giovedì 7 febbraio 2013

l’Unità 7.2.13
Harlem Désir Il segretario del Ps francese:
«Unire gli europeisti. La vittoria del Pd favorirà la svolta»
«Culture politiche diverse possono incontrarsi stabilendo nuove priorità dell’agenda comune a iniziare dalla crescita»
«Serve un impegno comune anche sui temi della sicurezza e della politica estera»
di Umberto De Giovannangeli


«La costruzione di una Europa sociale, solidale, capace di coniugare rigore e crescita, è oggi il grande spartiacque tra progressisti e conservatori nei singoli Stati e a livello sovranazionale. Occorre chiudere definitivamente la stagione fallimentare dell’iper rigorismo della destra. Ed è attorno a questa svolta, di idee, di cultura, di progetto, che occorre ridefinire le alleanze». A sostenerlo è Harlem Désir,53 anni, segretario generale del Ps francese. Il leader dei socialisti francesi sarà tra i protagonisti del meeting «A common progressive European vision. Renaissance for Europe: peace, prosperity and progress», che si terrà sabato prossimo a Torino. Un nuovo europeismo è il terreno di incontro tra culture politiche diverse ma che hanno, come punto d’incontro, la consapevolezza, rimarca Dèsir, «che occorre definire nuove priorità nell’agenda comune, puntando con forza sulla crescita. Una crescita fondata su investimenti in settori strategici, quali la green economy, l’istruzione, le grandi infrastrutture. È il riformismo del Terzo millennio, quello che ha portato alla presidenza della Francia Francois Hollande e, mi auguro, Pier Luigi Bersani alla guida del prossimo governo italiano».
Lei sarà tra i leader europei protagonisti del meeting di Torino. Perché, in un’ottica europeista, è importante un successo elettorale del centrosinistra italiano e del suo leader, Pier Luigi Bersani?
«Perché significherebbe il rafforzamento di quella linea europeista, di una Europa sociale, solidale, partecipativa, che ha portato Francois Hollande all’Eliseo. Bersani è parte importante della definizione di una visione progressista dell’Europa, che rompe con l’iperrigorismo che ha segnato il ciclo conservatore. Occorre un salto di qualità nella definizione di una nuova governance europea che sia all’altezza della sfida decisiva: quella della crescita. L’Europa deve ricominciare ad essere sinonimo di speranza, di solidarietà, di nuove prospettive in un mondo messo in crisi dal dominio dei mercati finanziari. Su questo terreno, c’è una forte assonanza tra Hollande e Bersani. Francia e Italia possono insieme cambiare le priorità». L’Europa come centro dell’azione politica.
«Non può essere altrimenti. Cercare soluzioni nazionali per uscire dalla crisi non è solo sbagliato, è qualcosa di anacronistico. Vuol dire non fare i conti con i processi di globalizzazione, le cui dimensioni sono tali da non permettere a nessun Paese europeo, da solo, di poter competere. L’Europa è al centro della crisi mondiale, perché la destra non è stata capace di attaccare la speculazione, smantellando così lo stato sociale e aggravando la situazione. Abbiamo una grande responsabilità verso la Grecia, la Spagna e gli altri Paesi attaccati dalla speculazione finanziaria e la risposta a questa crisi deve essere europea, un’Europa differente che discuta di crescita e solidarietà, che disponga di una moneta comune e di una finanza comune, partecipe di un’avventura comune...».
In questo contesto, come s’inquadra il discorso pronunciato l’altro giorno a Strasburgo da Hollande. C’è chi ha parlato di una «svolta»...
«Non si tratta di una svolta, ma di un rafforzamento dell’impegno per l’Europa, sull’Europa, che Hollande ha portato avanti già in campagna elettorale e che sta caratterizzando la sua presidenza. Se di “svolta” si deve parlare, questa è rispetto alle fallimentari politiche conservatrici portata avanti dalla destra in Europa. L’Europa delineata da Hollande è un’Europa che abbia un di più di solidarietà, di equità, di politica comune non solo in campo economico e sociale, ma anche in ambiti determinanti quali la politica estera e di sicurezza. E questo, in chiave sovranazionale, significa anche, come riaffermato da Hollande a Strasburgo, porre un freno all’austerità e ai tagli al bilancio dell’Ue. Ciò non significa rifiutare tout court tagli alla spesa, significa che questi eventuali tagli non devono minare la crescita».
Qual è la sfida più impegnativa che i progressisti hanno da affrontare?
«I progressisti europei devono farsi portatori di una idea di crescita che prefiguri, in prospettiva, una nuova idea, una nuova concezione dello sviluppo».
La nuova visione dei progressisti investe «solo» la sfera dei diritti sociali? «No, La sfida riformista deve riguardare anche il campo, non meno importante, dei diritti civili. Penso, ad esempio, al diritto al matrimonio per coppie dello stesso sesso. La Francia sta marciando in questa direzione, come dimostra il recente voto all’Assemblea nazionale sulle nozze gay. Così come è importante, quando si parla di una estensione dei diritti di cittadinanza. il diritto al voto, a livello locale, per i residenti stranieri».
Per tornare all’Europa equa, sociale, solidale. Cosa debba essere lei lo ha delineato con nettezza. Ma cosa non dovrebbe più essere, oltre l’abbandono dell’austerità assolutizzata? «L’Europa che guarda al futuro, e che attorno a questa visione cerca di aggregare lo schieramento più ampio, è una Europa che deve avere orgoglio di sé, del proprio ruolo in un mondo globalizzato. E per questo non può essere una Europa che si accontenti di essere solo un mercato, o una somma di trattati. Un’Europa che sia altro e di più, sul piano politico, di una sommatoria di nazioni».

l’Unità 7.2.13
Il Manifesto di Torino speranza per l’Europa
Non c’è uscita possibile dalla crisi per i singoli Stati senza un’accelerazione sul processo politico europeo
di Cristina Tajani
Assessora Comune di Milano


DOPO L’INCONTRO TENUTO L’ANNO SCORSO A PARIGI PER DEFINIRE LE MISURE ALTERNATIVE ALL’«AUSTERITÀ» (EUROBOND, RIFORMA DELLA BCE, TASSA SULLE TRANSAZIONI FINANZIARIE E POLITICA COMUNE DI SVILUPPO EUROPEO), purtroppo inascoltate o sostenute timidamente a volte anche a sinistra, si attende per il prossimo fine settimana l’incontro di Torino promosso da Feps, Fondazione Italianieuropei e fondazioni politico-culturali francesi e tedesche. Qui, oltre all’annunciato esplicito sostegno di Hollande a Pier Luigi Bersani candidato premier del centrosinistra italiano, si promulgherà un nuovo «manifesto».
I temi economici e sociali affrontati in precedenza sono ancora di stringente attualità e costituiscono l’unica via per uscire vivi dalla crisi, ma la Carta di Torino dovrebbe alzare mira e ambizioni anche alla luce delle esperienze di questi travagliati anni. Il problema europeo è prima di tutto un problema politico che porta in grembo anche un tema di governance e di assetti istituzionali. Non c’è uscita possibile dalla crisi per i singoli Stati senza un’accelerazione sul processo politico europeo, senza un progetto sul ruolo dell’Europa nella competizione globale, un’idea di politiche di bilancio comunitarie che siano tutto il contrario nel metodo e nel merito di quanto ha rappresentato il fiscal compact.
Questo processo ha bisogno di efficienti e legittimate istituzioni democratiche sovranazionali che superino il modello dell’intergovernativismo e valorizzino un assetto istituzionale europeo che oltre a Stati membri e Unione, coinvolga entità democraticamente amministrate come le città e le regioni. Va per altro considerato che allo spostamento del target di molti programmi comunitari dagli Stati alle regioni e infine alle città (è frequente il riferimento al «secolo urbano») non può non corrispondere una riflessione e un progetto in termini di governance dell’Unione. Questo tema potrebbe coordinare in maniera nuova su un punto politico unificante lo schieramento di centrosinistra continentale sia nelle sue rappresentazioni nazionali (i partiti fuori e dentro il Pse) sia nelle sue declinazioni territoriali (e penso ai governi di sinistra delle metropoli europee).
Inoltre, le politiche anticicliche vedono nei livelli di governo amministrativo utili protagonisti se è vero, in Italia come in Europa, che la maggior parte degli investimenti vengono attuati dagli enti locali. E ancora di più lo sarà se si considerano gli orientamenti dell’agenda Horizon 2020 e di quella sulle smart cities.
L’incontro di Torino indicando strade e assetti nuovi può contribuire a riportare l’Europa come opportunità e non come vincolo dentro una campagna elettorale non esaltante. Ora il momento è proficuo per ragionare in campo aperto, sciolti da vincoli di assetti partitici posti in discussione dalla destrutturazione dell’ultimo ventennio.
I temi economici e sociali su cui le forze progressiste europee hanno in precedenza trovato una convergenza, e ora il tema delle istituzioni democratiche sovranazionali e subnazionali, devono quindi diventare il terreno di incontro anche per le forze politiche interne al centrosinistra al di là dei confini nazionali e di partito.

La Stampa 7.2.13
Cofferati: “Il premier è un conservatore. Andiamo avanti da soli”
“Non ci può chiedere di lasciare Sel e di far tacere Fassina”
«Il cinese» Molto scettico su un’alleanza con Monti l’ex leader della Cgil e parlamentare europeo del Partito democratico
di Federico Geremicca


Sergio Cofferati pesa le parole ma, per quanto le pesi, quel che dice risulta imprevedibilmente aspro. Elenca: sgradevole, vecchia politica, incomprensibile, inaccettabile. Parla di Mario Monti, naturalmente, e della sua richiesta che il Pd abbandoni Vendola, se davvero vuol far patti col Centro. Qualcuno potrebbe immaginare che la durezza del “cinese” nasca dal suo lungo trascorso in Cgil, ma Cofferati chiarisce di parlare da dirigente del Pd, e la domanda - a questo punto - dovrebbe esser la seguente: quanto è diffusa, tra i democratici, questa sorta di insofferenza verso i semidiktat del Professore?
Quanto è diffusa, secondo lei?
«Questo non posso saperlo. Ma chiedere ad un segretario di partito di non far parlare un suo dirigente, come Fassina, o di non tener conto delle esigenze di una grande organizzazione sindacale, come la Cgil, o di rompere il patto stipulato con un alleato, come Vendola, è incomprensibile e inaccettabile».
Addirittura?
«Io trovo impressionante il fatto che, fin dall’inizio, Monti abbia cercato di contrastare il centrosinistra con argomenti inusuali e da vecchia politica».
E come se lo spiega?
«Che vuole che le dica... Magari è mal consigliato».
Monti imbeccato dagli alleati o da qualche spin doctor?
«Lui ha una storia accademica e istituzionale... è normale che possa essersi circondato di persone che lo consigliano sul piano della politica. Ma se questi sono i suggerimenti: auguri. La pretesa di modificare le alleanze degli altri è figlia di un’idea di vecchia politica. Senza dire che sarebbe interessante parlare degli alleati che si è scelto... ».
Per esser più chiari?
«Col rispetto dovuto a tutti: in alcuni casi, gente che è in politica da mezzo secolo».
E nessuno glielo rimprovera.
«Molti osservatori risparmiano a Monti gli esami ai quali sottopongono il Pd: come se la sua provenienza da un mondo diverso dalla politica sia, di per sè, salvifica».
E lei non crede sia così, naturalmente.
«Io credo semplicemente che quando poi si entra in politica - e si governa un Paese - si viene giudicati per quel che si fa, non per quel che si è fatto prima o per i mondi da cui si proviene».
Il suo giudizio su Monti è dunque negativo anche per quel che riguarda il lavoro svolto?
«Io ho anche un osservatorio europeo, essendo deputato a Strasburgo e le assicuro che le proposte di Monti e la sua linea in Europa, sono quelle dei conservatori, non dei progressisti. E che in questi mesi di governo ha accettato, a Bruxelles, gli orientamenti di rigoristi a senso unico - come la Merkel, ma non solo - senza mai battersi per politiche di sviluppo e crescita: che è ciò di cui l’Italia aveva ed ha bisogno».
Scusi, Cofferati: ma lei tratteggia il profilo di un leader col quale sarebbe comunque impossibile allearsi dopo il voto.
«Io tratteggio il profilo di un leader le cui proposte - in molti casi - sono molto lontane, se non alternative, a quelle del Pd. Dopo il voto ci si confronterà: ma questo conterà pure qualcosa, o no? ».
E dunque?
«E dunque il Pd deve provare a vincere da solo, e bene. Siamo il fulcro di una coalizione che comprende socialisti, cattolici, sinistra: dobbiamo valorizzare l’ampiezza di questa alleanza. Poi, il giorno dopo il voto, vedremo come è andata e ci si ragionerà».
Con Monti?
«Anche con Monti, se necessario. Sperando di evitare altre delusioni».
Del tipo?
«Tipo questa campagna elettorale. Guardi che tra le ragioni per le quali arrivò il via libera ai tecnici, c’era anche il timore per uno scontro elettorale con il governo ancora nelle mani di Berlusconi. Ci si affidò ai tecnici immaginando che sarebbero rimasti “terzi”: invece hanno cambiato natura, si sono trasformati in un partito e ora fanno campagna elettorale dalle stanze del governo. Per di più, promettendo di fare cose che potevano fare e non hanno fatto... ».

Corriere 7.2.13
La rabbia di Nichi: così rischiamo di perdere
Il leader di Sel e le parole del segretario: l'alleanza con i centristi pericolo da sventare
di Alessandro Trocino


ROMA — «Così ci fa perdere le elezioni. Se il giochino è quello di annacquarci glielo faremo saltare». Il soggetto è ovviamente Pier Luigi Bersani e il «ci» si riferisce a Sel ma anche al centrosinistra. Nichi Vendola non ha preso affatto bene l'uscita berlinese del segretario del Pd. La ragione ufficiale è l'incompatibilità dichiarata e reiterata con il programma di Mario Monti e dei centristi. Ma il timore vero è che l'entrata del centrosinistra nel raggio d'azione del professore «idrovora», come lo chiama, finisca per togliere credibilità al suo partito, minando il puntello di sinistra della coalizione. Con il risultato di avvantaggiare Antonio Ingroia e la sua Rivoluzione Civile e di togliere appeal alla proposta di Sel, già tacciata di contiguità con i centristi: «Sarebbe un suicidio per il centrosinistra, non solo per noi».
Dunque la partita vera si gioca ora, in campagna elettorale, e non riguarda tanto le alleanze del post. Perché è evidente che nel caso di una «vittoria mutilata» della coalizione, l'unico modo per non tornare alle urne sarebbe una forma di intesa con le truppe centriste. La speranza di Vendola è quella di sventare il pericolo, cercando di convincere gli elettori di sinistra che l'unico modo per non cedere a compromessi con il centro è quello di ottenere un successo pieno.
La sortita di Bersani, in realtà, non è nuova e negli ambienti vendoliani si tende a non sopravvalutarla, al di là delle dichiarazioni ufficiali. Del resto quelle parole il segretario le ha ripetuto spesso e rientrano nel gioco delle parti. Si fa notare anche che gli inviati a Berlino delle agenzie, non seguendo regolarmente Bersani, avrebbero enfatizzato le sue parole, considerandole come una novità.
Quello che è certo è che Vendola è costretto ad alzare il tiro contro Monti per poter uscire dall'angolo. Lo ha capito già da qualche giorno. E così sono partiti gli attacchi al Professore che aspira ad essere «la badante di Bersani», alla sua «Agendina», alla «sciatteria dei tecnici». Monti diventa così il Nemico, «un Grillo con il loden»: tentativo da un lato di rassicurare gli elettori di sinistra, dall'altro di esorcizzare la possibilità di un'alleanza postelettorale, rendendo irreversibile la spirale delle incompatibilità.
Tutto dipenderà dalle percentuali, ma intanto Vendola spara contro i centristi, provando a indebolirli. Ieri ha preso di mira tre simboli del centro: Paola Binetti, icona antigay; Pier Ferdinando Casini, sempre pronto ad accusarlo di «marxismo-leninismo»; e Pietro Ichino, simbolo di un riformismo sul lavoro visto come il fumo negli occhi.
A sinistra, Ingroia lo incita: «Convinciamo insieme Bersani ad abbandonare il tecnocrate». Vendola — che dietro la sua affabulazione retorica è persona pragmatica — non è affatto convinto che possa nascere un governo puro di sinistra. Ma non ha intenzione di sparare contro Ingroia per recuperare voti. E così lancia messaggi di pace: «La sinistra ha la pessima abitudine di insultarsi quando si divide. Io invece faccio gli auguri a Ingroia e a tutti i suoi alleati».

Repubblica 7.2.13
E il segretario disse “Nichi, stai calmo”
Ma il segretario avverte Nichi “Al governo non si può fare così”
E D’Alema: Sel è strategica però serve un’intesa credibile
di Goffredo De Marchis


«NON sacrificherò mai Nichi. Mai. Ma anche lui deve capire che per andare al governo ci vogliono le spalle larghe, non può perdersi nelle questioni ideologiche». Pier Luigi Bersani vuole salvare il centrosinistra ma non a costo di avere una linea confusa o, peggio ancora, echi della defunta Unione, con la rissa continua tra massimalisti e riformisti, le minacce di rottura evocate un giorno sì e uno no.

