sabato 9 febbraio 2013

l’Unità 9.2.13
D’Alema: noi l’alternativa a populisti e tecnocrati
Il presidente dela Feps accoglie a Torino i leader progressisti della Ue
Oggi il video di Hollande e la chiusura di Bersani
di Simone Collini


«Ve lo dico come esponente del centrosinistra italiano, più che come presidente della Feps: la vostra presenza qui è molto importante, questa discussione si sviluppa nel vivo di una campagna elettorale molto rilevante per il nostro Paese ma anche per l’Europa». Massimo D’Alema accoglie leader di partito, studiosi e i vertici istituzionali di gran parte degli Stati comunitari mettendo subito in chiaro qual è la posta in gioco: è necessaria una svolta politica nell’Unione e la possibilità che si realizzi è legata anche all’esito elettorale di casa nostra.
Non che non lo sappiano, i capi di Stato e di governo e i leader progressisti arrivati a Torino per questa seconda tappa del progetto «Renaissance for Europe». A cominciare da François Hollande, che ha inviato un videomessaggio all’iniziativa, organizzata dalla Fondazione europea per gli studi progressisti (Feps) insieme a Italianieuropei, alla francese Jean Jaurès e alla tedesca Friedrich Ebert Stiftung. Il presidente francese ha rotto per primo l’asse conservatore, ma ora deve poter contare su altri partner progressisti per portare avanti le battaglie contro l’austerity fine a se stessa e per la crescita.
Le difficoltà incontrate al vertice di Bruxelles sul bilancio Ue (i cui esiti non sono ritenuti dai partecipanti all’incontro così «soddisfacenti» come dice Monti, anzi) ne sono una riprova. E allora è proprio per questo che bisogna insistere sul punto: è interesse di tutti lavorare alla definizione di un progetto comune per il rilancio del processo di integrazione, e che ci sia, oggi in Italia e tra pochi mesi in Germania, una vittoria del fronte progressista.
Attorno al tavolo allestito al Teatro Regio di Torino siedono economisti, storici, esperti di diritto provenienti da Francia, Inghilterra, Germania, Spagna, Slovenia, Portogallo. Tutte le ricette che espongono per far fronte alla crisi possono essere sintetizzate sotto il titolo: serve non meno, ma più Europa. «Per uscire dalla crisi bisogna dare a Bruxelles più potere, più strumenti, una fiscal capacity che oggi non ha, perché allora sarebbe anche inutile rimettere mano ai trattati», dice Giuliano Amato. Ma serve anche un’Europa diversa, più attenta ai diritti, come sottolinea nel suo intervento Stefano Rodotà. «Oggi c’è un’Unione inadempiente rispetto ai diritti da essa stessa affermati», dice il professore citando la Carta dei diritti fondamentali dell’Ue sottoscritta dai vertici comunitari nel dicembre del 2000. Rodotà sottolinea «l’inadeguatezza della sola logica economica», che i trasferimenti di sovranità sono ben accetti e che però «diventano legittimi quando sono in grado di garantire un ampliamento della democrazia». È così, oggi? Ad ascoltare gli interventi degli studiosi provenienti da ogni angolo dell’Unione non si direbbe. E i rischi, se non si cambia rotta, sono pesanti. Dice D’Alema puntando il dito contro le posizioni antieuropee e populiste di Berlusconi e Grillo: «Il sorgere del populismo appare come l’altra faccia dei limiti tecnocratici della costruzione europea. Mostra cioè come l’Europa sia percepita: un luogo lontano, opaco, dove si assumono decisioni sempre più importanti per la vita delle persone, senza che possa esercitarsi quel controllo diretto e quelle forme di partecipazione che sono proprie della nostra tradizione democratica. Dunque, visione tecnocratica dell’Europa e populismi nazionalisti sono due facce della stessa crisi della democrazia europea. Se ne esce innovando, rafforzando l’unione politica, ma soprattutto la sua dimensione democratica. E, nello stesso tempo, cambiando le politiche dell’Unione». In questa seconda tappa del progetto «Renaissance for Europe» si discute soprattutto della prima questione e oggi, quando parteciperanno ai lavori anche il leader del Pd Bersani, il presidente del Parlamento europeo Martin Schulz, il segretario dello spagnolo Psoe Alfredo Peréz Rubalcaba, del francese Ps Harlem Désir e i primi ministri di Belgio, Romania e Croazia, si lancerà la proposta di presentare un candidato comune per la presidenza della Commissione Ue da far eleggere con le europee del prossimo anno (Monti?, domandano a D’Alema nel corso di un videoforum con la Stampa, e la risposta è «Si può candidare, visto che ci ha preso gusto»). Oggi verrà anche siglato un documento per una «Unione democratica di pace, prosperità e progresso». Un “manifesto di Torino” insomma, che fa seguito a quello di Parigi sottoscritto dai leader progressisti prima delle presidenziali francesi. Ora al voto va l’Italia, e una delle questioni fondamentali è “come si sta in Europa”, dice D’Alema: «Per noi è essenziale affermare una terza posizione. Non siamo con il populismo antieuropeo, ma neppure per un’Italia acquiescente nei confronti delle scelte conservatrici della signora Merkel».

Corriere 9.2.13
D'Alema: così il mondo torna a essere «rosso»


MILANO — «Oggi il mondo torna a essere rosso». Lo ha detto ieri il deputato del Pd, Massimo D'Alema, in un videoforum a La Stampa: «Intanto — ha spiegato — c'è Obama. E poi c'è il Brasile, che è governato a sinistra. È la vecchia Europa, quella in cui i conservatori sono ancora forti. Ma noi cercheremo di renderli meno forti». Ha poi ammesso: «Questa campagna elettorale l'abbiamo cominciata con il piede sbagliato. Il centrosinistra è partito con l'idea che avevamo già vinto e invece le campagne elettorali vanno combattute, sono una grande occasione per andare al dialogo con i cittadini, si imparano tante cose».

Corriere 9.2.13
Il Pd congela l'asse con il Professore. Nuova parola d'ordine: «bipolarizzazione»
di Maria Teresa Meli


ROMA — «O noi o loro»: i leader del Partito democratico hanno deciso di dare una svolta alle ultime due settimane della campagna elettorale. Anche perché l'idea di un inciucio già preconfezionato con Mario Monti non ha portato bene. Anzi, ha sottratto voti e simpatie al centrosinistra tutto. Regalando consensi sia a Beppe Grillo sia ad Antonio Ingroia. E quindi occorre puntare i riflettori sui due schieramenti principali, esattamente come va facendo da tempo Silvio Berlusconi. «Bipolarizzazione»: è questa la nuova parola d'ordine del Pd per recuperare voti. Pier Luigi Bersani attacca: «C'è un dato oggettivo — dice — o vinciamo noi o vince Berlusconi e quindi l'Italia va a sbattere contro un muro». Tertium non datur: Mario Monti non è in campo per vincere «ma per condizionare le nostre mosse». Anche Massimo D'Alema imposta la sua campagna nello stesso modo: «La vera sfida è tra Bersani e Berlusconi. Tutti gli altri sono personaggi rispettabili, ma non sono in corsa per vincere».
È un altro modo per chiedere il voto utile, per invitare gli elettori che non hanno ancora deciso che esprimersi a favore di Ingroia o Monti, tanto per fare due nomi non casuali, sarebbe un grosso errore, perché favorirebbe la ripresa dell'ex premier del centrodestra. Funzionerà? Difficile a dirsi: ma il rischio di arrivare sotto la percentuale ottenuta dal Partito democratico nel 2008 ha fatto sì che tutti i dirigenti di Largo del Nazareno si mobilitassero adottando questa linea. Ormai, del resto, a criticare Monti non è, come un tempo, solo Stefano Fassina, anche esponenti del Pd come Enrico Letta e Francesco Boccia, un tempo assai vicini al presidente del Consiglio, ora hanno preso le distanze e non gli risparmiano le loro stoccate.
Ma al di là della campagna elettorale che, necessariamente, si sta inasprendo, in realtà i leader del Partito democratico non perdono di vista l'approdo finale. Per Luigi Bersani lo ha ripetuto ai suoi in tutte le salse: «Il quadro istituzionale dovrà garantire il quadro politico». Traduzione: con i moderati, comunque vada a finire, una volta chiuse le urne bisognerà trovare un'intesa sin da subito sulle tre presidenze che vanno votate: quelle di Camera, Senato e, ovviamente, il Quirinale. E con i moderati vi sono prove di intesa cordiale in Lombardia per convincere i montiani a far sì che la regione «non finisca nelle mani di Maroni, della Lega e del centrodestra». Insomma, i centristi, alla fine, potrebbero in gran parte abbandonare Gabriele Albertini per votare Umberto Ambrosoli. Ovviamente l'operazione viene condotta con grande riservatezza e pare che il candidato alla presidenza della regione Lombardia Albertini non sia d'accordo con questa strategia.
In questa campagna elettorale in cui ogni giorno si prospetta una girandola di alleanze fa le sue mosse anche Antonio Ingroia: «Non ci siamo mai sottratti al dialogo con il Pd, ci rivedremo in Parlamento per capire se si può riaprire il confronto per un governo di centrosinistra senza Monti». È uno stratagemma, quello del leader di Rivoluzione civile, per annullare la strategia del Partito democratico a favore del voto utile. E per cercare di rosicchiare altri voti a Nichi Vendola, che ieri ha prospettato addirittura un complotto dei «grandi gruppi editoriali italiani» contro Sel.
Nel frattempo, nei corridoi di largo del Nazareno, impazza il toto ministri e sottosegretari: si fanno i nomi dei lettiani Francesco Boccia e Paola De Micheli e quello di Stefano Fassina.

l’Unità 9.2.13
«Conflitto d’interessi e leggi per i più deboli»
Bersani incontra lavoratori e imprenditori in Piemonte:
«Il primo Consiglio dei ministri dedicato a chi non ha da mangiare»
Proposte per il lavoro e gli ammortizzatori
di Simone Collini


Il primo Consiglio dei ministri dedicato a «chi non ha da mangiare», il conflitto di interessi come una delle leggi da approvare subito, un piano in cinque punti per creare lavoro e sviluppo. Pier Luigi Bersani fa tappa in Piemonte muovendosi tra Borgosesia, Biella, Torino, incontrando lavoratori, sindacalisti, imprenditori, parlando delle prime mosse che farà in caso di vittoria alle elezioni di fine mese. Un appuntamento è in un ristorante, un altro in un teatro, poi in una sala del Sermig, e cambiano gli scenari urbani, i settori di produzione, ma non cambia il senso dei discorsi che il leader Pd si sente fare: la crisi morde, e se non si volta pagina la situazione si fa drammatica. Ricette semplici non ce ne sono, promesse facili non ne fa, però Bersani agli interlocutori che di volta in volta si trova di fronte prospetta ciò che intende fare dovesse arrivare tra venti giorni a Palazzo Chigi.
Prima di partire da Roma manda un messaggio di adesione all'incontro organizzato da Articolo 21 per assicurare che il conflitto di interessi «sarà una delle prime leggi» che porterà ad approvazione, insieme a un pacchetto di norme sull'Antitrust, una riforma della governance Rai che sancisca una vera autonomia del servizio pubblico, una serie di provvedimenti utili a regolamentare l'intreccio delle diverse piattaforme tra telecomunicazioni, web, telefonia, radio e tv. Ma quando poi atterra a Torino e inizia a girare per i distretti industriali del Piemonte è soprattutto di lavoro e occupazione che parla. Incontra sindacalisti e imprenditori del distretto tessile di Biella, ascolta le difficoltà che il settore sta attraversando, le storie di cassintegrati ed esodati, e il discorso che poi fa è improntato al realismo, perché «questo Paese ce la farà, ne verremo fuori, ma dicendo la verità», e centrato sui bisogni di chi oggi non riesce a tirare avanti: «Abbiamo un problema di ammortizzatori non coperti. Vedo che ora tutti dicono che ci sono i miliardi. Visto che il governo è ancora in piedi, a me pare una cosa obbligata dare una copertura a gente che aspetta da novembre di avere i soldi degli ammortizzatori. E allora, se ci sono i soldi, li giriamo all' Inps». Un discorso che vale anche per i mesi a venire. «L'anno prossimo gli ammortizzatori non sono coperti e allora nel primo consiglio dei ministri si deve pensare a chi non c'ha da mangiare. Poi il secondo e il terzo vediamo cosa si può fare di altro».
In realtà un pacchetto di provvedimenti da approvare in tempi rapidi in caso di vittoria elettorale Bersani l'ha già messo a punto. Si tratta di un piano in cinque punti per far girare liquidità, creare occupazione, favorire il made in Italy. Ci ha lavorato il dipartimento Economia del partito insieme agli atri settori tematici coinvolti, studiato nel dettaglio per quel che riguarda le possibili coperture. Al primo punto c'è un rafforzamento finanziario delle imprese, da realizzare attraverso l'emissione di titoli del Tesoro sul modello Btp Italia per pagare i crediti arretrati delle piccole e medie imprese nei confronti della Pubblica amministrazione. Al secondo punto c'è un piano di piccole opere che realizzino gli enti locali con una deroga al Patto di stabilità interno (l'idea è che possano partire subito rivitalizzando l'economia e che siano orientate soprattutto verso la riqualificazione di scuole e ospedali). Il terzo punto è dedicato a un rilancio dell'economia verde, di progetti per l'efficienza energetica e riqualificazione degli edifici a fini ambientali. Quarto, lo sviluppo della banda larga per portare l'Italia ai livelli delle altre realtà europee. E quinto, un piano che a Bersani piacerebbe chiamare «Industria 2020» e che prevede aiuti alle imprese anche attraverso il credito d'imposta per la ricerca, per rilanciare l'innovazione e il made in Italy.
Queste sono le proposte che Bersani lancia in questo rush finale di campagna elettorale, bollando invece come «favole» le cosiddette proposte choc di Berlusconi. «Dobbiamo vincere per imporre un cambio del sistema politico, perché se vince l'altra logica l'Italia va contro un muro, ne sono convinto». Per il leader del Pd «c'è un dato oggettivo»: «O vinciamo noi o vince Berlusconi. Sento divagazioni qui, qualcuno che dice “ha già vinto il Pd, allora diamogli un segnale”. No, guardate che si scherza con il fuoco. I voti hanno tutti uguale dignità, dopodiché c'è un solo voto utile per battere la destra ed è il voto a noi».
Bersani, che definisce «marginale» la risalita del Pdl nei sondaggi, oggi a Torino chiuderà un incontro a cui parteciperanno leader politici e capi di Stato e di governo provenienti da ogni angolo dell'Unione, e rispedisce al mittente l'accusa di puntare a un inciucio con Monti, sottolineando invece che il Pd ha in Europa una collocazione ben precisa, mentre non è chiaro se l'attuale premier faccia riferimento a quello stesso Ppe in cui siede anche Berlusconi. Poi, finita l'iniziativa, andrà allo stadio a vedere Juve-Fiorentina. Lui, tifoso bianconero, insieme allo sfegatato viola Matteo Renzi.

l’Unità 9.2.13
La sinistra non deve chiudersi
di Alfredo Reichlin

NON SERVE QUESTO GIOCO DI RECIPROCI VETI TRA MONTI E VENDOLA. NICHI CONSENTIRÀ a un vecchio amico di ricordare che la sinistra italiana (quella vera, quella che cerca di cambiare la storia) non ragiona così, non parte dai veti sui nomi ma dalle cose. Dalle situazioni in cui combatte e dagli obiettivi che si pone. Non sto a ricordare che se l’Italia non si lacerò in una sorta di guerra civile tipo Grecia e si trasformò in una Repubblica con questa straordinaria costituzione democratica fu anche perché Togliatti fece il governo Badoglio.
Consentendo così a noi, i giovani di allora, di prendere le armi non in nome di Stalin ma del Tricolore. Davvero i nomi non corrispondono alle cose. Così oggi.
Hai ragione, caro Nichi, che non ci servono gli «inciuci». Il Pd e il tuo partito si sono messi insieme per cambiare l’Italia e farla più giusta. E questo faranno, sapendo però che la cosa è impossibile se non salviamo il Paese dal degrado sociale e dalla regressione storico-politica che incombe sul suo destino. Questa è la «cosa». Ma noi una simile impresa la vogliamo affrontare sul serio? Come? Non credo che basti approfittare del fatto che l’attuale legge elettorale regala un largo premio di maggioranza a chi arriva primo e potrebbe quindi consentirci di governare da soli.
Ecco. Io vorrei dire la mia su cosa bisognerebbe intendere con questo «non da soli». Provo allora a dire qualcosa che va oltre il problema, certamente ineludibile delle alleanze politiche senza le quali sarà impossibile affrontare le grandi riforme. Ciò che vorrei aggiungere è che per affrontare questa dura prova dobbiamo dotarci di uno sguardo più vero e più profondo su ciò che è oggi il popolo italiano. L’interrogativo che mi pongo è questo. In un mondo in cui la potenza dell’economia finanziaria si è mangiata non solo l’economia reale ma ha distrutto larga parte delle funzioni pubbliche e delle capacità di governare utilmente gli interessi che sono in gioco, che cosa diventa il problema del riformismo? Tante cose, evidentemente. Ma nella sostanza e per dirla in breve io credo che il problema attuale del riformismo sia la costruzione di un nuovo potere sociale. Detto in altro modo, è il protagonismo della gente. Se guardo allora a questo Paese dove sono nato, sono cresciuto e ho lottato io non vedo solo la decadenza economica. Mi colpisce l’intreccio ormai inestricabile tra il collasso di larga parte delle strutture dello Stato e la precarietà del lavoro, la disoccupazione giovanile, la corruzione. Penso al Mezzogiorno e alla difficoltà da parte di tanta gente che conosco di impadronirsi della propria vita. Mi sembra chiaro che il Mezzogiorno non potrà risorgere se gli daremo solo un governo dall’alto. Non illudiamoci. Chiediamoci perché tanto popolo minuto e disperato non vota noi ma Berlusconi.
Noi dobbiamo ragionare così. Ed è alla luce di questi problemi che io non comprendo come si possa costruire un partito moderno del riformismo se si resta paralizzati dalla preoccupazione di non fare accordi con il partito di Monti. Il professore è troppo un tecnocrate e un conservatore? Può darsi, ma il problema che io mi pongo è capire il mondo fuori di noi. Io non capisco come la sinistra possa governare se non considera compito suo rimettere in gioco il mondo delle professioni e dell’impresa, del saper fare e dalla cooperazione, il mondo del capitale sociale e delle forze produttive. Le ricette degli economisti sono importanti ma, dopotutto, le conosciamo a memoria e in buona parte sono dettate dell’Europa. Ciò che mi serve è capire per fare un esempio perché l’Emilia è risorta così presto dal terremoto.
Ecco come io vedo i «compromessi» con il Centro. Il professor Monti può pensare quello che vuole, ma io parlo al suo mondo e noto che il suo partito va dal miliardario Cordero di Montezemolo alla gente straordinaria che lavora con la Comunità di Sant’Egidio. Perché allora il Pd non sarebbe compatibile con Nichi Vendola? Ecco perché mi è tornato in mente quel rapporto tra il movimento partigiano e il governo con Badoglio, senza il quale non so se avremmo potuto salvare l’Italia. E la conseguenza non è stata affatto quella di mettere acqua nel nostro vino.
La verità è che le dispute attuali restano molto al di qua dei problemi reali. Può essere giusto polemizzare con il sindacato ma con quale animo? Da un lato bisognerebbe prendere atto che è finita la «rappresentanza socialista del lavoro», cioè quella grande idea che è stata alla base del movimento operaio e socialista: lo sfruttamento del lavoro dipendente come base dell’accumulazione capitalistica, e quindi la liberazione del lavoro come via al socialismo (l’operaio che, spezzando le sue catene, prende il potere). Dall’altro lato la sinistra riformista non può pensare di declassare il tema del lavoro moderno a un problema sindacale, considerandolo solo come fattore più o meno flessibile dell’economia. Quelli che guardano solo alle regole del mercato del lavoro non vanno lontano. Il fatto su cui far leva è che la potenza sociale del lavoro un lavoro che presta sempre meno fatica fisica e sempre più intelligenza non è affatto diminuita. Io dico molto di più. In una economia che produce beni immateriali, conoscenze, reti, desideri, bisogni, e bisogni non più solo del corpo ma della mente, il lavoro crea ben più che un surplus per l’economia. Crea società, crea relazioni.
Il punto nuovo è questo. Su questa base poggia il nostro programma per l’Italia. Qui sta la debolezza di una certa tecnocrazia. Ma qui sta anche il ruolo storico dell’Europa, il luogo dove si affermò quella grande conquista del Novecento che abbiamo chiamato «civiltà del lavoro». Parlo di quell’insieme di diritti ma soprattutto del riconoscimento sia pure in linea di principio (ma non solo) di una pari dignità tra il lavoro e l’impresa. Finiva davvero il secolare rapporto tra padrone e servo, e questo dava alla democrazia politica il suo fondamento. Perciò io penso che si gioca qui, sui diritti del lavoro una partita decisiva non solo per la sinistra ma per la democrazia. E tuttavia per vincerla non basterà rimanere chiusi nei vecchi confini della sinistra. Perciò è così importante che tutti gli uomini che guardano alla sinistra e credono nel progresso lavorino per la vittoria di un partito come il Pd.

l’Unità 9.2.13
La protesta
Tutti contro i tagli al Fus
Dalla Cgil all’Agis fino all’Arci un coro contro i 21 milioni decurtati alla cultura
Orfini: «Scelta miope»
di Riccardo Valdes


DIMINUISCONO ANCORA NEL 2013, CON UN TAGLIO CHE È DI 7 MILIONI DI EURO SUPERIORE AL PREVISTO, LE RISORSE DEL FONDO UNICO PER LO SPETTACOLO. Dai 411 mln del 2012 si scende a poco meno di 390. Una mannaia da 21 milioni di euro.
Come sempre, il 47 per cento va alle Fondazioni Liriche (ma per effetto del taglio si divideranno 10,1 milioni di euro in meno). Il cinema vedrà il 18,59% e i teatri 16,4% con 3,4 milioni di euro in meno. Alla musica andrà il 14,10% del Fus. Molte e dure le reazioni. A cominciare dalla nota di Silvano Conti, coordinatore nazionale produzione culturale Slc Cgil : «Il finanziamento statale così ridotto si somma a una riduzione generalizzata delle risorse pubbliche decentrate destinate al settore (Regioni, Province e Comuni). Ho espresso la netta contrarietà allo Schema di Regolamento riguardante le Fondazioni Lirico Sinfoniche definendo l’operazione «la via corta di una selezione darwiniana delle Fondazioni» senza nessun profilo riformatore, auspicando di converso che nella prossima Legislatura si riprenda con vere riforme di sistema a partire dallo spettacolo dal vivo in cui inserire organicamente il segmento delle Fondazioni».
Anche Matteo Orfini, responsabile Cultura e Informazione del Pd stigmatizza l’operato del governo: «Pochi giorni fa Mario Monti aveva dichiarato al Sole 24ore che tra le priorità di un futuro Governo avrebbe dovuto esserci l'adeguamento dei fondi del Ministero per i Beni culturali a un livello più prossimo a quello di altri Paesi europei. E inveceil governo Monti ha deciso un nuovo taglio del Fus di 21 milioni di euro: certo questa non ci pare una dimostrazione di coerenza». «Semmai continua Orfini ancora una volta si dimostra chiaramente che la cultura, lo spettacolo, il cinema non siano considerati settori strategici per il futuro dell’Italia e per questo si continua a disinvestire, lasciando le consegne sull’indispensabile reintegro del Fus al governo che verrà». Il Fondo statale per lo spettacolo dal vivo e il cinema spiega ancora Orfini «era già stato tagliato con la Legge di stabilità a dicembre scorso, passando da 411 milioni del 2012 a circa 399 milioni per il 2013: dunque l’unica coerenza che si può registrare è quella dei tagli delle risorse pubbliche per la cultura e per la produzione culturale e creativa. Il candidato Monti forse si sdoppia, auspicando l’aumento delle risorse per la cultura da candidato premier, mentre le taglia da Presidente del Consiglio in carica».
I rappresentanti Agis componenti della Consulta dello Spettacolo, hanno manifestato al ministro Ornaghi la loro preoccupazione nei confronti delle attività culturali dello spettacolo, testimoniato dall’ulteriore taglio subito dal Fondo unico per lo Spettacolo. «Con l’assenza di risorse – hanno affermato i rappresentanti Agis si mette in discussione l’attività di molte imprese e dei loro lavoratori. Lo spettacolo, inascoltato, richiede da anni un serio rifinanziamento del Fus, indispensabile per riformare tutto il settore con leggi e regole incisive che possano finalmente semplificare i rapporti con la pubblica amministrazione e facilitino la capacità gestionale delle imprese». L’Agis chiede a questo punto che i candidati alle prossime elezioni si esprimano, con proposte da mantenere, sui finanziamenti e sul sostegno alla cultura e allo spettacolo».
Per l’Arci «siamo alle solite. Come già accaduto due anni fa con il Ministro Bondi, quando si vogliono coprire i buchi di bilancio una delle vittime preferite delle scelte del governo è il Fus , decurtato anche quest’anno di 20 milioni di euro. In un momento in cui la crisi mette già a dura prova il mondo della cultura e dello spettacolo l’annuncio del ministro Ornaghi è una vera e propria condanna a morte per decine di imprese e mette a rischio migliaia di lavoratori. Una pessima notizia che va ad aggiungersi ai tagli agli enti locali, di fatto non più in condizione di continuare a garantire politiche attive per la cultura sui territori, con l’inevitabile sacrificio di tante esperienze innovative, spesso di carattere associativo e partecipato, che hanno rappresentato un’originale ricchezza per questo Paese. Un Paese come il nostro, che ha un patrimonio culturale e artistico di straordinaria importanza, non può permettersi politiche miopi che, anziché fare di questo patrimonio uno strumento di traino per la ripresa e per uno sviluppo qualitativamente diverso, si limitano a mortificarlo sottovalutandone le potenzialità», conclude il comunicato dell’Arci.
E come se non bastasse piovono pietre: il mese di gennaio del 2013, infatti, ha registrato il peggior risultato degli ultimi 5 anni per gennaio, per il cinema in sala. Rispetto all’anno migliore, il 2011, calo è del 47%. Per i film italiani la quota biglietti venduti passa dal 48% al 34%.

l’Unità 9.2.13
Ritrovare insieme la forza degli ideali
Il contributo del Capo dello Stato nel libro dedicato al cardinale Ravasi
L’intervento integrale di Napolitano per il settantesimo compleanno del presidente del Pontificio Consiglio della Cultura
Il comunismo venne travolto dal collasso dei regimi che ad esso si ispiravano
in Europa e in Urss
L’ideologia conservatrice ha assunto sempre più le sembianze di un fondamentalismo di mercato
«Vedo materia di dialogo tra credenti e non credenti»


