mercoledì 6 febbraio 2013

l’Unità 6.2.13
Bersani: fermiamo la destra, dopo il voto disposti a collaborare con Monti
Il leader Pd risponde a Monti: siamo pronti a collaborare ma non a tutti i costi
Da Berlino il segretario Pd ribadisce l’obiettivo dell’alleanza tra progressiti e moderati: «Sì a chi è contro il berlusconismo, ma non a tutti i prezzi»
Sel protesta: non andremo con l’attuale premier
Il leader Pd propone una riunione congiunta dei Parlamenti italiano e tedesco sull’Europa
di Simone Collini


«Collaboriamo con chi si batte contro le destre e i populismi che sono il vero rischio». Bersani da Berlino risponde alle aperture di Monti sul dopo-voto: pronti a collaborare ma non a ogni costo. Il premier sostiene: noi alleati di chi vuole le riforme strutturali. La destra parla di inciucio, Sel si allarma. Ma il leader Pd spiega: non ho detto nulla di nuovo. Hollande a Strasburgo: servono istituzioni europee più forti.

Prima di salire sull’aereo che lo deve riportare a Roma, ci tiene a precisare che non ha aggiunto «uno iota» a quel che va ripetendo da mesi, che è stupito per la discussione che si è aperta in patria. In Italia già si parla infatti di «patto di Berlino», con il centrodestra che attacca «l’intesa pro-Germania» e Sel che minaccia di «rompere col Pd». Cos’è successo? È successo che Pier Luigi Bersani, in visita nella capitale tedesca per incontrare il ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble, spiega ai giornalisti che ha di fronte che è «prontissimo» a una collaborazione con Mario Monti dopo il voto. Un’uscita che segue di un paio d’ore una dichiarazione rilasciata dal premier, e cioè che «di alleanze si parla dopo il voto» perché «ognuno deve presentare i contenuti del suo programma di governo».
Le parole di Monti rimbalzano a Berlino, il leader del Pd non si scompone e commenta: «Monti è arrivato da solo. Era il professor Monti. Non aveva una forza politica, né una maggioranza parlamentare. Gliele abbiamo date noi. Noi abbiamo voluto Monti, noi abbiamo affrontato il popolo che ha visto la riforma del lavoro e delle pensioni. Ci riteniamo protagonisti nel bene e nel male di questo anno e mezzo. Lui ha costruito una sua forza politica e ora è nella competizione. Ci sono quindi le schermaglie elettorali, ma io sono prontissimo a una collaborazione con tutte le forze che siano contrarie al leghismo, al berlusconismo, al populismo. Con tutte queste forze e quindi certamente anche con il professor Monti». Chiude il cerchio un’altra dichiarazione di Monti, che fa sapere di apprezzare l’apertura di Bersani e di essere «disponibile ad un’alleanza con coloro che saranno seriamente impegnati nelle riforme strutturali». E le polveri prendono fuoco, non solo perché Pdl e Lega iniziano a parlare di «inciucio», ma anche perché Sel, con il braccio destro di Nichi Vendola, Nicola Fratoianni, fa sapere: «Se Bersani vuole l’alleanza con Monti, vada con Monti. Noi non voteremo mai quell’alleanza, a costo di rompere con il Pd».
Bersani, in questo viaggio in Germania, parla prima al German council on foreign relations e poi durante l’incontro con il ministro delle Finanze di Angela Merkel soprattutto di come fronteggiare la crisi attraverso una maggiore integrazione europea, dell’opportunità di eleggere alle prossime elezioni europee anche il presidente della Commissione Ue, di quel che possono fare Roma e Berlino per dare all’Unione quell’unità economica che a tutt’oggi manca: «Vedrei volentieri se, ad esempio, il Parlamento italiano e quello tedesco convocassero un’assise congiunta sul futuro dell’Europa, aprissero una discussione politica».
Ma è chiaro che la tappa berlinese serve al leader Pd anche per rassicurare gli interlocutori stranieri sul fatto che dopo le elezioni in Italia ci sarà la stabilità auspicata anche dai partner comunitari. Il ragionamento di Bersani è quello che va ripetendo da mesi, riguardante il confronto tra progressisti e moderati, e ultimamente declinato nella versione «l’Italia ha il diritto di avere qualcuno che abbia il 51%, se lo avremo noi lo useremo come fosse il 49%».
Il leader del Pd lo ripete anche da Berlino, sottolineando che «l’Italia ha problemi molto seri» e che quindi il centrosinistra, dato in testa nei sondaggi, si rivolgerà comunque dopo il voto «a tutte le forze europeiste e democratiche, a tutte le forze che non siano eredi del berlusconismo e del leghismo». Domanda: per fare cosa? «Si vedrà». Dice infatti Bersani che «c’è anche il merito delle cose». E cita non a caso due questioni su cui sono intervenuti negli ultimi giorni Pier Ferdinando Casini e Monti: «Sulle unioni civili o sul mercato del lavoro ho sentito cose che non mi convincono. Io alleanze non le faccio a tutti prezzi».
In questa fase è d’obbligo evitare fughe in avanti, c’è da fare il pieno di voti, il 24 e 25, e c’è da salvaguardare un alleato, Sel, che sta soffrendo nei sondaggi il movimentismo di Antonio Ingroia. Per questo Bersani quando vede montare il clamore su quel «prontissimo a una collaborazione con Monti» tira il freno: «Credo di non avere aggiunto uno iota a quel che ho sempre detto. Dico le stesse cose ma i titoli cambiano».
In realtà, dopo le scintille viste nei giorni scorsi su Montepaschi e sul Pd «nato nel ‘21» (Monti dixit), è evidente una rinnovata sintonia tra Bersani e il premier. E non solo perché il Professore ha iniziato a menar fendenti a Berlusconi almeno quanto il segretario Pd, ma anche perché su diverse proposte programmatiche per il futuro ci sono parecchie convergenze, non da ultimo su un pacchetto riguardante la riforma della giustizia, contenente nuove leggi sul falso in bilancio, sull’anticorruzio-
ne, sui tempi di prescrizione. E questo mentre il leader Pd ribadisce sì che ascolta i sindacati, «perché se ascolti fai meno errori», e però aggiungendo: «Credo al dialogo sociale ma credo anche che non debba paralizzare le decisioni».
Ora però non va enfatizzata troppo questa sintonia. Bersani non vuole distogliere l’attenzione dal fatto che il centrosinistra è l’unica forza «che può battere la destra e i populismi», che non c’è possibilità di rimonta per il centrodestra, che «Pdl e Lega stanno attorno al 24%», che Berlusconi con l’uscita su Mussolini difficilmente ha guadagnato nei sondaggi perché «l’Italia è antifascista, anche se naturalmente non manca una percentuali di nostalgici» e che in conclusione il «sorpasso» annunciato dall’ex premier («li abbiamo quasi raggiunti, anzi siamo in area di sorpasso») è solo l’ennesima bufala: «Il sorpasso lo stanno vedendo con il binocolo, al di là dei sondaggi che tira fuori Berlusconi».

l’Unità 6.2.13
Il Prof ora apre al Pd: alleanze per riforme strutturali
di Andrea Carugati


Aggressivo o dialogante? Il dilemma in queste ore attanaglia il premier Mario Monti e il suo staff. Consapevoli che i toni aspri contro Pd e Pdl sono indispensabili per bucare il muro del bipolarismo e per continuare a restare al centro della scena. Consapevoli anche che la guerra per il terzo posto con i grillini è tutt’altro che vinta e l’ipotesi di restare fuori del «podio» rischia di oscurare parecchio le ambizioni dei vari protagonisti del rassemblement centrista.
E tuttavia, nonostante una certa par condicio negli attacchi verso destra e verso sinistra, il Professore sembra ormai aver scelto chi potrà essere suo interlocutore nella prossima legislatura, e cioè il Pd di Bersani, e chi avversario, e cioè il Pdl pienamente tornato nelle mani di Berlusconi. E la giornata di ieri ne è una prova lampante. Il premier ha ribadito il suo giudizio durissimo sulle proposte di Berlusconi a proposito di Imu e condono, ha lanciato stoccate al centrosinistra che «ricorda l’Unione di Prodi che ha avuto problemi interni che l’hanno fatta disgregare». Poi ha risposto in modo evasivo («lascio giudicare ad altri») a proposito della credibilità europea di un governo Bersani-Vendola. Ma, al netto di tutto questo, ha lanciato più di un segnale di dialogo al Pd.
In un forum mattutino alla Stampa, il dialogo ha preso le fattezze di un replay della «grande coalizione», ma in realtà non c’è stato alcun accenno a un progetto di collaborazione con Berlusconi, che negli ultimi giorni è stato apostrofato con termini come «usura» e «voto di scambio». Anzi, uno dei rovelli di questi giorni, per Monti, è proprio quello di essere stato lasciato troppo solo da Bersani nella lotta contro il comune nemico di Arcore. E del resto l’esperienza di governo dell’ultimo anno, a partire dalla burrascosa conclusione, ha chiaramente fatto capire al premier che con Berlusconi è impossibile governare.
E così, quando da Berlino il leader Pd ha raccolto l’invito di Monti a collaborare, il Professore ha rincarato la dose: «Apprezzo ogni apertura e disponibilità, compresa quella di Bersani. Sono disponibile con la nuova forza politica che nasce ad alleanze con tutti coloro che si impegneranno sul piano delle riforme strutturali». In fondo, la linea su cui il premier è disposto a collaborare con i democratici è quella di sempre: «Finito il rigore non inizia la ricreazione, e quindi il bilancio pubblico bisogna tenerlo bene sotto controllo per non ritrovarsi come a fine del 2011», ha detto. «Il rigore e le riforme fatte nell’anno di governo, continuandole, porteranno allo sviluppo», ha aggiunto. Oltre all’ipotesi di un allentamento della pressione fiscale, ieri dal Friuli Monti ha accennato anche a una riformulazione del patto di stabilità in senso meno restrittivo per le autonomie locali.
Quanto ai rapporti interni al suo schieramento, il Professore ha confermato che non sono previste manifestazioni comuni con Fini e Casini. «Non so se ne faremo perché siamo sparpagliati sul territorio per cercare di parlare con più elettori possibili. Di certo ci saranno gruppi parlamentari unici sia alla Camera che al Senato». Una risposta gelida, che conferma la volontà del premier tecnico di non sporcare la sua immagine «civica» comiziando con due che «fanno politica fin da ragazzi», come ebbe a dire a Eugenio Scalfari alcune settimane fa. Poi ha ribadito il concetto: «Non sono salito in politica per offrire un’ancora di salvataggio a Casini e a Fini. Non credo ne avessero bisogno loro e il mio obiettivo è completamente diverso: offrire un’ancora alla società civile per entrare in politica e costruire un paese più moderno e più equo». Perché dunque sceglierli come alleati? «Sono stati quelli che hanno obiettato meno a proposte che il mio governo ha fatto, anche proposte scomode per il loro elettorato».
Casini, dal canto suo, ha risposto diplomaticamente al «cannibalismo» di Monti sui voti centristi. «Sono ben contento che cresca la lista Monti. So bene che alla Camera la mia lista rischia di avere delle difficoltà. Ma queste, sono un professionista, sono cose che avevo messo in conto due mesi fa, non sono cose di cui mi accorgo oggi». Con Monti, ha proseguito Casini, i rapporti sono «ottimi e abbondanti» ed è «fuori dal possibile» l’idea di un gruppo autonomo al Senato dello scudocrociato. «Abbiamo firmato un impegno a fare gruppi per Monti e li faremo sia alla Camera sia al Senato, sia che pigliamo il 10 per cento sia che pigliamo l’1%». Infine, la stoccata: «Senza Udc non ci sarebbe stato Monti...».

il Fatto 6.2.13
B. fa paura Monti e Bersani siglano il patto di Berlino
“Prontissimo a collaborare con il Professore”. Il segretario del Pd lo dice al termine dell’incontro con il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schäuble
Il premier apprezza “Faremo le riforme insieme”
di Wanda Marra


