domenica 10 febbraio 2013

l’Unità 10.2.13
Europa progressista con Bersani
Premier e leader a Torino: la vittoria del centrosinistra in Italia serve per un’Europa più giusta
Il messaggio di Hollande
Il leader Pd critica Monti sul bilancio Ue: una vittoria di Pirro. «Smacchieremo il giaguaro Berlusconi»
di Simone Collini


Alza le braccia al cielo, con i pugni chiusi, che è un po’ un incitamento a combattere in queste due ultime settimane di campagna elettorale e un po’ già un gesto di vittoria. Solo che questa volta, di fronte alle migliaia di persone che riempiono il Teatro Regio di Torino, Pier Luigi Bersani non lo fa dopo aver finito di parlare, come è successo in tante altre occasioni. Lo fa invece prima di aprire bocca. Ma non è poi così strano. Fino a questo momento, all’iniziativa titolata «Renaissance for Europe», sono andati al microfono leader di partito, capi di Stato e di governo progressisti provenienti da tutta Europa. E tutti si sono schierati col Pd, auspicato la vittoria del centrosinistra, lanciato la volata a Bersani per la corsa a Palazzo Chigi. Era scontato? Forse no, se per mesi c’è stato, in Italia, chi sosteneva che all’estero si tifava per un Monti-bis. Il videomessaggio inviato da François Hollande, gli interventi di Martin Schulz, Gerhard Schröder, Harlem Désir, Hannes Swoboda e tutti gli altri descrivono un quadro diverso. Non solo perché esplicitano il loro sostegno a Bersani per la conquista della premiership, ma anche perché tutti esprimono un giudizio negativo sul vertice di Bruxelles dedicato al bilancio europeo, che secondo Monti ha invece avuto un «esito soddisfacente». No, dicono i leader progressisti, lì c’è stata la vittoria del fronte conservatore, e perché si arrivi a quella che tutti definiscono una «Europa più giusta» serve voltare pagina. Il che si può fare soltanto se nell’Unione aumenteranno i governi a guida progressista, dicono tra gli applausi della platea del Teatro Regio.
«Se alla fine del vertice europeo a festeggiare è Cameron significa che tutte le altre sono vittorie di Pirro», dice Bersani notando che l’esito dell’incontro di Bruxelles segnala che il «ripiegamento» dell’Ue è ancora in corso. «L’Italia
vince davvero se vince l’Europa e se l’Europa perde l’Italia non può vincere», è il messaggio che il leader del Pd lancia all’indirizzo di Monti. Il nostro premier può anche essersi battuto per 24 ore, ma resta il fatto che il rapporto di forze vigente in Europa è ancora a favore di Angela Merkel e di chi vuole continuare sulla strada dell’austerità. Per questo tutti i progressisti europei auspicano la vittoria di Bersani alle elezioni di fine mese, per questo hanno siglato insieme al leader Pd un documento, il cosiddetto «manifesto di Torino» (va ad aggiungersi alla «dichiarazione di Parigi» siglata prima delle presidenziali francesi) che propone una maggiore integrazione europea per poter realizzare quegli obiettivi di «pace, prosperità e progresso» che devono essere propri del progetto comunitario.
Obiettivi che oggi sono impediti da equilibri ancora sbilanciati verso il fronte conservatore.
Dice Massimo D’Alema aprendo i lavori e riferendosi proprio all’esito del vertice europeo sul bilancio: «Abbiamo il dovere di dire che non è accettabile il compiacimento dei leader conservatori, i sorrisi di Cameron e di Merkel, dopo che hanno tagliato gli investimenti per ricerca e infrastrutture, in un momento in cui l’Europa avrebbe bisogno del contrario». Il presidente della Fondazione europea per gli studi progressisti (Feps), che ha organizzato questa iniziativa (con il sindaco di Torino Piero Fassino che si è caricato sulle spalle la parte logistica) sottolinea il punto di fondo: «Occorre liberare l’Europa dalla morsa di due destre, una tecnocratica, conservatrice e avara, che domina a Bruxelles e le destre, nazionaliste, populiste e becere, di cui noi qui in Italia abbiamo un esemplare davvero singolare».
È praticamente inutile fare nomi. Non a caso Bersani, abbassate braccia e pugni chiusi, dice prima di tutto rivolgendosi ai leader progressisti: «Io so cosa volete, cosa mi chiedete. Io devo battere Berlusconi, un po’ per me e un po’ per voi». Una pausa. E poi, con una risata: «Smacchieremo il giaguaro». Perché poi in questa giornata si può essere ottimisti e ridersela, soprattutto insieme a Schulz, che quando gli raccontano che Bobo Maroni pensa di battere una nuova moneta in Lombardia subito sforna la battuta: «Si potrebbe chiamare il “marone”». E Bersani, ghignando: «Sì, un marone, dieci maroni...». Si può ridere perché l’iniezione di energia data da questa iniziativa torinese è forte e perché Berlusconi non deve veramente più sapere cosa inventarsi se ora propone alla sinistra un dialogo sulle riforme. «Ma si riposi», lo liquida con una battuta Bersani. Il leader del Pd non sottovaluta la destra: «C’è, esiste, ma noi la battiamo».
La platea del Regio dimostra di condividere con lunghi applausi. In sala ci sono molti militanti e simpatizzanti del Pd, esponenti dei Democratici per Portas, ma soprattutto numerosi torinesi incuriositi dall’iniziativa, al punto che qualche centinaio di persone non riesce ad entrare nel teatro. Un’analoga iniziativa era stata organizzata a Parigi la primavera scorsa, prima delle presidenziali francesi, e aveva portato bene a Hollande. Ora tutti sperano di fare il bis, perché la convinzione è che soltanto aumentando il numero dei governi a guida progressista e facendo fronte comune (prima delle europee del 2014 i progressisti presenteranno una candidatura unitaria per il prossimo presidente della Commissione Ue) si potrà realizzare una vera Unione. «L’integrazione non si può fermare alla moneta e alle banche», dice non a caso Bersani, «non basta un’Unione mercantilista che riduca il modello sociale, bisogna andare verso gli Stati uniti d’Europa e bisogna mettere a punto una lotta contro i paradisi fiscali perché la ricchezza scappa e la povertà resta».
L’avversario è la destra, è Berlusconi, ma il leader Pd critica anche la «demagogia» di chi, Monti compreso, ha messo il proprio nome sul simbolo elettorale e ha costruito un partito attorno a una persona. «L’Europa ci guarda, ma abbiamo visto oggi che non siamo soli e che abbiamo una responsabilità che va oltre noi stessi». Il prossimo appuntamento dei progressisti europei è a maggio a Lipsia, prima delle elezioni tedesche, e la speranza condivisa è che Bersani partecipi da presidente del Consiglio.

l’Unità 10.2.13
Leader e premier progressisti: «Vinca il Pd, anche per l’Europa»
Da Hollande a Di Rupo, da Milanovic da Ponta a Schulz, il tifo per il centrosinistra
di S. C.


Deve vincere Bersani. In francese, tedesco, spagnolo, anche in inglese. La frase che risuona nell’affollato Teatro Regio di Torino è sempre questa. Perché in gioco c’è sì il destino dell’Italia, ma anche quello dell’Europa e quindi di tutti i Paesi comunitari. Come, dicono via via leader di partito e di governo, ha dimostrato anche l’insoddisfacente vertice di Bruxelles sul bilancio dell’Unione. I leader progressisti europei lanciano la volata al leader del Pd per le elezioni di fine mese, a uso e consumo di chi ancora, da noi, va dicendo che all’estero si fa il tifo per un Monti-bis.
Segretari di partito e capi di Stato e di governo si ritrovano a Torino per ripetere quel che già hanno fatto nel marzo scorso a Parigi, prima delle presidenziali che hanno portato François Hollande all’Eliseo. La vittoria del Partito socialista francese ha rotto quell’asse «Merkozy» che ha saputo soltanto battere sul tasto dell’austerità producendo più danni che benefici. Ma come è emerso anche dal vertice europeo di venerdì, che ha ridotto le risorse per gli investimenti destinati a crescita e sviluppo, ora va allargato il fronte progressista se si vuole l’Unione riesca veramente a voltare pagina. E tutte le speranze ora sono riposte in Bersani, che insieme agli altri leader progressisti firma il cosiddetto «manifesto di Torino», un documento comune per un’Europa che metta al centro la solidarietà, il progresso, la crescita.
«Hai brillantemente vinto le primarie», riconosce al leader Pd Hollande ricordando che anche lui ha guidato il Ps per diversi anni prima di ricevere l’investitura attraverso i gazebo e poi arrivare all’Eliseo. «Ti auguro lo stesso successo», dice il presidente della Francia nel videomessaggio che ha mandato all’iniziativa di Torino, perché «l’Europa ha bisogno di politici credibili» e l’Italia di «progressisti alla guida per il risanamento necessario», perché vanno sconfitti «i conservatori e i populisti, nostri comuni avversari» e perché l’Ue «ha bisogno di Francia e Italia unite, per agire insieme». E poi, tra gli applausi scroscianti della platea del Teatro Regio: «Contate sui vostri alleati. Io esprimo tutto il mio incoraggiamento a Bersani e la mia fiducia negli elettori italiani».
Ma non c’è solo la Francia a tifare per il centrosinistra italiano. Alla seconda tappa dell’operazione «Renaissance for Europe», che nella primavera scorsa ha portato bene a Hollande e che si concluderà con una terza tappa a Lipsia, prima delle elezioni in Germania, parlano quelli che già ce l’hanno fatta e quelli che sperano nell’effetto traino. Zoran Milanovic, che ha conosciuto Bersani tre anni fa a Piacenza e oggi è primo ministro della Croazia, il premier romeno Victor Ponta, che dice «non posso immaginarmi l’Italia con Berlusconi, sarebbe come immaginare la Romania con Ceausescu», il primo ministro del Belgio Elio Di Rupo, che punta il dito contro i «demagoghi» di casa nostra ma confessa di non vedere di buon occhio neanche un eventuale nuovo governo dei tecnici: «La politica non si gioca nei campi di football dice con evidente riferimento all’acquisto del Milan di Balotelli pane e partite è una formula vecchia ma gli italiani meritano un governo che sarà rispettato all’estero, un governo progressista guidato da Bersani, perché la politica non è tecnica, altrimenti basterebbe un computer, perché non si governa per i numeri ma per gli esseri umani».
Milanovic, Ponta, Di Rupo oggi sono alla guida dei loro Paesi e però sanno che finché non cambieranno gli equilibri a livello comunitario anche Croazia, Romania e Belgio faranno più fatica a fronteggiare la crisi economica che investe l’intero continente. E lo dicono anche guardando al vertice di Bruxelles sul bilancio europeo, che non ha prodotto un esito tale da definire quella che definiscono «un’Europa più giusta». Per questo sperano in una vittoria del centrosinistra italiano o, per dirla con il ministro per gli Affari esteri del governo francese Bernard Cazeneuve, invitano Bersani «a raggiungerci quanto prima alla nostra tavola».
C’è però anche chi tifa Pd guardando, oltre che all’immediato, al medio periodo. Cento giorni dopo l’Italia è la Germania che va al voto, e la Spd spera in un effetto traino da casa nostra, con una «Europa più forte grazie anche a un’Italia più forte”, come dice l’ex Cancelliere Gerhard Schröder. Martin Schulz non è soddisfatto di quanto deciso a Bruxelles anche perché, dice parlando in italiano, «l’Europa non è solo la somma di 27 interessi nazionali». Il presidente del Parlamento europeo sa che la decisione presa l’altro giorno dai capi di Stato e di governo difficilmente passerà indenne dall’esame di Strasburgo. Troppo poco c’è per la crescita, per lo sviluppo, per la solidarietà. «L’Europa ha fallito», non esita a dire. E ora bisogna voltare pagina, il fronte progressista deve reagire se non si vuole che l’Unione rimanga irrimediabilmente «sotto minaccia». La minaccia principale è quella rappresentata dalle forze conservatrici e dai diversi populismi. Che in Italia sono ancora rappresentati da Silvio Berlusconi. «Il 27 gennaio i nostri pensieri erano rivolti alle vittime dice ricordando l’uscita dell’ex premier su Mussolini proprio nel giorno della memoria altri pensavano ai dittatori, ai carnefici, e questi personaggi non sono degni di guidare il nostro futuro». Per questo sostiene Bersani, «un grande leader, una bellissima persona». E poi l’altra battuta che fa scattare l’applauso: «Come amico prova improvvisando in un italiano tifoso di calcio lo dico con molta difficoltà: viva l’Italia».

La Stampa 10.2.13
“L’Italia snodo chiave per la rimonta socialista”
Hollande, Di Rupo e Schulz a fianco del leader del Pd «Basta mercantilismo, è arrivata l’ora di un’Europa solidale»
di Antonella Rampino


La Germania L’ex Cancelliere Gerhard Schroeder Nel suo intervento ha elogiato, tra l’altro, l’opera di Mario Draghi alla Bce: «Draghi ha fatto un lavoro dannatamente buono per mantenere forte l’Euro»
Il presidente Hollande ha inviato un video per Bersani. Era presente Elisabeth Guigou, presidente della Commissione Esteri dell’Assemblea Nazionale Martin Schulz, uno dei leader socialdemocratici tedeschi, è presidente del Parlamento europeo Elio Di Rupo premier del Belgio «La politica non si gioca sui campi di football. Gli italiani hanno bisogno di un governo che sia rispettato» Alfredo Pérez Rubalcaba, spagnolo, è il segretario generale del Psoe
«Tra due settimane, votando in Italia, si vota per il futuro dell’Europa», dice il premier belga Elio Di Rupo di fronte ai duemila del Teatro Regio. Ma sarebbe un errore considerare alla stregua di una mera esibizione elettoralistica la due giorni «Renaissance for Europe» convocata da quattro fondazioni tra le quali Italianieuropei e che, tra i democrats italiani di rito non bersaniano, è stata quindi subito ribattezzata «le dalemeidi». Certo Bersani non si fa scappare l’occasione, concedendo qualcosa al sorriso e qualcosa al cuore, perchè «voi volete che noi battiamo Berlusconi, e perché «la notizia peggiore della giornata è un disoccupato che si suicida stringendo tra le dita la Costituzione, che all’articolo 1 fonda l’Italia sul lavoro». Ma il punto è che Bersani rivendica al Pd il ruolo di «infrastruttura della partecipazione contro il berlusconismo che è la punta spettacolare del populismo, e che ha finito per minare alle fondamenta il progetto dell’Europa». Al quale, dacché sono al potere le destre, semplicemente si è smesso di lavorare, se non per tagliare, e per tagliare con l’accetta.
Ce ne sarà poi, da parte di Bersani, per l’Europa che «deve diventare Stati Uniti d’Europa» e ribellarsi alla logica «mercantilista dei conservatori”, e per il Ppe e Monti che frequenta i suoi banchi, «dove si va a sedere a Bruxelles, vicino a Berlusconi? ». E per il recentissimo Consiglio europeo che Monti ha appena vantato come una «vittoria italiana», e sul quale invece Bersani fa notare che «se Cameron festeggia, vuol dire che per gli altri è solo una vittoria di Pirro», anche perchè «la materia prima dell’Europa è e resta la solidarietà». Del resto, era stato tranchant al mattino anche Massimo D’Alema, «è ora di finirla con i sorrisetti di Cameron e Merkel, felici che in Europa si sia fatto proprio quel che non si doveva fare, tagliare la ricerca».
La convention dei progressisti europei sciorina il sostegno a Bersani di tutti i leader del socialismo europeo, da Hollande in giù. La vittoria di Bersani sta tanto a cuore perchè è uno snodo cruciale nell’atteso rivolgimento nei rapporti di forza politici in Europa, in molte elezioni e fino a quelle per Strasburgo dell’anno prossimo. È quel che si chiama alternanza, ma la fisiologia è resa indispensabile per riavviare crescita e sviluppo, per battere recessione e disoccupazione, per tenere insieme il Continente Vecchio e dare futuro alle generazioni giovani. Lo dice Bersani, usando parole non sorprendentemente simili a quelle di Giorgio Napolitano, con il concetto di «Europa solidale», quella del Pse, contrapposta all’«Europa mercantile» del Ppe. Ma lo dicono tutti i leader europei. Per Francois Hollande si deve «battere quelli che vogliono utilizzare la collera popolare per fare ancora del liberismo». Per il premier belga Di Rupo «non si governa per i numeri, ma per gli esseri umani, la tecnica non è politica, altrimenti basterebbe mettere al governo un computer». Victor Ponta, il quarantenne premier romeno, in italiano: «Berlusconi per l’Italia è come Ceausescu per la Romania» (Berlusconi si è poi detto compiaciuto del paragone). Il potente presidente del Parlamento Europeo Martin Schulz va all’attacco a testa bassa, «L’Europa esiste perchè è la patria dei diritti, e in un mondo globalizzato la democrazia non è competitiva perchè i diritti costano», e soprattutto il Ppe ha reso l’Europa uno di quei luoghi «dove si prendono decisioni a porte chiuse, e se non c’è trasparenza è ovvio che i cittadini non abbiano fiducia». Un coro, nel quale ovviamente ci sono anche i segretari socialisti, lo spagnolo Alfredo Rubalcaba e il francese Harlem Désir. Stretti, insieme a molti altri tra i quali il vecchio leone Gerard Schroeder, attorno al «Manifesto di Torino». Porterà bene, confida sicuro poi D’Alema mentre sgranocchia un rapido lunch offerto ai leader europei da Piero Fassino a Palazzo di Città, «la riunione precedente di «Renaissance for Europe» fu a Parigi, e poco dopo vinse Hollande. Ora questa per Bersani, e la prossima sarà a Lipsia, prima delle elezioni tedesche. Ma lì, la partita sarà più difficile... ». Forse ha ragione Giuliano Amato, che il giorno prima, quando il convegno era a porte chiuse, aveva segnalato due buone notizie. La prima è che «a sinistra, oggi siamo tutti d’accordo: appena riusciremo ad avere la maggioranza anche in Europa occorre fare subito alcune cose per la crescita». La seconda, è ancora migliore: «a un disoccupato, stavolta l’Europa non proporrà nè un nuovo Trattato, nè una nuova Costituzione».

Repubblica 10.2.13
L’endorsement di Hollande per Bersani “No ai populisti, la Ue vuole credibilità”
A Torino i leader socialisti. Il segretario pd: batteremo la destra
di diego Longhin


TORINO — I big della socialdemocrazia europea sfilano a Torino per sostenere il segretario del Pd nel rush finale. A due settimane dal voto i leader progressisti, riuniti da Massimo D’Alema con la sua fondazione ItalianiEuropei e la Feps, dal palco del Teatro Regio hanno messo in fila tutte le ragioni per cui in Italia serve una svolta. Pier Luigi Bersani prima li ha ascoltati e poi ha chiuso la convention Renaissance for Europe: «So quello che mi chiedete, volete che batta Berlusconi, un po’ per me e un po’ per voi». E sintetizza: «Smacchieremo il giaguaro, anche se non so come si traduce», ma le risate non mancano. Poi si fa serio e promette: «Noi la destra la batteremo. E la nostra prospettiva sono gli Stati Uniti d’Europa».
Duri gli attacchi a Berlusconi. In testa il premier della Romania, il quarantenne Victor Ponta, che parla in italiano, ricordando i suoi studi a Catania. «Per noi l’Europa è un sogno più che per voi e Berlusconi non fa parte di questo sogno, è un incubo». Applausi. Poi va oltre: «Non mi posso immaginare l’Italia con Berlusconi, come non posso immaginare la Romania con Ceausescu. Ma il passato è passato, l’importante è il futuro. La vittoria di Bersani è importante anche per milioni di romeni che vivono in Italia».
Scroscio di applausi quando prende la parola il presidente del Parlamento Europeo, Martin Schulz. Lo stesso che Berlusconi voleva proporre per il ruolo di “Kapò”. Da Torino Schulz ricambia il pensiero del Cavaliere a distanza di tempo: «Il Giorno della Memoria noi abbiamo pensato alle vittime, altri ai dittatori. Questi ultimi non sono degni di guidare il nostro futuro». L’endorsement di Schulz è sentito: «Bersani è una bellissima persona, sono qui per sostenere un amico». Poi chiude con una battuta faticosa per un tedesco: «Come tifoso di calcio dico con molta difficoltà: viva l’Italia». Al football si ispira pure il premier del Belgio, Elio Di Rupo: «La politica non si gioca sui campi». E aggiunge: «Questo governo dei tecnici ha rimesso l’Italia in carreggiata, ma è un governo di transizione tra il governo catastrofico di prima e il governo che l’Italia si merita, cioè progressista ». Per Massimo D’Alema «l’Europa va liberata dalla morsa di due destre, quella conservatrice e tecnocratica che domina a Bruxelles e quella nazionalista, populista e becera, di cui in Italia abbiamo un esemplare singolare. Se vince Berlusconi è un danno per tutta l’Europa».
L’ex cancelliere tedesco Gerhard Schroder è «convinto che per avere un’Europa più forte, serve un’Italia forte», mentre il presidente dell’Alleanza Progressista, Hannes Swoboda, chiede uno scatto in più: «Dopo la vittoria di Hollande — sottolinea
— abbiamo bisogno di un’Italia diversa». Il presidente francese non c’è, ma non ha fatto mancare il sostegno in un video messaggio. «I vostri avversari sono sempre gli stessi, sono anche i nostri — dice Francois Hollande — sono i conservatori, i populisti, chi utilizza la collera, lo smarrimento dei popoli per instaurare ancora più liberismo ». L’auspicio? «L’Europa ha bisogno di progressisti, l’Europa ha bisogno di Italia e Francia unite per agire insieme. Tutta la mia fiducia va in Bersani».
Il leader Pd, accolto sul palco come il prossimo presidente del Consiglio, convince la platea. Ricorda l’operaio che si è suicidato a Trapani: «Per me è una coltellata, senza lavoro non c’è dignità». E poi guarda all’Europa: «Noi sappiamo dove sederci in Europa e sappiamo di essere accettati laddove ci andiamo a sedere. Dicano gli altri, Berlusconi, Monti, Grillo e Ingroia, dove intendono sedersi e dove pensano di essere accettati». Scherza sull’idea di stampare moneta del leader della Lega e candidato in Lombardia, Roberto Maroni: «Ne parlavo con Schulz, suggeriamo un nome: marone. Un marone, dieci maroni ». E rimarca la promessa: «La destra esiste, ma noi la battiamo, archivieremo Berlusconi».

