedali»
«Mai più condoni» Tagliare le spese militari per riqualificare le strutture pubbliche
Oggi a Berlino il leader Pd incontra il ministro tedesco delle Finanze Schäuble
D’Alema: a Torino si parlerà di democrazia
di S. C.


Un piano di riqualificazione per scuole e ospedali da finanziare con i fondi strutturali europei e con quanto recuperato da una riduzione delle spese militari. Pier Luigi Bersani evita di inseguire Silvio Berlusconi limitandosi a dire «con noi mai più condoni», e invece mette sul piatto un’operazione che se attuata avrebbe un impatto immediato dal punto di vista economico, sociale, ambientale, occupazionale. Il leader del Pd ha fatto mettere a punto dai diversi dipartimenti del partito un piano di riqualificazione per gli ospedali e le 10.761 scuole statali dove studiano e lavorano 9 milioni di persone.
Secondo i calcoli effettuati al quartier generale del Pd, le operazioni per la messa in sicurezza, l’efficienza energetica, la manutenzione e la bonifica da amianto dovrebbero ammontare a 7 miliardi e mezzo da investire nell’arco di tre anni. Per la copertura di questa spesa, il Pd ha lavorato su una diminuzione delle spese militari, che sono state di 19,96 miliardi di euro, pari all’1,2% del Pil, nel 2012, e che in prospettiva dovrebbero aumentare a 20,93 miliardi di euro per il 2013. Bersani ritiene queste cifre insostenibili e ingiustificate, e intende rivedere, in caso di vittoria alle elezioni, il bilancio del ministero della Difesa. «Bisogna assolutamente rivedere il nostro impegno per gli F-35, la nostra priorità non sono i caccia ma il lavoro», aveva detto non a caso Bersani una decina di giorni fa.
È però chiaro che le risorse ottenute grazie al taglio della spesa del ministero della Difesa non basteranno a coprire i 7 miliardi e mezzo necessari per il piano di riqualificazione di scuole e ospedali. E infatti il dipartimento Economia del Pd ha individuato le altre fonti di copertura in un allentamento del Patto di stabilità per i Comuni e nei fondi strutturali europei (siamo alla vigilia del nuovo settennato 2014-2020).
VANTAGGI ECONOMICI E SOCIALI
Oltre ai vantaggi per chi vive in quei luoghi, l’operazione solo dal punto di vista della riqualificazione degli istituti scolastici porterebbe a risparmi per quasi due milioni in bolletta energetica, a 500 milioni di gettito fiscale aggiuntivo, a oltre 3 miliardi di incremento potenziale del reddito immobiliare e a un sostegno al tessuto produttivo e all’occupazione (è stato calcolato che nel piano saranno coinvolti oltre 17 mila nuovi occupati soltanto nelle zone del centro e del sud Italia).
È questa la proposta che Bersani lancia mentre Berlusconi promette la restituzione dell’Imu e parla di condono tombale. Il leader del Pd sa che nel tentativo di recuperare altri punti nei sondaggi, l’ex premier ogni giorno «sparerà fuochi artificiali» inverosimili. Magari una volta attaccando Angela Merkel e una volta evocando l’uscita dell’Italia dall’euro.
APPUNTAMENTO CON SCHÄUBLE
È proprio ciò che non possiamo permetterci, secondo Bersani. Che oggi volerà a Berlino per incontrare il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble. «Litigare con la Germania è un non senso», dice il leader del Pd alla vigilia del viaggio. «È necessario invece discutere seriamente. Bisogna prendere impegni sulla stabilità e convincere dell’urgenza di dare spazio alla crescita. Bisogna stringere collaborazioni tra i nostri Paesi nel vastissimo campo dell’economia reale, degli investimenti e del lavoro. Nel corso degli incontri, a proposito di tutto questo, porteremo la nostra idea».
Non sarà questo l’unico appuntamento fissato sotto la voce agenda europea. Venerdì e sabato arriveranno a Torino da ogni angolo dell’Unione leader politici, capi di Stato e di governo, ministri delle principali forze progressiste europee.
Spiega Massimo D’Alema, che come presidente della Fondazione per gli studi progressisti europei ha organizzato questa iniziativa, così come quella che si è svolta a Parigi nel marzo scorso. «La Conferenza è la seconda tappa di un percorso, che abbiamo avviato da circa un anno e mezzo, “Renaissance for Europe”, con l’idea di accompagnare il momento elettorale con uno sforzo di programma e proposta sui temi europei. Dopo l’appuntamento di Parigi, durante le presidenziali di Francia, la Conferenza di Torino sarà dedicata ai temi dell’unione politica e della questione della democrazia in Europa».
Ci sarà però anche un’altra tappa, dopo quella al Cirque D’Hiver del marzo scorso e questa al Teatro Regio di Torino. Sarà a Lipsia, a maggio, cioè alla vigilia delle elezioni in Germania.
Bersani interverrà sabato mattina. Poi, la sera, andrà allo Juventus Stadium a vedere la partita. Gioca la Juventus, squadra del cuore del leader Pd, contro la Fiorentina. E insieme a chi andrà allo stadio Bersani? A Matteo Renzi, gran tifoso viola. Sarà il bis della bella serata di venedì a Firenze? Dipenderà dal risultato, scherzano da ambo le parti i membri degli staff. Ma al di là delle battute, la nuova uscita a due degli ex sfidanti delle primarie è un altro colpo mediatico messo a segno dal Pd.

La Stampa 5.2.13
Il segretario rifiuta la battuta a effetto “Solo serietà”
di Federico Geremicca


Oggi a Berlino, per parlare d’Europa e poi incontrare Wolfgang Schaeuble, ministro delle Finanze di Angela Merkel; giovedì una intera giornata in convegno a Roma per discutere «Le parole dell’Italia giusta»; venerdì e sabato a Torino - con Amato, D’Alema, Schulz e Schroder - per riflettere su democrazia ed Europa. Pier Luigi Bersani, insomma, cerca di tenere la barra dritta e va avanti nella sua campagna «niente barzellette, solo serietà», provando a non cadere nella trappola di chi - come dice lo stesso leader Pd - «vorrebbe buttare tutto in caciara».
Ci prova, ma non è facile. La campagna di Berlusconi, infatti, si va facendo sempre più arrembante («L’ha trasformata in una corsa a chi la spara più grossa», annota perfino Giuliano Cazzola, Pdl sino a qualche settimana fa) e sarà per questo o per altro, ma i sondaggi continuano a sorridere al Cavaliere. Dalla rilevazione quotidiana che Tecnè effettua per conto di Sky, per esempio, arrivano cattive notizie per Bersani: centrosinistra al 32,9 e centrodestra al 28,9%. Il distacco ormai è di soli quattro punti, essendo il primo calato dell’1,4% e il secondo cresciuto dello 0,3: il tutto in appena due giorni.
Lo stesso sondaggio conferma, per altro, un dato che preoccupa il Pd ormai da alcune settimane: e cioè l’ulteriore flessione del partito di Vendola, che in 48 ore avrebbe perso un ulteriore 0,3%, precipitando al 3% dei consensi. E notizie non particolarmente migliori arrivano anche dall’Istituto Demopolis: il centrosinistra è sempre avanti rispetto al centrodestra (34% contro il 27,8%), ma il trend vede il primo in calo e il secondo in crescita da settimane.
In un quadro che va facendosi complicato, la linea scelta da Bersani non cambia: stare sulle cose, con proposte realistiche e serie. Per rilanciare l’occupazione, per esempio, ieri a «Piazzapulita» il leader Pd ha meglio dettagliato il suo piano di messa in sicurezza di scuole e ospedali: 7,5 miliardi di opere in tre anni con finanziamenti recuperabili da tagli alle spese militari, utilizzo di fondi europei e sgravi fiscali ai soggetti privati che aderissero ai progetti ed allentando il patto di stabilità dei comuni. Sufficiente per arginare i mirabolanti annunci di Silvio Berlusconi sulla restituzione dell’Imu e sull’ipotesi di condono tombale? Lo si vedrà. Ieri, però, le repliche alle promesse del Cavaliere sono state in parte ironiche, ma - per la prima volta - in parte anche improntate a qualche timore.
Stefano Fassina è tra quelli che provano a metterla in burla: «Nel giro di 12 ore la copertura della proposta è già cambiata: dopo l’infondata ipotesi svizzera si è passati all’altrettanto infondata ipotesi della Cassa Depositi e Prestiti. A fine settimana toccherà a Babbo Natale coprire il costo della restituzione dell’Imu». E così qualcun altro, compreso l’alleato Bruno Tabacci: «Berlusconi è un esteta della bugia: chiedere ai cittadini se vogliono indietro i soldi dell’Imu è come chiedere se gli italiani vogliono bene alla mamma».
Ma al fronte dei preoccupati ieri si sono invece iscritti, un po’ a sorpresa, due leader solitamente lontanissimi l’uno dall’altro: Massimo D’Alema e Matteo Renzi. Particolarmente allarmata l’analisi dell’ex presidente del Consiglio: «La campagna elettorale è cominciata male, abbiamo avuto l’impressione di aver già vinto le elezioni, pensando a chi dovesse fare il ministro e chi il sottosegretario. Mentre eravamo impegnati in questo dibattito inquietante, e che porta male, Berlusconi ha recuperato 8 punti. Sottovalutare la destra è un errore che abbiamo già fatto e che non va ripetuto. La sfida è incerta, se non ci diamo una mossa».
E Matteo Renzi, ospite della Gruber su La7: «Non ironizziamo sulla proposta Berlusconi di eliminazione dell’Imu. E’ fattibile, ma c’è una questione di credibilità: e la credibilità di Berlusconi non è all’altezza della proposta... Il centrosinistra è in vantaggio, e le elezioni possiamo perderle solo se ci facciamo prendere dalla paura. Non inseguiamo il chiacchiericcio berlusconiano, lasciamolo stare: ma diciamo, piuttosto, come governeremo noi tra venti giorni quando saremo alla guida del Paese».

Corriere 5.2.13
Bersani e lo spettro del pareggio al Senato «Vogliono azzopparci»
di Maria Teresa Meli


ROMA — È come stare su un'altalena. In questo periodo le giornate di Pier Luigi Bersani sono un susseguirsi di alti e bassi. Da una parte, il timore del pareggio al Senato, dall'altra, la sicurezza che ci sia «una sola ipotesi di governo possibile: il governo del centrosinistra».
Alle volte il segretario del Partito democratico non si capacita del fatto che vi sia chi in queste elezioni sta giocando con il solo scopo «di azzoppare e arginare la nostra vittoria». «Sia Monti che Berlusconi — è il ragionamento che va facendo il leader del Pd con i suoi — sanno che non possono vincere. Il loro obiettivo è lo stesso: avere un potere di interdizione. Ed è lo stesso traguardo che nel suo piccolo si prefigge Antonio Ingroia, la stessa meta a cui aspira Grillo. Vogliono tutti ottenere vantaggi di risulta, perché tanto sanno che non potranno mai avere la maggioranza». Insomma, Bersani si vede assediato da tanti «maxi» e «mini» Ghino di Tacco che tentano di sfruttare l'eventuale pareggio a palazzo Madama per ottenere un potere di veto, una nicchia politica in cui muoversi. «Ma il risultato di tutta questa attività — è l'altra riflessione del segretario — è quella di provocare un clima di destabilizzazione che non fa certo bene al Paese. Se veramente dopo le elezioni non vi fossero una maggioranza certa e un governo stabile sarebbe un problema non solo per il centrosinistra ma per l'Italia». Ed è per uscire da questa «impasse», che Bersani fa la sua proposta non shock: appena andrà al governo varerà un piano di riqualificazione dell'edilizia scolastica e ospedaliera e dell'ambiente. Sette miliardi e mezzo in tre anni che verranno recuperati dal ridimensionamento delle spese militari, dall'allentamento del patto di stabilità e dall'utilizzo dei fondi di ristrutturazione europei.
Cosi, tra timori e speranze, Bersani è partito alla volta di Berlino. Un ennesimo viaggio in Europa per sondare e rassicurare leader di partito e governanti. Ma la mente è sempre rivolta all'Italia. A quell'Italia in cui, secondo molti sondaggi, la percentuale degli incerti è ancora molto alta. Bersani comunque non dispera. È da troppo tempo che accarezza l'obiettivo palazzo Chigi.
Tant'è vero che il segretario ha già pronto persino il programma dei primi cento giorni del suo governo. Al primo punto, la cittadinanza ai figli degli immigrati. Quindi, l'esenzione dall'Imu di tutti quegli italiani che quest'anno hanno pagato da cinquecento euro in giù. E ancora: la reintroduzione dei reati di falso in bilancio, auto-riciclaggio e voto di scambio, nonché la cancellazione delle norme ad personam che allungano i tempi della prescrizioni (leggi come la ex Cirielli, per intendersi). Non solo: Bersani nei suoi primi cento giorni vorrebbe varare altre due leggi: quella sul conflitto di interessi e la normativa sulla rappresentanza sindacale, con l'idea di affidare ai lavoratori il diritto di partecipare alle scelte strategiche delle aziende.
Niente patrimoniale, invece. Piuttosto a Bersani piacerebbe riuscire a rafforzare le norme sulla tracciabilità in tempi brevi. Infine c'è un altro punto all'ordine del giorno del segretario del Pd: la riforma elettorale. È chiaro che per un obiettivo del genere non bastano alcuni mesi perché è necessario coinvolgere anche le altre forze politiche. Le intenzioni di Bersani sono chiare: presentare comunque a inizio legislatura la proposta del Partito democratico sul doppio turno. Sarà su quella base che si avvierà la discussione in Parlamento.
Insomma, un bell'elenco di cose da fare. A cui si aggiungono gli organigrammi futuri. Sembra scontato (anche se in politica non c'è niente di sicuro) che la presidenza della Camera andrà a Dario Franceschini, mentre sulla poltrona della presidenza del Senato siederà Pier Ferdinando Casini. Anche sul governo il segretario del Pd ha delle idee ben precise, benché sia restìo a confidarle. Da piazza del Nazareno, però, filtra qualche voce. Come quella che vorrebbe Enrico Letta al ministero dell'Economia, e una quota di renziani in squadra (dovrebbero essere Delrio e Reggi).
In tutto ciò, però, al momento nessuno può dare a Bersani la sicurezza di riuscire a vincere in Sicilia e Lombardia, che sono le due regioni determinanti per il successo pieno della coalizione di centrosinistra. «Non dire gatto se non ce l'hai nel sacco», ricorda sempre Matteo Renzi. Mentre Beppe Fioroni punta l'indice accusatore su Berlusconi e Monti, ossia sui due politici che più di ogni altro puntano a condizionare il futuro del Pd. «Il Cavaliere — osserva Fioroni — propone una ricetta che si può riassumere parafrasando un motto popolare: vuole che gli italiani siano "truffati e mazziati"». Ma anche Monti ha la sua parte di critiche: «Il premier è ridicolo quando mette Vendola e Berlusconi sullo stesso piano. Il Cavaliere è un populista che ha dimostrato di non saper guidare il Paese, Vendola è un riformista di governo». E se Fioroni fa i complimenti al leader di Sel, vuol dire proprio che per il centrosinistra questa campagna elettorale non si sta rivelando esattamente una passeggiata.

Repubblica 5.2.13
Bersani: no alla gara del Bengodi
D’Alema teme la rimonta del Pdl “Già 8 punti, diamoci una mossa”
di Goffredo De Marchis


ROMA — Senza cambiare stile, Pier Luigi Bersani comincia a riempire di numeri, di concretezza i suoi impegni. Parla di 7,5 miliardi, la stessa cifra garantita da Berlusconi con la restituzione dell’Imu, per riqualificare ospedali e scuole e lanciare progetti ambientali. Significa occupazione, investimenti (allentando il patto di stabilità), uso dei fondi strutturali. «Procediamo col nostro passo», dice il candidato premier. «Proposte utili anziché proposte shock. E al condono dico: mai». È la linea di chi non vuole inseguire Berlusconi sul terreno delle favole.
Massimo D’Alema però suona la sveglia per il Partito democratico. Lo fa come sempre con un tono poco diplomatico. «La campagna elettorale è cominciata male, abbiamo avuto l’impressione di aver già vinto le elezioni, pensando a chi dovesse fare il sottosegretario e chi il ministro. Mentre eravamo impegnati in questo dibattito inquietante, e che porta male, Berlusconi ha recuperato 8 punti». Perciò l’ex premier invita il suo partito a «darsi una mossa». «Sottovalutare il Cavaliere è un errore — spiega — che abbiamo già fatto e non dobbiamo ripetere».
Del pericolo-Berlusconi da non dimenticare, Matteo Renzi ha fatto una bandiera. Si è preso gli insulti per aver annunciato la caccia ai delusi del Pdl. Ha sempre messo in guardia il centrosinistra dalla rimonta di Berlusconi. Ma oggi appare più ottimista di D’Alema. «Il centrosinistra è in vantaggio e le elezioni possiamo perderle solo se ci facciamo prendere dalla paura. Non inseguiamo il chiacchiericcio berlusconiano ». La pensa come Bersani che si rifiuta di rincorrere le promesse di Arcore e non condivide le reazioni «esagerate» di Monti, convinto com’è che alla fine i due si faranno male da soli. Renzi tuttavia avverte: «Il momento degli ultimi chilometri è il più difficile e sono convinto che il traguardo sia a portata di mano, ma bisogna parlare dei problemi degli italiani, non di Berlusconi».
Eppure il cambio di passo si avverte nell’intervista di Bersani a Piazza Pulita. Previsto, già scritto, indipendente dal recupero del Pdl. Riempire le proposte sul lavoro, sul welfare con numeri, con promesse in buona sostanza è l’obiettivo delle prossime settimane. Bersani lo farà domani visitando il grande ospedale di Roma San Camillo, lo confermerà venerdì a Torino dove annuncerà le ricette sull’occupazione. «Ma non partecipo alla gara del Bengodi che si fa in campagna elettorale. Posso dire anch’io: restituisco i soldi del viaggio di nozze. Ma non voglio». Il tema delle tasse per Bersani è secondario rispetto al lavoro. O meglio è collegato perché la riduzione del carico fiscale deve servire sempre a creare occupazione, ad alleggerire le aziende che assumono i giovani a mettere più soldi nelle tasche dei redditi medio- bassi.
Basterà questo? Secondo la scaletta da qui al 24 febbraio che Bersani si è dato, la risposta è sì. Il Pd ha registrato ieri gli spot radiofonici. Aldo Biasi, il capo dell’agenzia
di comunicazione, ha chiamato ieri il segretario e il responsabile della comunicazione Stefano Di Traglia per sapere se era il caso di cambiarli, tarandoli sull’offensiva berlusconiana. Ossia, renderli più aggressivi, più provocatori. Bersani ha replicato con un no: «È inutile rincorrere Berlusconi. Quello che voglio restituire io all’Italia è la dignità, la serietà». Anche per questo Bersani appare particolarmente orgoglioso dell’incontro che avrà oggi a Berlino con il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble. E non rinuncia alla mobilitazione meno mediatica ma efficace secondo Largo del Nazareno, nelle piazze e davanti ai supermercati che scatta questo week end in tutta Italia. Senza dimenticare che da due settimane è attivo l’ufficio elettorale del Pd che funziona tipo call center e mobilita i militanti in tutto il Paese.
Il pericolo dunque non viene negato, ma come dice Renzi «il problema di Berlusconi è la credibilità ». Anche sull’Imu, dove la proposta del Cavaliere, a giudizio del sindaco di Firenze, è persino sostenibile economicamente: «È fattibile», ha detto. Ma per Renzi non bisogna temere: «Certo, qualche tempo fa al Pd si spartivano già i posti di governo. Sono gli stessi che ora se la fanno addosso per il ritorno del Pdl». Occorre mantenere un equilibrio, è il suggerimento del primo cittadino. Che parte con il suo tour nelle regioni in bilico: Lombardia, Veneto, Sicilia e Campania.