Prontissimo a collaborare con il Professor Monti”. Sceglie un superlativo e un luogo, Berlino, Pier Luigi Bersani per ribadire la sua vicinanza, di più, la sua continuità con Mario Monti. Ieri il segretario democratico è andato nella capitale tedesca, dove ha tenuto un discorso sull’importanza dell’Europa, ma soprattutto ha incontrato il ministro delle Finanze, Wolfgang Schäuble. Il duro, il vero animatore delle politiche economiche tedesche. Un incontro “cordialissimo”, per dirla con il segretario, in cui i due si sono parlati e si sono capiti. L’obiettivo da parte di Bersani era quello di far passare il messaggio che l’Europa non ha nulla da temere da un Pd al governo dell’Italia. “Rassicurazioni? Certo ho fatto poca fatica a ribadire che siamo una grande forza europeista, che si è espressa con Ciampi, Prodi e Padoa-Schioppa”, ha detto in una conferenza stampa in cui i giornalisti tedeschi gli hanno fatto il pelo e il contropelo.
“NON HO avuto nessuna particolare difficoltà o necessità di argomentazioni per descrivere l'europeismo e la saldezza del Pd nel rispetto degli impegni europei”. Non è un caso che la stessa giornata abbia fatto registrare un avvicinamento (definitivo o suscettibile di altri tatticismi lo scopriremo nei prossimi giorni) tra Monti e Bersani. Il premier in mattinata si era detto disponibile a “una grande coalizione”. Poi nel pomeriggio, accoglie (metaforicamente) a braccia aperte le dichiarazioni di Bersani: “Apprezzo ogni apertura e ogni disponibilità e anche questa frase che Bersani ha detto dalla Germania”. Dopo settimane in cui i due sembravano più lontani – o almeno volevano farlo intendere – tra attacchi più o meno duri, è la svolta della campagna elettorale? Nello staff di Bersani ribadiscono che la linea del segretario è sempre la stessa. Che casomai era Monti a incrinare i rapporti con le sue uscite quotidiane contro il Pd. Come in quello di Monti ci tengono a sottolineare che no, non è vero che il Professore ha attaccato i Democratici, perché, per esempio su Mps, non ha affondato. Esempio non casuale, visto che il caso Monte dei Paschi di Siena è stato la grana più grossa per il Pd. Fatto sta che i tempi parlano chiaro. Berlusconi tira fuori una promessa al giorno. I sondaggi sono impietosi: il Pd scende, il Pdl sale. L’ha detto persino D’Alema l’altroieri sera: “Stiamo sbagliando a dare per scontato di aver vinto”. Allo stesso modo, lunedì lo spread ha avuto un picco. Non senza una spiegazione da parte dell’autorevole stampa europea: l’incertezza italiana pesa sullo spread e sulla borsa, scriveva il Wall Street Journal. E allora, per dirla ancora con lo staff del segretario democratico, “di fronte al pericolo Berlusconi, l’Europa vuole Monti-Bersani e noi gli diamo Monti-Bersani”. Tra l’altro Schäuble ha chiarito che il suo non è stato un endorsement a favore del segretario democratico. Ha voluto incontrarlo per tenere la Germania in una posizione di equilibrio, visto che la Merkel ha appena visto Monti. E poi evidentemente deve aver chiarito al segretario democratico che lo tiene d’occhio.
PRESSIONE che con tutti i distinguo d’obbligo Bersani non ha respinto. “È andato a Berlino a vendere un po’ l’anima”, attacca Di Pietro. Anche Monti sembrerebbe aver preso atto dei desiderata europei. Per quanto la formula “grande coalizione” sia ambigua sa che anche la Francia vede bene il tandem: il presidente Hollande si tiene in un certo equilibrio, ma il Pse sta con Bersani. Tant’è vero che venerdì e sabato i leader progressisti europei saranno tutti a Torino per incontrarlo. Il Professore a inizio campagna elettorale aveva detto che non avrebbe fatto il ministro in un governo non suo. Ma ora si racconta che potrebbe anche cambiare idea davanti alle emergenze interne ed esterne (e a un risultato elettorale che non sarà strabiliante) e accettare di fare il vice premier con delega all’Economia. Ilaria Borletti Buitoni, capolista di Scelta Civica con Monti alla Camera in Lombardia, ha fatto sapere l’altro ieri sera con un Tweet che potrebbe fare il voto disgiunto e votare Ambrosoli. Non la sola, probabilmente. E intanto l’ennesimo richiamo di Vendola che dice “Monti è incompatibile con me”, mentre il fido Fratoianni rincara con un “pronti a rompere l’alleanza” non viene degnato neanche di una risposta. Sel è in agitazione, il popolo di sinistra non sarà contento, ma la Germania sì.

il Fatto 6.2.13
Un programma (vago) per allearsi con il premier
Zero contrasti su Europa, pensioni e tasse: tutto perfetto per incastrarsi con le riforme di Scelta Civica
di Stefano Feltri


Il patto tacito ora è esplicito: Mario Monti e Pier Luigi Bersani si preparano a governare insieme per fermare Silvio Berlusconi. Ma con quale programma? Il Partito democratico ha preparato 16 pagine da distribuire a candidati e militanti per rispondere alle domande di potenziali elettori, avversari, o amici e parenti. Domande tipo “Ma volete cambiare la riforma Fornero? ”.
É LA LINEA UFFICIALE e, in assenza di un programma dettagliato, strumento assai utile per capire come Bersani ha davvero intenzione di muoversi. Su molti temi il Pd non ha una posizione netta, sia perché al proprio interno ha linee diverse sia per essere meglio pronto a trattare con Monti, quando servirà. Per esempio per quanto riguarda l’Unione europea. I democratici dicono che “garantiamo gli accordi presi in Europa” incluso il pareggio di bilancio nel 2013. E le promesse di rivedere, rinegoziare, aggirare la gabbia attorno ai conti? Il Pd – e il suo alleato Sel di Nichi Vendola – lo ripetono spesso nei talk show. Nelle risposte alle FAQ, le domande frequenti, però non ce n'è traccia. E questa è una buona premessa per negoziare con Monti. Non solo: il Pd mette anche le premesse per una manovra correttiva, quando dice che “il 2013 rischia di essere difficilissimo per i conti pubblici” e che “bisognerà verificare i dati”. Altro che ammorbidimento del rigore. E le pensioni? L'estensore delle 16 paginette si avvita in una serie di perifrasi tipo “rendere il sistema pensionistico più flessibile” e ipotizzando “forme di invecchiamento attivo”. Che vuol dire: sulle pensioni si può intervenire ancora e i lavoratori più anziani devono rinunciare al riposto e rimanere “attivi”, cioè lavorare. Magari a salari più bassi. Elsa Fornero, ma anche lo stesso Monti, non avrebbero saputo dirlo meglio. Nei suoi comizi, invece, Pier Luigi Bersani trascura di sottolineare molto questi punti.
NON TUTTO È VAGO, ovviamente. Ci sono alcuni punti fermi sui temi chiave della campagna elettorale: l'acquisto dei caccia F35 (“bisogna assolutamente rivedere il nostro impegno”), la legge elettorale (“riproporremo la nostra riforma”, che in questa legislatura non ha trovato consenso sufficiente), un provvedimento drastico sul conflitto di interessi e “il riconoscimento giuridico delle coppie gay”. Ma su altre questioni c'è una prudenza prossima all’imbarazzo. Certe cose è meglio non dirle troppo forte in campagna elettorale, o gli elettori in bilico potrebbero spaventarsi. Per dire: l'immigrazione. I militanti Pd che devono spiegare “L'Italia giusta” vengono istruiti a dire che “rendendo impossibile la regolarità, la destra ha di fatto favorito la clandestinità”. E quindi? “Occorre voltare pagina e avviarci verso una legislazione saldamente ancorata alla migliore tradizione europea”. E chissà che vuol dire. O le grandi opere. Tav o non Tav? Una sola certezza “basta con la stagione delle grandi opere irrealizzabili e costose”. Meglio “selezionare pochi grandi opere strategiche”. Tipo il terzo valico? Lo sveleranno dopo il voto.
Anche la patrimoniale è un ectoplasma, appare e scompare: no a “interventi generali sul patrimonio” sì a “ogni eventuale contributo dei più abbienti per l’accesso ai servizi di un Welfare che va garantito ma che bisogna mettere al sicuro dal punto di vista della sostenibilità finanziaria” (una volta, a sinistra, sarebbero inorriditi: il dogma era imposte progressive e servizi universali). Alla domanda “avete idee particolari per sostenere sviluppo e occupazione” manca la risposta. Rimandano alla sezione politica industriale e lavoro. Anche quella poco dettagliata. Magari conviene leggere direttamente l’Agenda Monti, per integrare. Tanto, ormai è chiaro, i due programmi dovranno fondersi.

il Fatto 6.2.13
Gioele Magaldi, il padre del Grande Oriente Democratico
“Montepaschi controllato dai massoni”
“L’ex numero uno dell’Abi è nella massoneria da tempo”
“Mussari è stato iniziato ‘libero muratore’ quando cominciò la sua scalata al potere”
Uno dei capi della massoneria, racconta come a Siena le logge influenzino le varie cordate bancarie. E parla di Amato, Luigi Berlinguer e Verdini
di Fabrizio d’Esposito


Da almeno un lustro, il quarantenne Gioele Magaldi denuncia le relazioni invisibili o indicibili tra potere e massoneria. E lo fa dell’interno. Perché Magaldi è massone dichiarato e ha fondato il Grande Oriente Democratico, in aperta contrapposizione con il Grande Oriente d’Italia di Gustavo Raffi, la maggiore obbedienza italiana. Per Chiarelettere è attesa da tempo l’uscita di un libro di Magaldi sui segreti che legano i “grembiulini” a politici e religiosi: “Massoni. Società a responsabilità illimitata”.
Lo scandalo Mps ha evocato di nuovo l’ombra di grembiuli e cappucci. Sul suo sito si ricorda la partecipazione di Mussari a un convegno del Goi del berlusconiano Raffi.
Giuseppe Mussari è un massone. Non perché abbia partecipato ad uno o più convegni del Goi, vi partecipano anche profani di rilievo, ma perché è stato iniziato libero muratore diverso tempo fa, agli inizi della sua scalata al potere. Sul percorso massonico di Mussari e di altri personaggi dell’establishment italiano, mi soffermo analiticamente nel mio libro in uscita.
A Siena l’intreccio massonico che riflesso ha sulle varie cordate? Si è parlato di Amato, Bassanini, Luigi Berlinguer, poi dei berlusconiani vicini alla banca come Verdini.
Luigi Berlinguer, presidente della commissione di garanzia del Pd, che risolse con equità, lungimiranza e saggezza il falso ed ipocrita problema della presenza dei massoni nel Pd nel 2010, dichiarandone la piena ammissibilità, appartiene ad una famiglia di antica tradizione massonica. Luigi Berlinguer non mente quando dice di non essere stato mai affiliato formalmente ad alcuna loggia, ma occorre ricordare che il padre di suo cugino Enrico Berlinguer, Mario Berlinguer, era un noto, convinto e benemerito massone democratico e libertario, antifascista della prima ora, aderente prima al Partito d'Azione e poi al Psi, per il quale fu eletto deputato e senatore. Nella famiglia Berlinguer, e il discorso vale anche per Luigi, aderente al para-massonico Gruppo Spinelli, con mille sfumature da un individuo all’altro, c’è sempre stata una consolidata vicinanza culturale e ideologica al milieu massonico progressista. Franco Bassanini, come ricordava lucidamente l’altro giorno anche Cirino Pomicino, è invece molto vicino a certi ambienti massonici francesi. Giuliano Amato gode di ottime relazioni e amicizie tanto nel mondo massonico anglo-sassone che in determinati ambienti massonici sovranazionali collegati alla finanza e al mondo bancario tedesco. Denis Verdini ha frequentazioni massoniche un po’ più ruspanti e provinciali di Amato e Bassanini, ma comunque è ben inserito in un certo circuito sia interno che esterno alle principali comunioni massoniche italiane.
Nel suo libro Confiteor con Mucchetti , Geronzi sostiene che in tutte le vicende del risiko bancario la massoneria c’entra sempre.
Geronzi dice il vero. Ma chiunque conosca un minimo i circuiti finanziari e bancari sovranazionali, che determinano quello che accade anche nella provincia italiana, sa bene che essi sono saldamente in mano di gruppi massonici e paramassonici. Ci sono diverse anime nella massoneria. Dal XVIII a circa metà del XX secolo ha sempre prevalso l’anima illuminista e progressista. A partire dalla fine del Novecento, per la prima volta nella sua storia, si sono affermate componenti conservatrici e reazionarie.
Lo stesso Geronzi però difende Gianni Letta e smentisce che sia lui l’incrocio tra “logge e cilicio”, il burattinaio di tutto tra massoneria e Opus Dei.
In questo caso Geronzi mente quando nega che in Gianni Letta si incrocino relazioni massoniche e opusiane. D’altronde, non bisogna nemmeno sopravvalutare Letta. Ci sono ben altri gran burattinai, in giro per l’Europa e in grado di influire pesantemente sulle faccende italiane.
Leggendo il suo sito, si apprende che il mondo del potere è zeppo di fratelli. Lasciando da parte P2, P3 e P4, lei chiama fratelli illustri protagonisti della politica e dell’economia.
Due di essi appartengono all’aristocrazia massonica sovranazionale. Su ciò saranno peraltro prodotte importanti e autorevoli testimonianze documentarie nel mio libro.
Tutti massoni.
Occorre dire che troppo spesso, sulla questione Mps, ci si interroga sul livello italiano degli intrecci massonici.
Non è che lei confonde semplici relazioni d’elite con la massoneria vera e propria?
Quando c’è in ballo il potere: economico-finanziario, bancario, politico, diplomatico, ecclesiastico, c’'è sempre di mezzo la massoneria. Non c’è da stupirsene: il mondo moderno e contemporaneo di matrice euroatlantica è nato grazie all’azione di avanguardia svolta dai liberi muratori contro l’Ancien Regime. È naturale che i creatori delle società moderne ne abbiano mantenuto il controllo.
Quindi non c’è una massoneria esclusivamente esoterica?
La massoneria, a qualsiasi latitudine, non è mai stata e mai sarà esclusivamente esoterica, cioè dedita solo a questioni spirituali e filosofiche. La massoneria ha cambiato il mondo e continuerà a farlo.
Lei ha fondato il God e da massone dichiarato combatte pubblicamente una battaglia dentro il suo mondo. È la prima volta che accade: perché lo fa?
Perché è necessario tornare allo spirito di quei fratelli liberi muratori che guidarono la rivoluzione americana e quella francese, che fecero il Risorgimento in Italia e ovunque lottarono per affermare istituzioni liberal-democratiche. Occorre tornare allo spirito di quei fratelli che sconfissero il nazifascismo, Franklin Roosevelt e Winston Churchill su tutti, e che regalarono al mondo un paradigma economico calibrato sulla giustizia sociale e il diritto alla dignità e alla felicità per ogni essere umano. Il trinomio Libertà-Fratellanza-Uguaglianza è nato nelle logge e adorna ancora adesso i templi massonici, scolpito sotto la cattedra del Maestro Venerabile.