«ANCHE se vinciamo in maniera netta, tutti dobbiamo sapere, Sel compresa, che il 26 febbraio i problemi non spariscono. La crisi sociale sarà una montagna da scalare pure nel 2013». Ecco perché una forma di collaborazione con Mario Monti non può essere esclusa e sta scritta nella carta d’intenti del centrosinistra. Questa è la posizione del candidato premier.
Dal Pd si affrettano a spedire messaggi rassicuranti al governatore pugliese. Dario Franceschini è molto comprensivo con i tormenti di Sinistra ecologia e libertà: «Devono pur difendersi. Ingroia li marca stretti. E Monti li mette tutti i giorni sul banco degli imputati». Dal momento in cui sono nate le liste, la guerra a sinistra si è fatta pesante. Esclusioni e inclusioni nell’elenco dei candidati hanno spostato, giocoforza, alcuni equilibri in cui Rivoluzione civile si è infilata strappando pezzi di consenso e di classe dirigente ai vendoliani. Massimo D’Alema, che in Puglia ha un’asse solidissimo con Vendola, trova, proprio da Bari, le parole per chiudere in fretta l’incidente. «Nichi è strategico nel centrosinistra», dice. Cioè, indispensabile, irrinunciabile. Motivando, nelle discussioni con gli amici pugliesi, questo assioma: «Dopo il voto potremmo essere obbligati a costruire un’alleanza credibile guidata dal Pd. Ma la sinistra sarà dentro a questo schema perché il prossimo governo dovrà fare cose di sinistra». Non si può quindi sbattere la porta in faccia al centro, ma va creata una totale discontinuità con le politiche “moderate” degli ultimi anni. È la formula adatta per tenere insieme Vendola e la collaborazione con il Professore che sembra segnata nel Dna di queste elezioni.
Ma Sel insiste: è incomprensibile la fretta di delineare gli scenari futuri. «Bersani non capisce che la chiarezza dell’alleanza è anche un valore elettorale? I calcoli, la tattica, la supercazzola sono dannosi per il centrosinistra» avverte Nicola Fratojanni, braccio destro e sinistro di Vendola. «La campagna elettorale si fa per vincere. Oggi c’è la competizione, quello che succede dopo si vedrà». Il punto non è la preoccupazione di Vendola per il brutto calo della lista nei sondaggi: così dice Fratojanni. «Il punto è che Bersani commette un errore che toglie voti a lui e a tutto il centrosinistra».
Ma la verità può essere diversa.
Sel crolla nei sondaggi. In Emilia, dove ha svolto le “parlamentarie lo stesso giorno del Pd, i militanti democratici hanno visto con i loro occhi i seggi di Sinistra e libertà desolatamente senza code. C’è un oggettivo appannamento di Vendola che non consente, alla coalizione di centrosinistra, sbandamenti verso la lista Monti. Ecco perché, dopo la presentazione a Roma, diventa necessaria una “foto” dei leader pubblica e con la folla dei comizi importanti. Domenica 17 febbraio Bersani, Vendola, Tabacci saranno insieme sul palco di Piazza del Duomo a Milano. Un evento simbolico
nella regione in bilico fondamentale per le sorti del Senato e quindi per una vittoria assoluta della coalizione. Poi, sarà più semplice un accordo con altri partiti. «Un’intesa per le riforme», precisa Francesco Boccia. Che sarebbe garantito dall’assegnazione dei ruoli istituzionali: le presidenze delle Camere e la presidenza della Repubblica. Ma se il centrosinistra avrà la maggioranza in Parlamento, allora il governo avrà un colore preciso. «Governo di sinistra che fa cose di sinistra», come dice D’Alema. La formula più gradita a Vendola.

Corriere 7.2.13
«Giusto dialogare con Monti L'obiettivo è governare»

ROMA — Per il leader socialista Riccardo Nencini sarebbe un errore non dialogare con il centro montiano: «La coalizione Pd-Sel-Psi nacque con l'obiettivo di governare l'Italia». E quindi «sbaglieremmo se non aprissimo il confronto con le forze liberaldemocratiche».

Repubblica 7.2.13
Le affinità pericolose della sinistra
Tra liti, banche e totonomine a sinistra torna l’autolesionismo
Da Bertinotti a Vendola, le analogie pericolose
di Filippo Ceccarelli


ANALOGIE minatorie, memorie pericolose. La «gioiosa macchina da guerra» del 1994, in qualche modo, può far rima con il belluino proposito, «li sbraniamo», dell’altro giorno. E infatti, nelle più temibili affinità ricorrono anche gli istituti di credito, altra faccenda non esattamente propizia per il centrosinistra. Prima delle elezioni del 2006, per la gioia del centrodestra e anche dell’elettorato di sinistra, si scoperchiò l’impiccio della Bnl («Allora, abbiamo una banca?»).

E OGGI chissà cosa può venire fuori dal Monte dei Paschi di Siena, il cui presidente, il provvido Mussari, ogni anno fin troppo generosamente si privava di una sostanziosa quota di privatissimi emolumenti (dal 10 al 20 per cento) per versarli al Pd - e sul come poi quest’ultimo li abbia spesi è quantomeno legittimo nutrire qualche dubbio.
Alla campagna elettorale del 2006 è legato anche il malricordo della rimonta di Berlusconi, anche allora come dodici anni prima e sette anni dopo, cioè ora, orgogliosamente sottovalutato. Chi sbaglia, di solito, sbaglia di nuovo, specie se non si mette seriamente in discussione e se non cambia davvero; e francamente questo non è accaduto, né forse è saggio considerare la pur nutrita partecipazione alle primarie (che ci furono anche allora, sia pure senza concorrenti per Prodi) come un evento bastevole, per non dire palingenetico. Ma pazienza.
Con minore mansuetudine si segnala tuttavia un altro vizietto assai ricorrente, anzi sciaguratamente inesorabile tra i Progressisti, poi nell’Ulivo, quindi nell’Unione e infine nel centrosinistra. La fastidiosa tendenza non tanto di «gonfiare il petto», come dice Arturo Parisi, e dare per scontata la vittoria elettorale, che potrebbe essere addirittura una strategia, ma di spartirsi le poltrone anzitempo tra i maggiorenti, per cui già a due o tre mesi dal voto si fa scrivere che quello si becca gli Esteri, e «quindi» quell’altro il Viminale, quel-l’altro ancora la presidenza della Camera e di conseguenza un quarto comincia ad agitarsi per l’Economia, che però sarà spacchettata, e via dicendo, verso la delusione, il pareggio o la sconfitta.
E insomma, l’elettorato di sinistra si infligge tutti i talk show possibili e immaginabili, fa il tifo come alla partita, apprezza le primarie oltre ogni dire, e versa pure il soldino, ma certo non brucia dalla voglia di assecondare le smanie di questo o quel dirigente a caccia di sistemazione, specie quando si accorge - e non è difficile - che questi ardenti desideri occupano tempo ed energia a scapito di tutto il resto.
Resta infatti da ricordare che prima delle elezioni, non di rado qualcuno del centrosinistra promette qualche tassa; mentre Berlusconi s’impegna solennemente di toglierle o di rimborsarle. Così come, in vista del voto, può sempre accadere che il
dibattito in senso alla coalizione scivoli su due temi fertili e appassionanti quali le riforme istituzionali o la collocazione europea e internazionale del Pds, Ds, Margherita e ora Pd.
Ma soprattutto, dulcis in fundo, resta la questione che la vittoria può risultare insufficiente, in termini sia numerici che politici, e perciò emerge l’incognita, l’equivoco e l’ambiguità delle alleanze. Da questo punto di vista partire con il piede sbagliato è per la coalizione di centrosinistra un’altra infelice e puntuale ricorrenza.
Così, ieri e l’altroieri c’era Bertinotti, davvero molto preso anche lui da se stesso, oltre che dalle varie scissioni che movimentavano la vita del suo partito e che culminarono nell’apoteosi di Turigliatto. Ebbene, dopo aver invano saggiato la contrastatissima eventualità di caricare o scaricare Casini, ci sono oggi Monti e Vendola che non perdono giorno per proclamare la loro incompatibilità. In mezzo, come si sperimentò nella breve e disgraziata legislatura 2006-2008, la tenuta anche psicologica del centrosinistra fu rasserenata dalle quotidiane liti che andavano in scena tra il ministro Guardasigilli Mastella, l’uomo giusto al posto giusto, e il ministro delle Infrastrutture Di Pietro, trattato con i guanti ma subito ribellatosi a Veltroni.
E sarebbe bello capire se la formula che ora prevede un accordo tra moderati e progressisti, ancorché non proprio trascinante, sia un impegno, una speranza, un miraggio, una finta, uno scherzo, un modo di dire, o di perdere tempo. Tutto sembra rinviato al dopo, ma nel frattempo Monti tira da una parte, Vendola dall’altra, e gli errori del passato tornano a svolazzare attorno al Pd con l’aggravante della più diabolica perseveranza.

La Stampa 7.2.13
La corsa senza freni di Grillo fa saltare i conti di tutte le coalizioni
Un exploit del 5 Stelle metterebbe in crisi qualsiasi alleanza al Senato
Il comizio a San Giovanni: se sarà un successo potrebbe essere un colpo «imparabile»
di Fabio Martini


Il riepilogo più efficace della cavalcata elettorale fin qui compiuta da Beppe Grillo lo propone un combattente della “vecchia politica” come Antonio Bassolino: «Lui sta usando uno strumento modernissimo e uno antico con eguale abilità: da anni è in contatto con un numero vastissimo di persone attraverso la Rete ed è l’unico che va in piazza, che ha capito come le elezioni abbiano bisogno di un contatto fisico, piccoli paesi e una piazza storica come San Giovanni a Roma... ». Una campagna elettorale talmente efficace, quella di Grillo, che in queste ore nelle segrete stanze degli istituti di sondaggio e in quelle dei partiti è in corso un frenetico ricalcolo delle stime previsionali e soprattutto - e questa è la novità - delle proiezioni per i seggi del Senato, la Camera decisiva per gli assetti di governo della prossima legislatura.
Il primo dato, dunque, è un boom elettorale del Cinque Stelle che sarebbe superiore a quello finora rilevato dai sondaggi, un trend che si desume dai dati incrociati tra diversi istituti, su iniziativa di Euromedia Research, da anni dotata di antenne e mezzi finanziari che la rendono affidabile non solo a Berlusconi, che se ne serve. E la sentenza è questa: «Il Cinque Stelle è il movimento che in questi giorni sta crescendo con più velocità di tutti gli altri». Un trend non pienamente certificato dai sondaggi e che è alimentato anche da una certa ritrosia degli elettori a “confessare” il voto pro-Grillo. Una sensazione confermata da uno dei parlamentari più esperti, l’ex dc pugliese Pino Pisicchio, ora con Bruno Tabacci: «Percepisco tra la gente un non-detto che inquieta e mi fa pensare che il risultato di Grillo potrebbe essere superiore a quello finora testato». E infatti il dato più interessante contenuto nelle proiezioni elaborate dagli istituti è esattamente questo: da qui alla conclusione della campagna elettorale il Movimento Cinque Stelle è accreditato di un ulteriore salto, dall’attuale 14-15%, fino a quote attorno al 20%.
E qui scatta il secondo fenomeno di queste ore: l’operazione-ricalcolo seggi del Senato. Disciplina molto complessa perché influenzata da molteplici incognite. La prima: la difficoltà di disporre di sondaggi regionali attendibili e aggiornati. La seconda: l’offerta frastagliata come mai e che in alcune regioni fa entrare in competizione per la conquista dei seggi non i soliti due poli (centrosinistra e centrodestra), ma almeno il doppio. Tutto ciò premesso, se i dati attuali restassero stabili fino allo spoglio elettorale, sia al Pd che al Pdl si calcola che il partito di Bersani potrebbe contare sulla maggioranza dei seggi alla Camera, mentre al Senato sarebbe quasi certamente costretto ad allearsi con l’area Monti per poter raggiungere una solida maggioranza. Ma si tratta di previsioni basate sui dati attuali e cioè sulla previsione di un Cinque Stelle al 14-15% e di un’Area Monti attestata su unaquota oscillante tra il 12,4% attribuito da Lorien e il 15% di Ipsos. Se alla fine fosse confermata grosso modo questa percentuale, la Scelta civica di Monti potrebbe contare su 30-40 senatori, la quantità giusta per risultare non solo determinante per la formazione di un governo, ma garantendo anche un margine di sicurezza: sommando i 140-150 senatori attribuibili a Pd-Sel e i 30-40 di Monti-Casini si arriverebbe su quote nettamente superiori a quella necessaria, 158, per la maggioranza a Palazzo Madama.
Ma se l’escalation dei consensi a Grillo e il declino dell’area Monti (quorum dell’8 per cento a rischio in Puglia, persino nel Lazio e in altre regioni) fossero confermati, il ricalcolo in corso nei partiti propone scenari diversi: 40-50 senatori a Grillo, 20-25 all’area Monti. Con scenari parlamentari diversi da quelli finora immaginati. E’ per questo motivo che in queste ore cresce, incoffessata, l’attesa negli altri partiti per la manifestazione di chiusura di Beppe Grillo a piazza San Giovanni, fissata alle ore 18 di venerdì: un successo, rilanciato dalle tv a poche ore di chiusura dalla campagna elettorale, rappresenterebbe uno spot davvero “imparabile”.

Repubblica 7.2.13
È ora di alzare il velo sulle future alleanze
di Massimo L. Salvadori


Nella storia d’Italia unita la sinistra si è presentata secondo diverse incarnazioni. Non poteva essere altrimenti. Si è trattato di un secolo e mezzo, in cui tutto è cambiato passando attraverso cicli la cui genesi e fine sono stati segnati da crisi degli assetti socioeconomici, istituzionali, politici e dei contesti internazionali che hanno acquistato il carattere di crisi di sistema. Alludo alla stretta conclusiva del Risorgimento nel 1860-61, al crollo dello Stato liberale e all’avvento del fascismo nel 1919-22, al crollo della dittatura, alla Resistenza e allo stabilirsi della Prima repubblica nel 1943-48, al collasso agli inizi degli anni ’90 dell’intero sistema dei partiti sorto nel secondo dopoguerra. Ebbene, ognuno di questi cicli ha avuto invariabilmente un unico esito: il cedimento del vecchio ordine ha alimentato un’ondata che in un primo tempo ha dato un impetuoso impulso alla sinistra e in un secondo tempo ha portato alla sua sconfitta finale.
Le ricorrenti sconfitte subite dalla sinistra furono l’effetto delle sue inadeguatezze, incomprensioni e illusioni. Belli e generosi erano i democratici del Risorgimento, ma chiedevano ad un popolo tutto diverso da quello immaginato di fare una rivoluzione democratica che non aveva alcuna possibilità concreta; e furono travolti – come notò Gramsci – da un Cavour che essi non capivano e che li capiva. Appassionati dall’ideale di una prossima piena eguaglianza erano nel primo dopoguerra i socialisti massimalisti e i comunisti, che, credendo a portata di mano un mondo nuovo aperto nel 1917 da Mosca, si azzannarono nondimeno reciprocamente, gettarono a mare ogni programma di riforma democratica e istituzionale e vennero battuti da un Mussolini, che aveva compreso quali forze di resistenza avesse il capitalismo lungi dall’essere un cane morto. Nel secondo dopoguerra, forti del grande prestigio acquistato nella lotta antifascista e nella Resistenza, i socialcomunisti lanciarono agli italiani un messaggio che chiedeva loro di affidarsi ad un processo storicamente necessario che, superata una fase transitoria di democrazia progressiva, li avrebbe portati a congiungersi ad un mondo socialista vittorioso; e nell’aprile 1948 furono travolti da De Gasperi che guidava la ricostruzione grazie ai consistenti aiuti americani. E poi venne il 1994. Il Partito democratico della sinistra col suo volto nuovo andò alle elezioni fiducioso nel successo dei progressisti; ma il successo andò a Berlusconi, che si presentò come lui sì il volto nuovo, raccolse ex democristiani, ex socialisti frustrati, leghisti, neofascisti, e la maggioranza del popolo gli diede quella vittoria che venne più volte rinnovata.
Un quadro nero per la sinistra? No, si tratta di altro: di invitare le forze progressiste alla riflessione. La sinistra nelle sue molteplici incarnazioni ha ottenuto successi iscritti nel decalogo di diritti sociali, politici e civili, ma ciò non può nascondere che nei momenti più cruciali ha perduto la partita per il governo del paese: la partita che non deve perdere oggi. Il Cavaliere nel novembre 2011 era malamente caduto, e si dava per scontato che non avrebbe potuto rialzarsi; la Lega risultava anch’essa boccheggiante; e a raccogliere l’eredità del centro-destra, passato attraverso una rigenerazione, pareva essere il montismo, così da svelenire la prossima sfida per il governo. E l’ondata prometteva al Pd la più sicura delle navigazioni verso Palazzo Chigi, nonostante l’esagitato Grillo. Poi la situazione si è ingarbugliata e il certo si è fatto incerto. Monti si è messo personalmente in gioco, ma la sua aspettativa di andare a occupare con forza le posizioni del centro-destra è andata delusa di fronte al Cavaliere che contro ogni previsione ha ricompattato gran parte dei suoi seguaci, e ora ricorre secondo un provato copione alla più sfrenata demagogia e a miracolistiche promesse a cui molti ancora credono. Quanto al Pd, resiste al primo posto, ma l’ondata a suo favore ha perso il vigore iniziale; e deve far fronte anche al leader di una “Rivoluzione civile” che rischia di fare da battistrada a una restaurazione incivile.
Se si vuole che le prossime elezioni non siano l’anticamera di un ulteriore turno elettorale, che Berlusconi venga sconfitto una volta per tutte e si formi un esecutivo che duri, Bersani, tanto più dopo le dichiarazioni di Berlino, deve sciogliere il nodo finora non sciolto con l’affermare che se vincesse con il 51% governerebbe come se avesse il 49%: è la vaga invocazione di una possibile maggioranza variabile sulla base di un programma possibilmente condiviso o la disponibilità sostanziale a una maggioranza parlamentare con i montiani che sfoci in una coalizione di governo? E a Monti, apertosi all’alleanza per le riforme (evidentemente con Bersani), si richiede di far capire, dal momento che non avrà una sua propria maggioranza in Parlamento, come intende a sua volta propriamente muoversi. Mancati chiarimenti e ambiguità non farebbero che risultare a vantaggio di Berlusconi, Maroni, Grillo e Ingroia. Le speranze di sfondamento sia di Monti sia di Bersani sono alle spalle, ed è l’ora che essi dicano se sono pronti, pagando il prezzo degli inevitabili dissensi all’interno dei loro schieramenti, a formare o no una coalizione di governo, così da chiarire le idee tanto agli italiani quanto agli inquieti che guardano dall’estero.
Si capisce bene che ciascuna parte possa ritenere comodo prima passare all’incasso, vedere il risultato e solo dopo pensare a come spenderlo, ma questo turba l’elettorato e non lo spinge a buone scelte, poiché in realtà non saprebbe cosa sceglie. E si capisce anche bene che ciascuna desideri una propria vittoria piena, netta. Tutti l’hanno sempre desiderata. Vendola e i più progressisti dei progressisti Pd la desiderano oggi tanto: per poter contemporaneamente sconfiggere Berlusconi e andare oltre Monti; ma la storia è quel che è, e i veri politici sanno farsene una ragione e tirare le somme.