Corriere 10.2.13
Schröder e il dopo-voto: Bersani e Monti sono compatibili
«Il Professore ha guidato l'Italia nella direzione giusta, Pier Luigi non sconfesserà questa linea»
di Giuseppe Sarcina


TORINO — Il «cuore socialdemocratico» dell'ex Cancelliere vuole Pierluigi Bersani presidente del Consiglio. Ma la razionalità e, soprattutto, l'esperienza politica suggeriscono a Gerhard Schröder uno scenario italiano in cui ci possa essere un posto anche per Mario Monti. Rilassato, sorridente, Schröder, 68 anni, ha appena finito di parlare dalla tribunetta del Teatro Regio di Torino. È uno degli invitati seguiti con più interesse dalle oltre duemila persone che hanno affollato il convegno «Renaissance for Europe», con Massimo D'Alema in regia come presidente della «Foundation for european studies» e della Fondazione Italianieuropei.
Tutti i leader, dallo spagnolo Alfredo Pérez Rubalcaba al premier belga Elio Di Rupo fino al presidente del Parlamento europeo Martin Schulz hanno letto, ancora una volta, lo schema della politica italiana in chiave anti-Berlusconi. È lui, sempre lui, il nemico da battere, a quanto sembra per l'intero schieramento progressista europeo. Poche parole, e soltanto critiche, per Mario Monti. Il premier italiano è stato raffigurato (per esempio da Di Rupo che lo ha però solo evocato senza citarlo esplicitamente) come il prototipo del tecnocrate senz'anima, un primo ministro «simile a un computer».
«Io conosco molto bene Mario Monti — comincia la conversazione Schröder — abbiamo collaborato per tanti anni, quando io ero il Cancelliere in Germania e lui commissario europeo a Bruxelles. Non posso dire che siamo sempre andati d'accordo o siamo sempre stati in armonia. Ma è una figura che ho sempre rispettato e continuo a farlo». Il leader tedesco non vorrebbe parlare di politica italiana. Fa una deviazione verso «l'altro Mario», cioè Draghi. Val la pena seguirne il ragionamento, perché è una curva che poi torna di nuovo verso l'Italia. «Mi trovo più a mio agio a commentare le scelte dell'altro Mario, di Mario Draghi. Il presidente della Bce è stato decisivo per il sostegno dell'euro. Le sue parole "farò qualsiasi cosa per sostenere la moneta unica", pronunciate a Londra nel momento più difficile della crisi (26 luglio 2012 ndr) sono state fondamentali. Bene, penso che la linea seguita da Draghi debba essere un punto di riferimento obbligatorio per i politici della zona euro e, dunque, anche per l'Italia». Il governo Monti rivendica di essersi mosso esattamente sul sentiero tracciato dal presidente della Bce, dunque? «Monti ha guidato l'Italia nella giusta direzione, questo dobbiamo riconoscerlo. E sono sicuro che Bersani non sconfesserà questa linea di governo, ma la riproporrà mettendo più attenzione ai temi sociali, al rilancio della crescita, alla creazione dei posti di lavoro, specie per i giovani disoccupati». A Torino i leader progressisti hanno insistito molto «sull'autosufficienza» politica, pragmatica prima ancora che ideologica, dei socialisti e dei socialdemocratici in tanti Paesi europei. In Italia, però, anche in caso di vittoria il Pd, molto probabilmente, dovrà porsi il problema delle alleanze. Monti e Bersani, dunque, sono compatibili? L'ex Cancelliere si lascia andare sul divanetto, ora ride apertamente. «Lo so che cosa vorrebbe sentirsi dire. Ma i leader in politica non possono farsi condizionare da comportamenti o sentimenti personali. Conta la razionalità delle scelte e quindi sono convinto che entrambi sceglieranno le soluzioni migliori possibili per il bene e il futuro dell'Italia. Comunque la risposta è sì: a me pare che siano compatibili». Schröder conosce bene anche Silvio Berlusconi. Si aspettava un ritorno in campo così rumoroso? L'ex leader tedesco si ferma un attimo, prende tempo: «Ancora una volta non tocca a me giudicare le posizioni interne di un politico italiano». Poi si sforza di calibrare le parole: «In realtà no, non sono sorpreso. Qualcuno potrebbe osservare che è un leader che ha fatto il suo tempo. Ma qui l'età non c'entra. È un problema dei cittadini italiani decidere se votarlo ancora, dopo che la politica dei suoi governi ha portato il Paese ad avere qualche problema».

La Stampa 10.2.13
-14 giorni al voto
Bersani: solo di noi potete fidarvi
“Tutti fanno demagogia, qualcuno s’è stupito di un nuovo Monti...”. E sul bilancio Ue: una vittoria di Pirro
di Jacopo Iacoboni


Sul Cavaliere «Questo si presenta qui e dice io non c’ero, ora dice quattro milioni di posti di lavoro... ve lo mandiamo anche in Germania, se avete disoccupazione»
Il leader e l’identità Pd Pierluigi Bersani saluta così la platea del teatro Regio a Torino. Il segretario tiene un discorso per dire «siamo l’unico partito riformista italiano, gli unici a poter battere il populismo, in Europa e in Italia»

«Cattivo Pierluigi, cattivoo», gli grida un signore anziano dalla terza fila, secondo blocco, in alto a sinistra, del Teatro Regio di Torino.

Discorso rivolto ai suoi: «Siamo sempre noi, e smacchieremo il giaguaro»

Il segretario è appena salito sul palco e le luci sparate si sono accese solo per lui - fino a quel momento l’illuminazione era soffusa. Sorride; non è detto che l’abbia sentito, naturalmente, ma salutando la platea trattiene un paio di secondi il pugno sinistro, poi alza il secondo braccio e fa come il gesto della vittoria; nulla di particolarmente ostentato, ma i simboli valgono più dei discorsi, li tengono insieme. E in effetti questo del Regio sarà per Bersani una sorta di specchio rovesciato di ciò che fu il Lingotto di Veltroni, sempre a Torino: il discorso di una forte identità di partito, e di una sana dose di cattivismo. Contro Berlusconi è ovvio; contro Grillo è abbastanza ovvio; contro Monti è sorprendente, almeno in questi toni. «Tutti fanno demagogia, qualcuno però s’è anche stupito di vedere un nuovo Monti. È il meccanismo dei partiti personali, lui, Grillo, Berlusconi, dopo di loro cosa ci sarà? Nulla, mentre dopo Bersani il Pd ci sarà comunque». E ancora, sempre al massimo sarcasmo contro il Professore e il negoziato europeo speso come carta elettorale: «Alla fine festeggia Cameron. Vuol dire che tutte le altre sono vittorie di Pirro».
Bersani torna sulla crescita, necessaria almeno quanto il rigore, in Europa, ma qui sta facendo, decisivo per lui, il discorso da manuale dell’identità del Partito. «Comincerò dicendo chi siamo noi. Di noi potete fidarvi. Siamo un partito riformista di massa. Siamo radicati ovunque. Siamo contro il populismo perché siamo l’unico partito popolare. Siamo un’infrastruttura della partecipazione, della società civile», dice. Il noi è quello a cui ricorre questo gruppo dirigente nei momenti topici della (sua) storia. Certo, «siamo un partito che sa che ci sarà sempre qualcuno, fuori di lui, ben intenzionato e animato dal migliore civismo»; ma suona quasi come una concessione renziana, quel «fuori».
«Questo siamo», dice il capo a conclusione del seminario Renaissance di Italianieuropei; i leader del socialismo europeo - i Rubalcaba, i socialdemocratici tedeschi dell’ex cancelliere Schroeder o di Martin Schulz, o il francese Hollande, che però non s’è spinto al punto di venire fisicamente qui - gli hanno regalato un endorsement importante, che svela - anche abbastanza palesemente - l’obiettivo dell’iniziativa: mostrare che il capo dei democratici italiani è un leader credibile e riconosciuto, e il Pd è affidabile. «Siamo quelli dell’Ulivo di Romano Prodi, di Giuliano Amato, di Massimo D’Alema, quelli grazie ai quali entrammo nell’Unione. Siamo l’unico partito che assicura un legame forte con l’Europa. Noi sappiamo dove sederci, e Berlusconi? I popolari lo accetteranno ancora? ».
Senonché la forte operazione identitaria - andare per esempio in luoghi simbolo della Torino comunista, Borgo San Paolo, il quartiere di Antonio Gramsci - è proprio ciò che consente poi escursioni polemiche inedite contro gli avversari, e è la seconda parte del discorso torinese.
Il bersaglio dei democratici è il populismo, una malattia che «in Europa dilaga», ma da noi «fa scuola». Ovviamente con Berlusconi, per il quale si rispolvera lo «smacchieremo il giaguaro»; Bersani davvero sfotte a man bassa il Cavaliere, «questo si presenta qui e dice io non c’ero... ieri ha detto quattro milioni di posti di lavoro... ve lo mandiamo anche a voi», fa rivolto ai tedeschi seduti in prima fila, «se aveste problemi di disoccupazione». Oppure: «Grazie a lui l’Europa è venuta dall’Italia, allora c’era Tremonti, eravamo sull’orlo del baratro» (dice apposta «baratto», ripetendo un lapsus della star di simpatia della mattinata, il belga Di Rupo). «Qui parlavamo solo di Ruby, ci hanno chiesto di firmare ’sta cosa, ’sta lettera di novanta miliardi in due anni, che ci porta in una situazione ancora più difficile... ». E poi Grillo.
«La destra c’è, ma la battiamo», sì. Ma più complicata è la lotta contro il Movimento cinque stelle. Il segretario non nomina il comico, ma sa che sta crescendo tanto, «la vittoria dei progressisti non cancella il problema di una larga parte di opinione pubblica trascinata sul fronte del populismo». Come la batteranno? «Combatteremo sul tema dell’onestà, della moralità della politica, della riforma dei partiti». La sfida vera, è solo un'ipotesi, è questa.

Repubblica 10.2.13
Un “fronte del Nord” per fermare Maroni
Ora Bersani spera nella svolta “Finalmente fa breccia la scelta utile ma deve crescere in tutta Italia”
di Goffredo De Marchis


«PUÒ essere una svolta. Finalmente, fa breccia l’idea del voto utile. Utile per vincere ». In pubblico Pier Luigi Bersani riconosce la legittimità di tutte le scelte elettorali.
IN PRIVATO, le novità che arrivano dalla Lombardia lo spingono a immaginare un cambio di passo della campagna elettorale che va oltre le regionali e sposta gli equilibri delle elezioni politiche. «Bisogna far capire che la partita è tra il centrosinistra e Berlusconi. In Lombardia e in tutta Italia». Non solo la conquista del Pirellone. La questione cruciale è quella del Senato e dei premi di maggioranza regionali, soprattutto nelle regioni più popolose. Nel risiko democratico, infatti si guarda già alla prossima mossa: l’obiettivo è la Sicilia. Il governatore emiliano Vasco Errani ha convinto Matteo Renzi a scendere a Palermo, tappa non prevista inizialmente nel suo tour elettorale. Dove il sindaco di Firenze può drenare consensi ai centristi. E i sondaggi di Largo del Nazareno registrano qualche spostamento dal centrodestra al centrosinistra grazie alla lista Crocetta.
Ma la Lombardia è più importante dell’isola. Non solo perché elegge ben 49 senatori, ma perché anche la battaglia ammini-strativa segnerà il destino della prossima legislatura. «Se vince Maroni — spiega Enrico Letta che segue la corsa di Umberto Ambrosoli molto da vicino — la Lega si prende tutto il Nord. Significa che il nuovo governo può avere contro la parte più produttiva del Paese. Sarebbe il colmo: un partito in declino che diventa la vera opposizione». Il segnale dei montiani però fa ben sperare. E ha significati superiori al gesto di qualche singolo candidato.
Il premier, oggi, confermerà il no al voto disgiunto. Lo ha già annunciato ieri il suo spin doctor Mario Sechi. Ma tutto il gruppo di Italia Futura, spina dorsale del movimento del Professore, sottoscrive la scelta di Lorenzo Dellai, Borletti Buitoni, Achille Serra, Savinio Pezzotta (Udc), Emanuela Baio. «Il voto disgiunto non è un’alchimia — dicono i seguaci di Montezemolo —. Ambrosoli e Albertini sono due scelte civiche. Vanno bene allo stesso modo. Se si vota il primo si segue un orientamento naturale secondo noi». C’è anche di più. La medesima scelta potrebbe avvenire nel Lazio. I montiani saranno
liberi di votare Zingaretti anziché Giulia Bongiorno, presto arriveranno indicazioni in questo senso. Lo faranno anche con il cuore più leggero, visto che l’avvocato non è candidata con la lista Monti.
Sullo sfondo è chiaramente visibile una spaccatura nell’area del centro. Che può travolgere Albertini ma avere conseguenze sull’assetto dell’intero movimento. C’è la pretesa purezza dei montiani non politici contro il candidato “politico” che ha mollato Formigoni con grande ritardo. E c’è persino una faida cattolica se sono vere le voci che attribuiscono ad Andrea Riccardi, fondatore della comunita di Sant’Egidio, la decisione di “mollare” l’ex sindaco di Milano. Voci raccolte nel gruppo ciellino rappresentato, nella lista lombarda di Monti, dall’ex Pdl Mario Mauro. Gabriele Albertini sente di «godere della piena fiducia del premier». E se oggi non lo vedremo accanto a Monti in un appuntamento milanese è «perchè non ho nemmeno bisogno di tiragli la giacchetta». Fatto sta che ieri la sua corsa al Pirellone ha subito un durissimo colpo.
Il Pd sta a guardare le “beghe” di Scelta civica. La novità della corsa lombarda alimenta l’ipotesi di un’alleanza post voto tra Bersani e Monti. Ma questo al candidato del centrosinistra non dispiace: «L’inciucio non esiste. Esiste l’idea di un governo stabile. Non perdiamo voti dicendo che allargheremo la maggioranza ». Ne ha avuto conferma ieri a Torino incontrando tutti i leader progressisti europei. Vogliono la vittoria del Pd senza buttare a mare il Professore. Monti però sappia che l’evoluzione del quadro
in Lombardia non può prefigurare uno scambio. «Il nostro patto con Vendola non è revocabile — ripete il segretario democratico —. Nei colloqui privati che ho avuto con i leader europei e negli incontri con gli imprenditori nessuno pone delle pregiudiziali su Sel. Il problema non c’è». Ma il punto, secondo i più maliziosi, è un altro. «I montiani hanno capito che se vogliono un accordo istituzionale devono compiere atti concreti», dice Francesco Boccia. E per istituzionale s’intende la trattativa sulle presidenze di Camera e Senato e sul Quirinale.

Repubblica 10.2.13
Tra sindacalisti e intellettuali si fa largo l’idea di sostenere Bersani al Senato
Ma nella base dell’ex pm la tentazione doppio voto “Guai se vince Silvio”
di Antonio Fraschilla e Emanuele Lauria


PALERMO — Votare Ingroia alla Camera e Bersani al Senato per evitare di far vincere Berlusconi in due regioni chiave, Lombardia e Sicilia. La base del movimento Rivoluzione civile comincia a scricchiolare sotto il peso degli ultimi sondaggi che danno un testa a testa tra azzurri e democratici per raggiungere il premio di maggioranza a Palazzo Madama. Sindacalisti della Fiom, leader storici della sinistra e sostenitori convinti del magistrato antimafia, da Milano a Palermo annunciano il loro «voto utile» per sconfiggere una volta per tutte la destra berlusconiana.
Proprio in Sicilia, la terra di Ingroia e delle sue battaglie giudiziarie contro la mafia, in molti aprono al voto disgiunto. Anche in casa Fiom, nonostante tra i candidati ci sia la segretaria regionale uscente Giovanna Marano, in lista alla Camera con Rivoluzione civile. Roberto Mastrosimone, segretario provinciale della Fiom e tra i protagonisti delle battaglie degli operai Fiat a Termini Imerese, non ha dubbi: «Alla Camera voterò in maniera convinta la lista di Ingroia, credo nella sua battaglia e in questo progetto — dice — ma da sempre mi batto per sconfiggere la destra. E non possiamo dare alcuna chance di vittoria a Berlusconi, soprattutto in Sicilia dove il Pdl ha mal governato per anni. Per questo al Senato voterò Bersani e la sua colazione. Non voterò Pd, sia chiaro, ma l’unico centrosinistra che può evitare che Berlusconi torni al potere». Il dubbio in queste ore si insinua in diversi esponenti della base palermitana di Rivoluzione civile: «Voterò certamente Ingroia alla Camera, ma ci poniamo il problema del Senato, soprattutto qui in Sicilia dove il distacco tra Berlusconi e Bersani è molto risicato e pochi voti possono far vincere il pessimo centrodestra, io scioglierò questo dubbio solo alla vigilia del voto, non voglio che tornino a governare i berlusconiani », dice Giampiero Di Fiore, vecchio militante dell’estrema sinistra palermitana.
A Milano ha fatto coming out il presidente del consiglio comunale Basilio Rizzo: non nasconde che voterà Ingroia alla Camera e centrosinistra al Senato. «Non è desistenza, è buon senso - dice -. I sondaggi non accreditano Rc di un risultato vicino all’8 per cento al Senato. Siamo molto più giù. E i voti espressi per una forza che resta sotto la soglia di sbarramento non vengono ridistribuiti su base nazionale: si perdono e basta. Questo, purtroppo, non tutti ancora lo sanno». Secondo Rizzo «il voto disgiunto non solo è utile ma è pure credibile: perché si consente al Pd di non essere condizionato da Monti e si evita di favorire la destra». Sulla stessa lunghezza d’onda Emilio Molinari, altro volto storico della sinistra milanese, ex eurodeputato di Democrazia Proletaria e attivista delle battaglie per l’acqua pubblica: «Alla Camera voto Ingroia perché serve un cuneo per far saltare il dialogo fra il Pd e Monti. Al Senato per il centrosinistra perché l’imperativo è non far prevalere il tentativo di Berlusconi di rendere ingovernabile il Paese».
Dalle pagine di Micromega anche dom Giovanni Franzoni, il teologo e pacifista che nel 1976 fu dimesso dallo Stato clericale per aver dichiarato l’appoggio al Pci, dice che si orienterà per il voto disgiunto: «Potrei determinarmi per dare un’indicazione alla Camera per la lista degli “arancioni” di Ingroia, anche per miei precedenti rapporti di prossimità sia con i Comunisti italiani sia con i Verdi, mentre la preoccupazione per il Senato, affinché non si riproduca una situazione di fragilità in cui si possa avere una maggioranza tranquilla alla Camera ma si è continuamente a rischio per una manciata di voti al Senato, potrebbe indurmi a votare per la coalizione Pd-Sel».

Repubblica 10.2.13
Maria Falcone: “Queste divisioni portano alla sconfitta”


PALERMO — «Non voglio entrare nella contesa politica, però la sinistra non deve perdere le elezioni per le sue lotte intestine come accadde con Prodi». Maria Falcone è in partenza per il Giappone mentre Piero Grasso e Antonio Ingroia si confrontano per la prima volta da politici.
Signora Falcone, il fronte dell’antimafia, comunque schierato su posizioni di sinistra, è diviso. Il no di Ingroia al patto di desistenza per il Senato rischia di fare un gran favore a Berlusconi?
«È un gran peccato che la sinistra non sia in grado di creare un fronte compatto, moderato, democratico come chiede il paese perché l’Italia non è un paese di estrema sinistra. E ancora una volta quella che si profila è una sinistra indebolita che rischia di far vincere l’opposizione».
Grasso accusa Ingroia di favorire il Pdl, Ingroia dice che il limite dell’antimafia è che non ha mai avuto l’obiettivo di eliminare la mafia che è invece l’obiettivo di Rivoluzione civile. Lei che dice?
«Dico solo che la lotta alla mafia
non dovrebbe essere di proprietà di questo o quel partito ma di ogni forza sana della società e che la società civile non può certo sconfiggere la mafia con azioni proprie della magistratura ma con la forza della cultura e del rispetto dei valori della legalità. E naturalmente anche con il voto. Sperando che le forze della sinistra, portatrici di questi valori, non li sacrifichino a lotte fratricide che finirebbero per consegnare il paese ai loro avversari».
(a.z.)