il Fatto 6.2.13
Cappuccio e compasso, le logge italiane


IN ITALIA la storia della massoneria contemporanea è segnata dallo scandalo della loggia P2 di Licio Gelli, dove era iscritto anche Silvio Berlusconi e non solo. La P2 allignò all’interno del Grande Oriente d’Italia, che ancora oggi resta la più grande obbedienza massonica del Paese con meno di ventimila fratelli con grembiule e cappuccio. Dopo un altro scandalo, quello dell’inchiesta di Cordova a Palmi, il Goi perse il riconoscimento delle logge di Inghilterra, Scozia e Irlanda che sono considerate il Vaticano della massoneria. Oggi il Gran Maestro del Goi è Gustavo Raffi, ex repubblicano poi berlusconiano. Tra i fratelli illustri c’è Giancarlo Elia Valori, uomo di collegamento tra Chiesa e massoni che Luigi De Magistris, da pm, definì “l’uomo più potente d’Italia a capo di una nuova P2”.
Per numero di affiliati, dopo il Goi, c’è l’Alam ossia la Gran Loggia d’Italia degli Antichi liberi accettati muratori con 8.500 iscritti. Terza è la Gran Loggia regolare d’Italia con 3mila massoni. In tutto più di 30mila fratelli, cui bisogna aggiungere quelli delle logge autocefale, spesso una massoneria fai-da-te che fa a capo a personaggi pittoreschi.

Repubblica 6.2.13
Somme ingenti a quattro enti ecclesiastici per coprire persone legate all’operazione Mps-Antonveneta
I magistrati e il mistero di quei conti Oltretevere
di Maria Elena Vincenzi


ROMA — Non tanto l’operazione Antonveneta, ma il ruolo dello Ior. La sua scelta di coprire, tramite quattro conti intestati ad altrettanti istituti di religione, cinque personaggi che avrebbero avuto un ruolo nell’acquisizione della banca padovana. Un dettaglio magari irrilevante per l’inchiesta sul Monte dei Paschi che, però, dà nuovo slancio a quella della Procura di Roma su alcuni casi di riciclaggio dello Ior. Per questo ieri i titolari del fascicolo sull’Istituto per le Opere di religione, il procuratore aggiunto Nello Rossi e i pubblici ministeri Stefano Fava e Stefano Pesci, hanno sentito il giornalista Paolo Mondani che, lunedì sul Corriere della Sera, ha pubblicato il racconto di un alto dirigente del Vaticano. Rivelazioni che - per gli inquirenti romani - hanno un motivo di interesse nel ruolo “di copertura” che lo Ior avrebbe avuto. Il testimone, infatti, ha parlato di «diverse riunioni tenutesi nel Torrione Niccolò V per l’acquisizione di Antonveneta» e, soprattutto, di «quattro conti intestati a quattro organizzazioni religiose che coprono personaggi che hanno avuto un ruolo nell’affare ». Conti appoggiati sulla Banca del Fucino di via Tomacelli a Roma. Di uno di questi, il testimone ha anche fornito numeri e depositi: uno da 100 mila euro e uno da 1,2 milioni. Soldi che sarebbero serviti a pagare «le persone utilizzate nel 2007 per organizzare la seconda vendita di Antoveneta».
Mondani ha confermato quello che ha scritto senza fornire elementi più utili. E ora l’intenzione delle toghe è quella di capire a chi siano intestati quei conti e quale e quanto denaro sia passato da lì. E, soprattutto, per quale motivo. Era parte della “maxi-tangente” legata all’acquisto della banca padovana? È un altro caso di riciclaggio?
Dettagli che potrebbero essere utili a dare nuovo impulso a un fascicolo che Roma ha aperto parecchio tempo fa (il sequestro di 23 milioni di euro dello Ior risale al settembre del 2010) e per il quale, recentemente, ha chiesto una proroga di indagini. Proprio per questo non è escluso che la Procura possa disporre accertamenti su quei conti. Prima fra tutti una rogatoria in Vaticano. Se infatti quelle operazioni di riciclaggio fossero confermate, potrebbero unirsi a quelle che hanno già portato all’iscrizione nel registro degli indagati, nel 2010, dell’allora presidente Ettore Gotti Tedeschi e del direttore generale Paolo Cipriani. E ora questi nuovi elementi potrebbero far emergere altri casi utili a legare tra loro episodi che, al momento, sembrano non avere collegamento. Potrebbero servire a fare un passo in più: a dare una visione di insieme del fenomeno e di eventuali responsabilità.
Due inchieste che si sfiorano, quelle su Mps e sullo Ior, ma che sono e resteranno ben distinte, probabilmente anche come sede. Se da un lato la Procura della Capitale vuole andare a fondo sull’istituto di credito vaticano, dall’altro sembra intenzionata a inviare a Siena gli atti del fascicolo Mps. L’atteggiamento di piazzale Clodio, in questo senso, è di «apertura e collaborazione», ha spiegato una fonte investigativa.

Dopo la Francia
l’Unità 6.2.13
Sì della Gran Bretagna ai matrimoni gay
Tory divisi ma passa la legge voluta da Cameron che consente
alle coppie dello stesso sesso di sposarsi anche in chiesa
Ruini apre ai diritti per le coppie omosessuali: ma non si parli di matrimonio
Dissenso tra le file dei conservatori: molti dei 175 no sono del partito di Cameron
I deputati contrari preconizzano ricorsi alla Corte Europea «Calpestata la fede»
di Gabriel Bertinetto


Anche la Gran Bretagna dice sì ai matrimoni gay. La legge di Cameron spacca i Tory molti dei quali votano contro. Il premier britannico: oggi abbiamo fatto un passo avanti. Dopo monsignor Paglia, Ruini apre ai diritti per le coppie omosessuali ma avverte: non si parli di matrimonio. Ecco come funziona il modello tedesco su cui punta il Pd.

Passa ai Comuni la legge che ammette i matrimoni omosessuali. Passa (anche se è un primo voto e altri dovranno seguire prima del varo definitivo) grazie al sostegno dell’opposizione laburista, che compensa l’alto numero di no nelle fila del principale partito di governo. I sì sono 400. Gran parte dei 175 deputati contrari sono conservatori. Il premier David Cameron, favorevole al progetto, l’ha spuntata, ma a costo di una nuova lacerazione in casa Tory, dopo quella che un anno fa si manifestò sulle relazioni del Regno Unito con la Ue. Allora Cameron tentò di ricucire lo strappo facendo concessioni all’ala eurofobica della sua formazione. Stavolta ha deciso di proseguire per la sua strada, pur dichiarando che ciascun deputato conservatore era libero di votare secondo coscienza.
Martedì prossimo le nozze fra omosessuali diventeranno legali in Francia. Negli Usa il tema è di stringente attualità, il presidente Obama lo ha citato anche nel suo discorso inaugurale. E in Gran Bretagna, dove le unioni civili tra gay già erano legalmente riconosciute, i legami stabili fra persone dello stesso sesso avranno presto la stessa identica natura giuridica dei matrimoni fra individui eterosessuali. È un progresso importante, perché, come ha detto in aula la ministra della Cultura Maria Miller, «una partnership legale non è percepita nello stesso modo e non contiene i medesimi impegni di responsabilità e dedizione caratteristici del matrimonio». Non solo, secondo i promotori della legge, esiste un problema di riconoscimento internazionale per le Unioni civili che non si pone per i matrimoni. Il concetto di matrimonio è sufficientemente chiaro sul piano giuridico nei diversi Paesi, mentre non lo stesso accade per le norme sulle Unioni civili, che variano molto da Stato a Stato.
La legge approvata ai Comuni consente alle coppie gay di sposarsi sia con rito civile che religioso, ma lascia libere le varie confessioni di non aderire. La maggior parte delle Chiese attive in Gran Bretagna hanno già manifestato la loro contrarietà. Le uniche favorevoli sono alcune congregazioni ebraiche. Particolarmente rilevante è l’opposizione della Chiesa Anglicana, dal momento che i principi della Legge Canonica sono inglobati nell’ordinamento giuridico nazionale. Non a caso i vertici ecclesiastici hanno già ammonito che il varo della nuova legge comporta problemi nel rapporto fra Chiesa e Stato. Vengono messi in forse, lamentano i prelati di Canterbury, «lo status e l’efficacia delle regole canoniche che delineano la dottrina della chiesa sul matrimonio come legame fra un uomo e una donna».
LE QUESTIONI LEGALI
Di queste preoccupazioni si è fatto interprete nel suo intervento ai Comuni, il deputato Tony Baldry: «Non c’è alcun dubbio che una volta ridefinito il matrimonio in questa maniera, sorgerà un gran numero di questioni legali, e nessuno può dirsi sicuro sull’esito di queste contese». E c’è chi minaccia di ricorrere alla Corte Europea per i diritti umani. Singolare che a ipotizzarlo siano politici Tory, che spesso nelle istituzioni comunitarie d’Oltremanica vedono una minaccia alle prerogative sovrane di Londra. Dice Roger Gale, parlamentare conservatore: «È evidentissimo per molti di coloro che siedono in questo settore della Camera, che il disegno di legge finirà davanti alla Corte Europea per i diritti umani. La gente di fede riterrà che la fede è stata calpestata, cosa intollerabile».
A difesa del provvedimento erano scesi in campo molti pezzi grossi del partito di Cameron. Un appello a votare sì era stato pubblicato sul quotidiano Daily Telegraph ieri mattina per iniziativa di George Osborne, William Hague e Theresa May, che sono a capo di tre dei più importanti ministeri: Finanze, Esteri, Interni: «Il matrimonio si è evoluto attraverso i tempi. Crediamo che aprirlo alle coppie dello stesso sesso, rafforzi l’istituzione anziché indebolirla». I tre sottolineavano anche l’aspetto politico di fondo della scelta: «Come Cameron ha detto, dobbiamo sostenere le nozze gay, non malgrado il nostro essere conservatori, ma proprio perché lo siamo». Un messaggio al popolo britannico per rilanciare l’immagine di modernità che Cameron cerca di modellare intorno al corpo di un partito generalmente considerato la quintessenza dell’antico.
Lo stesso Cameron, intervenendo ai Comuni ha detto che l’approvazione della legge «è una questione di uguaglianza, certamente, ma è anche qualcosa che rafforza la nostra società. So che ci sono da una parte e dall’altra opinioni consolidate sull’argomento. Lo accetto. Ma credo che dire sì sia un passo avanti importante per il Paese».
Il premier non l’ha detto, ma ottiene anche vantaggi politici, accontentando l’alleato liberaldemocratico, che aveva messo la legge sui matrimoni gay fra le priorità programmatiche. I Lib-Dem ottengono qualcosa di rilevante, dopo avere trangugiato molti rospi, soprattutto a causa dell’atteggiamento di Cameron verso Bruxelles.

l’Unità 6.2.13
Come funziona il modello tedesco che piace al Pd
Convivenze registrate pubblicamente e diritti analoghi alle coppie eterosessuali, con l’eccezione del regime fiscale
Le limitazioni in materia di adozione
di Paolo Soldini