l’Unità 7.2.13
Siena
L’«autocritica» dei dirigenti del Pd davanti agli iscritti
Il segretario Guicciardini: «Noi ci mettiamo la faccia, ma siamo attaccati proprio da chi è responsabile degli errori»
L’ex sindaco Ceccuzzi: «Volete picchiarci? Va bene, ma fatelo dopo il 25 febbraio»
di Vladimiro Frulletti

Facendoci annusare l’onnipotenza ci hanno tolto tutto da sotto il naso». Luca Rinaldi è un giovanissimo militante del Pd. Alle ultime primarie coordinava i comitati pro-Bersani, ma il piglio con cui si presenta sul palco è decisamente da rottamatore, look compreso: niente giacca, camicia bianca e maniche arrotolate alla Renzi. Davanti a lui un centinaio di persone. Molti capelli bianchi, ma anche trentenni e quarantenni. Parecchie donne. Mezzanotte è oramai passata e nella grande sale dell’auditorium della sede provinciale della Confesercenti, fuori dalle mura della città, in piena zona artigianale, si sta concludendo l’assemblea del Pd senese. Argomento ovvio: Mps. La riunione convocata per le nove di sera slitta. Prima c’è da sentire in tv, dalla Gruber, Profumo. I commenti sono quasi tutti positivi. Questi iscritti e elettori Pd si fidano. Non piace solo il suo definirsi di sinistra, ma anche la nettezza con cui scommette
sul futuro del Monte e l’onestà intellettuale di chi offre, e sa di offrire, una medicina tanto amara quanto indispensabile. «Se c’è una speranza di riavere una banca a Siena dice esplicitamente Fazio Catoni che è un dipendente Mps e iscritto alla Filcams-Cgil è grazie a quello che hanno fatto in questi mesi Viola e Profumo».
Il piano industriale non sarà una passeggiata, ma il Pd senese (non solo i suoi capi, ma anche i tanti militanti che intervengono uno dopo l’altro facendo finire la riunione ben dopo l’una di notte) l’ha accettato come l’unica via possibile per riportare la banca a fare utili e quindi a scongiurare il vero trauma che sarebbe la nazionalizzazione. Che, come dice l’ex sindaco e ricandidato via primarie, Franco Ceccuzzi, azzerebbe definitivamente qualsiasi legame del Monte con Siena. Scenario forse è apocalittico (almeno per i senesi), ma non così impossibile. «Finita l’opulenza, siamo sotto assedio e pure divisi» Rinaldi cerca nella storia cittadina (1500) prove che Siena è già caduta e s’è rialzata. Ma prima di pulirsi le ginocchia e rimettersi in piedi il Pd ha deciso di guardare in faccia la propria gente. Perché c’è da «uscire dall’angolo e rimettersi al centro del ring» dice Roberto Morrocchi dirigente storico della sinistra senese e per anni anche a capo della Mens Sana di basket.
Quella di martedì notte a Siena è stata l’ultima di oltre trenta assemblee che si sono svolte in tutti i comuni della provincia a cui hanno partecipato circa 2mila persone, sottolinea orgoglioso («non ci siamo nascosti») il giovanissimo segretario Niccolò Guicciardini. Riunioni dure non passerelle. «Il Pd non è imbarazzato dice Guicciardini il sentimento è più di rabbia e sdegno per quello che è successo». Perché Mussari qui era di casa e quindi (con tutte le doverose premesse “se le accuse saranno etc etc.”) la fregatura fa ancora più male. «Io ho sempre fatto le campagne elettorali con entusiamo, non mi sono mai vergognato di parlare con la gente, di portare i volantini del partito, ma questa volta non ci riesco» ammette con amarezza Cesare Simonetti i cui capelli bianchi certificano l’anzianità di servizio. E la sala lo applaude quasi per incoraggiarlo, ma anche riconoscendo indirettamente che errori ne sono stati fatti. Certo tra questi la nomina di Mussari. Da vecchio contadino Simonetti ricorda che il padrone mandava il fattore a comprare la vacca perché se ne intendeva, «noi invece abbiamo messo a capo di una banca un avvocato». Ma l’autocritica più forte (e anche più sincera) è sulla «senesità diventata autarchia» come la chiama Francesco Carnesecchi. Sulla linea del Piave fissata nel 51% di azioni Mps in mano alla Fondazione. Maginot poi sgretolata dai debiti per finanziare l’espansionismo e il gigantismo. «Ma il paradosso è che il Pd ha poi cambiato facce e idee e che oggi ci attaccano proprio quelli di cui stiamo scontando gli errori» dice Guicciardini sottolineando come sia stato il sindaco Ceccuzzi a far arrivare prima Viola e poi Profumo pagando con la caduta della sua giunta per queste scelte. «Chierici li racconta Maritati, senese d’acquisizione che dopo aver lasciato i voti, diventano i più infaticabili bestemmiatori». I nomi? Dagli interventi emergono quelli di un pezzo di Cgil, la sinistra Dc e poi gli ex sindaci Piccini e Cenni entrambi dipendenti Mps e del sindacato bancari. «Il nostro errore è stato l’accodarci conformista al dominio del Monte. Era Rocca Salibeni a decidere tutto: nomi e carriere, anche gli indesiderabili. “Mi dai i soldi, fai quello che vuoi” dicevano tutti» analizza dal palco il giornalista Daniele Magrini che però precisa di parlare come «semplice cittadino senese». Un quieto vivere che termina proprio quando Ceccuzzi dopo aver vinto le elezioni decide di riportare il centro decisionale di Siena nel palazzo comunale e di affidare Mps a Viola e Profumo. Ecco perché il voto di fine mese è visto come propedeutico a quello amministrativo di fine maggio. «L’obiettivo dice esplicitamente dal palco il segretario comunale Giulio Carli è rendere impresentabile il Pd in vista del 27 maggio». Cioè i vari pezzi democratici nemici di Ceccuzzi punterebbero a far perdere voti al Pd alle politiche per poi presentargli il conto. «Volete picchiarci, va bene. Ma fatelo dopo il 25 febbraio. Perché ora c’è da riportare il centrosinistra al governo del Paese» s’appella Ceccuzzi. Perché se Mps è diventato il campo di battaglia della campagna elettorale, il Pd è il bersaglio più grosso.

Repubblica 7.2.13
Bankitalia sulle tracce dei conti Ior ispezione alla Banca del Fucino
di Maria Elena Vincenzi


ROMA — Mentre la procura di Roma prepara le rogatorie in Vaticano, la Banca d’Italia suona al campanello della Banca del Fucino di via Tomacelli, la filiale in cui sono depositati quattro conti Ior intestati ad altrettanti istituti religiosi sui quali sarebbero finiti parte dei soldi della maxi-tangente per l’acquisizione di Antonveneta. Un caso che all’attenzione dei pm capitolini che, da anni, indagano su alcuni casi di riciclaggio della Ior e che sperano, seguendo questa traccia, di trovare altri episodi. Per ricostruire, magari, un’accusa più articolata sulla banca vaticana.
E che si tratti di riciclaggio, evidentemente, non lo pensano solo il procuratore aggiunto Nello Rossi e i pubblici ministeri Stefano Fava e Stefano Pesci. Ieri mattina gli 007 anti-riciclaggio di Palazzo Koch si sono presentati alla filiale per acquisire, innanzitutto, il materiale relativo a quei conti. Bonifici e liste di movimenti. Se infatti, essendo il conto dello Ior, non è possibile risalire all’intestatario, non è escluso che seguendo il flusso delle entrate e delle uscite si possa capire qualcosa di più sui flussi di denaro. Ma nel mirino dell’ispezione dell’Uif non c’erano solo quei quattro depositi: gli investigatori hanno acquisito parecchio materiale bancario. D’altronde non sarà un caso che, anche una parte dei 23 milioni di euro dello Ior sequestrati dalla procura di Roma nel 2010, fossero appoggiati, tra gli altri, anche su conti della Banca del Fucino, da sempre in ottimi rapporti con l’istituto di credito Vaticano. Dettagli che, una volta analizzati, palazzo Koch potrebbe fornire alla procura. I magistrati, in ogni caso, hanno già dato mandato agli investigatori del nucleo di polizia valutaria di fare accertamenti su quei depositi. Di capire innanzitutto se davvero sono dello Ior come sembrerebbe.
Da un primo accertamento sull’estratto conto, le somme non corrisponderebbero a quelle denunciate dal super-testimone. L’uomo, infatti, un dipendente del Vaticano, aveva citato due versamenti, uno da 100mila e uno da 1 milione e 200 mila euro in più tranche. Movimenti che non sarebbero stati riscontrati sul conto della Banca del Fucino. Ma, trattandosi di un conto Ior, non si può escludere che quelle somme siano state versate, e quindi si siano confuse, insieme a quelle di altre congregazioni religiose.

Repubblica 7.2.13
“Ritirate i soldi da quelle filiali”
Scelta shock di un giudice reggiano


SIENA — A parole non vuole creare “allarmismi” ma di fatto ha già scatenato la polemica. Con una decisione eclatante il giudice del Tribunale Fallimentare di Reggio Emilia, Luciano Varotti, ha “consigliato” ai curatori che amministrano i patrimoni dei procedimenti di cui si occupa la sua sezione di chiudere i conti e ritirare tutti i depositi custoditi nelle filiali Monte Paschi di del capoluogo emiliano.
L’iniziativa è stata motivata dal magistrato con la necessità di tutelare chi vanta crediti su alcuni fallimenti di aziende alle quali sono stati sequestrati patrimoni per 5 milioni e 800 mila euro. L’allarme è arrivato anche ai vertici del Monte Paschi che vedono nell’iniziativa di Reggio Emilia un pericoloso precedente: la decisione del magistrato potrebbe “contagiare” altri giudici fallimentari e creare preoccupazione tra le migliaia di correntisti in tutta Italia.
«Non ho informazioni particolari sull’inchiesta Monte del Paschi — spiega Varotti — ma, per dovere, per precauzione e perché amministro soldi sequestrati mi sono deciso a inviare una comunicazione a tutti i curatori fallimentari della Provincia di Reggio Emilia affinché ritirino tutti i depositi e chiudano tutti i conti nelle filiali». Luciano Varotti sottolinea che lui ha non i poteri per fare estinguere conti correnti e depositi ma ha «l’obbligo di sorveglianza sui patrimoni». E aggiunge: «La legge mi dà la facoltà di tutelare e gestire soldi di persone in difficoltà (fallite, ndr) per questo ho inviato una comunicazione a tutti i curatori fallimentari».
Il “consiglio” del giudice reggiano è stato subito eseguito dai curatori: «Hanno aderito quasi tutti i curatori e su 5 milioni e 800 mila euro che erano nelle filiali del Monte Paschi della provincia, 5 milioni sono stati già trasferiti in altri istituti di credito».
Una iniziativa “prudenziale” quella del giudice Varotti che tiene però a precisare: «Sono convinto che il Monte Paschi continuerà la sua attività e la sua affidabilità non è in discussione». E aggiunge: «Se per caso dovessero nascere dei problemi e non riuscissimo a rientrare nelle somme depositate o le ricevessimo nel giro di qualche mese questo mi creerebbe delle difficoltà. Io sarei chiamato a risponderne in caso ci fossero ispezioni del ministero di Grazia e Giustizia. La mia è stata una iniziativa di massima
cautela».

l’Unità 7.2.13
La cittadinanza a chi è nato e cresciuto in Italia
Elezioni, un argomento per capire la differenza
di Valentina Brinis e altri


Suona un po’ stucchevole leggere, pressoché quotidianamente, che la campagna elettorale sarebbe ridotta o a defatiganti diatribe sulle alleanze o a scontri mediatici inutilmente chiassosi. Certo, c’è del vero, ma se appena lo si volesse la possibilità di discutere di programmi e contenuti esiste, eccome. Per dirne una: da mesi è noto che il primo provvedimento che un governo di centrosinistra, guidato da Pierluigi Bersani, è intenzionato a varare, è quello relativo alla riforma della cittadinanza. In estrema sintesi la proposta prevede il rilascio della cittadinanza a chi è nato e cresciuto in Italia. Si tratta di un’importante novità perché attualmente chi nasca in Italia da genitori stranieri può chiedere la cittadinanza solo al compimento del diciottesimo anno di età. Non prima. Con la modifica proposta dal Pd, invece, la cittadinanza, ai figli di persone straniere, sarebbe concessa sin dalla nascita. E non solo. Potrebbe essere richiesta anche per chi, arrivato nel nostro Paese ancora minore, qui porti a termine almeno un ciclo di studi.
Il progetto del Pd ha un grande significato ed è assolutamente coerente con i mutamenti in corso nella nostra società. Basta pensare al fatto che l’attuale legge in materia di cittadinanza è entrata in vigore nel 1992 quando le persone straniere che risiedevano in Italia non raggiungevano il milione, e in questi vent’anni quel numero è cresciuto di cinque volte. In ogni caso già nel 1992 la legge risultava scarsamente lungimirante, infatti non considerava che gli immigrati presenti, con ogni probabilità, sarebbero stati raggiunti dai familiari e che qui sarebbero nati i loro figli.
Alcuni giorni fa un dispaccio dell’agenzia Ansa, compilato con l’abituale precisione, evidenziava nella maniera più limpida quanto il tema della cittadinanza consenta di distinguere tra programma e programma e, se permettete, tra destra e sinistra. In sintesi, scriveva l’Ansa, l’intero tema dell’immigrazione viene ridotto dal centrodestra «strettamente alla questione della sicurezza». Meglio di così non si poteva dire. Anche perché quello della cittadinanza tutto è tranne che un progetto filantropico o una mera prospettiva di solidarietà. E non è nemmeno una soluzione, la più intelligente e razionale, volta esclusivamente ad affrontare il nodo dei minori stranieri. È molto più. È un tratto fondamentale del disegno di una società all’altezza delle grandi trasformazioni in atto e delle nuove sfide poste ai sistemi democratici.
Una di queste, forse la più importante, riguarda non i sistemi di controllo delle frontiere e nemmeno le strategie di contrasto della criminalità proveniente da altri paesi: riguarda, bensì, la capacità di integrazione dei nuovi cittadini. È, dunque, la possibilità che le nostre società, per tanti versi invecchiate e sfibrate, ritrovino slancio, energie, opportunità di crescita. Insomma, lo facciamo «per noi», non «per loro».

Repubblica 7.2.13
L’eguaglianza dei diritti civili degli omosessuali
Lo spirito elastico della Costituzione
di Nadia Urbinati


La svolta della Chiesa di Roma sul riconoscimento dell’eguaglianza dei diritti civili degli omosessuali è indubbiamente un evento importante. Come ricordava Vito Mancuso su questo quotidiano, mai era successo che un prelato ammettesse che i diritti civili sono eguali per tutti in materia di convivenza. Lo ha fatto monsignor Vincenzo Paglia, il nuovo Presidente per il Pontificio Consiglio per la Famiglia. Il pronunciamento è importante perché centrato sull’eguale rispetto delle persone e la condanna della discriminazione che la criminalizzazione dell’omosessualità genera, come verifichiamo quotidianamente anche nel nostro Paese. Una battaglia di civiltà, sulla quale papa Benedetto XVI si è varie volte pronunciato mettendo in luce le sofferenze che ancora troppi governi infliggono a chi sceglie di vivere una relazione non eterosessuale.
Ma il riconoscimento che chi vive una “amicizia” omosessuale debba godere degli stessi diritti civili degli altri individui non significa riconoscimento della coppia omosessuale. Diritti sacrosanti della persona come tale e non diritti di veder legalizzata la convivenza con una persona dello stesso sesso: un fatto di giustizia rispetto al quale è uno scandalo che anche Stati democratici avanzati, come il nostro, siano ancora tanto inadempienti. Trovare “soluzioni di diritto privato”, all’interno del “codice civile” per questioni legate al “patrimonio” (trasmissione ereditaria e comunità dei beni), è l’abc dello stato di diritto, soprattutto un coerente intervento in materia di diritto di proprietà. Ma diritti civili della persona, sacrosanti, non sono ancora diritti alle unioni fra le persone. Non si può pretendere che la Chiesa dia la benedizione a tutto ciò che vogliamo e desideriamo; ma sarebbe un errore di valutazione pensare che con questo pronunciamento la Chiesa si sia spinta fino al punto di dare la propria benedizione alle coppie non eterosessuali.
Monsignor Paglia spiega che il no della Chiesa al matrimonio gay è coerente alla legge perché “la Costituzione italiana parla molto chiaramente, ma prima ancora era il diritto romano che stabiliva cosa fosse il matrimonio”. Quindi la legge civile è la prima responsabile di questa discriminazione, non la dottrina religiosa. Si dovrebbe aggiungere che non tutti i codici sono quello italiano e che quindi la posizione della Chiesa è in linea non tanto con la legge civile, ma con la legislazione italiana – ci possono essere soluzioni diverse e tuttavia in perfetta sintonia con il diritto civile come si è visto in Francia. Ma è poi vero che la Costituzione italiana sia così esplicita e univoca nel respingere il matrimonio eterosessuale o meglio ancora nel definire il matrimonio?
Leggiamo l’art. 29 della nostra Costituzione: “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Il matrimonio è ordinato sull'eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell'unità familiare”. Come si vede, la Costituzione non specifica l’identità sessuale dei coniugi o la composizione della famiglia. Certo, si potrebbe sostenere che questa non specificità linguistica fosse indice della mentalità dei costituenti, nella quale non rientrava molto probabilmente n’è l’opzione di coppia omosessuale né la fecondazione artificiale o l’adozione da parte di coppie non eterosessuali. Che senso aveva specificare ciò che era ritenuto naturale, normale, ovvio? Una costituzione è viva perché consente alle generazioni che verranno la libertà di farla propria, di interpretarla secondo le esigenze del loro tempo, con i diritti civili come bussola. Il silenzio della nostra Costituzione sulla definizione di matrimonio e di famiglia è un segno della sua saggezza più che una dichiarazione dogmatica su che cosa sia il matrimonio, ed è una garanzia della nostra libertà politica di decisione. La Costituzione ci orienta a interpretare che cosa sia “negoziabile” e assegna alla comunità politica (il governo democratico) l’autorità di dichiarare, nella legge civile, che cosa sia nonnegoziabile. Il tema della laicità (dell’autonomia della legge civile dalle credenze religiose) non sta tanto nella separazione tra ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio, ma nel decidere chi stabilisce questa separazione e come la si negozia. In questa negoziazione consiste la vita democratica. Della quale la Chiesa è parte con la sua opinione e la sua libertà di partecipare alla costruzione degli orientamenti politici come tutte le altre associazioni della società civile.
L’interpretazione della Costituzione riflette la lotta politica e le differenze di opinione che operano liberamente nella società. Le istituzioni non sono sigillate o rese impermeabili alla società civile (cosa che è non solo impossibile, ma sarebbe inoltre indesiderabile in una democrazia rappresentativa). L’esito di questo scambio, di questa tensione interpretativa, è la formulazione di leggi o decisioni che siano in sintonia con lo spirito della Costituzione, il quale è molto più elastico di quanto non appaia e, soprattutto, non sepolto nella mente dei costitutenti ma vivo nella nostra. E la definizione del matrimonio è una questione non chiusa come ci suggerisce monsignor Paglia, ma aperta a interpretazioni che non sono per nulla scontate o “non negoziabili”.