il Fatto 5.2.13
D’Alema: “Colpa nostra, B. ha guadagnato 8 punti”


LA CAMPAGNA elettorale è cominciata male, abbiamo avuto l’impressione di aver già vinto le elezioni, pensando a chi dovesse fare il sottosegretario e chi il ministro. Mentre eravamo impegnati in questo dibattito inquietante, e che porta male, Berlusconi ha recuperato 8 punti. Sottovalutare la destra è un errore che abbiamo già fatto e che non va ripetuto. La sfida è incerta se non ci diamo una mossa”. Così Massimo D’Alema durante un’iniziativa elettorale a Napoli. E poi ha ribadito: “Il Pd ha sostenuto un governo di emergenza. Ora ci candidiamo a governare e a vincere le elezioni. Se vinceremo poi cercheremo di allargare la maggioranza ma fondamentalmente governeremo noi, non appoggeremo qualcun altro, come succede in ogni paese democratico”.

La Stampa 5.2.13
Un risultato paradossale da tre sondaggi
Demopolis: Il Pdl è cresciuto di un punto e mezzo in tre giorni, dal 18,6 al 20 per cento
Emg: Il fixing è al 19,6 con una lievissima contrazione, e 8 punti di distacco dal Pd
Tecnè, per Sky, vede il margine tra Pdl e Pd dimezzato a 4 punti
La trovata sull’Imu non seduce gli italiani. Eppure il Pdl sale
di Ugo Magri


Gli istituti di rilevazione si dividono in due categorie: quelli che si sentono già in grado di valutare l’impatto della «proposta-choc» berlusconiana (restituire l’Imu), e quelli che giudicano prematura una stima. Tra i primi si segnala Demopolis, che ha fornito le risultanze al programma de La7 «Otto e Mezzo». La metà più uno degli italiani considera la promessa del Cavaliere alla stregua di fanfaluca. Un terzo sarebbe ben felice di ricevere indietro i denari, ma con lo Stato al verde esclude che sia fattibile. Solo il 15 per cento degli intervistati sottoscrive in toto l’idea (giusta e realizzabile). Dunque ci si attenderebbe un Pdl in calo per effetto del generale ripudio. Invece, a sorpresa, la stessa Demopolis vede crescere i berlusconiani di quasi un punto e mezzo in tre giorni, dal 18,6 al 20 per cento. Una seconda società, la Emg, sempre per La7 dà il fixing al
19,6 con una lievissima contrazione, e 8 punti di distacco tra i due schieramenti. Tecnè, per Sky, vede in margine dimezzato a 4 punti...
Fino all’8 febbraio, ultimo giorno utile per la pubblicazione dei sondaggi, saremo bombardati di percentuali. Ma non è solo a questi numeri che si bada nelle segrete stanze della politica. Proprio in casa del Cavaliere, per esempio, viene seguita una metodologia decisa a tavolino in novembre, sulla scorta dei riscontri via via forniti da Euromedia Research (e da altri istituti coinvolti come prova del nove). Tale metodo parte dall’assunto che a Berlusconi, per vincere, basterebbe recuperare i suoi ex-elettori delusi. Almeno una parte di coloro che non gli credono più. «Credibilità» è dunque la parola magica della campagna Pdl. A cosa serve cacciare Dell’Utri dalle liste? È fondamentale (spiegano dalle parti di Arcore) non per la pulizia in sé ma per mostrare che Silvio fa sul serio. Acquistare Balotelli? Mira a far capire che il «largo ai giovani» almeno nel Milan è una realtà. E insistere sull’Imu? Guarda caso, è una delle materie in cui il Cav può dire: il mio governo è stato di parola. Ogni uscita clamorosa corrisponde a uno «step», a un gradino volto a conquistare nuove fasce di indecisi, individuate con i «focus group». Nell’assunto che, a poco a poco, queste scelte si rifletteranno nei sondaggi. Dove il centrodestra è lievitato un po’ per volta, senza strappi, rispetto alle percentuali infime di alcune settimane fa.
Bonaiuti, portavoce berlusconiano, percepisce «il clima tipico delle campagne elettorali in crescita». Operazioni apparentemente spericolate, come quella di portare il Capo da Santoro e stasera nell’arena di Ballarò, sottopongono il messaggio a una «prova bucato» attraverso il confronto con avversari veri e non di comodo. Oggi sul tavolo dell’ex-premier arriveranno le cifre «stabilizzate» di Euromedia. Ma quelle che più interessano, spiega Bonaiuti, riguardano gli indecisi. Sono ancora tantissimi, e dunque l’efficacia delle «boutade» viene misurata in base alla capacità di penetrazione tra gli indecisi. I quali restano numerosissimi. Pare che la promessa sull’Imu abbia fatto girare la testa al 7-8 pr cento di chi ancora è incerto se e come votare. Non abbastanza per determinare le sorti della battaglia elettorale. Però di «choc» pare ce ne siano altri in serbo. Centellinati poco per volta secondo il piano prestabilito di recupero, anziché squadernati come in passato due sere prima del voto. Renzi, che ha mangiato la foglia, lancia l’allarme ai suoi: sbagliato contestare la restituzione dell’Imu, meglio dire che di quel signore non ci si può fidare...

l’Unità 5.2.13
Diritto allo studio, i ragazzi contro il decreto
Il Consiglio nazionale degli studenti in allarme: «Troppe criticità, il ministro Profumo ritiri il testo». Ed è allarme sulle borse di studio
di Mario Castagna


Era un atto dovuto, richiesto dalla legge Gelmini, ma il decreto sul diritto allo studio proposto dal ministro Profumo non ha avuto l’accoglienza riservata alle grandi riforme. «Siamo convinti che non si possa in nessun modo approvare un decreto del genere così frettolosamente e prima della fine della legislatura dichiara il sindacato studentesco Link -, non si può fare finta che non esista un problema d’accesso e diritto allo studio in Italia che di certo non si risolve, ma si aggraverebbe ancora di più con l’emanazione di questo decreto».
Ieri gli studenti si sono ritrovati a Roma per la seduta del Consiglio nazionale degli studenti universitari che avrebbe dovuto varare il proprio parere. Gli studenti delle liste di sinistra, che sono il gruppo più numeroso, hanno scelto però di non partecipare alla seduta e di richiedere al ministro Profumo una pausa di riflessione. «Chiediamo al ministro di ritirare questo decreto. Pensiamo sia meglio che a occuparsi di questa materia sia il prossimo governo e non un ministro in scadenza», spiega Enrico Lippo, capogruppo degli studenti di sinistra al Cnsu. Molti, secondo gli studenti, gli elementi di criticità. Negli ultimi due anni le borse di studio erogate sono calate del 31%, passando da 147.000 a poco più di 110.000. E, stando alle stime degli studenti, fra pochi mesi il numero dei borsisti potrebbe assottigliarsi a poco più di 89mila beneficiari. Il decreto infatti abbassa le soglie massime di reddito di accesso alle borse di studio e le differenzia per Regione: 20mila euro in Lombardia, 17.150 nel Lazio e 14.300 in Sicilia e Campania. Attualmente, il limite per tutti è di 20.124,71 euro annui. Raddoppiano poi i crediti che ogni studente deve acquisire per vedersi garantita la borsa di studio negli anni successivi al primo.
A prescindere dalle condizioni sociali di partenza, il diritto allo studio dovrebbe garantire a tutti di accedere ai livelli più elevati dell’istruzione. Purtroppo non è così. La trappola sociale che blocca la mobilità sociale dei giovani italiani infatti non ha pari in Europa, almeno secondo i dati Ocse dell’annuale rapporto sull'istruzione che analizza la provenienza sociale degli studenti italiani: nel loro percorso educativo è ancora troppo forte il peso del background sociale dei genitori.
Anche i recenti dati del Cun (il Consiglio universitario nazionale) evidenziano un crollo delle iscrizioni che coinvolge soprattutto le fasce più deboli della popolazione. «Ieri il ministro ha contestato in un’intervista a La Stampa i numeri del crollo, sostenendo che a diminuire sono solamente gli iscritti “tardivi”. Peccato però che i dati del Comitato nazionale per la valutazione del sistema universitario dicano il contrario. Nel 2007 il 68% dei dicianovenni si iscriveva all’università, oggi questa percentuale è scesa al 61%», così Federico Nastasi, portavoce della Rete universitaria nazionale, parlando del crollo delle immatricolazioni accusa esplicitamente il sistema italiano di essere inefficiente e iniquo.
E dagli studenti è partito l’appello al presidente della Repubblica e ai governatori della Puglia e della Toscana per cercare di bloccare in extremis questa riforma. Il 7 il decreto arriverà sul tavolo della conferenza Stato-Regioni per il parere obbligatorio degli enti locali. Anche in quella sede ci sarà più di un assessore regionale disponibile ad alzare un po' la voce. Anche loro infatti lamentano il fatto di esser stati abbandonati dallo Stato nel contrasto alla crescente crisi dei ceti medi. E se anche da loro arrivasse una bocciatura al decreto, sarebbe veramente necessaria una pausa di riflessione.

il Fatto 5.2.13
Pagine rosse, guida allo scandalo del Monte Paschi
I dirigenti, i derivati, i contratti segreti in cassaforte e l’operazione Antonveneta che ha creato le premesse per il disastro di oggi
di Marco Lillo


Lo scandalo Monte Paschi è difficile da seguire. Ecco nomi e parole chiave per capire cosa sta succedendo.
Giuseppe Mussari, 50 anni, di Catanzaro, si trasferisce a Siena da studente, si avvicina alla Fgci e sposa, in seconde nozze, Luisa Stasi di una ricca famiglia e titolare di società alberghiere oggi indebitate per 13 milioni con Mps. Nel 2001 Mussari diventa presidente della Fondazione Monte Paschi scavalcando l’ex sindaco Pierluigi Piccini, suo ex amico e sponsor. Nel 2006 dalla Fondazione scende alla presidenza della Banca. A fine 2007 compra Antonveneta per più di 10 miliardi di euro. Prezzo folle, ma la stampa economica applaude e Mussari viene nominato banchiere dell’anno. Dal 2010 a marzo 2012 è presidente dell'Associazione bancaria italiana (Abi) da cui si dimette il 22 gennaio scorso, dopo lo scoop del Fatto Quotidiano sui conti truccati da Mps nel 2009. Mussari è indagato nell’ambito dell’indagine sull’acquisizione di Antonveneta ed è il personaggio chiave della seconda indagine sull’operazione di Mps con Nomura realizzato nel 2009 per coprire le perdite del derivato Alexandria.
Antonio Vigni, 59 anni, direttore generale del Monte dei Paschi di Siena dal 2006 al dicembre 2011. Lascia con una liquidazione di 4 milioni censurata dalla Banca d’Italia. È stato il braccio amministrativo di Mussari. Nel 2009 gli è stato assegnato un bonus di 800 mila euro grazie alla chiusura del bilancio in utile per 220 milioni euro. Ma oggi si scopre che quel bilancio non era veritiero. Dopo aver scoperto il 10 ottobre 2012 un contratto nascosto nella cassaforte di Vigni dal settembre 2009, il nuovo amministratore delegato, Fabrizio Viola, ha proposto al cda di riscrivere il bilancio. A distanza di tre anni emergerà la perdita connessa al reale valore di quella operazione con una correzione al ribasso non ancora quantificata (almeno 220 milioni di euro).
Gianluca Baldassarri è stato il capo dell’area finanza del Monte dei Paschi di Siena dal 2001 al marzo 2012. Tutte le operazioni più delicate sono passate sul suo tavolo, dai derivati Alexandria e Santorini, al finanziamento dell'operazione Antonveneta. Insieme a Vigni e Mussari è presente alla conversazione registrata nel 2009 da Nomura nella quale si mettono le basi per il contratto segreto che farà sparire le perdite di Alexandria. Lascia il Monte con tanto di liquidazione e lettera di commiato firmata Mussari. In una indagine milanese del pm Alfredo Robledo, un testimone aveva lanciato accuse contro di Baldassarri. Antonio Rizzo, ex funzionario Dresdner (oggi consulente gratuito di Giulio Tremonti e dal 2009 collaboratore del Fatto con lo pseudonimo di “Superbonus”) aveva raccontato nel 2008 agli inquirenti il retroscena di un pagamento di una commissione di 600 mila euro alla società Lutifin di Lugano per un’operazione da 120 milioni tra Dresdner e Mps. Mi-chele Cortese, dirigente di Dresdner a Londra, di fronte alle sue perplessità per questo pagamento inutile, disse a Rizzo che “il capo del desk di Monte Paschi a Londra, Matteo Pontone, e Baldassarri avevano percepito una commissione indebita dell'operazione per il tramite di Lutifin. Mi disse anche che i due erano conosciuti come ‘la banda del 5%’, su ogni operazione prendevano tale percentuale”. Accuse da dimostrare. L’inchiesta è stata archiviata nell’agosto 2011, le carte sono state trasmesse a Siena.
Gabriello Mancini, 66 anni, funzionario della Asl di Poggibonsi, politico dc di lungo corso, dal 2006 è presidente Fondazione Mps. La Fondazione è controllata da Comune e Provincia di Siena che nominano 13 membri su 16 del suo organo direttivo. Tramite la Fondazione, in questi anni la politica locale (a guida Pd) ha controllato la maggioranza delle azioni di Mps. Sotto la gestione Mancini la Fondazione si è indebitata con undici banche per consentire l’acquisto di Antonveneta e mantenere la quota di controllo, oggi scesa al 33 per cento. Mancini avrebbe potuto accettare la diluizione della partecipazione e del potere. Invece si è vantato nel 2008 di avere aderito agli aumenti di capitale (2,9 miliardi) e alla sottoscrizione del famigerato Fresh, il prestito obbligazionario convertibile in azioni (per 490 milioni) necessari per rilevare Antonveneta. Oggi la Fondazione sta pagando cara la sua scelta. Per effetto dei rovesci finanziari di Mps, le erogazioni della Fondazione al territorio sono state drasticamente ridotte. A maggio l’ufficio e l’abitazione di Mancini sono state perquisite nell’ambito dell’indagine sull’acquisto di Antonveneta. Lui dice di non essere indagato.
Franco Ceccuzzi, 45 anni, eletto sindaco di Siena nel 2011, testimone di nozze e sostenitore di Mussari prima alla fondazione Mps e poi alla Banca Mps. Solo recentemente lo ha mollato per diventare sponsor di Fabrizio Viola e Alessandro Profumo al vertice di Banca Mps. A maggio è stato sfiduciato dalla componente ex Margherita del Pd senese. Si è ricandidato a sindaco di Siena con l’appoggio di Massimo D’Alema.
Alexandria Nel 2006 il Monte Paschi compra da Dresdner Bank un derivato creato nel 2005 (Alexandria) per un valore nominale di 400 milioni di euro. Il derivato causa perdite ingenti nel bilancio della banca senese che riesce a occultarle grazie a una seconda operazione con Nomura nel 2009. Spesso si confonde l’acquisto del derivato Alexandria del 2006 con “l’operazione Alexandria”, il trucco contabile realizzato più tardi. Questa “operazione Alexandria” è l'oggetto dei documenti svelati dal Fatto il 22 gennaio: il contratto segreto con Nomura (mandatory agreement) nascosto nella cassaforte dell’ex Dg Vigni, la telefonata registrata da Nomura e la relazione dell'amministratore delegato Fabrizio Viola al cda del dicembre 2012. Il mandate agreement nascosto in cassaforte era firmato dal dg Antonio Vigni e dal capo della finanza Gianluca Baldassarri. Nomura aiutava Monte Paschi a far sparire dal bilancio le perdite di Alexandria, in cambio Mps comprava derivati basati su Btp e scadenza al 2034, connessi a un secondo contratto che scadeva addirittura nel 2040. Chi non conosceva quel contratto pensava che Mps e Nomura contrattassero due operazioni separate. Ma la seconda era il prezzo pagato da Mps per far sparire Alexandria e le sue perdite dal bilancio.
Antonveneta L’acquisto di Antonveneta da parte del Monte dei Paschi è la causa principale della crisi della banca senese e porta una plusvalenza di 3 miliardi nelle casse del Santander. Monte Paschi compra l’8 novembre 2007 (ma il contratto viene stipulato solo nel marzo del 2008) a un prezzo più alto di 2,4 miliardi rispetto a quello pagato dagli spagnoli pochi mesi prima. Non solo. Santander prima di vendere a Siena fila Interbanca, ceduta per 600 milioni a Abn Amro. Oggi il prezzo pagato da Mussari appare a tutti folle e certamente lo è. Il sospetto – mai stato formalizzato dagli inquirenti – è che parte della plusvalenza realizzata dal Banco Santander sia rientrata in qualche modo in Italia con una retrocessione ai manager senesi o ad altri soggetti. Ovviamente il Banco Santander e il suo rappresentante in Italia, l’ex presidente dello Ior, Ettore Gotti Tedeschi, hanno sempre negato che ci siano state mazzette.
FRESH Per finanziare l’acquisto di Antonveneta, dopo un aumento di capitale da 5 miliardi di euro, Mps lancia un prestito obbligazionario convertibile in azioni Mps per un miliardo. Si chiama Fresh (Floating Rate Equity-linked Subordinated Hybrid Preferred Securitiesed), un bond ibrido nel mirino della Procura di Siena già a maggio scorso. Nel 2008 la Fondazione Mps sottoscrive 490 milioni di euro di queste obbligazioni convertibili in azioni a un valore prefissato di circa 3,7 euro. La perdita della Fondazione sul Fresh è di circa 400 milioni di euro. Il Fresh è al centro dell’inchiesta perché, come è scritto nei decreti di perquisizione di maggio, “la documentazione acquisita e le informazioni testimoniali fanno emergere l'ostacolo all'attività di vigilanza della banca d'Italia poiché risulta che organi apicali e di controllo di Mps, contrariamente al vero rappresentavano che la complessiva operazione realizzava il pieno e definitivo trasferimento a terzi del rischio d'impresa”.
Nel 2009 c’è il momento più delicato nei rapporti tra Banca d’Italia e Mps. Il Fresh prevede il pagamento di una cedola ai sottoscrittori. Bankitalia chiede che non sia distribuita in assenza di utili. Se Mps vuole contare il miliardo del Fresh nel suo patrimonio, il rischio deve essere trasferito dalla banca a chi lo ha emesso, JP Morgan e Bank of New York. In realtà, su richiesta di alcuni sottoscrittori del Fresh tra cui l’hedge fund Jabre Capital, Mps rilascia una lettera di indemnity che garantisce alle banche emittenti e contraenti del bond (Jp Morgan e Bank of New York) dai problemi che potrebbero nascere a seguito delle modifiche del bond.
Il rischio restava in capo alla Monte dei Paschi di Siena. In caso di mancata distribuzione dei dividendi nel 2009, i sottoscrittori del Fresh non avrebbero incassato la cedola che rendeva poco meno del 10 per cento lordo. In quel 2009 però, anche grazie al trucco su Alexandria, Vigni e Mussari distribuiscono l’utile simbolico di un centesimo alle azioni di risparmio. Così da far avere ai sottoscrittori del Fresh cedole per decine di milioni di euro.