MI ASSOCIO BEN VOLENTIERI ALL’OMAGGIO CHE VIENE RESO A SUA EMINENZA IL CARDINALE GIANFRANCO RAVASI, FIGURA EMINENTE DELLA CHIESA CATTOLICA E PERSONALITÀ PIÙ GENERALMENTE RICONOSCIUTA DEL MONDO DELLA CULTURA: uomo aperto a ogni dialogo, come ho potuto anche personalmente sperimentare. Spero dunque che questo mio contributo, senza avere come altri la dimensione e il livello dello «studio in onore» del festeggiato, possa essere accolto come proposta «di ulteriore dialogo», o di riflessione comune, su un tema che ci sollecita entrambi. Il tema, cioè, della «componente ideale» propria di una seria scelta politica.
Parlai, in una mia lezione (all’Università di Bologna) nel gennaio 2012, dell’«appannarsi di determinati moventi dell’impegno politico, inteso come impegno di effettiva e durevole partecipazione» (individuale e collettiva). E indicai, tra i moventi che si sono affievoliti, quella che anche moderni scienziati della politica hanno chiamato «la forza degli ideali». È un fenomeno che ha accompagnato il mio peraltro fisiologico distacco dall’attività politica o più concretamente partitica e che – nel tirare autobiograficamente le somme della mia lunga esperienza – definii «grave e allarmante». Impoverimento culturale della politica, sua «sfrenata personalizzazione – smania di protagonismo, ossessiva ricerca dell’effetto mediatico» – e nel contempo «perdita, da parte dei partiti, di radicamento sociale e di vita democratica nelle istanze di base», insieme col crescere di «una diffusa spregiudicatezza nella lotta per il potere e nella gestione del potere».
Il visibile impoverimento ideale e culturale della politica ha rappresentato il terreno di coltura del suo inquinamento morale. E non è questa la sede in cui interrogarmi sul futuro, su una possibile, graduale ma netta, inversione di tendenza. Posso tutt’al più ribadire programmaticamente la mia fiducia nella conclusione che Thomas Mann suggeriva ai tedeschi nel pieno della catastrofe provocata dalla degenerazione estrema della politica, quella del barbarico totalitarismo e bellicismo nazista : «la politica non potrà mai spogliarsi del tutto della sua componente ideale e culturale, mai rinnegare completamente la parte etica e umanamente rispettabile della sua natura».
Ma come – ecco quale può essere la materia di un dialogo rinnovato e approfondito – va intesa quella «componente ideale»? Come ha operato politicamente nel passato vissuto dalla mia e da altre generazioni «la forza degli ideali»? Ha operato, si può rispondere, nella forma delle ideologie, di grandi ideologie contrapposte, e oggi invece non è così che si può intendere la rinascita di una «componente ideale» come molla e guida dell’agire politico.
In effetti, non spiega molto, e non ha mai spiegato molto, la formula che a suo tempo diventò di moda: «la fine (o la morte) delle ideologie». Anche perché l’attenzione si concentrò, comprensibilmente, sul crollo di una ideologia: quella comunista, travolta nel collasso dei regimi che ad essa si ispiravano, in Europa centro-orientale e in Unione Sovietica. Molto più limitata, e sfuggente, rimase ed è rimasta la rivisitazione – e la stessa ri-definizione – dell’ideologia che si era contrapposta a quella comunista: ideologia del libero mercato, ovvero di uno sviluppo capitalistico affidato al libero giuoco delle forze di mercato? O ideologia delle istituzioni liberal-democratiche dell’Occidente come punto d’arrivo della storia? Comunque, l’ideologia conservatrice è sopravvissuta alla fine del comunismo, assumendo sempre più le sembianze di quel «fondamentalismo di mercato», tradottosi in deregulation e in abdicazione della politica, che solo la crisi finanziaria globale scoppiata nel 2008 avrebbe messo in questione.
Certo, è stato impossibile – se non per piccole cerchie di nostalgici sul piano teoretico e di accaniti estremisti sul piano politico – sfuggire alla certificazione storica non solo del fallimento dei sistemi economici e sociali d’impronta comunista, ma del rovesciamento di quell’utopia rivoluzionaria che conteneva in sé promesse di emancipazione sociale e di liberazione umana e che aveva finito – come, con fulminante espressione, disse Norberto Bobbio – per «capovolgersi», nel convertirsi di fatto nel suo opposto. Anche se può discutersi l’uso – a proposito del movimento comunista e della sua visione – del termine «utopia».
Vale senza dubbio, in riferimento allo svolgimento, sempre più involutivo, di quell’esperienza, il fondamentale avvertimento di Isaiah Berlin, che riconosceva tutto il valore delle utopie, ma aggiungeva che «come guida al comportamento possono rivelarsi letteralmente fatali». In effetti, la dottrina e la prassi comuniste – che pure esprimevano una pretesa di scientificità («l’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza») – avevano proprio la rigidità, onnicomprensività e autosufficienza di una ideologia militante.
Ma non è possibile – ecco ancora un interrogativo attorno al quale varrebbe forse la pena di dialogare – secernere da ideologie contrapposte, riconsiderate nella loro ascesa e nel loro declino, riferimenti positivi per individuare quella irrinunciabile «componente ideale» della politica da cui sono partito in questo mio abbozzo, o proposta, di riflessione?
Non si può confondere, sia chiaro, «la forza degli ideali» o la motivazione ideale che spinge all’agire politico e dovrebbe sorreggerlo, con un approccio fideistico: e invece ritengo – basandomi sulla mia personale esperienza e memoria – che nell’adesione e nell’attaccamento di tanti al Partito Comunista, quale risorse in Italia dopo la liberazione dal fascismo, un elemento di fideismo vi fu, e venne anche dall’alto della sua dirigenza. In un singolare quanto spurio confronto – aggiungo – con il fideismo religioso: non si giunse (da parte comunista) in quegli anni di nuovo inizio, a parlare di «due fedi»? O – in termini già un po’ meno ideologici e più politici – di «due universalismi»?
Ciò di cui parlo è dunque altro: un pieno e limpido, razionale recupero a una visione laica della politica degli ideali della libertà (politica e anche economica), della giustizia, promozione e protezione sociale, della solidarietà come dovere e sentimento individuale e come responsabilità e prassi collettiva, del più ricco sviluppo della persona e della costruzione di un ordinamento fondato su ineludibili diritti e doveri comuni.
Non possono questi ideali, sottratti agli irrigidimenti e alle estremizzazioni di carattere ideologico, essere perseguiti attraverso programmi e indirizzi diversi, nel vivo di una competizione politica e culturale democratica, e costituire al tempo stesso il sostrato comune di un impegno costituzionale, al livello nazionale e al livello europeo? Non si può forse già cogliere un quadro di risposte tanto – per parlare dell’Italia – nell’impianto della Costituzione repubblicana, quanto nelle formulazioni di principio su cui si è fondata e si fonda la costruzione dell’Europa unita?
Vedo in tutto ciò materia di dialogo anche tra credenti e non credenti. Perché i credenti, e segnatamente i cattolici italiani, hanno il loro punto di vista da far valere e il loro contributo da dare. È un fatto che nei principi e negli indirizzi costituzionali sanciti sia in termini nazionali sia in termini europei (tra questi ultimi, quelli riassumibili nell’ancoraggio a una «economica sociale di mercato»), si sono calati valori sentiti come autenticamente cristiani. Quanto l’adesione a questi valori possa essere vissuta in termini di fede e in sintonia con la pratica religiosa, è aspetto non secondario dell’approfondimento e della riflessione comune che sollecito sulla possibile, necessaria rinascita della componente ideale e morale dell’agire politico. Approfondimento, riflessione, cui da pochi può venire un apporto alto e sereno come da Gianfranco Ravasi.

Corriere 9.2.13
Napolitano all'Osservatore: il comunismo ha fallito


MILANO — «Il visibile impoverimento ideale e culturale della politica ha rappresentato il terreno di coltura del suo inquinamento morale. E non è questa la sede in cui interrogarmi sul futuro, su una possibile, graduale ma netta, inversione di tendenza». Sono le parole del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, contenute in un contributo — pubblicato ieri integralmente dall'Osservatore Romano — alla raccolta di scritti «Praedica verbum», in onore del settantesimo compleanno del cardinale Gianfranco Ravasi. Il capo dello Stato, storico dirigente del Pci, ha dunque scritto: «Certo, è stato impossibile — se non per piccole cerchie di nostalgici sul piano teoretico e di accaniti estremisti sul piano politico — sfuggire alla certificazione storica del fallimento dei sistemi economici e sociali d'impronta comunista». Nel suo intervento sul giornale del Vaticano, il presidente si è concentrato quindi soprattutto sul rapporto tra etica e politica parlando chiaramente della fine di tutte le ideologie, a partire da quella comunista, ma non dimenticando che dall'altra parte si affermò anche un certo «fondamentalismo di mercato». «L'ideologia conservatrice è sopravvissuta alla fine del comunismo, assumendo sempre più le sembianze di quel "fondamentalismo di mercato", tradottosi in deregulation e in abdicazione della politica». Sempre sulla fine del comunismo, poi, Giorgio Napolitano ha parlato del «rovesciamento di quell'utopia rivoluzionaria che conteneva in sé promesse di emancipazione sociale e di liberazione umana e che aveva finito — come, con fulminante espressione, disse a suo tempo Norberto Bobbio — per capovolgersi, nel convertirsi di fatto nel suo opposto».

Corriere 9.2.13
Le spese fuori controllo del Lazio Quei 35 milioni in arredi e telefoni
Regione, quintuplicati in 5 anni i costi di consulenze e convegni
di Sergio Rizzo


Ogni giorno l'avvocato Giuseppe Rossodivita si alza e fa la stessa domanda: «Dove sono finiti i soldi?». La fa in televisione, su Facebook, nei comunicati stampa. A chi chiede una risposta? Ai responsabili dei gruppi politici del consiglio regionale del Lazio, che si aspetta mettano anch'essi mano al portafoglio, seguendo il suo esempio. Una settimana fa l'ex capogruppo radicale che è stato determinante nel sollevare il caso degli scandalosi finanziamenti pubblici ai politici della Regione Lazio ha appena restituito il fondo cassa rimanente del suo gruppo: 360 mila euro. Per capirci, siccome i radicali sono due, se tutti i 71 componenti di un consiglio sciolto da settembre 2012 avessero restituito 180 mila euro ciascuno, nelle tasche dei contribuenti sarebbero rientrati 12 milioni e 780 mila euro. Mica bruscolini.
Ma Rossodivita continua a fare quella domanda senza aver neppure letto la relazione che da qualche settimana i dirigenti della Regione si passano di mano in mano come ustionasse. E c'è da comprenderli. Si tratta di un rapporto di 334 pagine pieno di numeri e tabelle scritto da due ispettori della Ragioneria generale dello Stato che il Tesoro aveva spedito già nello scorso mese di giugno, dunque prima dello scandalo, a ficcare il naso nelle carte dell'ente. È quella che in gergo tecnico si chiama «verifica amministrativo-contabile». Colpo durissimo su chi ha gestito la Regione Lazio dal 2007, quando governava Piero Marrazzo, al 2011, quando c'era Renata Polverini. Una mazzata così forte che non poteva risparmiare il consiglio regionale. I numeri sono raggelanti. Con la freddezza delle cifre, gli ispettori Luciano Cimbolini e Vito Tatò fanno notare che in quei cinque anni le spese del consiglio sono lievitate del 43,1 per cento, da 80,4 a 115 milioni. Con punte di incremento semplicemente sbalorditive. È il caso delle consulenze e dei convegni, voce passata da 1,35 a 8 milioni di euro: + 493 per cento. Come se la Camera dei deputati, che ha un bilancio dieci volte maggiore, avesse speso 80 milioni. Poi le spese telefoniche, postali e di cancelleria, nonché per le attrezzature e gli arredi del consiglio: + 226 per cento. E qui i numeri fanno ancora più impressione, visto che dai 10,8 milioni del 2007 si è saliti a 35,2 milioni. Mezzo milione l'anno, o se preferite il vecchio miliardo di lire, per ogni consigliere.
Il bello è, dicono gli ispettori, che pur avendo speso soldi «a un ritmo assolutamente fuori linea» rispetto a tutte le altre voci del bilancio regionale, sono riusciti a mettere da parte, dal 2005 al 2011, ben 44 milioni. Soldi che sarebbero dovuti finire in un capitolo apposito, il numero 331504, «recupero dell'avanzo di amministrazione del consiglio regionale»: peccato soltanto che lo stesso consiglio, sono parole di Cimbolini e Tatò, «non ha mai provveduto al versamento effettivo delle somme». E anche qui: dove sono quei soldi?
La lista dei rilievi non si poteva certo limitare al costo degli apparati politici. C'è, per esempio, la «reiterata copertura dei disavanzi del settore sanitario attraverso le risorse del bilancio non sanitario, di per sé caratterizzato da una situazione di grave squilibrio». Come anche il «progressivo peggioramento della situazione economico-patrimoniale delle società partecipate». Sapete quante sono, considerando anche i cosidetti enti strumentali? Settantadue, sono. Una giungla terrificante e piena di sorprese. Per esempio, Lazio service: una società «utilizzata — scrivono gli ispettori — in modo improprio al fine di soddisfare esigenze occupazionali che non potevano essere poste a carico del bilancio regionale». Con costi, perciò, che sono lievitati come la panna montata: del 44% in tre anni quelli del solo personale. E queste società continuano ad aumentare. L'ultima, Lazio Ambiente spa, è nata addirittura il 18 novembre 2011.
Andiamo avanti. I debiti regionali sono saliti da 8 miliardi 482 milioni del 2007, che già non erano pochi, a 11 miliardi 234 milioni del 2011. E sorvoliamo su quelli della San.Im., un'altra società regionale costituita nel 2002, quando governava l'attuale candidato presidente del centrodestra Francesco Storace, per rilevare i debiti delle Asl: l'esposizione ammontava, alla fine del 2011, a un miliardo 95 milioni. Con una spesa di interessi, in un solo anno, di qualcosa come 64 milioni. Non bastasse, l'indebitamento non sempre è stato utilizzato per gli scopi «costituzionalmente» previsti, cioè gli investimenti. Si può definire forse un investimento un finanziamento straordinario di 5,4 milioni per il «recupero di edifici di culto»? Oppure i 20 milioni spesi a favore del patrimonio culturale di soggetti «privati»? O ancora gli oltre 5 milioni impegnati per il «riconoscimento della funzione sociale ed educativa degli oratori» (con tutto il rispetto per gli oratori, s'intende)? E si potrà mai considerare un investimento la stabilizzazione di lavoratori socialmente utili, pagata appunto, a quanto pare, con i debiti?
Per non parlare della redditività del patrimonio immobiliare. La Regione Lazio ha più di 500 immobili, per un valore a bilancio, senza contare le Ipab, di un miliardo e 360 milioni. Quanto rende tutto questo ben di Dio? Cinque striminziti milioni. Pari allo 0,003 per cento. Forse anche per questo motivo c'era nei piani regionali un piano di massicce alienazioni patrimoniali, dagli immobili alle aziende. Secondo i piani, si sarebbero dovuti incassare 75 milioni nel 2007, 175 l'anno seguente, 325 nel 2009, 720 nel 2010 e 800 (bum!) nel 2011. In tutto 2 miliardi e 95 milioni. Invece hanno incassato 104,8 milioni. Il 6,7 per cento di quello che avevano previsto.
In compenso, davano agli autisti due buoni pasto al giorno. E gli «monetizzavano» anche il terzo: 477.916 euro e 50 centesimi. Ma perché rischiare un calo di zuccheri al volante? Per così poco?

Corriere 9.2.13
I commissari rinunciano al concorsone
Compensi troppo bassi, le difficoltà per reclutare gli esaminatori
di Mariolina Iossa


ROMA — Affanno da concorsone. Commissioni completate all'ultima ora per le prove scritte che cominceranno lunedì e si concluderanno il 21 febbraio. Per 11 mila 542 posti da insegnante nella scuola pubblica, parteciperanno 88 mila 610 candidati, quelli che hanno passato il test preselettivo di dicembre. A questi vanno aggiunti i 7 mila ammessi con riserva dal Tar del Lazio, di cui oltre 6 mila rientrati in lizza solo ieri su ricorso dell'Anief (Associazione professionale e sindacale), che ha contestato il punteggio minimo richiesto dal Miur per superare i quiz.
Fino a ieri sera gli uffici regionali scolastici hanno lavorato senza sosta per completare la composizione delle commissioni. Per il reperimento dei presidenti e soprattutto dei commissari, il ministro Profumo ha dovuto prima riaprire i termini per la presentazione delle domande poi, visto che anche con la seconda chiamata non erano stati coperti i posti necessari, emettere una nuova ordinanza per consentire ai direttori scolastici regionali di nominare i presidenti e i componenti. Questa volta senza estrazione computerizzata con algoritmo come era accaduto il 22 gennaio. Ora le 212 commissioni sono complete, sia pure con qualche affanno, con 246 presidenti e 424 commissari.
Eppure le domande presentate non erano poche: oltre 12 mila quelle per i commissari e poco più di duemila per i presidenti di commissione. Che cosa è accaduto? Molti insegnanti si sono tirati indietro perché pagati troppo poco, appena 209 euro a ogni commissario e 251 al presidente, a cui vanno sommati 50 centesimi per ogni compito corretto. Ma non è solo questo. I commissari non avranno l'esonero dalla scuola e dovranno correggere i compiti nel tempo libero. Da qui la fuga in massa a dieci giorni dall'inizio della prova scritta.
«Non ci sono risorse? Non si può pretendere che la gente lavori quasi gratis, e per giunta in assenza di rinnovo del contratto bloccato dal 2009» denuncia Mimmo Pantaleo della Cgil scuola. «Così si svilisce la professionalità proprio quando si vorrebbe garantire trasparenza e alta qualità del concorso» è il commento del presidente dell'Anief Marcello Pacifico. «Non è ammissibile che i commissari per un concorso ordinario ricevano un'indennità di massimo 700 euro lordi — sono i calcoli che fa la Gilda degli Insegnanti — e senza esonero dal servizio. Ne va della qualità del lavoro».
La Sardegna è una delle regioni dove ci sono stati maggiori problemi per reclutare i commissari, assieme a Umbria e Liguria. Il preside dell'alberghiero Azuni di Cagliari, Peppino Loddo, ritiene che «i compensi sono disincentivanti, molti colleghi hanno pensato che non valesse la pena e hanno rinunciato anche dopo aver fatto richiesta». Per il preside del classico Dante Alighieri di Roma Carlo Mari «il compenso è irrisorio, sarebbe quasi meglio niente, sarebbe meglio destinare una quota alle casse degli istituti».
S'indigna Marina Cardin, docente di chimica dei materiali all'artistico Guggenheim di Venezia: «Facciamo orari incredibili pur di seguire i progetti e mantenere alta la qualità. Avrebbero dovuto darmi un compenso adeguato e sostituirmi a scuola. Chi lavora con passione già fa moltissimo». Ma al ministero ne sono consapevoli. Lucrezia Stellacci, capo dipartimento per l'Istruzione, ammette che «sono stati tantissimi gli insegnanti che, dopo aver presentato domanda per le commissioni, hanno poi rinunciato per le condizioni economiche: un regime di compensi più basso che in passato e senza esonero dal lavoro scolastico. Questo dovrebbe farci riflettere per il futuro».

Corriere 9.2.13
«Quattro anni fa l'eutanasia per Eluana Una legge per evitare che si ripeta»
Sacconi: chi l'ha paragonata a Martini ha fatto disinformazione
di M. Antonietta Calabrò


ROMA — Oggi è il quarto anniversario della morte di Eluana Englaro e questo giorno, in sua memoria, è diventato la Giornata per gli stati vegetativi.
Ieri al ministero della Salute, con il ministro Renato Balduzzi, si è riunito il Tavolo nazionale per fare il punto sull'assistenza a queste persone colpite da una gravissima forma di disabilità.
Maurizio Sacconi, senatore del Pdl — che quattro anni fa, nel 2009, era il ministro del Lavoro e della Salute del governo Berlusconi — ritiene che lo stanziamento di venti milioni di euro deciso dal governo Monti per l'assistenza a questi disabili sia assolutamente insufficiente: «Meno di un terzo di quello che avevamo stanziato noi». E torna a chiedere «una nuova legge che impedisca altri casi di eutanasia».
Perché una nuova legge?
«Perché il provvedimento giudiziario su Eluana ha "creato" un precedente rilevante. Le persone in stato vegetativo non sono in fine vita e idratazione e alimentazione non sono cure e tanto meno accanimento terapeutico. Non a caso tutti, anche i giornali stranieri, allora hanno titolato che il caso Englaro era il primo episodio di eutanasia in Italia. Eppure Eluana aveva attività cerebrale e tutte le funzioni vitali, potendo vivere a lungo in uno stato vegetativo che la scienza non sapeva e non sa definire dal punto di vista delle percezioni, della comunicazione con l'esterno e della possibile reversibilità. La stessa opera di disinformazione è stata fatta al momento della morte del cardinale Carlo Maria Martini, quando si è equivocato sul mancato accanimento terapeutico, che è persino doveroso ad un certo punto, e il ben diverso caso di Eluana, quello di una disabile grave che non era prossima alla morte».
Ma nella scorsa legislatura voi avevate la maggioranza parlamentare: perché una legge sul fine vita non l'avete fatta?
«Noi abbiamo quasi completato l'iter della legge: mancava soltanto il terzo e ultimo passaggio in Senato su alcune limitate modifiche apportate dalla Camera. Ma il centrodestra non era più al governo e il governo Monti non ha voluto affrontare la situazione, vista l'opposizione del Partito democratico».
Qualche giorno fa Monti è andato in tv da Lucia Annunziata: c'era Peppino Englaro, papà di Eluana...
«Lo stesso impaccio lo vediamo in questa campagna elettorale: quando deve trattare di temi eticamente sensibili, Monti non risponde direttamente agli interlocutori, ma legge delle risposte scritte già preparate. Si appella alla libertà di coscienza, ma in realtà si comporta come Ponzio Pilato».
Il ministro Balduzzi ieri ha annunciato fondi per circa 20 milioni di euro per l'assistenza a queste persone: a suo giudizio sono sufficienti?
«L'ho detto, è meno di un terzo di quanto abbiamo stanziato noi, e bisogna garantire alle famiglie, sulla base delle nostre linee guida, un'assistenza omogenea sul territorio che invece è a macchia di leopardo».
Da parte sua Monti vi accusa di usare i temi eticamente sensibili come clava politica...
«Gli rispondo che questi temi non sono poi così popolari, sono politicamente faticosi, impegnano a spiegare e motivare contro molti luoghi comuni. Tanto che lui evita di prendere posizione su di essi anche in vista di una possibile alleanza con la sinistra. Noi, che abbiamo una linea maggioritaria in favore della vita dal concepimento alla morte naturale, proponiamo, come qualche anno fa in Francia, gli Stati generali sulla bioetica affinché si diffonda l'informazione e si possa costruire una larga condivisione. C'è un nesso inesorabile tra i temi antropologici, tra la visione dell'uomo e le stesse politiche economiche e sociali».

l’Unità 9.2.13
La Tunisia si ferma per i funerali di Belaid
Nel giorno delle esequie uno sciopero generale ha paralizzato il Paese
Il presidente Jebali deciso a formare un governo tecnico
Aggredito un altro leader dell’opposizione democratica
di U. D. G.

Il Paese si è fermato per rendere l’ultimo omaggio a un «martire per la libertà». È stato sepolto al cimitero di El-Jellaz a Tunisi Chokri Belaid, il leader dell' opposizione laica tunisina assassinato mercoledì scorso. Un'autentica marea umana ha accompagnato le spoglie e ha assistito alle esequie mentre tutto il Paese nordafricano si fermava per lo sciopero generale. Secondo fonti giornalistiche tunisine, riportate da al Arabiya e al Jazira, addirittura un milione e 400mila persone avrebbe partecipato al rito funebre; una partecipazione impressionante, confermata dal ministero dell’Interno.
Con una decisione di enorme valore simbolico, perché sancisce il rango di «martire» del Paese dell'esponente politico assassinato, la salma di Chokri Belaid è stata portata dalla casa dei genitori, a Djebel Jelloud, al cimitero di Djellaz, a bordo di un camion scoperto dell’Esercito, sul cui pianale hanno preso posto uomini della polizia militare. Nel tragitto il camion è stato seguito da una vettura sulla quale hanno preso posto la moglie del politico assassinato, Besma Khalfaoui, e i figli. Dietro la macchina con i familiari, una lunga coda di vetture. Nonostante il forte vento e la pioggia battente, la folla ha accompagnato il feretro avvolto nella bandiera rossa tunisina e ricoperto di fiori nei tre chilometri e mezzo di tragitto dal centro culturale di Djebel Jelloud, su cui erano stati disegnati i grandi baffi neri simbolo del leader del Movimento dei patrioti democratici, fino al cimitero. Scaramucce e scontri si sono registrati lungo il percorso del corteo funebre, con la polizia che ha usato i gas lacrimogeni per disperdere la folla. Ovunque c’erano centinaia, migliaia di bandiere, ma solo della Tunisia.
L’ULTIMO SALUTO
Mentre la salma veniva inumata, migliaia di persone hanno gridato «Allahu akbar» (Allah è grande), prima di intonare l’inno nazionale tunisino e recitare il primo versetto del Corano. Le esequie hanno assunto a tratti il tono di una manifestazione contro il partito islamista al governo, Ennahda, accusato di essere il mandante dell'assassinio. La vedova di Belaid, Besma, ha innalzato le due dita in segno di vittoria quando, a più riprese, si è levato dai dimostranti il grido: «Il popolo vuole un’altra rivoluzione», e la figlia di 8 anni perdeva i sensi in mezzo a scene di caos. Tra i manifestanti risuonano anche slogan dedicati al generale Rachid Ammar, capo delle Forze armate tunisine, chiedendogli di intervenire. Ammar è famosissimo in Tunisia per essersi opposto alla richiesta di Ben Ali di schierare l’esercito contro chi chiedeva la caduta della dittatura.
Tunisi ha vissuto una giornata surreale, con quasi tutte le attività bloccate dallo sciopero generale proclamato dal principale sindacato, l’Unione Generale dei Lavoratori Tunisini (Ugtt). Il Paese è rimasto virtualmente isolato: l’aeroporto di Tunisi-Cartagine ha comunicato la cancellazione per l’intera giornata di tutti i voli, sia interni che internazionali, in arrivo e in partenza dallo scalo. La violenza è però riesplosa a Gafsa, nella Tunisia centrale: giovani dimostranti hanno aggredito un poliziotto, che è stato trascinato a forza fuori dalla sua auto e picchiato selvaggiamente: adesso è in stato di coma. Gli assalitori hanno anche appiccato il fuoco a un commissariato e hanno messo in fuga le forze di sicurezza. Violenti scontri sono scoppiati anche Sousse, dove forze di sicurezza e manifestanti si sono affrontati duramente.
Sul fronte istituzionale, la crisi resta aperta: il premier Hamadi Jebali, ha ribadito di voler dar vista a un nuovo governo formato da tecnici, nonostante la contrarietà espressa dai vertici del suo partito, il filo-islamico Ennahda. «Sono fermo alla mia decisione di formare un governo di tecnici e non ho bisogno del sostegno dell’Assemblea Costituente», ha affermato il premier, citato dall’agenzia Tap. «La composizione di questo governo è quasi pronta», ha aggiunto Jebali. La decisione di Jebali è stata accolta dall’opposizione e dalla società civile come una chance per far uscire il Paese dalla crisi Ma la violenza politica non si placa. In serata è stato aggredito il fondatore del Partito Democratico Progressista, Ahmed Nejib Chebbi.

il Fatto 9.2.13
Tunisia. Contro l'opposizione adesso è caccia all'uomo

di Rob. Zun.