Le unioni civili delle coppie omosessuali debbono essere «codificate»”, dice Pier Luigi Bersani. E il leader del centrosinistra indica anche un modello: «La legge tedesca ha dichiarato recentemente secondo me va bene per la nostra situazione e io, se toccherà a me proporrò certamente una legge su quel modello». Andiamo a vedere, perciò, in che cosa consiste e come funziona il modello tedesco. Per toccare subito il punto più importante, diciamo che dalla parificazione dei diritti delle coppie di fatto registrate, che in Germania sono costituite totalmente da omosessuali perché le coppie non sposate eterosessuali sono riconosciute di fatto, è escluso il regime fiscale. Per il momento, almeno. Nell’ultimo congresso della Cdu, che si è tenuto a Hannover in dicembre, la maggioranza del partito, con un margine piuttosto ristretto, ha infatti bocciato la proposta avanzata dalla ministra federale della Famiglia Kristina Schröder e appoggiata da 111 parlamentari di equiparare in tutto e per tutto i diritti e i doveri fiscali delle coppie in unione civile a quelli delle coppie sposate. Ma il parere generale è che anche questa (importante) differenza sia destinata ad essere superata. L’opposizione più forte viene, infatti, dalla Csu bavarese e da qualche settore marcatamente minoritario della Cdu. L’appoggio determinante al «no» che è stato opposto alla mozione Schröder dalla cancelliera Merkel, padrona assoluta di quel congresso con oltre il 97% dei voti, ha avuto più che altro un sapore tattico: evitare la rottura con la «sorella bavarese» e, forse, marcare una distanza dagli alleati liberali della Fdp, che in Germania sono i più accesi sostenitori dei diritti gay.
A parte il regime fiscale, in Germania i diritti delle coppie di fatto si avviano ad essere ormai del tutto uguali a quelli delle coppie sposate eterosessuali. Le ultime differenze, che riguardano in particolare le modalità per le adozioni comuni, sono in via di superamento da quando la ministra federale della Giustizia Sabina Leutheusser-Schnarrenberger ha presentato un proprio pacchetto di riforme per eliminare i limiti ancora esistenti alla piena eguaglianza dei diritti. Quando queste modifiche verranno attuate e quando (e se) cadrà la distinzione di trattamento fiscale, si potrà considerare giunto al traguardo un cammino cominciato il 16 febbraio del 2001, quando il Bundestag licenziò la legge sulla Eingetragene Lebenspartnerschaft (convivenza registrata pubblicamente) che sarebbe poi entrata in vigore il 1° agosto dell’anno successivo.
La legge stabilisce che due persone intenzionate a dar vita a una convivenza stabile lo dichiarino «reciprocamente, personalmente e contemporaneamente» davanti a un ufficiale di stato civile. I conviventi possono scegliere, se vogliono, un cognome comune e assumono obblighi di assistenza e sostegno reciproco che sussistono anche dopo l’eventuale separazione. Alla coppia vengono riconosciuti tutti i diritti contributivi e assistenziali previsti con il matrimonio. L’equiparazione al matrimonio eterosessuale vale anche per i diritti di successione: al convivente che sopravvive alla scomparsa del compagno o della compagna viene assicurata la pensione di reversibilità e la continuità dell’eventuale contratto di affitto. Inoltre, la legge regola una materia che prima della sua approvazione era, in Germania, fonte di molti e delicati problemi: se uno dei due partner non è tedesco, ottiene il diritto di accesso alle pratiche per l’acquisizione della cittadinanza, esattamente come avviene per gli stranieri che sposano un cittadino della Repubblica federale. Rispetto al matrimonio, però, fino a una modifica legislativa del 2004 c’era una differenza sostanziale: per le coppe omosessuali non era prevista alcuna possibilità di adozione comune. Soltanto due anni dopo è stata introdotta la possibilità dell’adozione comune dei figli dei componenti della coppia nati da altre o precedenti relazioni.
All’inizio, quindi, qualche differenza rispetto al regime del matrimonio eterosessuale restava ancora. Ma il 22 ottobre del 2009 la Corte costituzionale ha emesso una sentenza che in nome dell’uguaglianza dei cittadini estende alle Eingetragene Partnerschaften i diritti e i doveri previsti dal matrimonio. Il pacchetto proposto dalla ministra della Giustizia è volto proprio ad attuare le indicazioni di quella sentenza. E molti prevedono che nella prossima legislatura cadrà anche l’ultima barriera: quella del regime fiscale.

l’Unità 6.2.13
In Italia si può fare la legge senza conflitto?
di Emma Fattorini


Non ci sono solo le brutte notizie di una campagna elettorale al vetriolo, ci sono anche le buone che sembrano venire dal fronte finora più brutalmente divisivo, quello dei valori irrinunciabili.
Che è quello delle unioni civili e del matrimonio tra omosessuali. Camillo Ruini, rigorosamente attento a non equiparare le unioni omosessuali al matrimonio, sembra ritenere legittime soluzioni che restino nell’ambito del diritto privato. Per alcuni sarà poco, per altri troppo. Per noi è importante sia la spia di una stagione nuova. Che non sia più di guerra sui principi, che non sia più paura del confronto. Finalmente nella nostra comunità nazionale si potrebbero aprire spiragli per affrontare le ragioni di un umanesimo comune (tutt’altro che «relativista»), ragioni di gran lunga superiori a quelle che dividono. Perché i principi davvero irrinunciabili, quelli naturali e universali, sono anche quelli essenziali.
Ed è questa essenzialità che ho sentito nelle parole del nuovo presidente del Pontificio consiglio per la famiglia, monsignor Vincenzo Paglia: la pari dignità di tutti gli uomini, ecco cosa rende davvero possibile un umanesimo condiviso. Bellissimo il suo richiamo a Oscar Romero in una discussione, come quella sui matrimoni tra omosessuali, resa incandescente, anche perché in passato fu usata, nello scontro politico, in nome di principi astratti e barattata cinicamente nello scambio politico. Evocare Romero significa illuminare, dare sostanza a quella antropologia integrata della persona: il sacrificio della vita per la dignità e la vita di un popolo oppresso. Ciò che ha scritto Benedetto XVI nella Caritas in veritate: «La questione sociale è diventata radicalmente questione antropologica» (e viceversa).
Che c’entra con il matrimonio tra gay, si dirà? C’entra moltissimo. «Romero, dando la sua vita, ha testimoniato che la vittoria è nella verità» ha detto mons. Paglia. La verità, e non le furbizie e i tatticismi della politica, deve essere da guida. La prima conseguenza è che, per la prima volta le unioni civili escono dall’indistinto e non sono più considerate «non negoziabili». Una mancanza di distinzione che era giustificata, non dal giudizio di verità, non in sé, ma dalla «paura del piano inclinato», quello secondo cui se si concede qualcosa poi le pretese aumentano all’infinito. Un ragionamento debole, spaventato, che non guarda direttamente in faccia i contenuti e cioè i volti delle persone.
Oggi è giunto il momento di invertire, con convinzione, la logica passata e, avviare la stagione delle distinzioni e del confronto. La difesa della famiglia è molto sentita e non solo dai credenti. Essa è un valore per tutti. Un particolare senso della famiglia corrisponde al tratto profondo della nostra coscienza nazionale. E nel bene come nel male ne è un segno identitario attestato non solo formalmente dalla nostra Costituzione. Insomma la famiglia fatta di genitori e figli resisterà.
Ma, chiediamoci, quale sia la famiglia concreta e reale, con le sue difficoltà, e, di questi tempi, addirittura con i suoi eroismi, la sua normalità. Non dobbiamo credere a un’immagine lontana, patinata, fatta di famigliole sempre sorridenti o al contrario ad una visione spenta e triste di famiglie fuori dal tempo, un po’ grigia. La famiglia vera non è così. Le cose non stanno così. Perché, invece di dividerci, non lavoriamo, insieme, pragmaticamente ad aiutarle? Perché non solo siano protette economicamente ma anche promosse nella loro verità, fuori dalle rappresentazioni stereotipate che ne fanno o un modello idealizzato, quanto irreale o un esempio edificante quanto poco attraente. C’è un lavoro enorme da fare sul piano dell’aiuto materiale e non meno culturale e morale ai genitori, sempre più soli nell’educare i loro figli affinché trovino un senso alla loro vita oltre che un lavoro.
Non torniamo allo scontro che ci ha divisi, al vuoto prodotto dalla cultura berlusconiana e alla sua strumentalizzazione di realtà così preziose. Essere veri nelle cose che si chiedono deve essere una bussola per tutti: le unioni civili non vanno fatte solo per opportunità politica, e neppure per un evidente rispetto della dignità umana (che sia la benvenuta). Non deve essere solo un compromesso subito. Noi possiamo fare una buona legislazione, se fatta insieme, con uno spirito che è molto lontano dalla laicitè francese o dalle religious freedom anglosassoni. Perché la nostra è una situazione diversa. La nostra è una nazione che, come nel dopoguerra deve tornare a vedere la Chiesa e la comunità cattolica in prima linea nella sua concreta ricostruzione. Una comunità ferita e divisa da un’epoca, quella di Berlusconi che ha lasciato ferite profonde anche tra i cattolici.

l’Unità 6.2.13
Massimo Salvadori, Professore emerito all’Università di Torino, ordinario di Storia delle dottrine politiche:
«La frattura non è tra credenti e laici. Il problema vero è il clericalismo»
«L’idea di famiglia è cambiata nel tempo»
«Va respinta la linea di chi pretende di imporre per legge i propri valori»
intervista di Umberto De Giovannangeli


«Sull’allargamento dell’idea di famiglia il problema non è quello di contrapporre laici e cattolici. Questa è una forzatura che rigetto. Perché ci sono laici che sono a loro volta sia credenti che non credenti, cattolici e non cattolici, così come vi sono cattolici che hanno fatto proprio il principio di laicità. L’ostacolo è rappresentato dal clericalismo di coloro che pretendono che i propri valori religiosi vengano imposti dalla forza della legge, obbligando anche coloro che in quei valori non si riconoscono». A sostenerlo è Massimo Salvadori, tra i più autorevoli storici italiani, professore emerito all’Università di Torino, ordinario di Storia delle dottrine politiche.
Professor Salvadori, dalla Francia di Hollande agli Stati Uniti di Obama, passando per la Gran Bretagna di Cameron, ai primi posti dell’agenda politica c’è l’estensione dei diritti civili, in particolare sul riconoscimento delle coppie gay. Tema che investe anche l’Italia. Da storico e politologo, come inquadra tutto ciò?
«I diritti civili sono il frutto di una evoluzione costante della coscienza degli individui e della coscienza pubblica. La rivendicazione di un diritto è il prodotto di una espressione di volontà che spinge le persone e i gruppi a dire, in un determinato momento storico, non voglio, non vogliamo più vivere come prima e voglio, vogliamo vivere in un modo diverso da prima. La battaglia per l’affermazione di un diritto è sempre accompagnata, quando si è giunti a un certo punto di maturazione, dalle mobilitazioni di tutti coloro che rivendicano quel nuovo diritto, mirando a cambiare lo stato delle cose».
Un discorso che in questo caso riguarda la famiglia.
«L’idea di famiglia è stata oggetto di una evoluzione costante nel corso dei secoli ed oggi ci troviamo in un periodo nel quale questa idea si estende a dei rapporti che in precedenza venivano considerati estranei, incompatibili. Quanto all’Italia, oggi ci troviamo di fronte al fatto che la società si è profondamente secolarizzata e che nell’ambito di questo processi si è fatta avanti con forza la rivendicazione da parte degli omosessuali di trovare un riconoscimento legale che si esprima anche nel matrimonio».
Professor Salvadori, c’è il rischio che in Italia questo tema finisca per alimentare una contrapposizione tra laici e cattolici?
«Anzitutto respingo la contrapposizione tra laici e cattolici. Per la buona ragione che ci sono laici che sono a loro volta sia credenti che non credenti, cattolici e non cattolici, così come vi sono cattolici che hanno fatto proprio il principio di laicità. La divisione è altra...». Quale?
«La divisione è, da un lato, tra i laici, non credenti e credenti, e, dall’altro quei cattolici che respingono i principi di laicità e che, in sostanza, devono essere considerati clericali. In generale, i laici sono coloro che non richiedono che i comportamenti privati siano regolati dalla forza delle leggi. Naturalmente si tratta di comportamenti che possono ritenersi civilmente leciti. I clericali, invece, pretendono che i loro valori religiosi vengano imposti dalle leggi, obbligando anche coloro che in quei valori non si riconoscono. Il cattolico laico segue per convinzione personale i precetti della Chiesa ma riconosce la libertà dei non cattolici di comportarsi secondo i loro propri valori. Insisto su questo concetto, perché esso ha importanti ricadute culturali e politiche: la divisione tra credenti e non credenti laici, e i “non laici”».
Una riflessione che porta a ragionare sul modus operandi della Chiesa cattolica nei confronti del matrimonio gay.
«A questo proposito sono persuaso che non ci si possa aspettare che la Chiesa cattolica riconosca la liceità del matrimonio fra gay. D’altronde, le sue prese di posizione in merito sono estremamente esplicite e intransigenti. Il massimo che la Chiesa è disposta a concedere è che ai gay vengano riconosciuti diritti riguardanti interessi di tipo materiale, ma la Chiesa continuerà sicuramente a lottare perché non vi sia il riconoscimento del matrimonio tra gay. Questa per la Chiesa è una frontiera non superabile».
A sbarrare la strada a una scelta condivisa su temi di questa delicatezza, non c’è anche un laicismo estremizzato?
«In Italia il pericolo di un laicismo estremizzato francamente non lo vedo. Certo esistono dei non credenti che portano avanti un atteggiamento non rispettoso della religione, e questo costituisce a sua volta una sorta di clericalismo rovesciato».