il Fatto 5.2.13
Mps, nuova inchiesta sullo Ior
Sui conti vaticani transitati i soldi della “banda del 5%”
di Valeria Pacelli


L’interrogatorio di Giuseppe Mussari è stato rinviato, mentre il super testimone Antonio Rizzo ha confermato alla Guardia di Finanza le accuse di pagamenti riservati per i vertici di Mps; infine l’avvio di una nuova inchiesta romana sui conti aperti allo Ior, dove smistare soldi per pagare chi l’operazione Antonveneta la stava mettendo a segno: quella di ieri è stata un’altra giornata calda sul fronte Mps. In particolare l’inchiesta sull'acquisizione di Antonveneta e sulla vicenda del derivato Alexandria. Da una parte a Siena è stato rinviato l’interrogatorio dell’ex presidente del Monte dei Paschi e dell'Abi Giuseppe Mussari, per l’assenza di uno dei difensori. A Roma invece è stato interrogato l'ex funzionario della banca d'affari Dresdner, Rizzo (SuperBonus), che ha confermato le accuse già messo in un verbale di polizia giudiziaria nel 2008. Rizzo ha confermato l’esistenza di una “banda del 5%” che prendeva una percentuale illecita su ogni operazione e racconta di “pagamenti riservati” ai vertici di Mps. Ha fatto anche i nomi dei funzionari di Dresdner –convocati dai pm senesi - che hanno partecipato alle riunioni in cui si affrontava la questione delle percentuali per i funzionari di Rocca Salimbeni. E ha confermato l’esistenza di 2-3 nastri –depositati a Milano già nel 2008- relativi a riunioni interne alla banca d'affari.
NEL PALAZZO di giustizia romano l’attenzione dei magistrati è concentrata sul fronte Ior. Presso gli sportelli della banca Vaticana, infatti, sarebbero stati aperti alcuni conti di appoggio per l’operazione Antonveneta. A raccontarlo Paolo Mondani su Il Corriere (convocato domani in procura) che riporta le parole di un testimone, il quale racconta di 4 conti correnti. Su uno di questi sarebbero arrivati 1,3 milioni di euro, successivamente prelevati. Denaro che sarebbe servito a pagare “le persone utilizzate nel 2007 per organizzare la seconda vendita di Antonveneta”. C’è di più. Perché stando alle parole del testimone, proprio in Vaticano sarebbero avvenute delicate riunioni per la costruzione dell'operazione Antonveneta, tra il direttore Paolo Cipriani, Monsignor Piero Pioppo e Andrea Orcel (ora in Usb), che nel 2007 seguiva banca Santander nella scalata ad Abn Amro e subito dopo venne nominato advisor di Montepaschi nella conquista di Antonveneta. ?Vicenda questa sulla quale indagheranno i pm Nello Rossi e Rocco Fava.

il Fatto 5.2.13
Non solo Mps
Due scandali, due misure
Pubblichiamo la lettera aperta che Angelo Cannatà, curatore del Meridiano dedicato alle opere di Eugenio Scalfari, ha inviato sia a “Repubblica”, sia al “Fatto Quotidiano”.
di Angelo Cannatà


Caro Eugenio Scalfari, da molti giorni lo scandalo Monte Paschi è sulle prime pagine dei giornali. C’è dentro di tutto: la truffa ai danni dei risparmiatori; le scommesse d’azzardo sui derivati; la voragine nelle casse della banca; i conti truccati; il deficit di vigilanza di Bankitalia; le tangenti ai partiti.
Qualcuno accosta il caso Mps allo scandalo del Banco Ambrosiano. In realtà ci sono molte differenze, ma non è questo il punto. Il crac della banca venne denunciato senza reticenze o preoccupazioni politiche da Repubblica: “A un certo punto il duo Sindona-Calvi comincia a operare per impadronirsi del controllo azionario dell’Ambrosiano. La situazione precipita quando si arriva alla rottura e Sindona chiede aiuto alla mafia... ”. Parole chiare e forti di cui andrebbero letti integralmente i testi (cfr. La passione dell’etica, Mondadori).
AVVERTO, in questi giorni, un atteggiamento più cauto. Voglio dire: se dietro lo scandalo del Banco Ambrosiano si vide e si denunciò “l’organizzazione” politico-mafiosa, perché non si denuncia, oggi, con altrettanta forza, lo scandalo dell’organizzazione partitocratica? Il risultato è lo stesso: la truffa ai danni dei cittadini; i conti truccati; il controllo politico; il potere per arricchirsi, la ricchezza per mantenersi al potere.
Spiace dirlo, ma l’affaire Mps è edulcorato da Repubblica. Si dà ampio spazio a Grilli: “Controlli intensi ed efficaci hanno permesso di scoprire e interrompere azioni anomale” (30 gennaio) ; pagine intere a Visco: “Bankitalia ha fatto il massimo, su Mps controlli serrati” (31 gennaio). Si minimizza: “Ipotizzare fin da ora che il caso Mps celi la ‘madre di tutte le tangenti’ è un atto di cinismo e di autolesionismo” (Giannini, 1 febbraio). Eppure, Bankitalia non ha vigilato come avrebbe dovuto. Di più: l’affaire Mps è il caso più perfetto di “occupazione partitocratica del potere”.
S’è scritto e teorizzato per decenni della necessità di ridimensionare i partiti, che occupano gli spazi della vita pubblica e civile. Torna in mente la celebre intervista a Berlinguer (Repubblica, 28 luglio 1981). C’è stato un tempo in cui l’obiettivo era scoprire, non sopire. Ora è tutto più sfumato: che senso ha scrivere – tu, con la tua storia – che lo scandalo Monte Paschi “è un tema che con la politica c’entra soltanto incidentalmente” (3 febbraio). Sembra un arrampicarsi sugli specchi, un voler a tutti i costi attenuare – Mps: “un modello di affari identico a tutte le Banche europee” –, attutire uno scandalo maleodorante che fa male: e il dolore, sia chiaro, lo avverto innanzitutto sulla mia pelle di cittadino elettore di sinistra. Ma ci sono delle priorità.
NON VA SMARRITO – lo sai bene – il principio guida del giornalismo (la verità, innanzitutto) ; lo dimentichi talvolta o ne dai una versione pericolosa (“occorre distinguere tra organi d’informazione che ricercano la verità (...) e organi d’informazione che fabbricano notizie inesistenti”): l’ultimo che propose distinzioni di questo tipo, ci regalò la censura e vent’anni di dittatura, solo Berlusconi continua a definirlo un grande statista.
Infine: è un errore prefigurare la possibile vittoria della destra (tornerà il demagogo) e addolcire – alla luce del pericolo – certe nefandezze. Amo pensare che sia vero il contrario: che sia un giorno felice quello in cui si scoprirà dove sono finiti i soldi che mancano nei conti del Monte. Un giorno felice per la democrazia e la trasparenza: solo così si salvaguarda davvero il prestigio del sistema. Ma tu concordi con Giorgio Napolitano: sopire per difendere le istituzioni. È come se giustizia e onestà – molto care, sul piano personale, a te e al Presidente – fossero soltanto accidenti nel teatro della storia. Eppure, Benedetto Croce, amatissimo nelle stanze del Quirinale, scriveva: “Non abbiamo bisogno di chissà quali grandi cose o chissà quali grandi uomini. Abbiamo solo bisogno di giustizia e di più gente onesta”.

La Stampa 5.2.13
Genova, è stata disposta l’archiviazione
G8, niente processo per 20 poliziotti
Il giornalista inglese Mark Covell fu brutalmente aggredito
di Alessandra Pieracci

qui

La Stampa 5.2.13
Il processo di appello per gli ex vertici Sismi
Sequestro Abu Omar “Dodici anni per Pollari”
Il procuratore generale: violati anche i diritti umani
di Paolo Colonnello


«Mai la struttura del Sismi avrebbe potuto partecipare a un’operazione congiunta con la Cia, non rientrando i sequestri di persona tra i fini istituzionali. Pertanto, l’eventuale partecipazione di agenti italiani al rapimento di Abu Omar avvenne a titolo individuale». Per questo, alle due del pomeriggio, il Procuratore Generale Piero De Petris chiede per gli ex vertici del servizio segreto militare, il generale Niccolò Pollari, l’ex capo dell’antiterrorismo Marco Mancini e tre
«capicentro», condanne pesanti: 12 anni per Pollari, 10 per Mancini, 8 ciascuno per gli altri 3 dirigenti. Una mazzata, in linea con quanto aveva chiesto il pm Armando Spataro in primo grado per lo stesso processo - poi finito in Cassazione e rimandato in Appello dopo che la suprema corte aveva ritenuto illegittima «la copertura dell’immunità del segreto di Stato».
La storia è nota: il 17 febbraio 2003 nelle strade di Milano andò in scena un pezzo della «guerra sporca» al terrorismo, con 23 agenti della Cia mobilitati per sequestrare l’ex Imam della Moschea di via Quaranta, Abu Omar. Trasportato poi nelle carceri egiziane, tra torture e minacce. L’ex Imam, padre di tre figli e già sotto indagine per un’inchiesta milanese sull’antiterrorismo (archiviato) ha riportato lesioni permanenti e ora, attraverso il suo avvocato di parte civile, chiede un risarcimento di 10 milioni.
Per l’accusa le responsabilità di Pollari e Mancini sono dimostrate sia dalle testimonianze dell’ex capocentro di Milano, D’Ambrosio, sia dai racconti dell’ex capo della Cia, Bob Seldon Lady, attualmente ricercato con un mandato di cattura internazionale e al tempo stesso l’unico davvero contrario alla «extraordinary rendition».
«Gli stessi imputati, che hanno agito in un quadro opaco e al di fuori delle istituzioni, si sono resi responsabili di crimini in violazione del diritto umanitario per i quali non sono ritenuti sufficienti nemmeno le coperture funzionali per la particolare gravità del reato. La partecipazione fu posta in essere a livello apicale da quegli uomini che dovrebbero essere presidio delle libertà democratiche e dei valori fondamentali della nostra Costituzione».
In mattinata Pollari e Mancini, avevano sostenuto la loro innocenza presentando una lettera del «Dis», il coordinamento dei servizi segreti, secondo la quale gli agenti «agirono anche a fini istituzionali» nell’ambito del sequestro Abu Omar. «Ho sempre avversato e respinto con forza ipotesi di sequestri in funzione antiterrorismo - aveva spiegato Pollari - In ogni caso, nel rispetto del segreto di Stato, ove taluno mi avesse anche ordinato di eseguire un’attività illecita, avrei disobbedito a tale ordine. Ma per mantenere il segreto di Stato, cui sono obbligato per legge, sopporto da oltre 7 anni un processo nel quale sono innocente». La sentenza è attesa settimana prossima.

Repubblica 5.2.13
La Fiom: “Umiliati dalla Fiat, intervenga il governo”
Stipendio senza lavoro, schiaffo  ai 19 operai di Pomigliano della Fiom
“Per loro non c’è posto”. Landini: colpita la dignità del Paese
di Paolo Griseri


 I 19 operai della Fiom, licenziati e reintegrati dalla Corte d’appello di Roma allo stabilimento Fabbrica Italia di Pomigliano, hanno lo stipendio garantito, ma non il lavoro. Questo ha deciso il Lingotto spiegando che, al momento, non ci sono postazioni per i diciannove. I metalmeccanici della Cgil stanno valutando una diffida e un esposto in procura. Mentre il leader Fiom Maurizio Landini chiede l’intervento del governo e parla di schiaffo alla dignità dei lavoratori.

Pagati, come impone il Tribunale, ma lasciati a casa, come vuole la Fiat perché non ritiene utile avere in fabbrica i 19 iscritti alla Fiom. «Non c’è posto per loro e non possiamo farci imporre la composizione degli organici dalle sentenze», ha sostenuto nei giorni scorsi il Lingotto. Da qui la scelta di lasciare a casa i suoi dipendenti non graditi, come peraltro avviene da tempo a Melfi dove, nonostante l’ordine di reintegro di tre iscritti alla Fiom ingiustamente licenziati, la Fiat continua a mantenerli fuori dalla fabbrica pur pagandoli regolarmente. Una pratica umiliante che ieri è tornata a far salire la tensione tra il Lingotto e il sindacato di Landini. Con i 18 iscritti di Pomigliano (il diciannovesimo è in aspettativa perché candidato alle elezioni) il numero dei dipendenti lasciati a casa, pagati senza lavorare, è salito a venti (anche uno dei tre licenziati di Melfi è in aspettativa elettorale).
I 19 di Pomigliano si sono presentati ieri mattina in fabbrica per quello che avrebbe dovuto essere il loro primo giorno di lavoro dopo un lungo corso di formazione iniziato il 28 novembre scorso. Il ritorno in azienda era stato deciso dalla corte d’Appello di Roma che ha condannato la Fiat per aver discriminato gli iscritti alla Fiom tenendoli sistematicamente fuori dalle linee che producono la Panda e lasciandoli nel limbo della cassa integrazione. Oltre ai 19 la sentenza impone alla Fiat di far tornare al lavoro altri 126 iscritti alla Cgil per un totale di 145. A novembre l’azienda aveva minacciato di licenziare altri 19 operai di Pomigliano «perché non possiamo assumere altre persone anche a causa della crisi di mercato». Dunque ieri mattina «per coerenza», come dicono a Torino, ai 19 della Fiom è stato spiegato che per loro non c’è spazio in fabbrica e che quindi torneranno a casa, pagati, fino a nuova comunicazione dell’azienda. I 19 hanno resistito per qualche ora in fabbrica chiedendo una spiegazione scritta ai vertici dell’azienda. Poi si sono allontanati dallo stabilimento. In una conferenza stampa convocata immediatamente a Roma, il leader della Fiom, Maurizio Landini, ha parlato di «schiaffo alla dignità del Paese: quella che si vive a Pomigliano è una situazione non più tollerabile».
Non si indignano invece Fim e Uilm. Il segretario dei metalmeccanici della Cisl, Giuseppe Farina, promette che «giovedì il caso si sgonfierà» nel corso dell’incontro tra i sindacati del «sì» e la Fiat e che a quel punto «verrà meno qualsiasi ipotesi discriminatoria ». Farina allude alla decisione dell’azienda di far tornare tutti i dipendenti alle dipendenze di Fiat Group Automobiles dal prossimo primo marzo. E’ presumibile infatti che da quel momento anche i 19 iscritti alla Fiom torneranno in cassa integrazione insieme agli altri 1.400 dipendenti dello stabilimento ancora senza lavoro. In teoria la cassa integrazione dovrebbe essere a rotazione ma i legali della Fiom paventano che per gli iscritti alla Cgil non sarà così: «Ci sono criteri molto particolari per la cassa - dice l’avvocato Elena Poli - e nella scelta di coloro che dovranno lavorare sarà privilegiato chi ha già lavorato alla produzione della Panda». Dunque non coloro che hanno in tasca la tessera della Cgil.
Il nuovo scontro ha provocato l’indignazione delle forze politiche di centrosinistra. Il responsabile economico del Pd, Stefano Fassina, ha parlato di «scelta grave e preoccupante», mentre l’ex responsabile auto della Fiom, Giorgio Airaudo, oggi candidato in Sel, definisce quella del Lingotto «una linea medievale dettata dal delirio di onnipotenza dell’amministratore delegato». Antonio Di Piero parla di «decisione umiliante» e il sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, definisce quella della Fiat «una logica squadrista ». Il ministro del lavoro, Elsa Fornero, allarga le braccia: «Il governo non ha margini di intervento. Mi rammarico perché dalla contrapposizione non nascono
mai cose positive».