AL ARABIYA: UN ALTRO POLITICO COLPITO. PIÙ DI UN MILIONE AI FUNERALI DI BELAID. PAESE PARALIZZATO TRA SCONTRI E SCIOPERI, BLOCCATI I VOLI

Nonostante la partecipazione di massa ai funerali di Chokri Belaid e l’appello all’unità lanciato da Rached Gannouchi, leader di Ennahdail partito religioso al governo della Tunisia accusato di aver chiuso gli occhi di fronte alle intimidazione e violenze degli integralisti islamici contro esponenti politici dell’opposizione laica- ieri pomeriggio a Tunisi c’è stata un’ennesima aggressione. Un gruppo di “barbus”, il soprannome con cui vengono indicati gli integralisti islamici della corrente salafita, hanno attaccato l'automobile su cui viaggiava il segretario generale del partito laico Al-Joumhouri, Ahmed Nejib Chebbi. L’uomo, che stava rientrando a casa dopo avere partecipato ai funerali di Belaid è riuscito a sfuggire all’aggressione grazie alla prontezza di riflessi della sua scorta armata. I poliziotti hanno infatti impedito ai salafiti di forzare lo sportello dell’auto accanto a cui si trovava l'esponente di Al-Joumhouri. Non è la prima volta che Chebbi è vittima di minacce e tentativi di violenza ma nessuno si aspettava che potesse essere aggredito anche durante la prima giornata di lutto nazionale della Tunisia post Ben Alì. La tensione anziché smorzarsi, rimane pertanto altissima in tutto il paese e il primo sciopero generale dal 1978, in segno di solidarietà e protesta per l’omicidio di Belaid e per la devastante crisi economica, lo ha isolato ancora di più. Gli aeroporti sono rimasti chiusi e non si sa se riapriranno visto che lo sciopero potrebbe protrarsi. Non giova al clima di paura e incertezza anche lo scontro in atto all’interno di Ennahda. Il premier, Hamadi Jebali, membro del partito, ha affermato pubblicamente di voler procedere allo scioglimento del governo per varare un esecutivo di tecnici la cui formazione è "nell’interesse del paese". Questa determinazione creerà ancora più frizioni con la leadership di Ennahda che si era subito detta contraria all’idea di Jebali. Il sito web di Radio Mosaique, ha riportato nel dettaglio la spiegazione del premier in cui sottolinea che per il nuovo governo “non c'è bisogno dell’avallo dell’Assemblea costituente”, contraddicendo le dichiarazioni di alcuni membri del suo partito. Jebali ha concluso dicendo che la sua decisione ha come scopo la difesa degli interessi della Tunisia. Il braccio di ferro all’interno del partito vincitore delle prime elezioni post regime è dunque appena iniziato e chiunque la spunterà non potrà pensare di aver vinto la guerra: siamo solo all’inizio della battaglia tra oscurantismo e modernità.

La Stampa 9.2.13
Nigeria, assalto alla clinica Uccise 9 volontarie anti-polio
Curavano i bambini. Gli estremisti islamisti: vogliono sterilizzare i musulmani
di Giordano Stabile


Dal Pakistan, dalle remote valli dello Swat, la propaganda assassina contro i vaccini anti-polio ha viaggiato per migliaia di chilometri. Fino a una moschea della periferia di Kano, nord della Nigeria. Giovedì sera un imam si è scagliato contro i medici che conducono la campagna annuale per prevenire la malattia che nel Paese africano fa ancora centinaia di vittime all’anno: «Sterilizzano i nostri bambini, vogliono distruggere l’Islam, è un dovere dei credenti fermarli».
Le stesse parole che riecheggiano nelle madrase pachistane e afghane, lo stesso esito criminale. Ieri mattina uomini armati, probabilmente del gruppo islamista Boko Haram, hanno colpito due volte. Un primo agguato contro un ambulatorio vicino al centro della città: quattro morti. Mezz’ora dopo il commando, che si muoveva a bordo di un motociclo, ha colpito in una clinica distante pochi chilometri, a Hotoro: raffiche di mitra sulle volontarie che aspettavano i bambini in attesa di essere vaccinati. In tutto dieci vittime, nove donne.
La Nigeria è il Paese più colpito al mondo dalla poliomielite, una malattia infettiva causata da un virus che può portare alla paralisi completa. L’anno scorso, secondo il Centro per lo sradicamento globale della Polio sono stati registrati 121 casi. Seguono il Pakistan con 58 casi e l’Afghanistan, 37.
Un primato negativo che ha una forte radice culturale in comune: la disinformazione degli islamisti più radicali, che vedono nei vaccini un complotto dell’Occidente per sterilizzare i bambini e indebolire la nazione musulmana. Nell’Afghanistan dei taleban, negli Anni Novanta, la vaccinazione dei bambini venne bloccata. E lo è ancora, di fatto, nelle zone più remote del Paese e del vicino Pakistan, dove comandano gli studenti coranici.
La stessa propaganda ha frenato le campagne in Nigeria, in fase di islamizzazione forzata, con dodici Stati del Nord dove già vige la sharia. Le concessioni fatte dal governo centrale, guidato dal presidente cristiano Goodluck Jonathan, non sono servite a disinnescare la pressione degli estremisti. I Boko Haram, che in tre anni hanno causato la morte di 1400 persone, hanno alzato il tiro, e attaccato il 25 gennaio scorso l’emiro di Kano, Alhaji Ado Bayero, uno dei leader musulmani moderati più influenti e soprattutto figura di rilievo nella gerarchia musulmana in Nigeria, seconda solo al sultano di Sokoto.
L’81enne emiro era colpevole di indire preghiere in comune con i cristiani contro le violenze religiose e interetniche, si è salvato per un pelo dall’esplosione di una moto-bomba. Da allora è stato imposto ai motociclisti il divieto di trasportare passeggeri, proprio nel tentativo di impedire questo tipo di raid. Il venerdì precedente 150 persone erano morte in una mezza dozzina di attentati, in tre Stati diversi.
La strategia del terrore colpisce da allora nei giorni di preghiera, il venerdì o la domenica. Ieri ha cambiato bersaglio. E ha avvicinato ancor più il paesaggio africano a quello delle valli dell’Asia Centrale dominate dai fondamentalisti. Il temuto «Afrighanistan», l’Africa come nuovo Afghanistan, è una minaccia sempre più reale.

Repubblica 9.2.13
I crociati assassini del vaccino anti-polio
Quelle infermiere in prima fila per salvare vite con un sorriso
Dopo il Pakistan e l’Africa adesso è allarme a Kabul
di Alberto Cairo


DOPO il Pakistan la Nigeria: dodici operatrici della campagna anti-poliomelite sono state uccise ieri in due distinti attacchi nel Nord del Paese. Dietro agli attentati, secondo i media locali, ci sarebbe la mano del gruppo estremista islamico Boko Haram. Normale chiedersi se ora non toccherà all’Afghanistan, la rimanente delle tre nazioni al mondo ancora infestate dalla poliomielite. Durante gli anni trascorsi in Africa e in Afghanistan non sono mai stato un vaccinatore. In qualità di fisioterapista, ho visto e vedo invece ogni giorno la tragedia dei pazienti disabili che pagano il prezzo della mancata vaccinazione. Riabilitazioni dolorose e lunghissime, spesso a vita. Confesso di avere spesso invidiato i medici e gli infermieri che si occupano di immunizzazione, un lavoro che elimina il problema alla radice, un taglio netto, efficace. Ho ascoltato le loro storie, i racconti di viaggio, apprezzando gli straordinari risultati. Non scorderò mai due infermiere inglesi incontrate negli anni Ottanta a Juba, Sud Sudan adesso, allora
in guerra con Khartoum.
NON giovanissime, erano una alta e massiccia, l’altra minuta e scattante, entrambe con occhi azzurri e accento non facile. Impossibile trovarle separate, si muovevano insieme, parlavano completando le frasi dell’altra, come un copione concordato. Da decenni in Africa, ora formavano squadre di vaccinatori e controllavano i programmi.
Visitavano ogni clinica della regione, in macchina, in barca o a piedi, dormivano dovunque capitasse, talora trattate come regine, altre volte osteggiate da stregoni timorosi di vedere il proprio potere oscurato da delle bianche strane e sospette. Non infrequenti i momenti drammatici.
Una volta, cacciate e in procinto di andarsene, vennero riconosciute da una vecchia alla quale, tempo prima, avevano dato chissà quale medicina, guarendola. La donna convinse molte delle madri a fidarsi delle straniere e parte del villaggio vaccinò i figli. Sei mesi dopo, di ritorno, mentre si chiedevano non fosse opportuno evitare il villaggio, vennero raggiunte da un gruppo di guerrieri, scortate e accolte come maghe-guaritrici. Nessuno dei bambini vaccinati si era ammalato; degli altri, molti erano morti. Cominciò la battaglia per convincere che il merito era del vaccino, non loro personale. Non fu facile far credere che somministrato da altri avrebbe avuto lo stesso effetto. Dovettero promettere viaggi e visite regolari.
Dieci anni dopo, A Kabul, incontrai una delle due, quella alta. Tristissima, mi disse che la sua compagna era morta. Lei stava partendo per la provincia del Nuristan, stesso lavoro, vaccinazioni. Ancora una volta l’invidiai per il viaggio dove io mai ero potuto andare. L’Afghanistan era allora in piena guerra civile, a causa dei combattimenti spesso vaccinare era impossibile, i pericoli non mancavano, ma mai un operatore sanitario veniva attaccato proprio per le sue funzioni. In alcune province (ricordo quella di Khost, area di etnia pashtun al confine col Pakistan), alcuni mullah sostenevano che fosse il vaccino a causare la polio. Storie di ignoranza, mai di violenza: i vaccinatori venivano invitati ad andarsene, finiva lì.
In Pakistan e Nigeria è ben diverso. La Croce Rossa Internazionale ha da qualche anno lanciato la campagna mondiale “Health in danger”, la salute minacciata, per denunciare gli ostacoli che nei paesi in guerra medici e pazienti affrontano e battendosi per eliminarli. La situazione sembra peggiorare. Impossibile invidiare il lavoro dei vaccinatori adesso. Mi chiedo se non ci sarà una fuga dal mestiere. Guai sospendere l’immunizzazione, il disastro sarebbe sicuro e immediato.vra

La Stampa TuttoLibri 9.2.13
Ma a Maratona chi vinse davvero?
Uno storico ricostruisce la grande battaglia in cui Atene sconfisse l’impero persiano
di Alessandro Barbero


Richard A. Billows «Maratona. Il giorno in cui Atene sconfisse l’Impero» Il Saggiatore pp. 259, € 19,50

Nel 1851 lo storico inglese Edward Creasy inventò una categoria destinata a duratura fortuna: le battaglie decisive della storia. Le sue «Fifteen Decisive Battles of the World» descrivevano una traiettoria dalla direzione ben precisa. L’Europa si era difesa per secoli dalla barbarie, trionfando dei Cartaginesi al Metauro, degli Unni ai Campi Catalaunici e degli Arabi a Poitiers, e questo aveva reso possibile lo sviluppo di una civiltà cristiana e occidentale che agli occhi del pubblico vittoriano rappresentava ovviamente il vertice della storia umana. Nell’orizzonte europeo, la saggezza della Storia aveva poi creato l’Inghilterra con la battaglia di Hastings, l’aveva protetta con la sconfitta dell’Invincibile Armada, le aveva consentito di trionfare a Waterloo; anche se Creasy, che non è uno sciocco, considera altrettanto decisive le sconfitte inglesi, che hanno permesso ai rivali di sopravvivere e reso pluralista l’Occidente: dalla vittoria di Giovanna d’Arco a Orléans a quella di Giorgio Washington a Saratoga.
Nel secolo e mezzo che ci separa da Creasy sono apparse molte altre rassegne di battaglie decisive, ed è istruttivo scoprire come a seconda dei casi è stata modificata la lista: per gli storici americani del primo Novecento, ad esempio, le battaglie di Santiago e di Manila vinte nel 1898 contro gli Spagnoli, che portarono nell’orbita dell’impero americano Cuba e le Filippine, rientravano a pieno titolo fra gli scontri decisivi dell’umanità, e forse avevano ragione loro, anche se queste battaglie oggi nessuno le ricorda più. Ma la prima delle battaglie decisive è sempre, per tutti, la stessa con cui Creasy apriva il suo libro: Maratona, dove nel 490 a. C. diecimila opliti ateniesi sconfissero l’esercito mandato dai Persiani a sottomettere la Grecia, e «salvarono la civiltà occidentale».
Uno storico postmoderno, se gli fosse chiesto di scrivere un libro su Maratona, sarebbe tentato di verificare se questo venerabile luogo comune non possa essere rovesciato. Supponiamo che gli Ateniesi fossero stati sconfitti: e allora? I Persiani avrebbero preso e bruciato Atene, ma questo è esattamente quello che accadde dieci anni dopo, quando Serse ritentò l’impresa in cui suo padre Dario aveva fallito. Subito dopo gli invasori avrebbero incontrato un nemico alquanto più pericoloso degli Ateniesi, gli opliti spartani schierati ad aspettarli sull’Istmo di Corinto, e lì la «lancia doriese», che perfino l’Ateniese Eschilo, combattente di Maratona, menziona con timoroso rispetto nei Persiani, ne avrebbe fatto macello, esattamente come accadde undici anni dopo a Platea.
Ma vogliamo rovinarci: supponiamo pure che la vittoria persiana a Maratona fosse seguita dalla sottomissione delle poleis al Gran Re. Siamo proprio sicuri che la civiltà greca sarebbe stata soffocata nella culla, e con lei la civiltà occidentale? I Persiani, in un territorio così remoto, si sarebbero limitati a imporre dei governi a loro favorevoli e a riscuotere il tributo, come facevano con le città greche dell’Asia Minore, i cui guerrieri, marinai e ingegneri servirono fedelmente Serse. Quello persiano era un impero florido e tollerante, capace di suscitare affetto nei più rancorosi fra i popoli sottomessi: gli Ebrei, ad esempio, prosperarono sotto i Persiani, a tal punto che nel libro di Esdra si afferma chiaramente che è stato Dio a creare l’impero persiano, e nel libro di Isaia il suo fondatore Ciro il Grande è addirittura chiamato il Messia. Perché non avrebbero potuto prosperare anche i Greci?
Richard Billows, professore alla Columbia, non ha nessuna intenzione di avallare simili fatuità postmoderne. Il suo racconto è saldamente ancorato al presupposto che Maratona fu davvero una battaglia decisiva: se Milziade fosse stato battuto, la storia del mondo sarebbe stata un’altra, e noi non saremmo qui. E può darsi che sia proprio necessaria questa fede per affrontare ancora una volta il racconto di una battaglia su cui abbiamo un’unica fonte coeva, Erodoto. Come sempre, quando si racconta una battaglia antica le cui fonti sono già state passate al setaccio, c’è poco di nuovo da scrivere, e il libro si regge o cade sulla bravura narrativa dell’autore, e sulla sua capacità di immedesimarsi nell’esperienza vissuta dei protagonisti. Da questo punto di vista le pagine in cui Billows racconta il conflitto si leggono con grande piacere e profitto. Bisogna però avvertire che si tratta al massimo d’una cinquantina di pagine, perchè, con tutta la buona volontà, non è possibile tirarla più in lungo. La maggior parte del libro assomiglia piuttosto a un breve corso di storia greca e, in minor misura, persiana, fino al 490: alla fine, si rimane con la sensazione che sarebbe forse stata più istruttiva la versione postmoderna.

Repubblica 9.2.13
Il Quaderno di Gramsci? E’ solo voglia di scoo
Joseph Buttigieg interviene sulla polemica del taccuino scomparso del filosofo
di Simonetta Fiori


«Il taccuino segreto di Gramsci? Tutta questa faccenda mi lascia sconcertato». Dal suo dipartimento vicino a Chicago, dove insegna Letteratura comparata, Joseph Buttigieg interviene nella polemica sul pensatore sardo. Curatore dell’edizione critica dei Quaderni
per la Columbia University Press, lo studioso americano è presidente dell’International Gramsci Society, dove confluiscono gli specialisti sparsi in tutto il mondo. «Ho appena letto L’enigma del Quaderno, il nuovo libro del linguista Franco Lo Piparo. Ma se dovessimo assecondare questa nuova ricostruzione, ci troveremmo dinanzi a un caso di schizofrenia».
Perché, professor Buttigieg?
«Secondo Lo Piparo, il taccuino scomparso sarebbe un “quaderno delle cliniche”, scritto negli anni dei ricoveri tra Formia e Roma. E conterrebbe esplosive critiche al comunismo. Lo studioso trascura un dettaglio, che non è irrilevante: fu a Formia che Gramsci pose mano alle note dei suoi Quaderni.
Così da una parte va completando la sua opera più importante, senza peraltro correggere d’una virgola una complessa costruzione concettuale che per quanto eterodossa è sempre dentro l’orizzonte comunista; e nello stesso periodo — o immediatamente dopo — comincia un nuovo quadernino, che rinnega radicalmente l’opera precedente. Non sarebbe stato più logico intervenire sulle pagine già scritte, apportandovi modifiche e aggiunte?».
E tutte quelle discrepanze nella catalogazione dei Quaderni? Salti nella numerazione, il balletto sulla cifra dei taccuini...
«Ora, dal mio ufficio dell’University of Notre Dame, mi è difficile intervenire sulle incongruenze filologiche. Posso soltanto dirle che Valentino Gerratana, curatore nel 1975 dell’edizione critica, diede una descrizione plausibile della numerazione. E in un secondo momento Francioni e Cospito ne hanno fornito un’interpretazione convincente».
Ma ora Lo Piparo li contesta.
«Lo Piparo ha fatto un lavoro ineccepibile sulle carte. Il problema nasce là dove comincia la sua interpretazione, che appare del tutto romanzesca. Un salto di numerazione non significa necessariamente l’esistenza di un quaderno mancante. E l’esistenza di un quaderno mancante non significa necessariamente che Gramsci ripudiò il comunismo ».
Ma quel che si legge sotto traccia — non solo nei libri di Lo Piparo, ma anche in quelli di Luciano Canfora e di Carmine Donzelli — è che l’Istituto Gramsci avrebbe avuto interesse a non fare luce sul taccuino segreto perché materiale scomodo per il Pci.
«In tanti anni di frequentazione dell’Istituto non ho mai avuto sentore che mi si nascondesse qualcosa. La cosa assurda è che Lo Piparo abbia pubblicato il suo saggio senza aspettare l’esito dell’inchiesta promossa dalla Fondazione Gramsci. Mi sarebbe apparso più serio attendere i risultati. Peccato che Giuseppe Vacca, presidente del Gramsci, non abbia richiesto un impegno preciso in questo senso».
Secondo Lo Piparo, sarebbe stato Piero Sraffa a sottrarre tre quaderni a Tania Schucht. E Tania si sarebbe vendicata appiccicando su altri tre quaderni le etichette dei fogli rubati.
«Sì, ho letto di questo astutissimo stratagemma. Ma sarebbe stato molto più semplice denunciare l’accaduto una volta tornata a Mosca. Possibile che non ve ne sia traccia né nelle carte né nella memoria della famiglia Schucht? Anche qui mi sembra che Lo Piparo proceda sulla base di congetture prive di riscontro. Due parole, poi, su Sraffa: fu Gramsci a chiedere il suo aiuto, non Sraffa ad offrirsi. E senza il suo nutrimento intellettuale, Gramsci probabilmente non avrebbe scritto i Quaderni. E questo sarebbe “l’agente coperto” del Comintern, il “ladro” dei taccuini?».
Ma lei che idea si è fatto di tutta questa polemica?
«Si vuole separare l’autore dei Quaderni dal marxismo e dalla tradizione comunista. Anche in un precedente saggio, Lo Piparo riconduceva il concetto di egemonia agli studi di Gramsci sulla lingua: un contributo anche serio, ma che finiva per liquidare la sua formazione marxista. E ora siamo alla fine di questo circolo ermeneutico».
Però anche tra i sostenitori di Lo Piparo c’è chi non condivide questa lettura “liberale”. A parte questo, mi sembra di cogliere un giudizio severo sul rapporto tra la cultura italiana e Gramsci.
«Negli ultimi decenni sono usciti anche libri importanti, ma nel dibattito culturale Gramsci è rimasto sullo sfondo, se non per qualche improbabile rivelazione (Gramsci suicida, Gramsci convertito...). Fino all’improvvisa effervescenza dell’ultimo periodo, fondato per lo più sul sensazionalismo. Altrove l’autore dei Quaderni continua a essere un pensatore vivo, capace di parlare al presente: l’altro giorno l’inglese Michael Gove, ministro conservatore dell’Istruzione, ha indicato Gramsci tra i suoi modelli ispiratori».
Che cosa la irrita di più della nuova polemica?
«L’impressione è che si usi un cadavere per fare degli scoop. Il successo di questo genere di pubblicazioni — mi riferisco a Lo Piparo ma anche agli altri che procedono per supposizioni non suffragate da riscontri — è dovuto a una circostanza precisa: non possono essere confermate né smentite. Io non posso dire con certezza: Gramsci non ha mai scritto il trentesimo quaderno. E dunque questi autori avranno sempre ragione. Se ci pensa, noi stiamo parlando da mezz’ora di una cosa che non esiste. Hanno vinto loro».

Corriere 9.2.13
Lo strano rito dei Luperci. Il «San Valentino» dei romani
di Eva Cantarella


A Roma, ogni anno, il 15 febbraio, si celebrava un rito antichissimo, ai nostri occhi assolutamente incomprensibile. Quel giorno infatti i Luperci (membri di un gruppo le cui «selvagge riunioni — scrive Cicerone — erano state istituite prima della libertà e delle leggi») uscivano nelle strade nudi, coperti solamente da un perizoma e armati di una frusta, e inseguivano e fustigavano i passanti. Ma, come scrive Plutarco non tutti cercavano di ripararsi dai colpi: le donne adulte, al contrario, facevano di tutto per essere colpite. Strano rito, in verità. Che diventa peraltro comprensibile se si ripensa a un'antichissima credenza: fustigare era uno di modi per praticare la magia su persone e cose. In questo caso, a scopo demografico. Tra gli effetti favorevoli della fustigazione, infatti, stava la capacità di favorire la fecondità. Ecco perché le donne romane, il 15 febbraio, aspettavano con ansia che i Luperci uscissero, con le loro fruste: la sterilità, per loro, era la massima delle sventure, il segno di un totale, irrimediabile e imperdonabile fallimento. La frusta, invece, era una speranza di felicità. La loro assicurazione contro il rischio di venir meno al compito cui erano destinate.

venerdì 8 febbraio 2013

l’Unità 8.2.13
L’incontro
Progressisti europei: il manifesto di Torino
Il tema è come modificare la governance nel senso dell’integrazione solidale e della democrazia
Ecco il Manifesto dei progressisti che sarà adottato a Torino: dopo la battaglia per la crescita, quella per l’integrazione
«Inseparabili Europa sociale e democrazia»
di Paolo Soldini

UNA UNIONE DELLA DEMOCRAZIA BASATA SU UNA SOVRANITÀ CONDIVISA: condizione essenziale per affrontare la crisi e per restituire potere ai cittadini e fiducia nel progetto europeo. Una Unione di progresso e prosperità per tutti, con un forte mandato da parte dei cittadini europei». Il proposito è, nello stesso modo, molto ambizioso e molto chiaro: la difesa del carattere sociale dell’Europa e sviluppo della democrazia nel suo assetto politico-istituzionale sono inseparabili, coincidono.
Debbono coincidere.