Tutto qua?
Le cartucce dei “marxisti ratziongeriani” sono già finite?
Dopo l’intervento del direttore Claudio “Bagnasco” Sardo sabato scorso e quello del “mammasantissima” Mario “razzapagana” Tronti  ieri, oggi interviene a sostegno solo Merlo, oscuro deputato “di fila”
Sul fatto però che i cattolici non siano “moderati”, siamo assolutamente d’accordo con lui! Da molto tempo.
Almeno a partire dal brutale assassinio di Ipazia commissionato da San Cirillo, seguito poi dai milioni di morti che i cattolici hanno causato nei secoli...
l’Unità 6.2.13
I cattolici democratici non sono «moderati»
di Giorgio Merlo

Deputato Pd

I CATTOLICI A SINISTRA? STANNO BENISSIMO SE NON SI RIDUCONO A GIOCARE UN RUOLO MERAMENTE TESTIMONIALE. Si racchiude in questa considerazione, seppur scontata, la risposta alla bella riflessione sul tema avviata sabato scorso dal direttore de l’Unità. Del resto, è abbastanza ovvio che sarebbe difficile oggi riproporre un partito di soli cattolici, o a forte caratterizzazione confessionale o, peggio ancora, clericale. Dopo la fine della Democrazia cristiana non si contano i tentativi, più o meno nobili, tesi a riproporre una sorta di «Dc bonsai» che puntualmente sono tramontati in modo inglorioso.
È indubbio che la presenza dei cattolici è tanto più efficace quanto più è visibile in termini politici e culturali all’interno dei rispettivi partiti. A cominciare, appunto, dal Pd. Ma chi può dire, oggi, che nel panorama politico della sinistra italiana i cattolici devono essere ridotti ad avere un ruolo marginale o ininfluente? La battaglia contro la deriva liberista, la lotta contro la rincorsa all’individualismo più sfrenato, la concentrazione del potere e della ricchezza in poche mani richiedono, oggi più che mai, una presenza attiva e responsabile dei cattolici democratici. A cominciare proprio dal Pd.
Non serve neanche dar vita ad una nuova corrente «cattolica» all'interno del partito perché sono proprio i temi all’ordine del giorno della politica che richiedono un nuovo protagonismo politico dei cattolici. Certo, per far fronte a questa situazione occorre avere personalità politica, coraggio culturale e rappresentatività sociale. E oggi i cattolici nel Pd devono rispondere solo a questi requisiti. L’unico elemento che va battuto alla radice è quello di ripetere la stantia ed improponibile esperienza degli «indipendenti di sinistra» degli anni 70. Se si percepisce che i cattolici nel Pd, o nel campo della sinistra, sono soltanto un esercito di complemento che diventano protagonisti per la stesura degli organigrammi è persino ovvio che non avranno un ruolo davvero importante. È invece alla domanda di rinnovata elaborazione culturale e politica che si deve rispondere adeguatamente anche perché il Pd è, a tutt’oggi, il primo partito italiano anche per i cattolici italiani.
Insomma, se si vuol inverare e conservare il grande patrimonio di idee e di valori contenuti nella Costituzione è gioco forza che i cattolici non si assentino dalla pratica politica. Anche perché la distinzione nei cattolici è sempre esistita. Quando Sturzo all’inizio del 900 già parlava di «cattolici democratici» e «cattolici conservatori» evidenziava una costante culturale che da sempre caratterizza il panorama variegato dell’area cattolica nel nostro Paese. Ma questa presenza politica, se vuol essere tale, non può essere rassegnata o servile. Il vuoto in politica non esiste mai. Se non si assolve ad un ruolo c’è sempre qualcuno disposto a coprire la falla. E oggi la sfida dei cattolici a sinistra si gioca tutta sul terreno politico. Che poi, alla fine, non è altro che il compendio dei valori, delle sensibilità e delle proposte che da sempre caratterizzano la proposta originale dei cattolici italiani.
Che non possono essere etichettati come semplici «moderati». Ce lo ricordava l’indimenticato Mino Martinazzoli quando sottolineava che gli «interessi in politica non sono mai moderati ma sempre radicali. Semmai aggiungeva è la politica che li modera». Ecco la specificità dei cattolici. Non moderati ma riformisti, non clericali ma laici, non laterali ma protagonisti. Se sarà così i cattolici nel Pd, soprattutto nel Pd, potranno ancora essere protagonisti perché necessari. Se, invece, il tutto si limiterà ad assolvere un ruolo di posizionamento tattico e contingente, anche i cattolici nel Pd saranno dei soprammobili. E cioè l'esatto contrario di ciò che sono sempre stati i cattolici democratici in Italia.

Corriere 6.2.13
E i cattolici applaudono il gran rabbino di Francia
L'«Osservatore Romano» cita la lezione della tradizione cabalistica
di Stefano Montefiori


PARIGI — «Battersi, discutere, ragionare, è un modo per fare riflettere le persone, affinché non si limitino ad adeguarsi al pensiero corrente, anche se ormai il dato è tratto», dice il gran rabbino di Francia, Gilles Bernheim, a proposito della sua opposizione al matrimonio tra omosessuali. Che la Francia avrebbe approvato le nozze gay si sapeva dall'estate scorsa, da quando il presidente François Hollande confermò che avrebbe mantenuto la promessa elettorale.
Ciò nonostante, da allora Bernheim spiega perché a suo avviso si tratta di un errore, così come fanno gli altri rappresentanti religiosi: il cardinale André Vingt-Trois, il presidente del Consiglio del culto musulmano Mohammed Moussaoui, il pastore protestante Claude Baty, il metropolita greco-ortodosso Emmanuel Adamakis.
Il no è espresso per motivi diversi, e un vero e consapevole «fronte delle religioni» si è formato esclusivamente per affermare il diritto di intervenire nella questione. Il Partito socialista al governo e alcune voci dell'esecutivo nei mesi scorsi hanno più volte evocato un'ingerenza indebita visto che la legge in discussione riguarda i matrimoni civili. «Ma la fede non è un oscurantismo dal quale occorre liberare gli spiriti», dissero i religiosi in una dichiarazione comune. Per il resto, ogni culto ha più volte ribadito che non c'è un'alleanza dei credenti contro i laici, che la riflessione sul matrimonio è trasversale.
Le posizioni più vicine sono comunque quelle tra Chiesa cattolica e comunità ebraica. Il 18 ottobre scorso Bernheim ha pubblicato il saggio «Quel che spesso ci si dimentica di dire», che il 21 dicembre è stato lungamente citato da Benedetto XVI nel suo discorso annuale alla curia romana. «Il grande rabbino di Francia Gilles Bernheim — scrive il Papa — in un trattato accuratamente documentato e profondamente toccante, ha mostrato che la minaccia all'autentica forma della famiglia, costituita da un padre, una madre e un bambino, raggiunge una dimensione ancora più profonda (...); in gioco in realtà c'è quel che significa essere una persona umana». Ieri il testo di Bernheim è stato commentato anche sull'Osservatore Romano, dal rabbino di Torino, Alberto Moshe Somekh, che ha ricordato «la lezione dello Zòhar». Lo Zòhar è il libro più importante della tradizione cabalistica, nel quale si trova l'idea (in parte simile al mito platonico del Simposio) dell'amore come ricongiunzione di due creature nella loro unità preesistente.
«Lo Zòhar sostiene che Dio creò esclusivamente androgini — scrive il rabbino Somekh —: "Li divise in due, separando il maschio dalla femmina, e li mise uno di fronte all'altro. E quando la donna si ricongiunse con l'uomo D. li benedisse, come nel corso della cerimonia nuziale"». «L'omosessualità non fa parte del piano della Creazione — conclude il rabbino —. Solo nell'unione solenne di marito e moglie trova dimora la Presenza Divina».

il Fatto 6.2.13
Scelte di campo
Polizia alleata dei genitori cattolici
Il Viminale lancia una campagna sui minori in rete
Ma lo fa col Moige, l’associazione che condanna l’uso del profilattico
di Chiara Daina


Un bambino lasciato solo in balia di un computer è come un bambino lasciato solo, nella sua stanza, nelle mani di un estraneo. Un messaggio, forte, che la Polizia di Stato ha diffuso in un video ieri (online per 72 ore), in occasione del Safer internet day, la giornata europea dedicata alla sicurezza sul web. I minori, nativi digitali, navigano sprovveduti nel mondo virtuale, e se i genitori, disattenti o inesperti, lasciano correre, la Polizia postale può offrire un pronto intervento. Entro il primo semestre del 2013 nascerà un nuovo commissariato, di tipo virtuale: uno sportello online, visibile anche sui social network, per rispondere alle domande degli utenti, in particolare i ragazzi, sulle insidie e i disagi della rete (al momento esiste solo un ufficio fisico per ricevere informazioni o fare segnalazioni di reati che avvengono su Internet). Lo ha annunciato, sempre ieri, Antonio Apruzzese, direttore del reparto comunicazione, alla presenza del ministro dell'Istruzione, Francesco Profumo, che per conto suo ha anticipato il piano di cyber-formazione per presidi e insegnati a cui sta lavorando il ministero.
IL CYBERBULLISMO (il bullismo virtuale) è una deriva del binomio minori e Internet. I dati sul fenomeno non sono di conforto. Da un'indagine realizzata da Ipsos per Save the children, oltre la metà delle vittime (67%) si rifiuta di andare a scuola (il rendimento scolastico peggiora nel 38% dei casi) e non vuole più uscire con gli amici o fare sport. In molti smettono di confidarsi (45%) e c'è il rischio che cadano in depressione (57%), o si facciano del male (63%). L'isolamento è la diretta conseguenza e un dolore interiore e dilagante è il segno che rimane in chi subisce il bullismo virtuale, sicuramente più crudele di quello faccia a faccia perché nella piazza virtuale insulti, video e foto diffamanti girano senza limiti di tempo e di spazio. Il web fa paura, è una cassa di risonanza che potenzialmente raggiunge tutto il pianeta. Allarmanti anche i numeri sulla pedopornografia, diffusi dalla Polizia: nel 2012 i minori abusati sono stati 27, 15 in più rispetto al 2011. Sono aumentati gli arresti (78 contro i 49 dell'anno precedente) ma sono calate le denunce (327 rispetto alle 777 registrate nel 2011). In questo momento sono monitorati oltre 24.610 siti considerati sospetti, di cui 461 presentano contenuti pedopornografici e 1.486 (1.062 nel 2011) sono stati inseriti nella “black list”.
Nella stessa giornata in cui Polizia postale e governo lanciavano misure di prevenzione e contrasto, il Moige, il movimento italiano genitori vicino alla Chiesa (quello, per intenderci, che l'anno scorso assieme a Famiglia cristiana ha condannato il discorso che Fiorello fece durante il suo show in difesa del profilattico) promuoveva dentro il Viminale il progetto “Per un web sicuro”, in sinergia con Trend micro, Cisco, Google Italy e la Polizia postale. Peccato che l'iniziativa sia riservata soltanto a 25 insegnanti, che dopo un giorno di formazione (precisamente, giovedì), saranno pronti, per i prossimi due mesi, a educare all'uso corretto di Internet i loro alunni, in tutto sette mila, e relative famiglie.
La ricerca del Moige parla chiaro: ormai quasi tutti i bambini (l'87,9% su un campione di 1000 minori) navigano in rete quotidianamente. Di questi, la maggior parte (57,6%) usa il computer senza il controllo dei genitori. Stanno su Internet soprattutto per fare nuove amicizie (26%). Quindi chattano (22,6%), ascoltano musica (20,3%) e giocano (17%). E sono furbissimi di fronte agli adulti: chi visita siti non adatti (11%) provvede subito a cancellare la cronologia (20%) oppure utilizza un'identità falsa (30%). È bene allora che i genitori tengano il computer in un'area comune, condividano le password con i figli e scelgano insieme a loro una lista di siti da visitare, spiegando che non devono mai fornire informazioni sensibili.

La Stampa 6.2.13
“Per combattere la pedofilia proseguiremo sulla linea del rigore”
Lo ha detto il successore di mons. Scicluna, don Oliver nuovo "pubblico ministero" del Vaticano

Il picco di denunce? Le 800 del 2004
di Alessandro Speciale
qui

La Stampa 6.2.13
Abusi, il picco nel 2004 con 800 casi
Vaticano:«Ogni anno 600 denunce contro i preti»


Il picco di denunce di abusi su minori da parte del clero è avvenuto nel 2004 con ottocento casi. Poi la situazione si è attestata sulle 600 denunce l’anno, ma molte si riferiscono a episodi avvenuti tra gli anni ’60 e gli anni ’80. A dichiararlo è il nuovo promotore di giustizia della Congregazione della dottrina della fede Robert W. Oliver (foto) che ha sostituito monsignor Charles Scicluna. Padre Oliver proviene da Boston dove si è occupato con il cardinale Sean O’Malley di restituire dignità a una diocesi ferita dai crimini dei preti ma anche dall’incapacità di reprimerli dimostrata dal precedente arcivescovo Bernard Law. Il sacerdote giurista ha ricordato come l’obbligo di rivolgersi alle autorità civili, previsto dalle ultime linee guida indicate nel 2011, valga «per tutti».