Repubblica 5.2.13
Parlano i 19 lavoratori rispediti a casa
“Domani mattina saremo di nuovo davanti ai cancelli”
“Un caffè, poi ci hanno indicato la porta così vogliono farci sentire una nullità”
di Cochita Sannino


NAPOLI — L’umiliazione la raccontano così. «Andate a casa, tanto l’azienda vi pagherà lo stipendio normalmente. Capisce quanto può esser sprezzante, offensiva la frase secca e cortese di uno che ti mette alla porta nella tua fabbrica? Una frase che ti fa sentire una nullità, nonostante le sentenze della magistratura che chiedevano di farci tornare al nostro ruolo di operai, di restituirci alla dignità del lavoro e non alla condanna dei segnati a vita?». La resistenza, anche quella, la spiegano con un’immagine: «Domani mattina (oggi, ndr) saremo di nuovo davanti ai cancelli di Pomigliano. Quello è il nostro posto e lì vogliamo avere risposte, non a voce, ma scritte. Nessuno ci ha detto, nero su bianco, che siamo di troppo. Nessuno ha avuto il coraggio di mandarci un telegramma per dire, ufficialmente, “statevene a casa” ». Quindi? «Quindi si continua. Non dipende da noi questo braccio di ferro. Continua. Più si va avanti, più il lavoro coincide con la nostra dignità e la nostra carne».
Sebastiano D’Onofrio ha 45 anni, tre figli, di cui due maggiorenni. Sebastiano è, con Antonio, Ciro, Mario e gli altri, uno dei diciannove operai Fiom di Pomigliano d’Arco reintegrati in Fiat dalla sentenza di Corte d’Appello. «È successo tutto tra le 7.45 e le 8.10. Noi avevamo finito il corso di formazione il 24 gennaio. In questi giorni siamo rimasti a casa ad aspettare inutilmente. Che cosa? Non lo sapevamo neanche noi. Ma c’era angoscia. Allora siamo andati stamattina presto ai cancelli: i vigilantes ci hanno bloccato ai cancelli, poi è arrivato uno dei rappresentanti dell’azienda, ci ha portato nello show room, e lì ci è stata fatta questa comunicazione assurda. «Andate a casa, ma lo stipendio vi arriverà lo stesso».
«Mia moglie non lavora — aggiunge Sebastiano — il mio primogenito aveva anche pensato di fare l’Università, gli ho detto “figlio mio, a queste condizioni non
me lo posso permettere”, adesso sta cercando qualcosa anche lui, e anche lui con frustrazione». Sebastiano però lo dice subito, qual è il loro intento: «La differenza tra la paga che ci toccava fino a una settimana fa, quando frequentavamo il corso di formazione, meno di 900 euro, e quello che ci verrà recapitato ora a casa per farci sentire degli inetti “mantenuti”,
quella differenza noi la chiamiamo eccedenza: non l’abbiamo guadagnata con il lavoro e quindi la metteremo a disposizione delle nostre azioni di salvaguardia. Ognuno di noi, i diciannove della discriminazione Fiom, metterà quei soldi in un salvadanaio che serve al diritto di tutti, si chiama la nostra Cassa di Resistenza». Con loro, c’è Antonio Di Luca, il candidato alla Camera per il movimento “Rivoluzione civile” di Antonio Ingroia.
Ciro D’Alessio è uno di quelli che fa le foto, invia le e-mail, si scalda quando parla di Marchionne. «Lui ha paura di nominare Landini, dice che non lo ricorda, allora deve sapere che qui ci chiamiamo tutti Landini». Ieri fino a tardi Ciro e gli altri hanno partecipato
alla riunione nella sede Fiom di corso Vittorio Emanuele, a Pomigliano d’Arco. «La vedi questa immagine? Siamo tutti insieme davanti allo slogan “Fiom non si piega”. E pensano che dopo averci comunicato che di noi non hanno bisogno, ce ne possiamo stare con le mani in mano?».
Mario Di Costanzo è teso, ma non affranto: «Ci hanno comunicato che dovevamo consegnare la famosa fascia contrassegnata, quella del nostro piccolo apartheid. Ci hanno fatto trovare caffè, acqua minerale, il sorrisino sulle labbra di due preposti. Ma come pensano che possiamo rassegnarci a questo futuro? Come pensano che possiamo berci, tra le altre fandonie che Marchionne ha fatto passare finora, anche quella della Fiat divisa in reparti di settore, cioè serie A, serie B e serie C?».
Loro, ovviamente, sono i figli del reparto minore, «saremmo tutti magazzinieri e attrezzisti del settore C? Insieme ai 1400 operai e compagni che ancora stanno in cassa integrazione?». Una cosa è certa, per loro. «Altro che stare a casa e prendere lo stipendio. La nostra casa, adesso, è dove ci vogliono togliere il lavoro. La nostra casa è davanti ai cancelli di Pomigliano ».

l’Unità 5.2.13
È morto l’ex partigiano Comanducci
Sopravvisse a Mauthausen
di Pino Stoppon


ROMA L’ex partigiano Remo Comanducci, deportato a Mauthausen, è scomparso ieri all’età di 90 anni. A dare la notizia è Nicola Zingaretti, candidato del centrosinistra alla presidenza della Regione. Comanducci era nato il 31 gennaio 1923 a Citerna (in provincia di Perugia), operaio, all’età di 20 anni fu presente agli scontri di Porta San Paolo durante la resistenza del settembre 1943. Rastrellato il 27 dicembre 1943 vicino alla sua casa a Campo di Fiori fu rinchiuso a Regina Coeli. Il 4 gennaio 1944 fu deportato con altri 330 uomini da Roma Tiburtina e arrivò, dopo una sosta a Dachau, al Lager di Mauthausen dove ebbe il numero di matricola 42053. Venne liberato dalle truppe americane nel sottocampo di Gusen alla fine della guerra. Negli ultimi anni della sua vita si era trasferito a Nettuno.
«È con profondo dolore che apprendo della scomparsa di Remo Comanducci, valoroso testimone di uno dei periodi più bui della nostra storia ha ricordato proprio Zingaretti che a vent’anni aveva partecipato agli scontri a Porta San Paolo dell’8/10 settembre 1943 contro i nazisti, e che è stato uno dei pochi sopravvissuti alla deportazione politica da Roma del 4 gennaio 1944». «Negli scorsi anni ha aggiunto ho avuto modo di collaborare con lui, e di assegnargli il 4 giugno 2010 il Premio Provincia Capitale. Ad aprile di quell’anno aveva accettato di tornare per la prima volta a Mauthausen, dove era stato rinchiuso dai nazisti prima di essere trasferito a Gusen e poi liberato dall’esercito statunitense nel 1945. Comanducci in quell’occasione accompagnò gli studenti che parteciparono al Viaggio della Memoria organizzato dalla Provincia di Roma. In questo momento di dolore voglio esprimere tutto il mio cordoglio ai suoi familiari, e assicurare loro che la memoria e l’esempio di Remo, che da pochi giorni aveva compiuto 90 anni, rimarranno indelebili per me e per tanti giovani del nostro territorio, che porteranno per sempre nei propri ricordi la sua grande dignità e i suoi insegnamenti». Cordoglio anche dal sindaco Alemanno. «Esprimo il mio profondo cordoglio per la scomparsa di Remo Comanducci, uno dei protagonisti delle drammatiche giornate della Difesa di Roma e uno degli ultimi testimoni della tragedia delle deportazioni nei campi nazisti».

La Stampa 5.2.13
Da Roma a Mauthausen la lotta di Remo Comanducci
Protagonista della Resistenza nella Capitale, si è spento a 90 anni. Fu uno dei pochi partigiani sopravvissuti al Lager
Aveva scelto a poco più di vent’anni di opporsi al fascismo, partecipò alla battaglia in città contro i nazisti
di Umberto Gentiloni


«A vent’anni la vita è oltre il ponte» scriveva Italo Calvino in una delle canzoni più struggenti della Resistenza, oltre mezzo secolo fa ( Oltre il ponte, Italo Calvino e Sergio Liberovici, 1959). Strano destino quello di chi ha vissuto la stagione della lotta di liberazione, attraversato i decenni della Repubblica, costruito progetti e speranze lasciandosi alle spalle il peso di un passato ingombrante e pericoloso. Quegli uomini e quelle donne che allora scelsero l’impegno contro il regime faticano ad ascoltare le stravaganti parole che riaffiorano su un presunto fascismo buono o sulle incomprese qualità da statista di Mussolini e dei suoi gerarchi. Remo Comanducci si è spento ieri a Nettuno, nel litorale a sud di Roma, aveva appena compiuto novant’anni lo scorso 31 gennaio. Un uomo semplice e spiritoso, disponibile e generoso. Aveva scelto a poco più di vent’anni di opporsi al fascismo, sin dall’inizio senza attendere il responso del tempo o i giudizi del dopoguerra. L’8 settembre 1943 partecipa alla battaglia di Roma, sin dalla notizia dell’armistizio con gli anglo americani. Si batte contro l’occupante nazista, sceglie di manifestare il proprio sdegno, la ribellione di un giovane in cerca di libertà e giustizia. Un passo impegnativo, una via senza ritorno: diventare adulti, seguire il proprio istinto, gli ideali di un’adolescenza difficile. La guerra è entrata nel vivo, nella fase cruciale: l’Italia è divisa politicamente e geograficamente, gli italiani travolti dalle dinamiche di una conflittualità senza precedenti.
Remo si organizza nella capitale unendosi ad altri che come lui cercano le forme più adatte per indebolire la presa dell’occupante sfuggendo alle azioni di rappresaglia. Lo spazio di azione si assottiglia progressivamente, i controlli diventano minuziosi e feroci. Il 27 dicembre viene fermato nei pressi della sua abitazione, in pieno centro, a Campo de’ Fiori: rastrellato e identificato, condotto immediatamente nel carcere di Regina Coeli. Il tempo della giovinezza sembra fermarsi, partigiano per poco più di tre mesi agli albori della guerra civile. Ormai è un detenuto, un triangolo rosso, un politico pericoloso per gli interessi del Reich e per gli esiti della guerra nella penisola. Il 4 gennaio con altri 330 compagni di viaggio sale su un treno dalla stazione Tiburtina, tappa a Dachau, destinazione finale Mauthausen, arrivo il 14 gennaio 1944. Viene registrato con il numero di matricola 42053. Rimane nel campo fino alla conclusione della guerra; riesce a resistere, a sopravvivere ai ritmi del lavoro coatto e agli stenti dell’universo concentrazionario. Ricorda con piacere l’abbraccio con i soldati americani, nel sottocampo di Gusen agli inizi di maggio 1945. Ce l’aveva fatta, poteva ricominciare.
Remo non cerca riflettori o canali di comunicazione. Si stabilisce a Nettuno dedicandosi al lavoro. Fa l’operaio, l’elettricista specializzato nella riparazione di insegne luminose. La sua corporatura minuta e resistente gli permette di arrampicarsi su staccionate e facciate di palazzi; in poco tempo il profilo professionale si afferma: lo cercano in molti, spesso per lavori di manutenzione contro l’usura e la salsedine marina. Non vuole saperne di un passato lontano, chiuso in qualche angolo della memoria. Solo l’età, i primi acciacchi di salute lo rallentano, fino a ridurlo a una vita semi sedentaria. Ma il suo sorriso, gli occhi vispi espressivi non lo abbandonano. Nell’aprile 2010 accetta l’invito dell’Aned e della Provincia di Roma per un viaggio della memoria nei luoghi della sua deportazione, non era mai tornato da allora. Si ferma davanti al cancello principale del campo di Mauthausen prende il microfono appoggiandosi alle stampelle aiuto per una mobilità precaria, la voce rotta dall’emozione: «C’era la neve, era alta. Quando sono arrivato, in pieno gennaio, mi hanno spogliato, tagliato i capelli e, infine, cancellato il mio nome con il numero della matricola, 42053. Ora capite perché non volevo più tornare qui...».

l’Unità 5.2.13
Foxconn, la fabbrica dei suicidi apre al voto
Il colosso cinese dice sì a una rappresentanza sindacale
Nel 2010 era finito sotto accusa per le condizioni di lavoro
Apple, primo partner, decisiva nella scelta
di Giuseppe Caruso


MILANO Era famosa per essere la fabbrica dei suicidi degli operai, adesso avrà la prima rappresentanza sindacale della sua storia. La Foxconn, il colosso taiwanese che assembla i prodotti della Apple ma anche di Dell, Sony e Nokia, era finita al centro di diverse critiche nel 2010, quando alcuni dei suoi operai si erano suicidati a causa delle condizioni di lavoro più simili ad un lager che ad una fabbrica.
CONQUISTA
Adesso per la prima volta nella sua storia i lavoratori dell’azienda taiwanese si preparano ad eleggere i propri rappresentanti sindacali, come rivela il Financial Times. La Foxconn impiega in Cina circa 1,2 milioni di addetti, che finora avevano risposto solo al management e alle autorità locali, venendo sempre controllati in modo molto rigido.
L'introduzione di una rappresentanza sindacale assume perciò il segno di un’innovazione fondamentale. L’azienda ha fatto sapere che i delegati sindacali saranno giovani e non proverranno dal management. Le elezioni saranno segrete e si terranno ogni 5 anni. Dopo l’ondata di suicidi che aveva travolto l’azienda, i media internazionali si erano interessati al caso, attaccando duramente la Apple, in quanto prima cliente della Foxconn. Un’inchiesta del New York Times sulla «fabbrica degli schiavi della Apple» aveva lasciato il segno. Lo stesso gruppo creato da Steve Jobs aveva così dovuto sollecitare un’indagine indipendente e convincere il suo partner taiwanese ad accettarla. Così era nato il rapporto della Fair
Labour Association (Fla) che denunciava i soprusi di cui erano vittime i lavoratori della Foxconn.
L’indagine, durata tremila ore e che aveva coinvolto 35mila lavoratori, aveva portato la Foxconn ad ammettere i problemi e ad impegnarsi a rimuovere le violazioni registrate. Sia la Apple che l’azienda taiwanese avevano concordato una serie di modifiche nel trattamento dei 1,2 milioni di operai cinesi, modifiche destinate ad incidere su tutta la produzione industriale in Cina.
L’accordo prevedeva che le ore di lavoro degli operai non superassero le 49 a settimana, anche nei periodi di picco e compresi gli straordinari, contro le 60 ore precedenti, senza che i salari fossero ritoccati verso il basso. Per far fronte ai “buchi”, la Foxconn ha assuto alcune migliaia di lavoratori in più. Insomma, una concretizzazione del famoso slogan lavorare meno, lavorare tutti.
PRODUZIONE
La casa madre della Foxconn è la Hon Hai Precision Industry di Tucheng, un sobborgo di Taiwan. La Hon Hai produce nelle sue fabbriche nel Sud della Cina, oltre agli iPhone ed agli iPad della Apple, anche i prodotti di Dell. Hewlett-Packard, Motorola, Nokia e Sony, fornendo componenti per circa il 50% di tutti il mercato.
Quando il rapporto della Fla era arrivato sul tavolo della dirigenza della Apple e su quelli delle redazioni dei giornali, il Ceo della Mela morsicata, Tim Cook, era impegnato in una trasferta cinese. Viste le informazioni contenute nel rapporto, Cook aveva immediatamente deciso di far visita allo stabilimento Foxconn di Zhengzhou, nella provincia dell’Henan, uno stabilimento che conta oltre 120.000 dipendenti. Una sorta di città nella città. Una tappa che a quel punto era diventata obbligatoria, ma di cui non si conoscono i dettagli, visto che a testimoniare la visita ci sono soltanto alcune foto che ritraggono il Ceo della Apple sorridente accanto ad alcuni operai.
Cook aveva poi incontrato il vice premier cinese Li Keqiang, che gli aveva prospettato la necessità, sia da parte della Apple, sia da parte di tutte le altre multinazionali operanti in Cina, di prestare più attenzione ai basilari diritti dei lavoratori della più grande economia crescente a livello mondiale. Un appello piuttosto ipocrita, visto che per primo è proprio il governo di Pechino a favorire lo sfruttamento dei lavoratoti per attirare le imprese sul suo territorio. Ma per quanto riguarda la Foxconn, le cose sono cambiate.