La dichiarazione comune che oggi sarà discussa dai rappresentanti delle fondazioni vicine ai partiti socialisti e democratici d’Europa e domani presentata pubblicamente a Torino parte da un punto fermo: è arrivato il momento di porre sul tappeto la ripresa del cammino verso l’integrazione dell’Unione europea. L’anno scorso, con il Manifesto di Parigi («Renaissance for Europe») le forze progressiste del continente si erano concentrate sulla necessità di andare oltre le politiche di austerity, ponendo l’esigenza «di un nuovo e più equilibrato corso» basato su «stabilità, crescita e solidarietà». A Torino faranno un passo avanti: un salto nella politica, per così dire, nella convinzione che senza un progresso dell’integrazione, l’Europa rischia non solo una recessione generalizzata, ma una carenza di democrazia che ne distrugge da dentro la stabilità e la credibilità presso i cittadini. Alla lunga l’esistenza.
LA DEBOLEZZA DELL’EURO
Il paradigma di questo corso autodistruttivo è proprio la crisi dell’euro, la debolezza strutturale del governo della moneta unica. L’introduzione dell’euro non «è stata seguita ricorda il documento di Torino dal completamento di una vera unione economica» ed è per questo che quel che doveva essere il simbolo principe del livello di integrazione dell’Unione non è mai diventato sinonimo di sicurezza, stabilità e controllo democratico. È finito per essere un problema, non una risorsa. Il fatto di non poggiare su una definita base istituzionale «si è riflesso sostengono gli autori del documento in un compromesso tra l’intergovernativismo delle risorse da un lato, e il metodo comunitario delle regole dall’altro». Insomma: si negoziano tra i governi gli impegni finanziari degli stati e poi si delegano alle autorità di Bruxelles e di Francoforte le rigide regole che debbono tenere in piedi il compromesso. Il risultato è quello che abbiamo sotto gli occhi: «Un circolo vizioso di recessione e peggioramento dei conti pubblici, le cui conseguenze economiche e soprattutto sociali sono devastanti». Il fatto che le decisioni vengano prese solo tra i governi ha prodotto «un deficit democratico delle politiche europee» che è arrivato fino agli Stati membri, «erodendo il consenso pubblico non solo nei confronti del progetto europeo, ma anche delle stesse democrazie nazionali». Il metodo intergovernativo basato su continue trattative «non fa che minare ulteriormente la solidarietà europea, incentivando un modello di governance fondato sugli equilibri di potere e una gerarchia basata sulla ricchezza». Questo porta le democrazie nazionali in rotta di collisione l’una con l’altra, «divise tra chi sente di pagare portando il peso delle altre e quante, invece, si sentono governate dalle prime».
Come modificare la governance nel senso dell’integrazione solidale e della democrazia? Gli autori della dichiarazione di Torino propongono una serie di indicazioni. Intanto occorre «un’attuazione equilibrata» del Patto di stabilità e crescita che accompagni alla riduzione dei debiti e dei debiti «la responsabilità fiscale con la crescita e l’occupazione, salvaguardando gli investimenti e i servizi pubblici» e «un coordinamento più forte e più equilibrato delle politiche economiche». In questa ottica è necessario arrivare a «una Unione bancaria completa, a una Banca centrale europea attiva nella promozione della stabilità finanziaria» ma anche a «una effettiva regolamentazione dei mercati, che incentivi gli investimenti a lungo termine e scoraggi la speculazione». Ma soprattutto «le politiche economiche debbono essere accompagnate da un robusto sistema di politiche sociali responsabili, che divengano obiettivi vincolanti». Occorre «un nuovo patto sociale» che si fondi sull’ autonomia dei partner sociali il cui loro ruolo dev’essere salvaguardato e rafforzato. Questa «Europa sociale» deve contare su «un bilancio dell’Unione adeguato, fondato su risorse proprie, per promuovere la crescita e la competitività, per affrontare gli squilibri ciclici e quelli strutturali e sostenere la coesione sociale e territoriale». L’Unione deve avere inoltre «la capacità di emettere eurobond, per dare fondamenta più solide alla solidarietà finanziaria e facilitare il riscatto del debito».
È evidente che questo modello non può fondarsi sul metodo intergovernativo, ma deve far leva sulle istituzioni europee e sul «metodo comunitario, con una Commissione europea forte da un lato, che agisca come un vero e proprio governo, e una piena codecisione tra il Consiglio e il Parlamento europeo dall’altro». Per ottenere questi obiettivi è necessaria una revisione dei Trattati Ue. Nella dichiarazione si chiede perciò che nella legislatura che comincerà con le elezioni europee dell’anno prossimo si convochi una Convenzione che avvii «una nuova fase deliberativa sul futuro dell’Europa». Un obiettivo che «deve essere preparato facendo un pronto e pieno ricorso agli strumenti previsti dai Trattati esistenti e con un ampio dibattito pubblico che coinvolga la società civile, le parti sociali, i partiti politici, il Parlamento europeo e i parlamenti nazionali». Le fondazioni di ispirazione progressista si impegnano a «promuovere tale dibattito, fornendo il proprio contributo e le proprie proposte per una vera Unione economica e monetaria in un’Unione democratica». Raccomandano ai partiti della sinistra di concepire le elezioni legislative nazionali «come parte integrante del processo politico europeo» e di non considerare le elezioni europee come test di metà mandato per i partiti nazionali nei paesi membri, «bensì come il momento in cui il cittadino europeo sceglie la direzione per l’Europa, offrendo un mandato democratico al Parlamento e al governo europeo».
Coerentemente, aggiunge il documento, il Pse ha già deciso di indicare, prima delle elezioni, il proprio candidato di punta per il ruolo di presidente della Commissione Ue e invita tutti i partiti europei a fare lo stesso. Le fondazioni propongono, insomma, una «europeizzazione» delle politiche nazionali. Ma non solo. Le iniziative debbono coinvolgere la società civile in campagne su base transnazionale: «Gli scioperi e le lotte sociali devono essere condotti al livello europeo, controbilanciando con il ruolo dei cittadini e dei lavoratori il crescente peso delle lobby e degli interessi costituiti nelle decisioni dell’Unione». E «la forza portante del processo di costruzione di una vera società europea» debbono essere i giovani, tra i quali va favorita «la circolazione orizzontale delle buone pratiche e delle esperienze nazionali, rafforzando lo spirito europeo e la famiglia progressista».

l’Unità 8.2.13
D’Alema oggi apre la due giorni di Torino
Al meeting i leader socialisti e progressisti d’Europa
Domani il video-messaggio di Hollande
di Giuseppe Vittori


«A common progressive european vision». È il titolo della due giorni, in programma oggi e domani a Torino, che sarà conclusa da un video messaggio di François Hollande e dall’intervento di Pier Luigi Bersani. Dopo il successo dell’evento di Parigi, presso il Teatro Regio si tiene il secondo appuntamento di Renaissance for Europe, un’iniziativa organizzata da Italianieuropei, Feps e Fondation Jean Jaurès, volta a sollecitare il dibattito europeo sullo stato dell’Unione e a coinvolgere cittadini, società civile e i partiti politici progressisti europei nella definizione di un progetto comune per il rilancio del processo di integrazione. Il tema al centro dell’iniziativa di Torino sarà l’Europa politica. Con l’obiettivo di accompagnare il momento elettorale con uno sforzo di programma e proposta sui temi europei. Dopo l’appuntamento di Parigi, durante le presidenziali di Francia, la Conferenza di Torino sarà dedicata ai temi dell’unione politica e della questione della democrazia in Europa. Ultima tappa del percorso sarà a Lipsia in maggio.
La due giorni progressista sarà aperta oggi alle 11 dalla relazione di Massimo D’Alema, presidente della Feps e della Fondazione Italianieuropei. Seguiranno gli interventi di Stefano Rodotà, Luciano Bardi, Mercedes Bresso, Olaf Cramme, Diego Lopez Garrido, Kurt Richard, Elena Paciotti, Cesare Pinelli, Miguel Poiares Maduro, Steven van Hecke, Pim Paulusma. Nel pomeriggio il dibattito si incentrerà sul tema dello sviluppo della democrazia, con i contributi fra gli altri di Remi Bazillier, Flavio Brugnoli, Sergio Fabbrini, Stefano Fassina, Gilles Finchelstein, Andre Gerrits, Paolo Guerrieri. La conclusione della sessione è affidata a Giuliano Amato. Intervengono inoltre Anna Colombo, Roberto Gualtieri, Elisabeth Guigou, Zita Gurmai, Ernst Hillebrand, Marije Laffeber, Anna Maria Kellner, Friedrich Erbert Stiftung, Raffaello Matarazzo, Henri Nallet, Jean-Jaures, Lapo Pistelli.
Domani dopo i saluti di Piero Fassino, sindaco di Torino, e l’intervento di Massimo D’Alema, i contributi di Hannes Swoboda, presidente del gruppo S&D al Parlamento europeo, Sergei Stanishev, presidente del Pse, Martin Schulz, presidente del Parlamento europeo. La sessione dedicata ai leader di partito vedrà gli interventi di Zita Gurmai, membro del Parlamento europeo e presidente del Ps Donne, Alfredo Pérez Rubalcaba, segretario generale del Psoe, Harlem Désir, leader del Ps francese. A seguire gli interventi di Gerhard Schröder, ex cancelliere, Bernard Cazeneuve, ministro per gli Affari Europei, Francia, Zoran Milanovic’, primo ministro della Croazia, Victor Ponta, primo ministro della Romania, Elio di Rupo, primo ministro del Belgio. Alle 12 il videomessaggio di François Hollande, presidente della Repubblica francese e l’intervento conclusivo di Pier Luigi Bersani.

La Stampa 8.2.13
D’Alema in videochat: inviategli le domande

Venerdì 8 febbraio Massimo D’Alema sarà ospite della redazione de LaStampa.it. Inviate le vostre domande per l’ex premier nei commenti qui

l’Unità 8.2.13
Oggi si vota, domani si governerà
risponde Luigi Cancrini


Quando sembrava che tutti nel Pd preso a schiaffi avessero finalmente capito chi è Monti e cosa rappresenta, Bersani si dichiara di nuovo disponibile ad una alleanza postelettorale col Professore della Plutocrazia. Per contrastare la destra populista di Berlusconi e Lega.
di Claudio Benedettini

Bersani non ha cambiato idea su questo punto. Da quando è iniziata la campagna elettorale ha detto con chiarezza, riprendendo l'espressione utilizzata da Enrico Berlinguer nel 1974, che l'Italia non si governa da soli neanche se si ha il 51% dei voti o dei parlamentari. È una concezione primitiva della politica quella di chi, come Berlusconi in questi anni, pensa che una volta eletti semplicemente si comanda, da padroni, considerando un’offesa, un intralcio o un ostacolo al suo «diritto di decidere» il dispiegarsi libero delle idee degli altri. Colui che governa, con una visione matura della politica, sa portare a sintesi le opinioni diverse che nascono da sensibilità, da storie e da culture diverse: ascolta e ragiona, non impone le sue posizioni dall'alto (o dal basso) di un sentimento infondato di superiorità (o di inferiorità). È soprattutto per questo motivo che Berlusconi non deve governare più, per la sua organica incapacità di collaborare con gli altri rendendosi conto del fatto che il pensiero degli altri esiste e potrebbe arricchire il suo. Non c’è nessun motivo serio, davvero, per continuare a fare polemiche confondendo la fase elettorale in cui ogni forza politica espone le sue idee con quella di governo in cui chi ne avrà la responsabilità dovrà discutere. Mediare. Ragionare. Cercare pazientemente le soluzioni migliori per il Paese. Non per se stesso o per un gruppo di interessi consolidati.

Repubblica 8.2.13
Bersani: “Nessun inciucio vinco io, non si torna al voto”
Monti: ridurre Irpef e Irap
Il segretario sfida Grillo, comizio al Tuscolano
di Goffredo De Marchis


ROMA — Pierluigi Bersani prepara altre “proposte choc” e per il momento incassa il plauso di Confindustria al progetto di pagamento dei crediti dello Stato alle imprese: 50 miliardi in 5 anni. «È sicuramente una misura positiva che va nella nostra direzione », commenta il direttore generale dell’associazione degli imprenditori, Marcella Panucci. Ma la campagna elettorale s’incrocia con gli scenari del dopo voto. E il segretario del Pd conferma la linea di un’alleanza con Mario Monti. «L’ipotesi dello stallo, della palude è ormai alle spalle. Dobbiamo escludere un nuovo ricorso alle urne nel caso manchi una maggioranza. Un Paese serio non torna al voto ogni giorno. Sono sicuro che gli italiani prenderanno una chiara direzione di marcia».
Bersani è anche convinto di tenere insieme la stabilità della sua coalizione con Nichi Vendola e l’apertura al centro: «Non possiamo essere faziosi, ma con Sel abbiamo una parola sola». Persino Stefano Fassina, il responsabile economico del Pd che ha sempre contrastato le politiche del governo tecnico, apre all’alleanza con i montiani: «Dico no solo alla grande coalizione. Si torna a votare se Monti e Bersani non hanno la maggioranza al Senato». Conferma Bersani: «Gli italiani sono arrabbiati, non si può chiedere loro di sostenere una grande coalizione. Basta inciuci». Anna Finocchiaro non teme problemi dall’intesa con Vendola: «È possibile una composizione tra Nichi e Monti». D’Alema però, in un’intervista al Messaggero, insiste: «Attenti a Pdl e Lega. Se prendono il premio di maggioranza è il disastro».
Al convegno “Le parole della politica”, il segretario del Pd conferma il piano delle piccole opere finanziate con il recupero dell’evasione e i fondi strutturali. Ripete: «Mai più condoni. Basta che arrivi un ministro delle Finanze con questo slogan e si recuperano alcuni miliardi». Scelta civica ha il suo progetto sulle tasse: taglio dell'Irpef, a partire dai redditi medio-bassi, per un totale a fine legislatura di 15 miliardi e un dimezzamento del peso Irap sul settore privato entro il 2017, pari a un gettito inferiore di circa 11,2 miliardi. È il piano economico dei montiani. Solo promesse? Bersani preferisce concentrarsi su quelle «fantascientifice» di Berlusconi: «Quattro milioni di posti di lavoro? Aspettiamo ancora il milione promesso anni fa. Questo è un insulto ai cittadini». E attacca: «Non dico che quelle del Cavaliere sono stronzate perché non uso certe parole. Ma la sostanza è quella. Lui è forte a fare cabaret, l’Italia però ha davanti questioni serie».
Il programma bersaniano prevede dismissioni pubbliche «senza vendere il Colosseo», un aggiustamento della riforma Fornero sul lavoro ma non toccando l’articolo 18. «Con Vendola non avremo problemi. Decideremo a maggioranza. Comunque io ho vinto le primarie e dirigo il traffico». Oggi, in Piemonte, verrà annunciato il piano per il lavoro
del Pd, il punto chiave della campagna di centrosinistra. Se n’è parlato anche ieri quando al convegno è intervenuta Chiara Di Domenico, precaria 37enne. Un discorso accorato sulla condizione dei precari, condito dalla denuncia di un caso di nepotismo, quello della figlia di Ichino, Giulia, assunta in Mondadori. Il contraltare della storia della donna romana morta alla fermata del bus per la fatica di troppi lavori. Bersani, alla fine, ha abbracciato Chiara. E ha annunciato che il comizio finale non lo terrà in una piazza del Centro di Roma, ma al Tuscolano, in periferia.

Repubblica 8.2.13
Ma scatta l’allarme di Pd e premier “Così rischiamo davvero il pareggio”
Il Professore al leader: mi lasci solo contro Berlusconi
di Francesco Bei


ROMA — A mettere l’orecchio a terra stavolta è Mario Monti e quello che sente arrivare non gli piace per niente. Il Cavaliere è al galoppo, la distanza con il centrosinistra si riduce. «Ho l’impressione — ha confidato il premier — che qua la carretta la stiamo tirando soltanto noi. Bersani mi lascia solo a combattere?» Stavolta non è soltanto propaganda, gli istituti demoscopici segnalano un movimento verso l’alto del Pdl e, parallelamente, uno verso il basso del Pd e di Sel. Le traiettorie si avvicinano, pericolosamente. Tanto che la differenza ormai potrebbe rientrare nell’errore statistico e consegnare un risultato di sostanziale pareggio. Anche Scelta Civica subisce l’erosione da parte della coalizione Pdl-Lega. Per questo i montiani sono in allarme e iniziano
a imputare al Pd di non fare abbastanza. «Bersani — è l’accusa che si raccoglie nel quartier generale montiano — sta sbagliando tutto. Pensa di dover amministrare un vantaggio, ma non si accorge che questo vantaggio diventa sempre più esiguo. E dall’altra parte c’è un Berlusconi scatenato». Insomma, il Pd deve fare di più, trovare le parole giuste, impegnarsi. Perché, come avverte Lorenzo Cesa, il Cavaliere resta «un vecchio prestigiatore », capace di far dimenticare i danni prodotti nel passato e costruire una nuova narrazione intorno a sé. Monti sta già dando il massimo, si lamentano i suoi, «ma in un mese non si può inventare un partito da zero». Il fatto è che, a parte le apparizioni in televisione del premier e l’uso dinamico dei social network, Scelta Civica sul territorio quasi non esiste: «Non abbiamo sedi, non abbiamo fondi, né il finanziamento pubblico come gli altri partiti». I singoli candidati, per affittare un locale o stampare i manifesti, sono costretti a fare di tasca propria.
Da qualche giorno la paura di un risultato negativo corre lungo la schiena anche dei massimi dirigenti del Pd. Persino un antimontiano viscerale come Stefano Fassina ieri, per la prima volta, ha ammesso la possibilità di un governo Pd-Sel-Scelta Civica come antidoto a un ritorno alle urne. Il primo a lanciare l’allarme è stato Massimo D’Alema, preoccupato per i sondaggi. Da qualche giorno prova a sferzare il partito, invitando tutto il Pd a non lasciare «troppo solo» Bersani, come se la vittoria fosse scontata. Ma così non è. E i dubbi non stanno assalendo solo D’Alema. Così, se fino a qualche giorno fa lo scenario più nero contemplato al Nazareno era appunto quello di un pareggio al Senato, ora persino il premio di maggioranza alla Camera è diventato un traguardo non così scontato. Eppure, nonostante tutto, il segretario è ancora convinto di non dover cambiare strada. Pazienza se Berlusconi promette 4 milioni di posti di lavoro, «alla demagogia non si risponde con altra demagogia, i problemi sono troppo seri», ripete  Bersani.
A dividere la segretaria democratica da Monti non è solo il livello di allarme su una possibile vittoria di Berlusconi e le strategie necessarie per contrastarla. Anche sul dopo voto le valutazioni divergono. Perché se Bersani, come ha ripetuto anche ieri, esclude «nel modo più assoluto un governo di unità nazionale», dentro Scelta Civica si sta facendo strada una consapevolezza diversa. «Se continuiamo di questo passo — osserva rassegnato un montiano di prima linea — una grande coalizione sarà l’unico scenario praticabile ». Ma ipotizzare oggi una maggioranza che abbracci Berlusconi, Monti e Bersani trova nel Pd uno sbarramento assoluto. In caso di stallo l’unica via d’uscita, per come la vedono i democratici, sarebbe un governo lampo che faccia la legge elettorale e riporti il paese alla urne.
Intanto per i montiani, con l’ascesa nei sondaggi del Cavaliere, si apre anche un concretissimo problema di sopravvivenza. Stando ad Alessandra Ghisleri, la coalizione del Professore sarebbe oggi tra il 10,9 e 13,7 per cento. Prendendo la cifra più bassa, sarebbe drammaticamente vicina la soglia del 10% imposta dal Porcellum per le coalizioni alla Camera. Nel senso che se la somma dei partiti coalizzati non supera il 10 per cento, per ciascuna lista scatta una soglia di sbarramento al 4 per cento (anziché al due). A quel punto non solo i finiani non avrebbero nemmeno un deputato, ma con gli attuali sondaggi rischierebbe grosso anche l’Udc. Per questo il pressing sul Pd dei montiani si sta facendo più forte: «Si mettano anche loro a tirare la carretta».

Repubblica 8.2.13
D’Alimonte: “Scelta civica non può chiedere di mollare Sel”


ROMA — Roberto D’Alimonte, professore di Sistema politico italiano, pensa che Monti su Nichi Vendola stia sbagliando.
Qual è l’errore?
«Trovo sconveniente che si faccia tanta confusione. Quando Monti chiede a Bersani di scegliere “o me o Vendola”, dice una cosa che non è fattibile. Oggi c’è una coalizione certificata con un atto legale, si chiama Pd-Sel».
In campagna elettorale si marcano le differenze.
«Ma così gli elettori non capiscono nulla. Monti lancia un messaggio diseducativo, ambiguo. Giuridicamente, prima del voto la coalizione non si può cambiare. E nella sostanza, anche dopo il voto, Bersani non può dire al partito con cui ha raccolto consensi (e se sarà, il premio di maggioranza): fatti da parte».
Potrebbe essere necessaria una coalizione più ampia.
«A maggior ragione, che senso ha dire un no pregiudiziale? È chiaro che Monti sa che ci sono dei suoi elettori spaventati da Vendola, ma non può dire mai. È un errore. Un inganno».
(a.cuz.)

il Fatto 8.2.13
Ammissioni
Fassina e il ritorno alle urne

Nel caso di ingovernabilità, si cambia la legge elettorale e si torna al voto”. Lo scenario o “l’incubo” che in molti nel Pd vanno prefigurando più o meno a voce alta, da quando il calo nei sondaggi dei Democratici, è diventato un trend costante prende forma nelle parole di Stefano Fassina ieri mattina a Omnibus su La7. Non è la prima volta che il responsabile Economia del partito a un certo punto rompe lo schema comune e butta lì sul tavolo la variabile che nessuno può sottoscrivere in maniera troppo ufficiale. Argomenta Fassina: “Gli elettori sono più saggi di quanto i sondaggi evidenzino, per cui questo scenario non ci sarà, anche se per la prima volta ci sono quattro polarità con soggetti che non sono mai stati in campo”. E mentre nega afferma: quanto sono davvero affidabili le rilevazioni? “Noi auspichiiamo di fare un governo senza Monti, non con Monti”. Comunque, è tutta questione di pesi: se il Professore sarà determinante, come sembra, quali condizioni porrà e quanto sarà disposto a cedere il Pd? Certo, dipende da quanti voti prende. E poi, se Vendola si mette di punta? Così nel balletto delle ipotesi per lui entrano ed escono ruoli: ministero dell’Economia? È troppo. E allora, presidente del Senato? Ruba il posto a Casini. Dunque, chissà, forse in fondo va bene il Colle (ma come non se l’era giocato con la salita in politica?). Rivotare potrebbe essere una soluzione. Bersani però ci mette sì e no un’ora a riprendere Fassina: “Un Paese serio non può continuare a inseguire le elezioni”. E anche lo stesso “giovane turco” precisa se stesso in un Tweet: “Si torni a votare, è stata risposta a ipotesi ingovernabilità se manca maggioranza al senato del csx + monti”. Quello è l’orizzonte ufficiale, l’unico realistico, piaccia o no. Ma a molti non piace. E così lo stesso responsabile Economia, non a caso ala sinistra del partito, sembra per un giorno tornato ai tempi del governo Monti, quando il suo partito sosteneva il Professore e lui lo attaccava, provocando spaccature insanabili (ma poi prontamente sanate) nel suo stesso partito. Ecco che nel pomeriggio torna all’attacco : “Bersani ha parlato di polvere messa sotto il tappeto. Ovvero spese non affrontate dal governo Monti che ricadranno sul prossimo esecutivo: si stimano 6-7 miliardi di euro e mi riferisco a partite importanti che non sono state coperte e che verranno coperte da chi arriva dopo”. E il segretario in serata, nel tentativo di far diventar tondo ciò che è quadrato, si lancia in un’argomentazione delle sue: “Fassina la pensa come me: nell’ipotesi fantasiosa che Berlusconi prende il Senato con la Lega, non mi si chieda l’accordo con il Cavaliere”. E deve pure dirlo? L’asticella si sposta ancora un po’. E l’incubo prende sempre più forma. Per dirla con Massimo D’Alema: “Se prende corpo uno scenario in cui il voto si disperde nei vari rivoli della protesta, ci ritroveremmo Berlusconi e la Lega che con il 28% dei voti si accaparrano il premio di maggioranza. Sarebbe il crollo del Paese”.

Repubblica 8.2.13
Il nuovo “Micromega” tutto sulle elezioni
“Un salto nel voto”, numero dedicato all’appuntamento del 24 febbraio


Che cosa voteranno, alle prossime elezioni, i protagonisti delle principali battaglie degli ultimi anni? Da Pomigliano all'Ilva, dall'Alcoa alla Carbosulcis, passando per l'Omsa di Faenza e i precari della scuola: come sarà dislocato il voto “operaio”? Un salto nel voto è il titolo del nuovo numero di MicroMega dedicato alle elezioni del 24 e 25 febbraio. Il prossimo appuntamento con le urne viene analizzato da prospettive differenti, che intercettano i nodi centrali del dibattito pubblico. Il tema della giustizia è analizzato da Paolo Flores d'Arcais e Pietro Grasso, indicato da più parti come futuro titolare del ministero di via Arenula, mentre sulle sfide dell’economia è incentrato il dialogo New Deal cerca partito tra il neocandidato Carlo Galli e Marco Revelli, entrambi storici delle dottrine politiche impegnati politicamente anche al di fuori dell’accademia. E se la questione del voto utile impegna due giornalisti di diversa formazione come Gad Lerner e Sandro Ruotolo, la ricerca dell’equità perduta è al centro del confronto tra Flores d’Arcais e Fabrizio Barca, il quale invoca un «passaggio epocale », quello «dai bisogni alle conoscenze », e propone una sua idea di partito come grande «miscelatore di conoscenze». Alle dichiarazioni di voto “operaie” si affiancano, com'è ormai tradizione nei numeri pre-elettorali di MicroMega, quelle di alcune delle più significative personalità della società civile, del giornalismo, del mondo della cultura e dello spettacolo, da Corrado Augias a Beppino Englaro, da Roberto Esposito a Carlo Freccero, da Moni Ovadia a don Giovanni Franzoni. E non mancheranno le sorprese.
Una corposa sezione del nuovo numero si occupa dell'analisi dettagliata dei programmi elettorali, annunciati dalle principali forze politiche di centro e di sinistra. Con particolare attenzione all’economia (interventi di Vladimiro Giacché, Sergio Cesaratto e Marco Passarella) e ai nuovi diritti (Pietro Adamo e Giulio Giorello). Infine, ai colpi di coda del berlusconismo e ai suoi persistenti e rinnovati legami con le frange più impresentabili dell'estrema destra di matrice neofascista, è dedicato il saggio di Guido Caldiron e Giacomo Russo Spena (L'ultima raffica del Berlusconi lepenista). Chiude il volume lo “scherzo” di Alessandro Robecchi, con le istruzioni per vincere al “Gioco dell'urna”, il passatempo per spezzare le lunghe serate invernali che ancora ci separano dal voto.

Corriere 8.2.13
Pd, scatta l'allarme Grillo E il partito «chiama» Renzi
La tentazione di Bertinotti: una mossa pro Ingroia
di Maria Teresa Meli


ROMA — C'è un dato che preoccupa i vertici del Partito democratico ben più della presunta rimonta di Berlusconi. E' il fenomeno Grillo a cui i sondaggi riservati di largo del Nazareno attribuiscono percentuali che oscillano tra il 20 e il 21. Certo, Antonio Ingroia può rosicchiare voti a Sel, ma sia il suo movimento che quello di Vendola sono sotto il 4 per cento. E' l'esplosione dell'antipolitica che inquieta Pier Luigi Bersani. E non solo lui, se Ugo Sposetti, acerrimo nemico di Matteo Renzi di cui ha detto peste e corna in campagna elettorale, ospite della "Zanzara", esorta il sindaco di Firenze a girare in camper per fare propaganda a favore del segretario.
Già, perché come diceva Rosy Bindi per criticare il primo cittadino del capoluogo toscano: «Grillo è il greggio, Renzi è la benzina: non è che dicano cose diverse». Esagerazioni frutto dell'antipatia, ma non sfugge a nessuno nel Pd che il sindaco di Firenze (che in questa campagna girerà dieci regioni) può drenare voti da quella parte. Del resto era ed è il suo obiettivo: «Bisogna recuperare voti tra i grillini», è il leit motiv di Renzi. Che, in tempi non sospetti aveva avvertito il Pd: «Se vogliamo fermare Grillo dobbiamo fare una battaglia più incisiva contro la casta».
Ed è proprio il timore dell'ingovernabilità e dell'arrivo in Parlamento dell'anti-politica che spinge Bersani a ribadire le aperture al dialogo con Monti: «Non governerò mai secondo una logica frontista». La certezza della vittoria piena non c'è, per questa ragione il Pd deve fare i conti con una possibile alleanza di governo con i centristi, alleanza che invece viene esclusa nel caso di successo sia alla Camera che al Senato.
Anche di fronte a una vittoria a metà, Bersani vuole comunque tenere lui in mano le redini del governo: «La guida del Paese tocca al partito che arriva primo. Anche in
Germania quando hanno fatto la grande coalizione hanno seguito questa strada». In parole povere: i centristi non credano di poter porre veti su palazzo Chigi. Su questo punto a largo del Nazareno sono determinati. Però qualcosa dovranno necessariamente cedere. Un esempio? Il Pd vorrebbe cavarsela dando a Monti la presidenza del Senato. Ma dagli ambienti vicini al presidente del Consiglio si ribatte con un'altra richiesta: quella del ministero degli Esteri. Un dicastero che, come è noto, Massimo D'Alema vorrebbe per sé.
All'idea dell'ingresso di Monti nell'esecutivo a guida Bersani Stefano Fassina storce naso e bocca: «E' chiaro che il premier è sceso in politica solo per non far vincere il centrosinistra e per poterlo condizionare al governo». E comunque c'è il problema Vendola. Quest'estate il "governatore" della Puglia nel corso di un colloquio riservato con il segretario del Pd non aveva chiuso le porte ai centristi: «Io non pongo veti, così come non intendo accettarne». Ma l'ipotesi di cui si parlava all'epoca era quella della collaborazione sulle riforme, non quella di un'alleanza di governo. Con un pareggio al Senato la prospettiva può cambiare e non è detto che Sel sia in grado di reggere l'urto dell'eventuale novità. Tanto più dopo la "botta" di Fausto Bertinotti, che è pronto all'endorsement a favore di Antonio Ingroia.