Repubblica 7.2.13
Matricole
Il calo degli studenti universitari specchio dell’Italia in crisi
I fondi destinati all’istruzione superiore sono stati tagliati fino a risultare inferiori del 30% alla media Ocse
Dietro la “grande fuga” c’è anche il notevole impoverimento del ceto medio e l’aumento della disuguaglianza economica e sociale
di Marco Revelli


Difficilmente un Paese impoverito può permettersi un buon sistema universitario. E difficilmente un Paese con un cattivo sistema educativo può sollevarsi dalla crisi. Sta in questa tenaglia il segno — uno dei tanti, purtroppo — della preoccupante situazione italiana, messo in rilievo dal recente documento del Consiglio universitario nazionale. Potremmo anche aggiungere che difficilmente un Paese poco acculturato può produrre una buona politica: un elettorato consapevole (lo vediamo in questi giorni quanto pesi il livello di istruzione sulle intenzioni di voto). Una classe dirigente all’altezza dei propri compiti. Un’amministrazione competente ed efficiente. E il cerchio si chiuderebbe.
Le 58mila matricole in meno nel 2011 rispetto al 2003 — il dato che ha scioccato perché equivalente alla popolazione di un intero grande ateneo — è in realtà solo la punta di un iceberg di proporzioni ben più ampie. Occorre aggiungere i 1.195 corsi di laurea eliminati negli ultimi sei anni, solo in parte cancellati per una sacrosanta razionalizzazione e sempre più costretti all’estinzione per assenza di fondi e di docenti. Il taglio feroce dei fondi alla ricerca libera, messa letteralmente in ginocchio dopo che già faticava a rimanere in piedi. La riduzione — davvero inqualificabile — delle borse di studio… D’altra parte noi siamo il Paese che destina al settore militare oltre 20 miliardi di euro all’anno e appena sei alla propria università. Il che ci colloca un buon 30 per cento sotto la media Ocse.
Sul Giornale di Berlusconi la notizia del calo delle matricole era stata salutata con gioia da un articolo, tanto sciagurato quanto rivelatore, del vice-direttore, intitolato Atenei, scappano in 60mila. Era ora: meglio pochi e buoni, nel quale, dopo aver liquidato l’“allarme” come «depravazione dell’egualitarismo » e «pianto dei fanatici dell’università per tutti e a tutti », si affermava che «questi dati non sono preoccupanti, no. Sono confortanti. Ci spingono più vicini agli altri Paesi civili». Non si diceva che la percentuale media di laureati nei Paesi dell’Ocse è quasi il doppio della nostra, penultimi, seguiti solo dal Portogallo. Né si informava che l’obiettivo di laureache ti stabilito dal ministro Gelmini per il 2020 ci copriva di vergogna di fronte all’Europa (che si propone di giungere a una percentuale pressoché doppia), collocandoci come fanalini di coda, al livello della Romania.
Non sono però solo le scelte dissennate dei governanti. Non basta un “ministero dell’ignoranza” a spiegare l’esodo. Dietro la grande fuga di questi anni c’è l’effetto congiunto di una pessima deriva economica e sociale e di una cattiva cultura dominante. In primo luogo l’effetto del progressivo, e negli ultimi tempi sempre più rapido, impoverimento del ceto medio e del lavoro dipendente, che avevano alimentato la lunga parentesi dell’università di massa. E soprattutto la crescita della diseguaglianza: quella che in termini sociologici si chiama l’“allungamento” della nostra composizione sociale, con una piccola porzione di popolazione che ha continuato a salire e in qualche caso è schizzata verso l’alto, nella sfera esclusiva del “lusso”, e una grande massa che è scivolata in basso, nella fascia maledetta dell’indigenza. I pochi possono permettersi la Bocconi, i master, la specializzazione negli Stati Uniti, e i troppi che non ce la fanno ad arrivare alla fine del mese, figurarsi a pagare una tassa d’iscrizione che è andata aumentando fino ad essere tra le più elevate in Europa. Una società duale, giustificata da un senso comune dominante che si focalizza sulle eccellenze — in molti casi sulla “retorica dell’eccellenza”, quasi sempre identificata con il “privato” — , sul primato delle pratiche d’èlite (come per i corpi militari), perché il resto è poco rilevante, sul piano del consumo, del riconoscimento sociale, e dei progetti di vita. Non vale neppure più la pena sostenerlo con i contributi al “diritto allo studio”.
Questo sul versante del deficit di “domanda” di istruzione universitaria. E poi c’è il problema dell’“offerta” (cosiddetta formativa, con termine riduttivo). Diciamocelo sinceramente: il passaggio alla “triennale”, tanto decantato, non ha aiutato a valorizzare la laurea. Ne ha alleggerito il contenuto di sapere. Ha contribuito a ridurne la complessità, con una falsa promessa di professionalizzazione e un’effettiva delimitazione del campo conoscitivo (altro che universitas!).
Forniamo un caleidoscopio di apparenti specializzazioni, in una fantasmagoria di titoli, che illudono sulla possibilità di una più facile collocazione sul mercato del lavoro, e che spesso ti collocano in un’area di parcheggio post-laurea sempre più lunga. Chi ha pratica di insegnamento lo sa bene.
Non sono choosy i miei studenti. Spesso si accontentano anche di lavori pagati al di sotto della decenza, e lontani anni luce dal titolo di studio acquisito. E tuttavia restano in apnea a lungo dopo la laurea: Alma-Laurea, nel suo ultimo rapporto, ci dice che dopo un anno meno della metà dei laureati trova un lavoro. E di quelli che l’hanno trovato, solo un terzo ha un impiego stabile. Se non si avvieranno robuste politiche di redistribuzione del reddito e di sostegno all’economia, da una parte, e se non si metterà mano a una sostanziale ristrutturazione dell’insegnamento universitario pubblico e della sua filosofia, dall’altra, è pressoché inevitabile che la spirale a scendere prosegua. Per i giovani. E per l’intero Paese.

l’Unità 7.2.13
Assassinato il leader laico. La Tunisia si infiamma
Killer uccidono Chokri Belaid. Scoppia la protesta, oggi sciopero generale
Sotto accusa il partito islamista del premier tunisino, Jebali
di Umberto De Giovannangeli


Lo hanno atteso sotto casa. Lo hanno freddato con quattro colpi di arma da fuoco sparati da breve distanza. Una esecuzione in piega regola. A due anni dalla rivoluzione dei Gelsomini, torna alta la tensione in Tunisia. Il leader del Partito unificato democratico nazionalista, Chokri Belaid, è stato ucciso ieri mentre usciva dalla sua casa nella capitale Tunisi. Un agguato che ha scatenato la protesta nelle strade della città. Migliaia di persone sono scese in avenue Bourghiba, nei pressi del ministero dell’Interno, gridando slogan e chiedendo le dimissioni del premier Hamadi Jebali.
Contro i manifestanti a Tunisi la polizia ha sparato lacrimogeni. Col passare delle ore le fila dei manifestanti si sono ingrossate. E il centro della città si è trasformato in un campo di battaglia: alla folla che lancia pietre, la polizia, in tenuta antisommossa, risponde sparando lacrimogeni. I dimostranti erigono barricate e danno fuoco a copertoni di auto. Una densa colonna di fumo avvolge il centro della capitale. Assediati i ministeri. Secondo quanto ha riferito alla Tap Mohamed Jmour, presidente del comitato centrale del Partito di Belaid, l’uomo politico è stato colpito da quattro proiettili, tre dei quali alla testa, all’altezza del cuore e alla nuca lo hanno raggiunto in punti mortali. Il quarto colpo ha raggiunto la schiena.
ALTA TENSIONE
La situazione politica è diventata incandescente nel Paese nordafricano e le accuse dell’opposizione ora vanno soprattutto in direzione del partito al governo, Ennahda, al potere dopo le rivolte nel 2011. Proprio contro le sedi del partito islamico al potere si sono mossi gruppi di manifestanti che hanno saccheggiato la sede del partito islamico al potere nelle località tunisine di Mezzuna e Gafsa. Belaid era soprattutto uno dei massimi esponenti di Nidaa Tounes, la formazione politica di recente costituzione e che è la più importante dell’opposizione tunisina. Il nuovo partito è stata oggetto di numerosi atti di violenza da parte dei miliziani della Lega per la protezione della rivoluzione, considerati fiancheggiatori del governo. L’opposizione insorge, sospende la sua partecipazione all’Assemblea nazionale costituente e chiede lo sciopero generale nel giorno dei funerali del leader assassinato.
L’uccisione di Chokri Belaid è «un atto di terrorismo che colpisce tutta la Tunisia», afferma il premier tunisino Hamadi Jebali, in una dichiarazione all’emittente radiofonica Mosaique. «Un atto criminale, di terrorismo ha sostenuto Jebali non solo contro Belaid, ma contro tutto il Paese». Il primo ministro, che è rientrato da un viaggio in Francia e ha subito disdetto la sua missione in Egitto prevista per oggi, ha quindi lanciato un appello ai tunisini affinché «diano prova di saggezza» e «non cadano nella trappola criminale di chi cerca di fare piombare il Paese nel disordine». Un appello che si perde nel clamore degli scontri che imperversano nel Paese. A Kalaa Kebira, dove risiede la famiglia di Belaid, la locale sede di Ennahda è stata presa d’assalto e incendiata da una folla inferocita. A Sousse, decine di persone hanno cercato di entrare nell’edificio del liceo privato Fayyala per incendiarlo, ma sono state respinte. Altre manifestazioni di protesta sono segnalate a Kasserine e Biserta. Migliaia di persone hanno accompagnato l’ambulanza che trasportava la salma di Belaid, nel tragitto tra la clinica, dove l’esponente politico si è spento dopo l’attentato, e l’ospedale Charles Nicole, dove in serata è stata eseguita l’autopsia, per consentire i funerali, che nei Paesi islamici vengono fatti entro 24 ore dalla morte.
L’assassino indossava un burnous, l’abito tradizionale tunisino, che copre interamente il corpo e con un cappuccio a punta che cela gran parte del viso.
La sua foggia consente di camuffare tutto il corpo, quindi anche la statura (per via della forma del cappuccio) e la complessione di chi lo indossa. Insomma, l’ideale per chi vuole sfuggire a qualsiasi identificazione. Secondo altre testimonianze coincidenti, a uccidere l’oppositore tunisino sono state invece due persone giunte su una motocicletta davanti l’abitazione della vittima. Dopo avere colpito Belaid, rimasto morente al posto di guida della sua vettura, i due che non sono scesi dalla motocicletta sono fuggiti, inseguiti invano da un automobilista, contro il quale hanno sparato alcuni colpi di pistola, andati a vuoto. L’uccisione di Belaid è «condannata con grande forza» dal Parlamento europeo. Lo ha detto il presidente Martin Schulz accogliendo nell’emiciclo il presidente tunisino Moncer Marzouki. «Questo crimine aggiunge non può restare impunito». In serata, il premier tunisino e segretario generale di Ennahda, Hamadi al Jebali, annuncia, in un discorso televisivo alla Nazione, che formerà un nuovo governo tecnico entro 24 ore. I ministri di questo governo non si presenteranno alle prossime elezioni. Una mossa in extremis, forse tardiva per evitare che la Tunisia precipiti nel caos.

l’Unità 7.2.13
Belaid, l’avvocato amico del popolo e della libertà
Era uno dei principali dirigenti dell’opposizione e coordinatore del partito progressista dei Patrioti democratici uniti
di U. D. G.


L’ultimo comizio dell’«avvocato» ha l’acre sapore del testamento politico. Avvocato, 48 anni, Chokri Belaid dalla salita al potere del primo ministro Hamadi Jebali aveva criticato duramente la formazione di maggioranza, Ennahda, di orientamento islamista. L’ultima accusa era arrivata proprio l’altro ieri sera: nel suo intervento, Belaid aveva sostenuto che nel disegno di Ennahda c’è il progressivo controllo della macchina dell’amministrazione e della giustizia e quindi dell’apparato militare e che la violenza riesploderà ogni qual volta in seno all’Assemblea Costituente si andrà a discutere di un articolo «retrogrado e contrario alla libertà». In particolare, il leader assassinato si era scagliato contro quelli che aveva definito «mercenari» al soldo della formazione di governo, accusati di aver attaccato una riunione del suo partito, di ispirazione laica e marxista, recentemente confluito nel Fronte Popolare. Il fratello di Belaid, Abdelmajid, ha accusato la compagine di governo di essere il mandante dell’omicidio. Quattro partiti dell’opposizione hanno lanciato un appello allo sciopero generale e hanno annunciato di voler lasciare l’Assemblea Costituente. Nella visione di Belaid, giustizia sociale e diritti civili erano tra loro strettamente intrecciati, un unicum indissolubile.
In un colloquio con l’Unità, nel vivo della rivoluzione «jasmine», Belaid aveva sostenuto con forza che la rivolta popolare non intendeva solo «spazzare via il regime corrotto e dispotico di Ben Ali, ma l’ambizione era quella di riscrivere l’agenda politica della Tunisia e gettare le basi per uno Stato democratico, plurale, dove siano rispettate le libertà sindacali». In un altro colloquio, Belaid non aveva nascosto le sue preoccupazioni per una «deriva islamista» della transizione. «Non abbiamo combattuto il regime di Ben Ali, pagando un alto tributo di sangue,per veder poi realizzata la dittatura della sharia».
Chokri Belaid sapeva di essere entrato nel mirino delle «squadracce paramilitari» fiancheggiatrice del governo. Lo sapeva, ma non per questo aveva rinunciato a partecipare a meeting, comizi in tutto il Paese. E non aveva lesinato energie per costruire un fronte unito dell’opposizione laica e progressista tunisina. Un impegno che Belaid ha pagato con la vita. Hamma Hammami, storico leader dell’opposizione tunisina, una specie di «mito» per i tunisini contrari al regime di Ben Alì ha commentato: «Si è chiaramente trattato di un omicidio pianificato e eseguito da dei professionisti» e ha accusato «l’indulgenza dei governanti e di certi politici nei confronti della violenza politica, sia degli atti che dei discorsi». Il presidente francese, Francois Hollande ha condannato la morte «di una delle voci più coraggiose e libere» della Tunisia. Questo era Chokri Belaid: un uomo libero.

Corriere 7.2.13
Per Bobo Craxi rischi autoritari
«Delitto politico Un caso Matteotti»
di Francesco Battistini


«Conoscevo Belaid. Un avvocato carismatico, oppositore intelligente di Ben Ali, tipico sessantottino con un'idea romantica del Maggio francese e una, forte, dell'identità nazionale…». Spesso, e per ragioni note, Bobo Craxi va e viene dalla Tunisia. Non si stupisce: «Tanto tuonò che piovve. Questo è il primo, vero omicidio politico della Tunisia. Un delitto Matteotti. Che alla fine, chissà, può anche aiutare il regime».
Matteotti? Significa che a Tunisi c'è un Mussolini…
«Anche i familiari hanno subito accusato l'Ennhada, il partito di governo. In Tunisia non vogliono il partito unico ed è evidente che manchi il pluralismo. L'Ennahda è spaccato, governa in un impasse politico che costringe a campare d'aiuti internazionali. Nell'area islamica c'è un gruppo radicale che, solo un mese fa, ha detto d'avere milizie armate: vere squadracce fasciste, esaltate dalla vicenda Mali e dalla cellula qaedista sgominata in Algeria, dove c'erano sette tunisini. Se poi ci mette l'opposizione che vuole la testa di due ministri e rifiuta di collaborare fino al voto, ecco l'analogia col fascismo. E lo scenario per una svolta».
Che tipo di svolta?
«La rivoluzione tunisina può andare verso un nuovo patto politico tra le forze che hanno fatto cadere Ben Ali, o verso una scelta autoritaria. L'esercito non resterà a guardare».
Legge marziale?
«Non credo. Però chiederà un'intesa la più larga possibile. Ed Ennhada ne può approfittare per stringere ancora di più il regime».
Ridateci Ben Ali?
«Quelle democrature non sono da rimpiangere. Però s'è sottovalutato quel che pure Ben Ali temeva: il radicalismo di queste rivoluzioni. Dopo la Libia, laggiù girano un sacco d'armi. E la Tunisia non è, come s'è sempre pensato, meno a rischio d'altri Paesi».