Repubblica 10.2.13
Il buono il brutto il bello e il cattivo
di Eugenio Scalfari


MENTRE cominciavo a scrivere queste note mi sono arrivate due notizie: la prima è una dichiarazione effettuata da un gruppo di candidati nelle liste civiche di Monti che fa capo a Lorenzo Dellai, ex presidente della Provincia autonoma di Trento, che suggerisce agli elettori di votare Ambrosoli alla presidenza della Regione Lombardia anziché il candidato montiano Albertini; uno stesso suggerimento era già stato dato da Ilaria Borletti Buitoni, capolista montiano in Lombardia per la Camera dei deputati. La seconda notizia è che Monti ha da parte sua espresso un parere contrario rilanciando la candidatura di Albertini alla Regione, anche se non ha alcuna possibilità di riuscita e giova soltanto alla eventuale vittoria di Maroni.
Non è un bell’esempio di coerenza con gli interessi generali della democrazia e del paese.
Ma veniamo ora ad un quadro più generale della situazione.
Mancano 14 giorni al voto e la gente si è stufata della politica e di questa campagna elettorale. Lo leggo su molti giornali, ma è proprio così?
A me non pare. Gli ascolti dei dibattiti televisivi sono alti; piazze e teatri dove parlano i protagonisti politici sono pieni; slogan, proposte, invettive, programmi, si incrociano; gli aspiranti a governare elencano i provvedimenti che intendono prendere nei primi cento giorni di governo. Le tifoserie sono mobilitate. Le persone che si incontrano si scambiano tra loro la domanda: come pensi che andrà a finire?
E poi ci sono gli arrabbiati. La rabbia sociale non è un fenomeno soltanto italiano, c’è in tutta Europa, la rabbia, perché l’intero continente è in recessione, la recessione impone sacrifici, i sacrifici provocano sofferenza e rabbia, gli arrabbiati cercano i colpevoli, ma i colpevoli sono tanti e ciascuno sceglie il suo bersaglio.
Vi sembra che tutti questi fenomeni diano un quadro di indifferenza? Gli indecisi sono ancora molti ma negli ultimi sondaggi risultano in diminuzione. L’astensionismo è valutato tra il 20 e il 25 per cento, più o meno come da molti anni in qua. Quindi non è vero che la gente si è stufata. È vero invece che questa campagna elettorale è tra le più agitate e confuse dell’Italia repubblicana.
La conclusione è questa: il bipolarismo semplifica, il multipolarismo complica e la gente si disorienta. Non è indifferenza ma disorientamento, perciò la gente cerca a suo modo di semplificare. Il populismo è certamente una semplificazione. Avreste mai pensato un anno fa che sommando insieme Berlusconi e Grillo si arrivasse almeno al 40 per cento dei consensi registrati dagli ultimi sondaggi? Se non addirittura al 50?
Berlusconi ormai promette la luna a ruota libera; Grillo lancia il suo “vaffa” in tutte le direzioni, sui partiti, sulla politica, sull’Europa, sullo “spread”, sull’euro. Se sapesse che Aristotele enunciò la primazia della politica su tutte le altre attività dello spirito, il “vaffa” colpirebbe sicuramente anche lui.
È possibile che metà degli elettori possano affidarsi a questi Dulcamara? È una semplificazione del tipo “fai da te”; gli schieramenti in campo sono troppi, le differenze tra loro sono sofisticate, il “fai da te” sceglie i due populismi che, ovviamente, sono contrapposti tra loro.
Aggiungeteci la Lega che ha un solo obiettivo: conquistare la regione Lombardia e contrapporre la macro-Regione padana al resto d’Italia. Piemonte-Lombardia- Veneto detteranno legge al governo nazionale, quale che sia il suo colore.
Ma aggiungeteci anche Ingroia che guida una lista molto minoritaria ma che può essere determinante in alcune Regioni, tra le quali la Lombardia, la Sicilia, la Campania. Determinante non per vincere ma per far vincere Berlusconi e la Lega. Analoga in quelle Regioni è la posizione di Monti. A chi contesta ad Ingroia questo gioco a perdere per far vincere il peggiore, la risposta l’ha data Marco Travaglio venerdì scorso a “Otto e mezzo”: il risultato sarà un Parlamento ingovernabile e quindi una legislatura che durerà pochi mesi. Poi si tornerà a votare; forse allora saranno nate una nuova sinistra e una nuova destra, formate tutte e due da gente nuova, anzi nuovissima, alla politica.
Dopo 70 giorni di campagna elettorale che sta per chiudersi, queste belle menti auspicano altri cinque mesi di paese ingovernato e altri tre mesi di campagna elettorale. L’Italia resterà dunque senza guida fino al prossimo ottobre con la prospettiva che nasca a quel punto una maggioranza Ingroia-Grillo. Nel frattempo il mercato avrà messo in mutande la nostra economia e quello che avanza di industria e occupazione. Complimenti di tutto cuore.
* * *
Per completare lo scenario che sta davanti ai nostri occhi bisogna ora spostarsi dall’Italia all’Europa di cui siamo parte integrante.
Ci sono stati in questi giorni due fatti nuovi: il Consiglio dei primi ministri dei 27 Paesi aderenti all’Unione europea e il Consiglio d’amministrazione della Banca centrale (Bce).
Il Consiglio dei ministri e la Commissione si sono incontrati a Bruxelles e hanno discusso per 25 ore di seguito, senza dormire e mangiando qualche panino. Anche lì c’era molta confusione, ciascuno aveva i propri interessi da difendere, magari a scapito dell’interesse generale europeo. Alla fine è stato trovato un compromesso che si può riassumere così: gli interessi dei singoli Paesi membri sono stati tutti parzialmente soddisfatti e, infatti, le decisioni sono state votate all’unanimità come è previsto poiché ciascun Paese ha un diritto di veto e l’unanimità è quindi indispensabile.
Ma sono stati pagati due prezzi molto alti per ottenere questo risultato: il bilancio europeo, che avrebbe dovuto essere largamente aumentato, è stato invece tagliato rispetto al bilancio in vigore da sette anni.
Il Parlamento europeo, anch’esso quasi all’unanimità, si è però opposto a questo taglio e ha messo il veto a quel compromesso. La questione è dunque aperta ed è della massima importanza. Basteranno due cifre per dare l’idea concreta del problema: il bilancio federale degli Usa rappresenta il 22 per cento del Pil americano, il bilancio dell’Unione europea rappresenta invece l’1 per cento del Pil dei Paesi confederati.
Il secondo prezzo pagato a Bruxelles riguarda la politica di crescita economica, per altro da tutti auspicata a parole però, perché non un centesimo, non un provvedimento, non un’idea che rilanci la creatività è stata messa sul tavolo, se non la raccomandazione ad accrescere la flessibilità dei sistemi economici.
Monti è tornato a casa con un piccolo tesoretto di quasi quattro miliardi di euro. Non è molto ma nemmeno poco. Sul resto nulla poteva fare da solo e nulla ha fatto.
* * *
Mentre queste cose accadevano a Bruxelles, a Francoforte Mario Draghi ha messo a fuoco una questione della massima importanza. Riguarda il tasso di cambio euro-dollaro che ormai da molti mesi si è apprezzato a favore dell’euro toccando il suo massimo di 1,36 dollari per euro giovedì scorso. Ma il giorno dopo è intervenuto Draghi ricordando che la Bce non può intervenire sul mercato dei cambi perché il suo statuto non lo prevede. La Bce ha due soli compiti: garantire la stabilità dei prezzi e assicurare al sistema bancario la necessaria liquidità.
L’apprezzamento dell’euro nei confronti del dollaro – ha detto Draghi – è un fatto positivo in questa fase di crisi economica perché è il segno che molti investitori acquistano euro dimostrando con ciò di avere fiducia nella moneta europea piuttosto che in altre valute. Tuttavia – ha proseguito – un eccessivo apprezzamento dell’euro potrebbe abbassare il tasso di inflazione al di sotto dell’attuale livello del 2 per cento che è ritenuto ottimale per la stabilità dei prezzi. Se da questo livello si dovesse scendere nei prossimi mesi verso l’1 per cento, ci si avvierebbe verso una fase di deflazione con un mutamento negativo nella stabilità dei prezzi. In questo caso, intervenire sul cambio estero rientrerebbe nei compiti statutari della Bce che è pronta a farvi fronte.
Risultato: dopo quell’intervento puramente verbale, venerdì il cambio è sceso all’1,33 rispetto al dollaro. Draghi ha confermato così la sua capacità tattica e strategica per salvaguardare il sistema dal punto di vista della politica monetaria, tenendo aperta la porta ai governi affinché prendano le necessarie decisioni per rilanciare l’economia reale. Purtroppo alla sagacia di Draghi non fa riscontro una altrettanto viva sensibilità dei governi per l’interesse generale dell’Europa.
* * *
Mi permetto di suggerire ai lettori il film dedicato a Lincoln: racconta come e con quali prezzi la confederazione degli Stati Uniti d’America diventò uno Stato federale. Per realizzare quest’obiettivo, senza il quale la storia del mondo sarebbe stata completamente diversa, fu necessaria una guerra civile durata quattro anni con seicentomila morti, più della somma dei morti americani nelle due guerre mondiali del Novecento. E, come non bastasse, anche l’assassinio dello stesso Lincoln tre giorni dopo la vittoria e la firma della pace.
L’Europa ha già pagato un prezzo altissimo di sangue, versato in secoli di guerre tra gli Stati europei. L’ultima di esse ha fatto addirittura 41 milioni di morti tra militari, civili e genocidi orrendi. Da questo punto di vista abbiamo larghissimamente pagato e infatti da allora l’Europa ha trascorso quasi 70 anni in pace. Ma l’Europa federale ancora non è nata.
Non abbiamo molto tempo per farla nascere; l’economia globale prevede confronti tra continenti. L’Europa ha più di mezzo miliardo di abitanti, possiede un’antica ricchezza, un’alta vocazione tecnologica e scientifica, è bagnata da tre mari e confina con l’Asia e con l’Africa. Ha una forza potenziale enorme, l’Europa, ma diventerà del tutto irrilevante se continuerà ad essere sgovernata da una confederazione di Stati con una moneta comune usata da poco più della metà di essi.
Abbiamo a disposizione non più di una decina di anni di tempo per arrivare a quel risultato e, poiché si tratta d’un percorso fitto di ostacoli, occorre intraprenderlo da subito. Non è un obiettivo che viene dopo gli interessi nazionali perché è esso stesso un interesse nazionale e non può essere accantonato o timidamente sostenuto. L’Europa deve diventare uno Stato con il suo bilancio, un suo governo, un suo Parlamento, una sua Banca centrale. Per ora ci sono soltanto timidi abbozzi dai quali emerge soltanto un Consiglio intergovernativo che decide solo all’unanimità o con maggioranze altissime dell’80 per cento. Se resteremo in queste condizioni, tra dieci anni saremo solo una memoria nella storia culturale del pianeta. E nulla più.
P.S.
È stato detto tutto il dicibile sulla proposta berlusconiana di abolire l’Imu sulla prima casa rimborsandone entro un mese l’ammontare pagato dai contribuenti. Ma non è stato ancora ricordato un punto di fondo: l’Imu varata nel dicembre 2011 è un’imposta patrimoniale progressiva: i proprietari d’una casa di lusso, con più elevata rendita catastale, situata in quartieri di prestigio, hanno pagato con aliquote progressive. Su 3,9 miliardi di gettito l’abolizione prospettata da Berlusconi sarebbe un grosso regalo ai proprietari di reddito medio alto e altissimo e un’elemosina di pochi spiccioli alla massa dei contribuenti. L’imposta progressiva una volta abolita si trasforma in un beneficio “regressivo” che premia pochi ricchi e fa elemosina a molti poveri. Questo è il vero e maggior difetto della velleitaria proposta berlusconiana.

l’Unità 10.2.13
«Violenza sulle donne, serve l’impegno di chi vuol governare»
di Rachele Gonnelli


Il 14 febbraio l’evento mondiale contro il femminicidio. L’appello delle sostenitrici da Roma: «Investimenti e più informazione»
Un miliardo di donne e di uomini balleranno per strada, nelle piazze di tutto il mondo il prossimo 14 febbraio contro il femminicidio. È l’evento globale One billion rising lanciato dalla scrittrice Eve Ensler, autrice di «I monologhi della vagina», gli stessi che furono letti dal palco di piazza del Popolo nella grande manifestazione «Se non ora quando» che segnò la fine culturale del berlusconismo. In Italia le donne continuano a morire per mano dei loro mariti, fidanzati o ex, a un ritmo vertiginoso di una ogni due giorni, ma il tema del femminicidio non ha neanche sfiorato la campagna elettorale. Perciò le donne, singole e in associazione, che sostengono la festa-protesta di One billion rising si sono ritrovate ieri alla Casa internazionale delle Donne a Roma per chiedere che questo vuoto, questo silenzio, venga colmato e la battaglia contro il femminicidio sia assunto come una priorità della politica.
«Siamo qui per chiedervi un patto di sangue», ha esordito Serena Dandini, rivolta alle molte candidate presenti nella sala strapiena dell’ex Buonpastore. Un «patto» e un impegno unitario contro le discriminazioni di genere, per i diritti delle donne, contro «la famiglia violenta», contro mistificazioni come la cosiddetta sindrome di alienazione parentale o pas «inventata dalla lobby dei padri separati, una patologia che magicamente smette di esistere al compimento del diciottesimo anno». «Serve l’adesione anche dei leader perché dobbiamo creare un’onda», «sensibilizzare, informare», dice ancora la conduttrice tv, spiegando di aver finora ottenuto la risposta di Antonio Ingroia e di Nichi Vendola. «Bersani ha i suoi tempi, arriverà», aggiunge. Tra le candidate che hanno lanciato l’appello ci sono, del resto, la deputata Rosa Villecco Calipari e Laura Puppato, l’unica donna tra i cinque sfidanti alle primarie del centrosinistra, ieri collegata in videoconferenza dal Veneto dove è impegnata come capolista Pd, più tutto il Forum delle donne democratiche. «Monti non ci ha mai risposto, ma magari ci riceverà per San Valentino e finita la scenetta con i cani ci regalerà una rosa o ballerà con noi al One Billion Rising, speriamo di no perché non mi sembra portato», scherza la Dandini. Per il centrodestra l’unico ad aver aderito finora è Gianfranco Paglia di Fli.
Il «patto» poi altro non è che la sottoscrizione della convenzione No More: una piattaforma lanciata a ottobre da associazioni come l’Udi o Giulia per le giornaliste, singole personalità, rappresentanti degli enti locali e dei sindacati, un manifesto-proposta che chiede una serie di impegni concreti al prossimo Parlamento e al prossimo governo, a cominciare dal rifinanziamento dei Centri antiviolenza di cui negli ultimi mesi si denuncia «una moria» a causa dei tagli di bilancio degli enti locali, luoghi dove le donne che denunciano percosse e abusi possano rifugiarsi e avere una adeguata assistenza. La ratifica della Convenzione di Istanbul, lanciata dal Consiglio d’Europa nel 2011 contro la violenza di genere è stata approvata tardivamente dal governo Monti ma non in via definitiva da Camera e Senato e le donne di No More sostengono che comunque non basta se mancano i concreti strumenti di attuazione. Come corsi di formazione sulla violenza di genere per poliziotti e giornalisti e una rilevazione sistematica, integrata e omogenea su tutto il territorio nazionale, dei casi di violenza domestica da affidare all’Istat, per una verifica dettagliata della situazione e delle carenze di servizi nel territorio.
La Dandini non è una semplice testimonial o madrina ma una delle promotrici di No More, e porta in giro per l’Italia l’appello insieme al suo spettacolo-denuncia «Ferite a morte», che tornerà a Roma all’Auditorium l’8 aprile. Nel frattempo le rappresentanti della piattaforma No More insieme a quelle del comitato Cedaw (Committee on the Elimination of Discrimination against Women) Italia, sotto l’egida dell’Onu, ai primi di marzo, cioè subito dopo le elezioni, parteciperanno a New York alla convention mondiale contro la violenza sulle donne. E lì fanno notare le donne l’Italia non potrà vantare una forte riduzione dello «spread» di civiltà. Visto che, come dice Rosa Calipari «in questo Paese siamo diventati tutti centri di costo, perdendo il profilo di persone», Serena Dandini prova a metterla così: «Ogni donna uccisa costa allo Stato un milione di euro, vediamo se ci ascoltano».
Le donne sono decise a «fare rete, lobby, quello che ci vuole». Intendono continuare a lavorare in modo unitario sulla base della piattaforma No More e sono decise a ricovocare le candidate che hanno aderito, una volta e se elette, subito all’indomani del voto. Da Rosa Rinaldi di Rivoluzione civile a Luisa Laurelli del Pd, da Celeste Costantino di Sel a Sara Vatteroni della lista Ingroia, da Titti Di Salvo a Ileana Piazzoni, sempre di Sel, a Puppato e Calipari del Pd. «Abbiamo ripreso la nostra voce negli ultimi due anni e a queste elezioni siamo aumentate perché siamo riuscite a ottenere l’alternanza di genere, anch’io per questo sono candidata, borderline al Senato ma ci sono», dice Ivana della Portella del Pd. «L’importante aggiunge è mantenere quest’intreccio forte, superare la visione in cui ognuno guarda al suo orticello, solo facendo squadra possiamo ottenere risultati».

l’Unità 10.2.13
«Un Paese per donne» Domani all’Eliseo la risposta della politica


Una video-inchiesta montata dalla regista Cristina Comencini con tante storie di donne dell’Italia di oggi, storie belle e storie problematiche, per un «racconto corale». Così si presenta l’associazione «Se Non Ora Quando?» per incontrare rappresentanti di tutte le forze politiche. L’appuntamento è per domani alle ore 12 al Piccolo Eliseo di Roma. Il video si chiama ”Un Paese per donne: le parole per dirlo” e sarà presentato insieme al manifesto democrazia paritaria, welfare, diritti civili e ad un’analisi comparata, da un punto di vista di genere, dei programmi dei partiti. «Perché questo Paese che vogliamo assuma voce e volto», dice l’associazione, attivando una mobilitazione attraverso l’uso partecipato dei video. Dal Sud al Nord, dalle città alle province.

il Fatto 10.2.13
Ascolti record per le tribune elettorali dei “fascisti 2.0”
Candidati in Parlamento, Casapound e Forza Nuova sbancano l’Auditel nelle interviste su raiTre e cercano legittimazione politica
di C. P.


Settecentomila persone attaccate alla tv. Sono questi i risultati della partecipazione dei militanti di estrema destra, da CasaPound a Forza Nuova, alle tribune elettorali in seconda serata su Raitre. Candidati in Parlamento, i due movimenti hanno diritto alla loro pubblicità istituzionale che ha registrato uno share più alto di quello del Popolo della libertà, dell’Italia dei valori e dell’Udc.
É SUCCESSO venerdì sera, subito dopo la puntata di Leader con Silvio Berlusconi, quando il candidato premier di Casa-Pound, Simone di Stefano (la faccia nuova del movimento, il più noto Gianluca Iannone è tecnicamente un “impresentabile” a causa della sua condanna in primo grado a quattro anni per l’aggressione ai danni di un carabiniere) ha collezionato 1.124.085 contatti e quasi 700 mila spettatori fissi con il 3,37% di share. Di poco inferiore il risultato di Gianguido Saletnich per Forza Nuova, andato in onda cinque minuti più tardi.
Valutate entrambe al di sotto dell’1%, le due formazioni puntano più al riconoscimento politico che al risultato. Espressione del fascismo 2.0, Casa-Pound prova l’affondo presentandosi in 14 circoscrizioni per la Camera e 11 al Senato, anche se la vera ambizione è conquistare almeno un consigliere nella Capitale per continuare a gestire le attività dalla loro sede, in un palazzo occupato “a scopo abitativo” nel centro della città. Non è bastato l’arresto di alcuni candidati a Napoli per fermare la corsa: tra i reati contestati le lesioni personali e la detenzione illegale di ordigni esplosivi. Giuseppe Savuto è stato poi mandato ai domiciliari e le accuse di associazione eversiva e banda armata sono cadute, eppure i militanti non hanno nessun timore a definirsi “fascisti del terzo millennio”.
MA “COSA vuol dire? ” chiede a di Stefano il malcapitato giornalista di Rai Parlamento, costretto a prendere sul serio l’affermazione. “Significa che vogliamo riportare in questo secolo l’impostazione sociale ed economica del fascismo per risollevare il Paese dalla crisi”. Poi aggiunge: “Nelle regole della democrazia italiana”. Eccole qua, le parole magiche con cui si chiede la legittimazione, nonostante il programma classifichi l’immigrazione come “sistema per uccidere i popoli”. I numeri non consentono l’ingresso in Parlamento ma di alleanze con Forza Nuova o Fiamma tricolore non se ne parla. “Con chi ha già governato o va con il centrodestra non possiamo nemmeno discutere, con gli altri piccoli partiti della destra radicale ci sono punti di contatto ma anche molte differenze, per esempio il rapporto con la Chiesa, il nostro approccio è assolutamente laico”.
Molto diverso dai “difensor fidei” che militano nell’estrema destra, compresa Forza Nuova che ha posizioni radicali sulla religione, a partire dalla posizione antiabortista. Anche lo Stato per loro è “un’unità trascendente di origine divina”. Meno le banche. “Avete depositato del letame davanti a Bankitalia oggi” è costretto a ricordare lo stesso malcapitato giornalista a Saletnich, noto per i suoi blitz dimostrativi non autorizzati. Il prossimo sarà in Parlamento?

La Stampa 10.3.13
Un Paese che non sa punire i razzismi
di Francesco Bonami


Il grande paradosso italiano è che pur vivendo in una dittatura del «talk show», travolti quotidianamente da tsunami di parole, loro, le parole, da noi non hanno nessun valore sociale e nessuna conseguenza morale. Tutti possiamo dire il contrario di tutto nel giro di poche ore. Il dialogo civile è costantemente inquinato da parole, a volte pesanti, a volte gravissime, pronunciate irresponsabilmente sia da personaggi politici ed istituzionali sia da poveri disgraziati che dalle gradinate di uno stadio urlano infami improperi a giocatori avversari di diversa origine etnica. L’Italia è di fatto un Paese profondamente razzista. Un razzismo mascherato ora come barzelletta, ora come sfottò. Un razzismo protetto da un profondo senso di impunità del quale ognuno di noi sembra depositario.
Siamo razzisti verso la gente di diverso colore, verso quella di sesso diverso dal nostro, contro quelli che hanno gusti sessuali differenti dai nostri, contro chi professa religioni che non conosciamo, contro chi abituato a lavorare di più nel proprio Paese vien qui e ci frega il lavoro. Dalla nostra bocca può uscire di tutto, certi che nulla di quello che diciamo avrà conseguenze, non tanto legali ma morali o sulla nostra posizione nei meccanismi professionali e civili ai quali apparteniamo.
Il conduttore televisivo viene beccato su YouTube ad urlare morti di fame a dei disoccupati che lo contestano per la strada e la cosa è vista dai suoi «superiori» come una divertente improvvisazione che aumenta la popolarità del suo programma. Un famoso critico d’arte da del «filippino» pubblicamente e a mezzo stampa ad un collega per disprezzarlo e imperturbabile continua ad essere ospitato a programmi televisivi e scrivere su riviste specializzate. Il giudizio della società è irrilevante, unico spauracchio sono le cause legali che ci possono arrivare per diffamazione e che intasano il sistema giudiziario. La dignità di chi ci circonda non c’interessa proprio. Ma la cosa peggiore è che sembra non interessarci nemmeno la nostra dignità interiore.
La responsabilità delle parole non ci appartiene più, cosa che in un periodo di campagna elettorale è ancora più spaventosa. Per un punto di percentuale siamo capaci di apostrofare un avversario tirando in ballo le menomazioni fisiche più tragiche o facendo commenti razziali allucinanti. Sto generalizzando? Assolutamente no. Scrivo tutto questo con cognizione di causa. Con la mia compagna, afroamericana di Buffalo, passiamo alcuni mesi dell’anno a Milano. Arrivando dagli Stati Uniti la mia preoccupazione è stata quella di far capire all’ignara signora quanto il mio Paese potesse essere razzista.
L’Italia, a differenza degli Stati Uniti, Paese profondamente razzista, non è in grado di creare gli strumenti per controllare e punire, non solo legalmente ma anche socialmente, chi non è capace di controllare i propri odi al di fuori delle pareti della propria casa, figuriamoci davanti ad un microfono di una televisione o di una radio. Infatti, faccio qualche semplice esempio, la signora afroamericana ha presto scoperto di essere, anche lei come Balotelli, agli occhi di molti una «negretta». In un parco milanese dove tanti bambini diversi giocano ogni giorno, una madre si avvicina e le chiede se è stata assunta dalla famiglia della bambina che porta a passeggio. Risposta: «Sono stata assunta a vita essendo questa mia figlia». Reazione: «Non è possibile! La bambina è bianca! ». Negli Stati Uniti, ma anche in Inghilterra, a nessuno verrebbe in mente o avrebbe il coraggio fare domande del genere o esprimere opinioni simili a quelle della mamma meneghina. Firenze, la mia compagna con nostra figlia e sua madre, afroamericana pure lei, entrano in un ristorante semivuoto del centro nel quale, con una serie di scuse, non viene concesso un tavolo per pranzare.
Potrei raccontare altri «aneddoti» ma non è necessario. La questione non è personale, non è un aneddoto. La questione, grave e profonda, è una nostra responsabilità collettiva. In Italia siamo razzisti come in tanti forse tutti gli altri Paesi del mondo. Il problema è che noi facciam finta di non esserlo scherzandoci su, minimizzando, accusando di moralismo chi invece si scandalizza davanti alla nostra mancanza di controllo. Nei Paesi anglosassoni invece, essendo coscienti di questa orribile tendenza dell’animo umano, si sono premurati di correggerla con leggi scritte e non.
Se un qualsiasi individuo di qualsiasi categoria sociale e fiscale si azzarda a definire pubblicamente «negretto» un individuo con la carnagione scura non raccoglierebbe risate ma una definitiva condanna morale che gli impedirebbe di continuare qualsiasi attività professionale svolga, di successo o meno. Chi nel posto di lavoro fa battute offensive o sessuali ad un collega, maschio o femmina che sia, il giorno dopo non trova più la sua scrivania. Nessun santo sindacale potrà proteggere chi ha utilizzato la parola sbagliata. Un’esagerazione? No. Un modo semplice ed efficace di ricordarci che le parole hanno un significato, un peso. Un sistema chiaro per non far mai dimenticare che noi siamo responsabili delle parole che diciamo, scherzando o meno. Morale? Se non regoleremo il razzismo in tutte le sue forme, verbali, sociali e civili, diventeremo un Paese morto, demograficamente e moralmente. Un Paese incapace di mettere, quando necessario, gli scherzi da parte è un Paese finito.