La Stampa 8.2.13
Roberto Weber
“Molta concorrenza a destra Il recupero del Pdl si sfrangia”
di Francesco Grignetti


Swg Roberto Weber è il presidente di Swg, società specializzata nell’analisi delle tendenze di mercato e delle dinamiche politico-elettorali

Roberto Weber, della Swg, è alle prese con l’ultimo dei sondaggi pubblicabili dai giornali; emerge che Monti è debole al Senato, ma probabilmente determinante. Alla Camera irrompono anche Grillo e forse Ingroia mettendo in crisi il bipolarismo. E allora, Weber, che dobbiamo pensare? Che i giochi sono fatti?
«Sostanzialmente, sì. I trend sono questi. C’è un Grillo in ascesa regolare: da quattro settimane cresce di 1-1,5%. Il trend continuerà e si fermerà forse attorno al 18-19%. C’è un piccolo trend di ascesa del Fli: Fini rosicchia anche lui qualcosa settimana dopo settimana. Secondo me agguanta il 2%. Monti ha cominciato altalenante e così prosegue: una volta è al 13, poi al 14, poi al 15, poi ricomincia dal 13. Questo è il suo bacino. Sostanzialmente stabile è anche il Pd. Ha avuto la sua piccola flessione, ma è rientrata. La coalizione è stabile da 4 settimane e tale resterà. Lo stesso dicasi per la coalizione di centrodestra. Sì, mi aspetto che le distanze di oggi vengano confermate anche il giorno dopo il voto».
D’accordo, tutto sembra stabile. Sono da escludere, secondo lei, accelerazioni o frenate brusche legate al finale di campagna elettorale?
«Le sorprese possono venire da quelle formazioni che stanno attorno al 4%. È chiaro che se Ingroia entra o non entra in Parlamento, conta. Per il momento sembra avere raggiunto la soglia di salvezza del 4%. Ma nutro qualche dubbio al riguardo. Sono andato a vedere i sondaggi del 2008: quella volta abbiamo sbagliato tutti, noi di Swg e tutti i colleghi, sovrastimando la sinistra radicale dell’Arcobaleno. Comincio a pensare che sia sovrastimata nei sondaggi anche la Lista Ingroia».
Intende dire che probabilmente l’elettore di estrema sinistra è fiero della sua scelta e non vede l’ora di dichiararsi?
«Qualcosa del genere. Così come nei sondaggi è più difficile da sempre misurare l’elettore di destra, perché più schivo. È per questo motivo, all’opposto di Ingroia, che io penso sia un po’ sottostimato Oscar Giannino. Potrebbe essere lui la sorpresa di queste elezioni. Intendiamoci, un 2% di voti per una lista neonata e senza esposizione mediatica è già uno straordinario successo. Ogni punto in percentuale significa 350-400 mila voti. E quindi se Giannino incassasse 800 mila voti non si può parlare di successo?»
Certo. Tanto più se quei voti fossero concentrati al Nord, come si dice. Magari tutti o quasi in Lombardia. Ma con gli indecisi come la mettiamo? Non è che cambieranno le percentuali all’improvviso?
«Premesso che finora l’offerta di centrodestra è stata fagocitata dal ritorno di Berlusconi, queste elezioni si stanno rivelando molto diverse da quelle del 2006 e 2008. In quelle due occasioni, il voto si polarizzò spontaneamente. Questa volta accade che agli indecisi viene offerta una gamma di scelta. Per gli indecisi di destra, che progressivamente escono dall’indecisione, gli si propongono Berlusconi, ma anche Grillo e Giannino. E così il recupero a destra si sfrangia».
Si dice che Berlusconi sia furibondo perché la concorrenza di Giannino potrebbe soffiargli voti preziosi in Lombardia.
«Dalla Lombardia mi aspetto sorprese. Vedo i primi segnali di voto utile. Diciamo che gli italiani, nella loro duttilità, e profonda saggezza politica, in Lombardia più che altrove stanno valutando il voto disgiunto. Mi aspetto che molti votino per Monti alla Camera e per Bersani al Senato».

La Stampa 8.2.13
Nicola Piepoli
“Negli ultimi quindici giorni non cambierà più nulla”


Istituto Piepoli Nicola Piepoli, 77 anni, guida l’omonimo istituto di sondaggi ed è professore associato di Statistica a Padova

Nicola Piepoli, non le chiederemo previsioni degne di chi ha la palla di vetro, lei però sta analizzando i trend dell’elettorato. Che cosa si aspetta nei prossimi quindici giorni?
«Noi sondaggisti lavoriamo sulle probabilità, non sui fatti. E che cosa mi dice la legge delle probabilità? Che il centrodestra è piuttosto stabile, attorno al 32%. Questo non vuol dire che la coalizione del centrodestra stia rimontando, però, bensì che è Silvio Berlusconi a fagocitare tutti i suoi alleati. La Lega tiene, gli altri della coalizione no. Il centrosinistra anche è stabile, attorno al 36%. Bersani non arretra affatto: era al 33% dell’intenzione di voto due mesi fa; oggi è al 31%. Lo definirei gradimento granitico. La differenza tra i due poli è sul 4% e mi aspetto che tale rimarrà».
Non ci saranno sorprese dell’ultimo miglio? Èquestocheleisiattende: che le ultime due settimane di campagna elettorale non serviranno a niente?
«Le rispondo con una metafora: l’Italia è come quelle superpetroliere da trecentomila tonnellate. A farle virare, occorre molto spazio e tempo. Non sono mica un motoscafo. Ecco, siccome l’Italia è questa, una superpetroliera in navigazione in un mare difficile, non mi aspetto nessuna virata improvvisa. Ci vorrebbero forse tre mesi di campagna elettorale, non quindici giorni, per cambiare sensibilmente i numeri».
E i famosi indecisi, che faranno? Non è vero quel che si dice, cioè che gli indecisi votano con la pancia e uscendo dai loro dubbi all’ultimo istante?
«Prima risposta: gli indecisi non esistono. Per come la vedo io, gli indecisi hanno ampiamente deciso, quantomeno a livello inconscio. Seconda risposta: diffidare di chi risponde che non sa ancora chi votare. Lo sa eccome. Racconto spesso una storiella che mi ha molto colpito. Un professionista amico mio, in un’elezione di qualche tempo fa, dopo che aveva annunciato al mondo intero che avrebbe votato Di Pietro, ci ha ripensato al momento di entrare nella cabina elettorale. All’ultimo istante ha avuto come colpito da una folgorazione. Di Pietro gli è sembrato troppo aggressivo per i suoi gusti. E ha pensato: mio padre chi voterebbe? Il padre, nel frattempo deceduto, ha sempre votato democristiano. E il figlio ha guardato la scheda elettorale, ha visto che c’era lo Scudo crociato, ed ha finito per dare il voto all’Udc».
Più che il ragionamento contano le suggestioni, è questo che vuole dire?
«Noi la chiamiamo “stocastica famigliare”. Se uno è figlio di comunisti, e non sa bene chi votare, difficilmente voterà un partito lontano dalle scelte della sua famiglia».
La stocastica famigliare è come un imprinting politico.
«Qualcosa del genere».
Il che spiega ovviamente la prevedibilità del voto in Italia. Un blocco di sinistra e un blocco di centrodestra, immutabili negli anni se non nei decenni. O no?
«È esattamente per questo motivo che io dico che ormai le decisioni sono state prese. Gli indecisi hanno deciso. I trend sono stabili. La fotografia degli italiani, tramite i sondaggi, ormai è questa».
Ricapitolando?
«Berlusconi ha fatto il massimo possibile, utilizzando la tecnica della “visualizzazione creativa”, quando ha invitato gli italiani a vedere il loro conto corrente con dentro l’Imu resa da lui. Per conto mio, l’effetto che doveva avere l’ha avuto. L’effetto collaterale della sua campagna ha colpito Monti, indicato come persecutore di portafogli. Ma anche Monti è stabile al suo 9-10%; un successo per un partito appena nato. Bersani è avanti e lì resta».

Corriere 8.2.13
Verso il voto
Distacco ridotto tra i due poli. Centrodestra su, ma è sotto di oltre 7 punti
La coalizione di Berlusconi al 29,7%, centrosinistra al 37,2 Senato, incertezza in Lombardia e Sicilia
di Renato Mannheimer

qui

Corriere 8.2.13
Incerti e delusi La fotografia (in 5 gruppi) degli italiani
di Re. Be.


MILANO — Sempre più: disorientati, globalizzati (con fiducia), impegnati in politica o nel sociale, affamati di emozioni, tecnologici e connessi. Sempre meno interessati a: mercato, solidarietà, pari opportunità e dibattiti sulla famiglia tradizionale. Ecco gli italiani: chi sarà il politico che può rappresentali meglio? A tracciare la mappa della società italiana del 2012 ci ha pensato Episteme, l'istituto di ricerca diretto da Monica Fabris, incrociando ai tradizionali orientamenti politici (da sinistra a destra) le risposte di 2 mila persone tra i 15 e i 74 anni a un questionario su 250 affermazioni predefinite. Il dossier che ne è risultato, Atlas 2012, si legge come un quadrante politico per intenzioni di voto e leader che ispirano maggiore fiducia. Tra Monti, Bersani, Berlusconi e Grillo, la vera gara sarà tra il premier uscente e il segretario del Pd, per Fabris: «Monti ha un bacino quantitativo ancora piccolo, ma riesce a parlare ai delusi di diversi partiti. Il leader con maggiore ecumenicità è Bersani: parla a molti, di diverso orientamento, ma rischia di scontentare».
Le risposte al questionario (che hanno delineato valori e convinzioni «in salita» e quelli «in discesa») sono state incrociate con quelle di autocollocazione politica degli intervistati. Chi si definisce di centrosinistra è disorientato, tiene a partecipazione, welfare, tecnologia. Gli elettori di centro hanno tratti in comune con chi si ritiene di destra: paura della violenza, difesa del mercato e della famiglia tradizionale.
Il dossier ricava quindi 5 gruppi socioculturali, «terre di mezzo», nell'Italia di indecisi e delusi, tra i quali ciascun elettore oscilla. Li sintetizza Fabris: «La società liquida, moderna, giovane e disorientata, formata da potenziali elettori di centrosinistra; Diritti e doveri è l'area post ideologica e libertaria, campo di sinistra radicale e centrosinistra; Nuove morali è appannaggio dei valori di centrosinistra che però ora è il centro a soddisfare (austerità e moderazione); In trincea resistono, in pieno centrodestra, le persone più chiuse alla diversità. Nell'area Tradizione (destra conservatrice e Udc) ci sono i più anziani, legati a tradizioni e localismo». La traduzione politica? A livello di gradimento Monti ha un legame a sorpresa con Vendola: i due piacciono a chi ha a cuore il lavoro. Chi sceglie Pd e M5S (molti potenziali elettori in comune) è più interessato alla partecipazione e pretende laicità e pari opportunità.

Repubblica 8.2.13
Bipolarismo scomparso
Bersani avanti di cinque punti ma Berlusconi accorcia le distanze
Il Pd sotto il 30%, il Pdl supera il 20. Sale Grillo. Nel sondaggio Demos divario dimezzato tra i principali competitor rispetto alla precedente rilevazione. Monti in lieve calo. Dagli indecisi flusso di consensi soprattutto verso o 5 Stelle
di Ilvo Diamanti
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L’Huffington Post 8.2.13
Nei sondaggi ha già vinto
M5S si rafforza e diventa il terzo partito. Il Pdl si avvicina al Pd

La distanza tra le coalizioni tra 5 e 7 punti. Rischio esclusione per Ingroia. Ipsos, Demos, Mannheimer... eccoli tutti
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Repubblica 8.2.13
Il pericolo Lombardia
di Piero Ignazi


SEMBRA fantapolitica, ma un forza minoritaria del 4% o poco più rischia di accaparrarsi il controllo delle tre regioni del Nord, e soprattutto della più popolosa e ricca di tutte, la Lombardia. Le altre due sono già entrate nel recinto del Carroccio.
Ciò è accaduto grazie a circostanze fortuite in Piemonte – la dabbenaggine del centro-sinistra e il sospetto di irregolarità – e ad un successo irripetibile in Veneto, in una zona peraltro di effettivo radicamento territoriale dei leghisti. Il probabile dimezzamento dei voti rispetto alle regionali del 2010 riporta la Lega alle sue dimensioni fisiologiche, di forza minoritaria nel sistema partitico italiano. È sperabile venga sepolto una volta per tutte quell’atteggiamento gregario e reverente nei suoi confronti, definita con toni estatici come militante, presente nel territorio, dedita alla causa, unita e compatta, che circolava anche a sinistra fino all’anno scorso. Dopo che in omaggio alla Lega il federalismo è stato per qualche tempo l’alfa e l’omega di ogni discorso sul futuro del Paese, il clima d’opinione è oggi virato al disinteresse. Invece non vanno sottovalutati i pericoli di un successo del Carroccio. Il rischio che il placido Maroni vinca le elezioni regionali lombarde è reale. Ed è un rischio sistemico. Lasciare tutto il Nord industriale, operoso e prospero in mano ad una forza secessionista mette a repentaglio la tenuta del sistema politico italiano. Da subito si innalzerà la tensione istituzionale tra potere locale e potere centrale. Si può immaginare fin da ora la guerriglia che si scatenerà tra i tre governatori leghisti e Palazzo Chigi. Non si tratterà solo di buffonate come i ministeri al Nord o il parlamento della Padania a Mantova. Una ipotetica macroregione del Nord avrà in mano molti più strumenti e risorse per innescare un braccio di ferro con Roma. E questo non sarà che il primo passo verso la mai dimessa prospettiva della secessione. Attivando sia pulsioni localistiche di sciovinismo dei benestanti e di esclusione verso gli altri – un sentimento sempre coltivato dal Carroccio tanto verso i meridionali quanto verso gli immigrati – la Lega trascinerà le tre regioni in una lotta senza quartiere per indebolire il legame con il centro.
Il frutto avvelenato di questa politica, prima ancora che si concretizzi in qualche strappo, sarà quello di uno sfregio di immagine all’Italia. Per i partner europei e per i mercati l’Italia tornerà ad essere un Paese ad alta instabilità politico-istituzionale. Anche qualora ci fosse una chiara maggioranza di governo al centro, il dominio della Lega al Nord mostrerebbe la potenziale fragilità istituzionale del Paese, il suo essere sotto la spada di Damocle di una pattuglia di secessionisti irriducibili, pronti a mettere i bastoni tra le ruote ad ogni provvedimento economico-finanziario. Gli osservatori esterni non sono tanto interessati al colore politico delle maggioranze, quanto di sapere con chiarezza “chi è in comando”. Certo non amano i “rossi” ma se ne fanno una ragione se questi danno prova di serietà e compattezza. Solo che è difficile offrire queste garanzie se al vertice della zona più prospera del Paese opera una forza antisistemica, portatrice di valori antitetici a quelli delle democrazie occidentali (imperniati su apertura, tolleranza e inclusività), e fautrice di una rottura dell’unità nazionale. La vittoria della Lega in Lombardia ha un effetto di larga portata, non rimane confinata tra il Po e le Alpi. Incide sul futuro dell’Italia. Ne mette a rischio la solidità del sistema e la reputazione internazionale di Paese di nuovo solido ed affidabile. Tutti i sacrifici fatti fin qui sarebbero vanificati dalla guerriglia antinazionale dei leghisti e dal conseguente abbassamento del nostro rating esterno.
Il professor Monti ha mai considerato che il suo lavoro rischia di essere gettato alle ortiche per non aver sostenuto l’avversario del Carroccio alle elezioni regionali?

Repubblica 8.2.13
Se le elezioni diventano un’asta
di Bernardo Valli


CHE la parola fosse aggredita da una grave malattia lo sapevamo da tempo. Può quindi apparire non del tutto disinteressato approfittare di una campagna elettorale per sottolineare che il nostro linguaggio politico risente di quella malattia.
La parola è come la pallovale in una partita di rugby al punto che il linguaggio risulta inarticolato, incapace di imbastire un discorso. Tanto impoverito, sbiadito da non poter più esprimere significati. Esso si manifesta soltanto con un alternarsi di pulsioni aggressive e di crolli di tensione. Affermazioni e negazioni.
Si arriva a questa obiettiva conclusione seguendo la nostra campagna elettorale, non con uno spirito di parte, ma con la remissività di un telespettatore o di un lettore di giornali imprigionato nel groviglio quotidiano delle affermazioni di Berlusconi, delle smentite di Bersani, delle precisazioni di Monti, delle negazioni di Vendola, delle accuse di Ingroia, delle urla di Grillo; e ancora, in senso contrario, delle affermazioni di Bersani smentite da Berlusconi, respinte da Monti, ridicolizzate da Ingroia, contestate da Vendola, deformate da Grillo; e ancora degli ossessivi «Monti dice che...», «Bersani dice che...», «Vendola dice che...», «Berlusconi dice che...». Ripetuti annunci seguiti da frasi didascaliche adeguate al telegiornale. Uno afferma, l’altro nega, e così via, non all’infinito, per fortuna, ma fino al voto ormai in vista. (Grillo non dice, impreca).
Non c’è ombra di programma nel fiume di parole che arriva all’imminente elettore. Ma un rosario di battute accompagnate da espressioni scettiche, insultanti, sardoniche, ringhiose, sprezzanti, conniventi, ammiccanti, insomma promettenti. Ed è spesso da queste espressioni, dalla mimica e non dalle parole moribonde, che nascono i pronostici su future alleanze o tenzoni. Più che una campagna elettorale sembra una saga dell’intolleranza. Non si impone tanto un dato discorso a esclusione d’altri discorsi, ma si celebra il rifiuto del discorso.
A volte sembra di assistere a un’asta pubblica. È un’idea che non mi è mai venuta seguendo le campagne elettorali in tanti angoli del mondo, dall’India alla Gran Bretagna, dall’Egitto alla Francia, dal Portogallo alla Germania, da Israele alla Polonia.. .. Nelle vendite all’incanto i candidati all’acquisto si esprimono con segni o cifre. Per conquistare voti italiani si usano le tasse come moneta di scambio. C’è chi si impegna a rimborsare quelle già pagate, e chi promette di abbassarle. E c’è chi sventola anche i vergognosi debiti dello Stato con le aziende private. Si giura che saranno infine saldati. L’elettore rischia di perdersi nel valutare le offerte più vantaggiose. A chi vendersi? O non ci fa caso, convinto che le promesse non saranno mantenute.
Il linguaggio politico italiano è sempre o spesso servito a nascondere ciò che è semplice e concreto dietro i giri di parole delle astrazioni generali. Italo Calvino, nelle note sul linguaggio politico, scriveva che il diavolo è l’approssimativo. Per lui, nelle genericità, nell’imprecisione di pensiero e di linguaggio, specie se accompagnati da sicumera e pe-
tulanza, si poteva riconoscere il diavolo come nemico della chiarezza, sia interiore, sia nei rapporti con gli altri. Il diavolo non era il complicato, ma l’approssimativo. La semplificazione a tutti i costi è infatti faciloneria. Riuscire a definire i propri dubbi, di fronte a problemi complicati, è molto più concreto che qualsiasi affermazione perentoria basata sul vuoto.
Ma sono trascorsi decenni da quando Calvino ha scritto le note sul linguaggio, e nel frattempo ai demoni tradizionali che affollano il tempio della politica si sono aggiunti i mercanti, i guitti, e i giudici spogliatisi troppo in fretta della toga per scendere nell’arena elettorale. Da qui l’aggravarsi della malattia che colpisce la parola, facile strumento di interessi o di ambizioni individuali e di branco. Per chi crede nella politica, motore essenziale della democrazia, è un guaio molto serio.

Corriere 8.2.13
Le elezioni corrono sui tweet ma la legge non se n'è accorta
di Davide Casati


Le norme che regolano la par condicio risalgono al 22 febbraio 2000. Può sembrare ieri: non lo è. Tredici anni fa non esisteva Facebook, né Twitter; il Corriere era online da due anni, e sul web muoveva i primi passi una compagnia chiamata Google. Nei 57.266 giorni passati dalla sua entrata in vigore, il mondo della «comunicazione politica» che la legge 28/2000 vorrebbe regolare «durante le campagne elettorali e referendarie» è profondamente cambiato: ma il legislatore non se n'è accorto, o ha finto di non farlo (benché i profili Facebook e Twitter dei politici, e persino dei loro animali domestici, si sprechino). Così, ancora una volta, a condurre gli italiani alle urne sarà una norma composta da 3.683 parole, che cita 21 volte le emittenti radiotelevisive, quattro volte quotidiani e periodici, ma zero Internet.
Quella legge, riconosce oggi l'ex ministro delle Comunicazioni Paolo Gentiloni (Pd), «fu una pezza posta dall'allora governo di centrosinistra sulla mancata approvazione di una norma sul conflitto d'interessi, per impedire soprattutto gli spot a pagamento». Il risultato, in quella che in Italia è la prima campagna elettorale per le Politiche giocata sui social network, è però vagamente surreale. È di due giorni fa, ad esempio, la pronuncia del Garante per le comunicazioni che impedisce la diffusione di sondaggi nei 15 giorni prima del voto (come previsto dalla legge 28) anche attraverso applicazioni a pagamento per smartphone e tablet, perché questo renderebbe accessibili i risultati delle rilevazioni a un pubblico potenzialmente molto vasto. A prescindere dal peso che i sondaggi hanno nello spostare voti (discutibile: negli Usa, il blogger Nate Silver del New York Times ha pubblicato il suo ultimo studio alle 10.10 del 6 novembre, a urne aperte, ma nessuno si è sognato di accusarlo di aver falsato il risultato elettorale), questa scelta non eviterà che quegli stessi dati vengano diffusi in forma semiclandestina, magari attraverso un post o un tweet.
Toccherà alla prossima legislatura ripensare quelle norme. E riflettere, in ritardo ma (si spera) lucidamente e senza volontà censorie, sulle caratteristiche della Rete.

Repubblica 8.2.13
L’anno zero del capitalismo
di Massimo Giannini

È L’ANNO zero del capitalismo italiano. L’industria pubblica o para-pubblica è alle corde, schiacciata dai debiti e dalle tangenti. La finanza privata è allo stremo, macchiata dai trucchi contabili e dall’azzardo morale. Mettiamoci nei panni di un investitore estero: perché fare affari in un Paese del genere?
È ancora nebuloso lo scandalo che investe l’Eni, e tutto da dimostrare. Ma era scontato che l’oscura vicenda degli appalti per i gasdotti in Algeria, già costata la testa ai vertici della controllata Saipem, avrebbe finito per coinvolgere anche il «ceo» della controllante. Paolo Scaroni giura la sua totale innocenza. Toccherà alla magistratura dimostrare il contrario, con prove certe e inoppugnabili. Ma è un fatto, dopo il terremoto di Tangentopoli e la maxi-tangente Enimont dei primi anni ’90, il colosso dell’energia italiana torna pesantemente sotto i riflettori di una Procura. È una pessima notizia, per un gruppo che ha 75 mila dipendenti, un giro d’affari di 110 miliardi e una capitalizzazione di Borsa di 62 miliardi.
Ma quello che colpisce, in questo sconfortante «sommario di decomposizione» del romanzo degli gnomi tricolori, è il quadro d’insieme. L’inchiesta sull’Eni precipita in un mercato domestico devastato. Restiamo nell’area delle ex Partecipazioni Statali. Il terremoto che ha squassato Finmeccanica, altro ex gioiello dell’industria nazionale che vale oltre 5 miliardi in Borsa, quasi 18 miliardi di ricavi e oltre 70 mila dipendenti, è ancora in pieno corso. Il presidente Giuseppe Orsi è indagato per presunte mazzette sulle forniture degli elicotteri Agusta-Westland. Il suo predecessore Pier Francesco Guarguaglini è stato prosciolto, ma nessuno può dimenticare le «gesta » della moglie, Marina Grossi, nella controllata Selex.
Il buco nero della Saipem, scoperchiato la scorsa settimana, non è meno grave di quello in cui ora rischia di sprofondare l’Eni: non si era mai vista una grande azienda quotata che dalla sera alla mattina lancia un profit warning in cui gli utili attesi crollano del 70%, mentre una mano misteriosa vende una quota del 2,2% un attimo prima che il titolo crolli di schianto e la società bruci un terzo del suo valore.
Il disastro dell’Alitalia è, alla lettera, sotto gli occhi di tutti. Plasticamente rappresentato dal relitto sbianchettato dell’Atr preso in leasing da Carpatair. Largamente annunciato dal 2008, quando Berlusconi in veste di biscazziere si giocò la compagnia di bandiera alla roulette russa del voto. Lui vinse le elezioni, noi ci abbiamo perso 4 miliardi. La difesa dell’«italianità» non è servita a niente. I «patrioti» radunati da Passera e da Banca Intesa sono in fuga. I francesi sono pronti a comprare, ma al prezzo simboli-
co di 1 euro (all’epoca avrebbero sborsato quasi 2 miliardi). Oggi l’azienda non ha cassa per pagare gli stipendi. O ricapitalizza, o porta i libri in tribunale. E che dire di Telecom, che si balocca tra rinvii sulla rete a banda larga e bluff sulla vendita di La7, mentre gli azionisti di Telco sono indecisi a tutto e i debiti corrono oltre i 30 miliardi?
La finanza privata offre di sé uno spettacolo persino più osceno. Il «groviglio armonioso» del Montepaschi è un verminaio pauroso, dove per cinque anni
una losca «banda del 5%» ha lucrato fondi neri, nascosto documenti, spalmato perdite. Indisturbata dagli ispettori di Bankitalia, o forse pilotata dai referenti politici. Fonsai è un pozzo senza fondo, che non finisce mai di far emergere le sue vergogne: la famiglia Ligresti l’ha spolpata fino all’osso, portandola al fallimento e lucrando consulenze per 42 milioni nello stesso esercizio in cui la compagnia perdeva quasi 1 miliardo, e ora il patriarca Don Salvatore giudica «abnorme » la richiesta di risarcivantaggio
mento avanzata nei suoi confronti dal commissario. Bpm, più che una banca, si conferma un comitato d’affari, dove il «Metodo- Ponzellini» produce ancora i suoi danni e gli arresti per corruzione e mafia continuano.
Per fortuna l’economia industriale e finanziaria italiana non è tutta così. Ci sono imprese che ogni giorno combattono a viso aperto sulla frontiera della qualità e della competitività. Ci sono banche che non falsificano i bilanci, anche se lesinano gli impieghi. Ma senza cadere nel qualunquismo, l’immagine complessiva delll’establishment è purtroppo questa. Nella migliore delle ipotesi, un capitalismo di rendita, che accumula e non investe. Nella peggiore, un capitalismo di rapina, che depreda e non paga dazio.
Un sistema sempre più povero, debole e asfittico. Tendenzialmente corrotto o comunque corruttibile. La Grande Industria si va ormai estinguendo, e nessuno si interroga su quale sia il destino di un Paese che coltiva ancora il mito arcaico del «piccolo è bello» o si crogiola nel sogno patetico della «filiera del turismo». La Borsa è ridotta a parco buoi o a modesto saloon, dove non si va per reperire capitale di rischio a beneficio delle aziende, ma per fare speculazioni mordi e fuggi a dei soliti cowboy. Le regole vengono facilmente violate, le autorità di Vigilanza vengono sistematicamente aggirate. Consob e Bankitalia, cani da guardia del mercato, diventano loro malgrado cani da salotto del potere.
Dunque, torniamo alla domanda cruciale: se foste un investitore estero, oggi, investireste in Italia? La risposta la danno i fatti. L’indice Ftse Mib e lo spread che risale oltre quota 300. E poi le grandi multinazionali che si tengono alla larga dal Belpaese, alla faccia di Berlusconi che si ricandida promettendo i condoni tombali e a dispetto di Monti che aveva assicurato l’ingresso sicuro dei colossi stranieri dopo la riforma del mercato del lavoro. C’è un’intera «classe dirigente» che, se mai ce l’ha avuta, sembra aver smarrito la coscienza di sé, della sua missione, della sua responsabilità. La bancarotta etica che sconvolge il capitalismo è speculare alla questione morale che travolge la politica. Se mai vedrà la luce, un nuovo governo nato dall’alleanza tra progressisti e moderati potrebbe ripartire da qui. Basta con la danza macabra intorno al totem ideologico dell’articolo 18. Abbiamo già dato.