Corriere 7.2.13
L'avvocato che amava la libertà e predisse le squadre della morte
di Lorenzo Cremonesi


TUNISI — Solo poche ore prima venire assassinato mentre usciva di casa nel centro della capitale Chokri Belaid era tornato a ripetere il suo mantra: il maggior partito islamico che governa il nostro Paese difende gli estremisti, la democrazia nata dalla rivoluzione dei gelsomini tunisina è in pericolo. «Ci sono gruppi all'interno di Ennahda («Rinascita», la formazione politica alla testa della coalizione al governo, ndr) che incitano alla violenza», aveva dichiarato martedì sera alla televisione locale Nessma. Con tanto di riferimento diretto a Rachid Ghannouchi, l'anziano leader storico di Ennahda, da lui accusato di difendere le squadracce dei fondamentalisti salafiti. E una considerazione preoccupante: «Chiunque critica Ennahda può essere vittima di violenza». Quasi una profezia. Un epitaffio per se stesso. La mattina dopo cadeva colpito da tre o quattro proiettili sparati a bruciapelo alla testa e al collo.
Nessuno scampo per questo Matteotti tunisino. Nato nella capitale 48 anni fa, studia da avvocato e si unisce ancora studente universitario ai circoli della sinistra militante della facoltà di Legge. Si impegna prestissimo nella lotta per la difesa dei diritti umani calpestati dal regime di Zine Al Abidine Ben Ali. Laico sino in fondo non si tira indietro neppure quando viene chiamato dai compagni tra i ranghi dell'opposizione a difendere in tribunale i militanti dei Fratelli Musulmani. «L'aspetto assurdo della sua generosità è che solo qualche anno fa difendeva gli stessi estremisti che oggi l'hanno assassinato», commentano sarcastici alla redazione del giornale in lingua francese Le Quotidien. Interrogato ripetutamente dalla polizia di Ben Ali, partecipa d'impeto alla rivoluzione due anni fa. Appartiene per cultura e impegno alla grande tradizione della sinistra laica tunisina, considerata tra le più radicate e importanti tra i Paesi del Medio Oriente e Nord Africa. Così è inevitabile la sua scelta di schierarsi in ogni modo contro il nuovo governo quando il fronte islamico vince le elezioni nell'ottobre 2011. Ennahda fa paura alla Tunisia laica. Crescono i casi di attacchi contro le studentesse che non portano il velo nelle scuole e nei campus. Ghannouchi si dice «moderato», «diverso» dai gruppi salafiti. Pure, la nuova stampa libera denuncia i sempre più numerosi casi di intolleranza integralista. C'è l'influenza dell'Egitto, spaventa l'involuzione della situazione in Libia. Nel mondo degli artisti e del teatro, da sempre francofono e profondamente influenzato dalle avanguardie europee, paventano i casi di attacchi contro le gallerie d'arte. Crescono anche i casi di intolleranza contro i media. Nel solo mese di gennaio 50 reporter tunisini hanno subito aggressioni di vario tipo. E spesso la polizia è rimasta solo a guardare.
Belaid non si tira indietro. Alla fine della scorsa estate diventa segretario del Partito dei Patrioti Democratici, una vasta coalizione di opposizione. Inevitabili arrivano contro di lui le minacce di morte. Ieri le hanno ricordate alla stampa anche la moglie e il fratello. «Lui in particolare metteva in guardia contro i Comitati per la Protezione della Rivoluzione, che sono composti da estremisti protetti da Ennahda. E mio marito è stato minacciato di continuo. Ma le autorità non hanno mai fatto nulla. Gli hanno solo risposto che ciò era inevitabile se si ostinava a criticare Ennahda», ha dichiarato la moglie. La famiglia ha fatto sapere di non volere alcun esponente del governo ai funerali che si terranno oggi pomeriggio.

Repubblica 7.2.13
Ambiguità dell’Islam
di Renzo Guolo

Quella che punta il dito, indicandolo come mandante, contro Ennahda, il partito islamista che guida il governo. Del resto, poche ore prima della sua morte, Belaid aveva denunciato il clima di violenza che attanaglia la Tunisia, attribuendolo proprio allo scontro interno a Ennahda. Il partito di Gannouchi, che ha vinto le elezioni dell’ottobre 2011 e afferma di non volere costruire uno Stato islamico ma semmai uno Stato “religiosamente ispirato”, è dilaniato dal conflitto tra quanti vedono nella democrazia un valore in sé e quanti la ritengono solo un mezzo per realizzare gli obiettivi dell’Islam politico. Un’ambiguità irrisolta, che ha scontentato sia i laici, ostili a qualsiasi deriva di matrice religiosa, sia gli islamisti duri e puri.
Nella situazione attuale, caratterizzata da una forte tensione politica e da una crisi economica durissima, molti avevano interesse a innalzare lo scontro. Compresi pezzi di apparati, nuovi e vecchi, in corso di posizionamento e in cerca di nuovi padroni e oggetto delle mire delle diverse correnti islamiste, decisi a fare saltare gli equilibri attuali: paralizzanti per i primi e troppo sbilanciati sul versante islamico per i secondi. È a questa sorta di strategia della tensione in salsa tunisina che si riferisce Ghannouchi, quando attribuisce il delitto a “forze sovversive”. Certo è che Belaid era un Nemico per quelle frange del salafismo che criticano il legalismo di Ennahda e potrebbero aver deciso di alzare il livello dello scontro per provocare quel “bagno di sangue”, evocato per essere esorcizzato dallo stesso Ghannouchi, capace di precipitare il Paese nella guerra civile. Una resa dei conti perseguita dagli estremisti teorici del “leninismo religioso” in quanto levatrice di un nuovo ordine islamico. Per la galassia salafita l’esperimento di Ennahda, che ha guidato un governo di coalizione con forze non islamiste, è da rigettare in quanto non può condurre all’instaurazione di uno Stato islamico. Nelle università così come nella mobilitazione contro i movimenti delle donne o quelli per i diritti civili, i salafiti hanno sempre cercato di “stanare” Ennahda, mostrando come il suo “revisionismo islamico” non sia conciliabile con le parole d’ordine dell’Islam politico.
Schiacciato tra la reazione dell’opposizione laica e la pressione salafita, Ennhada è divenuta preda della sua irrisolta ambiguità. Tollerando al suo interno correnti che tallonano i salafiti sul loro stesso terreno. Non è un caso che le violenze di questi mesi siano opera di elementi della Lega di difesa della Rivoluzione, milizia fiancheggiatrice del partito, in cui gli elementi più radicali hanno avuto mano libera. Una violenza quanto meno tollerata dal ministero dell’Interno, guidato da un esponente di Ennhada e che ha avuto come bersaglio privilegiato proprio Nidaa Tounes, la formazione politica di Belaid.
La famiglia di Belaid e alcuni settori dell’opposizione ritengono che il mandante dell’omicidio sia Gannouchi, ma, al di là della fondatezza dell’accusa, certo è che il vecchio leader, noto per le sue caute posizioni, non pare in grado di controllare le varie anime del partito, in particolare quella che insegue i salafiti sul terreno del “gergo dell’autenticità”.
La durissima protesta dell’opposizione tunisina, che sottolinea questo dato politico, si è già tradotta in crisi istituzionale dopo la sua decisione di far dimettere tutti i suoi rappresentanti dall’Assemblea costituente, la proclamazione di uno sciopero generale, l’annuncio della nascita di un nuovo governo tecnico, dopo l’immediato scioglimento di quello di coalizione seguito alle proteste, da parte del premier Jebali. A questo punto gli obiettivi per l’opposizione sono nuove elezioni politiche e il varo di una costituzione ancorata a principi laici. Un processo per nulla scontato. Si apre così, alle porte di casa, una crisi che può avere un forte impatto, sotto il profilo politico, oltre che sul versante della sicurezza e dei flussi migratori, anche sull’Europa.

La Stampa 7.2.13
La blogger simbolo della rivoluzione:
“Ce lo aspettavamo, qui è il caos”
Lina Ben Mhenni: «Chokri Belaid denunciava le minacce, ma nessuno l’ha ascoltato. Ora abbiamo paura»
di Giuseppe Bottero

qui

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Corriere 7.2.13
Israele, la star di X Factor sospesa da scuola
La diciassettenne Ofir è stata punita per aver cantato davanti agli uomini
di Davide Frattini


GERUSALEMME — Ofir porta l'abito nero e giallo con la gonna che copre le ginocchia e le maniche che nascondono i gomiti. Osserva le regole della sua famiglia e del villaggio religioso dove vive, il moshav Nir Galim sulla costa verso sud. Non è bastato ai rabbini che dirigono la sua scuola: Ofir ha cantato da sola in pubblico — davanti a milioni di israeliani — perché ha voluto partecipare al concorso televisivo The Voice, versione locale dello show americano. E' stata punita, sospesa per due settimane, i genitori hanno accettato il castigo, non l'hanno tenuta a casa.
Ofir Ben-Shetreet è andata avanti, si è presentata ai giudici dello spettacolo che definiscono la sua voce «angelica» e tra loro ha scelto come mentore il «diavolo»: Aviv Geffen, il simbolo della Tel Aviv libertaria e trasgressiva. La rockstar l'ha sfidata a lasciarsi guidare da lui, lei ha intuito che può aiutarla a sviluppare il suo talento di diciassettenne.
Zvi Arnon, il rabbino del villaggio, giustifica la decisione della scuola (che sta ad Ashdod, metropoli portuale poco lontana), la sospensione è arrivata dopo le proteste dei genitori di altri allievi. «Per me Ofir resta — ha commentato in un'intervista al Canale 7 — una giovane con una forte moralità, molti nel villaggio la difendono. Ma nessun leader religioso può permettere che una donna canti davanti agli uomini».
La regola del kol isha è tra le più contestate dai laici, viene applicata alle cerimonie di Stato o militari, dove spesso i soldati ortodossi lasciano la sala per non ascoltare le donne cantare. Un anno fa la Giornata della Gioventù aveva spaccato la cittadina di Kfar Sava, quando i movimenti religiosi avevano preteso che nessuna ragazza si esibisse.
«Io canto fin da quando sono bambina — racconta Ofir — e sento il bisogno di realizzare il mio talento. La Torah vuole che siamo felici e invita ad ascoltare la musica per esserlo. Credo sia possibile conciliare le regole con questi insegnamenti, per questo ho scelto di partecipare allo show».
Rabbini moderati come Aaron Leibowitz sentono in lei «la voce di una generazione che sta cambiando. Non ha rinunciato alla religione, sta cercando la sua strada attraverso le definizioni classiche di giudaismo. Questi giovani — uso una metafora musicale — stanno attuando un remix». Lo psicanalista Carlo Strenger invita sul quotidiano Haaretz il presidente americano Barack Obama a seguire l'accoppiata Ofir-Aviv Geffen per scoprire «un'Israele normale»: «Le elezioni di fine gennaio sono state presentate come una guerra tra tribù, gli ultraortodossi contro i laici. Dobbiamo capire che siamo una società multiculturale di immigrati che deve imparare la tolleranza per sopravvivere».

Repubblica 7.2.13
Obama, storica visita in Israele e in tasca il sogno di rilanciare la pace
di Federico Rampini


NEW YORK — È di gran lunga il viaggio più atteso per Barack Obama. È anche il più rischioso, politicamente oltre che per la sua sicurezza. L’annuncio era nell’aria: Obama visiterà Israele, per la prima volta da quando è presidente (ci andò nel 2008 ma era solo un candidato). La tv israeliana ha anticipato anche una data, il 20 marzo. La Casa Bianca conferma tutto fuorché la data, per ora, aggiungendo che ci saranno altre due tappe in Cisgiordania e Giordania. E già si scatenano scenari, dietrologie, scommesse su questa missione.
C’è la versione più cauta nell’entourage del presidente, è quella di chi dice: «Perché ci va? Perché aveva detto che ci sarebbe andato». La lettura minimalista viene adottata per prudenza dal portavoce della Casa Bianca: «Questo viaggio non è focalizzato specificamente sul processo di pace». In quattro anni di viaggi all’estero la lacuna era vistosa. Gliel’avevano fatto pesare i repubblicani durante la campagna elettorale. «Questo presidente è andato in Egitto (discorso all’università del Cairo, giugno 2009, ndr) e non in Israele. È uno sgarbo grave al nostro alleato storico più fedele», disse Mitt Romney. Quel viaggio mai realizzatosi durante il primo mandato, diventava un appiglio in più per l’accusa della destra a Obama: quella di avere commesso errori strategici sulle primavere arabe, per esempio accelerando la caduta di un alleato come Mubarak per veder poi i Fratelli musulmani al potere al Cairo.
Dunque, Obama aveva promesso di visitare Israele e lo farà. Ma con quali obiettivi? Il quotidiano israeliano Haaretzdà una lettura molto ambiziosa di questo viaggio: «È il momento della verità per il governo Netanyahu. È un tentativo senza precedenti (da parte del presidente Usa, ndr) di dare forma in Israele a una coalizione favorevole al processo di pace». La versione ambiziosa viene riecheggiata da questa parte dell’Atlantico dal Washington Post, che attribuisce al presidente la volontà di «iniziare il secondo mandato dando subito una spinta ai negoziati di pace tra due governi divisi, e di definire gli sviluppi politici che stanno ridisegnando il Medio Oriente».
Gli analisti americani vicini alla Casa Bianca sottolineano il cambiamento dei rapporti di forze tra Obama e Benjamin Netanyahu, il cui governo dovrebbe prendere forma proprio a metà marzo. Prima del voto americano di novembre era il premier israeliano a potersi permettere un atteggiamento duro verso Obama (come fece in un memorabile discorso al Congresso di Washington, flirtando coi repubblicani). Dopo le due elezioni che hanno avuto luogo nei due paesi, Obama è stato riconfermato e rafforzato, Netanyahu si è indebolito.
Più complessa è la situazione tra i palestinesi dove cresce la forza di Hamas, e sono in corso le grandi manovre di riavvicinamento con i rivali del Fatah. Ecco uno dei rischi che la stampa israeliana già indica per Obama: che in Cisgiordania il presidente americano si trovi a parlare davanti a uno striscione che proclama lo “Stato della Palestina”, e magari una carta geografica dove non compare Israele.
I temi nell’agenda della visita sono stati evocati dal portavoce di Obama, Jay Carney: la tragedia della Siria, e la minaccia nucleare in Iran. Carney ha evitato accuratamente di menzionare il “processo di pace”, per non alimentare aspettative eccessive. Ma è chiaro che Obama affronterà tutto. Anche le primavere arabe. Il suo ultimo viaggio nell’area fu proprio il Cairo nel 2009, e quel suo discorso all’università fu interpretato ex post come un incoraggiamento alle rivolte antiautoritarie.
Con l’Egitto in preda a nuove convulsioni autoritarie, la Tunisia anch’essa destabilizzata, nuovi pericoli dalla Libia all’Algeria, Obama dovrà precisare la sua analisi di quel che sta succedendo, la sua visione, le strategie per il futuro dell’intera area che abbraccia Nordafrica e Medio Oriente.
Sarà anche un battesimo di fuoco per il suo nuovo segretario di Stato, John Kerry. Di cui molti osservatori sottolineano gli ottimi rapporti con Israele. Kerry è un personaggio meno glamour di Hillary Clinton, ma potrebbe tranquillizzare degli interlocutori che avevano sentito l’America “distante”? Di certo questo viaggio segna il ritorno di Obama alla politica estera, e in grande stile. Il 2012 per forza di cose era stato un anno più “domestico”: in campagna elettorale, meno il presidente viaggia meglio è. Può esporsi all’accusa di curare gli affari del mondo trascurando i problemi degli americani.
Libero dalle preoccupazioni elettorali, Obama può cercare di fare quello che prima di lui sognarono Jimmy Carter e Bill Clinton: passare alla storia lasciando un’eredità di pacificazione in Medio Oriente. Per i suoi predecessori le delusioni talvolta furono cocenti. Lo stesso Obama ha già assaggiato un insuccesso: nel settembre 2010 orchestrò dei colloqui di pace diretti tra israeliani e palestinesi, per poi vederli naufragare in poche settimane. Ora dovrà evitare che il suo viaggio si riduca ad una semplice “photo-opportunity”. Per mirare molto più in alto dovrebbe avere una nuova “road map”, un percorso verso la pace, possibilmente assortito da una tempistica.

Corriere 7.2.13
Pacifismo nelle piazze, il caso siriano e israeliano
risponde Sergio Romano


In Siria sono stati trovati i cadaveri di decine di cittadini assassinati e gettati in un corso d'acqua con le mani legate dietro la schiena. È stato calcolato che oltre 100.000 civili siano stati trucidati (per non parlare degli altri innumerevoli diseredati, uomini, donne e bambini, costretti a rifugiarsi, a rischio della vita, in Turchia, Libano ecc.) È stato calcolato che mediamente ogni giorno il regime di Assad uccide 200 civili. Mi chiedo: dove sono finiti i nostri cosiddetti pacifisti sempre pronti a manifestare violentemente contro Israele per episodi infinitamente meno gravi? Perché non manifestano nelle strade, non bruciano le bandiere della Siria ecc.? Sorge un leggero sospetto: non è che per caso i nostri «pacifisti» siano semplicemente degli anti-israeliani e, essendo Israele per definizione lo Stato Ebraico, dei genuini antisemiti?
Franco Cohen

Caro Cohen,
Ho avuto spesso l'impressione che molti pacifisti fossero lupi travestiti da agnelli. Bertrand Russell, presidente della Campagna antinucleare, obbediva a convinzioni profonde, ma quando marciava nelle vie di Londra contro gli arsenali atomici si tirava dietro molte persone che condannavano le bombe americane molto più di quanto condannassero le bombe sovietiche. Più o meno lo stesso accadde tra la fine degli anni Settanta e l'inizio degli anni Ottanta quando vi furono grandi dimostrazioni contro l'installazione di missili americani in alcuni Paesi dell'Alleanza Atlantica. Molti di quei dimostranti, evidentemente, consideravano i Cruise e i Pershing degli Stati Uniti molto più pericolosi degli SS20 sovietici.
Nel caso della Siria credo che i pacifisti siano comprensibilmente incerti e confusi. Si dice che le vittime, dall'inizio della insurrezione, ammontino ormai a 100.000 (60.000 secondo il negoziatore dell'Onu Lakhdar Brahimi), ma nessuno può dire con esattezza quanti siano in quella cifra i militari siriani, i combattenti della resistenza e i civili. La documentazione fotografica e cinematografica non ha un'accertata paternità, non fornisce indicazioni precise, è avvolta nella nebbia. I giornalisti stranieri presenti a Damasco e Aleppo sono pochi e si muovono con grande difficoltà. La resistenza sembra essere una galassia di gruppi e gruppuscoli di diversa estrazione con una forte componente alqaedista. Quando il leader riconosciuto dall'Occidente, lo sceicco Ahmad Moaz Al Khatib, ha proposto l'avvio di un dialogo con i rappresentanti del governo di Damasco, le sue parole sono state immediatamente sconfessate dalla componente radicale del movimento. Aggiungo che gli avvenimenti egiziani delle scorse settimane hanno impartito a tutti una lezione di prudenza. Non è facile, in queste circostanze, inscenare manifestazioni «pacifiste».
Il caso di Israele è alquanto diverso. Vi è certamente un settore importante dell'opinione pubblica europea che sostiene i palestinesi contro il governo israeliano, soprattutto quando il problema in discussione è quello degli insediamenti coloniali nei territori occupati. Ma queste critiche non sono fondamentalmente diverse da quelle che molti israeliani hanno indirizzato in questi ultimi anni al governo di Benjamin Netanyahu.