La Stampa 5.2.13
In Pakistan c’è un’altra Malala. Stuprata, torturata e minacciata
La polizia si rifiuta di registrare la denuncia di Fouzia
di Francesca Paci


Entrambe hanno 15 anni anagrafici ma secoli di rabbia muta alle spalle, entrambe sono vittime d’una cultura maschilista ciecamente legittimata dal Corano, entrambe provengono da quell’oscuro Pakistan che pur vantando in Benazir Bhutto la prima e unica premier del mondo musulmano resiste nella top 3 dei Paesi più pericolosi per le donne, dove i delitti d’onore ne uccidono oltre mille l’anno e almeno il 90% conosce da vicino la violenza domestica.
Malala Yousafzai è la ragazzina di Mingora aggredita dai taleban il 9 ottobre scorso per la sua campagna a favore dell’istruzione femminile, l’altra, appena balzata agli onori della cronaca, si chiama Fouzia Bibi, è cristiana e il 25 gennaio è stata violentata e torturata da due potenti signorotti musulmani nelle campagne del Punjab in cui sgobba quotidianamente in barba alla giovanissima età.
Malala e Fouzia. Una ha parlato ieri per la prima volta dopo il delicato intervento di ricostruzione del cranio effettuatole al Queen Elizabeth Hospital di Birmingham ringraziando chi l’ha sostenuta e giurando di continuare a battersi affinché «ogni bambina e ogni bambino possano studiare». La seconda parla da giorni, da quando sostenuta dai poverissimi genitori ha deciso di denunciare Sher Maometto e Shabir Ali, gli aguzzini armati che dieci giorni fa l’hanno chiusa in una stanza e hanno abusato di lei certi della tripla impunità di maschi, ricchi e musulmani. Il commissariato di Sarai Mughal infatti, non ha neppure registrato il racconto di Fouzia e del padre Malooka Masih che l’ha trovata priva di conoscenza in strada, ma l’impegno giuridico e mediatico dell’Associazione evangelica di sviluppo legale (Lead) è riuscito a rompere il muro dell’omertà e diffondere la storia.
Malala e Fouzia sono piccole donne che crescono, una, nessuna e centomila, identità negate nell’indistinta categoria del sesso inferiore. Appartengono a religioni diverse ma né l’uno né l’altro Dio hanno saputo proteggerle dagli uomini invasati di presunta fede, gli stessi che nei mesi scorsi hanno violato madri, mogli e figlie di Timbuctù, gli stessi che ormai troppo frequentemente si avventano sulle connazionali in sit in a piazza Tahrir fino ad aver reso il Cairo la tristemente nota capitale araba delle molestie sessuali.
«I genitori di Fouzia sono spaventatissimi, vengono minacciati, nessuno di noi si sente più sicuro perché essendo poveri e cristiani non abbiamo protezione» ripete lo zio Ashiq Masih. La minoranza cristiana non se la passa bene in Pakistan, dove la legge sulla blasfemia confina la tolleranza religiosa a un dibattito tra intellettuali, terrorizzando la società con la pena di morte per mancanza di rispetto all’islam. Poi ci sono le donne, Malala come Fouzia.

Corriere 5.2.13
Il ministro, l'hotel, l'amica. La blogger che mette in crisi la Tunisia
di Cecilia Zecchinelli


È' iniziato tutto con la scoop di una giovane blogger tunisina, pubblicato online il 26 dicembre per i suoi pochi (allora) lettori. Parole e copie di ricevute d'albergo che in un mese hanno trasformato la 29enne Olfa Riahi in una celebrità e che ora stanno contribuendo alla possibile caduta del governo della Tunisia. Nel Paese pioniere della primavera araba, dove alla fine del 2010 esplosero le prime e prolungate proteste e il14 gennaio successivo il dittatore Ben Ali fu costretto alla fuga, la situazione non è drammatica e violenta come in Egitto. Ma il Paese è in piena crisi economica, la tensione è alta e la coalizione di governo guidata dal partito islamico moderato Al Nahda è in seria e crescente difficoltà.
E' proprio uno degli uomini chiave di Al Nahda il protagonista dello scoop di Olfa: Rafik Abdessalam, ministro degli Esteri nonché genero del leader storico del partito, Rashid Ghannouchi, perché marito della controversa figlia Soumaya. Ricevute alla mano (e sul blog), Olfa Riahi ha dimostrato che il ministro aveva passato sette notti non consecutive al hotel Sheraton della capitale, in Avenue della Lega Araba. E qui era stato accompagnato da una donna. Tutto normale se non fosse che le spese dell'albergo erano state pagate dallo Stato. E che la signora non era Soumaya.
Doppio scandalo per il partito perseguitato negli anni della dittatura che si è proposto, vincendo alle elezioni, come nemico giurato di corruzione, nepotismo e immoralità. Le ricevute mostrate dalla blogger non sono state smentite dall'interessato, né da Al Nahda che lo ha però difeso. La donna era «una parente» del ministro, è stata la spiegazione, il soggiorno allo Sheraton necessario per il lavoro del capo della diplomazia. E Abdelassam ha quindi trascinato Olfa Riahi in tribunale, mentre in tutta la Tunisia scoppiava lo «Sheratongate».
Sotto inchiesta e ancora in attesa del verdetto, libera seppur con il divieto di lasciare il Paese, la giovane tunisina è stata intervistata da tutti, è comparsa in tv in innumerevoli talk show con l'aria sicura e i capelli cortissimi. E proprio in diretta sul canale Ettounsiya, in prime time, non solo ha confermato l'autenticità delle sue prove (anche se ha precisato: «io non l'ho accusato di malversazione e adulterio, altri lo hanno fatto»). Ma ne ha aggiunta un'altra: Abdessalam aveva ricevuto un milione di dollari dal governo cinese e l'aveva versato sul conto del suo ministero, anziché passare come impone la legge dalla Tesoreria generale.
Nuova denuncia di Al Nahda contro la blogger, che a sua volta ne sporgeva una per diffamazione, mentre un collettivo di 25 avvocati faceva causa al ministro e il partito di Ghannouchi, finalmente, apriva un'indagine interna sul suo operato. Insomma, un complicato fogliettone politico-giuridico-mediatico che al di là delle sorti dei protagonisti sta polarizzando l'intero Paese, dividendolo profondamente tra islamici e liberali. Gran parte dei media sono con la blogger: finalmente liberi di esprimersi dopo decenni di censura, ora hanno un rapporto difficile con il partito di Ghannouchi che a sua volta li considera «anti-islamici». E che ritiene Olfa «pilotata» da qualcuno, perché troppo inesperta nel giornalismo investigativo e perché apertamente vicina al partito laico del Congresso della repubblica, membro del governo ma sul punto di andarsene.
Il Congresso e l'altro partner laico e di centrosinistra della coalizione, Ettakatol, vogliono infatti la testa di Abdessalam (e del ministro della Giustizia) e se non l'avranno sono pronti a lasciare. Già prima dello «Sheratongate» avevano chiesto invano le dimissioni di Abdessalam, sostenuti dall'opinione pubblica che urla al nepotismo e lo paragona all'odiato genero di Ben Ali. Ma Olfa Riahi, pilotata o meno che sia, ha fatto precipitare le cose.

La Stampa 5.2.13
WiFi gratis per tutti Obama apre la nuova frontiera
Washington: innescherà un boom di novità
di Paolo Mastrolilli


Il WiFi, l’accesso gratuito ad Internet in tutte le case, sta diventando terreno di battaglia tra il governo americano e vari colossi tecnologici. Una vera rivoluzione, che divide le stesse aziende del settore. Da una parte, infatti, lo Stato vuole fornire questo servizio perché è convinto che provocherà una valanga di innovazioni di cui beneficerà tutto il Paese, ed è appoggiato dalle compagnie che producono gli strumenti favoriti dall’iniziativa. Dall’altra, le società che incassano profitti grazie alla fornitura di accessi alla rete ovviamente frenano.
L’idea, secondo il «Washington Post», ha la forma di una proposta allo studio della Federal Communications Commission (Fcc), ossia l’organismo federale che regola le comunicazioni. Il piano, elaborato dal presidente della Fcc Julius Genachowski, prevede che le stazioni televisive locali e altre strutture impegnate nel settore del broadcasting vendano allo Stato una quantità abbastanza elevata di «airwaves», su cui poi costruire un network nazionale per l’accesso gratuito a internet via WiFi.
La rete che ha in mente Genachowski sarebbe molto potente e onnipresente, capace di attraversare i muri più spessi e aggirare le montagne. Ogni cittadino potrebbe usarla gratis, per collegarsi a Internet o fare telefonate attraverso il Web. Il vantaggio per gli Stati Uniti starebbe nel fatto che questo accesso aiuterebbe chiunque abbia in mente un business che ha bisogno di comunicare in rete, e soprattutto stimolerebbe una nuova ondata di invenzioni tecnologiche, inseguite da tutte le aziende che poi potrebbero realizzarle e venderle.
Il precedente è quello degli Anni Ottanta, quando da una simile liberalizzazione vennero fuori novità come i microfoni senza fili e le porte telecomandate.
La proposta della Fcc ha subito ricevuto l’appoggio di colossi come Google e Microsoft, che si avvantaggerebbero di questa rivoluzione producendo gli strumenti che la gente userebbe grazie all’accesso gratuito a Internet. Al momento, è ovvio pensare ai computer o anche alle auto senza guidatore, che diventerebbero molto più funzionali, economiche, e quindi si moltiplicherebbero. Il limite però diventa il cielo, quando si pensa anche ai robot, gli strumenti medici e tutti gli oggetti che non riusciamo nemmeno a immaginare, ma nascerebbero e diventerebbero di uso comune grazie all’ingresso facilitato nella rete. Google, per esempio, già offre questo servizio nel quartiere Chelsea di New York e in alcune zone della Silicon Valley.
Chi sta cercando di impedire questa rivoluzione sono invece le aziende del settore wireless, che incassano 178 miliardi all’anno fornendo accesso. Anche qui sono schierati dei giganti, come AT&T, T-Mobile, Verizon Wireless, Intel, Cisco e Qualcomm, che vendono WiFi o forniscono la tecnologia per distribuirlo e utilizzarlo. Loro temono interferenze tecniche sulla rete, ma soprattutto di perdere enormi fette di mercato. Quindi suggeriscono al governo di vendere le «onde», incassando miliardi che aiuterebbero a ridurre il debito, per poi lasciare lo sviluppo a chi le acquista. La Fcc, però, risponde così: «A noi interessa un sistema che non metta al centro il fornitore, ma l’utente». E questa sarebbe una rivoluzione.

La Stampa 5.2.13
La Casa Bianca
Sì alla guerra preventiva digitale


Il presidente Barack Obama ha il potere necessario per ordinare un attacco preventivo se gli Stati Uniti dovessero entrare in possesso di prove credibili di un vasto attacco digitale proveniente dall’estero. È quanto stabilisce, secondo quanto rivela il «New York Times», la revisione legale, compiuta in segreto, del crescente arsenale per il «cyberwarfare» in possesso degli Usa. L’amministrazione Obama si appresta, nelle prossime settimane, a varare le prime regole riguardo alla capacità del Pentagono e delle agenzie di intelligence di difendersi e contrattaccare in caso di un cyber attacco dall’esterno. Le regole di ingaggio rimarranno top secret, come quelle previste per decidere gli attacchi con i droni. Un ruolo centrale nella messa a punto delle nuove regole, così come per i droni, lo ha avuto John Brennan, consigliere antiterrorismo di Obama e uomo prescelto per guidare la Cia.

La Stampa 5.2.13
Nella banlieue parigina
Gli imam del dialogo pregano insieme al museo della Shoah
di Alberto Mattioli


Una quarantina di imam in preghiera al memoriale della Shoah. È un simbolo forte in un momento in cui nella Francia laica si moltiplicano le tensioni religiose e gli atti antisemiti e cresce la paura dell’Islam. È successo ieri sera a Drancy, nella banlieue parigina, nella stazione trasformata in museo da dove, dal ‘41 al ‘44, passarono 67 mila dei 75 mila ebrei francesi deportati senza ritorno.
A organizzare la manifestazione sono stati Marek Halter e Hassen Chalghoumi. Il primo è un celebre scrittore, laico ma ebreo di origine polacca. Il secondo è l’imam del dialogo, che vive sotto scorta da quando gli estremisti musulmani l’hanno minacciato di morte. «Quando le tensioni crescono ovunque, bisogna che le persone capiscano che possono parlarsi», spiega Halter. Chalghoumi fa lo stesso dal versante musulmano: «Vogliamo mostrare che l’Islam non ha niente a che vedere con l’odio. Bisogna denunciare la violenza, quella dei nazisti ieri, quella dei terroristi oggi».
La stessa strana coppia è stata all’origine di un’altra iniziativa che ha fatto molto discutere. In novembre, sedici imam francesi hanno fatto un viaggio in Israele. Hanno visitato lo Yad Vashem, il memoriale della Shoah di Gerusalemme, e si sono raccolti in preghiera sulle tombe dei bambini ebrei assassinati l’anno scorso a Tolosa dal killer islamista Mohamed Merah. Un gesto che, allora, suscitò proteste e polemiche sia da parte musulmana che da parte ebrea.
Fra gli imam di quel viaggio e dell’omaggio di ieri a Drancy c’era anche quello di Marsiglia, Abdoulkarim Mbechezi, che li spiega così al «Parisien»: «Quello che mandiamo è un messaggio di pace. Per la nostra religione, chi ha salvato una vita ha salvato l’umanità, ma chi ha distrutto una vita ha distrutto l’umanità». Nobili parole, non sempre condivise nelle banlieue dove è pericoloso farsi vedere con la kippah. Alla cena seguita alla preghiera hanno partecipato rappresentanti di tutte le confessioni: oltre a rabbini e imam, anche sacerdoti cattolici e pastori protestanti. E il ministro dell’Interno e dei Culti, Manuel Valls: «Sono immagini molto forti che parlano più che le parole. Il dialogo, la tolleranza e la conoscenza sono indispensabili per lottare contro l’antisemitismo e tutti i fanatismi, quelli che negano la Shoah come quelli che hanno voluto distruggere Timbuctù». Per la République è stata una buona giornata.

Corriere 5.2.13
I manoscritti salvati dagli «angeli» di Timbuctù
di Michele Farina


Non è facile nascondere ottomila volumi, specie con gli zeloti di Al Qaeda alle porte. Bisogna avere nelle vene l'abitudine alle invasioni, sangue freddo e parecchi sacchi di tela. Così Ali Imam Ben Essayouti ha salvato un tesoro di manoscritti risalenti al Quattordicesimo secolo. L'esperienza gli dice che è presto per riaprire le casse dove per un anno ha tenuto i libri, nel buio di qualche stanza sotterranea. Certo Timbuctù è salva, e con i liberatori francesi è volata in città anche la capa dell'Unesco, Irina Bokova, a promettere aiuto. I mausolei distrutti «saranno ricostruiti». Quanto alle antiche biblioteche, date per perdute, la buona notizia è che si sono salvate quasi tutte. Il merito va alle famiglie che le custodiscono da secoli. E che anche questa volta hanno beffato gli invasori.
Quando sono arrivati i miliziani barbuti di Ansar Dine e molti abitanti avevano già fatto le valigie, Konatè Alpha pensava ai suoi tremila libri. Ha indetto una riunione di famiglia, così ha raccontato al New York Times, con i fratelli e l'anziano padre: «Dobbiamo nascondere i manoscritti». Trasportarli lontano no: sono documenti delicati, più fragili delle Thanka tibetane (composizioni ricamate su lino e seta) che i monaci si portavano dietro e che costituiscono oggi uno dei pochi tesori artistici salvati dalle distruzioni cinesi. Meglio ricorrere ai rifugi della vecchia Timbuctù. La famiglia di Konatè ha trovato manoscritti nascosti all'interno di un muro dai precedenti proprietari: «Nascosti così bene che se li erano dimenticati lì».
Leggenda vuole che gli aztechi seppellirono i loro ori vicino a un lago al ritorno dei vendicativi spagnoli di Cortés, senza poi riuscire a ritrovarli (un sindaco di Città del Messico in anni recenti ha fatto persino dragare il lago invano). Konatè, come altri bibliotecari, ha messo i manoscritti in un rifugio collaudato, entro le mura domestiche o nel vicino deserto. I miliziani di Al Qaeda non sono passati casa per casa. Sono andati alla biblioteca più importante, l'Ahmed Baba Institute, allestita grazie a fondi esteri. I funzionari li hanno convinti che era un'istituzione islamica. Un capo fondamentalista ha dato la sua parola e il suo numero di cellulare: «Se qualcuno vi dà noia chiamatemi». Ma il direttore, Abdoulaye Cissé, non si è fidato. E ha deciso di spostare i manoscritti alla chetichella, cassa dopo cassa, giorno per giorno, piccoli viaggi per non destare sospetti. Ha spedito i volumi nelle zone governative. E ha fatto bene: i miliziani in ritirata hanno assaltato la biblioteca bruciando quanto trovavano. «Grazie a Dio solo il 5% del materiale è andato perduto».
Il valore storico è inestimabile. «I libri di Timbuctù parlano di tutto quanto c'è sotto il sole», dice Essayouti. Dalla Mauritania al Sudan, le biblioteche del deserto (spesso private) hanno sconfitto il tempo: libri religiosi, poesia, traduzioni di testi greci, trattati scientifici che fanno sorridere per la loro arretratezza ma sono testimonianza di una cultura globale che ha resistito a invasioni, sabbia e insetti. Un patrimonio preservato grazie allo sforzo o all'arguzia di singoli individui. In Mali e altrove. Al Museo Nazionale dell'Iraq si racconta che durante il caos della caduta di Bagdad alcuni dipendenti portarono a casa statuette e oggetti preziosi per la durata dei saccheggi. Come sono sopravvissute le collezioni del Museo Nazionale di Kabul alla furia iconoclasta dei talebani? Il direttore Omar Massoudi escogitò un singolare sistema antifurto per un bunker segreto nel Palazzo Presidenziale. Per aprirlo ci volevano sette chiavi. Ogni chiave fu data in custodia a una persona diversa, rendendo così più difficile il saccheggio. Un metodo che potrebbe servire ai bibliotecari di Timbuctù, alla prossima invasione.