Repubblica 8.2.13
Il cemento famelico
di Salvatore Settis


Dimensioni e natura del disastro non si colgono appieno senza un dato ulteriore: questa dissennata cementificazione si compie a danno dei più preziosi suoli agricoli (pianura padana, Campania un tempo felix, cioè feconda), colpendo al cuore l’agricoltura di qualità, coprendo i suoli con una spessa coltre di cemento (soil sealing) con perdita irreversibile delle funzioni ecologiche di sistema e fragilizzazione del territorio: cresce così la probabilità di frane e alluvioni, se ne rendono più gravi gli effetti. La morfologia del territorio italiano lo rende esposto a terremoti, eruzioni vulcaniche, alluvioni e altre calamità, il cui impatto cresce quando si alterano i già precari equilibri naturali.
Per chi dunque costruiamo, e perché? Da cinquant’anni trova credito in Italia la menzogna secondo cui l’edilizia (comprese le “grandi opere” pubbliche) sarebbe uno dei principali motori dell’economia. È per questo che si sono succeduti, da Craxi a Berlusconi, irresponsabili condoni dei reati contro il paesaggio. In nome di una cultura arcaica, l’investimento “nel mattone” continua ad attrarre investimenti, anche per “lavare” il denaro sporco delle mafie, stabilizzandolo nella rendita fondiaria. Sfugge a politici e imprenditori che la presente crisi economica nasce proprio dalla “bolla immobiliare” americana. Peggio, essi si tappano gli occhi per non vedereche la crisi che attanaglia l’Italia è dovuta, anche, alla mancanza di investimenti produttivi e di capacità di formazione. Si utilizza, invece, il nostro suolo come se fosse una risorsa passiva, una cava da fruttare spolpandola fino all’osso.
Che questo accada nel Paese che per primo al mondo ha posto la tutela del paesaggio fra i principi fondamentali dello Stato (articolo 9 della Costituzione) è un paradosso su cui riflettere. Se agli altissimi principi costituzionali corrispondono pessime pratiche quotidiane, è prima di tutto perché al boom post-bellico, con la sua fame di benessere, non è corrisposta una crescita culturale (né mai vi sarà finché la scuola pubblica viene trattata come un fastidioso optional, secondo la filosofia delle destre). Ma è anche per il peccato d’origine della normativa prebellica: alla legge Bottai sulla tutela del paesaggio (1939) seguì infatti la legge urbanistica del 1942, ma non fu creato fra le due il necessario raccordo, quasi che fosse possibile chiedere alle Soprintendenze di tutelare un paesaggio senza città, ai Comuni di gestire città senza paesaggio. La Costituzione radicalizzò il contrasto, ponendo le competenze sul paesaggio in capo allo Stato e quelle sul territorio e l’urbanistica in capo alle Regioni (che di solito sub-delegano i Comuni), con una giungla di conflitti di competenza che coinvolge i ministeri dei Beni Culturali, dell’Ambiente e dell’Agricoltura, ma anche regioni, province e comuni. È negli interstizi di questa normativa deficitaria e barcollante che si insediano gli speculatori senza scrupoli, i divoratori del suolo, i nemici del pubblico bene.
Interrompere queste pratiche stolte, si sente ripetere, è impossibile perché vanno protette la manodopera e le imprese. Non è vero. Di lavoro per imprese e operai ve ne sarebbe di più e non di meno se solo si decidesse di dare priorità assoluta alla messa in sicurezza del territorio (il recente rapporto congiunto dell’Associazione nazionale costruttori edili e del Cresme-Centro di ricerche economiche e di mercato dell’edilizia fornisce dati impressionanti su necessità e inadempienze in merito). Se si decidesse di dare priorità al recupero degli edifici abbandonati, di abbattere gli orrori che assediano le nostre periferie sostituendoli con una nuova edilizia di qualità anziché catapultare grattacieli nel bel mezzo dei centri storici. Se si verificassero i dati sulle proiezioni di crescita demografica prima di autorizzare nuove edificazioni. È falso che vi siano da una parte i“modernizzatori”che cementificano all’impazzata e dall’altra i “conservatori” che non costruirebbero più una casa e condannerebbero alla disoccupazione gli operai. La vera lotta è un’altra: fra chi vuole uno sviluppo in armonia con il bene pubblico e la Costituzione, e chi vede nel suolo italiano solo una risorsa da saccheggiare a proprio vantaggio.

l’Unità 8.2.13
Sprechi e carenze
Il vero malato è la sanità italiana
La relazione finale della commissione parlamentare. Marino: «Restituire i soldi del ticket»
di Gioia Salvatori


ROMA Ospedali vetusti non antisismici, la terapia del dolore che al Sud latita e soprattutto sprechi. Sprechi per consulenze accordate a professionisti già in carico alle aziende sanitarie o a specialisti esterni pagati per far ciò che potrebbe un dipendente altrettanto qualificato, contratti a esterni rinnovati senza un vero perché.
Il Servizio Sanitario Nazionale non se la passa bene neanche al netto della corruzione che lo tarla, del precariato dei medici, delle liste d’attesa chilometriche e dei familismi. Nel solo 2008, 790 milioni di fondi pubblici se ne sono andati in consulenze sanitarie. Soldi dei cittadini, un buco ripianato da ognuno di noi coi ticket, lo strumento attraverso il quale sono stati racimolati proprio 850 milioni. La vera proposta shock? «Restituire agli italiani i soldi dei ticket tagliando le consulenze», lancia l’idea il senatore Ignazio Marino, Pd, presidente della commissione d’inchiesta sul servizio sanitario nazionale. Ieri ha presentato la relazione finale sul lavoro svolto dalla commissione. Dentro ci sono indagini dei Nas, numeri della Corte dei Conti, dati della protezione civile, i report sulla morte di Stefano Cucchi e il racconto del degrado negli ospedali psichiatrici giudiziari di cui poi è stata decretata la chiusura. Il ritratto è di un servizio sanitario con un edilizia bloccata all’anteguerra e con un sistema di sprechi che resiste ai tagli: le consulenze inutili restano, lo dice la Corte dei Conti che nel 2008 ha contato 790 milioni a questa voce. Un cancro che nessuna spending review riuscirà a curare visto che ciò avviene mentre in corsia languono i soldi per comprare i farmaci.
L’etica è già crollata, gli ospedali italiani stanno ancora in piedi ma rischiano: 200 edifici ospedalieri, infatti, si sgretolerebbero per un terremoto 6,2 della scala Richter. La protezione civile ha fatto sapere che sono almeno 500 quelli, strategici in caso di terremoto, che necessitano di ristrutturazione o consolidamento. Dallo spettro di un crollo come quello del nosocomio dell’Aquila durante il sisma del 2009, non si salva nessuna regione. Dopo aver acquisito 200 verifiche su altrettanti fabbricati, la commissione scrive che la loro vetustà ( il 47% è stato costruito prima del 1961) e l’assenza di interventi di messa in sicurezza successivi alle norme antisismiche del 1983, spiegano le fragilità.
Non solo le strutture ma anche i servizi, talvolta lasciano a desiderare. Tra i più carenti quelli dedicati alla salute mentale. Dalle indagini della commissione si sa che in Italia si usano le camicie di forza anche nei reparti di neuropsichiatria infantile, che l’elettroshock spesso è somministrato in barba alle regole, senza prima provare coi farmaci, e che i centri di salute mentale sono aperti solo per poche ore diurne cinque giorni a settimana. Non solo: il trattamento sanitario obbligatorio (t.s.o.) spesso è «brutale», scrivono i parlamentari, e vede il paziente vittima di una controparte che sta sul chi va là per “disinnescarlo” più che «per farsi carico della sua sofferenza».
Ma dove il sistema sanitario è più efficiente? Dove conviene curarsi? Le macchie di leopardo sono piccole, le differenze nella stessa regione spesso abissali, ma quasi sempre è il Sud che se la passa peggio, raccontano alcuni indicatori di qualità usati dalla commissione. Ad esempio chi si rompe un femore a Bolzano viene operato entro due giorni nel 83,63 % dei casi, chi se lo rompe in Basilicata nel 16,23 %. Il taglio cesareo si usa in Friuli Venezia Giulia per il 23 % dei parti, in Campania per 61,88 %. E si aggiunge sofferenza a sofferenza: di 7 milioni di confezioni di farmaci oppiacei consumate negli ospedali tra il 2008 e il 2011, il 68% sono state usate al Nord, solo il 6% al Sud.

il Fatto 8.2.13
Elettroshock “Trattati 1400 pazienti”
di Eduardo Meligrana


L’elettroshock è ancora praticato in Italia. Ad affermarlo è la Commissione d’inchiesta sul Servizio sanitario nazionale nella presentazione in Senato della relazione finale. Ad utilizzarlo ci sono “91 strutture ospedaliere e dal 2008 al 2010 sono stati 1400 i pazienti che hanno ricevuto una terapia elettroconvulsivante” ha spiegato Ignazio Marino, presidente della Commissione. La relazione cita strutture ospedaliere sia pubbliche che private lungo tutta la penisola. “Solo in Sicilia sono 14. In alcune situazioni – ha aggiunto - viene utilizzato come terapia di prima linea”. Il paziente non verrebbe sottoposto, come prescrive la circolare del 15 febbraio del 1999, ad un percorso di cura psicologico o psichiatrico, ma già “come primo approccio” si utilizzerebbe l’elettroshock.

l’Unità 8.2.13
La lettera
Sulle unioni civili
Claudio Sardo risponde ad Eugenia Roccella


GENTILE DIRETTORE, il suo giornale propone come una novità l’intervento del card. Ruini sulle coppie omosessuali, con cui il cardinale ha dichiarato legittimo, per le convivenze, ricorrere a strumenti di diritto privato per la tutela dei soggetti deboli. Il commento di Emma Fattorini segue la stessa linea e invita a considerare con attenzione «l’apertura» della Chiesa. In realtà, la notizia non c’è: sono stata portavoce del Family Day e vorrei ricordare che questa è la posizione che da sempre abbiamo sostenuto, fin dalla grande manifestazione in piazza San Giovanni; per verificarlo basta riascoltare il mio intervento di allora. Nessun ripensamento, ma anche nessuna discriminazione nei confronti degli omosessuali: si tratta di semplicemente di chiamare le cose con il loro nome, lasciando alla famiglia come «società naturale fondata sul matrimonio» il primato che le compete e che la nostra Costituzionele assegna.
Come parlamentari del Pdl, in un documento sulle unioni di fatto firmato da circa 180 fra deputati e senatori, abbiamo spiegato che l’estensione al convivente di diritti riconosciuti al coniuge, derivante dalla legge ordinaria o dalla giurisprudenza, esiste già in quasi tutti gli ambiti, dalla successione nei contratti di locazione ai risarcimenti e all’assistenza, ma se ci fossero dei diritti individuali non garantiti, dei vuoti legislativi, saremmo pronti a colmarli. Non siamo però disposti a svuotare definitivamente l’istituto del matrimonio attribuendo ad altre forme di unioni affettive un riconoscimento giuridico analogo. Siamo quindi lontani dall’impegno del partito di Bersani a prevedere per le coppie omosessuali forme di riconoscimento pubbliche sul modello tedesco. Sarei curiosa, piuttosto, di sapere cosa pensa della legge tedesca l’amica Emma Fattorini.
Eugenia Roccella

Gentile onorevole, anche se il cardinale Ruini non ha fatto aperture circa un riconoscimento di tipo «pubblicistico» delle coppie omosessuali, a noi è sembrato (e non solo a noi) cogliere in questi giorni un tono diverso, forse un desiderio di rompere il muro di incomunicabilità in tema di diritti. Sappiamo che alla Cei non piacciono le unioni civili «tedesche», e che preferirebbe limitare le tutele al diritto privato. Ma continuiamo a sperare che si possa giungere, senza guerre di religione, ad una legge che riconosca i diritti e i doveri delle coppie gay che decidono di vivere stabilmente insieme. La distinzione tra l’istituto familiare, come delineato dalla Costituzione, e le unioni civili può essere un terreno, pur parziale, di condivisione. Penso che lei non sia d’accordo, ma noi consideriamo dannosa per l’Italia una contrapposizione fondata su un «bipolarismo etico» e invece utile alla ricostruzione del Paese la ricerca di un comune umanesimo. Cla. Sa.

l’Unità 8.2.13
I cattolici nella sinistra: come cambia la sfida
di Vannino Chiti
Vicepresidente del Senato

IL DIRETTORE DE L’UNITÀ HA INVITATO A RIFLETTERE SUL RUOLO DEI CATTOLICI NELLA SINISTRA. È UN TEMA DA AFFRONTARE in termini nuovi rispetto al passato. Riguarda la ridefinizione della cultura politica di una sinistra moderna. La riflessione deve avere un respiro europeo. La nuova famiglia dei progressisti europei deve avere al suo interno, non in incognito, credenti cattolici, di altre fedi religiose, diversamente credenti. È un pluralismo che arricchisce.
La nascita del Pd ha contribuito a rendere più europea la politica italiana, dando un riferimento praticabile alla diversità di opzioni politiche per i credenti. Nella Dc coesistevano componenti di destra e di sinistra: lo giustificava una fase storica che appariva mettere a rischio la libertà religiosa, negli anni della guerra fredda. Oggi i progressisti anche in Italia stanno con i progressisti, i conservatori con i conservatori. Vale per credenti e non credenti: è un passo avanti per la democrazia.
La Chiesa in Italia è giunta all’approdo del pluralismo politico dei cattolici con un percorso non facile: la presidenza della Cei da parte del cardinale Ruini aveva portato ad una centralizzazione in essa dei rapporti politici e ad un privilegiamento pressoché esclusivo dei cosiddetti valori non negoziabili, espressione ben diversa come sottolinea Claudio Sardo dagli originari principi irrinunciabili.
Ne è disceso un ridimensionamento del ruolo del laicato cattolico, che ancora pesa sulla Chiesa e sull’Italia; dall’altro la destra berlusconiana, per concedere alle gerarchie una sorta di supervisione sulle leggi di natura bioetica, ha preteso un lasciapassare per minare l'etica pubblica e i valori della Costituzione. Ancora oggi non a tutti è chiara la perdita di influenza morale che ha causato la compromissione subalterna con la destra berlusconiana. Il culto dell’individuo egoistico, l’esaltazione del successo fine a sé stesso, il fastidio per la legalità, l’avversità agli immigrati e ai diversi, hanno avuto slancio nella stagione di Berlusconi e della Lega.
Il nostro tempo presenta sfide che esigono una nuova cultura politica. C’è una base comune da cui partire: il primato della persona e della sua dignità, la sostenibilità ambientale dello sviluppo, la non violenza, la laicità. Le differenze non consistono nel negare l’esistenza di una questione antropologica accanto a quella sociale. Il progredire delle scienze, la libertà della ricerca ma insieme la necessità di una governance democratica per decidere l’attuazione delle sue scoperte, ce la rivelano. La sinistra non ha imbarazzo a difendere la dignità della vita. La differenza risiede nel riconoscimento o meno dell'autodeterminazione della persona. Se si ragiona attorno alla cultura da affermare nella società, trovo condivisibile che l'autodeterminazione della persona si realizzi sulla base della cultura della responsabilità e non di un edonismo individualistico. Sono persuaso che a sinistra si debba compiere una svolta profonda, non continuando a concepire il principio di autodeterminazione all'interno di una cultura dei soli diritti, egemone negli anni Settanta del secolo passato, ma oggi non più in grado di parlare all'insieme della società. Il mondo cattolico, in molti suoi settori, stenta a coniugare il valore della vita con quello della libertà e responsabilità.
L’autodeterminazione della persona non è contro le fedi religiose: lo stesso ritorno alla religione si fonda su un inedito ruolo personale, che si esprime nella comunità ma non vi scompare. L’autodeterminazione della persona non può essere sostituita dall’autorità dello Stato o di qualsivoglia potere religioso. Lo Stato etico opprime la persona e non libera la società: neppure le religioni e le culture. È su questo che bisogna confrontarsi, per costruire sintesi nuove ed un'etica condivisa.

l’Unità 8.2.13
Lettere pulite
La stima tra Baffi e Berlinguer in un momento tragico del Paese
Uno stralcio da un volume edito da Aragno che raccoglie le «Considerazioni finali» tra gli anni 1975 e 1978 del governatore
della Banca d’Italia
di Sandro Gerbi, Beniamino Andrea Picone


ROMA, MARTEDÌ 25 APRILE 1989. UN UOMO ALTO, CANUTO, IN ABITO SCURO, IL VOLTO SEVERO E SOFFERENTE, occhiali spessi con lenti fumé, entra nella camera ardente di Ugo Baduel, allestita presso la sede de l’Unità, in via dei Taurini 19. C’è già una piccola folla di estimatori e amici, militanti e non, perché Baduel, morto due giorni prima a soli 55 anni, era un giornalista molto amato (anche da chi scrive) e molto conosciuto, essendo stato il «resocontista» ufficiale del segretario del Pci, Enrico Berlinguer. Dal ’73 all’84 lo aveva seguito come un’ombra, in giro per l’Italia, scrivendo i «verbali» dei suoi discorsi (che occupavano paginate intere de l’Unità), avendo un ruolo non marginale quale suo sparring partner (forse come e talora anche più del «consigliere politico» del leader comunista, Antonio Tatò).
L’anziano visitatore si sofferma pensieroso per qualche minuto accanto al feretro, scambia alcune parole affettuose con la prima moglie di Baduel, Bianca Riccio, e con la figlia Alessandra, poi se ne va, discretamente, così com’è arrivato.
Quell’uomo, che emana una pacata e naturale autorevolezza, è Paolo Baffi, governatore onorario della Banca d’Italia. Si trovava in un letto d’ospedale, afflitto da un grave tumore all’intestino. Ma, saputa la notizia, aveva voluto alzarsi, vestirsi ed essere vicino ai familiari dello scomparso. Lui stesso si spegnerà pochi mesi più tardi, il 4 agosto del 1989, un giorno prima del suo settantottesimo compleanno.
Dieci anni prima, nell’assolata canicola milanese, un Baffi ancor più affranto, accompagnato dal fedele ex vicedirettore generale della Banca d’Italia Antonino Occhiuto, aveva voluto rendere un analogo omaggio funebre a Giorgio Ambrosoli, il commissario liquidatore delle banche di Michele Sindona, ucciso sulla soglia di casa da un sicario del «finanziere» siciliano.
A parte i giudici Guido Viola e Ovilio Urbisci, che si stavano occupando del «caso» Sindona, Baffi e occhiuto erano stati gli unici rappresentanti delle pubbliche istituzioni a partecipare alle esequie, gli unici a mostrare una reale coscienza civile. Eravamo nella tragica estate del ’79, pochi mesi dopo che la carriera dello stesso governatore e del vicedirettore generale Mario Sarcinelli, addirittura arrestato per due settimane, erano state stroncate da accuse rivelatesi poi inconsistenti: e questo, nel silenzio totale di Palazzo Chigi (all’epoca occupato da Giulio Andreotti).
Nell’ottobre del 1979, al momento del distacco definitivo di Baffi da «via Nazionale» (lasciata nelle salde mani di Carlo Azeglio Ciampi), fra le tante lettere di solidarietà ricevute vi era stata anche quella, forse inattesa, ma certo molto gradita, di Enrico Berlinguer, vergata a mano e datata Roma, 10 ottobre:
Caro dottor Baffi,
Lei sa quanto il Pci, al di là delle valutazioni diverse su singoli problemi, abbia apprezzato la sua opera alla guida della Banca d’Italia.
Nel momento in cui lascia il Suo incarico desidero rinnovarle l’apprezzamento del nostro partito e mio personale per il ruolo che Lei ha saputo svolgere nell’interesse del paese in momenti di grandi difficoltà, in delicate trattative internazionali e per il contributo che da Lei è venuto, insieme agli altri membri del Direttorio dell’Istituto, per salvaguardare le ragioni di scambio con l’estero e la nostra moneta. Con gli auguri alla Sua persona esprimo anche l’auspicio che le Sue alte capacità e competenze e la Sua dirittura trovino nuove possibilità per essere spese al servizio del paese.
Cordialmente, Enrico Berlinguer.
Baffi aveva risposto a stretto giro di posta, l’11 ottobre 1979.
Qualche suo espressione può sembrare involuta, ma il senso è chiarissimo, e anche drammatico:
Caro onorevole,
la Sua si colloca fra le più pregiate delle molte che mi sono pervenute ad occasione del mio commiato dalla Banca e che nell’insieme costituiscono una ondata di simpatia la quale ha sorretto me stesso ed i miei colleghi in una fase difficile della vita dell’istituto: quando alcuni di noi sono stati investiti da un’altra ondata, di azioni di vario tipo, della quale per ora almeno la prima non sembra arrestare il corso, per difetto di traduzione, di coagulo della simpatia in qualunque azione concreta a livello istituzionale. È un problema di equilibrio dei poteri, di esercizio di una funzione essenziale dello Stato come quella della vigilanza sulle banche in condizioni di serenità, di difesa della professionalità, direi anche di diritti umani, che il nostro caso consegna alla coscienza di uomini come Lei, della classe politica, dei cultori del giure.
Circa la mia partecipazione alla vita italiana: gli ultimi tre governatori della Banca d’Inghilterra (Cobbold, Cromer, O’Brien) sono Pari d’Inghilterra: io, dopo 50 anni di lavoro, dei quali 43 alla Banca (24 in funzione di ricerca) a casa porto due incriminazioni. Il miglior contributo che posso dare in queste condizioni è forse quello di riflettere sulle ragioni per cui in questa società le forze del male possano siffattamente prevalere.
Con animo grato ed ogni buon augurio,
Suo, Paolo Baffi.
Uno scambio ispirato da reciproco rispetto che consentiva a Baffi di avere regolari scambi intellettuali e rapporti di amicizia con l’economista del Pci, Luciano Barca, e anche con Giorgio Napolitano.

Il libro
La coscienza civile di un gentleman
Il testo che pubblichiamo è tratto dal volume «Paolo Baffi Parola di Governatore» curato da Sandro Gerbi e Beniamino Andrea Piccone (Aragno editore, pagine 240, 25 euro). Si tratta della raccolta delle Considerazioni finali tra gli anni 1975 e 1978 quando Baffi era Governatore della Banca d’Italia e della ricostruzione delle inchieste giudiziarie, senza fondamento, che offesero Baffi e il suo vice Mario Sarcinelli.

il Fatto 8.2.13
Povera Sicilia. Il neoassessore Battiato Hanno svaligiato la cultura
di Sandra Rizza


Palermo Nelle casse dell'assessorato al Turismo non c'è un euro, hanno rubato tutto''. È la dichiarazione-choc di Franco Battiato, assessore siciliano alla Cultura, che ieri ha convocato a Palermo una conferenza stampa per denunciare gli sprechi accumulati nel suo settore. Nel giorno in cui la Regione siciliana presentava un conto di 42 milioni di euro alla società Novamusa (il cui ex manager è stato arrestato con l'accusa di essersi impossessato degli incassi dei siti culturali dell'Isola), Battiato non ha voluto fare nomi: “Posso dire solo che qui di porcherie ce ne sono state tante’’. E al presidente dell’Ars Giovanni Ardizzone che il giorno del suo insediamento lo redarguì per l’abbigliamento casual, l’artista “prestato’’ alla politica replica: “Sarò pure l’unico assessore senza cravatta, ma almeno continuo ad avere un’anima’’.
Battiato, lei si indigna per le ruberie in politica… Ma allora è un candido?
Nella vita ne ho viste di cotte e di crude: non sono un candido, ma gli sprechi mi indignano, perchè c’è gente che non ha i soldi per mangiare.
Con chi ce l’ha? Perchè non fa i nomi?
C’è un’indagine interna sugli sperperi: non posso e non voglio interferire. Però volevo che si sapesse cos’è accaduto: ho usato parole pesanti, ma quando tu organizzi una mostra che costa un milione di euro, che cosa fai? Quando senti certe cifre non puoi restare zitto.
L’accusano di fare dichiarazioni ad effetto, ma di essere in realtà un assessore assente. È vero?
Sono le solite palle dei giornalisti. Io faccio un altro lavoro: porto la mia terra a Parigi, ad Amburgo, a Bruxelles. Non sono un burocrate, nè un politico. Posso occuparmi di cultura e spettacolo anche dal letto.
Tante critiche e difficoltà. Si è pentito di aver accettato l’ingresso in giunta?
No. Mi sto appassionando a questa esperienza. Quando viaggio, incontro molte persone che credono nel Governatore Crocetta e anche in me e non posso deluderle. Io prendo tutti sul serio. Sono qui per la mia terra: per dare e non per depredare. Ho devoluto il mio primo stipendio a una società in difficoltà, è stato bellissimo.
Ci sono degli eventi che avrebbe voluto organizzare e che invece salteranno per mancanza di fondi?
Abbiamo dovuto dire: ‘no, grazie’ a un signore che è' venuto a trovarmi per organizzare a Taormina i Grammy Award, che festeggiano 40 anni. E lo sapete perchè? Perchè non abbiamo un euro. Eppure sarebbe stata una festa pazzesca. Dobbiamo dimenticare i grandi eventi, ma ci sono offerte interessanti, e poco costose: ce n’è una di Renzo Arbore, una di un gruppo di monaci tibetani. Anche con pochi soldi, possiamo fare grandi cose. Ma Crocetta dovrà cercare fondi europei.
Cosa direbbe oggi al presidente dell’Ars: è meglio avere la cravatta o la capacita’ di indignarsi?
Con Ardizzone è tutto chiarito. Certo, se mi avesse avvertito in privato, avrei indossato la cravatta... È comunque una regola ridicola.

l’Unità 8.2.13
Tunisia, il caos e la rabbia. Oggi sciopero generale
Ennahda sconfessa il premier: no al governo tecnico
Scontri in tutto il Paese, oggi i funerali di Belaid
L’Egitto rafforza la scorta per El Baradei
di U.D.G.