Repubblica 7.2.13
Il Giappone contro Michelangelo
“Rivestite la copia del David”


TOKYO — In Giappone la nudità crea imbarazzo, anche se è quella del David di Michelangelo. La copia della scultura è stata donata alla città di Okuizumo (nella prefettura occidentale di Shimane) insieme a una della Venere di Milo da un ricco mecenate locale. Le due statue sono state piazzate in un enorme parco pubblico, in cui si trovano anche strutture sportive e un’area giochi per bambini. A molti è sembrato inopportuno e imbarazzante. «Sono statue senza veli e tali opere d’arte sono molto rare nella zona: secondo taluni, potrebbero non essere adatte alla visione dei più piccoli», ha spiegato Yoji Morinaga, rappresentante dell’amministrazione locale. Ecco allora che alcuni abitanti hanno chiesto che venga fatta indossare biancheria intima al David per «nascondere la sua modestia».

Corriere 7.2.13
Gramsci fa scuola in Inghilterra, modello per Gove, ministro tory
di Fabio Cavalera


Se non fosse che ha già la fama dell'ultraconservatore di destra, Michael Gove passerebbe oggi per un sovversivo pericoloso viste sue dichiarate simpatie per Antonio Gramsci, uno dei padri fondatori del comunismo italiano.
Parlando alla platea del think-tank «Social Market Foundation», il tanto discusso ministro dell'Istruzione del governo di sua maestà ha rivelato che a ispirare i suoi piani educativi per le scuole del Regno Unito (più severità, più selezione) c'è anche Antonio Gramsci perché ebbe il coraggio di contestare la cosiddetta progressive educational theory del movimento Educazione Nuova, che «spacciata per egualitaria» enfatizzava la necessità di stimolare la crescita dei ragazzi seguendo le loro curiosità e le loro abilità pratiche «naturali» anziché promuovere lo sviluppo culturale attraverso l'insegnamento tradizionale e l'apprendimento delle discipline classiche.
L'intuizione di Gramsci fu di ammonire che un simile approccio pedagogico (la teoria della progressive education), suggestivo ma «ben lungi dall'essere democratico», avrebbe in realtà privato «la classe lavoratrice degli strumenti di cui ha bisogno per emanciparsi dall'ignoranza» (parole di Gove). Nella sua veste di ministro dell'Istruzione, l'esponente conservatore ha tenuto una lezione di pedagogia richiamando le opere di Gramsci che «auspico vengano lette con attenzione». Lui ne ha fatto il modello di riferimento per una riforma che, per dirla allo stesso modo del pensatore comunista, ha lo scopo di «condurre il giovanetto fino alla soglia della scelta professionale, formandolo come persona capace di studiare, dirigere e controllare chi dirige».
Davvero imprevedibile. Questi conservatori inglesi sono un fenomeno politico interessante. Cameron vuole le nozze gay e sfida l'ortodossia tory. Il suo ministro Gove, di certo non un progressista, celebra convinto il pensiero marxista di un grande italiano. A Londra c'è una destra moderata che si spoglia di antichi tabù.

il Fatto 7.2.13
Libro inchiesta
Un popolo così ignorante che non sa di esserlo
di Tomaso Montanari


Ho visto la scuola pubblica smantellata pezzo per pezzo, la ricerca agonizzare, l’università annichilirsi anno dopo anno. E, in parallelo, questo paese perdere grinta, ambizione, ridursi a una cartolina del passato in cui la cultura viene messa da parte in favore di non si sa bene quale scorciatoia... A una scuola pubblica peggiore può corrispondere solo un paese peggiore”. È intorno a questa lucidissima, terribile pagina di Silvia Avallone che Roberto Ippolito costruisce Ignoranti (Chiarelettere, da oggi in libreria).
Ignoranti non è un lamento, e non è stato scritto da un intellettuale fuori dal mondo: Ippolito è un giornalista economico ed un esperto in comunicazione, e il suo libro dimostra con i numeri e i dati di fatto quanto la constatazione della Avallone sia aderente alla realtà.
L’ITALIA è un paese di ignoranti. “Il 71 per cento della popolazione – scrive il linguista Tullio De Mauro, citato da Ippolito – si trova al di sotto del livello minimo di lettura e comprensione di un testo scritto in italiano di media difficoltà; il 5 per cento non è neppure in grado di decifrare lettere e cifre, un altro 33 per cento sa leggere ma riesce a decifrare solo testi di primo livello su una scala di cinque ed è a forte rischio di regressione nell’analfabetismo, un ulteriore 33 per cento si ferma a testi di secondo livello”. Se qualcuno si chiede come sia possibile che Silvio Berlusconi risalga nei sondaggi settimana dopo settimana grazie a promesse a cui possono credere solo gli analfabeti, ecco la risposta.
Il nesso tra corruzione della politica e ignoranza è fortissimo: “Nel parlamento italiano la percentuale di laureati è scesa dal 91,4 per cento della prima legislatura al 64,8 della quindicesima. Una flessione di 27 punti percentuali, in controtendenza con le altre democrazie: negli Stati Uniti i laureati al Congresso superano il 94 per cento”. E una politica analfabeta impone al Paese un futuro di analfabetismo: l’“attacco continuo alla scuola pubblica” (è il titolo di un paragrafo del libro) ha prodotto la scuola con l’età media degli insegnanti più alta d’Europa. L’89,3% ha più di quarant’anni, e i precari che li dovrebbero sostituire hanno esattamente quell’età media.
ANZIANI, dunque, e drammaticamente sottopagati: “gli stipendi dei docenti italiani sono diminuiti dell’1% tra 2000 e 2009” mentre “nel resto dei paesi Ocse sono aumentati mediamente del 7%”. Per non parlare delle scuole: edifici sporchi, inadeguati, pieni di topi: e nel paese con la retorica dell’infanzia più melensa e irritante del mondo, il 47,5 per cento delle scuole non ha un certificato di idoneità statica, e solo il 24,8 è stato sottoposto a verifica di vulnerabilità sismica. E gli stessi ministri e presidenti del Consiglio che non hanno fatto assolutamente niente per migliorare la situazione, e anzi l’hanno aggravata con i dissennati tagli lineari (Francesco Profumo e Mario Monti in testa) saranno in prima linea ai funerali delle vittime del prossimo crollo scolastico.
Ma – fa notare Ippolito contro ogni retorica dell’antipolitica – la cultura non è solo “calpestata dalle istituzioni” (così si intitola un altro paragrafo), ma è come rigettata dalla stessa società. A partire dalla classe dirigente in senso più ampio: e Ippolito mette in fila alcuni degli strafalcioni dei giornalisti, della comunicazione ufficiale di Trenitalia, degli idolatrati giocatori di calcio (come non citare il “Rispetto l’omofobia” di Francesco Totti?). E non c’è da stupirsi: “il numero di lettori fra i dirigenti, gli imprenditori e i professionisti in Germania e Francia è grosso modo il doppio” che in Italia (i dati sono di Giovanni Solimine, L’Italia che legge, Laterza 2010).
Ed è devastante dover ammettere che l’intesa tra la politica e i cittadini è spesso giocata proprio sul condiviso sospetto per la cultura. Alessandra Mussolini ringhia che “il nonno ha fatto opere, mica libri”. Rispondendo a Massimo Giletti, Berlusconi ha detto che “Mario Monti è umanamente gradevole, ma è un professore”: una colpa irredimibile. E Matteo Renzi è ben avviato sulla stessa strada. Se deve spiegare che Dante è vivo, specifica che non è “noioso come la spiegazione di un professore arrugginito”.
UN PAESE che accetta e favorisce le differenze basate sul censo e sullo status ereditario, e dunque differenze contro il merito, ma mal sopporta invece l’idea che esista un’élite fondata sulla conoscenza e lo studio: “si è verificato uno scadimento complessivo, un inebetimento”, dice lo scrittore e insegnante Marco Lodoli. Il quale, tuttavia, sente che il vento sta cambiando: “Credo si apra una nuova stagione. Si avverte una diversa atmosfera culturale dopo che i ragazzi e gli adulti hanno vissuto in una specie di circo”. È da qui che può innescarsi “la scossa possibile” che dà il titolo all’ultimo capitolo del bel libro di Ippolito: “L’Italia ignorante non è l’Italia che può prendere slancio. Non contrasta le diseguaglianze, non favorisce l’avanzamento sociale. Ma i tanti fermenti esistenti, i successi dei talenti italiani... dicono che il sapere può dare la scossa”.
E per invertire la rotta basterebbe ricordare che: “Tagliare il deficit riducendo gli investimenti nell’innovazione e nell’istruzione è come alleggerire un aereo troppo carico togliendo il motore”. In campagna elettorale tutti i nostri politici sarebbero pronti a sottoscrivere questa frase: per rimangiarsela, come sempre, nei fatti, già un minuto dopo la presa del potere.
Chi l’ha detta, invece, l’ha anche messa in pratica: ma si chiama Barack Obama.

IGNORANTI © Roberto Ippolito Chiarelettere, pag. 192, prezzo 12,90 euro

il Fatto 7.2.13
Quando De Benedetti comprò l’Espresso
Scalfari disse: non faccio beneficenza
Pubblichiamo uno stralcio da “la Repubblica di Barbapapà, storia irriverente di un potere invisibile”, scritto da Giampaolo Pansa e in uscita in libreria il 13 febbraio.
di Giampaolo Pansa


Una sera del marzo 1988, Scalfari mi invitò a cena in un piccolo ristorante che era solito frequentare: Coriolano, in via Ancona, poco distante da Porta Pia. Si sentiva in vena di confidenze e mi raccontò il suo schema di vita e di lavoro. Riassumendolo in due fasi, A e B. Ne scrissi qualcosa in un diario che allora tenevo. La fase A era durata sino a qualche mese prima. Eugenio aveva pensato di lasciare la direzione di Repubblica quando avesse compiuto i 65 anni. In quel momento stava per compierne 64, dunque sarebbe arrivato al traguardo nell’aprile del 1989. Per questo si era messo a riflettere su chi avrebbe potuto prendere il suo posto al vertice del giornale. (...) Ma poi è arrivata la fase B e il proposito è saltato. “La fase B – continuò Eugenio – comincia quando De Benedetti mi fa sapere di voler diventare il presidente della Mondadori che possiede metà del nostro giornale. Allora ho pensato che davanti a quel satanasso dell’Ingegnere soltanto io potevo garantire l’indipendenza di Repubblica. E così ho deciso di restare a dirigerla fino a quando ne sarò capace. Poi mi ritirerò, ma soltanto perché mi porteranno via dall’ufficio in barella”. Tra Scalfari e l’Ingegnere esisteva un conflitto coperto sul quale noi della truppa sapevamo ben poco. Tuttavia, si erano conosciute un paio delle mosse tentate da Eugenio per arginare il “satanasso” di Ivrea. De Benedetti puntava alla presidenza della Mondadori e insieme a diventare l’unico padrone del Gruppo Espresso-Repubblica. (...)
SCALFARI allora chiese all’Ingegnere di essere nominato undicesimo componente nel consiglio di amministrazione dell’Editoriale La Repubblica. In quel momento i consiglieri erano dieci: cinque espressi dalla Mondadori e cinque dall’Espresso. Il numero undici sarebbe stato decisivo nelle scelte strategiche della società e per la nomina dei direttori. Ma pure stavolta De Benedetti disse no. (...) Eugenio si incavolò. E replicò al Satanasso: “Bene, vorrà dire che il giorno che tu diventerai il presidente della Mondadori, io pubblicherò un articolo di fondo su Repubblica per rendere noto ai lettori che il mio azionista di riferimento è soltanto il Gruppo Espresso! ”. (...)
Nel frattempo Eugenio continuava a (...) galvanizzare la redazione. E a rassicurarla su un fatto: né lui né Caracciolo avrebbero mai ceduto alle lusinghe del Satanasso. Un De Benedetti sempre più voglioso di papparsi Repubblica. (...) Fu nell’aprile 1989 che la storia di Repubblica ebbe una svolta che nessuno di noi prevedeva. Dopo un lungo tira e molla, Scalfari e Caracciolo cedettero a De Benedetti le loro azioni del Gruppo Espresso-Repubblica. (...) Scalfari la mise giù così: “Nel mondo dei media il futuro è già iniziato. Chi vuole andare avanti deve attrezzarsi per questa nuova fase. Noi del Gruppo Espresso eravamo diventati molto grossi rispetto a trentacinque anni fa, al momento della fondazione del settimanale. Ma anche terribilmente piccoli rispetto alle dimensioni entro cui si combatte questa sfida che riguarda anche noi. Perciò abbiamo preso la decisione giusta”.
(...) In Mondadori comandava De Benedetti e nessun altro. Del resto pochi mesi dopo, come vedremo, Caracciolo sarebbe stato costretto a dimettersi sotto l’offensiva di Berlusconi. Tuttavia la spiegazione di Eugenio era la più realistica. Posso tradurla così: meglio con il Satanasso che da soli. Soprattutto quando si avevano di fronte due colossi dell’editoria: la Fiat e il gruppo Rizzoli. (...) Quale era stato l’incasso della vendita di Repubblica e dell’Espresso a De Benedetti? (...) Allora si disse che Carlo ed Eugenio avevano incassato molti miliardi di lire. Quanti con esattezza? Le ipotesi furono tante. La più verosimile parla di 300 miliardi di lire pagati da De Benedetti per la quota di Caracciolo e di 90 miliardi per la quota di Scalfari. (...)
CON LA SOLITA ruvida schiettezza, De Benedetti raccontò: “Io ebbi la sensazione che (...) in alcuni giornalisti della vecchia guardia ci fu un’invidia da spaccare la bile nei confronti di Scalfari. (...) Per chi era partito insieme a lui non fu facile ingoiare il boccone”. (...) De Benedetti mi raccontò di quando aveva consegnato ai Gemelli (Caracciolo e Scalfari, ndr) una montagna di assegni circolari. A pagamento avvenuto, gli suggerì di dar vita a un fondo di assistenza per i redattori di Repubblica alle prese con difficoltà familiari: un bambino da far operare negli Stati Uniti, una figlia con studi costosi da finanziare. Poteva essere una mossa utile a placare i forti malumori della redazione. La risposta di Carlo ed Eugenio fu di una chiarezza cinica: non siamo un ente di beneficenza. E non ci passa neppure per l’anticamera del cervello di diventarlo! (...)

LA REPUBBLICA DI BARBAPAPÀ © Giampaolo Pansa pag. 328 - Rizzoli - euro 19,00

il Fatto 7.2.13
Massimiliano Fuksas
La mia Nuvola, svanita per le faide dei partiti
intervista di Malcom Pagani