Repubblica 6.2.13
Se pure Keynes è un estremista
di Barbara Spinelli

I PRÌNCIPI che ci governano, il Fondo Monetario, i capi europei che domani si riuniranno per discutere le future spese comuni dell’Unione, dovrebbero fermarsi qualche minuto davanti alla scritta apparsa giorni fa sui muri di Atene: «Non salvateci più!», e meditare sul terribile monito, che suggella un rigetto diffuso e al tempo stesso uno scacco dell’Europa intera. Si fa presto a bollare come populista la rabbia di parte della sinistra, oltre che di certe destre, e a non vedere in essa che arcaismo anti-moderno.

A differenza del Syriza greco le sinistre radicali non si sono unite (sono presenti nel Sel di Vendola, nella lista Ingroia, in parte del Pd, nello stesso Movimento 5 Stelle), ma un presagio pare accomunarle: la questione sociale, sorta nell’800 dall’industrializzazione, rinasce in tempi di disindustrializzazione e non trova stavolta né dighe né ascolto. Berlusconi sfrutta il malessere per offrire il suo orizzonte: più disuguaglianze, più condoni ai ricchi, e in Europa un futile isolamento. Sul Messaggero del 30 gennaio, il matematico Giorgio Israel denuncia l’astrattezza di chi immagina «che un paese possa riprendersi mentre i suoi cittadini vegetano depressi e senza prospettive, affidati passivamente alle cure di chi ne sa». Non diversa l’accusa di Paul Krugman: i governanti, soprattutto se dottrinari del neoliberismo, hanno dimenticato che «l’economia è un sistema sociale creato dalle persone per le persone». Questo dice il graffito greco: se è per impoverirci, per usarci come cavie di politiche ritenute deleterie nello stesso Fmi, di grazia non salvateci. Non è demagogia, non è il comunismo che constata di nuovo il destino di fatale pauperizzazione del capitalismo. È una rivolta contro le incorporee certezze di chi in nome del futuro sacrifica le generazioni presenti, ed è stato accecato dall’esito della guerra fredda.
Da quella guerra il comunismo uscì polverizzato, ma la vittoria delle economie di mercato fu breve, e ingannevole. Specie in Europa, la sfida dell’avversario aveva plasmato e trasformato il capitalismo profondamente: lo Stato sociale, il piano Marshall del dopoguerra, il peso di sindacati e socialdemocrazie potenti, l’Unione infine tra Europei negli anni ’50, furono la risposta escogitata per evitare che i popoli venissero tentati dalle malie comuniste. Dopo la caduta del Muro quella molla s’allentò, fino a svanire, e disinvoltamente si disse che la questione sociale era tramontata, bastava ritoccarla appena un po’.
È la sorte che tocca ai vincitori, in ogni guerra: il successo li rende ebbri, immemori. Facilmente degenera in maledizione. Le forze accumulate nella battaglia scemano: distruggendo il consenso creatosi attorno a esse (in particolare il consenso keynesiano, durato fino agli anni ’70) e riducendo la propensione a inventare il nuovo. Forse questo intendeva Georgij Arbatov, consigliere di politica estera di molti capi sovietici, quando disse alla fine degli anni ’80: «Vi faremo, a voi occidentali, la cosa peggiore che si possa fare a un avversario: vi toglieremo il nemico”. Quando nel 2007-2008 cominciò la grande crisi, e nel 2010 lambì l’Europa, economisti e governanti si ritrovarono del tutto impreparati, sorpassati, non diversamente dal comunismo reale travolto dai movimenti nell’89.
È il dramma che fa da sfondo alle tante invettive che prorompono nella campagna elettorale: gli attacchi dei centristi a Niki Vendola e alla Cgil in primis, ma anche al radicalismo della lista Ingroia, a certe collere sociali del Movimento 5 stelle, non sono una novità nell’Italia dell’ultimo quarto di secolo. Sono la versione meno rozza della retorica anticomunista che favorì l’irresistibile ascesa di Berlusconi, poco dopo la fine del-l’Urss, e ancora lo favorisce. Il nemico andava artificiosamente tenuto in vita, o rimodellato, affinché il malaugurio di Arbatov non s’inverasse. Se la crisi economica è una guerra, perché privarsi di avversari così comodi, e provvidenzialmente disuniti? Quando Vendola dice a Monti che occorrerà accordarsi sul programma, nel caso in cui la sinistra governasse col centro, il presidente del Consiglio alza stupefatto gli occhi e replica: «Ma stiamo scherzando?», quasi un impudente eretico avesse cercato di piazzare il suo Vangelo gnostico nel canone biblico. Anche i difensori di Keynes sono additati al disprezzo: non sanno, costoro, che la guerra l’hanno persa anch’essi, nelle accademie e dappertutto?
In realtà non è affatto vero che l’hanno persa, e che lo spettro combattuto da Keynes sia finito in chiusi cassetti. Quando in Europa riaffiora la questione sociale – la povertà, la disoccupazione di massa – non puoi liquidarla come fosse una teoria defunta. È una questione terribilmente moderna, purtroppo. La ricetta comunista è fallita, ma il capitalismo sta messo abbastanza male (non quello della guerra fredda: quello decerebrato e svuotato dalla fine della guerra fredda). Non è rovinato come il comunismo sovietico, ma di scacco si tratta pur sempre.
È un fallimento non riuscire ad ascoltare e integrare le sinistre che in tantissime forme (anche limitandosi a combattere illegalità e corruzione politica) segnalano il ritorno non di una dottrina ma di un ben tangibile impoverimento. Prodi aveva visto giusto quando scommise sulla loro responsabilizzazione, e li immise nel governo. Fu abbattuto dalla propaganda televisiva di Berlusconi, ma la sua domanda non perde valore: come fronteggiare le crisi se non si coinvolge il malcontento, compreso quello morale? Ancor più oggi, nella recessione europea che perdura: difficile sormontarla senza il rispetto, e se possibile il consenso, dei nuovi dannati della terra.
Forse abbiamo un’idea falsa delle modernità. Moderno non è chi sbandiera un’idea d’avanguardia. È, molto semplicemente, la storia che ci è contemporanea: che succede nei modi del tempo presente. Se la questione sociale ricompare, questa è modernità e moderni tornano a essere il sindacalismo, la socialdemocrazia, che per antico mestiere tentano di drizzare le storture capitaliste – con il welfare, la protezione dei più deboli. Sono correzioni, queste sì riformatrici, che non hanno distrutto, ma vivificato e potenziato il capitalismo. È la più moderna delle risposte, oggi come nel dopoguerra quando le democrazie del continente si unirono. Non a caso viene dal più forte sindacato d’Europa, il Dgb tedesco, una delle più innovative proposte anti-crisi: un piano Marshall per l’Europa, gestito dall’Unione, simile al New Deal di Roosevelt negli anni ’30.
Dicono che i vecchi rimedi keynesiani – welfare, cura del bene pubblico – accrescono l’irresponsabilità individuale e degli Stati, assuefacendoli all’assistenza. Paventato è l’azzardo morale: bestia nera per chi oggi esige duro rigore. L’economista Albert Hirschman ha spiegato come le retoriche reazionarie abbiano tentato, dal ’700-800, di bloccare ogni progresso civile o sociale (Retoriche dell’intransigenza, Il Mulino). Fra gli argomenti prediletti ve ne sono due, che nonostante le smentite restano attualissimi: la tesi della perversità, e della messa a repentaglio. Ogni passo avanti (suffragio universale, welfare, diritti individuali) perfidamente produce regresso, o mette a rischio conquiste precedenti. «Questo ucciderà quello», così Victor Hugo narra l’avvento del libro stampato che uccise le cattedrali. Oggi si direbbe: welfare o redditi minimi garantiti creano irresponsabilità.
Quanto ai matrimoni gay, è la cattedrale dell’unione uomo-donna a soccombere, chissà perché. Non è scritto da nessuna parte che la storia vada fatalmente in tale direzione. In astratto magari sì, ma se smettiamo di dissertare di «capitale umano» e parliamo di persone, forse l’azzardo morale diventa una scommessa vincente, come vincente dimostrò di essere nei secoli passati.

il Fatto 6.2.13
Se i media sono complici del lifting di Berlusconi
di Loris Mazzetti


Berlusconi ha ragione, quando ha detto: “Che culo”, a commento delle due reti di Balotelli. Lo compra (primo colpo di scena), i suoi gol permettono al Milan di agguantare l’Inter quarta in classifica. I media, invece di alimentare la campagna elettorale di contenuti, prendono al volo il ritorno di Balotelli per strombazzare: per Silvio la rimonta non è impossibile. Berlusconi (secondo colpo di scena) annuncia: “In caso di vittoria, al primo Consiglio dei ministri rimborserò l’Imu, in cinque anni toglierò l’Irap alle imprese, non farò la patrimoniale e non aumenterò l’Iva. I soldi li troverò chiudendo l’accordo con la Svizzera e tagliando 16 miliardi dalla spesa pubblica”. Balle che funzionano sempre. Lo ha capito anche Monti che lo sta inseguendo sullo stesso terreno.
ANCORA UNA VOLTA sarà la televisione a decidere il vincitore. Infatti è in tv (La7) che il Cavaliere, lo scorso lunedì, ha annunciato (terzo colpo di scena) il condono tombale. Da oltre un mese se ne è impossessato come fece nel 2006, quando da sicuro sconfitto, arrivò a superare Prodi al Senato, quel tanto per non farlo governare. Il più grande piazzista del mondo (definizione di Montanelli)
sa cosa raccontare al suo popolo. In questo momento si sta rivolgendo a chi, nell’ultimo periodo del suo governo, è andato ad ingrassare la percentuale degli indecisi a causa del bunga bunga, di Ruby, delle olgettine. Fatti che insieme ai processi per concussione, prostituzione minorile, alla condanna in primo grado per “evasione fiscale notevolissima” e al conflitto d’interessi, raramente vengono approfonditi nei talk show. I conduttori di radio e tv, all’insaputa del pubblico, si stanno prestando ad un profondo intervento chirurgico dell’immagine di Berlusconi. Concordano con lo staff gli argomenti, i giornalisti da invitare, in cambio di una garantita impennata dell’audience. Con la presenza del leader del Pdl il programma si trasforma nella solita commedia all’italiana, dove è lui a dettare tempi e argomenti. Una volta sbatte un cartello in testa a Damilano dell’Espresso, un’altra obbliga Travaglio ad alzarsi spingendolo per un braccio e sceneggiando con un fazzoletto la disinfestazione della sedia. Per il telespettatore l’informazione che non dà un’immagine reale del Paese è fiction. Al momento solo Grillo è in grado di tenergli testa in tv, tutti gli altri svolgono il ruolo di comprimari. Secondo Renzi neanche il mago Silvan riuscirebbe a far dimenticare le malefatte di Berlusconi. La tv sì.

La Stampa 6.2.13
La denuncia dell’organizzazione di Soros
I rapimenti della Cia L’Italia ha collaborato in almeno 46 occasioni
di Paolo Mastrolilli


Sono almeno 54 i Paesi coinvolti nel trasferimento di 136 presunti jihadisti

Il caso di Abu Omar è solo la punta dell’iceberg nella collaborazione che l’Italia ha offerto al programma americano delle «extraordinary rendition», lanciato dall’amministrazione Bush dopo l’11 settembre 2001. Almeno in 46 casi, due documentati nei tribunali Usa, gli aerei operati a nome della Cia per trasportare i detenuti hanno fatto sosta nel nostro Paese. Questo sostiene un rapporto pubblicato dalla «Open Society Foundations», l’organizzazione di George Soros, che esce dopo la condanna in appello a 7 anni di prigione per Jeffrey Castelli, capo della Cia a Roma all’epoca del rapimento di Abu Omar, e la decisione del governo Monti di chiedere l’estradizione per uno solo dei 23 americani incriminati, Robert Seldon Lady.
Lo studio s’intitola «Globalizing Torture: Cia Secret Detention and Extraordinary Rendition», è lungo oltre 200 pagine, e rivela che almeno 54 Paesi hanno collaborato con Washington per arrestare, trasferire e interrogare 136 presunti terroristi, che potevano avere informazioni su Al Qaeda e i suoi piani per nuovi attacchi. Alcune fonti sono pubbliche, come il rapporto sulle «rendition» del 2007 dal Parlamento europeo; altre sono conversazioni riservate con membri del governo americano, e documenti legali.
L’Italia è citata per il caso di Abu Omar, l’imam di Milano arrestato e portato in Egitto, ma anche per quelli di Abou Elkassim Britel e Maher Arar. Il primo era cittadino del nostro Paese, fu arrestato in Pakistan nel 2002 e poi trasferito in Marocco per gli interrogatori. Secondo «Globalizing Torture» il ministero degli Interni era al corrente dell’operazione e aveva collaborato con i servizi stranieri. Arar invece sarebbe passato da Roma nel viaggio da Washington in Siria. Il rapporto sostiene che i voli segreti della Cia hanno fatto sosta in Italia almeno 46 volte, trasportando presunti terroristi come Bisher Al-Rawi, Jamil ElBanna, Khaled El-Masri, Binyam Mohammed, Ahmed Agiza e Mohammed El Zari.
Queste denunce erano contenute già nel rapporto del 2007 del Parlamento europeo, ma non sono state confermate da Roma, e lo studio di Open Society aggiunge due tasselli recuperati nei tribunali americani. Secondo i documenti, «tra il 2003 e il 2004 almeno due voli operati dalla Richmor Aviation, una compagnia che gestiva gli aerei delle rendition, sono atterrati in Italia. Questi voli includevano il numero N85VM, che si fermò a Roma tra il primo e il 3 marzo 2003, e il numero N85VM che si fermò a Napoli fra il 3 e il 7 maggio 2004». Qui ci sarebbe la prova che l’uso dello spazio aereo e degli scali italiani non sarebbe solo una voce.