Corriere 5.2.13
L'alleanza tra Italia e Iraq fa rivivere il Vaso di Warka
Il capolavoro recuperato dai nostri restauratori
di Paolo Conti


ROMA — «Un pezzo straordinario, un capolavoro assoluto non solo dell'arte mesopotamica, perché appartiene all'intera umanità. È un motivo di orgoglio per l'Italia che il suo ripristino porti la firma dell'Istituto superiore per la conservazione e il restauro». Se il grande Vaso di Warka, come spiega il capoprogetto iracheno per l'Istituto, Alessandro Bianchi, è tornato da pochi giorni nel cuore del Museo di Bagdad completamente ricostruito nei minimi dettagli, il merito è della grande tradizione del restauro italiano, che ha tra i suoi padri personaggi del calibro di Cesare Brandi e Giovanni Urbani: un settore, quello del restauro storico-artistico, in cui il nostro Paese continua ad essere leader indiscusso nel mondo, anche nelle aree a rischio come l'Iraq.
Il Vaso di Warka riassume in sé sia l'antichissima vicenda storica e culturale della Mesopotamia che la recente, contemporanea tragedia del popolo iracheno. È un'opera in alabastro, alta più di un metro, e proviene dalla città protosumera di Uruk, l'odierna Warka, nel sud del Paese. Risale al 30° secolo avanti Cristo e descrive, in una complessa e ricca decorazione a bassorilievo, scene con animali, piante, cortei di uomini e donne che offrono frutti della terra alla dea Inanna. È il più antico esemplare di arte figurativa e insieme narrativa del Vicino Oriente Antico e testimonia la visione del mondo dell'uomo nella prima civiltà mesopotamica. Lì, ed è un esordio assoluto nella storia, il tempio e la divinità della città si ritrovano al centro della vita umana e dell'organizzazione sociale. Il vaso è, insomma, un autentico manifesto del rapporto tra uomo e divinità.
Dal momento della sua scoperta (1934, durante una campagna archeologica tedesca) il Vaso di Warka è diventato un simbolo dell'Iraq e della sua straordinaria civiltà. Poi, tra il 10 e il 12 aprile 2003, durante lo spaventoso saccheggio del Museo di Bagdad, venne rubato e ritrovato il 12 giugno successivo dopo un lavoro di intelligence delle autorità irachene. Era ridotto in 15 pezzi (gli stessi dello scavo originario, aveva evidentemente ceduto il materiale del restauro del 1934) ne mancava all'appello solo uno di appena 5 centimetri per 7. Il restauro italiano cominciò, dopo un accordo con l'Iraq, nel marzo 2004. Il ministero per i Beni e le attività culturali donò il materiale necessario al ripristino e inviò una missione di restauratori dell'Istituto superiore che contemporaneamente tenne un corso didattico per i colleghi iracheni. Nel giugno 2004 l'operazione era vicina alla conclusione, anche grazie al sostegno dell'allora ambasciatore Ludovico de Martino, ma nel frattempo era diventato impossibile garantire la sicurezza alla squadra italiana.
Pochi mesi fa il ministero italiano ha ripreso i contatti con le autorità irachene ed è ripartita una missione guidata da Alessandro Bianchi con il restauratore Carlo Usai, esperto in antichistica, e con la collaborazione a Bagdad di un professionista esterno per i rapporti con le autorità irachene, Paolo Battino. Ora il vaso è perfettamente restaurato ed è già al suo posto nel museo, ma sono in programma cerimonie ufficiali e formali. Dice l'attuale ambasciatore italiano in Iraq Massimo Marotti: «Questo restauro riassume in sé tanti elementi positivi per l'Italia agli occhi del governo di Bagdad. Cioè la restituzione di uno dei simboli archeologici e, in senso generale, culturali del Paese. La prosecuzione di una partnership, nell'ambito della cooperazione, che prevede la formazione di restauratori sotto la guida italiana e anche nuovi allestimenti di altri musei regionali iracheni. L'Italia e l'Iraq hanno in comune la titolarità dei due più importanti e antichi patrimoni archeologici della storia umana. È logico che collaborino, parlando la stessa lingua culturale».
Fin qui la cronaca di questi giorni. Ma non è escluso che l'Italia possa riuscire, nei prossimi mesi, a ottenere un breve prestito per una mostra a Roma. Sarebbe un bel capitolo non solo per il restauro italiano ma anche come segnale per la «normalizzazione» dell'Iraq.

Corriere 5.2.13
Cultura L'inerzia degli europei condannò Costantinopoli
Nel 1453 nessuno intervenne per fermare gli ottomani
di Paolo Mieli


Il 28 maggio 1453 l'imperatore bizantino Costantino XI Paleologo radunò i comandanti militari e con commoventi parole — tramandateci da un testimone oculare, l'uomo di corte Giorgio Sfranze — annunciò per l'indomani la battaglia decisiva atta a rompere l'assedio di Costantinopoli da parte del sultano Mehmed II. Il popolo, secondo Sfranze, «rispose dando prova di eroismo», ma l'impresa non riuscì. Costantino fu travolto e il 29 maggio 1453 segnò così la fine dell'impero durato oltre undici secoli. I turchi uccisero quel giorno circa quattromila persone tra combattenti e popolazione civile. Ma il racconto di Sfranze è quasi sicuramente un falso, costruito un secolo dopo gli eventi da un arcivescovo greco che risiedeva a Napoli. La resistenza ai musulmani non ebbe affatto caratteri grandiosi.
In un libro di Jonathan Harris edito dal Mulino, La fine di Bisanzio (pp. 304, 25), si ripercorrono gli ultimi giorni della città sulla base di resoconti di prima mano, dai quali si apprende che i bizantini di Costantinopoli furono «decisamente poco propensi a rinunciare alle loro vite», che i più abbienti si tennero «ben stretti i loro averi piuttosto che donarli per finanziare le difese», mentre i più poveri chiesero di essere pagati per combattere. E che i più strenui «difensori della città» furono i contingenti da Venezia e Genova, quest'ultimo guidato con spirito di abnegazione da Giovanni Giustiniani. È vero che Costantino XI morì in battaglia; ma suo fratello Demetrio si arrese al sultano, consegnandogli, senza combattere, la cittadina di Mistrà. L'altro fratello, Tommaso, non attese neanche l'arrivo dei turchi e fuggì via nave verso l'isola di Corfù. Il «falso Sfranze» fu costruito ad arte per attenuare la vergogna di quei comportamenti che, nel Settecento, Edward Gibbon avrebbe stigmatizzato come poco dignitosi. Colpa che fu ingiustamente estesa anche a Costantino XI Paleologo, definito da George Finlay «il più inetto di tutti i principi».
In tempi recenti gli storici sono stati più generosi nei confronti degli ultimi imperatori bizantini, ai quali per anni e anni erano state imputate un'eccessiva disponibilità alla resa, nonché una dannosa predisposizione ai futili battibecchi dottrinari e dinastici. Adesso gran parte degli studiosi sostengono, come Harris, che gli ultimi bizantini videro «nella dominazione musulmana un'alternativa preferibile all'essere controllati dall'Occidente cattolico, dal momento che i turchi, per quanto infedeli, erano nondimeno disposti a tollerare la fede ortodossa». Gli stessi studiosi hanno poi fatto notare come dietro i contrasti fra i Paleologi si nascondessero importanti «questioni economiche e legami famigliari, non solo ambizioni personali». Ma, osserva Harris, «resta la percezione che la risposta bizantina alla minaccia ottomana fu in qualche modo inadeguata, se non vigliacca». Perché? L'autore nota come ancora negli ultimi anni siano state date alle stampe «valanghe di libri», in molti dei quali si riflette l'assunto che «tra Cristianesimo e Islam esistesse (ed esista tuttora) uno scontro connaturato e inevitabile, e che nel Medioevo cristiani e musulmani si trovassero continuamente in uno stato di rivalità e di guerra». Questa convinzione, prosegue Harris, «è oggi alla base della credenza di molti musulmani di essere stati vittime di aggressioni cristiane perpetuatesi nei secoli, e dell'altrettanto erronea idea che molti occidentali nutrono quando considerano l'Islam una religione di violenza per antonomasia».
Alla luce di questo genere di pregiudizi, «la prontezza di alcuni bizantini ad arrendersi docilmente ai dominatori musulmani suona come slealtà nei confronti del loro "schieramento" e in qualche modo come una deviazione da quello che ci si dovrebbe normalmente attendere in simili circostanze». Ma all'epoca lo «schieramento» occidentale, a cui i bizantini avrebbero dovuto mostrare lealtà, non esisteva in nessun modo. L'ultimo secolo di vita dell'impero bizantino fu contrassegnato sul teatro europeo dalla guerra dei Cent'anni (1337-1453) combattuta tra cristiani inglesi e cristiani francesi; nello stesso periodo si ebbe un aspro conflitto tra i musulmani ottomani e i correligionari karamanidi, anch'essi turchi: ciò che dimostra come dietro la gran parte delle guerre del tardo Medioevo non ci fossero affatto dogmi religiosi. Di conseguenza, scrive l'autore, si può dire che nella fase conclusiva della storia di Bisanzio «la disponibilità a un accordo con i turchi da parte di alcuni bizantini non era necessariamente questione di vigliaccheria o di mancanza di patriottismo, quanto piuttosto consapevolezza del fatto che i turchi costituivano ormai un elemento permanente della scena politica, destinato a non scomparire». Le questioni cruciali cui i bizantini dovevano far fronte non riguardavano tanto rivendicazioni di natura religiosa o territoriale, quanto il pragmatismo della politica internazionale e del maneggio diplomatico, nonché la necessità di fare le giuste scelte individuali per assicurare un futuro a se stessi e alle proprie famiglie».
Del resto le premesse per quel che accadde nel 1453 erano state poste un secolo prima, nel 1354, allorché gli ottomani sbarcarono sulla sponda europea dei Dardanelli, conquistarono Gallipoli e gran parte della costa settentrionale del Mar di Marmara. Fu poi l'emiro ottomano Murad I a permettere ai signori locali sconfitti di rimanere al loro posto, «purché riconoscessero la loro condizione di vassalli, gli versassero tributi, e fornissero truppe che servissero sotto le sue armi». Finché, dopo la caduta di Adrianopoli, fu lo stesso imperatore bizantino Giovanni V Paleologo — dopo aver cercato aiuto a Roma, dove si era convertito per calcolo politico alla fede cattolica, e a Venezia, dove era stato addirittura arrestato per debiti — che si sottomise, nel 1372, a Murad. Conservando, in compenso, la sovranità su Costantinopoli. In segno di deferenza, Giovanni si dispose ad inviare alla corte di Murad il proprio figlio Manuele con un contingente di truppe da porre al servizio dell'esercito ottomano. Manuele accettò di mala voglia. Qualche anno dopo, nel 1382, si ribellò e andò a guidare la resistenza di Tessalonica all'assedio ottomano. Dopo cinque anni, nel 1387, i tessalonicesi, sfiniti, chiesero a Manuele di andarsene per potersi arrendere anche loro a Murad. Il quale Murad, per magnanimità (e per sottile calcolo politico), consentì a Manuele di tornarsene a casa e ricongiungersi al padre.
A quel punto la sovranità del mondo bizantino era solo di facciata e il dominio turco non conosceva più impedimenti. Ma nel 1389 Murad morì e il figlio che gli succedette, Bayazid I, si mostrò subito meno prudente e politico del padre. Una nutrita serie di successi militari convinse Bayazid, nel 1394, a cingere d'assedio Costantinopoli per conquistarla. E Manuele, succeduto al padre Giovanni, si trovò alle prese con lo stesso problema che aveva scelto di affrontare (con scarso successo) a Tessalonica. Stavolta, visto che rischiava di cadere in mano ai musulmani la più importante città cristiana del tempo, decise di chiedere aiuto alle potenze con lo stesso credo religioso. Quelle del nostro continente. E qui si entra nel vivo di un'indagine assai accurata dei mali congeniti al dna della futura Europa. Manuele si rivolse alla Russia (cristiano ortodossa), ma la Russia lasciò cadere l'invito. Poi al Sacro Romano Impero, che copriva le attuali Germania, Austria e Repubblica Ceca. In seguito ai regni di Francia, Inghilterra, Ungheria; al ducato di Borgogna, alla Spagna che, con l'eccezione dell'emirato di Granada, era tutta cristiana e alle città-stato italiane: Firenze, Milano, Venezia, Genova, Siena, Ferrara. Come si diceva, l'intera Europa attuale. Ma ottenne poco. Molto meno di quello che era stato messo in campo per le crociate.
Qualcosa del genere aveva tentato suo padre Giovanni V nel 1369, quando, per ricevere aiuti da Occidente, si era recato a Roma dove, come abbiamo ricordato, si era addirittura convertito al cattolicesimo. Ma non gli era servito a niente e così, tornato a casa, Giovanni si era fatto vassallo dell'impero ottomano. Adesso sembrò che Manuele II potesse avere miglior fortuna. Nell'estate del 1396, un esercito congiunto di 15 mila francesi, borgognoni e ungheresi guidato da Sigismondo, re d'Ungheria e da Giovanni di Nevers, figlio del duca di Borgogna, si mise in moto alla volta di Costantinopoli. Ma Bayazid mosse all'attacco dei latini e il 25 settembre li affrontò a Nicopoli, in Bulgaria, annientandoli. Tre anni dopo, nel 1399, fu Carlo VI di Francia a inviare un migliaio di uomini per aiutare Costantinopoli a resistere. E l'anno successivo fu Manuele a intraprendere un viaggio in Francia e in Inghilterra (tra le quali stava per riaccendersi la guerra dei Cent'anni) per mettere a punto una strategia europea meno disordinata, così da liberare Costantinopoli e sconfiggere i musulmani una volta per tutte. Papa Bonifacio IX benedisse l'iniziativa di Manuele, promettendo indulgenze speciali per tutti coloro che lo avessero aiutato, e il suo rivale avignonese Benedetto XIII assunse lo stesso impegno. Ma erano tutti annunci a cui non seguiva niente: la rivalità tra Venezia e Genova ostacolava tra l'altro la creazione di una flotta comune che avrebbe potuto essere l'arma decisiva. Il sultano Bayazid, che per mettere zizzania tra i suoi antagonisti sosteneva apertamente le aspirazioni di Ladislao di Napoli al trono d'Ungheria, era ben consapevole del fatto che le divisioni avrebbero impedito a quelle potenze di trovare un vero accordo: «Finché i cristiani avranno due papi», diceva, «li combatterò senza timore; quando ne avranno uno solo, dovrò fare la pace con loro».
Manuele si rassegnò e restò a Parigi, ospite del re francese nel palazzo del Louvre, per scrivere un trattato teologico assai erudito sulla processione dello Spirito Santo. «Può darsi», scrive Harris, «che si aspettasse di ricevere da un giorno all'altro la notizia che Costantinopoli era infine caduta in mano a Bayazid, nel qual caso egli avrebbe potuto trascorrere in Francia il resto della sua vita in aureo ritiro». Fu lì, a Parigi, che nell'estate del 1402 lo raggiunse, a sorpresa, la notizia della sconfitta di Bayazid.
Solo che Bayazid era stato travolto non già da mano europea, bensì asiatica. Nel senso che il sultano aveva avuto l'imprudenza di rivolgersi contro i musulmani dell'Asia Minore, aggredendo l'emiro di Sivas, protetto da Tamerlano, il signore dei mongoli di Samarcanda. Fu dunque Tamerlano che, per reazione, attaccò l'esercito di Bayazid ad Ankara a fine luglio (dopo aver addirittura deviato il corso di un fiume per assetare le truppe nemiche) e lo fece a pezzi. Dopodiché l'armata mongola di Tamerlano dilagò. Fino a Smirne che, dopo essere stata catturata dai crociati nel 1344, era ancora in mano ai cavalieri cristiani di San Giovanni. In seguito Tamerlano richiamò in terra ottomana tutti gli emiri turchi che Bayazid aveva estromesso e tenne il sultano prigioniero fino alla sua morte nel 1403. Ma non andò oltre.
Toccò al figlio di Bayazid, Suleyman, il compito di ricostruire l'impero ottomano. Nell'indifferenza dei bizantini (e degli Stati cristiani europei) ai quali lo scampato pericolo appariva definitivo. Anzi, Harris sottolinea come, persino con i turchi alle porte di Costantinopoli e con l'impero sull'orlo della rovina, i bizantini fossero riusciti a «trovare il tempo di cimentarsi in lotte intestine e di farsi coinvolgere in intricati e interminabili battibecchi ideologici». Sotto questo aspetto, prosegue l'autore, «Bisanzio non era affatto diversa da altri regni medievali»: nella fattispecie, «le sue rivalità politiche vertevano attorno al controllo dell'ufficio imperiale e, come in altre società, tali lotte erano soltanto un modo di esprimere profonde differenze ideologiche di fondo, nello specifico sul modo di rapportarsi ai latini e ai turchi ottomani». Presto ripresero i rapporti economici tra bizantini e turchi, rapporti che in breve ridivennero ottimi. Del resto «era la stessa prossimità dei due imperi a fare sì che i due popoli avessero poche altre scelte quando si trattava di cooperare… qualcosa che fecero spesso». Greci e turchi finirono per assumere vicendevolmente aspetti della cultura gli uni degli altri. I bizantini appresero dai turchi l'arte (preziosa per le guerre dell'epoca) del tiro con l'arco a cavallo; i turchi impararono dai greci le tecniche marinare più moderne. Ma non era solo per questo che i bizantini ai tempi di Giovanni VII preferivano la sottomissione ai turchi. C'era anche, come si è detto, la sordità ai loro appelli della frastagliata Europa dell'epoca. E soprattutto il ricordo del 1202, cioè della Quarta Crociata, partita per strappare l'Egitto ai saraceni, ma deviata su Costantinopoli. Anzi, contro Costantinopoli.
Qui i crociati si intromisero nelle lotte per il potere e quando il capo di una fazione da loro appoggiata fu ucciso, francesi e veneziani si ritennero «oltraggiati e traditi», e attaccarono la città. Il saccheggio che ne seguì fu brutale, ma quello che più sconvolse i bizantini fu il modo in cui «il cosiddetto esercito cristiano si comportò nei confronti delle chiese di Costantinopoli, che vennero sistematicamente razziate e spogliate». Le truppe latine fecero irruzione nella cattedrale di Santa Sofia, mettendo le mani sui vasi sacri dell'eucarestia e sulla lampade d'argento, dissacrarono addirittura l'altare. Un sacerdote bizantino così descrisse i crociati a Costantinopoli: «Depredano i luoghi santi, calpestano le cose divine, scatenano liti per gli oggetti sacri, gettano a terra le sante immagini di Cristo, della sua santa Madre e di tutti i santi uomini che in eterno sono graditi al Signore Iddio, e gridano ingiurie e oscenità».
Certo, i crociati avevano agito in questo modo senza essere stati a ciò autorizzati dal Pontefice. Ma la Chiesa accettò che essi procedessero in seguito all'elezione di un loro imperatore e, soprattutto, che chiamassero un ecclesiastico veneziano a ricoprire la carica di patriarca per imporre il rito cattolico alle chiese della città. Questo stato di cose durò oltre cinquant'anni, fino a quando nel 1261 Michele VIII Paleologo riconquistò la città e restituì Santa Sofia a un patriarca ortodosso. Così quando Giovanni e poi Manuele presero la decisione di lanciare una richiesta di soccorso all'Occidente, ai loro concittadini non poteva passare inosservata la circostanza che stessero chiedendo aiuto «ai discendenti di quegli uomini che due secoli prima avevano saccheggiato Costantinopoli, il cui orientamento religioso era ritenuto eretico dalla gran parte dei bizantini». Anche all'epoca dell'assedio di Bayazid, la diffidenza e il rancore degli abitanti della città nei confronti dei latini era maggiore di quella che avevano per i turchi. E sono rimaste testimonianze di innumerevoli loro vessazioni all'indirizzo degli europei (mentre i turchi rimasti in città venivano lasciati in pace).
Ad esempio c'è una lettera di Enrico IV d'Inghilterra a Manuele II (che tra il 1400 e il 1401 era stato suo ospite), nella quale il sovrano inglese lamenta di aver ricevuto «inquietanti resoconti su maltrattamenti subiti da cristiani latini a Costantinopoli a opera dei sudditi dell'imperatore». Il grande entusiasmo che una piccola cerchia di intellettuali e cortigiani provava per tutto ciò che veniva da Occidente, scrive Harris, non era condiviso da gran parte della popolazione e di sicuro nemmeno dai monaci del monte Athos, a cominciare da Gregorio Palamas (1296-1359), futuro arcivescovo di Tessalonica.
Qualunque cosa il basileus (sovrano) proponesse in merito a un aiuto contro gli ottomani da chiedere all'Europa dell'epoca era accolto perciò con sospetto e grande freddezza. Ma l'imperatore Manuele non si dava per vinto. Inviò una grande quantità di ambasciatori presso le corti occidentali, primo tra tutti l'assai stimato Manuele Crisolora, che era stato docente all'università di Firenze. Tra il 1404 e il 1415 Crisolora «vagò indefesso per tutta Europa, trattenendosi in Italia, Francia, Inghilterra, Spagna e Germania ond'esortare i loro regnanti a inviare aiuti a Costantinopoli». Altri ambasciatori furono mandati anche in Ungheria, Polonia e Lituania. Ma tutti senza successo. Manuele II stipulò allora importanti alleanze matrimoniali, imparentandosi con il marchese del Monferrato e con il conte di Rimini. A un tempo però scelse di aiutare Ohran, figlio di Suleyman, contro il sultano Musa, suo grande nemico.
La contesa fu aspra e Ohran finì strangolato. Allora Manuele diede una mano a Mehmed, fratello di Musa, e questi vinse la partita riuscendo a riunificare l'impero ottomano fino a quel momento diviso. Il che, come era facile immaginare, non fu un bene per il mondo bizantino. Quando l'impero musulmano riunificato finì nelle mani di Murad II, per Bisanzio fu l'inizio della fine. Nel giugno del 1422 l'esercito del sultano cinse nuovamente d'assedio la capitale di Manuele II. I combattimenti durarono tutta l'estate, il 24 agosto i turchi attaccarono le mura teodosiane, che resistettero, cosicché il 6 settembre Murad fu costretto a sospendere l'assedio. Per poco. Qualche tempo dopo a Costantinopoli divenne imperatore Giovanni VIII Paleologo (l'unico di cui sia sopravvissuto un ritratto, realizzato da Pisanello) che si trovò a dover affrontare nuovamente i turchi. Nel 1423 Giovanni VIII intraprese un viaggio a Venezia, Verona, Pavia, Milano e poi in Ungheria alla ricerca di nuovi aiuti. Ma non ne ebbe, se non a parole. E nella primavera del 1430 Murad era all'attacco di Tessalonica. La cui caduta riaccese la discussione sul modo di rapportarsi all'Occidente.
I bizantini ritenevano che fosse urgente venire a patti con il sultano, dal momento che i turchi si erano definitivamente ripresi dal tracollo del 1402. Solo Giovanni VIII invece insisteva nel cercare aiuto in Europa. Anche a costo di chiudere lo scisma tra Chiesa ortodossa e Chiesa cattolica, così da poter chiedere al Papa la benedizione a una vera e propria crociata contro i musulmani. Fu questo il segno del Concilio che si tenne prima a Ferrara (1438) poi a Firenze (1439), al quale partecipò l'imperatore in persona (nonostante fosse afflitto da un grave attacco di gotta che una volta lo costrinse ad entrare a cavallo fin dentro la sala da pranzo dell'abitazione di un gentiluomo di Peretola che lo aveva invitato a colazione). Il 6 luglio 1439 fu sancita la riunificazione delle due Chiese e così Giovanni VIII rientrò trionfante a Costantinopoli. Ma gli effetti del Concilio di Firenze furono nulli e a Bisanzio prese piede un clero antiunionista che ripudiava il compromesso con il Papa.
Presto il nuovo sultano, Mehmed, mosse all'attacco del nuovo imperatore Costantino XI. Il papa, Niccolò V, non si dimostrò ben disposto come l'imperatore aveva sperato, con ciò dimostrando che il Concilio di Firenze non era servito a nulla: a Costantinopoli fu il trionfo dei contrari all'unione con la Chiesa cattolica (tant'è che a Roma il patriarca unionista, Gregorio III Melisseno, era costretto a vivere praticamente come un rifugiato). Mehmed, una volta che ebbe preso la decisione di sferrare l'attacco definitivo a Costantinopoli, fu lesto ad ammantare la campagna nei panni di un jihad contro gli infedeli, «benché soltanto pochi mesi prima avesse strapazzato a cuor leggero i confratelli musulmani, i turchi karamanidi». Era intollerabile, dichiarò, che Costantinopoli, «circondata com'era dalle terre dell'Islam, dovesse sopravvivere sotto il dominio di un re cristiano». E sferrò l'attacco.
Un grande turco, il principe Orhan, restò dalla parte dei bizantini e, nel momento della disfatta, si gettò dalle mura marittime sfracellandosi sulle rocce sottostanti. Furono uccise due personalità latine di altissimo rango, il bailo veneziano Girolamo Minotto e il console catalano Pedro Juliano. Si salvò l'uomo più ricco di Costantinopoli, il megaduca Luca Notara, a cui il sultano rese omaggio andandolo a trovare a casa, dove assisteva alla moglie malata. Ma trascorse qualche ora e anche Notara fu messo a morte (qui Harris dà scarso credito al racconto per cui questo cambio di umore di Mehmed fu causato dalla decisione del nobile di rifiutargli il figlio quattordicenne che il sultano avrebbe voluto possedere carnalmente lo stesso giorno della sua visita). Nelle isole le cose furono più semplici: a Imbro, il governatore bizantino, Michele Cristobulo, accettò di consegnare Lemno, Taso e Imbro stessa al sultano, a patto che gli abitanti non ricevessero molestie. E così fu.
In seguito gli esuli bizantini si sparpagliarono in tutta Europa. Un buon numero di rifugiati raggiunse il porto di Ragusa, sulle coste della Croazia. Da lì si trasferirono a Milano, in Francia, Germania, Inghilterra, Scozia, Spagna. Alcuni discendenti dell'ultimo Costantino si fecero musulmani. Il duca di Borgogna Filippo il Buono annunciò una crociata alla riconquista di Costantinopoli. Lo stesso fece Alfonso di Aragona. L'imperatore Federico III convocò a Francoforte una dieta di prìncipi in cui venne proposto di inviare in Ungheria un contingente di 40 mila uomini, per iniziare di lì una controffensiva antimusulmana. Nel luglio del 1456 gli ungheresi riuscirono a infliggere una sconfitta all'esercito del sultano. Ma le forze combinate di Ungheria, Borgogna e Aragona non approfittarono del momento e rinunciarono ad andare oltre. Nell'ottobre 1463, dopo varie analoghe iniziative pontificie, Pio II emanò la bolla Ezechielis prophetae, con la quale dichiarava formalmente guerra ai musulmani, e radunò una flotta nel porto di Ancona. Ma nell'agosto dell'anno successivo il Papa spirò prima che quelle navi prendessero il largo. Fu l'ultima volta che in Europa ci si propose di andare alla riconquista della capitale bizantina. Da quel momento, la casa romana del prestigioso umanista cardinal Bessarione divenne rifugio e punto di ritrovo per gli esuli bizantini fino alla sua morte, avvenuta nel 1472.
Messi di fronte alla schiacciante superiorità militare dei turchi ottomani, scrive Harris, «ben pochi bizantini avevano optato per il sentiero dell'eroica resistenza che la cronaca dello pseudo Sfranze attribuisce a Costantino XI». Essi scelsero piuttosto di «conservare le loro sostanze» laddove era possibile e, quando giunse la fine, si adattarono al nuovo regime. Conclude l'autore che quegli ultimi bizantini «ebbero semplicemente la sventura di vivere in un'epoca in cui la ricchezza e la forza della loro società erano quasi completamente erose, lasciandoli nell'impossibilità di affrontare gli ottomani sul piano militare». E, li giustifica, «non dovrebbe giudicarli con eccessiva severità chi non abbia mai vissuto analoghi frangenti». Probabilmente Harris ha ragione: sarebbe sbagliato per la fine di Bisanzio attribuire colpe a collaboratori e sudditi di Costantino XI. Tra l'altro, quando si fa storia forse non è mai il caso di dare giudizi retrospettivi. Ma sui comportamenti di quella che un giorno si sarebbe chiamata Europa e sulle conseguenze che ebbero nel mondo musulmano probabilmente sarebbe giusto approfondire la riflessione.