il Fatto 10.2.13
Concorsone rinviato per neve La Cgil scuola: “É una farsa”
di Chiara Ingrosso


I candidati del maxi concorso per gli 11.500 posti da docenti non sosterranno la prova scritta prevista per domani e martedì. Il rinvio è stato annunciato a causa del maltempo che investirà il Paese, come previsto dalla Protezione Civile. Da mercoledì in poi, invece, tutto confermato.
I candididati che avrebbero dovuto partecipare sono circa 90 mila, ai quali ora non resta che aspettare che il Ministero dell’Istruzione comunichi le date sostitutive.
Neve e pioggia, però, non sarebbero le uniche disfunzioni nello svolgimento del “concorsone”, che da tempo si aspettava. Il segretario della Federazione Lavoratori Conoscenza della Cgil, Mimmo Pantaleo, racconta che l’operazione parte dall’inizio con il piede sbagliato: “Questo concorso è una farsa, rinviare non servirà a nulla”, perchè i problemi sono innanzitutto interni alle commissioni, che non hanno mezzi e tempo suffucienti a svolgere la loro funzione.
“SEMBRA PIÙ un’operazione politica in tempi di elezioni”, dice il segretario. Al di là dello svolgimento, resta comunque aperto il problema della precarietà. “Quello che sarebbe necessario è un piano pluriennale per la stabilizzazione dei precari e sono sicuro che questo concorso finirà in mano ai tribunali”, afferma Pantaleo. I candidati perdono anche il denaro investito nei trasporti e negli alloggi. Il presidente dell’Anief, Marcello Pacifici, associazione che già si era battuta per il reintegro di quasi 7 mila candidati che avevano fatto ricorso al Tar del Lazio, ritiene che alcune regole del concorso non siano aderenti alle leggi in vigore, come ad esempio l’obbligatorietà della conoscenza della lingua inglese. Ma anche il fatto che i risultati della prova non ammettano idonei, ma solo vincitori, eludendo così la possibilità di restare in graduatoria per almeno tre anni ed un eventuale ripescaggio.

l’Unità 10.2.13
Francia
Partito comunista: «Addio a falce e martello»


La falce e martello, il simbolo più conosciuto del comunismo in tutto il mondo, non apparirà più sulle tessere del Partito comunista francese. Lo ha deciso l’assemblea del Pcf durante la 36esima assise che si è aperta giovedì scorso. La decisione ha suscitato molte polemiche interne, anche se è stata motivata con la confluenza del partito nel Fronte della sinistra, l’alleanza di estrema sinistra che nelle elezioni presidenziali del 2012 ha avuto un incremento sorprendente. «La falce e il martello sono un simbolo stabile e venerato, che continuerà ad essere usato in tutti i nostri eventi», ha assicurato il segretario generale del Partito, Pierre Laurent, «ma non illustra la realtà di ciò che siamo oggi. E non è così rilevante per le nuove generazioni di comunisti». Il Pcf ha 10 dei 577 seggi all’Assemblea Nazionale, dopo aver guadagnato 6,9% dei voti nel voto del 2012. Al suo apice nel 1946, il partito aveva preso più del 28 per cento dei voti e 182 seggi.

l’Unità 10.2.13
Tunisia, la sfida di Jebali: governo senza islamisti
Ennahda in piazza accusa la Francia di ingerenza
Scontro nel partito, il premier: esecutivo tecnico o lascio
I progressisti di Ettakatol: «Serve una svolta politica, i tecnici non bastano»
di U.D.G.


Tunisia, la sfida delle piazze. E quella istituzionale. Il giorno dopo l’imponente manifestazione di popolo per i funerali di Chokri Belaid, il leader dell’opposizione assassinato mercoledì scorso, a scendere in strada sono gli islamisti. Muro contro muro. In una Tunisi ancora sotto shock e blindata, a manifestare questa volta sono gli attivisti di Ennahda, il partito islamico al governo. Già la scelta del luogo in cui concentrarsi è indicativa della volontà di riprendersi la piazza: Avenue Bourguiba, una strada nel pieno centro di Tunisi e teatro delle violenze degli ultimi giorni tra oppositori e polizia. Alla sfida delle piazze si accompagna quella istituzionale: giovedì scorso lo stesso partito di governo Ennahda ha infatti sconfessato il suo primo ministro Hamadi Jebali, che ha forzato la mano annunciando lo scioglimento dell’esecutivo per aprire la strada ad un governo tecnico. «L’assassinio di Belaid impone una svolta politica che non può essere risolta dal governo dei tecnici evocato da Jebali dice a l’Unità Hela Alouolu Belkhodja, esponente di primo piano di Ettakatol, il partito progressista che fa parte dell’attuale esecutivo -. Per difendere le conquiste della rivoluzione e rafforzare il processo democratico aggiunge la dirigente è necessario un governo di salvezza nazionale aperto alle forze che non vogliono arrendersi a quanti con il terrore vogliono destabilizzare la Tunisia».
TREMILA MANIFESTANTI
Erano in tremila i sostenitori di Ennhada, che sono sfilati nel centro di Tunisi a sostegno del governo e dell’Assemblea Nazionale Costituente, che intende imprimere al Paese maghrebino una svolta ancora più marcatamente ispirata alla morale coranica. La manifestazione ha costituito una risposta alle proteste inscenate l’altro ieri dall’opposizione in concomitanza con i funerali di Belaid: non ne ha però minimamente sfiorato le dimensioni, avendo partecipato alle sole esequie, svoltesi
in pieno sciopero generale, quasi un milione e mezzo di persone. La manifestazione è stata caratterizzata dagli slogan contro la Francia, l’ex potenza coloniale accusata d’interferenza negli affari interni tunisini: «Francia, fuori dai piedi» o «Basta Francia», gridavano i dimostranti filo-Ennhada. E ancora: «La Tunisia non tornerà mai a essere colonia francese», era scritto su cartelli e striscioni.
L’accanimento anti-francese è stato provocato da una dichiarazione del ministro dell’Interno di Parigi, Manuel Valls, il quale commentando l’omicidio di Belaid aveva parlato senza mezzi termini di «fascismo islamista». In questo scenario tormentato, il primo ministro tunisino, l’islamista Hamadi Jebali, ha ribadito che rassegnerà le dimissioni se non riuscirà a formare un nuovo governo entro pochi giorni, malgrado la contrarietà espressa dal suo stesso partito Ennhada nei confronti del progetto.
FRATTURA INTERNA
«Tutti i Ministri saranno indipendenti, ho dovuto prendere questa decisione senza consultare i partiti politici il giorno dell’omicidio (del leader dell’opposizione Chokri Belaid, ndr) per timore che il Paese non scivoli nel caos e nell’irrazionalità: non è stata un decisione di Jebali, è stata un’iniziativa per salvare il Paese», ha spiegato il premier, secondo il quale l’alternativa «è la legge della giungla». Jebali si è detto peraltro pronto a dare le dimissioni qualora non fosse in grado di formare un esecutivo tecnico entro la settimana prossima; il premier numero due di Ennahda e principale esponente dell’ala moderata ha ribadito di voler cercare il sostegno di tutti i partiti ma ha escluso di voler sottoporre l’esecutivo a un voto di fiducia dell’Assemblea Costituente. Quella di Jebali ha il sapore di una resa dei conti all’interno del fronte islamista. Una sfida alla leadership lanciata al numero uno di Ennahda, il suo capo storico: Mohamed Ghannouchi. La Tunisia è sempre più nel caos.

l’Unità 10.2.13
Intervista a Angelo Del Boca
Lo storico del colonialismo: «La vedova di Belaid può diventare il simbolo della resistenza contro chi vuole una Costituzione fondata sulla sharia»
«In gioco c’è la democrazia. I Fratelli puntano al califfato»
di Umberto De Giovannangeli


«La posta in gioco oggi in Tunisia è la democrazia stessa. Il popolo tunisino ha capito una cosa e ad essa cerca di ribellarsi: gli islamisti di Ennahda stanno cercando, giorno dopo giorno, di realizzare una nuova Costituzione fondata sulla sharia. Il loro è il tradimento della “rivoluzione jasmine”». A sostenerlo è il più autorevole storico italiano del colonialismo in Nord Africa: Angelo Del Boca. «Dopo il fallimento, perché di ciò si tratta, dell’operazione in Libia, e la sua diramazione in Mali, l’Europa rimarca Del Boca assiste interdetta e spaventata a quello che potrebbe divenire un nuovo fronte di guerra. Ma questa passività rischia di favorire la deriva islamista verso quel califfato, evocato 67 anni fa dal fondatore dei Fratelli Musulmani, Hassan al-Banna».
La Tunisia è nel caos dopo l’assassinio del leader dell’opposizione Chokri Benaid. Qual è la posta in gioco?
«È la democrazia stessa. È impedire che quella speranza di libertà che fu alla base della rivoluzione del 2011 venga cancellata a forza da quanti intendono realizzare in Tunisia non uno Stato di diritto ma un califfato. Questa speranza vive nella straordinaria risposta popolare allo sciopero generale indetto dall’Ugtt, il principale sindacato tunisino, nel giorno dei funerali di Chokri Belaid: un milione di persone, secondo il ministero dell’Interno tunisino, un milione e mezzo, stando ad altre fonti. La folla che ha accompagnato il feretro del leader assassinato, ha dimostrato di essere decisa a regolare i conti con il governo, al quale fa risalire l’ordine di uccidere Belaid».
Il governo significa innanzitutto Ennahda, il partito islamista al potere. Oggi (ieri per chi legge, ndr) gli attivisti di Ennahda sono scesi in strada a Tunisi per difendere le «conquiste del voto».
«Ennahda non vuole fare un passo indietro dopo tutti gli sforzi fatti per conquistare la maggioranza. Ma c’è una cosa, a mio avviso, che il popolo tunisino ha compreso e contro cui prova a ribellarsi: Ennahda vuole restare al potere e realizzare, giorno dopo giorno, una nuova Costituzione fondata sulla sharia: non solo scriverla, ma praticarla. A questo punto, i fatti di Tunisi mi ricordano l’auspicio di Hassan al-Banna, il fondatore dei Fratelli Musulmani, che nel lontano 1947, quindi 67 anni fa, aveva annunciato al mondo, con un documento inviato a tutti i capi di Stato, che un giorno sarebbe tornato in Tunisia il califfato. Il che vuol dire realizzare in tutto il mondo dell’antico impero ottomano, la vittoria postuma degli antichi califfi».
La Tunisia dette l’avvio alla «Primavera araba». Ed ora?
«Ed ora si trova il vuoto nella mani, e può soltanto “ringraziare” Ennahda di aver compiuto questo enorme tradimento. Il pericolo non riguarda, peraltro, soltanto la Tunisia, ma tutti i Paesi del Maghreb e del Mashrek, dove vivono e operano, sotto diverse sigle, i Fratelli Musulmani. La Fratellanza dimostra di avere una grande duttilità tattica: si allea con l’esercito, apre a partiti liberali, ipotizza, come nel caso tunisino, anche governi tecnici, ma è tattica. Perché la strategia non cambia: ed è quella del califfato».
Lei ha fatto riferimento alla grande partecipazione popolare ai funerali di Chokri Belaid. In che modo l’opposizione può far leva su questa volontà di resistenza e chi potrebbe impersonarla?
«Ho visto il volto della vedova di Belaid, Basma. Un volto fiero, combattivo. Ho sentito le sue parole di dolore e di rabbia, e la sua decisione di continuare l’opera del marito. A mio avviso, è guardando questa donna coraggiosa, indomita, che i tunisini possono continuare la loro lotta per non farsi sfilare dalle mani il grande tesoro che avevano conquistato. Così come tutto ebbe inizio quel 18 dicembre del 2010, quando un giovane ambulante, Mohamed Bouazizi, si dette fuoco per protestare contro la protervia e la violenza del regime di Ben Ali, così oggi la Tunisia può guardare a Basma Belaid come al simbolo della protesta».

La Stampa 10.2.13
Storia di Noah: dopo l’Iraq, non ce l’ha fatta
Reduci, l’ombra della guerra che ossessiona l’America
349 suicidi nel 2012 fra i veterani in America
L’anno scorso sono stati più numerosi dei soldati caduti in Afghanistan, 295
20% colpiti da Ptsd la sindrome postraumatica
È la più importante causa di atti violenti fra i reduci
Suicidi, assalti, stragi: i veterani di Iraq e Afghanistan continuano a combattere
Nella base di Fort Hood un centro li guarisce, “affrontando il loro lato oscuro”
di Paolo Mastrolilli


Il loro disturbo, in sigla Ptsd, colpisce un militare su cinque e soltanto un civile su dodici"

«Una volta entrai nella sala riunioni del mio ufficio a Singapore, e vidi sul tavolo una pila di cadaveri accatastati. Sapevo bene che non c’erano, ma li vedevo. Fu il primo sintomo del mio Post Traumatic Stress Disorder. Cominciai a piangere in ascensore, perché quando le porte si chiudevano facevano lo stesso rumore del portellone degli elicotteri che ci scaricavano nella giungla».
Chi parla è Karl Marlantes, autore del romanzo «Matterhorn», che ha venduto milioni di copie raccontando la tragedia del Vietnam. Karl aveva ventitré anni, quando partì per l’Indocina come sottotenente dei Marines. Non ci rimase per miracolo, perché mentre pattugliava la giungla vicino al carnaio di Khe Sanh una granata gli scoppiò davanti alla faccia, mandandolo in ospedale. Cose che lasciano il segno, al ritorno a casa, oltre la ferita nella pelle: «Un volta, siccome avevo rallentato con la macchina per cercare un indirizzo, un tizio che mi stava dietro si mise a suonare il clacson e insultarmi. Quando tornai in me, mi resi conto che lo stavo prendendo a calci in mezzo alla strada, dopo aver sfondato il vetro della sua auto per tirarlo fuori. A quel punto mia moglie mi costrinse a farmi curare. E ora sto meglio».
Non tutti i reduci hanno avuto la fortuna di Karl. Il 3 febbraio scorso Eddie Ray Routh, veterano dell’Iraq, ha ammazzato Chris Kyle, famoso cecchino dei Navy Seal, che lo aveva portato in un poligono di Dallas proprio per aiutarlo ad esorcizzare i fantasmi della guerra. Poi è venuto il turno di Jimmy Lee Dykes, reduce del Vietnam, ucciso martedì scorso dall’Fbi, intervenuta per liberare un bambino che aveva preso in ostaggio. Quindi Christopher Dorner, già cecchino della Marina, si è messo a sparare contro i suoi ex colleghi poliziotti a Los Angeles. Leggendo questi fatti di cronaca, la gente fa un’equazione ovvia: i soldati che tornano dalla guerra sono bombe a orologeria. Prima o poi scoppiano, facendo fuori chi gli sta intorno. Sono stati addestrati per diventare macchine che uccidono, e non riescono più a smettere. Alcuni se la prendono con famigliari, amici o sconosciuti; altri con se stessi, tipo Nick nel «Cacciatore», che si spara alla tempia giocando alla roulette russa col vecchio amico Mike. Ma è proprio così? È giusto generalizzare questi casi, trasformandoli nella norma? E se a volte i reduci diventano mine vaganti, perché succede e come possiamo aiutarli?
Secondo i dati del National Center for Ptsd, centrodiricercacreatoinVermont dal Department of Veterans Affairs proprio per studiare il Post Traumatic Stress Disorder, il 60% degli uomini e il 50% delle donne soffre almeno un grave trauma nella vita. Circa l’8% degli americani viene colpito da Ptsd, e ogni anno si ammalano 5,2 milioni di adulti. Tra i militari l’incidenza è più alta. Il 30% dei reduci del Vietnam è stato colpito da questa sindrome, contro il 10% all’epoca della Guerra del Golfo. In Iraq e Afghanistan i casi sono risaliti tra l’17 e il 20%.
Sono uomini pericolosi, da cui dobbiamo guardarci? «Nonostante irascibilità e rabbia siano sintomi del Post Traumatic Stress Disorder - ci spiega il dottor Matthew Friedman, direttore del National Center for Ptsd - la maggioranza degli individui colpiti non ha una storia di aggressioni, violenza o comportamento criminale». Questi atteggiamenti, semmai, sono più spesso rivolti dai malati contro se stessi: «Alcuni - ci dice la dottoressa Kathleen Chard, che li cura ogni giorno in un centro del Department of Veterans Affairs a Cincinnati si fanno del male perché il dolore fisico porta via quello emotivo. Quando questo diventa insopportabile, si tagliano, si bruciano, si colpiscono le gambe, bevono, urlano. Nei casi peggiori, si tolgono la vita».
Suicidi, che sono l’autentica emergenza nelle forze armate Usa. Basti pensare che nel 2012 i soldati americani morti combattendo in Afghanistan sono stati 295, mentre 349 sisono toltila vita: leturbe mentali ne hanno uccisi più dei proiettili. Non sempre, poi, la colpa è del Ptsd: molti comportamenti violenti vengono attributi anche alle «traumatic brain injuries», cioè le ferite traumatiche al cervello, le concussioni, che creano un doppio scompenso fisico e psichico.
I centri per l’assistenza ai soldati in difficoltà sono diffusi in quasi tutte le grandi strutture militari. Noi abbiamo visitato quello di Fort Hood, in Texas, una delle più grandi basi americane, dove nel periodo più intenso della guerra inIraq ogni settimana atterravano due aerei carichi di feriti. Il colonnello Robert Gombeski comandava il Department of Social Work, e oggi è il Team Leader del Killeen Heights Vet Center: «All’epoca del Vietnam chi cedeva sul piano emotivo veniva etichettato come un cattivo soldato o un imboscato. Succedeva anche ai tempi di mio padre, che ha combattuto in Italia durante la Seconda Guerra Mondiale: lo chiamavano “shell shock’’, ma era un sinonimo di tradimento. Eravamo ignoranti. Non sapevamo che il Ptsd è un disturbo, può colpire tanta gente normale, e può essere curato».
Ma come funziona? «I soldati associano eventi comuni a casa con situazioni di stress vissute in guerra. È uno dei molti sintomi del Ptsd. Gli altri sono insonnia, incubi, ansia, rabbia per qualche ricordo del conflitto, isolamento, timore per la propria sicurezza, costante stato di allerta, eccessivo senso di colpa e irascibilità. I militari devono sviluppare capacità di sopravvivenza particolari in guerra, ma poi è difficile riadeguarsi alla normalità. Molti dimenticano che le famiglie hanno continuato a vivere senza di loro, e pretendono di ritornare al proprio posto senza capire che intanto il mondo è cambiato». Il risultato è che si sentono rifiutati, dalla società e anche dagli affetti più vicini. E spesso restano pure senza lavoro, infatti la disoccupazione tra i reduci di Iraq e Afghanistan è all’11,7%, contro il 7,9% della media nazionale.
Per aiutarli, centri come quello di Cincinnati hanno due tipi di programmi: residential, che significa vivere nella struttura, e outpatient, che vuol dire visitarla per le cure. «Le psicoterapie più efficaci - spiega Kathleen Chard sono due: “cognitive processing” e “prolonged exposure”. La prima consiste nell’individuare gli errori di rappresentazione del trauma all’origine del Ptsd. Per esempio, un soldato si rimprovera che doveva salvare la vita al suo compagno morto, quando in realtà si trovava a duecento metri di distanza e non poteva fermare un proiettile con le mani. Ristabilire la realtà dei fatti, la logica, aiuta a superare il problema. La “prolonged exposure” invece consiste nel far ripetere in continuazione il racconto del trauma, per dimostrare che non ci sono più conseguenze. A volte questo comporta affrontare la crisi nella realtà. Un soldato è terrorizzato quando sente l’odore del carburante diesel, perché è lo stesso del carro armato in cui è rimasto ustionato: allora lo portiamo in un distributore, per provare che quando respira quell’odore non corre più rischi. Poi usiamo anche la realtà virtuale, per riprodurre i traumi, le camminate, le uscite a cavallo, le gite in canoa, e in alcuni casi i farmaci». Le percentuali di guarigione sono abbastanza alte: «Tra il 70 e l’80%. Chi non ce la fa è perché ha altri problemi, o non ci mette abbastanza impegno».
Kathleen è orgogliosa soprattutto di due casi: «Uno era un Marine. Ha ricevuto dal presidente Obama la Medal of Honor per il suo comportamento coraggioso nello stesso episodio che gli ha procurato il Ptsd, che poi noi abbiamo curato». Lei non può dire il nome, ma ormai è pubblico: caporale Dakota Meyer, che nella battaglia di Ganjigal, Afghanistan, recuperò da solo i cadaveri di quattro compagni morti e salvò la vita a 24 Marines e 12 alleati afghani. Un anno dopo tentò di suicidarsi. «L’altra era una donna, che aveva partorito poco prima di andare al fronte. Guidava i camion in una zona molto pericolosa: con la mano sinistra teneva il volante, e con la destra il mitra, che usava per sparare dal finestrino quando c’erano le imboscate. Spesso gli attacchi erano lanciati anche da ragazzini, e lei teme di averne ammazzati molti. Una volta tornata a casa non riusciva più ad abbracciare il figlio neonato, perché si sentiva in colpa verso le madri afghane a cui aveva ucciso i bambini. Ora è passato, è una mamma affettuosa».
Non sempre, però, tutto questo basta a scacciare i fantasmi. I violenti, i veterani che non esconopiù dal buio e uccidono, sono la minoranza, ma fanno scalpore. «Non è un caso - dice Marlantes - che l’uomo sia in cima alla catena alimentare. Noi abbiamo questo istinto feroce: è come l’Ombra di Carl Gustav Jung, che ci portiamo tutti dietro. Se riconosciamo di avere dentro di noi questo lato oscuro, magari possiamo affrontarlo e contenerlo. Se lo neghiamo, nascono i mostri».

l’Unità 10.2.13
Il mistero del poeta
La salma di Neruda verrà riesumata: fu ucciso dai sicari di Pinochet?
Un giudice cileno ha ordinato l’autopsia sui resti del Nobel: inchiesta aperta per accertare le cause della morte avvenuta dodici giorni dopo
il colpo di Stato del 1973
di Martha Canfield