Rabbia. Dolore. Un Paese spaccato. Una rivoluzione tradita. L’assassinio di Chokri Belaid rischia di sprofondare la Tunisia nel caos politico e nelle violenze di piazza, a poco più di due anni dalla rivoluzione che rovesciò Ben Ali. Ennahda, il partito islamico moderato al governo, ha bocciato la proposta del suo premier, Hamad Jebali, di sostituire il governo con un esecutivo d’emergenza, composto da tecnici estranei ai partiti. L’idea di un governo di tecnici aveva invece incassato l’appoggio di Ettakatol, che, insieme ad Ennahda e Congresso per la Repubblica, faceva parte della maggioranza.
E l’incertezza politica di fronte all’omicidio del leader dell’opposizione alimenta le proteste di piazza: a Tunisi, vicino al ministero dell’Interno, la polizia ha usato i gas lacrimogeni per disperdere centinaia di dimostranti che chiedevano un nuovo governo.
ALTA TENSIONE
Scontri anche a Gafsa, nel centro del Paese nordafricano, dove una folla inferocita ha circondato l’ufficio del governatore. I manifestanti anti-islamisti hanno lanciato bombe molotov contro gli agenti, che hanno reagito con i lacrimogeni. L’Ugtt, il sindacato tunisino considerato tra i più influenti del Paese arabo con il suo mezzo milione di iscritti, ha aderito all’appello dell’opposizione per uno sciopero generale oggi, nel giorno dei funerali del leader del Partito dei patrioti. Secondo radio Mosaique, unico media a dare questa notizia, nei violenti incidenti di ieri mattina un ragazzo sarebbe rimasto ucciso, anche se mancano tuttavia conferme ufficiali. Ieri hanno incrociato le braccia avvocati e giudici tunisini, in una protesta a cui si sono uniti i docenti dell’università di Manouba, alle porte di Tunisi. Oggi le forze dell’opposizione laica, il fronte popolare, al-Marrar (di sinistra), il Partito repubblicano e Nidaa Tounès (centro) in occasione dello sciopero e dei funerali di Belaid sospenderanno la loro partecipazione all’Assemblea costituente.
A Tunisi la tensione è altissima: la polizia è dispiegata in forze lungo l’Avenue Habib Bourguiba, epicentro della rivoluzione del 2011 che rovesciò Zine El Abidine Ben Ali; nel centro della capitale pullulano i mezzi delle forze di sicurezza e le strade intorno al ministero degli Esteri sono state chiuse al traffico. Anche a Monastir centinaia di persone sono scese in piazza, con la polizia che ha risposto con cariche (effettuate a bordo di grandi jeep), precedute dal lancio di lacrimogeni. Teatro dei disordini il lungomare della città, che si trova a pochi chilometri da Sousse, nel sud della Tunisia. Anche a Monastir la maggior parte dei manifestanti è composta da giovanissimi. Alcuni hanno sfidato apertamente gli agenti. La sede di Siliana di Ennahda è stata presa d’assalto ed incendiata ieri pomeriggio da una folla inferocita. L’assalto è stato preceduto da una marcia, cui hanno preso parte migliaia di persone.
Dal corpo di Chokri Belaid, sono stati estratti tre proiettili e pezzi di vetro del finestrino dell’auto. Originariamente la moglie di Belaid, Basma, aveva detto che il marito era stato ucciso con quattro colpi: due alla testa, uno al collo e uno al cuore. È stato arrestato, secondo quanto riporta al-Arabiya, l’autista di Chokri Belaid. Subito dopo l’omicidio, Nadia Daoud, una giornalista vicina di casa dell’uomo politico, aveva avanzato sospetti sul comportamento dell’autista che attendeva per strada Belaid quando è stato ucciso. «È stato Ennahda e nessun altro a ucciderlo». Salah Belaid, padre del leader dell’opposizione tunisina ha parlato durante la cerimonia in cui il feretro è stato trasportato alla sua abitazione. Il padre ha spiegato: «Mi aveva detto “Padre, mi stanno prendendo di mira”’ e quasi mai dormiva nella sua casa». Un video che sta girando sul web mostra come già lo scorso anno Chokri Belaid era finito nel mirino degli integralisti islamici.
L’opposizione laica è nel mirino dell’Islam radicale e dei suoi squadroni della morte. Non solo in Tunisia. Il ministero dell’Interno egiziano ha disposto il rafforzamento della sicurezza intorno alle abitazioni di due dei principali esponenti dell’opposizione del Paese dopo una «fatwa» un editto religioso lanciata la scorsa settimana da un imam radicale, Mahmud Shaaban, che ha incitato ad uccidere i dirigenti del Fronte di salute nazionale (Fsn), principale coalizione dell’opposizione laica, invocando la sharia. Le misure ha dichiarato un portavoce del ministero interessano Mohamed El Baradei, ex numero uno dell’Aiea, l’agenzia dell’Onu per l’energia nucleare e premio Nobel per la pace nel 2005, e Hamdeen Sabbahi, ex candidato alla presidenza nel giugno 2012.

l’Unità 8.2.13
La speranza tradita della rivoluzione jasmine
di Umberto De Giovannangeli


LÀ DOVE EBBE INIZIO la speranza, ora rischia di essere annientata. Nel sangue. Quelli contro Chokri Belaid, sono stati spari sulla Primavera araba. La rivoluzione «jasmine» aveva riscritto l’agenda politica non solo della Tunisia ma, in un benefico effetto domino, dell’intero Medio Oriente arabo. I ragazzi che si ribellarono, due anni fa, al «padre padrone» Ben Ali, lo fecero mossi da principi che nulla avevano a che fare con il tradizionale armamentario ideologico dell’Islam radicale. A muoverli era stato un
insopprimibile bisogno di libertà. La loro è stata la rivoluzione dei diritti oltre che dei bisogni (un lavoro, una casa...). L’esecuzione, perché di questo si è trattato, di Belaid leader del Fronte popolare tunisino, l’opposizione parlamentare di sinistra al governo islamista di Ennahda rende ancor più drammatica la crisi politica che da settimane paralizza il governo tunisino e che il premier islamico, Hamadi Jebali, ha dimostrato di non saper gestire. La spaccatura di Ennahda aggiunge caos al caos. Sangue al sangue. Prima di Chokri Benaid, è bene ricordarlo, a essere vittima di una violenza «mirata» era stato il sindacalista Mohammed Lofti Nagdh. Esecutori e mandanti di
questa sanguinosa strategia della tensione, non puntano solo alla destabilizzazione. Il loro obiettivo è ancora più ambizioso: uccidere la speranza del cambiamento. Colpire la Tunisia per lanciare un messaggio agli altri Paesi che hanno «osato» ribellarsi a gerontocrazie da sempre al potere, rifiutando, al tempo stesso, di essere reclutati, ideologicamente e militarmente, nell’«esercito» jihadista. In questo senso, la scelta della Tunisia è tutt’altro che casuale. Perché la Tunisia ha rappresentato per lungo tempo il percorso di riforma più equilibrato in tutta l’area attraversata nel 2011 dalle «primavere arabe». Primavere che rischiano di essere spazzate via da un islamismo estremista che non riconosce diritto di cittadinanza a un’opposizione laica, democratica, progressista. È l’Islam che si fa regime. Che intende coartare, magari in nome di elezioni vinte, ogni istanza alternativa. Per evitare il peggio, l’unica strada percorribile è quella indicata dai due partiti della cosiddetta «troika» di governo il Congresso per la Repubblica (il cui leader è Moncef Marzouki, presidente della Repubblica) e Ettakatol, membro dell’Internazionale socialista (il cui leader è Mustapha Ben Jaafar, presidente della Costituente): lavorare insieme per proteggere gli ideali e i valori della «rivoluzione dei gelsomini». L’alternativa è la guerra civile.

il Fatto The Independent 8.2.13
Rivoluzione perduta
Islamizzazione o caos armato la Primavera è ormai tradita
di Robert Fisk


L’altro ieri la “rivoluzione dei gelsomini”, da tutti presa ad esempio come pacifico rovesciamento di un regime tirannico e dispotico, è stata macchiata dal sangue di un innocente. Chokri Belaid ne è diventato il martire più importante. Belaid è stato abbattuto dinanzi alla sua casa di Tunisi da quattro colpi d’arma da fuoco. Esponente di spicco della coalizione del Fronte Popolare, formazione politica di opposizione, Chokri Belaid aveva senza dubbio molti nemici. Aveva ricevuto, solo negli ultimi tempi, innumerevoli minacce di morte. Lo scorso fine settimana mentre stava pronunciando un discorso in occasione di un incontro politico organizzato dal Fronte Popolare, è stato interrotto dall’irruzione in sala di numerosi provocatori a volto coperto che hanno impedito la prosecuzione dei lavori.
Spesso Belaid aveva accusato il partito Ennahda di Rachid Ghannouchi, il partito più importante della coalizione di governo di stampo islamista che regge le sorti della Tunisia, di incitare alla violenza. Mentre un’ambulanza portava via il cadavere di Chokri Belaid, una folla enorme si è riversata per le strade urlando la stessa parola d’ordine delle “rivoluzioni arabe”: abbasso il regime. Questa volta però la rabbiosa invettiva era rivolta a Ghannouchi e ai suoi sodali e non al dittatore Ben Ali, deposto due anni fa.
Il governo ha tentato di salvare la faccia e di tirarsi fuori da eventuali sospetti. Lo stesso Rachid Ghannouchi ha definito l’assassinio “un crimine ignobile” e ha aggiunto che Ennhada è “completamente innocente e nulla ha a che vedere con l’omicidio di Chokri Belaid”. Gli autori dell’attentato e i loro mandanti politici, ha ribadito Ghannouchi, “appartengono a quelle forze politiche i cui interessi sono direttamente minacciati dalla rivoluzione e dalla transizione democratica”. Rachid Ghannouchi ha trascorso venti anni in esilio, per lo più a Londra, e ha frequentemente accennato alla possibilità che i superstiti dell’elite politico-affaristica che circondava Ben Ali al momento stiano complottando per rovesciare la nuova Tunisia democratica.
TUTTAVIA migliaia di tunisini sono scesi in piazza dirigendosi verso il ministero dell’Interno e il ministero della Giustizia ritenuti colpevoli di non aver saputo impedire l’assassinio di Belaid. Le organizzazioni sindacali hanno reagito proclamando uno sciopero generale fino alla fine della settimana, mentre Ghannouchi ha indetto un giorno di lutto nazionale. Dietro l’assassinio di tre giorni fa si cela una storia tristemente nota a qualunque egiziano e a qualunque tunisino. È la storia di una leadership islamista eletta dal popolo che si batte per contenere e spegnere le fiammate dei salafiti ribadendo continuamente che dalle prossime elezioni emergerà un governo assolutamente laico e democratico. Esattamente come il governo egiziano di Mohammed Morsi, i leader tunisini cercano disperatamente di delineare un quadro costituzionale capace di garantire tanto i gruppi laici quanto gli elettori islamisti. Ma il tentativo appare disperato e finora non ha dato frutti significativi.
Se l’Islam è religione di Stato – dicono i critici – allora è inevitabile che la sharia non possa che essere l’architrave di tutto l’ordinamento legislativo. E per quale ragione la bozza di Costituzione prevede l’istituzione di un “supervisore dei media” se in Tunisia è prevista la più assoluta e totale libertà di stampa? Contraddizioni cui nessuno vuole o sa rispondere. Nel frattempo si rincorrono voci inquietanti, spesso fatte circolare dello stesso ministero dell’Interno. Secondo queste voci i gruppi salafiti impediscono il regolare svolgimento delle lezioni in diverse università del Paese, minacciano i laici e terrorizzano gli agenti e i funzionari delle forze di polizia locali.
RACHID Ghannouchi in una intervista concessa l’anno passato, ha dichiarato che non avrebbe mai fatto ricorso ai vecchi metodi di Ben Ali consistenti nell’incarcerare e torturare i salafiti e che la reazione della polizia britannica che, dopo gli attentati di al Qaeda a Londra, non aveva effettuato arresti di massa, ma aveva indagato a fondo per individuare i responsabili, lo avevano convinto a comportarsi allo stesso modo. Certo la folla che presidia le piazze gli sta chiedendo di fare giustizia e lo mette sotto pressione. Nelle prossime settimane televisioni e stazioni radio ripeteranno chissà quante volte i discorsi di Chokri Belaid che faceva l’avvocato ed era un eccellente oratore. Non è stato lui a dire, in uno dei discorsi più famosi, che “in seno ad Ennhada ci sono gruppi che predicano e incitano alla violenza” e che “tutti gli oppositori di Ennhada sono potenziali bersagli della violenza”? Il presidente Moncef Marzouki, il principale esponente laico all’interno della coalizione di governo, doveva parlare dinanzi al Parlamento europeo di Strasburgo quando è stato raggiunto dalla notizia dell’assassinio: “Chokri Belaid è stato assassinato sapendo che dovevo parlare dinanzi al Parlamento europeo”, ha detto.
“È un chiaro messaggio indirizzato a noi e che noi ci rifiutiamo di accettare. Respingiamo le minacce e continueremo a smascherare i nemici dello Stato”. I nemici dello Stato. Frase dagli echi sinistri. Sta di fatto che la polizia sta usando i lacrimogeni contro i manifestanti, un comportamento che ci riporta al passato. La rivoluzione tunisina – la più incruenta di tutta la “primavera araba” – si sta avviando sulla stessa strada già imboccata dal-l’Egitto?
© The Independent Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

il Fatto 8.2.13
Tunisi, scene da guerra civile “In Libano cominciò così”
Le opposizioni accusano il partito religioso Ennahda per l’omicidio di Belaid
La polizia arresta il suo autista
di Enrico Fierro


Preferisco morire per le mie idee piuttosto che di vecchiaia e di noia”. Queste parole che Chokri Belaid, l’avvocato leader della sinistra e dei diritti civili ucciso due giorni fa in un agguato, amava ripetere ai suoi militanti, stanno facendo il giro della Tunisia. Belaid sapeva di rischiare grosso ma continuava a combattere per una Tunisia laica e democratica, per questo è già diventato un simbolo della nuova primavera, un “martire” di quella rivoluzione dei gelsomini che non intende precipitare nel medioevo salafita.
Il suo assassinio sta infiammando la Tunisia e rischia di precipitare il Paese in una guerra civile senza fine. Scontri si sono ripetuti nel centro di Tunisi, assalti a sedi del partito islamista Ennahda a Sousse e a Zarzis, una delle enclave salafite. Proprio qui, pochi mesi fa, come dimostra un video trasmesso su You Tube, i radicali islamici avevano lanciato la loro fatwa contro Belaid.
Le immagini mostrano un barbus che accusa il leader laico di essere un apostata e un infedele. Ed è proprio la determinazione e l’eroismo dell’uomo che sapeva di essere nel mirino, a suscitare sdegno per la sua uccisione e simpatie che vanno ben oltre il partito che rappresentava. In migliaia ieri mattina hanno accompagnato il feretro di Belaid dall’ospedale Charles Nicolle a casa sua. Ma la giornata campale è oggi, quando la salma del leader assassinato sarà portata nel cimitero di Djellaz nella parte dedicata ai martiri.
IL SINDACATO Ugtt ha proclamato uno sciopero generale e invitato tutti i tunisini democratici a partecipare alla cerimonia. “Nessun leader di Ennahda – ha fatto sapere la famiglia – deve essere presente al funerale”. Il sospetto, diventato ormai convinzione diffusa, è che l’omicidio sia opera delle frange salafite vicine ad ambienti dei servizi segreti tunisini. Le ricostruzioni e la dietrologia corrono, soprattutto dopo l’arresto di Zied Thari, l’autista di Belaid. Alcuni dicono di averlo visto confabulare con gli attentatori pochi minuti prima dell’agguato, altri parlano di un sua lunga telefonata con un alto esponente del partito laico Nida Tunnes, Appello alla Tunisia. L’uomo è stato arrestato e lungamente interrogato dalla polizia criminale. Scoppia la Tunisia ed implodono le forze che sostengono il governo.
LA TROIKA (Ennahda, Ettakol e Congresso per la Repubblica) che governa il Paese è spaccata dopo l’annuncio del premier Jebali di sostituire l’attuale governo con tecnici indipendenti. Ennahda, il partito islamico che è maggioranza in Parlamento, ha detto no, Ettakol, l’altra componente dell’esecutivo, si è detto invece d’accordo per un cambiamento radicale. L’unico dato certo è che la data delle elezioni non è stata ancora fissata.
Dove va la Tunisia? In molti temono verso una guerra civile e lo dicono apertamente. Come Ridha Belhai, direttore esecutivo di Nida Tounes: “In Libano la guerra civile iniziò con gli omicidi politici. Per questo denunciamo con forza la responsabilità politica del governo e di Ennahda”. “Nessuno ha protetto Belaid – denuncia Maher Hanin, leader del movimento Al Jaumbhouri – era stato minacciato più volte anche pubblicamente. Abbiamo indicato nome per nome gli imam che predicano odio nelle moschee, ma nessuno ci ha ascoltato. Non è possibile tenere le elezioni in questo clima”. Sulle responsabilità del governo e in modo particolare del ministro dell’Interno, punta il dito anche Lofti Azzour, responsabile della sezione tunisina di Amnesty International. La tensione è altissima. Ieri in serata è stata assaltata una sede della polizia a Tunisi, e per tutto il giorno si sono rincorse voci sulla morte di un ragazzo negli scontri a Gafsa, mentre gli oltranzisti religiosi continuano a soffiare sul fuoco.
Su Facebook sono comparse pagine che inneggiano all’assassinio di Chokri Belaid, mentre esponenti salafiti accusano il governo francese: “La Francia vuole fare della Tunisia una seconda Algeria”. Anche i fantasmi di un colonialismo remoto servono a portare benzina alle fiamme che stanno distruggendo la Rivoluzione dei Gelsomini.

Corriere 8.2.13
«Mio marito Chokri ucciso dai sicari della dittatura islamica che avanza»
di Lorenzo Cremonesi


TUNISI — «Ma ci pensa? Siamo al punto che gli attivisti dell'opposizione democratica sono più a rischio ora, quando denunciano la violenza degli estremisti islamici, che non ai tempi delle battaglie contro la dittatura di Ben Ali. Allora ci mettevano in carcere, al peggio picchiavano, ma oggi ci uccidono senza pietà per la strada, come è accaduto a mio marito». Colpisce la compostezza sofferente ma fiera di Basma Khalfaani mentre accetta di parlare dell'assassinio mercoledì mattina di Chokri Belaid, il leader della sinistra assurto a martire della Tunisia laica in lotta contro i fondamentalisti, che è anche padre delle loro due figlie di 5 e 8 anni. Gli occhi cerchiati di rosso, la voce esausta, ma assieme una determinazione consapevole nel ricevere le condoglianze di migliaia e migliaia di attivisti, militanti, studenti, semplici cittadini. «Pure, non perdo le speranze nella giustezza della nostra primavera araba due anni fa. Non è il capolinea, ci troviamo nel mezzo di un complesso processo politico», aggiunge tutto di un fiato. «La reazione spontanea delle piazze dimostra che esiste una Tunisia sana, pronta a combattere per la libertà. Ciò prova che mio marito non è morto invano. Serve per scuotere le coscienze. I prossimi giorni ci vedranno rilanciare la nostra guerra contro i radicali religiosi». La conferma arriva dalle ultime cronache. Oggi sarà una giornata difficile, sono attesi scontri per il funerale di Belaid nel pomeriggio. Gli islamici saranno riuniti in occasione delle preghiere del venerdì e potrebbero rinfocolare la tensione già alle stelle. Il sindacato ha indetto un grande sciopero generale di protesta. E il braccio di ferro tra laici e religiosi potrebbe peggiorare dopo che ieri gran parte di Ennahda, il maggior partito islamico al potere, non ha accettato le proposte del premier Hammadi Jebali di sciogliere il governo per designare un esecutivo tecnico per traghettare il Paese alle elezioni anticipate.
Chokri 48 anni, Basma 42, erano sposati dal 2001. Lei ci ha parlato ieri pomeriggio per una ventina di minuti seduta nel minuscolo salotto nell'abitazione dei genitori di lui a Jebel Jelud, uno dei tanti anonimi quartieri popolari alla periferia della capitale. Nulla a che vedere con il lusso dei palazzi coloniali nel centro e men che meno con le villone lungo la costa. Qui le casupole sono cubi di cemento grezzo non più alti di due piani, definiti da dedali di viuzze con le fogne a cielo aperto. In altri Paesi del Medio Oriente e Nord Africa sarebbero, di questi tempi, centri di reclutamento ideale per i gruppi islamici radicali. Ma non in Tunisia, dove le sinistre ed il movimento sindacale hanno radici popolari antiche. I muri tutto attorno sono decorati con il pugno chiuso e la stella rossa, che sono i simboli del Partito dei Patrioti Democratici, di cui suo marito era il leader indiscusso.
Basma non ha dubbi: «Ennahda protegge e sostiene gli estremisti islamici. A parole condanna il terrorismo, ma nei fatti i sicari di mio marito sono figli suoi». Le prove? «Da oltre un anno Chokri subiva minacce continue: telefonate anonime, lettere, messaggi via Internet. Alcuni imam aizzavano ad ucciderlo pubblicamente nei loro sermoni dalle moschee. Lui ripetutamente aveva contattato la polizia e il ministero degli Interni per chiedere protezione. Ma non aveva mai ricevuto risposte. L'ultima volta era avvenuto sabato scorso a Le Kef, nel centro sud, dove la nostra organizzazione voleva tenere una riunione con i militanti locali. Sapevamo che gli islamici intendevano attaccarci, come poi è puntualmente avvenuto. Avevamo avvisato la questura, ma nessuno si è fatto vivo».

La Stampa 8.2.13
La Primavera araba ha bisogno di tempo per fiorire
I segnali di cambiamento sono piccoli ma visibili
di Francesca Paci


Le primavere arabe tardano a fiorire, d’accordo. La Tunisia è in piazza come 2 anni fa, l’Egitto scopre adesso che i Fratelli Musulmani avevano una loro personalissima agenda per il dopo Tahrir, il nuovo premier libico Ali Zeidan incassa il plauso dell’occidente ma è ben lungi dal controllare l’ingovernabile eredità del Colonnello che stuzzica l’appetito qaedista, la Siria annaspa in alto mare. Eppure ci vuol tempo, ripetono i rivoluzionari della prima ora, compresi quelli che come Belaid cadono sulla via della «transizione».
Accanto all’avanzata islamista e al rinculo dei sogni democratici infatti, i Paesi spazzati dal vento ribelle del 2011 mostrano piccoli segni positivi.
Belaid è stato ammazzato, ma dopo poche ore oltre 20 mila manifestanti invadevano le strade di Tunisi, Sidi Bouzid, Monastir, costringendo il premier alla crisi di governo. Non solo. Nonostante le squadracce salafite terrorizzino da mesi i connazionali laici (a gennaio sono stati aggrediti 50 giornalisti), mercoledì «Nessma Tv»
(la stessa, irriducibile, processata per aver trasmesso Persepolis) aveva mandato in onda la vittima che accusava i Fratelli Musulmani di Ennahda di coprire le violenze. Belaid ha pagato con la vita come il collega Lotfi Naqdh, ucciso a ottobre a Tataouine. Ma all’epoca dell’ex presidente Ben Ali, uno dei 10 peggiori nemici della libertà di stampa per il «Committee to Protect Journalists», capitava che l’attuale premier Jebali passasse 14 anni in prigione per un presunto golpe islamista, che l’attivista Sihem Bensedrine fosse arrestata per aver denunciato a una tv londinese l’uso fisso della tortura al ministero dell’Interno e che il giornalista anti-regime Taoufik Ben Brik scontasse 6 mesi di carcere per una pretestuosa lite tra automobilisti. Ma allora pochi leggevano le note di Human Rights Watch, Amnesty e Freedom House su censura e oppositori politici desaparecidos.
Come leggere l’Egitto, dove l’anarchia nutrita dallo scontro tra il governo islamista e l’opposizione ha regalato 10 punti all’inflazione e al Cairo l’infame primato di capitale araba delle molestie sessuali? Nei primi 3 mesi di presidenza Morsi, il Nadim Center ha registrato 43 casi di morte, 88 di tortura, 7 abusi sessuali da parte delle forze dell’ordine. La violenza contro le donne aumenta ma, provano le associazioni HarrassMap e Nazra, cresce anche il numero di chi rompe il tabù. Due anni fa sarebbe stato impossibile vedere Hania, una delle oltre 20 ragazze violentate il 25 gennaio scorso a Tahrir, parlarne su «alNaharTV» insieme al marito Sharif, impavido quanto il padre di Franca Viola nell’affermare che lo stupro non è un’onta per chi lo subisce ma per chi lo commette. In fondo, così come ieri il blogger Abdel Kareem pagava con 4 anni di carcere gli insulti all’islam e al Faraone Mubarak, gli egiziani non sono diventati lupi dopo la rivoluzione: in un rapporto del 2010 due terzi degli uomini ammetteva molestie, la metà ne riteneva colpevoli le vittime, 5 donne su 10 erano quotidianamente sottoposta a violenze e il 3% le denunciava.
Storicamente le rivoluzioni divampano e poi frenano. Quella francese ha impiegato 82 anni, un biennio di terrore, 2 colpi di stato e tanta restaurazione prima d’imporsi, archetipo democratico. La monarchia assoluta inglese è diventata quella costituzionale nota per il Bill of Rights dopo 60 anni di tormenti e una guerra civile. Gli Stati Uniti ci hanno messo 15 anni a liberarsi dalla corona britannica e dovevano ancora regolare i conti tra nord e sud. Le rivoluzioni di velluto hanno acceso l’Est Europa nel 2003 e in parte restano incompiute.
Il mondo arabo è passato dagli ottomani al colonialismo, a dittature autoctone. Le oltre 60 mila vittime siriane e gli jihadisti di al Nusra in campo con i ribelli non possono far dimenticare la repressione stile nord-coreano degli Assad (Mubarak a confronto sembrava illuminato). Nè il caos libico autorizza il rimpianto del macellaio Gheddafi, per decenni maglia nera delle organizzazioni per i diritti umani: sotto il Colonnello avremmo forse visto migliaia di persone attaccare gli islamisti rei dell’omicidio dell’ambasciatore americano Stevens o manifestare contro l’attentato al console italiano a Bengasi?