Nella crociata itinerante di un’arte che da Tbilisi traccia rette fino a Doha, Massimiliano Fuksas non disegna tra le nuvole. Le osserva sospese sul temporale giudiziario che blocca il cielo sopra l’Eur e bagna nella pioggia sporca i vecchi compagni di strada del progetto: “Non so cosa facesse Riccardo Mancini di notte, né se di cognome si chiamasse Hyde. So che per la Nuvola si è battuto, ha cercato i soldi e non ha perso una riunione. Insieme al sindaco, è stato l’unico. Non lo voterei mai, Alemanno, ma lui lo sa benissimo”. Ora che sul Polo congressuale di Roma soffia il vento dell’Antartide e ibernano anche le profezie di Veltroni: “Saremo pronti nel 2009”, Fuksas rimira il plastico: “Vede la luce? Le vibrazioni? ”, culla l’attesa con fatalismo: “Finiremo. Che ci vuole? Se avessimo un’impresa mancherebbero pochi mesi”, e il ritardo con disillusa amarezza: “La Nuvola nasconde una storia meravigliosa, molto italiana. I soldi ci sarebbero ma la verità è che qui i partiti si stanno ammazzando tra loro, le faide interne bloccano un Paese che già alla fine del ’68 aveva perso il desiderio di diventare moderno e domina l’invidia. In Francia, se hai successo, ti proteggono. Qui ti vogliono morto”.
Chi esattamente?
Gli stupidi. Con loro non c’è rimedio. Devi sperare che dio esista e faccia il suo mestiere. I problemi degli amici diventano miei, ma dei nemici non mi occupo. In Italia a certi livelli tutti parlano male di tutti e cercano di fotterti. Ai premi è una regola: “Mai aiutare un connazionale”. Io ho una cultura internazionale e gli italiani cerco di farli vincere.
Fuchs in tedesco significa volpe.
Ma io non ho mai inseguito il potere. Mio padre è morto quando avevo sei anni e ho ricevuto un’educazione femminile. Mamme, zie e machismo bandìto. Qualunque psicanalista le direbbe che non ho introiettato il senso del comando. Ero il diverso, quello col cognome straniero. Fisicamente poi ero debolissimo. Se girava uno schiaffo lo prendevo io. C’è una mia foto con Giorgio Caproni. Nel Montgomery sembro minuscolo.
Dicono abbia reazioni inconsulte.
Dicono che sono violento solo perché mi difendo. Qualcuno mi incontra e ha paura in anticipo. Può essere molto rilassante.
Fuksas, l’archistar.
Soprannome orribile. Artigiano al massimo, mai iscritto a nessuna lobby. Amavo il movimento, diffidavo dei capetti e detestavo i gruppettari già nel ’68. Un collo di bottiglia. La fine di un’epoca, non l’inizio di una nuova era. Quando lo spontaneismo corale cominciò a indossare sigle come Lotta Continua o Potere Operaio e i vecchi amici come Scalzone si fecero prendere la mano, scelsi come tutti, una strada diversa. Rimasi distante anche dalla trappola maoista. Con la contessa Sebregondi a regalare i mobili e le curiosità che mi porto dietro da 40 anni.
Curiosità?
Vorrei chiedere a Michele Santoro se ai tempi fosse davvero passato da “Servire il popolo”. Me lo dimentico sempre.
Nella confusa cosmogonìa dei ’60, Stefano Delle Chiaie la colloca in Avanguardia Nazionale.
Sono un anarchico, si figuri se posso militare. O sono il capo oppure non ci posso essere. (ride).
E Delle Chiaie?
Si sbaglia e non di poco. Forse perché avevo origini lituane e a Kaunas, dove il mio bisnonno estraeva il sale, essere comunisti era impossibile. Gli ebrei non potevano studiare. E noi eravamo ebrei. Lui mandò un figlio in Africa a cercare diamanti nel Transvaal e l’altro a Heidelberg per studiare medicina. Qui conosce una ragazza, si sposa, fa due figli, muore in guerra e lascia mia nonna in piena rivoluzione russa. Papà era del 1910. Mi raccontava che a Mosca i pianoforti volavano dalla finestra. Sono stato fortunato. La mia famiglia è passata attraverso la persecuzione con la conoscenza delle lingue e gli alberi genealogici inventati. Anche la razza è un’invenzione. Paraideologica.
Lei ha conosciuto Pasolini.
Nei ’60. Quando era chiaro che i soldi non servivano, le aspirazioni sembravano possibili e l’interclassismo una realtà. Oggi la nevrosi è un desiderio inappagato all’infinito, la gente si frequenta a segmenti e Pasolini che ripudiava il consumismo, frequentava le borgate e degli studenti se ne fregava proprio: sarebbe rimasto sgomento. Ci scrivemmo lettere terribili su Valle Giulia, poi iniziammo a giocare a calcio insieme. Io ero il 10, lui il numero 7. Bravo in campo, campione nel “dito di ferro”: medio contro medio. O ti arrendevi o te lo spezzava. Abitavo a Monte-verde, ma a casa non stavo mai. Meglio piazza Rosolino Pilo. Meglio Ostia.
Ostia?
Giancarlo Ceccanei, il più povero della comitiva, veniva con noi al mare. Immigrato veneto, Ceccanei. Come Ilvo Diamanti. Una volta mi trovo a un consesso scientifico della Confindustria. Vicino alla Fornero. Atmosfera lunare. Diamanti parla e dice: “Vengo da Cuneo”. Per uno di quei pregiudizi, diffusi e irrefrenabili, Cuneo provoca ironia e in sala si diffonde ilarità. Allora parla ancora e dice solo: “Sono di Cuneo, ma la mia famiglia viene dal Veneto e le mie zie hanno servito nella case di Torino”. Gelo in sala. Montezemolo accovacciato sulla poltrona.
La descrivono venale. “Fuksas è strapagato” giurano.
Sono balle. Entrambe. Dei soldi, a quasi 70 anni non mi importa niente. A Tbilisi, ad esempio, manca denaro per finire l’opera che abbiamo iniziato. È venuto il sindaco: “Non abbiamo più finanziamenti”. “Che problema c’è? ”. Ci perderò, ma concluderemo. Accade spessissimo. Affronto alcuni progetti semplicemente per potermi permettere i miei sogni. Il resto va nell’ufficio. Ci lavorano più di 100 persone. Il denaro per il denaro, come dimostra il caso Mps è aria. Il niente che si scambia con il nulla.
Per il nuovo grattacielo della regione Piemonte indaga la Guardia di finanza. Ha preso un cachet eccessivo?
È una bugia, di cui qualcuno come Vittorio Sgarbi, sarà chiamato a rispondere in sede penale. Mi ha dato del ladro in tv. Non può passare. L’ho denunciato. La prima querela della mia vita.
Le diede anche del ciccione comunista.
Non mi è mai capitato mai tra le mani. Se gli dessi ciò che merita proverebbe piacere. Vorrebbe i soldi. È un brutto personaggio.
Non le piaceva neanche Bertolaso. In una pizzeria in Prati volarono parole grosse e portacenere.
Non volò niente. Diedi il mio parere ad alta voce. Dissi che non era bello vederlo in quel luogo.
Disse proprio così?
Più o meno. Avevo ragione. Credo proprio di aver avuto ragione.
Crozza la imitava trasformandola in Fuffas.
Mi chiamò. Voleva che andassi in tv. Lo fermai: “Non posso, siamo uguali”.
Berlusconi si ripresenta alle elezioni.
Può vincere. Vede, io sarei anche in pace, purtroppo ho avuto 20 anni di vita rovinata dal berlusconismo. Non accettavo l’ingiustizia e non ho l’indole del fuggitivo, ma per fortuna, mi chiamarono da Parigi. Andai di corsa. Il Lang giovane, il Mitterrand padre della patria, la cultura, il rifugio di cineasti e teatranti. Berlusconi ha creato deviazioni e deformazioni del comune sentire. Pirandellianamente difende la sua “roba”. Maschera tragica. Inquietante. Lo osservi e sospiri: “Non vorrei somigliargli”.
Poi lei da Parigi tornò.
In tempo per assistere al governo Cossutta, Cossiga, D’Alema e alla caduta di Prodi. Brutta storia. Stavolta, se vince Berlusconi parto e non ritorno. È una promessa.
E se le danno un premio?
Lo metto nell’armadio dei mostri. È pieno di cianfrusaglie, in genere bruttissime.

Corriere 7.2.13
Vita “cristiana” del Buddha
di Alberto Melloni


Il titolo appropriato — Storia di Barlaam e Ioasaf — dice poco a pochi. Il più antico manoscritto che ce la tramanda è del 1021 ed è a Kiev; il suo parente più stretto all'Athos; l'altro del 1064 ad Oxford. Ancora negli anni Cinquanta dello scorso secolo la si credeva opera di Giovanni Damasceno, ed oggi dopo che padre Bonifatius Koetter e Robert Volk gli hanno dedicato una vita di studi, lo scrigno di questo «romanzo» si apre con tutto il suo carico di mistero e di fascino. «La vita bizantina del Buddha» (Einaudi, pp. CXXVI+314, 35) svela il sottotitolo della edizione traduzione italiana di Silvia Ronchey e Paolo Cesaretti: ma anche questa anticipazione del finale non lascia sospettare l'intreccio magico di vie e visioni che questo racconto consegna a chi legga la sontuosa introduzione e la inappuntabile traduzione di questo che è davvero un «libro» nel senso forte della parola.
Forse è lo schematismo mentale e la povertà interiore a cui siamo assuefatti; forse è colpa (sì, colpa) delle religiosità ipocrite e degli stucchevoli manierismi agnostici che danzano insieme sul bordo dell'abisso dell'assurdo; forse è solo l'ignoranza crassa partorita dallo stupidario d'una ricerca che a forza di cercare ricadute, cade rovinosamente su se stessa: ma per entrare negli strati della sua vicenda e dei suoi significati serve davvero quel piccolo oggetto al quale consegniamo un po' di tempo e che in cambio ci restituisce il filo di secoli e di mondi. Mondi che iniziano nel X secolo in Bitinia. Eutimio, formatosi culturalmente a Bisanzio dov'era stato inviato come ostaggio, raggiunge il padre, già passato a vita monastica dai ranghi dei nobili georgiani (detti ivèri): dopo che un monaco georgiano guida la vittoria sull'usurpatore al trono di Costantinopoli Barda Sclero nel 963, questa etnia viene premiata con la costruzione di un monastero all'Athos (detto appunto Ivrion), di cui il provetto traduttore Eutimio diventa igumeno al posto del padre verso il 1005. Egli conosce una versione georgiana del Balavariani, un romanzo tradotto sulla base di una versione araba del 775-785: e produce così la versione greca della storia di un principe segregato che incontra il dramma del mondo e lo decifra con l'aiuto dell'eremita Bilawhar (Balavar in georgiano, infine Barlaam).
Eutimio non sa che sta spostando verso occidente un racconto che aveva già reso la vita del Buddha un apologo per dotti musulmani ismaeliti e che sotto la sua penna diventa una «cristianizzazione» di quell'originale ormai lontano: ma sa che per rendere quella storia asciutta palatabile ai suoi lettori bizantini deve creare una struttura narrativa, creare un po' di suspense e inserire qua e là altri estratti di spiritualità e morale che commuovano il suo lettore.
Il risultato ottenuto da Eutimio è straordinario, e la fortuna sia di quella sua versione sia delle sue fonti lo testimonia. Chi infatti abbia la pazienza di affrontare quello che a prima vista è un normale testo di esortazione spirituale, solo dopo aver letto la ricca e dotta presentazione di Silvia Ronchey troverà, frase dopo frase, le ragioni di un'avventura editoriale e culturale piena di suggestioni, dall'edizione di Teheran del 1883 a quella prodotta a Bombay sei anni dopo. Mentre si alzava la torre dell'ingegner Eiffel quelle edizioni giravano l'Oriente. Edizioni che, con pochi tocchi, facevano diventare Budasaf un Iudasaf, anzi Ioasaf, cioè un Gesù indiano nel quale si rispecchia, sullo scorcio del secolo XIX, il santo Mirza Ghulam Ahmad, che in quelle pagine rivela la profezia della sua missione di Ben Guidato, purificatore dell'islam, Messia chiamato a portare le religioni alla perfezione. Da questa tradizione deriva la citata versione georgiana e gli intrecci globali che, secondo me, è sbagliato catalogare come espressioni di un «sincretismo».
Questa storia, infatti, non ci parla di una sintesi costruita fra elementi consapevoli di sé: ci dice, al contrario, che nella vita del Buddha sia i musulmani che i cristiani trovano dei significati essenziali: nella storia del principe protetto che si misura con la miseria umana trovano un percorso che si inserisce nel sistema dottrinale di ciascuno senza contraccolpi. E che, alla fine, esalta quel fondo ascetico-spirituale che gli uomini di Dio condividono sempre, specie dentro la forma del monachesimo. Questa vita «cristiana» del Buddha, dunque, può essere letta come un romanzo di mondi lontani ed esoticamente remoti: ma dice anche che le molte vie della fede possono essere percorse non per una compiacenza allo spirito dei tempi di questa età (così distante da quello del secolo X all'Athos...), ma per una sete interiore da alimentare con ogni cura, come se la sete fosse l'unica cosa che irriga le aridità dell'ultimo.

Repubblica 7.2.13
Jenna Miscavige Hill, nipote del guru, ce l’ha fatta a uscirne

A 7 anni era già un’affiliata, ora in un libro racconta l’orrore
“Plagi, ricatti e violenze la mia vita in Scientology”
di Angelo Aquaro


NEW YORK - A 7 anni era l’erede al trono, a 16 la ribelle, a 24 la traditrice. E adesso proprio lei, la nipote del capo supremo, scrive: «Scientology è un’organizzazione pericolosa i cui valori l’autorizzano a commettere dei crimini contro l’umanità. Vuole sapere se ho paura? No, ormai non ho più paura: non appartengo più a loro. È vero, ci hanno provato in tutti i modi, io e mio marito siamo fuggiti insieme e siamo stati tormentati, provocati, inseguiti. Ma adesso che cosa possono fare di più?».
Che cosa possono fare, per la verità, Jenna Miscavige Hill lo racconta fin troppo bene: «Lavori forzati, lavaggi del cervello». Più che una confessione, questo “Scientology” è una bomba lunga oltre 400 pagine che la nipote di David Miscavige, il potentissimo successore di L. Ron Hubbard, lo scrittore di fantascienza e fondatore della chiesa, innesca già col sottotitolo: “Io ci sono nata. Ci sono cresciuta. Sono scappata”. Ed è una bomba che negli Stati Uniti esplode, col rimbombo delle smentite, proprio mentre la Chiesa di Tom Cruise e John Travolta utilizza la vetrina del SuperBowl, lo spettacolo più televisto del mondo, 108 milioni di spettatori, 4 milioni di dollari ogni 30 secondi di pubblicità, per lanciare l’ultimo spot.
Comprensibile che Scientology sbandieri i suoi divi. Ma come spiega che tanti divi siano attratti da Scientology?
«L’artista vive di introspezione quasi per definizione. Ed ecco che arriva questa religione e promette di sviluppare la mente, di potenziare le tue capacità. Per non parlare di tutti quelli pronti a dirti quanto sei bravo».
Faceva i riti di purificazione con Lisa Marie Presley: ma nessuno badava a lei, scrive, perché tutti erano intorno alla figlia di Elvis.
«Il Celebrity Center di Scientology, lì a Los Angeles, è un mondo a parte in un mondo a parte».
Sta dicendo che i divi non sanno cos’è davvero Scientology?
«Nessun divo, lì dentro, potrebbe mai incrociare un fedele in difficoltà, qualcuno in punizione, costretto a un trattamento speciale. Ma questa è l’ignoranza della volontà: ormai lì fuori c’è tanta informazione disponibile. E chi si spende pubblicamente per un’organizzazione non ha il dovere, prima, di conoscere la verità?».
Dicono che Katie Holmes abbia detto basta a Tom e a Scientology perché non voleva affidare la piccola Suri alla chiesa.
«Che tifo che ho fatto: coraggio, tirati fuori da lì!».
Si è rivista in quella bambina? Sua madre e suo padre Ron, fratello di David, che non ha figli, la fanno entrare a 7 anni nei Sea Org, l’elite dei sacerdoti dove già militavano loro. Finché, adolescente, lei “apre gli occhi” grazie a un ragazzo italiano.
«Ero cresciuta pensando fosse normale vivere lontana dai genitori. Mia madre sempre in missione, mio padre pure. E invece gli italiani, così attaccati alla famiglia. Martino diceva: io qui morirei senza mia madre».
L’ha più rivisto?
«L’ultima volta avevo 16 anni. È stato lui a insegnarmi a farmi tante domande, poi ci hanno separati. Spero non sia diventato un robot come tutti gli altri».
È stato suo nonno, educazione cattolicissima, ad avvicinare la famiglia alle teorie di Ron Hubbard. Era la fine degli Anni ‘50.
«Sarà stata l’immagine liberatoria, una religione senza Dio: in Scientology, in pratica, ciascuno è dio di se stesso. Per il nonno, all’inizio, era un metodo di autoaiuto: self-improvement. Infatti. Dicono che ti insegnano a prendere il controllo della tua vita: ma alla fine sono loro a prendere il controllo della tua».
Si chiama proprio The Master, il Padrone, il film di Paul Thomas Anderson ispirato a Ron Hubbard. L’ha visto?
«E m’è pure piaciuto. Dipinge bene la realtà dei primi anni. Certo molto è cambiato, l’organizzazione è diventata più complicata».
C’è chi pensa che suo zio, David Miscagive, abbia tradito l’eredità di Hubbard.
«Ma no, questo no. C’era già tutto: il metodo, il trattamento, le punizioni. È Scientology in sé che non funziona».
Però è lei a scrivere che Miscavige è arrivato al potere e l’ha conservato con metodi, diciamo così, poco ortodossi. Scientology potrà sopravvivere senza il suo pugno di ferro?
«La gente comincia a discutere, saltano fuori le verità. Comunque non potrà restare un’organizzazione così potente».
Sono dovuti passare 5 anni dalla sua fuga per realizzare questo libro. E adesso?
«Guardo mio figlio Archie che sabato fa 4 anni, la mia Winnie che ha appena 11 mesi. Io avevo 7 anni quando tutto è cominciato, Scientology si è presa la mia vita. Basta: adesso voglio guardare avanti».
E in che cosa crede, adesso, l’ex bambina che sognava il trono?
«Solo in quello che vedono i suoi occhi».

Repubblica.it 7.2.13
Le "terre" possibili nell'universo non sono nemmeno tanto lontane

La sonda della Nasa Keplero ha rivelato che una stella su sei, fra le nane rosse, ha almeno un pianeta simile alla Terra che le ruota attorno. I pianeti adatti alla vita possono dunque arrivare ad alcune decine di miliardi, il più vicino dei quali, secondo i calcoli statistici della Nasa, dovrebbe trovarsi a soli 13 anni luce da noi
di Elena Dusi
qui

Corriere 7.2.13
La Lectio magistralis tenuta ieri da Napolitano all’Ispi di Milano
Quell’ostracismo a sinistra poi la svolta atlantica
L'Italia e il cammino iniziato dal governo di solidarietà nazionale
di Giorgio Napolitano