PABLO NERUDA MORÌ, IL 23 SETTEMBRE 1973, A SESSANTANOVE ANNI, DODICI GIORNI DOPO IL GOLPE E LA PRESA DI POTERE DI PINOCHET, OSSIA DODICI GIORNI DOPO L’ASSEDIO E IL BOMBARDAMENTO DELLA CASA DE LA MONEDA E LA MORTE DEL LEGITTIMO PRESIDENTE SALVADOR ALLENDE, AMICO SUO, CHE L’AVEVA NOMINATO AMBASCIATORE IN FRANCIA. Ma Neruda era tornato in Cile perché era malato di cancro alla prostata e la sua morte fu ufficialmente attribuita alla malattia.
Tuttavia i dubbi sono sorti subito e recentemente si è tornato a parlare dell’ipotesi di avvelenamento, come disse per primo il suo autista. In realtà Neruda era un personaggio molto scomodo al regime, di straordinaria popolarità nazionale e internazionale, aveva vinto il Premio Nobel nel 1971, era tradotto in tutte le lingue e i suoi versi circolavano anche a voce,
imparati a memoria da giovani e vecchi, versi d’amore intensi, dolcissimi, commoventi -, versi di lotta e di entusiasmo e passione rivoluzionaria, ma anche versi di semplicità amorosa nei confronti delle cose più umili della quotidianità, come la cipolla, il carciofo, il limone, oppure un fiore, la saponetta, i calzini... E la sua popolarità era inscindibile dalla sua militanza politica.
Già allo scoppio della Guerra Civile Spagnola, trovandosi in Spagna e avendo seguito da vicino la tragica sorte dei suoi amici Miguel Hernández e Federico García Lorca, aveva deciso di cambiare stile poetico perché un poeta non poteva ignorare quello che avveniva attorno a sé, e la sua parola doveva essere uno strumento di lotta. Con il suo libro Spagna nel cuore, che pubblicò nel 1937 e fece circolare proprio fra i repubblicani, Neruda abbandona definitivamente il surrealismo che aveva adottato poco prima. Il perché lo spiega lui stesso:
«Vi domanderete perché la sua poesia Non ci parla del sogno, delle foglie,
dei grandi vulcani del suo paese natio? Venite a vedere il sangue per le strade, venite a vedere
il sangue per le strade,
venite a vedere il sangue
per le strade!»
Neruda era un simbolo troppo potente e convincente per il popolo cileno e sicuramente Pinochet e i suoi seguaci lo vedevano come un pericolo. Il sospetto che circonda la sua morte è più che legittimo e spiega che la richiesta dei comunisti cileni, fatta nel 2011, sia stata finalmente accolta e ora venga riesumata la sua salma per un’autopsia che chiarisca finalmente i veri motivi della morte.
Per sempre rimarrà nel ricordo di chi l’ha vissuto o di chi l’ha visto in un filmato cladestino che fece il giro del mondo il funerale clandestino del Poeta, con quella manciata di fedelissimi che, malgrado il divieto del regime, accompagnarono la salma gridando per strada «Compañero Neruda, presente».
Per sempre rimarrà nel nostro cuore la forza dei suoi versi nell’accusa ai generali, prima della Spagna, dopo del Cile, e domani ovunque la violenza vorrà distruggere i diritti civili:
«Generali,
traditori:
guardate la mia casa morta,
guardate la Spagna a pezzi:
ma da ogni casa morta esce metallo ardente
e non fiori,
ma da ogni squarcio della Spagna
esce la Spagna,
ma da ogni bambino morto esce un fucile con occhi, ma da ogni delitto nascono proiettili
che scoveranno un giorno
la tana del vostro cuore».
* Docente di Lingua e Letteratura ispanoamericana

il Fatto 10.2.13
L’intervista a Luís Sepúlveda
Il mio Neruda e il giallo dell’iniezione
di Alessandro Oppes


Madrid Luís Sepúlveda aveva tredici anni quando rimase folgorato da Pablo Neruda. Era il 1962, lo sentì parlare a un comizio, e la decisione di iscriversi alle Juventudes Comunistas fu immediata. La notizia, annunciata l'altro ieri sera dal giudice cileno Mario Carroza, dell'imminente esumazione dei resti del premio Nobel, non lo coglie affatto di sorpresa. "Ci sono molti lati oscuri nella morte di Neruda", dice al Fatto Quotidiano l'autore di Il vecchio che leggeva romanzi d'amore e Il mondo alla fine del mondo. Quando il cuore di Neruda smise di battere, alle 22,30 del 23 settembre 1973, in una corsia della Clínica Santa María di Santiago del Cile, pochi misero in dubbio le cause naturali della sua morte. Che il grande poeta ("il più grande del XX secolo, in qualsiasi idioma", lo definì Gabriel García Márquez), fosse gravemente malato di cancro alla prostata, era ampiamente risaputo. E in quel momento il mondo, trascorsi appena dodici giorni dal golpe militare di Augusto Pinochet, era talmente sconvolto dagli orrori evidenti di una incipiente dittatura - il bombardamento della Moneda, la tragica fine di Allende, il campo di concentramento allestito all'Estadio Nacional - da potersi avventurare in ardite ipotesi su un decesso in apparenza non sospetto. Ma quella morte, in realtà, aveva tutte le caratteristiche di un giallo. In quelle giornate Sepúlveda, che faceva parte della guardia personale di Salvador Allende, soffriva le conseguenze della repressione: l'arresto, le torture, il carcere, prima di poter prendere la via dell'esilio grazie all'intervento di Amnesty International.
Pensa che sia davvero fondato il sospetto che il poeta possa essere stato ucciso?
Gli elementi che impongono di fare chiarezza ci sono. Speriamo che, a quarant'anni di distanza, sia finalmente possibile accertare tutta la verità.
Eppure Neruda stava veramente male, su questo non esistono dubbi.
Questo è vero. Però, diciamo pure che ci sono molti modi di uccidere una persona. Non dimentichiamo che l'11 settembre, nelle ore immediatamente successive al colpo di Stato, viene a sapere che molti dei suoi amici sono stati uccisi. Già quello, per un uomo che ha gravi problemi di salute, può essere un colpo durissimo.
Il testimone chiave in questa vicenda, Manuel Araya, autista personale del poeta negli ultimi mesi della sua vita, mette in dubbio il fatto che fosse davvero in fin di vita.
Ho conosciuto Araya, ho avuto l'occasione di conversare a lungo con lui anni fa in Italia, quando preparavo insieme a Renzo Sicco l'opera teatrale Il funerale di Neruda. E la mia impressione è che sapesse molto bene ciò di cui stava parlando. Il suo discorso era molto coerente, il suo ricordo ancora molto fresco, a tanti anni di distanza.
L'autista ricorda quelle giornate convulse. Proprio tre giorni dopo il golpe, Neruda aveva terminato di scrivere le sue memorie, "Confesso che ho vissuto". Subito dopo il presidente messicano Luís Echeverría gli offrì asilo politico. Fu allora che si decise di organizzare il trasferimento del poeta dalla sua casa di Isla Negra a Santiago, da dove sarebbe dovuto partire per l'esilio.
Sì, è questo è uno dei punti oscuri. Quel viaggio verso la capitale, che doveva durare al massimo un paio d'ore, si trasformò in un'odissea. L'ambulanza venne bloccata un'infinità di volte dai militari, solo sei ore dopo riuscirono a raggiungere Santiago. Ma, prima ancora della partenza da Isla Negra, a quanto risulta, gli venne negata l'assistenza medica più urgente. Con la scusa del "toque de queda", il coprifuoco, gli impedirono di uscire di casa. Alcuni medici sostengono che se fosse stato trasportato subito in ospedale, avrebbe avuto molte più possibilità di salvarsi.
Un discorso, però, che vale se diamo per buona la tesi che sia effettivamente morto per il cancro alla prostata. Ora, il dubbio avanzato dal suo ex autista è che gli sia stata praticata un'iniezione letale allo stomaco, guarda caso quando l'aereo messo a disposizione dal presidente del Messico era già pronto a trasportarlo fuori dal paese.
Questa è la vera incognita, che sarà possibile chiarire solo quando arriveranno i risultati dell'autopsia, che dovrebbe essere realizzata nei prossimi due mesi. I resti di Neruda saranno inviati in Austria, dove ci sono i migliori laboratori specializzati in questo tipo di analisi. Se ci sono tracce di veleno, sarà possibile riscontrarle, anche se sono trascorsi tanti anni. Proprio come è accaduto nel caso dell'ex presidente della Repubblica Eduardo Frei, morto nella stessa clinica Santa María nel 1982, in piena dittatura. Dopo la riesumazione del cadavere, tre anni fa, abbiamo avuto la conferma al sospetto che fosse stato ucciso. È chiaro che, se fosse partito per l'esilio in Messico, Neruda avrebbe potuto creare seri grattacapi al regime di Pinochet.

l’Unità 10.2.13
La lunghissima vita del ’68
di Bruno Bongiovanni


SIAMO A 45 ANNI DAL ’68. ABBIAMO GIÀ SCRITTO CHE NESSUNO PARE RICORDARSENE. Tutti sono prigionieri delle solite trappole pre-elettorali di Berlusconi. L’Arcore-old boy dice infatti cose senza senso e fa promesse. Basterebbe un trafiletto, nei giornali, al fine di riportare, per dovere di cronaca, l’ennesima barzelletta. E invece tutti i politici replicano seriosamente e così cadono nella trappola. Ma questa volta la trappola non funzionerà. Torniamo allora al ’68. Che cos’è stato, ci chiedevamo? Un anno che in Italia ha avuto nei discorsi pubblici una vita lunghissima. Sono ora utili altre spiegazioni rispetto a quelle della settimana scorsa. Il dilatarsi del ’68 è stato infatti anche un processo cresciuto su se stesso e non un’operazione volontaria compiuta a freddo. In tutto ciò il gran lavorio molecolare dei media, e la mai veramente arrestatasi macchina messa in moto dalla industria della multigenerazionale commemorazione permanente e dell’astiosa damnatio memoriae (una macchina con due teste e con un corpo solo), han contato pur qualcosa. Poche date, nella seconda metà del secolo, quanto il ’68, hanno cioè prodotto, negli inclusi, la sensazione d’avere partecipato, in forma comunitaria, a un rito iniziatico di fondazione politico-sociale e, negli esclusi, o nei respinti, o nei pentiti provvisti di palcoscenico mediatico, un così grande, cocente, razionalmente ingiustificato, e tuttavia probabilmente incancellabile, risentimento. O mito delle origini di un’intera generazione o peccato originale del modernismo socio-culturale: è stato difficile uscire da questa manichea e prolungata dicotomia. Il fatto è che il ’68 non è stato solo una serie di eventi. Come di rado è accaduto alle mentalità collettive, che han bisogno della famosa e ben metabolizzabile lunga durata, è stato altresì l’emergere improvviso di un modo di essere sedimentatosi nel tempo e diventato d’un tratto appieno visibile e riconoscibile.

il Fatto e Der Spiegel 10.2.13
Germania oggi
Quadri e gioielli il bottino nazista nascosto nei musei
20mila oggetti trafugati dal  3° Reich
Un Braque comprato con i proventi di altre opere riciclate
di Steffen Winter


L’oggetto numero 471/96 del Museo di arte moderna di Monaco di Baviera ha visto la luce del sole in pochissime occasioni speciali. È un orologio di platino tempestato di pietre preziose che sulla cassa reca la scritta “6 febbraio 1939. Con tutto il mio cuore A. Hitler”. Quel giorno Eva Braun, l’amante del Fuhrer, compiva 27 anni. Il prezioso orologio è registrato come “proprietà di Eva Hitler, nata Braun”. Il museo di Monaco ha in custodia una vasta collezione di preziosi appartenuti a Hitler e ad altri gerarchi nazisti.
Quello delle opere d’arte e dei preziosi accumulati dal Terzo Reich e di cui spesso non si conosce l’origine sta diventando per la moderna Germania un problema imbarazzante. Subito dopo la guerra la scelta fu quella di imballarli e dimenticarli in qualche magazzino.
Gli oggetti conservati nel museo di Monaco sono una minuscola parte dell’eredità lasciata dai nazisti alla Germania del dopoguerra. A settanta anni di distanza dalla fine del nazismo, lo Stato tedesco continua a detenere dipinti, tappeti, mobili, opere grafiche, sculture, argenteria, arazzi, libri e pietre preziose trafugati dalle truppe naziste. Secondo una stima si tratterebbe di circa 20.000 oggetti tra cui 2.300 dipinti senza contare le opere d’arte conservate nei magazzini dei musei di tutto il paese di cui non è mai stato fatto un censimento.
Non tutte le opere sono nascoste negli scantinati. Alcune fanno bella mostra nei musei, nelle collezioni private, nell’ufficio del presidente della Repubblica, negli uffici della Cancelleria a Berlino e nelle ambasciate tedesche. La realtà è che per quasi 68 anni i responsabili delle belle arti hanno fatto poco o nulla per risalire alla provenienza delle opere e restituirle ai legittimi proprietari.
Le reticenze dei cancellieri e i risarcimenti negati agli ebrei
Nessun cancelliere – da Adenauer ad Angela Merkel – è mai andato al di là dei rituali discorsi di commemorazione che si tengono ogni 9 novembre per ricordare “la notte dei cristalli” e nessuno ha mai fatto alcunché per restituire il bottino di guerra del regime nazista.
Ma c’è di più e di peggio: risulta che negli anni ’60 e ’70 sia il governo tedesco che il governo della Baviera misero in vendita opere d’arte della collezione di Hitler e di quella di Goering guardandosi bene dal far avere il ricavato ai proprietari o, quanto meno, alle organizzazioni ebraiche delle vittime della Shoah.
La conclusione è semplice: il modo in cui è stato affrontato il problema del bottino ammassato dai nazisti è stato e continua ad essere moralmente disastroso. Cinque anni fa è stato costituito un gruppo di lavoro con lo scopo di accertare la provenienza delle opere d’arte. Ma il gruppo – che riceve 2 milioni di euro l’anno di finanziamenti – ha solo quattro addetti e finora ha concluso ben poco.
Dal canto suo la “Jewish Claims Conference” (JCC) sottolinea che “c’è ancora molto da fare” in Germania. Ma come si è arrivati a questo punto? Gli alleati sapevano benissimo che c’erano cinque milioni di opere d’arte che dovevano essere restituite, tanto vero che nel 1945 costituirono un punto di raccolta a Monaco. Nel punto di raccolta cominciarono ad affluire opere d’arte, preziosi, gioielli, libri antichi. Gli americani catalogarono e registrarono tutto. Nei casi in cui la provenienza era facilmente determinabile, le opere vennero riconsegnate immediatamente. Ma nell’estate del 1948 gli americani incaricarono di proseguire il lavoro di catalogazione l’allora governatore della Baviera Hans Ehard che in seguito passò la mano al ministero degli Esteri a Bonn che prese l’impegno di risolvere il problema delle restituzioni entro la fine degli anni ’60. Impegno ovviamente disatteso.
Nel 1966 il ministro del Tesoro, Werner Dollinger, annunciò alla stampa che quasi 2.000 opere erano state distribuite a 112 musei tedeschi e che 660 dipinti erano stati affidati ad uffici pubblici e rappresentanze consolari all’estero. Così oggi negli uffici del presidente della Repubblica si può ammirare un secretaire della collezione Posse appartenuto personalmente a Hitler e in Parlamento fa bella mostra un Canaletto appartenuto al Fuhrer.
All’epoca il governo tedesco fece credere ai cittadini che il problema della restituzione era stato risolto. La realtà era ben diversa. Le varie commissioni non avevano mai svolto indagini accurate per risalire alla proprietà delle opere trafugate. Ma forse per capire l’origine del più grande furto di opere d’arte del secolo scorso è necessario riflettere sulla mania che i nazisti avevano per il collezionismo. Nel maggio del 1945 gli Alleati trovarono a Berchtesgaden, sulla Alpi bavaresi, due treni strapieni di opere d’arte. I treni erano stati costituiti su ordine di Goering che in questo campo gareggiava con Hitler. Sui treni scoperti a Berchtesgaden c’erano opere per un valore di oltre 600 milioni di marchi. In virtù di un accordo con gli Alleati, i patrimoni personali dei gerarchi nazisti andarono al Land nel quale erano stati rinvenuti e a fare la parte del leone fu la Baviera dove avevano nascosto i loro averi pezzi grossi come Goering, Rudolf Hess, Heinrich Himmler e Julius Streicher.
Il comportamento del governo della Baviera fu estremamente discutibile e censurabile. Pochissime opere d’arte furono restituite ai proprietari o alla Fondazione per il risarcimento delle ingiustizie naziste, come in teoria prevedeva la legge. Esemplare in tal senso il caso Auerbach. Phillip Auerbach, presidente dell’Associazioni comunità ebraiche della Baviera, era sopravvissuto ad Auschwitz e a Buchenwald e si occupava di risarcimento delle vittime della Shoah. Il 10 marzo del 1951 fu arrestato e accusato di truffa, interesse in atti di ufficio e corruzione. Un tribunale composto da magistrati che erano stati membri del partito nazista lo condannò a due anni e mezzo di reclusione. Due giorni dopo il 45enne Auerbach si suicidò. Una commissione di inchiesta del Parlamento lo riabilitò due anni dopo. Oggi sulla sua tomba si legge “ha aiutato i più poveri dei poveri ed è caduto vittima del suo dovere”.
Il patrimonio di Baviera e la cleptocrazia hitleriana
Come emerge da una mole di documenti, il Land della Baviera – cosa questa denunciata da numerose organizzazioni ebraiche – ostacolò deliberatamente la restituzione dei preziosi e delle opere d’arte e in questo quadro vanno inserite le false accuse mosse ad Auerbach. Basti un dato: dal 1953 al 1957 Conservatore dei beni culturali della Baviera fu la stessa persona che aveva ricoperto quella carica prima del 1945: Ernst Buchner, definito dallo storico americano Petropoulos “esponente della cleptocrazia hitleriana”.
Il governatore della Baviera Alfons Goppel, già membro delle SA, fece vendere 106 dipinti di dubbia provenienza. E il ricavato? Fu investito nell’acquisto di altre opere d’arte. Una vera e propria operazione di riciclaggio non di denaro ma di opere d’arte. Esattamente in questa maniera il Museo d’arte moderna di Monaco acquistò “la donna col mandolino “ di Georges Braque.
Emblematico il caso di Heinrich Hoffmann, fotografo personale di Hitler dal 1923. Grazie ai suoi rapporti con Hitler entrò in possesso di un ricco patrimonio di opere d’arte. Dopo la guerra Hoffmann trascorse cinque anni in prigione. Fino al 1956 si batté contro il provvedimento di confisca delle sue proprietà e alla fine gli fu permesso di conservare il20% del suo patrimonio. Ma nell’ottobre del 1956, con una decisione che definire sorprendente è il minimo, il ministero delle Finanze della Baviera ordinò “di restituire a Heinrich Hoffmann tutte le opere d’arte che gli erano state illegittimamente confiscate”.
I tedeschi potrebbero fare ancora oggi quello che a suo tempo fecero gli austriaci: vendere all’asta tutti i beni di incerta provenienza e distribuire il ricavato alle vittime del nazismo. È una ipotesi che merita di essere discussa.
© Der Spiegel, 2013 – distribuito da The New York Times Syndicate Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

Corriere 10.2.13
Fortuna senza fine per Machiavelli ma spesso vince soltanto il cliché
di Dino Messina


Non basta la ricorrenza dei cinquecento anni dalla prima stesura del Principe per spiegare la presenza ossessiva del nome di Niccolò Machiavelli (1469-1527). Il titolo con cui ieri il Financial Times definiva «machiavellian» il sanguinario Riccardo III, di cui sembra sia stata davvero individuata la tomba, ha a che fare più con il cliché negativo che avvolge la fama del segretario fiorentino che con la sua attualità.
Machiavelli è nato moderno sia per l'originalità del pensiero sia per lo stile in cui ha composto le sue opere, a cominciare dal Principe, «opuscolo» (sic!) con cui, come scriveva nella famosa lettera all'amico Francesco Vettori del 10 dicembre 1513, l'autore si proponeva di spiegare in che modo si conquistano i principati, si mantengono e si perdono.
L'opera venne pubblicata solo nel 1532, cinque anni dopo la morte di messer Niccolò, e da allora ha acquisito una popolarità (anche negativa) soprattutto perché a Machiavelli fu attribuito dai critici gesuiti il cliché del cinismo («il fine giustifica i mezzi», frase da lui mai scritta) che è cosa ben diversa dal realismo.
Sicuramente guardano al Machiavelli realista, alla sua capacità di saper individuare il campo autonomo della politica, spin doctor come David Axelrod, consulente di Barack Obama e di Mario Monti, o politologi come Joseph Nye che usa Il Principe per spiegare la differenza tra hard power (potere conquistato con la forza) e soft power (potere mantenuto con la persuasione). Al cliché Machiavelli si ispirano invece romanzi recenti come La congiura Machiavelli di Michael Ennis o videogiochi in cui un Machiavelli diventa sicario dei Borgia. Creazioni in genere di ambiente anglosassone. Perché in Italia, grazie a una tradizione che da Foscolo a De Sanctis arriva sino a Croce e a Gramsci, per il vecchio Niccolò c'è ancora rispetto. Anche se si fa fatica a trovare i soldi per portare a termine l'edizione nazionale delle opere.

Corriere 10.2.13
Iconoclastia e odio dei libri, da Timbuctù a Norimberga
risponde Sergio Romano


Nel marzo 2001 i talebani distrussero i Buddha di Bamiyan (Afghanistan); due enormi statue scolpite più di 1.500 anni fa nella roccia della valle omonima. Qualche giorno fa, dopo l'intervento militare francese in Mali, abbiamo scoperto che durante l'occupazione jihadista, gli estremisti islamici hanno distrutto mausolei, santuari e migliaia di manoscritti antichissimi, di inestimabile valore. Il motivo? Perché quelle opere erano contrarie alla religione islamica. Per quanto mi riguarda si tratta di puro e semplice fanatismo religioso. Proprio per questo motivo, le chiedo se anche tra le altre grandi religioni (per esempio cristianesimo, ebraismo, induismo, buddhismo), ci sono mai stati casi e/o comportamenti simili.
Silvano Stoppa

Caro Stoppa,
Il bilancio delle distruzioni di Timbuctù è meno grave di quanto temessimo, ma il divieto delle immagini e la lotta contro i libri «impuri» appartengono alla storia dei grandi monoteismi. L'iconoclastia (da due voci greche che significano «rompere l'immagine») è un movimento cristiano che fiorì a Costantinopoli nell'VIII e IX secolo dopo Cristo e riapparve in altre forme nelle sette più radicali della Riforma protestante. Il grande sacco di Roma del 1527 non fu soltanto una terrificante sequenza di ruberie e violenze private. Fu anche, per le milizie luterane, l'occasione di sfogare il loro odio su reliquie, paramenti sacri, oggetti del culto cattolico.
Ma il fenomeno non è soltanto religioso e caratterizza anche le grandi ideologie totalitarie del XX secolo. Dopo una prima fase relativamente liberale, la Russia sovietica dichiarò guerra alle avanguardie, imprigionò i libri «scorretti» negli «scaffali speciali» delle biblioteche e la grande pittura del primo Novecento nei solai del Museo Russo di Leningrado. Creò una nuova scuola, il «realismo socialista», e ordinò ai suoi artisti di rappresentare l'«uomo nuovo» in tutte le sue manifestazioni: il lavoro, lo sport, la famiglia, la guerra rivoluzionaria e patriottica.
Il nazismo organizzò un simbolico falò di libri proibiti in una piazza di Berlino, nei pressi dell'università Humboldt, e una grande esposizione pedagogica a Norimberga nel 1937 di «arte degenerata»: pitture e sculture che furono in parte vendute sui mercati internazionali, in parte distrutte. In un discorso del 1939 Hitler disse che l'arte «deve proclamare imponenza e bellezza, quindi purezza e benessere». L'Italia, grazie ai rapporti del fascismo con il futurismo, sfuggì a questa sorte. Negli anni fra le due guerre vi fu un'arte ufficiale, convenzionale e agiografica, ma vi fu anche una larga varietà di scuole e di stili, oggi rappresentati in due grandi mostre sull'arte degli anni Trenta: quella di Palazzo Strozzi a Firenze e quella del Convento di San Domenico a Forlì. Nel 1938, un anno dopo la grande mostra di Norimberga, si formò a Milano il gruppo di Corrente a cui aderirono, tra gli altri, Renato Birolli, Bruno Cassinari, Renato Guttuso, Giuseppe Migneco, Ennio Morlotti, Aligi Sassu: artisti che Göbbels, ministro tedesco della Propaganda, non avrebbe esitato a definire «degenerati».
In queste guerre all'arte e alla cultura esiste, caro Stoppa, un curioso paradosso. I fustigatori e i censori agiscono nella convinzione che queste immagini abbiano un potere occulto, capace di sedurre e convertire. Hanno una posizione non diversa, quindi, da quella, molto diffusa nella ortodossia greca, secondo cui le sante icone non sono soltanto opere d'arte o d'artigianato. Sono anche e soprattutto oggetti sacri in cui si nasconde una parte di divinità.
Si potrebbe sostenere che l'iconoclastia e la caccia ai libri scorretti siano un involontario omaggio dell'odio alla cultura.