Repubblica 8.2.13
“Riprendiamoci la Rivoluzione” la Tunisia in rivolta dopo il delitto
Nuovi scontri. Oggi le esequie di Belaid, sciopero anti-governo
di Vanna Vannuccini


TUNISI — Passano correndo decine di ragazzi giovanissimi, inseguiti da schiere di agenti della sicurezza con caschi e divise nere a bordo di rombanti motociclette, passa una lunga fila di camionette della polizia pronte a mettere dentro quelli che possono acchiappare. Davanti al ministero dell’Interno due agenti sono riusciti ad afferrare un ragazzo attraverso un buco nel filo spinato e tirandolo per il maglione l’hanno trascinato senza una scarpa dentro il ministero. Anche ieri come mercoledì l’avenue Bourghiba nel cuore di Tunisi è stata al centro degli scontri. Gruppi di agenti in tenuta d’assalto aspettavano i dimostranti agli angoli dei vicoli, sparando lacrimogeni che per fortuna il vento, che si è levato in giornata dopo una mattina di pioggia, disperdeva. I ragazzi rispondevano con qualche sassata. Ma è solo un assaggio. La giornata cruciale sarà oggi, quando centinaia di migliaia di persone sono attese ai funerali di Chokri Belaid. La salma sarà accompagnata al cimitero di Djellaz dalla casa paterna nel quartiere di Jebel Jeloud. Lo choc nel paese è stato grande.
«Morti ce ne sono già stati. Persone picchiate in carcere, attaccate per strada. Ma questo è il primo omicidio politico organizzato e preparato a sangue freddo» dice un professore di scienze politiche all’Università di Tunisi, Hamadi Redissi: «Segnerà una svolta che può sconvolgere lo scacchiere politico». I sindacati hanno indetto per oggi uno sciopero generale, anche questo un novum per la Tunisia. In alcune università lo sciopero è già iniziato e giudici e avvocati già da ieri non lavorano. «Chi ha fatto la rivoluzione oggi non è più politicamente rappresentato. Chokri denunciava la violenza sempre più dilagante. Ennahda dice di essere contro la violenza, ma protegge i Comitati per la salvaguardia della rivoluzione di cui tutti i partiti, anche quelli della coalizione di governo, hanno chiesto lo scioglimento. E ha un occhio di estremo riguardo per i salafisti, che hanno goduto finora di un’assoluta impunità».
Il ministero dell’Interno ha reso noto che un poliziotto è morto negli
scontri di mercoledì e che l’autista di Chokri Belaid è sotto torchio, interrogato per diverse ore, ha detto un portavoce. Qualcuno l’aveva visto da una finestra parlare con uno degli attentatori prima che Belaid uscisse di casa. O forse ne fanno un capro espiatorio, dice una vicina di casa della famiglia Belaid che è venuta a dargli l’ultimo saluto, visto che invece degli attentatori invece non c’è traccia.
Noura è una giovane donna che avevo conosciuto durante la manifestazione per i diritti delle donne nell’agosto scorso. Viene dalla provincia, da Gafsa, una famiglia di contadini con sei figli. Già da studentessa si era fatta conoscere, per la sua resistenza. «Le camere della casa dello studente - spiega - venivano date solo a chi pagava una tangente, era il 2004, io ho deciso di occupare la casa dello studente per quindici giorni. Fu il mio avvio alla politica». Più tardi creò un comitato dei diplomati disoccupati, ne nacquero altri e furono una delle punte di lancia della rivoluzione. Più volte era stata arrestata. Ha ancora speranza? «Nulla è cambiato. Arbitrio e tortura ci sono sempre. La polizia non è cambiata.. ». Ma Noura ha ancora speranza: «Fermeremo gli estremisti. Le donne tunisine non accetteranno mai di vivere come in Afghanistan». «Abbiamo fatto la rivoluzione e oggi ci dobbiamo chiedere: a che scopo? », mi dice uno studente che fa il tassista. Tutti sperano in un governo di unità nazionale, che sciolga i Comitati e metta finalmente ai posti di governo gente competente, che faccia decollare l’economia, la situazione oggi è ancora peggio che ai tempi di Ben Ali. «La proposta del primo ministro Jebali, anche se subito respinta da Ennahda, potrebbe essere una via d’uscita», mi dice Redissi. «Jebali è un ennahdista moderato, un realista. Il clan di Gannouchi l’ha subito respinta, sono contro qualsiasi concessione. Ma ormai hanno perduto qualsiasi credibilità, qualsiasi virtù morale in cui la gente aveva potuto credere. Alle elezioni ebbero il 35 per cento, oggi l’80 per cento della popolazione è contro di loro. Per questo è stato ucciso Chokri: perché trovava sempre più consensi proprio in quell’elettorato che aveva votato Ennahda fidandosi delle loro promesse: lavoro, un po’ di benessere economico e tolleranza religiosa».

Sette del Corsera 8.2.13
Iniezioni pericolose
Il caso delle immigrate di origine etiope sterilizzate imbarazza Tel Aviv
di Stefano M. Torelli

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Sette del Corsera 8.2.13
Online la mappa dei raduni neonazisti

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l’Unità 8.2.13
Russia
Le Pussy Riot ricorrono alla Corte di Strasburgo


Gli avvocati delle Pussy Riot hanno presentato un ricorso alla Corte euoropea dei diritti dell’uomo a Strasburgo. Maria Alekhina, Yekaterina Samutsevich e Natalia Tolokonnikova erano state condannate l’anno scorso a due anni in carcere per aver cantato una «preghiera» anti Putin nella cattedrale di Cristo Salvatore a Mosca. Secondo i legali, la condanna inflitta viola 4 articoli della Convenzione europea per i diritti dell’uomo, che prevede la libertà di espressione, il diritto alla libertà e alla sicurezza, il divieto della tortura e il diritto a un processo giusto. Le Pussy Riot sono state condannate per «teppismo motivato dall’odio religioso».

Corriere  8.2.13
La ragazza era madre di una bimba di otto mesi
«È una strega»: 20enne bruciata viva
In Papua Nuova Guinea. La giovane era accusata di aver usato la stregoneria per uccidere un bambino di sei anni

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Repubblica 8.2.13
Gran Bretagna, migliaia di morti per malasanità
Rapporto shock del governo: “Pazienti gravi abbandonati negli ospedali”. Scontro sui tagli
di Enrico Franceschini


LONDRA — Pazienti anziani e vulnerabili abbandonati sui propri letti, non lavati per un mese, costretti a urinare e defecare nelle lenzuola, lasciati senza cibo né acqua, al punto da costringerli a bere quella dei vasi di fiori per dissetarsi. E poi medici e infermieri assenti, cure inesistenti, malati rilasciati quando sono ancora gravi. Morale: 1200 morti che potevano essere salvati. Stiamo parlando di un ospedale del Terzo Mondo? No, parliamo del Mid Staffordshire Nhs Foundation Trust di Stafford, un ospedale pubblico della civile Inghilterra, messo sotto accusa come mai era capitato prima dal rapporto di una commissione d’inchiesta governativa. Un triste e isolato caso di malasanità? No, purtroppo, perché altri cinque ospedali del Regno Unito sono sotto inchiesta, con il sospetto di altre 3000 morti «non necessarie», cioè che si potevano e dovevano evitare, pazienti lasciati morire per incuria, negligenza, menefreghismo. O addirittura perché conviene così: «Un sistema che mette gli interessi dell’azienda ospedaliera e il controllo dei costi prima dei pazienti e della loro salute», afferma il rapporto.
Uno scandalo come non se n’erano mai visti nella sanità pubblica britannica? Sì, ma non poi così sorprendente per chiunque abbia avuto a che fare con gli ospedali di questo paese. Dove puoi attendere ore in un pronto soccorso senza che nessuno ti guardi. Dove invece di guarire da una malattia, quando si viene ricoverati, ci si ammala di una più grave infezione, per le spaventose condizioni d’igiene in cui versano gli ospedali. Dove quasi tutti hanno una horror story da raccontare. Quelle raccontate dal rapporto reso noto adesso, e sparato ieri in prima pagina da tutti i giornali, sono effettivamente orribili. I 1200 pazienti lasciati o perfino fatti morire allo Staffordshire Hospital sono tra il 2005 e il 2009. L’ospedale in questione ha dimostrato «mancanza di compassione, umanità, professionalità », accusa il rapporto, «i più fondamentali diritti di dignità umana non sono stati osservati, gli anziani e i pazienti più vulnerabili venivano lasciati a se stessi, non lavati anche per un mese, non nutriti, privati di ogni rispetto». Alcuni dovevano farsela addosso e restare lì per giorni sotto le lenzuola bagnate. E chi tra infermieri e medici provava a dare l’allarme veniva sottoposto a bullismo e costretto a tacere.
Questa è la nazione in cui è nato il welfare, l’assistenza pubblica. Qui, durante la cerimonia di inaugurazione delle Olimpiadi di Londra 2012, hanno avuto un posto d’onore le infermiere, come eroine della storia patria. Ma i tagli al bilancio della sanità, iniziati da Blair e continuati da Cameron, hanno lasciato la National Health Service in condizioni disastrose. Anche se ora i laburisti protestano contro i tagli e la graduale privatizzazione della sanità. Un manager dello Staffordshire è stato promosso a un incarico da 270 mila sterline l’anno (300 mila euro), un altro è andato in pensione con una buonuscita di 400 mila sterline, ma in Inghilterra, per la gente normale, è meglio non ammalarsi. La sanità pubblica, come la scuola pubblica, da queste parti esiste ma sarebbe tutta da rifare.

l’Unità 8.2.13
Sassoon:Gramsci è tornato a Londra
Londra, se il ministro conservatore riscopre Gramsci...
Intervista allo storico Donald Sassoon, che spiega i motivi di una dichiarazione che ha fatto scalpore
di Umberto De Giovannangeli


«AL DI LÀ DELL’USO CHE GOVE NE FA, È COMUNQUE SIGNIFICATIVO CHE UN MINISTRO CONSERVATORE SOTTOLINEI CHE “per un’analisi delle forze che ostacolano la liberazione dei giovani dalle catene dell’ignoranza, raccomanderei di prestare un’attenzione particolare all’opera di Antonio Gramsci...”».
A rilevarlo è uno dei più autorevoli storici inglesi: Donald Sassoon. Allievo di Eric Hobsbawm, Sassoon è ordinario di Storia europea presso il Queen Mary College di Londra. Il professor Sassoon è autore di diversi saggi sulla storia d’Italia, fra cui Togliatti e la via italiana al socialismo (Einaudi, 1980) e Cento anni di socialismo (Editori Riuniti, 1997). Con Rizzoli ha pubblicato inoltre Il mistero della Gioconda (2006) e Come nasce un dittatore. «È interessante rilevare rimarca Sassoon che nella citazione di Gramsci fatta da Gove, vi sono due concetti rilevanti nel pensiero gramsciano: la “liberazione” dei giovani e le “catene” dell’ignoranza».
Professor Sassoon, un ministro conservatore inglese, Michael Gove, titolare del dicastero dell’Istruzione, «riscopre» Gramsci. Un fatto che ha fatto scalpore in Gran Bretagna. Iniziamo dal contesto...
«Gove fa il suo intervento “gramsciano” ad un think tank centrista, “The Social market foundation”. Probabilmente il discorso è stato scritto da un collaboratore di Gove, visto che il ministro di questi tempi è impegnato nel pararsi dalle critiche, di sinistra e di destra, sulla riforma degli esami nei licei del Regno Unito. Resta il fatto che anche se il testo non è direttamente farina del suo sacco intellettuale, è sicuro che Gove ha dato il suo visto politico-culturale. E questo è indubbiamente significativo. Va peraltro rilevato che in questo momento parlare di Gramsci in Gran Bretagna vuol dire evocare qualcuno che è relativamente noto, però solo tra le élite. L’eco che quella citazione ha avuto sulla stampa, in particolare sul giornale con cui Gove ha aperto una polemica, The Guardian, estenderà la curiosità verso Gramsci..».
Ma qual è la finalità di questa operazione politico-intellettuale?
«Gove usa Gramsci per attaccare gli insegnanti progressisti, che in Gran Bretagna sono in maggioranza, criticando, in un modo un po’ caricaturale, il loro presunto “permissivismo” che, secondo il ministro, farebbe sì che gli “studenti seguano i propri istinti invece di essere guidati”. Nell’affermare una funzione pedagogica della scuola. Gove lo fa evocando una figura di sinistra. La cosa curiosa, e degna di riflessione, è che quella figura sia proprio Gramsci».
Come viene evocato Gramsci?
«È il Gramsci che dice che i nuovi orientamenti scolastici, cosiddetti “naturali”, sono diventati esagerati, e che prima almeno ai ragazzi venivano insegnati fatti concreti. In questa chiave, Gove fa un’altra citazione di Gramsci, quella in cui afferma, che “la cosa più insidiosa di questo tipo di scuola è che chi l’appoggia lo fa sotto la bandiera della democrazia, mentre in realtà essa è destinata a perpetuare, approfondendole, le differenze sociali”. Questa è una critica che Gramsci fa alla riforma Gentile; critica che è contenuta nei Quaderni dal carcere».
I riflettori puntati su Gramsci indicano la sua attualità.
«Certo che sì. L’intervento di Gove e il dibattito che si è aperto dimostra non solo che Gramsci e le sue riflessioni restano attuali, ma che Gramsci viene addirittura evocato da un ministro dell’Istruzione, per giunta conservatore, e che ministro...».
Vale a dire?
«Michael Gove dimostra di sapersi difendere in modo brillante, con un ottimo senso dei media, soprattutto perché è stato a lungo un giornalista, e alcuni lo indicano addirittura come un possibile successore di David Cameron. Se così fosse, sarebbe il primo premier britannico che abbia letto Gramsci, cosa che è sfuggita a Tony Blair...». Al di là dell’uso polemico, c’è un aspetto di Gramsci che Gove rimarca in particolare?
«È lo stesso ministro a indicarlo: “Antonio Gramsci annota era uno dei massimi critici delle strutture di potere del suo tempo; strutture che solidificavano l’egemonia delle élite tradizionali italiane”. Egemonia: altro concetto chiave nel pensiero gramsciano». Anche attraverso le citazioni di Gramsci, quale immagine ha inteso dare di sé il ministro dell’Istruzione di sua Maestà? «Gove vuole dipingere quelli che lo hanno ostacolato, con successo, il suo tentativo di riformare il sistema degli esami delle scuole superiori, come dei vetero-tradizionalisti, con forti caratteri classisti, mentre lui è l’operazione che ha tentato è un vero riformatore che vuole tornare a un modo tradizionale, appunto perché facendo così favorirebbe i ceti meno abbienti».

La Stampa 8.2.13
“L’origine del mondo”, la donna del quadro di Courbet ha un volto
Francia, mostrato «il vero viso» della modella

qui

Paris Match qui

Corriere 8.2.13
Europeismo rivoluzionario
Sergio Romano: serve un'Unione politica che si separi dagli Usa
di Antonio Carioti


Sarà la gravità della crisi che ha colpito l'Occidente, sarà la scarsa consapevolezza di cui danno prova, specie nel nostro Paese, le classi dirigenti che dovrebbero fronteggiarla. Ma sta di fatto che Sergio Romano vede nubi minacciose addensarsi all'orizzonte. Noto per la ponderata pacatezza dei suoi giudizi e per il disincantato realismo che li caratterizza, nel libro Morire di democrazia (Longanesi) l'editorialista del «Corriere» assume posizioni radicali e avanza proposte per molti versi rivoluzionarie.
Romano innanzitutto boccia l'alibi di chi tende a scaricare sull'euro e sulle istituzioni di Bruxelles la colpa dei guai che ci affliggono. A suo avviso il male è assai più profondo, riguarda il funzionamento stesso, o per meglio dire l'inceppamento, delle democrazie occidentali in questa fase storica. I processi di globalizzazione hanno indebolito la sovranità degli Stati, ma noi continuiamo a votare per governi nazionali la cui capacità d'incidenza va scemando a vista d'occhio. E i politici, per farsi eleggere, devono da una parte impiegare enormi somme di denaro (non sempre di provenienza lecita) e dall'altra fare grandi promesse destinate a non essere mantenute. C'è da stupirsi se infuriano i demagoghi dell'antipolitica, non solo in Italia?
Nel frattempo acquistano sempre maggiore influenza poteri privi di legittimazione democratica, in primo luogo l'establishment finanziario «composto — scrive Romano — da persone che non hanno altra cittadinanza fuor che quella del "mercato" e reagiscono con insofferenza e dispetto a ogni tentativo pubblico di regolamentare il loro mestiere». Quando poi però dai loro comportamenti derivano danni enormi alla collettività, è l'erario che deve sborsare per porvi riparo.
In parallelo, anche come antidoto alla supremazia dei potentati economici, di cui spesso i partiti sono succubi, cresce il ricorso ai tribunali e il ruolo della magistratura si espande in modo enorme. Gli esiti sono spesso infelici: dalle inchieste di Tangentopoli è nata una «seconda Repubblica» più corrotta della prima; dall'incapacità dei politici d'imporre all'Ilva il rispetto delle normative ambientali è scaturita un'iniziativa giudiziaria che rischia di gettare sul lastrico l'intera Taranto. Non va meglio su scala globale, visto che le corti internazionali finiscono per amministrare una giustizia che riesce a colpire soltanto i criminali sconfitti o comunque deboli, mentre le azioni delle maggiori potenze ne rimangono immuni.
Nelle stesse opportunità di comunicazione offerte da Internet Romano vede diverse insidie. Falso gli appare il mito della completa gratuità, che finisce per svalutare l'informazione, e ancor più quello dell'assoluta trasparenza, agitato per esempio dai partiti dei Pirati: attività come la diplomazia richiedono infatti un ampio grado di riservatezza, perché se tutto avvenisse in pubblico, nessuno direbbe mai quello che pensa veramente. Anche le forme di partecipazione tipiche dei social network sono un'arma a doppio taglio, poiché moltiplicano le possibilità di protestare proprio mentre diminuiscono le capacità dei governi di soddisfare le richieste dei contestatori.
Insomma, lo scenario dipinto da Romano ha tonalità decisamente cupe. E ancor meno incoraggiante è la sua diagnosi sull'Italia, afflitta da ulteriori problemi rispetto alla condizione già difficile delle altre democrazie europee, per via di fattori come il divario incancrenito tra Nord e Sud, il peso del Vaticano nella vita pubblica, le abbondanti scorie lasciate dalle ideologie totalitarie del Novecento.
La soluzione può venire solo a livello continentale, da un'Europa che assuma davvero i caratteri di uno Stato federale: si tratta di attribuire al Parlamento di Strasburgo, scrive Romano «il diritto di esprimere un governo e ai cittadini dell'Ue quello di eleggere il loro presidente». Quindi, pare di capire, un modello semipresidenziale alla francese esteso all'intera Unione, che sarebbe un'audacissima inversione di rotta rispetto alla camera di compensazione tra le istanze dei diversi Stati che sono oggi le istituzioni europee. Difficile immaginare la strada che possa portare a un simile sbocco, ma Romano lo indica come unica alternativa a una paralisi da cui potrebbero scaturire soluzioni autoritarie. E per giunta prospetta come compito primario dell'Europa unita una svolta radicale in politica estera, cioè la proclamazione di una neutralità di tipo svizzero, la cui immediata conseguenza sarebbe la scelta di «congedare le basi americane» e sciogliere la Nato o tramutarla in qualcosa di profondamente diverso dall'alleanza che abbiamo conosciuto fino ad adesso.
Numerose le obiezioni che si possono muovere all'autentico terremoto prefigurato da Romano, anche su un piano di mero realismo politico. La prima è che la Gran Bretagna non potrebbe mai accettare nulla del genere, tanto che l'uscita di Londra dall'Unione di propria iniziativa, magari in seguito al referendum ventilato dal primo ministro David Cameron, sarebbe in questa logica caldamente auspicabile. Ma non è improbabile che altri Paesi (dalla Scandinavia all'Est europeo) sarebbero inclini a seguirne l'esempio. Inoltre bisognerebbe vincere una doppia paura: la Germania e altri Stati virtuosi dovrebbero superare il timore di accollarsi l'onere dei debiti accumulati dalle nazioni mediterranee; queste ultime dovrebbero avere il coraggio di accettare una situazione in cui l'egemonia tedesca sarebbe nei fatti. E poi chi potrebbe pensare che gli Stati Uniti non muoverebbero un dito di fronte alla prospettiva di perdere alcuni dei loro più rilevanti avamposti militari?
D'altronde le rivoluzioni non possono essere indolori e necessitano di una risolutezza estrema. Merce molto rara al giorno d'oggi. Ma se non saranno gli europeisti a dimostrare di possederla, ammonisce Romano, prima o poi potrebbero farlo i populisti antieuropei. E le basi della democrazia potrebbero incrinarsi. Se non addirittura franare.

Repubblica 8.2.13
La ricerca: a distanza di duemila anni individuati grazie alla genetica i discendenti dell’antica popolazione
I risultati smentiscono anche la tesi che risale a Erodoto: non è vero che provenivano dall’Oriente
Gli Etruschi fra noi “Da Arezzo a Volterra resiste il loro Dna”
di Elena Dusi


Li davano per spacciati già prima dell’anno zero. Invece gli etruschi sono ancora vivi, arroccati in due località della Toscana. Nella zona del Casentino e a Volterra la storia non è riuscita a cancellare la loro presenza e una piccola goccia del Dna etrusco è passata agli abitanti moderni. A individuarne le tracce, con le loro particolari “lenti” capaci di leggere il genoma di duemila anni fa, è stato un gruppo di genetisti delle università di Ferrara e Firenze e del Cnr.
Il ritrovamento di tracce genetiche etrusche oggi non è il solo aspetto stupefacente della ricerca pubblicata su Plos One.
I suoi autori concludono anche che gli antichi Tirreni sono nati in Italia e non provengono dall’Anatolia occidentale. L’ipotesi che il popolo etrusco abbia assunto contorni propri in Lidia per poi migrare nel centro Italia era figlia di Erodoto. Dionigi di Alicarnasso al contrario sostenne l’origine italica degli autori di capolavori come il Sarcofago degli Sposi. «Un’ondata di agricoltori e allevatori dell’Anatolia è effettivamente migrata in Italia 5-6mila anni fa. Così si spiegano le tracce genetiche osservabili nella penisola. Ma gli Etruschi sono eredi della civiltà villanoviana locale» spiega David Caramelli, antropologo dell’università di Firenze.
L’origine degli etruschi e il mistero del loro tramonto sono da decenni al centro delle indagini di archeologi e storici. Ora a queste discipline si è affiancata la genetica. Con strumenti sempre più potenti, questa scienza riesce ormai a leggere nei dettagli il genoma degli uomini di oggi come di quelli antichi. Per il Dna degli etruschi sono stati usati 30 campioni di ossa ritrovate nelle necropoli di Tarquinia e Casenevole, vicino Grosseto. I frammenti del genoma antico sono stati messi a confronto con campioni di genoma medievale e di individui contemporanei (370 toscani e 5mila provenienti da altri paesi mediterranei).
Mentre fra etruschi e toscani del medio evo c’è una continuità genealogica, nessun filo lega i Tirreni con gli abitanti odierni di Firenze e Murlo (le due località del centro Italia messe sotto speciale esame). «L’eredità etrusca — spiega Guido Barbujani, genetista dell’università di Ferrara — si è probabilmente dissolta con le migrazioni degli ultimi 5 secoli». Ma la presenza del Dna dei Tirreni ha tenuto duro appunto a Volterra e nel Casentino. «Capire il perché non fa più parte del nostro lavoro. La palla ora torna a storici e archeologi» conclude Barbujani. «Ma non è strano che nel giro di pochi chilometri il Dna vari di molto. L’abbiamo già notato in Sardegna: in Ogliastra c’è una continuità fortissima con i popoli nuragici. In Gallura, 100 chilometri più a nord, nessun legame ». Barbujani ricorda come sua madre, originaria di Adria, gli avesse trasmesso l’orgoglio di essere etrusco fin da bambino. «Ad Adria però non abbiamo trovato tracce. E lei non me l’ha mica perdonato».

Corriere 8.2.13
Il Corriere della Sera 2,96 milioni di lettori. La «Gazzetta» prima

di Giovanni Stringa

MILANO — C'è sempre la «Gazzetta dello Sport» al primo posto nella classifica dei quotidiani più letti d'Italia. Sono 4.246.000 i lettori della «rosa», con un calo di 115 mila unità rispetto all'ultima rilevazione (-2,6%). Sono i numeri della nuova indagine Audipress — la «2012/III» — sui lettori medi dei quotidiani, che sono la risultante delle rilevazioni dal 2 aprile all'8 luglio per il secondo ciclo 2012 e dal 17 settembre al 16 dicembre per il terzo ciclo 2012, basate su 29.441 interviste totali.
Dietro la «Gazzetta» — in una classifica che vede una netta preponderanza dei segni meno — ci sono «Repubblica» con 3.008.000 lettori e un ribasso di 191.000 unità (-6%) e il «Corriere della Sera» con 2.964.000 lettori (-230.000 unità, vale a dire un calo del 7,2%). Al quarto posto di nuovo un quotidiano sportivo — il «Corriere dello Sport» — a quota 1.809.000 e con una perdita di 7.000 unità (-0,4%). Seguono «La Stampa» con 1.667.000 lettori e un ribasso di 313.000 unità (-15,8%), il «Messaggero» con 1.274.000 lettori (-78.000, -5,8%) e il «Resto del Carlino» con 1.263.000 lettori (-51.000, -3,9%). All'ottavo posto c'è — unico quotidiano, tra i 10 più grandi, con il segno «più» — «Tuttosport», che ora ha 1.108.000 lettori (+1.000, +0,1%), in nona posizione si trova il «Sole 24 Ore» con 1.034.000 lettori (-157.000, -13,2%) e chiude la hit parade dei primi dieci la «Nazione» (949.000 lettori, 23.000 in meno, -2,4%). Tra le altre testate con il segno meno ci sono il «Giornale» con 630.000 unità (-48.000, -7,1%), «Libero» con 339.000 (-68.000, -16,7%) e il «Fatto quotidiano» con 481.000 (-29.000, -5,7%). Tra i giornali con il segno più ci sono l'«Unità» con 281.000 lettori (+32.000, +12,9%) e il «Tempo» con 199.000 lettori (+17.000, +9,3%).
Passando dai quotidiani a pagamento alla «free press», resta in testa «Metro» con 1.395.000 lettori (-68.000, -4,6%), seguito da «Leggo» con 1.352.000 lettori (-72.000, -5,1%) e «Dnews» a quota 175.000 lettori (-26.000, -12,9%).
I lettori complessivi dei quotidiani — sempre secondo i risultati dell'indagine — sono 22.502.000 con un calo di 1.218.000 (-5,1%). Moltissimi i casi, anche per i settimanali e i mensili, di testate con i lettori in calo. Per quando riguarda internet, i visitatori di siti web dei quotidiani sono 3.534.000.

Repubblica 8.2.13
Repubblica, doppio record: primi in edicola, oltre 3 milioni i lettori
I dati Audipress e Ads sul 2012. Il nostro quotidiano si conferma il più venduto (330mila copie al giorno) e il primo come numero di lettori

qui