Corriere 6.2.13
Sterilizzazione eugenetica, il mito della razza perfetta
risponde Sergio Romano


Ho letto recentemente che negli anni Venti in America, in particolare in Virginia e in California, vi furono numerosi casi di sterilizzazione forzata per impedire la riproduzione di persone affette da demenza, o da un basso quoziente d'intelligenza e persino da epilessia. L'ho trovato sorprendente, poiché pensavo che l'eugenetica fosse appannaggio dei regimi totalitari, in particolare del nazisti. Scopro che le stesse idee erano condivise dagli americani? Ho capito bene?
Saskia von Humboldt

Cara Signora,
Il caso è scoppiato in Virginia dove un vecchio signore, l'ottantacinquenne E. Lee Reynolds, ha chiesto d'essere indennizzato per la sterilizzazione subita quando, appena adolescente, era stato brutalmente picchiato da un cugino. Soffrì a lungo di crisi apoplettiche e sembrò che quella terribile vicenda avrebbe fatto di lui una sorta di relitto umano. Le cose, per fortuna, andarono diversamente. Reynolds si arruolò nel corpo dei marines, combatté in Corea e in Vietnam, fu congedato dopo trent'anni di onorato sevizio. Ma nel frattempo lo Stato della Virginia si era valso di una legge promulgata nel 1924 per ordinare la sua sterilizzazione. Occorreva evitare che la sua tabe (come venivano chiamate allora le malattie croniche degenerative) si trasmettesse alle future generazioni.
La Virginia non era allora il solo Stato in cui il Parlamento avesse adottato un «Eugenetic Sterilization Act», una legge per la sterilizzazione eugenetica. Il primo era stato l'Indiana nel 1907, seguito da altri 32, e gli sterilizzati sarebbero stati, complessivamente, non meno di sessantamila. Per compensare Reynolds due deputati della Virginia hanno depositato un progetto di legge che prevede il pagamento di 50.000 dollari, ma qualcuno ha cominciato a chiedersi quante persone avanzerebbero la stessa richiesta e quanto costerebbe ai singoli Stati, spesso pesantemente indebitati, l'applicazione di una legge che sembrava allora necessaria al futuro dell'umanità. In un articolo dedicato al caso Reynolds, il Washington Post del 31 gennaio ricorda che la norma sulla sterilizzazione forzata venne approvata con il parere favorevole degli scienziati dell'Università della Virginia. Vi fu qualcuno, per la verità, che decise di ricorrere alla Corte Suprema, ma il ricorso fu bocciato con una motivazione redatta da Oliver Wendell Holmes, ancora oggi venerato nelle facoltà di giurisprudenza degli Stati Uniti come uno dei massimi giuristi del XX secolo. La norma era giusta e opportuna, secondo Holmes, per evitare che la società fosse «travolta dall'incompetenza».
Aggiungo, cara Signora, che le leggi sulla sterilizzazione eugenetica erano spesso accompagnate da leggi sull'«integrità razziale» in cui si stabiliva, tra l'altro, quanto sangue «bianco» fosse necessario per essere considerati «caucasici», come venivano definite negli Stati Uniti le persone di pelle chiara. Eugenetica e razzismo hanno ascendenti diversi. La prima è figlia del grande progresso degli studi medici nel clima positivista dell'Occidente fra Ottocento e Novecento. Il secondo è il figlio bastardo dei miti romantici sulla razza perfetta. Ma quando marciano insieme, come nella Germania nazista, diventano strumenti di oppressione e sterminio.

il Fatto 6.2.13
Romania. Proposta choc “Sterilizziamo le rom”


Sterilizzare le donne rom come rimedio all’espansione di questa etnia. La proposta choc arriva dalla Romania, per bocca di Rares Buglea, presidente locale dei giovani Liberali di Alba Iulia (il partito di centro). L’annuncio lo fatto direttamente sulla sua pagina Facebook, mettendo subito le mani avanti: “So di poter suscitare aspre critiche da parte di falsi moralisti; ma continuo a pensare che si debba procedere alla sterilizzazione delle donne rom dopo che queste hanno messo al mondo il primo figlio, se non dimostrano concretamente di poterlo crescere in condizioni umane”. La dichiarazione ha fatto subito il giro della rete e le proteste, anche dai toni violenti, non hanno tardato ad arrivare in particolare da una parte del Pnl (il partito liberale attualmente parte della coalizione di governo Usl), che ha indotto Buglea alle dimissioni, “fino a quando questo caso non verrà chiarito”. Un altro esponente dello stesso partito ha detto di ritenere che una tale proposta equivale a un “genocidio”. I rom costituiscono l’8-9 per cento (620 mila persone) dei circa 20 milioni di abitanti della Romania.
In passato, ci aveva provato il gruppo ultranazionalista Nat88 di Timisoara a frenare le nascite rom, lanciando sul suo sito internet l’offerta di “un compenso di 300 lei (68 euro) a ogni donna zingara della regione del Banato che mostri la documentazione medica che attesti di essersi volontariamente sottoposta ad un intervento di sterilizzazione nel 2013”.

La Stampa 6.2.13
Russia, si fortifica l'alleanza "trono-altare"
I primi quattro anni di patriarcato di Kirill, la sintonia con Putin e Medvedev. La chiesa ortodossa protagonista con il sostegno dello Stato
di Giacomo Galeazzi

qui

l’Unità 6.2.13
La svolta di Hollande: integrazione e istituzioni europee più forti
Discorso a Stasburgo: più solidarietà ma anche riforme
Sabato il messaggio ai progressisti a Torino
di Marco Mongiello


«Basta con l'austerità e i tagli al bilancio dell'Ue. Ci vuole più solidarietà, ma anche più integrazione europea: «La Francia è pronta». È con queste parole, pronunciate ieri al Parlamento europeo a Strasburgo, che il presidente francese Francois Hollande ha segnato un ulteriore cambio di rotta rispetto al suo predecessore. Parigi chiede più solidarietà economica, ma è anche disponibile a rilanciare il cantiere delle riforme europee, fino ad oggi frenato dal rifiuto dell'ex presidente francese Nicolas Sarkozy a qualsiasi cessione di sovranità.
Un discorso significativo quello del leader socialista che arriva a due giorni dal cruciale summit Ue sul bilancio, che si terrà giovedì e venerdì a Bruxelles, e a cui seguirà sabato l'incontro dei progressisti europei a Torino a cui parteciperà il segretario del Pd Pier Luigi Bersani. In un momento in cui la sinistra dell'Ue si prepara a incidere sempre di più sulle politiche e sulle riforme comunitarie Hollande darà il suo contributo con un video messaggio e con un segnale di apertura per il superamento delle storiche difficoltà della Francia a seguire la Germania sulla via dell'integrazione.
«Da troppo tempo l'Europa dubita di se stessa e delle sue scelte, impiega troppo tempo per adottare decisioni importanti e spende poco tempo a riflettere sulle sue linee guida e sulla sua architettura d'insieme», ha detto il presidente francese di fronte agli eurodeputati. L'Europa, ha continuato, alludendo alle prese di posizione euroscettiche del premier britannico David Cameron, «non può accontentarsi di essere un mercato, un bilancio, una moneta o una somma di trattati» ma deve essere «un impegno dove si accettano diritti e doveri», «un progetto in cui non possiamo rimettere tutto in questione ad ogni tappa» e non «una somma di nazioni in cui ognuno cerca di prendere dall'Unione quello che gli torna utile».
Utilizzando una definizione dell'ex presidente della Commissione europea francese, Jacques Delors, Hollande si è detto a favore di un'Europa «differenziata», che è diversa da un'Europa a due velocità perché questa diventerebbe rapidamente «diseguale e divisa».
L'Europa differenziata, secondo il presidente francese, è quella «in cui degli Stati, non sempre gli stessi, decidono di andare avanti, di avviare nuovi progetti o di stanziare nuovi finanziamenti», ma in cui «le fondamenta restano comuni». Per il leader socialista quindi «è giunto il momento di lanciare il grande cantiere del rafforzamento economico e monetario. La Francia è pronta».
Questa volta però Parigi punta alla costruzione di vere istituzioni comunitarie forti e non a resuscitare i vertici franco-tedeschi del vecchio «Merkozy», il duetto composto dall'ex presidente francese Sarkozy e dalla Cancelliera tedesca Angela Merkel, che negli
anni passati ha puntualmente dettato la linea prima di ogni summit europeo. «Le buone relazioni tra Francia e Germania sono un bene per l'Europa», ha detto Hollande, «ma è stata l'alleanza Merkozy a fare danni all'Ue».
Ad essere bocciate sono soprattutto le politiche di austerità, perché secondo il presidente francese gli obiettivi di risanamento dei bilanci nazionali «devono essere aggiustati in base alla congiuntura». La politica economica inoltre deve essere «adeguata alle condizioni nazionali ha detto altrimenti condanniamo l'Europa ad una austerità senza fine» e i Paesi che hanno eccedenze «devono rilanciare la domanda interna» per favorire la ripresa.
Un messaggio, quest'ultimo, diretto soprattutto alla Germania, con cui Hollande non condivide neanche la scelta di lasciare che l'euro si apprezzi troppo rispetto alle altre valute.
«L'Europa ha denunciato sta lasciando l'euro vulnerabile ai movimenti irrazionali in un senso o nell'altro. Un'area monetaria deve avere una politica dei tassi di cambio o altrimenti sarà soggetta a tassi di cambio che non corrispondono allo stato reale della sua economia». Il presidente francese ha chiesto quindi di avviare «una riforma del sistema monetario internazionale» e un cambio una politica monetaria nell'Ue che non dipenda solo dalla Banca centrale europea, che è indipendente, ma anche dai governi.
Infine il presidente francese ha chiesto di trovare un compromesso accettabile per il bilancio europeo del periodo 2014-2020. Al summit che inizia domani, ha detto, «dovremo far ragionare chi vuole amputare il bilancio europeo». Per Hollande i tagli alla spesa «non devono minare la crescita». Quindi «fare economie, sì, indebolire l'economia, no».
A Bruxelles però le ultime voci sulle bozze di compromesso parlano di ulteriori sforbiciate al già ridotto bilancio dell'Ue, che rappresenta appena l'1% del Pil totale. Inoltre i nuovi tagli proposti colpirebbero proprio le voci destinate a crescita, occupazione, ricerca e grandi infrastrutture. Ieri il presidente del Consiglio Ue Herman Van Rompuy ha lanciato un ultimo appello agli Stati membri affinché non taglino «quello che ora serve davvero, cioè crescita e occupazione» né »quello che serve per il futuro, cioè ricerca e innovazione».

l’Unità 6.2.13
Barack in Israele per la prima volta da presidente
di Umberto De Giovannangeli