Corriere 10.2.13
Guardare l'Europa dal versante povero


Piccola nota per partiti politici in campagna elettorale. Nel 2012, l'Italia è uscita dalla fotografia dei Paesi benestanti d'Europa. Se si considera il Prodotto interno lordo (Pil) pro capite in termini di potere d'acquisto (dati Eurostat), nel 2000 l'Italia era del 18% più ricca della media dei Paesi che oggi fanno parte dell'Unione Europea. Nel 2011, quel differenziale si è azzerato: eravamo in media perfetta con il resto dei 27 partner. I dati ufficiali del 2012 non sono ancora noti ma si sa che il Pil italiano è sceso (attorno al 2,4%) più di quello di quasi tutti gli altri europei: si può dunque dare per certo che dall'anno scorso gli italiani siano scesi, per ricchezza prodotta, sotto la media Ue. Nella terra dei poveri.
E con tendenza a restarci: le previsioni del Fondo monetario internazionale per il 2013 indicano che il Pil italiano scenderà di un altro 1%, mentre quello della Ue dovrebbe crescere, secondo le previsioni di novembre della Commissione, dello 0,4%. Per chiarire che il declino non è un destino, si può notare che la Germania, che nel 2000 partiva allo stesso nostro livello di Pil pro capite (a parità di potere d'acquisto), nel 2011 aveva guadagnato il 3% rispetto alla media dei 27 (oggi è del 21% sopra). E che Paesi rilevanti come Francia, Gran Bretagna, Svezia, Olanda, Danimarca, Belgio rimangono saldamente, in alcuni casi enormemente, sopra la media continentale.
Sotto la media europea del Pil pro capite, a questo punto, a parte la Spagna non c'è nessuna delle grandi economie con le quali usavamo confrontarci. Non siamo solo un Paese considerato periferico sui mercati perché abbiamo problemi di finanza pubblica: siamo anche finiti nell'album della famiglia dei poveri che si impoveriscono. Non è più questione di dibattito tra «declinisti» e non: è un dato statistico che dovrebbe mettere la discussione elettorale con i piedi per terra. È successo che, su una crescita italiana che dalla metà degli anni Novanta è stata quasi in stagnazione, è piombata la Grande Recessione — Pil in calo dell'1,2% nel 2008 e del 5,5% nel 2009 — che ha messo in ginocchio l'economia. Non sembriamo in grado di rimetterci in piedi.
Negli ultimi decenni, l'emergere di Paesi prima ai margini ha fatto sì che le esportazioni di tutte le nazioni di vecchia industrializzazione perdessero quote del commercio globale. Ma non necessariamente competitività. L'Italia, invece, l'ha persa. L'export — un segno della capacità di competere — è calato dal 4,57% del totale mondiale nel 1998 (dati Eurostat) al 2,84% del 2011. Tra il 2007 e il 2011, la quota delle esportazioni italiane è scesa del 18,3%, come quella greca (-18,6%): ma quelle non meno «periferiche» della Spagna e del Portogallo rispettivamente del 7,5 e dell'8,5%, la tedesca dell'8,1%, persino la Francia, in perdita accelerata di competitività, ha perso meno, l'11,1%. Cercasi programma di governo per tornare sul versante europeo dei Paesi ricchi.

Corriere 10.2.13
La fragile architettura della famiglia
di Isabella Bossi Fedrigotti


La famiglia, non c'è dubbio, è il tetto. E ancora oggi, pur con paure, esitazioni, incertezze estreme, l'istinto di un uomo e una donna che si incontrano e si innamorano, è quello di costruirsi un tetto, che non è soltanto l'appartamento, la casa ma anche, forse prima di tutto, un luogo immateriale che fornisca a entrambi una protezione contro le tempeste che la vita scatena addosso, fatte di malattie, disoccupazione, povertà e di tutti gli altri guai che ogni giorno ci toccano. Se poi i due aspettano un bambino, a maggior ragione, di solito, tentano di preparargli in qualche modo un tetto: perché è chiaro che molto più dei genitori sono i figli ad avere bisogno della protezione, del luogo riparato dove poter crescere e formarsi in piena sicurezza.
Sappiamo però che i tetti possono essere di tegole, di legno, di paglia, di lamiera, di cartone, di foglie, ciascuno differente, ciascuno con diversa capacità di proteggere. Realtà che riusciamo probabilmente a distinguere abbastanza bene ma che in molti, oggi, stiamo tentando di obbligarci a ignorare, affermando, chissà se convinti nel profondo oppure indotti da un modo di pensare che avanza o, anche, da precise scelte politiche di Paesi giustamente giudicati civili e aperti, che quel tetto immateriale sia comunque tetto e che, pur nelle sue diverse forme, più o meno sempre si equivalga. A volte, si sa, il tetto, cioè la famiglia, è, inevitabilmente, fragile per forza maggiore, perché i genitori sono immaturi, perché sono in difficoltà economiche o perché l'amore era un'illusione; oppure perché con il figlio è rimasto uno soltanto dei due genitori — per il momento quasi sempre la mamma — situazione che negli Stati Uniti, dove è diffusissima, è considerata, soprattutto tra le classi più deboli, ma non soltanto, una delle principali cause delle devianze minorili.
Altre volte, almeno sulla carta, risulta più fragile di quel che potrebbe, per precisa volontà, come è quella, per esempio, di genitori che rifiutano, per loro convinzioni, qualsiasi forma di matrimonio, forse perché temono il suo effetto «tomba dell'amore». La loro, affermano, è comunque una famiglia, e hanno certo ragione, ma è difficile evitare l'impressione che abbiamo, sì, costruito, un tetto con travi solidissime, tralasciando, però, di legarle tra loro, e perciò resistenti più che altro nella bonaccia estiva, meno in caso di piogge e nevi.
Infine — ed è materia scottantissima di oggi — si vorrebbe che una certa forma di tetto, ancora poco conosciuta e poco sperimentata, della quale è difficile prevedere l'effettiva capacità di tenere all'asciutto — e si intendono i matrimoni tra omosessuali e il conseguente, perfettamente logico diritto di adottare dei bambini — venisse rapidamente e dappertutto introdotta per legge. E sui giornali si trovano quasi ogni giorno disegnate delle cartine geografiche che evidenziano in colori allegri i Paesi dove questo è già possibile, e in tristi, mortificanti colori beige o grigio dove, invece — in Italia per esempio — ancora no.
Inevitabilmente, lo smarrimento è grande. Gli intransigenti, si sa, sia i favorevoli a tutte le forme di famiglia, nessuna esclusa, sia i contrari, fedeli all'unica tradizionale, tra i quali il sociologo Pierpaolo Donati che sulle «famiglie artificiali» è intervenuto ieri sull'Avvenire, hanno grande chiarezza. In mezzo stanno gli altri, la maggioranza incerta e, appunto, smarrita, che cerca lumi, difficili però da trovare perché, tranne le religioni, che hanno i loro Inevitabilmente testi sacri, nessuno pare davvero in grado di dare indicazioni, di sicuro non i politici. Né il buonsenso, spesso grande e sapiente legislatore, sembra, in questo caso, poter essere un valore di riferimento.
E litigano anche i filosofi. In Francia, per esempio, dove, dopo l'approvazione del matrimonio tra omosessuali, il dibattito sul tema è particolarmente acceso, due intellettuali molto autorevoli e influenti hanno posizioni nettamente contrastanti sul tema. Sono Elisabeth Badinter e Sylviane Agacinski, entrambe mogli di ministri — la prima di Robert Badinter, la seconda di Lionel Jospin — entrambe femministe, entrambe di sinistra, che già in passato si erano scontrate sulle quote rosa: la prima spiega il suo favore alla nuova legge in base alla comune ragione umana, mentre la seconda ne motiva l'avversione in base alla comune natura umana. Parole? Sottigliezze? Tutt'altro.

Corriere Salute 10.2.13
I cibi che aiutano a contrastare la depressione
di C. F.


La dieta che fa bene al corpo fa bene anche alla mente? Sembra proprio di sì. La conferma viene da uno studio (appena pubblicato dall'American Journal of Clinical Nutrition) condotto nel Regno Unito dal Dipartimento di epidemiologia e salute pubblica dell'University College London.
In questa ricerca, durata 10 anni, su più di 4 mila adulti, si è indagato sul possibile legame tra dieta, nella sua totalità, e sviluppo, nel tempo, di sintomi depressivi. La qualità della dieta è stata valutata utilizzando un punteggio tanto più elevato quanto maggiore era il consumo di alimenti "buoni" (come verdura, frutta, pesce, frutta secca a guscio) e minore quello di componenti "cattivi" come acidi grassi trans e saturi. Da precisare che il giudizio positivo o negativo dato agli alimenti dipendeva sostanzialmente dalle attuali conoscenze relative al loro ruolo nello sviluppo di malattie cardiovascolari. I ricercatori inglesi hanno osservato che, nelle donne, tanto più il punteggio era basso, tanto più nel tempo ricorrevano sintomi depressivi, in misura dose dipendente. A un'analisi più dettagliata, i fattori alimentari che sono risultati associati a una riduzione del rischio di sintomi depressivi sono stati: un elevato consumo di verdura e frutta, un ridotto apporto di acidi grassi trans e un elevato rapporto fra grassi polinsaturi (che comprendono gli omega 3) e saturi (presenti in particolare in burro, formaggi e carni grasse).
Commenta Giovanni Camardese, psichiatra, responsabile dell'Unità dei disturbi depressivi al Gemelli di Roma: «Questo studio dimostra che l'adesione alle più comuni raccomandazioni alimentari - elevato consumo di frutta e verdura e scelta accorta delle fonti di grassi - può, nel tempo, ridurre il rischio delle donne (che peraltro è doppio rispetto agli uomini) di manifestare sintomi depressivi. Importante sottolineare come i consigli emersi siano in linea con il modello alimentare mediterraneo già associato a un minor rischio di depressione».
«Per quanto riguarda i possibili meccanismi coinvolti, — prosegue Camardese — particolare interesse stanno suscitando alcuni costituenti di cui sono ricchi i vegetali, come i folati e altre vitamine del gruppo B, gli antiossidanti, come i carotenoidi, e il magnesio, costituente essenziale della clorofilla. Di quest'ultimo si è occupato anche il nostro gruppo, evidenziando nei pazienti depressi una correlazione tra livelli plasmatici ridotti di magnesio e esito meno favorevole delle cure farmacologiche. Per questo ora si studia anche la supplementazione della dieta dei pazienti con nutrienti che sembrano incrementare l'efficacia dei trattamenti antidepressivi».

Corriere Salute 10.2.13
Gli uomini dell'età della pietra si prendevano cura dei disabili
di Adriana Bazzi


«Romito 8» era forte e robusto, con un fisico ideale per sopravvivere, dodicimila anni fa, quando gli uomini si procuravano il cibo cacciando gli animali e raccogliendo i frutti della terra. Era il Paleolitico. A vent'anni, però, subisce un trauma: probabilmente una caduta dall'alto che lo fa atterrare sui talloni e gli provoca uno schiacciamento delle vertebre, un torcicollo, una lesione del plesso brachiale e una paralisi delle braccia. Non può più andare in cerca di cibo, ma sopravvive: trova qualcuno che lo accudisce e gli procura persino un'occupazione. «Le ossa delle gambe raccontano che rimaneva a lungo accovacciato, mentre i suoi denti, l'unica cosa sana e forte che gli era rimasta, mostrano segni di usura fino alla radice — spiega Fabio Martini, archeologo all'Università di Firenze — e questo fa pensare che li abbia usati per un lavoro: per masticare materiale duro come legno tenero oppure canniccio che altri, si può ipotizzare, avrebbero utilizzato per costruire manufatti come cestini o stuoie. Quelle lesioni non trovano nessun'altra giustificazione».
Il caso di Romito 8 è la dimostrazione che anche gli uomini preistorici si prendevano cura di malati e disabili ed è l'unico, finora noto, che dimostra come un individuo, incapace di provvedere a se stesso, possa rendersi utile alla comunità e ripaghi con il suo lavoro chi lo aiuta a sopravvivere. Romito 8 è uno dei nove individui ritrovati nella grotta del Romito, nel comune calabrese di Papasidero all'interno del Parco del Pollino. La scoperta risale al 1961, ma gli studi sui reperti continuano ancora oggi (le indagini sul Romito 8 verranno pubblicate proprio quest'anno su una rivista scientifica specializzata) e sono coordinati da Fabio Martini con la collaborazione di due antropologi, Pierfranco Fabbri dell'Università di Lecce e Francesco Mallegni dell'Università di Pisa, che hanno misurato, radiografato e sottoposto le ossa alle più moderne indagini scientifiche, tomografie computerizzate e analisi del Dna comprese.
Le ossa possono raccontare molto sulla salute dei nostri antenati: possono indicare l'età e il sesso di una persona, le malattie di cui ha sofferto, o almeno di alcune, i lavori che ha svolto (perché lo stress muscolare lascia segni sullo scheletro), l'alimentazione che ha seguito. E anche qualcosa di più. La storia di «Romito 2» lo dimostra: questo individuo soffriva di una grave patologia congenita, una forma di nanismo chiamata displasia acromesomelica (il primo caso riconosciuto nella storia umana) ; era alto un metro e dieci e aveva gli arti molto corti; non era in grado di cacciare, ma nonostante questo è sopravvissuto fino a vent'anni, assistito dalla sua comunità. «Il Romito 2 è stato sepolto con una donna della stessa età in una posizione particolare — continua il dottor Fabio Martini — perché l'uomo appoggia la testa sulla spalla della donna. Questo è inusuale dal momento che, nelle sepolture doppie, i cadaveri sono semplicemente avvicinati. Se questa specie di abbraccio abbia un significato protettivo nei confronti di chi è disabile è difficile dire, ma certamente la suggestione è da prendere in considerazione». Oggi gli archeologi non si limitano, dunque, a ricostruire la storia clinica degli uomini primitivi, ma cercano di capire come i malati o i disabili erano accuditi dalla comunità e di risalire, attraverso queste osservazioni, anche ai modelli culturali della società: è la bioarcheologia della sanità (o delle cure sanitarie), come la definiscono Lorna Tilley e Marc Oxenham dell'Australian National University di Canberra in un recente articolo pubblicato sulla rivista «International Journal of Paleopathology». I due autori propongono una metodologia, in quattro fasi, per studiare gli scheletri di individui malati o disabili: la prima punta a formulare la diagnosi clinica, la seconda a descrivere il significato che la malattia o la disabilità assumono nel contesto culturale della società di appartenenza, la terza a individuare il tipo di assistenza che potevano richiedere. Per esempio, per una persona paralizzata è indispensabile un'assistenza di tipo infermieristico, mentre le condizioni del Romito 2 presupponevano soltanto tolleranza da parte della comunità e un aiuto generico.
I l quarto stadio è quello dell'interpretazione: tentare, cioè, con gli elementi raccolti, di formulare ipotesi sulle culture preistoriche. I ricercatori hanno applicato questo metodo a «Man Bac Burial 9» o «M9», uno scheletro rinvenuto nella provincia di Ninh Binh, a un centinaio di chilometri da Hanoi nel Nord del Vietnam, in un cimitero del Neolitico. M9 era un uomo di 20-30 anni e il suo scheletro, ritrovato in posizione fetale, mostrava un'atrofia delle braccia e delle gambe, un'anchilosi di tutte le vertebre cervicali e delle prime tre vertebre toraciche, nonché una degenerazione dell'articolazione temporo-mandibolare.
G li studiosi australiani, dopo un'attenta analisi delle ossa, hanno formulato la loro diagnosi: sindrome di Klippel Feil di tipo III, e hanno ipotizzato che la paralisi degli arti (nel migliore dei casi una paraplegia, nel peggiore una tetraplegia) fosse sopravvenuta quando era adolescente e che M9 fosse sopravvissuto in queste condizioni per altri dieci anni. I due studiosi sono così arrivati alla conclusione che gli individui della sua comunità, prevalentemente cacciatori e pescatori, capaci di allevare a malapena qualche maiale addomesticato e incapaci di usare il metallo, spendevano del tempo per prendersi cura di lui e soddisfacevano tutti i suoi bisogni da quelli più semplici, come il mangiare, il vestirsi, il muoversi, a quelli più complessi come il mantenimento dell'igiene personale o la somministrazione di vere e proprie cure. «La bioarcheologia della salute — ha scritto nel suo lavoro Tilley — è in grado di fornire informazioni sulla vita dei nostri antenati. Il caso del giovane vietnamita non solo dimostra che la società in cui viveva era tollerante e disponibile, ma che lui stesso aveva una certa stima di sé e anche una grande forza di volontà. Senza questo non avrebbe potuto sopravvivere».

Paleolitico Mesolitico Neolitico
L'età della Pietra viene tradizionalmente suddivisa nei tre periodi: il Paleolitico, il Mesolitico e il Neolitico, in funzione delle tecniche predominanti di lavorazione dei materiali ed uso degli utensili.
-Il Paleolitico copre un periodo temporale che va da circa 2 milioni di anni fa fino alla fine del Pleistocene, 10 mila anni fa (in alcune aree 8 mila). Si costruiscono strumenti in pietra.
-Il Mesolitico va dalla fine dell'ultima glaciazione (circa 12 mila anni fa) fino a circa 8 mila anni fa. È considerato un periodo di transizione: comincia la domesticazione animale. Gli uomini sono ancora cacciatori e raccoglitori.
- Il Neolitico comincia nel 10 mila avanti Cristo e fu caratterizzato dalla nascita dell'agricoltura.
Le prime culture cominciarono ad apparire nel VIII millennio avanti Cristo nella zona della cosiddetta Mezzaluna Fertile.

Corriere La Lettura 10.2.13
Ius Scholae
Oltre il diritto di sangue oltre il diritto del suolo
Diamo la cittadinanza agli stranieri che vanno a scuola
di Maurizio Ferrera