Corriere 5.2.13
Il fascino di un sogno fallito, la storia di Che Guevara
risponde Sergio Romano


A proposito della composizione dei movimenti armati, lei ha scritto che vi era una galassia anticapitalista in cui erano finiti, alla rinfusa, trotzkisti, stalinisti, ammiratori di Mao Zedong e della rivoluzione culturale cinese, di Fidel Castro e della rivoluzione cubana, di Che Guevara e del suo tentativo di dare fuoco all'America Latina. In particolar modo l'ultima frase mi incuriosisce. Non conoscendo la storia di Che Guevara se non per sentito dire, chiederei un breve ritratto di questo personaggio e un suo giudizio storico. Mi sembra che la frase «il tentativo di dar fuoco all'America Latina» celi un giudizio poco in linea con l'iconografia associata a questo personaggio.
Federico Casadio

Caro Casadio,
In uno dei migliori libri su Che Guevara (I ragazzi del Che, storia di una rivoluzione mancata, Corbaccio 2007), Ludovico Incisa di Camerana ricorda che Ernesto Guevara de la Serna nacque in una famiglia dell'aristocrazia argentina. Nel ramo paterno vi erano un viceré del Messico e alcuni grandi di Spagna, in quello materno un grande proprietario terriero e un deputato-ambasciatore. Sembra che la madre fosse stata posseduta da una travolgente vocazione religiosa, avesse indossato il cilicio, cosparso schegge di vetro nelle sue scarpe e si accingesse a prendere i voti, quando decise improvvisamente, contro la volontà della famiglia, di andare a nozze con il padre del Che, giovane impulsivo e violento, noto a Buenos Aires per avere schiaffeggiato un futuro grande scrittore (Jorge Luis Borges) quando erano entrambi allievi del Collegio nazionale. Alla fine degli anni Trenta (il Che era nato nel 1928) la famiglia ostentava posizioni liberali, manifestava simpatia per la Repubblica spagnola e sarebbe stata di lì a poco, quando Juan Perón avrà conquistato il potere, fieramente anti-peronista.
Cresciuto in questo ambiente familiare e laureato in medicina all'università di Buenos Aires, il giovane Che cominciò una sua solitaria formazione rivoluzionaria percorrendo in motocicletta dodici province dell'Argentina, imbarcandosi come infermiere su alcune navi mercantili, visitando il Perù, la Colombia, il Venezuela, la Bolivia, il Guatemala, il Messico. L'incontro con i Castro (prima Raul, poi Fidel) avvenne per l'appunto in Messico fra il 1954 e il 1955. Da quel momento il Che è membro del piccolo gruppo che prepara la rivoluzione cubana e tenta la conquista dell'isola nel novembre 1956. Partecipa alle operazioni militari nella Sierra, s'impone per le sue qualità strategiche e una certa brutalità disciplinare. Appartiene di diritto al vertice della rivoluzione dopo la conquista del potere e assume da allora molti incarichi pubblici per la costruzione e l'organizzazione dello Stato rivoluzionario. Nella percezione generale è ormai sullo stesso piano di Fidel, forse destinato a succedergli, certo più noto nel mondo per il suo desiderio di trasformare Cuba in una grande piattaforma rivoluzionaria. Ma i rapporti fra i due amici si raffreddano e il Che è agitato da nuovi sogni rivoluzionari. È marxista e dovrebbe essere consapevole dell'importanza del mondo operaio nella trasformazione comunista della società, ma è romanticamente convinto che la rivoluzione possa nascere in un ambiente contadino e propagarsi nelle aree più povere del mondo. È questa la ragione per cui nel novembre del 1966 decide di iniziare in Bolivia una nuova avventura.
Quando fu catturato e ucciso il 9 ottobre 1967, l'impresa era già fallita. Ma questo non impedì che la vittima di una analisi errata e di un sogno impossibile divenisse paradossalmente un modello per i giovani della generazione del 1968. Per un rivoluzionario razionale il Che dovrebbe essere tutto fuorché un modello.

Repubblica 5.2.13
Italia, difenditi come fa la Francia
L’appello per la lettura e le biblioteche
di Jacques Le Goff


I libri sono strumenti essenziali e insostituibili di crescita culturale e civile. Per questa ragione occorre moltiplicare le occasioni di incontrarli e in particolare i luoghi — come le biblioteche e le librerie — in cui sono disponibili a tutti. Occorre rivolgersi soprattutto alle giovani generazioni: tutte le biblioteche sono importanti — quelle specialistiche come quelle rivolte al pubblico generale — ma in particolare vanno potenziate le biblioteche scolastiche e quelle universitarie. Se le biblioteche svolgono compiutamente la loro funzione — specie a livello locale — realizzano la formazione della cittadinanza, che e’ una delle missioni più importanti dei libri. In Francia abbiamo una istituzione centrale per la promozione del libro, il Centre National du livre, dotata di un fondo cospicuo (42 milioni di euro, ndr) e molto attivo in diversi campi. Tra le sue attività c’è il sostegno delle librerie di qualità nel programma Lir, voluto e diretto da Antoine Gallimard. Il programma prevede tra le altre cose la concessione di un marchio alle librerie indipendenti che si sono contraddistinte per la qualità del loro lavoro sul territorio. In base a quel marchio le librerie ricevono significative agevolazioni fiscali e contestualmente si impegnano a tenere il catalogo e garantire un buon assortimento di autori (anche meno noti) e di editori (anche più piccoli). La pluralità delle librerie è un fattore essenziale per garantire la libertà del pensiero, che è a sua volta un ingrediente non sostituibile della democrazia. Dal 1988 gli editori francesi, insieme al Centro Nazionale del libro, finanziano le librerie piccole e indipendenti attraverso l’Adelc, ovvero l’associazione che difende le librerie “creative”, voluta molti anni fa da un piccolo e illustre editore come Jerome Lindon delle Éditions de Minuit, per compensare la crescita della catena Fnac. Negli anni l’Adelc ha aiutato più di 400 librerie indipendenti francesi a rinnovarsi, aprire sedi nuove, garantire la presenza dei libri anche in zone periferiche delle grandi città o in centri minori, cioè dove non esiste una immediata convenienza di mercato.
La creatività e la pluralità delle idee sono gli obiettivi centrali della legge Lang, che da trent’anni regola il mondo del libro francese. Obiettivi legati alla capacità dell’intero sistema editoriale di selezionare e promuovere i libri. Da questo punto di vista, vorrei anche sottolineare l’importanza della traduzione. Solo se le nazioni europee remunereranno equamente i loro traduttori e ne garantiranno il lavoro di qualità potran-
no conservare il patrimonio storico e tramandarlo alle future generazioni. Un obiettivo tanto più importante nell’epoca in cui globalizzazione vuol dire spesso omologazione. L’eredità storica dell’Europa è plurale, un’eredità fatta di molte diversità, che non si possono dimenticare quando si auspica una sempre maggiore integrazione. Quando lanciai la collana “Fare l’Europa” insieme a cinque editori europei questa diversità pensammo fosse un valore positivo, da mettere in rilievo. Una diversità che i libri hanno sempre rappresentato in maniera ricca e formativa. Anche nel Medioevo, quando nei monasteri e nelle corti come nelle città il lavoro collettivo sui testi si combinava con la creatività individuale. Senza dimenticare il ruolo essenziale delle università, grazie alle quali una classe di colti europei ha trasmesso nei vari paesi del nostro continente una cultura comune. Ancora oggi la qualità di una classe dirigente è misurabile nel suo rapporto con i libri. Ma occorre assicurare che questi abbiano una larga circolazione anche presso la classe media e non siano riservati solo a una élite. In questo anche gli intellettuali hanno una grande responsabilità: non devono chiudersi in circoli di iniziati al sapere, ma condividere le loro conoscenze, innanzitutto attraverso un modo di scrivere chiaro e comprensibile a tutti. Una chiarezza che peraltro occorre insegnare dalla scuola, l’istituzione che resta ancor oggi la più importante nel definire il livello di civiltà di un paese. Per questi motivi, forse troppo sinteticamente delineati, considero fondamentale la battaglia per promuovere la lettura e la diffusione dei libri e spero che le donne e gli uomini che saranno eletti al nuovo Parlamento italiano prenderanno molto sul serio le proposte dell’Associazione Forum del libro.