La prima volta da presidente in Israele e nei Territori palestinesi. La prima volta del presidente Barack Obama. L'indiscrezione raccolta dalla tv israeliana è stata di fatto confermata dalla Casa Bianca. Il portavoce Jay Carney ha riferito che nella telefonata tra Obama e il premier israeliano, Benjamin Netanyahu del 28 gennaio, i due leader hanno discusso di una visita in primavera del presidente americano
Obama è stato in Israele prima di essere eletto ma mai da quando da gennaio del 2009 è alla Casa Bianca. All’inizio del suo mandato, ostentando un eccessivo ottimismo, aveva previsto grandi sviluppi per i negoziati israelo-palestinesi. Ottimismo infrantosi sull’intransigenza di Netanyahu (e dei suoi piani di espansione delle colonie) con il quale rapporti sono sempre stati freddi, e con le iniziative giudicate «avventate» dell’Anp, come il riconoscimento dello status di «Stato non membro» Onu, bocciato da Washington.
Obama rilancia dunque il suo impegno in prima persona per il processo di pace in Medio Oriente. Secondo la tv israeliana Canale 10, la visita inizierà il 20 marzo dopo la formazione di un nuovo governo in Israele e prima dell’inizio della Pasqua ebraica e durerà tre giorni. Obama, secondo l’emittente, intende in questa occasione «fare grandi cose» per rilanciare il processo di pace. La televisione ha appreso che funzionari americani sono già arrivati in Israele per discutere diversi aspetti della visita. Sempre secondo l’emittente israeliana, il presidente Usa visiterà anche Turchia, Egitto e Arabia Saudita.
L’ultimo viaggio di Obama in Israele risale all’estate del 2008 quando era solo senatore dell’Illinois e candidato alla Casa Bianca. Il portavoce del Consiglio Nazionale per la Sicurezza, Tommy Vietor, ha chiarito che la coincidenza tra «l’inizio del secondo mandato del presidente e la formazione del nuovo governo israeliano offre l’opportunità di riaffermare i profondi e duraturi legami tra gli Stati Uniti e Israele e per confrontarsi su come procedere su un vasto spettro di temi fonti di comune preoccupazione, incluso l’Iran e la Siria».
NUOVO INIZIO
La notizia della storica visita del capo della Casa Bianca in Israele e nei Territori palestinesi, arriva il giorno in cui la Bulgaria ha apertamente accusato Hezbollah, il partito sciita libanese, di aver organizzato l’attentato del 18 luglio del 2012 a Burgas, dove nei pressi dell'aeroporto un uomo si fece esplodere all’interno di un bus di turisti israeliani causando sei morti, cinque cittadini ebrei e l’autista di nazionalità bulgara. «Abbiamo delle informazioni ull’appartenenza a Hezbollah di due persone», incluso il kamikaze che ha operato l’attacco, ha dichiarato ai giornalisti il ministro dell’Interno bulgaro, Tsvetan Tsvetanov.
La notizia ha provocato l’immediata reazione di Washington e di Israele. Il consigliere speciale di Obama e futuro capo della Cia, John Brennan, ha chiesto ai Paesi europei di adottare «delle misure preventive» per contrastare le infrastrutture e i finanziamenti diretti all’ala armata del partito libanese. Il primo ministro israeliano, Benyamin Netanyahu, ha invitato l’Unione Europea a «tirare le conclusioni sulla vera natura di Hezbollah», che lo Stato ebraico ha fin dall'inizio indicato come responsabile dell’attentato. Le accuse contro l’organizzazione sciita potrebbero fornire agli Stati Uniti un argomento di pressione nei confronti di Bruxelles, affinché includa il movimento, grande alleato di Iran e Siria, nella lista delle organizzazioni terroristiche.

l’Unità 6.2.13
Il quaderno mancante
Lo Piparo rilancia la sua tesi del testo sparito di Gramsci
Sarebbe il trentesimo: «Poteva contenere affermazioni critiche nei confronti di Togliatti o del comunismo sovietico» sostiene lo storico nel libro appena uscito per Donzelli
di Oreste Pivetta


TRENTA. OPPURE UNA TRENTINA. LA DIFFERENZA NON È DI SCARSO RILIEVO. PARLIAMO DEI QUADERNI DI ANTONIO GRAMSCI, FONDATORE A LIVORNO DEL PARTITO COMUNISTA, fondatore dell’Unità, morto il 27 aprile 1937, in una clinica romana, dopo anni di carcere fascista. Lasciando in eredità la propria storia, il proprio esempio e quei quaderni, affidati a Tatiana Schucht, la cognata, che alla famiglia comunicò in una lettera, in russo, così: «... sono in tutto XXX pezzi e alcuni di essi hanno duecento pagine». Sembrerebbe tutto chiaro. Senonché in altra traduzione si può leggere: «I quaderni di Antonio saranno una trentina...».
Una vaghezza che di per sé giustificherebbe il fatto che si parli sempre di ventinove quaderni soltanto (altri quattro si contano, ma contengono solo esercizi di traduzione), quanti si conservano presso la Fondazione Istituto Gramsci. La differenza nella traduzione ha indotto uno studioso, Franco Lo Piparo, ordinario di Filosofia del linguaggio a Palermo, a chiedersi (e a chiedere) se sia poi infondato sospettare la sparizione di un quaderno. Ne ha scritto in un libro, I due carceri di Gramsci (premio Viareggio) con un sottotitolo che spiega molto: «La prigione fascista e il labirinto comunista».
Ha ripreso il tema in un altro libro, appena uscito per l’editore Donzelli, titolo da spy story, L’enigma del quaderno, sottotitolo esplicativo: «La caccia ai manoscritti dopo la morte di Gramsci», ricostruzione, che si affida a strumenti linguistici (il «giallo» delle traduzioni), a «dati di fatto testuali», a perizie grafologiche e fotografiche, formulando ipotesi: che si tratti di un quaderno scritto quando Gramsci era ricoverato nella clinica Quisisana (quando s’era ormai peraltro convinto a raggiungere Mosca, una volta riguadagnata la piena libertà), che si tratti di un quaderno di ventisei pagine, che lo si potrebbe cercare tra le carte di Togliatti o di Sraffa.
Ascoltiamo Franco Lo Piparo. Perché avrebbero dovuto cancellare quel quaderno?
«Non lo conosciamo, non sappiamo che cosa contenesse. Avrebbe potuto contenere affermazioni molto critiche nei confronti di Togliatti, oppure nei confronti del comunismo sovietico, forse esprimeva giudizi più articolati sul fascismo, forse alludeva ad una sua possibile svolta politica...».
Siamo nel campo delle supposizioni....
«Gramsci può sempre sorprenderci, perché non si chiude mai nell’ortodossia, quando si riteneva l’ortodossia un valore, e legge il mondo alla luce della sua formazione marxista, ma privilegiando aspetti che non toccano solo i processi economici. Gramsci scrive di cultura, di libri, di letteratura, di costume. Il suo sguardo è originale e penetra la società utilizzando strumenti originali. Gramsci è già in questo senso un post comunista». Gramsci è soprattutto il grande intellettuale del Novecento, che ancora insegna...
«Certo, ma la sua attualità è legata proprio a una visione eterodossa della società dei suoi tempi, mai piattamente ideologica... Per questo riesce a indicarci percorsi di analisi ancora praticabili. A quali conclusioni sarebbe giunto non possiamo dire. Forse quelle pagine, che sospetto mancanti, avrebbero potuto aggiungere qualcosa. Gramsci liberale? Pare che la parola liberale dia fastidio. A me dà la sensazione di un lessico usurato. Che senso hanno certi termini, se non si aggiunge qualche aggettivo? Liberalismo, comunismo. E poi? Se leghiamo il comunismo con l’idea di giustizia sociale siamo d’accordo. Ma sappiamo che il comunismo non fu soltanto quello».
Lei cita (anche in questo caso annotando diversità di traduzione) una lettera di Togliatti a Dimitrov. Siamo nel 1941 e Togliatti allude a materiali che potrebbero danneggiare il partito.
«Togliatti prende tempo e intanto rivela quello che farà: un’opera di riaggregazione degli scritti, di ‘accurata redazione’, perché tutto venga utilizzato ‘come è opportuno e necessario’. Togliatti capisce di aver in mano qualcosa di importante per il movimento comunista. Intanto lo tiene per sè. Se ne riparlerà dopo la guerra».
Un personaggio emerge nel suo libro, arricchito in tutti i sensi, non solo postino dei quaderni, Sraffa... «Uomo intelligente, colto, capace di interloquire a proposito di linguistica con il più grande filosofo di sempre del linguaggio, Wittgenstein. Ma anche un agente del Comintern, convinto che per realizzare l’utopia dell’eguaglianza si possano usare le armi della violenza e che si possa persino sposare la brutale politica sovietica».
Un agente del Comintern che sottrae i quaderni al Comintern e di cui Gramsci nutre piena fiducia, però. E adesso?
«Bisogna cercare negli archivi, sapendo che non è indifferente lo spirito e l’orientamento con i quali si affronta la ricerca».

La Stampa TuttoScienze 6.2.13
Edoardo Boncinelli: “Byte, Dna e (forse) gli alieni: la vita non sarà più la stessa”
Teoria dell’informazione e biologia molecolare cambiano la concezione degli organismi
Ricerca di frontiera Il Dna sintetico può trasformarsi nell’archivio perfetto per il «Big Data»
di Gabriele Beccaria


Si racconta che l’idea sia sbocciata al pub, alla giusta gradazione alcolica: Nick Goldman e Ewan Birney, ricercatori dell’Ebi, l’Istituto di Bioinformatica di Cambridge, hanno pensato di sostituire i nastri magnetici e gli hard drives con un Dna sintetico e di utilizzarlo come archivio perfetto per immagazzinare il flusso di dati che la scienza produce giorno e notte. E, se è vero che un po’ d’alcol ha lubrificato i cervelli, Goldman e Birney non hanno fatto che ispirarsi alla natura: i geni sono stati progettati miliardi di anni fa proprio per classificare le istruzioni di montaggio e funzionamento degli organismi (e i risultati sembrano lusinghieri).
L’esperimento, pubblicato su «Nature», è finito sotto i riflettori di una discussione che trascende i confini disciplinari e coinvolge gli obiettivi della ricerca del XXI secolo: i concetti di vita e di informazione si intrecciano sempre di più, trasformando, prima di tutto, la concezione stessa di che cosa sia «vivo». Gli esseri viventi - spiega il genetista Edoardo Boncinelli, uno dei più celebri scienziati italiani - «sono fatti non solo di materia ed energia, ma di informazione. E non sarebbero tali senza una gestione specifica dell’informazione che contengono». Professore, se da una parte i computer cominciano a imitare le leggi darwiniane, imboccando la strada di im­ prevedibili metamorfosi, dall’altra parte che cosa si­ gnifica questa rivoluzione concettuale per le scienze biologiche? «La teoria dell’informazione e la biologia molecolare si illuminano a vicenda: portiamo in noi le istruzioni per l’uso - nascere, crescere e riprodurci - in una sorta di nastro, il Dna, appunto, scritto in un alfabeto di quattro lettere, A, C, G, T. Ma non basta. Se non si nutre continuamente ogni cellula, nessuna potrà fare il proprio mestiere. E allora da dove si prende questa ulteriore informazione? Le piante la afferrano dal Sole, noi dal cibo. L’informazione interna va sempre rinfrescata da quella esterna». Secondo le sue ricerche, ci so­ no due ulteriori caratteristi­ che che rendono la vita tanto interessante: ce le spiega? «La prima è che la vita non è più un dato di fatto, come si pensava al tempo del geocentrismo. Intorno a noi, nel Sistema solare, siamo soli e questo fa della vita l’eccezione, non la regola. La seconda caratteristica è la confutazione di un celebre paradosso. Fino alla prima metà del Novecento ci si interrogava sulla compatibilità dell’Universo, che va inesorabilmente verso il disordine, con la vita, che invece è ordine. Poi si è calcolato che, nel momento in cui genera ordine per esistere, un organismo mette in disordine l’habitat circostante e la somma algebrica dell’uno e dell’altro è a vantaggio dell’ordine perso. Ed ecco la risposta al paradosso, anche se la soluzione non è completa, perché - come spiego nel saggio “La scienza non ha bisogno di Dio” - resta aperta una questione: che cos’ha la vita di speciale da permetterle di moltiplicarsi, nonostante il principio del disordine crescente?».
E qual è la risposta? «A ogni essere viene consegnato un gruzzolo di informazioni e il messaggio è: “Quando è finito, è finito, e quindi usalo bene”. Solo lo sfruttamento oculato di quei dati permette di vivere e, quanto alla durata, dipende da specie a specie». Ma resta irrisolto il grande enigma: com’è nata la vita? Si potrà mai risolvere? «E’ un tema appassionante e si spendono cifre enormi per affrontarlo, ma finora i progressi sono stati pochi. Credo, però, che sia abbastanza ovvio, perchè la scienza per definizione si occupa di fenomeni riproducibili e l’origine della vita non è riproducibile per niente. Oggi si ritiene che all’origine non ci fosse il Dna, ma l’Rna, che all’inizio faceva alcuni “lavori” che oggi fanno le proteine. Tuttavia di quei primi momenti non sappiamo niente, come dei primi istanti del Big Bang. Per qualcuno significa che resteremo sempre all’oscuro e, invece, non è detto». Intanto si spera di trovare batteri alieni su Marte: lei co­ sa si aspetta? «La Nasa finanzia un’ossessione, quella incarnata da Robinson Crusoe. Ma, se e quando troveremo quei batteri, faremo il più grande test della storia. Non sappiamo se molto di ciò che attribuiamo alla vita sia necessario o contingente: il giorno in cui troveremo altre forme viventi risponderemo a tante domande. Penso che non ci sarò, ma provo una curiosità tremenda».