Forse non sarà all'ordine del giorno nella prima riunione del nuovo governo (come promette il programma del Pd), ma è certo che la questione della cittadinanza agli immigrati dovrà essere seriamente affrontata nella prossima legislatura. In Italia risiedono stabilmente quasi tre milioni e mezzo di persone che provengono da Paesi non appartenenti all'Ue. Il nostro «tasso di naturalizzazione» si situa però al di sotto della media Ue ed è pari alla metà di quello francese o britannico. Siamo in altre parole fra i Paesi più avari nel concedere la cittadinanza agli immigrati, e in particolare ai loro figli, anche se nati in ospedali italiani. Si tratta di 650 mila minori in tutto, 75 mila nuove registrazioni all'anno. Questi ragazzi parlano la nostra lingua, guardano la televisione, vanno a scuola, dove studiano storia, geografia e letteratura italiana. Ma sono considerati «extracomunitari» o semplicemente «stranieri».
L'acquisizione della nazionalità è attualmente disciplinata dalla legge 91 del 1992. È automaticamente cittadino chi nasce da genitori italiani o possa vantare una discendenza diretta da cittadini italiani, anche senza essere nato nel nostro Paese. Per chi non possiede questi requisiti la naturalizzazione è un percorso a ostacoli. Bisogna prima ottenere un permesso e poi una carta di soggiorno. Le norme che disciplinano queste tappe dovrebbero essere allineate a una direttiva del 2004, ma purtroppo non è così. Le procedure sono più lunghe, macchinose e restrittive di quanto previsto dalla direttiva. Dopo dieci anni di residenza legale, si può chiedere la cittadinanza. La media degli altri Paesi è di cinque anni e, paradossalmente, era così anche in Italia prima della legge del 1992. La nazionalità si può successivamente trasmettere ai figli, come un'eredità. Se ciò non avviene, questi ultimi restano stranieri residenti. Dopo i 18 anni, possono, sì, chiedere la cittadinanza, ma solo se risultano nati sul suolo italiano, sono stati immediatamente registrati all'anagrafe (cosa che non avviene se i genitori sono o erano irregolari) e hanno soggiornato senza interruzioni in Italia per diciotto anni (molti figli di immigrati trascorrono lunghi periodi con i parenti nel Paese di origine). Un sistema anacronistico, che stride con le migliori pratiche internazionali, ingiustamente punitivo oltre che irragionevole sul piano economico, politico e sociale. Il nostro Paese deve urgentemente modernizzare la propria «politica della cittadinanza»: senza massimalismi, ma con coraggio e nel rispetto della cornice europea. Quali direzioni seguire?
Nel corso del XX secolo, la naturalizzazione degli stranieri è stata collegata al cosiddetto ius sanguinis (presenza di genitori o antenati già «nazionali»: caso tipico la Germania) oppure allo ius soli (nascita nel territorio nazionale: casi tipici gli Stati Uniti e la Francia). I due criteri riflettevano concezioni filosofiche profondamente diverse di ciò che deve fondare l'appartenenza a una comunità politica: una concezione «oggettiva», basata su sangue e stirpe, contrapposta a una «soggettiva», basata sulla condivisione di valori, diritti e doveri. Fichte contro Renan, in altre parole: nazione-popolo versus nazione-repubblica. Sulla scia degli imponenti flussi migratori degli ultimi due decenni, questi criteri non tengono più nella loro forma pura. Che senso ha concedere la cittadinanza per «legami di sangue» a chi è nato e risiede all'estero e non ha magari nessun rapporto con la madrepatria? Perché negare la nazionalità (o farla sospirare per un tempo quasi infinito) a uno straniero che non è nato in loco ma si è bene integrato nel Paese di immigrazione? Oppure concederla per «legami di suolo» a chi è nato in un dato Paese solo per caso, senza poi vivervi stabilmente?
Una seria politica della cittadinanza va oggi imperniata su nuovi criteri: essenzialmente la residenza (ius domicilii), accompagnata da «filtri» che attestino la disponibilità e la misura dell'integrazione (frequenza scolastica, lavoro regolare, conoscenza della lingua e così via). La naturalizzazione non deve essere più vista come un passaggio «puntuale», un salto di status irreversibile disciplinato da criteri molto generali e automatici. Va piuttosto vista come un processo graduale, accompagnato da incentivi premiali e corsie preferenziali. Ciò vale soprattutto per i minori, ai quali dovrebbe applicarsi una combinazione di ius domicilii e ius scholae (il ministro Riccardi ha recentemente usato l'espressione di ius culturae). Nel linguaggio degli esperti, questo canale è definito socialization-based acquisition: la naturalizzazione è condizionata alla frequenza scolastica e/o ad altre esperienze formative. La giustificazione di questa posizione è quasi intuitiva. Chi è stato socializzato alla cultura e alla lingua di un dato Paese ha più alte probabilità di condividerne i valori o quanto meno di rispettare il pacchetto di diritti e doveri vigente in quel Paese. Come sosteneva Ernest Renan, dopo tutto la cittadinanza è un «plebiscito quotidiano»: ogni giorno i membri della comunità politica «scelgono» di ubbidire alla legge. D'altra parte, chi diventa cittadino ha un incentivo ulteriore a seguire le norme del proprio Paese: si origina in altre parole un vero e proprio circolo virtuoso. In Francia (dove è stato ormai abbandonato lo ius soli) un minore che abbia seguito un percorso d'istruzione per almeno cinque anni ha automaticamente diritto alla cittadinanza. In Danimarca e Finlandia il diritto scatta anch'esso automaticamente con la frequenza scolastica, a partire dai 15 anni (purché non ci siano state condanne penali che prevedano il carcere).
A partire dal 2009 si è finalmente aperto anche in Italia un dibattito sulle regole di naturalizzazione. Nel novembre 2011 il presidente della Repubblica ha parlato esplicitamente delle gravi manchevolezze del vigente sistema. Nel suo discorso di fine anno, lo scorso 31 dicembre, Napolitano è tornato a denunciare la situazione dei minori extracomunitari e delle loro difficoltà di integrazione. In Parlamento giacciono diversi progetti di legge che puntano in direzione europea: rimandare ancora la riforma sarebbe un peccato grave.
La cornice europea invita a riflettere non solo sui percorsi di acquisizione, ma anche sulla definizione stessa di cittadinanza. Anche qui sembra opportuno superare la giustapposizione secca cittadino/straniero e prevedere forme intermedie di «quasi-cittadinanza». I paralleli storici rischiano di essere fuorvianti. Ma ricordiamo che, per gestire la convivenza civile di un vasto impero multietnico, il diritto romano distingueva fra cives romani optimo iure (detentori di tutti i tipi di diritti, compresi quelli politici), cives latini (che potevano fruire di un pacchetto base di diritti, soprattutto di natura economico-sociale), e peregrini, ai quali si applicava unicamente lo ius gentium. Anche un impero più recente, quello britannico, introdusse forme di cittadinanza differenziata che sono in parte ancora in vigore all'interno del Commonwealth, raggruppate sotto il nome di denizenship (un termine di origine anglo-romanza: le prerogative di chi si trova «de dans», ossia «dentro»). I diritti conferiti da queste forme sono raccordati con quelli del Paese di origine (soprattutto in campo previdenziale e sanitario), promuovendo così anche forme di «migrazione pendolare» (pensiamo a un medico indiano che voglia lavorare sei mesi l'anno in un ospedale britannico). L'istituto della cittadinanza Ue (introdotto dal Trattato di Maastricht nel 1992 e via via rafforzato) può già essere considerato una forma di denizenship: si tratta infatti di uno status che conferisce ai nazionali di ciascun Paese membro alcuni diritti che possono essere esercitati entro tutto il territorio dell'Unione. Per ora la cittadinanza Ue è di «secondo ordine» rispetto a quella nazionale: può solo aggiungersi, ma non precedere o sostituire la cittadinanza di un Paese membro. Ma nulla impedisce (soprattutto dopo il trattato di Lisbona) di utilizzarla come status alternativo o preparatorio alla cittadinanza nazionale per gli immigrati extracomunitari che soddisfano certi requisiti di nascita e/o di «merito» (conoscenza della lingua, istruzione, lavoro regolare, possesso di particolari competenze e così via).
All'interno di una cornice così articolata, potrebbero trovare collocazione anche la questione delle «corsie preferenziali» (soprattutto, come si è detto, per i minori) e quella ancora più delicata della possibile revoca della cittadinanza per chi commette reati gravi e ripetuti. La «buona condotta» potrebbe diventare uno dei più elementari filtri selettivi, rimanendo eventualmente operativo anche per un certo lasso di tempo dopo la piena naturalizzazione.
Come ben sappiamo, l'immigrazione è oggi uno dei temi politicamente più scottanti. Secondo i sondaggi in molti Paesi la maggioranza degli elettori si dichiara preoccupata e insicura. In Italia il 51 per cento degli elettori ritiene che ci siano «troppi immigrati extracomunitari», il doppio di Francia e Germania. L'80 per cento esprime forte preoccupazione soprattutto nei confronti dell'immigrazione clandestina: una delle percentuali più alte d'Europa. Nelle ultime elezioni europee i partiti xenofobi hanno ovunque guadagnato voti ed è prevedibile che il sostegno per tali formazioni aumenti ancora in occasione del prossimo rinnovo del Parlamento di Strasburgo, l'anno prossimo. C'è il rischio di una spirale di polarizzazione ideologica, non solo da parte dei nazionali, ma anche da parte degli «stranieri» (come sta già avvenendo in Francia).
Sappiamo che le economie e i welfare europei non possono più fare a meno degli immigrati. Pensiamo per un momento alle pensioni. Come in tutti i Paesi Ue, il sistema pensionistico italiano si basa sulla cosiddetta «ripartizione»: le prestazioni in pagamento vengono finanziate dal flusso dei versamenti contributivi di chi lavora, senza accantonamenti. Come si potrebbero mantenere adeguati flussi di contribuzione se venisse a mancare anche solo una parte dei lavoratori extracomunitari regolari? Sappiamo che la grande maggioranza di questi lavoratori (con un numero crescente di figli) si sono perfettamente inseriti nella nostra società. L'integrazione è non solo possibile ma anche vantaggiosa per tutti. Una nuova politica della cittadinanza può far molto per facilitare ulteriormente questo processo e contenere i rischi di pericolose radicalizzazioni.

Corriere La Lettura 10.2.13
Marocchini e albanesi i più motivati a diventare italiani
di Alessandra Coppola


Anche i numeri possono tracciare dei volti, dar loro un corpo, collocarli in uno sfondo. Un uomo passa la calce sul muro, arrampicato su un ponteggio a Milano, è arrivato dall'Albania. Un venditore ambulante s'aggira per le strade di Torino, è partito molti anni fa dal Marocco. Un terzo s'alza all'alba per mungere vacche nella Bassa Bresciana, è nato in India. Un profilo di donna, impiegata come badante, vive a Napoli, è ucraina. Oppure una colf, intenta a rifare i letti in un appartamento veneto, probabile che sia moldava.
Ci sono i dati della presenza straniera in Italia (4.570.317 al primo gennaio 2011 per l'Istat), le cifre che raccontano di che nazionalità sono (primi i romeni, 968 mila), quanti minori (1.038.275), quanto lavorano e con che stipendio, tutto scritto nell'ultimo Rapporto sull'economia dell'immigrazione della Fondazione Leone Moressa di Venezia, specializzata sul tema. E poi c'è un modo diverso di leggere le tabelle, scomponendole e aggregandole di nuovo per comunità, e tirando fuori per le prime dieci più numerose un identikit dei nuovi abitanti d'Italia. È il lavoro che ha appena concluso Marta Cordini, giovane ricercatrice della Fondazione Moressa, che da questo gioco delle carte d'identità ha capito molte cose. Anche sul desiderio di ottenere la cittadinanza italiana, che resta comunque meta per pochi (0,8 per cento).
«Tra le comunità emergono differenze interessanti — spiega Cordini — che derivano non solo da ragioni economiche, ma soprattutto dai tratti culturali, dai progetti migratori, dalle reti etniche». La distribuzione territoriale, per cominciare. I cinesi che prendono casa a Milano, a Firenze, a Prato, ma anche a Treviso e Reggio Emilia. Per ragioni di ricerca del lavoro, certo, che resta la spinta principale: «È il motivo per cui gli immigrati continuano a essere più numerosi al Centro e al Nord e nelle grandi città». Ma rimane fondamentale per orientare i percorsi la presenza di reti di connazionali, meglio ancora se parenti, che hanno già una storia di insediamento nei Comuni italiani. La maggior parte dei tunisini si è stabilita nel Ragusano, per esempio: si spiega con gli storici scambi tra le due coste del Mediterraneo e con gli ultimi sbarchi sull'onda delle primavere arabe. Ma una forte presenza si registra anche a Modena più che a Milano, o a Parma più che a Roma.
La comparazione tra gli identikit racconta anche di una disparità tra le retribuzioni. Le comunità arrivate per prime hanno maturato maggiori capacità contrattuali, riescono a far valere meglio i propri diritti. I filippini, invece, per la maggior parte impiegati part time o comunque a orari ridotti in attività domestiche, spesso anche in nero, fanno registrare salari più bassi. Trasversale è, invece, la differenza tra le paghe di uomini e donne. Vale per gli italiani come per gli stranieri, «un po' più lieve tra i cinesi, che spesso hanno attività commerciali a conduzione familiare — continua Cordini —, raggiunge punte molto alte tra i marocchini, con una differenza anche di 380 euro al mese».
Le donne provenienti dall'ex blocco sovietico, in particolare, «soffrono di sotto inquadramento: svolgono mansioni inadeguate al titolo di studio, che spesso è superiore a quello dei connazionali maschi». Sono laureate, ma lavorano come domestiche o portinaie. A volte, arrivate in Italia, cercano di riscattarsi, frequentano corsi di specializzazione, conquistano diplomi da operatrice sanitaria, per esempio. Così, se il 37,5 per cento delle romene è impiegato nella cura alle persone, si scopre che l'11,2 lo fa in maniera qualificata. Magra consolazione per le lavoratrici: la crisi ha colpito di più gli uomini, e tra questi soprattutto est-europei e africani, perché ha bersagliato maggiormente il settore delle costruzioni e della manifattura, risparmiando, in parte, il lavoro domestico. Tenuto conto che la disoccupazione tra gli stranieri ha registrato nel complesso un incremento di quattro punti: dall'8 al 12-13 per cento.
Il desiderio di diventare cittadini italiani è un altro tratto che descrive il profilo dei nuovi abitanti: la comunità più numerosa è quella romena, ma in cima alla lista di chi ha chiesto e ottenuto la cittadinanza ci sono i marocchini (6.952 nel 2010) e gli albanesi (5.628). Perché sono arrivati da più tempo in Italia, e quindi hanno raggiunto per primi i requisiti per presentare la domanda (innanzitutto i dieci anni di residenza). E anche perché sono più motivati a diventare cittadini europei e a conquistare mobilità all'interno delle frontiere dell'Unione, rispetto a chi viene dalla Romania che dal 2007 è nella Ue. Ancora, più spesso presentano i documenti i sudamericani (i peruviani sono quarti, seguiti dai brasiliani) perché in alcuni casi riescono a risalire ad avi italiani e a beneficiare dello ius sanguinis (italiano chi è discendente di italiani).
Per le seconde generazioni, invece, qualunque formula di ius soli (italiano chi nasce in Italia) venga introdotta nel nostro ordinamento, già si segnalano delle diversità interessanti. A fare più bambini sono ancora marocchini, tunisini e indiani. Pochi, invece, i figli per le ucraine, le moldave e le polacche. «Perché i modelli migratori sono diversi», spiega la ricercatrice. Africani e asiatici chiamano spesso in Italia mogli e bimbi con i ricongiungimenti e si insediano qui con tutta la famiglia. Le donne dell'Est arrivano spesso da sole, in età più matura, mariti e figli rimasti in patria, anni e anni di fatica e di soldi accumulati con l'idea poi di tornare indietro. Tra la crisi e i nuovi modelli culturali, però, asiatiche e africane stanno cominciando a fare meno bambini, e in stagioni sempre più avanzate, come le italiane. Alla fine, in tempi lunghi, i profili sono destinati a sovrapporsi.

Corriere La Lettura 10.2.13
La zuppa e il «pagan metal». Le nostre radici barbariche
Inutile inseguire l'Ultima Thule incontaminata. L’identità dell'Europa ha un carattere ibrido
di Alessandro Zironi


Tanto si è discusso e si discute sulle possibili radici cristiane o greco-latine dell'Europa. A nessuno si è palesato il dubbio che le nostre radici siano invece barbariche? Questo suggeriva provocatoriamente Jean-Jacques Aillagon aprendo il catalogo della mostra veneziana Roma e i barbari (Skira, 2008). Gli europei sono ascrivibili d'ufficio al gruppo dei «balbuzienti» (tanto, significa, in greco, barbaroi) o, ancor peggio, vanno annoverati tra le fila dei selvaggi e primitivi, come vuole l'ampliamento semantico del termine? L'accezione negativa della parola barbaro è quella corrente. Gettiamo un rapido sguardo al suo uso contemporaneo: si scopre che in un talk-show televisivo si conducono «interviste barbariche», cioè provocatorie, disinibite, al di fuori delle regole usuali del giornalismo. Oppure si pensi al film Le invasioni barbariche (regia di Denys Arcand, 2003), in cui si rappresenta la fine di un'epoca nei suoi valori portanti, schiacciati dal caos emotivo ed etico in cui la vita dell'individuo precipita. Solo qualche giorno fa, il presidente francese François Hollande denunciava a Timbuctù la «barbarie» perpetrata sui beni culturali del Mali. In altra direzione si muovono invece gli studi storiografici: quelli più avveduti, fra i quali ricordo i lavori di Walter Pohl, stanno infatti spostando il baricentro semantico del termine «barbaro» da una connotazione profondamente e tradizionalmente negativa a un uso più neutrale, ove con barbarico si intende definire un periodo della storia d'Europa, quello tardo-antico ed alto medievale. Tempi barbarici (Carocci, 2012), è il titolo di un recente volume di Stefano Gasparri e Cristina La Rocca: in esso il confine fra civiltà e barbarie, fra dominatore e dominato non è poi così netto. Queste recenti indagini storiche sfumano anche il concetto di assimilazione con cui un tempo si intendeva l'assorbimento delle masnade barbariche all'interno della civilitas romana (e bizantina) ereditata e salvaguardata poi dalla Chiesa. In definitiva, barbari, alle soglie dell'età medievale, lo sono un po' tutti, al di là di denominazioni etniche spesso fasulle alle quali una tradizione storica di matrice ottocentesca nazionalista ci ha abituati: Goti, Longobardi, Burgundi, Franchi, Suebi e, ovviamente, non possono mancare loro, i barbari per antonomasia, i Vandali. Queste genti, però, si muovono attraverso l'Europa non come corpi etnici impenetrabili a influenze esterne, ma raccolgono e accolgono individui e gruppi nei quali di volta in volta si imbattono: Greci, Romani, Celti, popoli delle steppe, in una parola quel melting pot che darà poi vita agli europei. In Italia tutti parliamo un po' in longobardo o in gotico. Molto spesso non lo sappiamo neppure. Chi non pronuncia, almeno una volta al giorno, la parola schiena, oppure guancia o, piuttosto, pensa che occorrerebbe arredare nuovamente la cucina in cui mangiare una zuppa magari riscaldata nel microonde? Parliamo ostrogoto? Finalmente possiamo rispondere: «Sì! ». Per non dire dei Longobardi e Franchi in cui ci imbattiamo scorrendo i campanelli di ogni condominio: tutti coloro che hanno il cognome che termina in -ardi, possono intraprendere una bella ricerca genealogica e sperare di arrivare a Carlo Magno; chi, invece, all'anagrafe, è registrato come Sighinolfi o Alderissi, può invece immaginare di essere parente di re Alboino.
Peccato, però, che l'indagine genealogico-etnica naufragherà, scoprendo ben presto che la discendenza non sempre può vantare antenati di pura schiatta romana o barbarica. Valga qualche esempio: a Varsi (Parma), nel 735 vive il soldato e vir honestus Berto (quanto mai longobardo) il cui figlio prende però il nome latino di Antonino; a Lucca, di contro, nel 764, un babbo Vincentius, ha un figlio dall'altisonante nome longobardo Sichipert. Viene da pensare allora che l'idea di barbaro sia più una costruzione culturale moderna, anche un po' ammuffita, piuttosto che una realtà dei fatti. Se, allora, dal barbaro non possiamo più smarcarci etnicamente e linguisticamente, probabilmente tutta la questione va addebitata allo stereotipo che si associa alla sua immagine. Come in tutti i clichés si raccolgono anche qui rifiuti e pulsioni, inconfessabili adesioni, convinte appartenenze. Già lo storico romano Tacito, alla fine del I secolo d. C., raffigura le genti che abitano al di là del Reno come uomini e donne che prediligono il bosco alla città, la casa isolata all'agglomerato, che vivono casti sino al matrimonio: un'idea di purezza di costumi a contatto con una natura primigenia che tanto infatuerà l'immaginario europeo.
L'europeo si innamora dell'Ultima Thule, dell'Islanda, isola di ghiacci e fuoco in cui andare ad alimentare il sogno delle origini, ultimo, incontaminato luogo in cui recuperare ciò che di sano vi era nell'età dei barbari. È la ricerca dell'estremo, magari da percorrere col fuoristrada, addentrandosi nei tratturi più interni e accidentati dell'isola. I sogni di molti viaggiatori alla ricerca della terra dei vichinghi si appagano anche così, sentendo una giovane donna, ai piedi della collina sacra di Helgafell — come è capitato al sottoscritto — vantarsi di discendere da Guðrún Ósvífrsdóttir, tremenda virago protagonista della Laxdæla Saga, forse vissuta alla fine del X secolo. Tanta fortuna, anche letteraria, del Nord è probabilmente legata a questa visione così radicata nel nostro immaginario di un mondo ancora intatto, arcaico, scevro dalle corruzioni della società industriale e dunque barbarico perché ancora puro e incontaminato. Con barbarie, perciò, non si intende più la distruzione della civiltà, ma piuttosto la volontà di recuperare il primigenio. Non siamo molto distanti dalle speculazioni romantiche, che nelle genti germaniche, celtiche o slave cercavano di individuare i popoli fondanti del proprio ethnos, anche se, va detto, il legame terra-ethnos è ben più antico e si ritrova già in alcuni testi medievali. Molto del recente folclore a uso turistico (talvolta politico) che si spende nella vana ricerca delle origini approda al cosiddetto mondo barbarico. In esso si sfoggiano fittizie ricostruzioni che poco però hanno a che vedere con quello che gli archeologi medievali pazientemente portano alla luce. Un buon viatico in questo percorso fra gli stereotipi barbarici può essere raccolto anche nelle evidenti affinità riscontrabili fra molti raduni e fiere in costume, più o meno casarecci — di cui anche l'Italia si sta popolando — e la rappresentazione che dei barbari propone una certa produzione fumettistica, che restituisce graficamente ciò che l'immaginario collettivo si aspetta da quella terra barbarica: natura estrema, una mascolinità esibita da uomini virili, spesso villosi e muscolosi, dei quali si intuiscono i successi sessuali e la consuetudine alle grandi bevute. La donna è, di contro, figura servile, a uso e consumo del maschio, una Barbie impiantata nel corpo barbarico del medioevo nordico. Se non è accondiscendente e devota ai suoi doveri muliebri, diviene elemento di disturbo nell'ordine cosmico, spesso strega, talvolta femme fatale, comunque da eliminare. Lo stesso avviene nei numerosi videoclip di brani musicali connessi al cosiddetto pagan metal o viking metal, in cui sono proposti i medesimi ruoli sociali: l'uomo combatte, la donna venera il maschio e custodisce la comunità. Basti prendere visione di qualche filmato dei Týr, gruppo di buon successo e capacità musicali, o dei Menhir, anch'esso di notevole diffusione e discreta bravura. Entrambe le band mettono in musica testi medievali, in lingua originale: ballate delle isole Fær Øer i Týr; il Carme di Ildebrando di età carolingia i Menhir. Il mondo barbarico si recupera anche attraverso l'uso della lingua antica, quasi a suggellare un passato culturale che nulla ha da patire nel confronto con la tradizione musicale in lingua latina. Infatuazioni della musica gregoriana e dell'ars antiqua invadono anche gli arrangiamenti delle compilation metal, ove tutto si mescola e si confonde. Un'assimilazione senza vincitori né vinti in cui la differenza è ricchezza. Che, in fondo, questa sia la barbarie dell'Europa? Sapere di essere uguali, ma allo stesso tempo diversi, uniti ma pure divisi, fusi ma distinti? Probabilmente l'immagine più vera della barbaritas è il medaglione d'oro di Teoderico (nella foto), re degli Ostrogoti, rinvenuto nei pressi di Senigallia nel 1894. Il re goto, che parlava greco e latino, sceglie di farsi rappresentare alla maniera romana con la tradizionale vittoria alata, senza rinunciare tuttavia al lungo crine e al baffo germanico: non si sa più dove finisca la romanitas e inizi la barbaritas. Che sia questa l'icona più efficace per rappresentare la nostra ibrida «europeità»?