La nostra Repubblica, le sue istituzioni, le sue forze politiche più rappresentative, conobbero prestissimo — nonostante il prodigioso approdo dell'Assemblea costituente, con l'approvazione a larghissima maggioranza della Legge fondamentale — una rottura radicale. A partire dal 1948, la divisione dell'Europa e del mondo in due blocchi contrapposti, a forte connotazione ideologica ancor prima che militare, si rispecchiò nell'antagonismo irriducibile tra i due maggiori schieramenti politici; e quello di opposizione, guidato dalla sinistra socialista e comunista, si identificò col duplice rifiuto iniziale del disegno di integrazione europea e dell'alleanza con gli Stati Uniti d'America. Quel rifiuto, quella scelta di campo sul piano internazionale, avrebbe rappresentato una fatale palla di piombo al piede del partito divenuto egemone nella sinistra, bloccando a lungo una normale dialettica nei rapporti politici e nelle prospettive di governo del Paese. Tuttavia, a partire dagli anni 60 si mise in moto un graduale riavvicinamento tra le principali forze politiche italiane nell'impegno europeistico, e innanzitutto nella partecipazione al Parlamento europeo. Fu necessario invece ancora un decennio per il superamento, nella sinistra, dell'ostracismo verso la Nato. Ma un sostanziale ripensamento si fece strada di fronte alla sempre più scoperta e dura caratterizzazione — fin dall'intervento militare del 1968 in Cecoslovacchia — della leadership sovietica in termini di chiusura a ogni evoluzione democratica in seno al blocco dell'Est, e di negazione di ogni sovranità e libertà di determinazione nei Paesi membri del Patto di Varsavia.
Il punto di arrivo di quei processi di ripensamento e riavvicinamento venne segnato con la risoluzione, davvero «storica», approvata dal Senato e dalla Camera nell'ottobre e nel dicembre del 1977, cioè nel periodo del governo di «solidarietà nazionale». La risoluzione recava le firme dei rappresentanti — e ottenne il voto dei gruppi parlamentari — di tutti i partiti dell'«arco costituzionale». Quei partiti si riconobbero solidalmente, per la prima volta, «nel quadro dell'Alleanza atlantica e degli impegni comunitari, quadro» — cito — «che rappresenta il termine fondamentale di riferimento della politica estera italiana». Quel comune riferimento fu sottoposto — anche negli anni 80 — a non trascurabili tensioni e prove, ma non venne mai più offuscato.
Ma la questione oggi è quella del mutamento profondo della cornice mondiale entro cui è chiamata ad operare la politica estera e di sicurezza nell'Italia, pur in continuità con quegli ancoraggi fondamentali sanciti dal più vasto arco di forze politiche 35 anni orsono... Non si può, a questo proposito, non ripartire dal decisivo spartiacque rappresentato — tra il 1989 e il 1991 — dalla dissoluzione del Patto di Varsavia e quindi della stessa Unione Sovietica. Si aprì allora una fase che sarebbe durata fino alla fine del Ventesimo secolo o agli inizi del successivo. E si può dire che mai si era avuta una simile affermazione del primato mondiale dell'Occidente, un simile esplicarsi della sua forza di attrazione politica, economica e ideale, insieme con la sopravvivenza — al lungo periodo della sfida con la superpotenza sovietica — degli Stati Uniti come sola superpotenza militare. Apparve allora non irragionevole parlare di mondo unipolare, e perfino di «fine della storia». Ma nel primo decennio di questo XXI secolo lo scenario mondiale è venuto esibendo trasformazioni tali da imporre ben diverse categorie di giudizio e di previsione. L'emergere di nuove grandi realtà e forze protagoniste, innanzitutto, ma non solo, sul terreno economico — la Cina, l'India, il Brasile — il nuovo dinamismo di Paesi del Sudest asiatico e anche di un grande Paese come la Turchia nella vasta regione a cavallo tra l'Europa e l'Asia, il recupero di posizioni e il consolidamento, anche politico, della Russia, forte della valorizzazione delle sue risorse energetiche, hanno sancito un processo di spostamento del centro di gravità dello sviluppo mondiale dall'Atlantico al Pacifico. Ecco che allora una crescente attenzione è stata rivolta — guardando al mondo dall'Occidente — al «resto», come lo si è definito: sempre meno semplice e secondario «resto», ma decisivo quadrante del mondo in via di cambiamento. È stato messo l'accento sui limiti della potenza americana, e sulle difficoltà di un'Europa ancora debolmente integrata e in perdita di produttività, si è evocata l'immagine di un «mondo post-americano» e si sono assunte con allarme le proiezioni del calo già in atto del peso demografico ed economico dell'Occidente. Né si può trascurare l'incidenza di un più complesso fenomeno, quello del drammatico sminuirsi del «global standing» dell'America, della sua credibilità presidenziale e nazionale, e della condivisione delle sue istanze di sicurezza. Questa severa valutazione è stata motivata da Brzezinski sulla base di una drastica critica alle reazioni della presidenza di George Bush al terribile colpo sferrato da Al Qaeda al cuore dell'America l'11 settembre del 2001. Una drastica critica dell'impostazione e conduzione della pur giusta immediata risposta militare in Afghanistan, della grave decisione unilaterale di muovere guerra all'Iraq, dell'incapacità di esprimere una strategia di isolamento dell'estremismo e del terrorismo islamico dal più vasto mondo musulmano. Rispetto a quell'improvvido corso della politica internazionale degli Stati Uniti, una svolta lungimirante fu intrapresa dal presidente Obama. Ma egli era ormai alle prese con una nuova durissima prova. La crisi finanziaria esplosa negli Stati Uniti nel 2008 per effetto — seguo la traccia della prima e forse più penetrante analisi, quella di Tommaso Padoa Schioppa — di una «resa dei conti sul disavanzo con l'estero degli Stati Uniti» e dello «scoppio della bolla immobiliare», entrambe generatrici di un'onda di «grande panico», si è propagata in Europa e ha introdotto uno «sconvolgimento complessivo nel corpo dell'economia globale». Quel che non ha retto è stato il «modello di crescita senza risparmio dell'economia degli Stati Uniti». Siamo in effetti in un mondo che poggia su ben più numerosi pilastri, e che nello stesso tempo si può definire, come lo definisce Charles Kupchan, «un mondo di nessuno»; un mondo che si caratterizza per la graduale redistribuzione e comunque, innanzitutto, per la dispersione del potere globale ma è anche esposto al moltiplicarsi di focolai di crisi e di minacce alla sicurezza collettiva. Si impone quindi la ricerca di nuove sedi e scelte di governance globale innanzitutto sul piano economico, una nuova e più avanzata prospettiva multilateralista, un nuovo quadro di cooperazione e solidarietà...
Nel Medio Oriente e in Africa del Nord il «risveglio politico globale» si è manifestato con maggiore forza, ma con esiti e sviluppi assai diversi... In Siria una leadership, che era apparsa qualche anno fa sensibile all'esigenza di affrancarsi da pesanti tutele esterne e di avvicinarsi all'Europa, e che aveva, nel solco di una tradizione politica laica, garantito rispetto del pluralismo religioso, ha reagito nel modo più brutale, aggressivo e sanguinario alla contestazione popolare e ad ogni opposizione. Ma anche là dove le primavere arabe sono state coronate da indubbio successo e hanno dato avvio a un processo di rinnovamento politico-istituzionale, sono seguiti caotici contraccolpi. Rispetto a questi fenomeni ci siamo atteggiati, come istituzioni italiane, nel solco di una storica strategia condivisa di attenzione e impegno nel Mediterraneo e di amicizia verso il mondo arabo. La grande posta in giuoco, nel rapporto non solo col mondo arabo ma col più vasto mondo musulmano, è quella del superamento di radicali, devastanti contrapposizioni. Fa testo in questo senso lo storico discorso pronunciato dal presidente Obama nel giugno 2009 al Cairo. E fa testo anche per l'equilibrio con cui egli pose in quel contesto la questione del conflitto israelo-palestinese, in termini non acritici né verso gli uni né verso gli altri, sollecitando una soluzione basata sulla convivenza tra due Stati nella pace e nella sicurezza. È in questo approccio che si è riconosciuta e si riconosce l'Italia...
Ma torno ora alla tendenza generale che si può cogliere nel processo di trasformazione in atto. La crisi scoppiata nel 2008 e non ancora superata ha dato la prova di quanto sia profonda e stringente l'interdipendenza globale, la rete e l'intreccio dei rapporti, in ogni senso, tra tutte le economie del mondo, e come sia ineludibile l'affrontare insieme problemi di comune interesse. Può essere troppo audace il parlare di «alba di una nuova era di multilateralismo». Ma la prospettiva dovrebbe essere questa. Peraltro, anche se il G20 ha affrontato con successo la prova del rafforzamento delle istituzioni multilaterali partendo dall'allargamento e irrobustimento del Fondo monetario internazionale, molti altri traguardi appaiono ardui e sappiamo come anche in altri fori, compresi quelli che fanno capo alle Nazioni Unite, si proceda a fatica verso risposte soddisfacenti a sfide di portata globale. Nel mio riflettere e operare di questi anni sui temi della politica estera e di sicurezza italiana, ho cercato di cogliere la profondità delle trasformazioni nel quadro mondiale ma non ho mai ceduto alla suggestione di un fatale declino dell'America e dell'Occidente. Restiamo legati da ogni punto di vista all'amicizia e alleanza con gli Stati Uniti... Come italiani e come europei, siamo soprattutto legati a un patrimonio storico comune di idealità, di principi e di valori, che ci fanno identificare, a fianco dell'America, con l'Occidente come luogo della democrazia e dei diritti umani. Perciò il punto d'arrivo del percorso politico e istituzionale che ho vissuto negli ultimi sette anni è la parte che ora tocca fare all'Europa nella prospettiva di un rinnovato ruolo dell'Occidente. E dicendo Europa, intendo Europa unita. In questo mondo l'Unione Europea saprà porsi «all'altezza delle sue potenzialità e responsabilità?». È una domanda che la crisi attuale dell'Unione, dell'eurozona e più in generale del progetto europeo, non ci dà alibi per eludere. L'impegno a superare la crisi, traendone tutte le lezioni, deve corrispondere proprio all'esigenza di portarci, in quanto Europa unita, all'altezza delle nuove responsabilità. Ciò comporta un'accresciuta volontà di procedere in tutte le direzioni individuate dalle istituzioni europee per rafforzare, completandola, l'Unione economica e monetaria e imprimerle una nuova capacità di promozione dello sviluppo economico e sociale dell'Europa. Ma non basta. È indispensabile procedere sul serio verso l'Unione politica.

Repubblica 7.2.13
Il libero arbitrio. La condanna di scegliere al tempo delle neuroscienze
Uno dei grandi protagonisti degli studi sul cervello racconta i traguardi delle nuove ricerche. E spiega perché certi limiti non si possono varcare
di Michael Gazzaniga


Mi ricordo di aver visto alcuni anni fa un toccante documentario della Bbc in cui si raccontava una storia molto semplice. Un reporter di lungo corso della tv britannica stava viaggiando per l’India e decideva di andare a fare visita a un suo amico indiano. Le riprese mostravano il giornalista e il cameraman che facevano lo slalom tra escrementi e rifiuti in una baraccopoli sorta sul fianco di una collina, per infine arrivare alla casa di due metri per tre dell’amico. Là si trovava lui, sorridente e festoso alla vista dell’amico inglese. Si scopriva allora che la casa, dove viveva con la moglie e i due figli, era anche il suo luogo di lavoro, il suo negozio; vi vendeva scarpe da tennis per ragazzi, di quelle che lampeggiano. In qualche modo riuscivano a far stare tutto in quel bugigattolo e, mentre il cameraman stentava a rimanere fermo nel negozio a causa degli afrori insopportabili, il dignitoso indiano consegnava un paio di scarpe all’amico inglese perché le portasse ai suoi figli. Si trovavano in uno stato che un occidentale definirebbe di povertà e miseria totali, ma lo scambio umano trascese tutto il resto, culminando in uno di quei momenti che ci aiutano a capire davvero chi siamo. È questa grandezza dell’essere “umani” che tutti noi abbiamo a cuore, e che non vogliamo ci sia portata via dalla scienza. Vogliamo sentire il nostro valore e il valore dell’altro.
Ho sempre cercato di dimostrare come una comprensione scientifica più completa della natura della vita, e del rapporto tra mente e cervello, non intacchi questo valore caro a noi tutti. Siamo persone, non cervelli: siamo quell’astrazione che si manifesta quando una mente, che emerge da un cervello, interagisce con il cervello stesso. È in questa astrazione che esistiamo e, di fronte a una scienza che sembra intaccarla, siamo alla disperata ricerca delle parole per descrivere cosa siamo davvero. Siamo instancabilmente curiosi di sapere come tutto ciò funzioni. La prospettiva deterministica globale che pervade tutto ciò che è scienza sembra spingerci verso un punto di vista sconfortante: quello secondo cui, in definitiva, per quanto ci agghindiamo siamo una macchina di qualche tipo che funziona in modo automatico e senza controllo esplicito, quasi dei veicoli delle forze dell’universo, forze più grandi di noi e fisicamente determinate. Ma allora nessuno di noi è prezioso, perché siamo tutti pedine.
Il modo consueto per uscire da questo dilemma è ignorarlo, e affermare qualcosa a proposito della grandezza della vita a livello fenomenologico, di come sia bello il parco Yosemite, di quanto sia fantastico fare l’amore e di quanto siano meravigliosi i nipoti, e goderci il tutto. E noi ce lo godiamo, perché siamo fatti per gioire di queste cose: è il modo in cui funzioniamo, e anche la fine del problema. Prenditi un Martini Dry, metti i piedi sul divano e leggiti un buon libro.
Ho provato a fornire una diversa prospettiva nell’approccio al problema. Alla fine ho concluso che tutte le esperienze di vita, personali e sociali, hanno un’influenza sul nostro sistema mentale emergente. Tali esperienze sono forze potenti che modulano la mente: non soltanto vincolano i nostri cervelli, ma rivelano anche che è l’interazione dei due strati di cervello e mente a consentire la nostra realtà cosciente e il nostro viverla in tempo reale. Il compito delle neuroscienze moderne è la demistificazione del cervello; tuttavia, per portare a termine tale compito, le neuroscienze devono trovare come le leggi e gli algoritmi che governano tutti i moduli separati e distribuiti operino insieme per dare origine alla condizione umana.
Capire che il cervello funziona in modo automatico, e che segue le leggi del mondo naturale, è una cosa confortante e rivelatrice: confortante, perché possiamo avere fiducia nel fatto che il nostro strumento decisionale, il cervello, ha una struttura affidabile nell’esecuzione delle scelte riguardo all’azione; e rivelatrice, perché è chiaro che tutta la misteriosa questione del libero arbitrio è un concetto mal congegnato, basato su delle convinzioni sociali e psicologiche formate in periodi particolari della storia dell’umanità, che non hanno origine dalla conoscenza scientifica moderna sulla natura del nostro universo, e che sono in disaccordo con essa. Come mi suggerisce John Doyle: «Siamo in qualche modo abituati all’idea che quando un sistema sembra mostrare funzioni e comportamenti coerenti e integrati, deve esservi qualche elemento “essenziale” — e, soprattutto, centrale, o comunque capace di controllo centralizzato — responsabile di ciò. Siamo profondamente essenzialisti, e il nostro cervello sinistro troverà quell’essenza. E se non riusciamo a trovarla, ce la costruiamo. La chiamiamo omuncolo, mente, anima, gene e così via [...] Ma di rado è nel consueto senso riduzionistico [...] Ciò non significa che non esista qualche “essenza” responsabile; solo che è distribuita. Si trova nei protocolli, nelle leggi, negli algoritmi, nei programmi. È così che funzionano i formicai, Internet, gli eserciti, i cervelli. La cosa ci risulta difficile da afferrare perché non è contenuta in una qualche scatola, da qualche parte. Se così fosse si tratterebbe infatti di un errore di progettazione, perché quella scatola costituirebbe un singolo punto di vulnerabilità. In effetti, è importante che non stia nei moduli, ma nelle regole di funzionamento che devono seguire».
Nel compiere uno sforzo per rendere più chiaro il tutto, vedo che la mia prospettiva si va modificando. È il modo in cui vanno le cose nella scienza: i fatti non cambiano; quello che cambia, specialmente nelle scienze in cui c’è una forte componente di interpretazione, come le neuroscienze e la psicologia, sono le idee su quei fatti che vanno accumulandosi. Tutte le mattine ogni singolo scienziato va ripetendosi una tormentosa domanda: la spiegazione che ho proposto per questo e quello coglie davvero ciò che accade?
Nessuno conosce le debolezze di un’idea meglio di colui che la propone; costui, di conseguenza, è sempre sul chi vive. E non è una condizione facile da sopportare. Una volta chiesi a Leon Festinger, uno degli uomini più intelligenti del mondo, se si fosse mai sentito inadatto. Rispose: «Certo! È quello che ti rende adatto». Mi sono reso conto di quanto occorra un linguaggio unificato, non ancora sviluppato, per cogliere ciò che accade quando i processi mentali vincolano il cervello e viceversa. L’azione si trova nel punto in cui questi livelli si interfacciano; secondo un certo vocabolario, è dove la causalità dall’alto verso il basso incontra quella dal basso verso l’alto; secondo un altro vocabolario non è per niente là, bensì nello spazio tra i cervelli che interagiscono l’uno con l’altro. È quanto avviene all’interfaccia dell’esistenza organizzata a strati che fornisce una risposta al nostro tentativo di comprendere la relazione mente-cervello. Come dobbiamo descriverla? Il livello che emerge ha un suo andamento temporale, e una sua connessione alle azioni che vengono svolte. E quell’astrazione ci rende presenti nel tempo, e responsabili. L’intera questione del cervello che compie tutto prima che ne siamo consapevoli diventa opinabile e irrilevante dalla prospettiva di un diverso livello di funzionamento. Comprendere come sviluppare un vocabolario per quelle interazioni su diversi livelli costituisce, a mio avviso, la sfida scientifica di questo secolo.
© 2013 Codice edizioni Torino

Repubblica 7.2.13
Elogio del dubbio e della laicità
A Firenze il dibattito con Augias, Mancuso e Odifreddi
di Maria Cristina Carratù


FIRENZE Paladini del «materialismo» e dell’«ateismo», i grandi mali del mondo contemporaneo, «infami», che meritano di figurare a fianco di dittatori come Hitler, Stalin e Mao, autori delle moderne crociate contro la fede. Una vera foga antilaicista quella del prete fiorentino che lo scorso dicembre ha piazzato sul presepio la scritta «Schiacciate l’infame» (citazione, rovesciata, dell’appello di Voltaire contro il fanatismo religioso) e le foto dei tre dittatori del Novecento, accompagnate da quelle di Piergiorgio Odifreddi, Corrado Augias, Margherita Hack e Vito Mancuso, rei, secondo il prete, di ideologismo anticristiano. Ai quali l’Istituto Niels Stensen di Firenze, centro culturale dei padri gesuiti noto per i suoi dibattiti su temi di frontiera, ha deciso di dare voce, chiamando Odifreddi, Augias e Mancuso, intervistati da Sergio Valzania, all’incontro di stasera alle 20,30, l’ultimo del ciclo dedicato al «dubbio », e in cui si parlerà, ovviamente, anche di fede. E di laicità, «non un’ideologia » ricorda il curatore, padre Ennio Brovedani, «ma luogo in cui interrogarsi insieme su problemi complessi, premessa di ogni democrazia».
Un dibattito che si preannuncia molto intenso, visto che i tre ospiti, pur accomunati dalle accuse, non hanno affatto le stesse idee. «Ragione e fede sono incompatibili, specie in Italia, dove domina una religione dogmatica» sostiene lo scienziato e matematico Odifreddi: «Verità e falsità hanno senso solo riferite ai fatti, indagati dalla ragione, non ai valori, relativi e transeunti». Del resto, se il 95 per cento degli scienziati di tutto il mondo dichiara di non credere in niente, qualcosa vorrà dire: «Quando si ha a che fare con le dimostrazioni matematiche e le verità sperimentali, l’aspetto primordiale del pensiero religioso salta agli occhi». Conclusione: «Perché la religione non accetta ancora di ritirarsi in buon ordine?». Meno intransigente l’«agnostico» Corrado Augias, giornalista e scrittore: «Penso che esista una dimensione spirituale non riconducibile a quella razionale», dice, che però «non coincide certo col dogma di un’unica fede». Lui ne è convinto: «La Chiesa è libera di dare una linea morale ai suoi fedeli. In un Paese che ostacolasse l’esercizio della fede cattolica scenderei in campo per difenderla». Imporla a tutti, però, «in una repubblica aconfessionale e laica, non ha senso, visto che nessuna religione può dirsi titolare dell’unica verità».
Su una linea ben diversa dai suoi interlocutori il teologo Vito Mancuso: «Il dubbio è conditio sine qua non della fede» sostiene, «e il contrario del dubbio non è la fede, bensì il sapere ». La fede, infatti, «nasce dal bisogno di mettere in discussione lo stato del mondo e tutti i suoi poteri, compreso quello della ragione, nella consapevolezza che nessuno di essi può dare pienezza all’esistenza». Il dubbio sistematicamente esercitato, d’altra parte, «espone alla solitudine», a sua volta incubatrice di due opposti: «l’assurdo», o appunto «la fede», che è adesione «all’imperativo morale, di bene e giustizia, che ci abita». E niente di strano se si scopre che «proprio la dimensione interiore è il baluardo della laicità».