Repubblica 5.2.13
Cosa possiamo imparare da questa crisi
Pubblicate le “Lezioni” firmate da Giuliano Amato e Fabrizio Forquet
di Giancarlo Bosetti


Quali lezioni ricavare dalle crisi? John Maynard Keynes aveva le idee chiare sul capitalismo e sui mercati finanziari: avevano difetti gravi cui bisognava porre rimedio per evitare che si ripetesse la catastrofe del ’29. Ne seguì la madre di tutte le lezioni economiche, e cioè la dottrina e la terapia keynesiane che s’incarnarono nel New Deal di FD Roosevelt: sostegno pubblico per i poveri e i disoccupati, rilancio dell’economia e, attenzione, regole dure per la finanza. Quel presidente americano, con quattro mandati, lasciò un’impronta di lunga durata. Di quell’impronta faceva parte il Glass-Steagall Act, una legge che imponeva la separazione tra le banche d’investimento e quelle commerciali. Con la cancellazione di quella norma, nel ’99, le holding bancarie hanno potuto speculare con i soldi dei risparmiatori ed è partita una spirale che ha allontanato sempre più la finanza dall’economia reale.
Parte da qui il libro che Giuliano Amato, un ex primo ministro, più volte al Tesoro e appassionato conoscitore d’istituzioni europee e internazionali, ha scritto a quattro mani con il giornalista economico Fabrizio Forquet, sulle conseguenze del crash del 2008. Queste loro Lezioni dalla crisi (Laterza) hanno il dono raro della concisione e spiegano nel modo più semplice e accattivante il maleficio per cui, abbandonati gli scrupoli regolatori, i vertici delle banche d’affari si siano trasformati in tanti Pinocchi che seminano zecchini d’oro. Alla vigilia del collasso nel 2007, il 40 per cento dei profitti fatti negli Stati Uniti non proveniva da produzione di beni e servizi, ma da attività finanziarie, e il valore giornaliero degli scambi finanziari superava di 60 volte il valore annuale del commercio mondiale. Poteva continuare? No, perché il demone pinocchiesco per cui i soldi non servono a finanziare attività d’impresa, ma a fare altri soldi attraverso la moltiplicazione delle transazioni, è un essere che si scava da solo la fossa e ci finisce poi dentro insieme a tutte le sue vittime. Il quadro della crisi è scandito nel libro con una chiarezza esemplare: gli americani importavano spendendo montagne di dollari che ritornano indefinitamente come prestiti sempre più grandi, dalla Cina o dal Giappone; e le banche simulavano una crescita fittizia impacchettando titoli finanziari nei quali il fattore di rischio “evaporava”, come se non esistesse più.
Il fallimento inevitabile di questo schema mostruoso ha dunque alla radice delle responsabilità, dal lato dello Stato, i cui controllori hanno chiuso gli occhi, come da quello del mercato, che ha avvelenato i pozzi. Ma queste lezioni sono anche esame realistico delle possibilità attuali per l’economia mondiale di uscirne senza pagare lo stesso prezzo del ’29. Il male da scongiurare è il credit crunch, la stretta creditizia, che toglie ossigeno a imprese e famiglie: le banche congelano quasi ogni iniziativa per proteggersi da ulteriori rischi con effetti di sistema che sono recessivi, la recessione aggrava il debito e produce altri debiti. D’altra parte ci sono situazioni critiche in cui lo Stato deve intervenire per proteggere i conti correnti, immettendo denaro nelle banche, come hanno fatto sia Bush sia Obama, attraverso prestiti o, nei casi limite, nazionalizzandole, come il governo inglese ha fatto con la Northern Rock.
L’Europa ha agganciato la crisi con le debolezze dell’euro, creatura incompiuta sotto il profilo del soggetto sovrano che lo garantisce. Lo shock greco dell’insolvibilità di uno Stato dell’eurozona è stato seguito da quello che Amato giudica un errore grave ad opera di Merkel e Sarkozy al vertice di Deauville nel 2010: quello di coinvolgere il settore privato nella ristrutturazione del debito di Atene, il che significava che da allora si poteva perdere investendo su uno Stato dell’euro. Da qui le oscillazioni degli spread sempre più minacciose. La ricostruzione degli eventi che hanno portato a una prima svolta europea, con le mosse di Draghi a Francoforte e di Monti a Palazzo Chigi, sono da ripercorrere, nella sobria ricostruzione, ad uso di coloro che vorrebbero dimenticare la cruda obiettività dei fattori che hanno imposto la fine di un governo e la nascita di uno nuovo: gli ultimi mesi di Berlusconi a Palazzo Chigi con una serie di manovre finanziarie che prevedevano un “rigore postdatato”, affidato agli anni a venire, con misure vaghe e rinviate alla responsabilità di futuri imprecisati governi.
Ed ora davanti all’Europa il compito di passare a una fase nuova, quella in cui i debiti si dovrebbero pagare con una maggiore crescita, risultato che andrà conseguito sia dal lato della domanda che da quello dell’offerta, con investimenti, euro o projectbond da una parte, e con misure strutturali dall’altra. Certo nessuno dovrà più dimenticare che il buon governo si distinguerà per la capacità di distogliere le risorse finanziarie dalla ricerca di altra finanza per destinarle invece alle attività economiche reali, magari con una dissuasiva tassa sulle transazioni, non tanto per fare cassa a beneficio dello Stato quanto per scoraggiare chi fa centinaia o migliaia di scambi al giorno. «Il dentifricio non può rientrare nel tubetto — chiosa filosoficamente Amato — ma la finanza può essere ricondotta all’economia».

Repubblica 5.2.13
Il fenomeno è in crescita. Un giovane su tre scappa di casa almeno una volta
Ragazzi in fuga
di Maria Novella de Luca


Scappano per poche ore, per un giorno, per due, raramente più a lungo, ma quanto basta perché quello spazio vuoto di cellulari muti, di Facebook senza messaggi, di amici che nulla sanno o nulla dicono, faccia impazzire genitori, fratelli, parenti, vicini. Adolescenti runaways, che fuggono da casa, si allontanano, si rendono invisibili, ma poi per fortuna tornano o vengono ritrovati. L’età più critica sono i quindici, sedici anni, quando tutto sembra stretto, regole, famiglia, scuola, l’età dei conflitti e degli estremi. «Litigate troppo, e me ne vado», scrive Tatiana alla madre con un sms, prima di scomparire per un intero, spaventoso venerdì, nessun contatto fino a che una pattuglia non la rintraccia, infreddolita, impaurita e sola sulla panchina di un parco.

Crescono i numeri delle micro-scomparse dei teenager, un ragazzino su tre, dice un sondaggio Eurispes-Telefono Azzurro, ha messo in atto per propria ammissione l’arte della fuga, la maggior parte, oltre il 70 per cento, torna a casa volontariamente, altri vengono ritrovati da familiari, polizia, compagni di scuola, un numero esiguo finisce invece, purtroppo, tra le file dei minori missing, quelli che non si trovano più.
«Non vi sopporto più, voi e le vostre regole, mi soffocate», spiega ai genitori in lacrime Marco, 17 anni, dopo un giorno e una notte da fuggitivo, da Savona a Genova, da Genova a Milano, su e giù sui treni, fino a che finalmente riaccende il cellulare e la sua fidanzata coetanea ma non complice lo convince a tornare a casa. Sono frammenti di cronache e racconti raccolti dalle forze dell’ordine, dai volontari delle linee di soccorso per adolescenti, quando gli adolescenti finalmente spiegano perché se ne sono andati. E ciò che emerge, al di là delle apparenze di un mondo dove il conflitto tra generazioni sembra scomparso, e le case sono aperte, e la sessualità ammessa, è che la radice invece è tutta lì, nel rapporto tra genitori, figli e regole. Lo conferma, ad esempio, il 26,7 per cento dei ragazzi intervistati dall’Eurispes, e il 9,1 dice apertamente di sentirsi «limitato» nella propria libertà. Ma per Massimo Ammaniti, psicoanalista e grande esperto di infanzia e adolescenza, queste brevi sparizioni non sono vere e proprie fughe, ma «allontanamenti provocatori », un modo per conquistare in famiglia, «attraverso questo feroce ricatto affettivo», più spazi, più concessioni, più Internet, più tecnologia, più libertà. Più attenzione, anche. «Nella mia esperienza terapeutica di questi allontanamenti ne ho visti molti. E sono qualcosa di diverso dalla fuga vera e propria, con la quale un giovane taglia davvero i ponti con la famiglia perché vuole provare un tipo di vita diversa. Accadeva molto di più in passato, quando per i giovani esistevano forti limitazioni nella libertà, nel poter vivere la sessualità. Ricordo le fughe in India, chi andava a vivere nelle comuni. Ma quei fuggitivi non si voltavano indietro....».
Sperimentare un altrove, praterie diverse, con tutti i rischi e le delusioni connesse. Storie di ieri soprattutto. Mentre oggi, alle micro-fughe si sovrappone un altro tipo di scomparsa. Poco fisica, molto mentale. «Penso al ragazzino o alla ragazzina che per protesta, perché i genitori chiedono di rispettare regole nello studio, nella presenza in casa, tentano di limitare (o controllare) le ore di Facebook, si chiude nella sua stanza e non esce più. Niente pasti insieme, niente contatti, niente. Per i genitori può diventare insopportabile ». «Volevamo stare da soli, i nostri genitori ci impediscono di frequentarci, non capiscono che non facciamo nulla di male », ammettono Paolo e Samanta, 17 anni lui, 14 lei, che scappano da Giugliano, provincia di Napoli, e vengono ritrovati tre giorni dopo a Roma, alla Stazione Termini, da un agente della Polfer incuriosito da quei due giovanissimi che dormivano abbracciati sulla banchina del binario “riservato” ai senzatetto.
Chiara Giacomantonio è vicequestore aggiunto al Servizio centrale operativo, e si occupa in particolare di minori scomparsi. «Per fortuna il numero dei bambini e adolescenti di cui davvero si perdono le tracce in Italia è molto basso, e i nomi, alcuni, li conosciamo tutti: Angela Celentano, Denise Pipitone...». A questi si aggiungono i ragazzi che fuggono dai centri di accoglienza, dalle case famiglie e i bambini sottratti da uno o dall’altro genitore. Tutto il resto, oltre il 70 per cento, sono allontanamenti volontari, che quasi sempre si risolvono positivamente in circa 48 ore. L’età media – descrive Giacomantonio – è di 15, 16 anni per le ragazze, e più bassa per i maschi, anche 13 anni. Li ritroviamo nelle stazioni dei treni, nei parcheggi degli autobus, che vagano per le città...». Microfughe dettate perlopiù, conferma Chiara Giacomantonio, da dinamiche familiari: madri e padri che litigano, conflitti con i nuovi compagni di uno o dell’altro genitore, imposizione di regole, paura per un cattivo rendimento scolastico, bullismo.
«Gran parte dei teenager che scappano, che non tornano a casa dopo la scuola, dopo la palestra, vogliono in realtà farsi ritrovare. Lasciano tracce, e soprattutto non sopportano la solitudine: dopo tre o quattro giorni crollano e spesso ci contattano volontariamente. Ma ci vuole molta delicatezza, sia nel parlare con loro, sia con i loro genitori ». Durante le indagini infatti, non appena scatta la segnalazione di scomparsa, «noi cerchiamo di capire con gli adulti cosa può essere successo, se c’è stata una lite, se la fuga era in qualche modo annunciata, chi frequentava il ragazzo, ma spesso, per pudore o per rimozione, la famiglia fatica ad ammettere che il problema nasce da lì, in casa », conclude Chiara Giacomantonio. Aggiunge Claudio De Angelis, procuratore capo della Repubblica presso il tribunale dei minorenni di Roma: «Queste fughe volontarie dalle famiglie sono qualcosa di molto diverso dalle scomparse vere e proprie, i cui numeri sono purtroppo in aumento. Ma costituiscono per noi un segnale di un malessere all’interno di quel nucleo familiare, che noi possiamo supportare, ad esempio, con l’intervento dei servizi sociali».
Dal suo osservatorio sull’infanzia e l’adolescenza Gustavo Pietropolli Charmet, psichiatra e psicoanalista, invita però alla cautela. «Spesso nei sondaggi i ragazzi dichiarano di aver fatto qualcosa che hanno soltanto pensato e immaginato di fare. A me sembra che tra gli adolescenti la voglia di fuga non sia così concreta e reale, quanto più psicologica e virtuale. I giovanissimi fuggono chiudendosi in camera loro, isolandosi in una dimensione virtuale e immateriale. Le fughe di ribellione, di affermazione della propria personalità ci sono, ma non mi sembrano in maggioranza, appartengono a un tempo in cui nelle famiglie le regole non erano trattabili come oggi... A me ciò che spaventa è la fuga dentro se stessi, l’autoisolamento, l’esercito crescente anche in Italia dei ragazzi autoreclusi in un mondo a parte».
E che la Rete sia un ingannevole pifferaio magico di chissà quali occasioni e avventure è noto da tempo. Ma sempre di più le amicizie virtuali, e dunque del tutto incontrollabili, spingono poi a fughe reali, magari per la semplice voglia di incontrarsi, lei o lui conosciuto online, sperando che il profilo sia vero... Con conseguenze che possono essere del tutto innocenti (tranne l’angoscia dei genitori), o gravissime, la rete dei pedofili è vasta, ramificata, inafferrabile. Vincenzo Spadafora da meno di un anno è il Garante dell’infanzia, authority istituita dopo lunghi rinvii e soltanto da poco dotata di qualche mezzo per operare. «In questi mesi ho girato l’Italia proprio per ascoltare i ragazzi, dai grandi comuni ai piccoli paesi, e mi sono reso conto che a partire dai dodici anni, cioè dalle scuole medie, per loro sul territorio non c’è nulla: niente spazi, poco sport, nessuna attività culturale, la crisi ha tolto risorse al volontariato e a quelle istituzioni che dei giovani si occupavano. I ragazzi sono soli in casa con la compagnia di Internet e pochissimo dialogo in famiglia. Capisco che la voglia di fuga, magari soltanto per accendere i riflettori su di sé, e dire “io ci sono” può diventare forte e urgente. Un gesto, una provocazione».
Così si chiude la porta della stanza, con lo zainetto della scuola e si diventa runaways, ragazzi di strada. Spesso, per fortuna, soltanto per poche ore.

Repubblica 5.2.13
I ragazzi in fuga per bisogno d’amore
Quello strappo inatteso è una richiesta di aiuto
di Mariapia Veladiano


CI VUOLE tanta disperazione e insieme tanta forza per scappare. Andare via, forse lontano senza sapere dove, per un tempo che non conosciamo, portando il vuoto di uno strappo creato da noi, sì, ma non lo si può conoscere prima, e allora quando ci si trova dentro arriva la paura, perché i desideri sono confusi, potenti ma confusi, e non solo quando si è giovani, e non è mai così limpido il voler partire. Spesso è un atto d’impulso. Se bisogna salvarci dalla violenza si guarda poco indietro, è più facile andare, ma a volte capita di scappare da quello che sembra malamore, e magari è solo amore mal compreso e male espresso. Confusamente lo sappiamo. E arriva il peso per un dolore che non si è più così sicuri di aver voluto dare. A dei genitori che fanno quel che possono, anche loro. Allora la fuga può rallentare e invertire il passo. E poi c’è la solitudine. La fuga recide per la prima volta la connessione in cui oggi tutti i ragazzi abitano naturalmente.
Allora la fuga può rallentare e invertire il passo. E poi c’è la solitudine. La fuga recide per la prima volta la connessione in cui oggi tutti i ragazzi abitano naturalmente. È faticoso stare davvero soli.
Il trenta per cento è proprio tanto. I risultati dell’Indagine conoscitiva sulla condizione dell'infanzia e dell'adolescenza in Italia, curata da Eurispes e Telefono Azzurro, ci dicono che un giovanissimo su tre nel 2012 ha provato l’esperienza della fuga da casa. Tra la fuga senza parole, che spalanca la voragine del tutto possibile nella immaginazione dei genitori, e il «me ne vado» sbattendo la porta, ci sono i molti gradi di un disagio che non sa trovare la strada del dire e deve agire. La maggior parte di queste fughe è breve. Poi questi ragazzi tornano, da soli o accompagnati dall’amico che ha saputo dove cercarli. Grazie al cielo è così, perché i giovanissimi che si allontanano volontariamente da casa rappresentano quasi il 25 per cento dei ragazzi poi scomparsi. Vuol dire che il pericolo là fuori esiste davvero, che non si può proprio sottovalutare questo voler scappare, anche quando dura poco. E il numero di ragazzi in fuga è triplicato rispetto al 2011. Possibile? La maggior parte di loro dice di scappare perché non va d’accordo con i genitori, altri perché si sentono incompresi, o perché vengono limitati nella libertà che vorrebbero, pochi questi. Ma ogni storia è unica e a minimizzare si rischia di non riconoscere quel che di nuovo deve per forza esserci, se così tanti si raccontano in fuga. Raccontano un desiderio certamente, ma quale? Non è più solo o soprattutto la ricerca di una maggiore libertà. Scontri con i genitori sul piano delle ideologie, come sicuramente è accaduto in altri tempi, proprio non sembra. Vorrebbe dire che si crede che vale la pena, che ci sono tesi da sostenere. Ma non si scappa per eccesso di dialogo.
Scappare è un violento, inatteso farsi presente nella forma dell’assenza. Ci si può chiedere cosa sia l’assenza oggi. La vera assenza. Il non dar notizie di sé. Forse questi giovanissimi lo sanno che l’assenza è una forma potentissima di presenza, per dei genitori abituati ad averli sempre a portata di sms. Forma di presenza tremenda certo, e intollerabile. Anche per poche, pochissime ore, per un’ora, perché si precipita nell’apocalisse di un silenzio che mette in scacco completo la razionalità. Tutto è improvvisamente possibile. La rete rassicurante che la connessione garantiva non c’è più. Resta la rete della memoria, recuperare frasi e frammenti e sguardi appena intercettati, espressioni lasciate a metà, per riuscire a capire dove mai potrà essere questo figlio scomparso. E può capitare di scoprire che l’età distratta non è più oggi l’adolescenza tiranneggiata felicemente dai mille desideri, ma è il nostro essere adulti in corsa, forse proprio in fuga. Noi in fuga dall’ascoltare davvero i figli, le persone che sono. Piene di mille sé adolescenti che chiedono di essere riconosciuti. In fuga noi dal credere che per loro c’è un futuro migliore di quello che non abbiamo proprio saputo preparare.
Forse questo piccolo esercito di figli in fuga allora ci dice qualcosa di molto semplice: Noi ci siamo, noi ci siamo. E voi, ci siete?