Alessandro Zironi (Carpi, 1964) insegna Filologia germanica e Letterature nordiche all'Università di Bologna

Corriere La Lettura 10.2.13
Ho visto l'oro di Timbuctù
Laing la scoprì nel 1826. Non tornò mai indietro
di Elisabetta Rosaspina


Non si era più visto un uomo bianco da quasi quattro secoli, a Timbuctù, quel 13 agosto del 1826, quando arrivò, alla testa di una piccola carovana di cinque cammelli, lo scozzese Alexander Gordon Laing. Giovane, biondo, esausto, ferito in un attacco dei Tuareg lungo la strada, ma felice: aveva vinto la corsa del secolo. Dalla metà del '400, cioè dai tempi del cronista viaggiatore fiorentino Benedetto Dei, Laing era il primo europeo a raggiungere «la capitale dell'oro» africana, la città perduta di cui tutti parlavano, in Occidente, e che nessuno aveva visto, così da far dubitare a molti perfino della sua esistenza. In tredici logoranti mesi, l'irriducibile esploratore aveva attraversato il Sahara da nord a sud, aprendo una rotta inedita; aveva preceduto i francesi, ma anche agguerriti connazionali, come Hugh Clapperton, lo scopritore del lago Ciad, scatenati dal governo di Londra per avere più «cavalli» sui quali puntare nell'affannata competizione con Parigi. Più possibilità che qualcuno fra loro sopravvivesse alla febbre, alla dissenteria, agli agguati dei guerrieri indigeni, ai tradimenti degli infidi uomini di scorta.
Davanti agli occhi del bell'ufficiale britannico si schiudevano finalmente i segreti meglio conservati del continente nero: probabilmente Timbuctù non si rivelò proprio quello scrigno di incalcolabili ricchezze decantato dalle leggende nei secoli precedenti, ma non deluse l'ambizioso Laing che la trovò «rispondente alle sue attese, in tutto fuorché nelle dimensioni». Era arrivato, e lo sapeva, al cuore della più fornita, enciclopedica «biblioteca di sabbia» al mondo: una miniera non di oro o diamanti, ma di centinaia di migliaia di manoscritti arabo-islamici, risalenti fino al XIII secolo. E, già allora, esposti alle razzie e alle devastazioni che hanno rischiato di disperderli per sempre, l'ultima volta, poche settimane fa.
Laing guardava avanti, e sperava soprattutto di aver trovato la porta d'accesso alla scoperta che avrebbe consegnato il suo nome alla Storia: l'introvabile foce del fiume Niger. Quel delta misterioso che nemmeno il pioniere Mungo Park era riuscito a scovare, nonostante l'alto prezzo di uomini e mezzi immolati nella ricerca attraverso l'Africa occidentale.
Timbuctù. Mai gloriarsi di aver conquistato Timbuctù. Affascinante e feroce, come un fiore carnivoro, non avrebbe permesso facilmente a un forestiero di tornare indietro a vantarsi d'averla espugnata. Tantomeno a un cristiano. Tantomeno a un europeo. Ma il bando di concorso aperto dalla Società geografica di Parigi era categorico: per assicurarsi il premio di 10 mila franchi e legare indissolubilmente la propria fama all'atlantide africana occorreva un dettagliato resoconto del viaggio. Insomma, occorreva uscirne vivi, per poter descrivere agli accademici compatrioti il porto fluviale da cui sgorgavano i tesori esportati dai Berberi e che aveva incantato il geografo arabo Leone l'Africano, nel XVI secolo.
Analoga condizione aveva posto Hanmer Warrington, console britannico a Tripoli, Libia, nel luglio del 1825, quando il giovane maggiore scozzese era diventato, sulla carta, suo genero. Era stato lo stesso, potente diplomatico a celebrare le nozze della figlia Emma, che Alexander aveva conosciuto durante i sei mesi di preparativi della sua spedizione all'altro capo del deserto. Fu vero amore, immediato e travolgente. Ma era destinato a rimanere platonico — stabilì il console, inesorabile — fino al rientro del maggiore Laing dalla sua missione, che iniziò appena 48 ore dopo le nozze e sarebbe durata almeno un anno. Scriveva regolarmente al suocero, riservando sempre qualche riga per Emma, e affidava le sue missive a ogni possibile messaggero che si accingesse ad attraversare il Sahara verso Tripoli. Quelle lettere sono l'unica testimonianza della sua impresa. Perché del suo diario, dei suoi schizzi, delle notizie raccolte per quello che sarebbe stato un bestseller al suo ritorno a Londra, non esiste più traccia.
Il 26 settembre del 1826, a poco più di un mese dal suo ingresso a Timbuctù, il valoroso scozzese, carico di appunti, era certamente sulla via del ritorno, in fuga dalla minaccia che gli alitava sul collo: Sheku Hamadu Lobbo, sanguinario jihadista del tempo. Lo sceicco, che controllava la regione dal Volta Nero (ora nel Burkina Faso) fino a Timbuctù, voleva morto l'impudente «europeo» prima che riguadagnasse Tripoli. Prima che tornasse tra i suoi simili a raccontare ciò che aveva visto, invogliando altri «infedeli» a seguirne le orme e a contaminare le terre musulmane. «Non ho tempo ora di riferirvi di Timbuctù — scrisse Laing nella sua ultima epistola, datata 21 settembre 1826, annunciando il suo precipitoso rientro — ma posso affermare che sotto ogni aspetto, eccetto la misura (che non eccede le quattro miglia di circonferenza) ha completamente incontrato le mie aspettative». E alimentava quelle del suo corrispondente: «Sono stato occupato durante la mia permanenza a cercare documenti nella città, che sono abbondanti, e nell'acquisire informazioni di ogni genere». La sua perseveranza, concludeva, era stata premiata. Le sue convinzioni sul corso del Niger ne uscivano rafforzate. Ma si rammaricava di aver trascurato la sua sposa, in quelle settimane: «La mia adorata Emma deve scusarmi: ho iniziato centinaia di lettere per lei, ma non sono stato in grado di finirne una sola. È sempre in cima ai miei pensieri e non vedo l'ora, con delizia, del nostro incontro che, a Dio piacendo, non è ormai molto lontano».
Sgozzato, strangolato, accoltellato nel sonno: nessuno saprà mai come morì Alexander Gordon Laing. Ma fu probabilmente in una notte di fine settembre che Emma Warrington divenne vedova prima di essere stata moglie. Ignara, il 10 novembre successivo, scriveva ancora al marito appassionate pagine d'amore che lui non avrebbe mai letto. E quando le giunse l'ultimo manoscritto di Laing, i resti dello sfortunato maggiore erano già sepolti da un pezzo. Forse proprio sotto l'albero del villaggio di Sahab, 50 chilometri a nord di Timbuctù, dove nel 1910, l'esploratore Albert Bonnel de Mézières, su indicazione di un arabo ottuagenario, trovò effettivamente due scheletri. Appartenevano davvero a Gordon Laing e a uno dei suoi servitori? Non fu mai appurato.
La ricostruzione fatta quasi un secolo dopo contrastava con le testimonianze coeve e con le informazioni raccolte sul posto, 19 mesi dopo la scomparsa del maggiore, dal francese Auguste René Caillé, che riuscì rocambolescamente ad andare e tornare da Timbuctù, sotto mentite spoglie musulmane, assicurandosi la ricca ricompensa di Parigi e la gloria. I britannici mal digerirono la sconfitta e sospettarono il barone Joseph-Louis Rousseau, potente console francese a Tripoli, di aver complottato contro Laing, e di essersi addirittura impossessato delle carte e dei libri trafugati dagli assassini. Ne seguirono anni di accuse e di indagini, ma la «perla del deserto» era ormai destinata ai francesi, il cui esercito sarebbe entrato a Timbuctù, per la prima volta, nel 1892, pur pagando agli avi degli attuali Tuareg un enorme tributo di sangue.
Ed Emma Warrington? Convinta dal padre a risposarsi con il vice console britannico a Bengasi, seguì il nuovo marito in Italia e morì a Pisa sei mesi più tardi, il 2 ottobre 1829. Assieme alla speranza di ricevere un'altra lettera del maggiore Laing.

Corriere La Lettura 10.2.13
Insegno Beethoven ai sordi
Giulia Cremaschi Trovesi: il corpo è musica
di Paola D’Amico


F ancesco ha una diagnosi di autismo, s'è diplomato a pieni voti in pianoforte. La sua esecuzione del Concerto italiano di Bach è perfetta. Anche Nicola è autistico e suona il piano e il sax. Ha le unghie consumate, perché quando non suona si tormenta le mani, che non stanno mai ferme, come un torrente in piena di emozioni inesprimibili. Giulia Mazza ha 25 anni, una laurea in biologia, è sorda bilaterale profonda e suona Schubert, Bach e Shostakovich al violoncello: rivedere cento volte il video di uno dei suoi concerti in teatro è emozionante e disarmante. L'accompagna al piano Giulia Cremaschi Trovesi, la musicoterapeuta che la segue da quando aveva 3 anni. «Come fa? Questo è il grande mistero. Non mi sono ancora abituata ai miracoli. Non cerchiamo di entrare nella testa di un altro», sdrammatizza. «Qui — aggiunge — c'è stata una mamma fantastica che ha creduto in quello che le spiegavo e cioè che la musica è dentro l'uomo, il grembo materno è la prima orchestra, il luogo dove non esiste un solo attimo di silenzio, dove la musica è pulsazione, respiro, voce».
Per entrare nel mondo di Giulia Cremaschi Trovesi occorre fare tabula rasa, abbandonare stereotipi, luoghi comuni, pregiudizi e tecnicismi. La chiave di lettura che lei offre sembra semplice: «La musica è dentro di noi. Siamo corpo vibrante. Senti il tuo corpo, il respiro, la voce, ascoltati... La soluzione è dentro di te».
La musicoterapeuta che insegna a suonare Beethoven a sordi e autistici, che fa cantare e danzare i ragazzi Down, che guarda con scetticismo alle diagnosi frettolose di «deficit d'attenzione e iperattività», spiazza così i suoi ospiti — grandi e piccini, per lei sono tutti uguali. Ripete: «La musica è per tutti, è un linguaggio universale».
Ha 70 anni, due occhi celesti e magnetici, capelli biondo cenere mai tinti, è energica e paziente. Insegna da quando di anni ne aveva venti. Vive con i figli e i nipoti nella grande casa di famiglia in cima a un colle, a Rosciano, frazione di Ponteranica a ridosso di Bergamo, in Val Brembana. «Non insegno nulla, hanno già tutto, la musica, il ritmo. Un bimbo piccolo è già capace, io gli do soltanto l'occasione per mostrarlo».
Il suo incontro con la musica è avvenuto quando aveva cinque anni. «Papà capì e mi portò da una suorina delle Canossiane, Emilia, che usava il linguaggio del corpo. Un giorno disse che ero veloce a imparare e mi dovevano cercare un altro insegnante». Gli studi, i diplomi, l'insegnamento alle scuole magistrali. Fino all'incontro con il primo bimbo autistico: «Me lo affidarono nel 1975, il figlio di un collega. Dopo qualche tempo ho lasciato la scuola per dedicarmi soltanto a questo nuovo lavoro».
Nel suo ufficio austero c'è ancora il profumo della polenta che ha cucinato sulla stufa per i nipotini il giorno prima. Giulia siede alla scrivania come sul ponte di comando di una nave: tre piccoli televisori sono appesi sopra il grande desktop del computer, con la foto di famiglia a fare da sfondo. Sugli schermi scorrono le immagini dei suoi ragazzi in concerto. «Il mio lavoro è questo: capire da un dettaglio quante potenzialità ci sono in un bambino». L'incontro dei più piccoli con la magia dei suoni avviene in una stanza rivestita in legno, come la cassa armonica di uno strumento musicale: si muovono, gattonano, giocano, battono i piedi e lei li segue accompagnando ogni loro gesto con un suono. Non sono loro a dover seguire suoni e ritmi imposti. Giulia siede al piano: «Gioco con la tastiera, la uso con i bambini come fosse la buca della sabbia». In ogni gesto, movimento, azione, intonazione della voce, c'è già un ritmo, un tempo, una musica, spiega, così come i tratti del volto esprimono un'emozione. «Improvvisare alla tastiera per rispecchiare tutto questo vuol dire saper leggere (non certo interpretare) e dare voce alle note scritte nella e sulla persona».
È una strada che non conosciamo, faticosa, quella intrapresa da Giulia. Quando incontrò in udienza Papa Wojtyla gli chiese: «Perché tanta fatica?». «Le cose difficili — rispose Giovanni Paolo II — fanno sempre fatica ad imporsi». Ha pubblicato libri (l'ultimo, Il grembo materno. La prima orchestra), tenuto insieme nella Federazione italiana musicoterapeuti (www.musicoterapia.it) coloro che lavorano con i suoni per riabilitare patologie molto gravi (autismo) e i casi di plurihandicap (lesioni cerebrali, sordocecità, esiti da nascite premature). Eppure, la fatica di andare controcorrente non ha mai scalfito il suo ottimismo: «Perché non dovrei essere ottimista?».
Citando la filosofa e religiosa tedesca Edith Stein e i suoi studi sull'empatia ci invita a immaginare di essere «partiture viventi». Il corpo parla di noi stessi a nostra insaputa. Ecco spiegato il «miracolo» della violoncellista non udente. Noi viviamo con il nostro corpo, «non sentiamo solo con le orecchie, c'è la risonanza che investe il corpo ed è fonte di emozioni, ma di solito il corpo viene soffocato dall'educazione ricevuta a tavolino». Educazione dei tempi moderni, poco inclini ad aprirsi a una strada che impone la fatica di tornare alle radici della musica. «Non ho inventato niente. Il veronese padre Antonio Provolo, due secoli orsono, faceva già cantare in coro i sordi nell'istituto che aveva fondato per loro. Vuoi che un non udente parli? Gli fai scaturire la voce attraverso le emozioni. I bambini sordi me lo hanno insegnato. Quando suonavo, si buttavano sulla cassa armonica del pianoforte per essere investiti, compenetrati dalle onde sonore. Stavano così abbracciati al pianoforte che diedi loro il permesso di andarci sopra, si stendevano e non si muovevano più». Il pianoforte può diventare un poderoso tamburo che martella i ritmi e all'improvviso un delicato carillon. Le onde sonore si propagano attraverso l'aria e permeano il mondo attorno attraverso la risonanza.
«Non sentiamo soltanto con le orecchie». Era già chiaro agli antichi. Nelle tradizioni sciamaniche dalla Mongolia al Messico, nelle tradizioni arcane cabalistiche del giudaismo e del cristianesimo, i suoni vocali e gli armonici sono stati usati per guarire e trasformare, per bilanciare i centri energetici del corpo e attivare le risonanze del cervello. E il padre della geometria aveva già svelato come un suono ne generi altri superiori (armonici): Pitagora credeva che l'universo fosse un immenso monocorde, uno strumento con una sola corda tirata tra il cielo e la terra, parlò di musica delle sfere, pensava che i movimenti dei corpi celesti che si spostano producessero un suono.
Alla parete della sala di musica sono appesi dei grandi quadri: riproducono con parole e disegni la filastrocca del Girotondo, un canto gregoriano e l'Ut queant laxis con cui Guido D'Arezzo legò indissolubilmente a ogni suono della scala musicale una sillaba (ut-re-mi-fa-sol-la-si). La strada ora è in discesa e Giulia ci congeda: «Sordità e autismo sono due aspetti di un unico problema, mancando in entrambi i casi la tensione e la predisposizione del corpo che vibra all'ascolto, il sordo "si chiude alla vita" e l'autistico "diviene sordo alla comunicazione". Il musicoterapeuta coglie nelle persone la tensione emotiva che permette o non permette al corpo di vibrare».

Corriere La Lettura 10.2.13
Malati d'ergastolo
Sai quando entri, non sai se (e quando) esci: l'inferno degli Ospedali psichiatrici giudiziari
di Fulvio Bufi


Il mondo oltre le sbarre di un ospedale psichiatrico giudiziario è un mondo che ha perso il tempo. Anche lo spazio, certo, ma quello non esiste in alcun luogo di detenzione. Il tempo invece sì. In ogni cella di ogni carcere ci sono uomini o donne cui non resta molto altro che contare il tempo che li separa da quando passeranno dall'altra parte del cancello. Negli Opg non è mai stato così. Si entra per un minimo di sei mesi, un anno, due o cinque o dieci, ma il fine pena non è scritto. E certe volte non viene scritto mai.
In Italia ce ne sono sei (Barcellona Pozzo di Gotto, Napoli, Aversa, Montelupo Fiorentino, Reggio Emilia e Castiglione delle Stiviere) e stanno per chiudere. O così dovrebbe essere. La legge è stata fatta, la data fissata. Entro il 31 marzo 2013 nessuna delle strutture dovrà più essere in funzione, e gli internati dovranno essere trasferiti in parte in speciali sezioni carcerarie e in parte in case di cura e custodia da venti posti al massimo e controllate dalle Asl.
Il rischio di una proroga però incombe perché, come spesso succede, quello che sta scritto non corrisponde a quello che avviene nella realtà. E, infatti, le case di cura e custodia non sono ancora pronte, e nemmeno si è ancora capito bene come e da chi sarà gestita la custodia, perché la legge non annulla il concetto di carcere, ma si limita a presumere di umanizzarlo attraverso l'istituzione di strutture dai numeri molto più contenuti di quelli attuali.
Furono il presidente della commissione d'inchiesta del Senato sull'efficacia e l'efficienza del Servizio sanitario nazionale, Ignazio Marino, e due componenti dello stesso organismo, Daniele Bosone e Michele Saccomanno, a firmare il testo poi approvato in Parlamento. Cominciarono a girare per gli Opg dopo le ispezioni e i successivi allarmi della Commissione europea per la prevenzione della tortura, e scoprirono lo scempio che i giornali già raccontavano da tempo. Ne venne fuori un video agghiacciante, il sequestro parziale di quasi tutte le strutture e una legge appunto che, al di là delle buone intenzioni, risolve la questione degli Opg soprattutto dal punto di vista edilizio. Che certo rappresenta almeno il cinquanta per cento del fallimento di questa esperienza cominciata in Italia formalmente a metà degli anni Settanta, ma in realtà molto prima. Perché la legge che apriva i manicomi criminali è del febbraio 1904, poi sono cambiati i nomi: prima manicomio giudiziario e poi — con italica ipocrisia e nel pieno della battaglia di Franco Basaglia che avrebbe portato all'istituzione della legge 180 e alla chiusura dei manicomi — ospedale psichiatrico giudiziario. Ma la sostanza fino a oggi non è mai cambiata: gli Opg sono posti dove vengono rinchiuse persone ritenute socialmente pericolose. I manicomi criminali avevano le celle, le sbarre, i letti di contenzione, le cinghie e tutto quell'orrore lì, e gli Opg hanno le celle, le sbarre, i letti di contenzione col buco al centro del materasso, perché ci si finisce legati e nudi, e quel buco serve per farla in un secchio messo sotto, e poi si resta così, immobilizzati e sporchi, umiliati anche dalla propria puzza.
Qualche direttore li ha fatti eliminare, i letti di contenzione (a Napoli non li usano più), altri invece no. Qualche direttore ha scelto anche la custodia attenuata, che consiste nel tenere le celle aperte per gran parte della giornata, in modo che i reclusi possano camminare per i corridoi quando è finito il tempo dell'aria all'aperto e possano incontrarsi e stare insieme. Tentativi di umanizzare ciò che umanizzabile non è. Perché l'obbrobrio degli Opg è giuridico e si chiama ergastolo bianco. Per qualunque reato si entri lì dentro — che sia una strage o un'ubriachezza molesta — se ne esce soltanto quando una perizia psichiatrica stabilirà che non si è più socialmente pericolosi, e sempre che ci sia una struttura sanitaria pubblica cui far capo per continuare il percorso terapeutico. Altrimenti si resta dentro. Il magistrato di sorveglianza stabilisce una proroga che solitamente è di due anni e se ne riparlerà alla scadenza. Quando, con due anni in più passati in Opg, ci saranno ottime probabilità di aver accumulato frustrazioni e aggressività tali da essere ritenuti ancora socialmente pericolosi. E si può andare avanti così all'infinito.
Ad Aversa c'era un recluso che era entrato a vent'anni e dopo altri venti stava ancora là. Si chiamava Luigi, un marcantonio che non faceva altro che chiedere sigarette e fumarne una dopo l'altra. Non aveva mica ammazzato nessuno, Luigi. Solo che quand'era ragazzino al suo paese gli amici lo sfottevano perché tutte le ragazze gli dicevano di no. E lui, che era già bello grosso e aveva le mani pesanti, reagiva a schiaffoni. Alla fine se lo tolsero di torno con una denuncia, e lui ormai non si ricordava più nemmeno qual era il suo paese e perché stesse all'Opg.
La storia di Vito De Rosa è diventata invece un libro, Vito il recluso (Sensibili alle foglie, 2005) scritta da Francesco Maranta, ex consigliere regionale della Campania, di Rifondazione, in collaborazione con Dario Stefano Dell'Aquila, dell'associazione Antigone, uno degli operatori sociali più impegnati nel denunciare la barbarie degli Opg, su cui ha scritto una documentatissima inchiesta (Se non ti importa il colore degli occhi, edizioni Filema, 2009). Vito era stato arrestato nel 1951 perché aveva ucciso il padre a colpi di scure. Condannato all'ergastolo, un anno dopo è sottoposto a perizia psichiatrica e trasferito in Opg, o come si chiamava all'epoca. C'è rimasto per cinquant'anni, completamente dimenticato. E mai ne sarebbe uscito vivo se nel 2003 il presidente della Repubblica non gli avesse concesso la grazia. Arrestato a 24 anni, Vito De Rosa ha riottenuto la libertà a 76: nessuno in Italia ha passato tanto tempo privato della libertà.
Ma pure i tre anni di reclusione di Antonio Provenzano sono emblematici. Lui non era uno abbandonato da tutto e tutti come tanti reclusi in Opg. Aveva una famiglia che gli stava accanto e che si sarebbe fatta carico di seguirlo una volta tornato a casa. E però nemmeno questo è bastato a fargli riottenere la libertà allo scadere dei sei mesi fissati dal giudice. Antonio fu denunciato perché girava armato di bastone (era stato aggredito e seviziato e da allora se lo portava appresso per difendersi nel caso gli fosse capitato ancora), però anziché essere lasciato libero, come chiunque venga denunciato per una cosa così, venne rinchiuso a Montelupo Fiorentino (e successivamente ad Aversa) perché in passato gli era stata diagnosticata una lieve forma di psicosi schizofrenica di tipo paranoide. Sono sei mesi duri, che però passano. Ma poi nelle pratiche burocratiche che dovrebbero rimandarlo a casa, qualcosa non funziona. Ci vuole una Asl che stili per lui un progetto terapeutico e quella di Ostia, dove Antonio abita insieme alla sorella Elisabetta, la tira per le lunghe. Tra un intoppo e l'altro passano altri due anni e mezzo ed Elisabetta deve accamparsi con una tenda sul tetto del palazzo della Asl per ottenere che la situazione si sblocchi.
Ma quanti reclusi, invece, nemmeno le famiglie hanno avuto accanto. Gli ospedali psichiatrici giudiziari sono il mondo di disperati che hanno storie disperate e famiglie disperate. Oppure impaurite. Come quella di uno finito dentro per aver dato ventiquattro coltellate alla madre, senza peraltro ucciderla. Quando lo psichiatra ha stabilito che poteva uscire e il giudice ha firmato l'ordine di scarcerazione, l'avvocato è corso dal direttore a pregarlo di tenerselo ancora perché a casa erano terrorizzati dal suo ritorno.
Gli Opg sono pieni di storie come quella di Luigi, di Vito o di Antonio. O come quelle degli internati provvisori, gente che vive reclusa in una dimensione giuridica al di là di ogni immaginazione. Sono quelli che in Opg fanno una sorta di custodia cautelare, senza però scadenza dei termini. Li chiamano gli improcessabili, perché una perizia psichiatrica ha stabilito che non sono in grado di comprendere nemmeno la dinamica processuale, e quello è invece un diritto che spetta a qualsiasi imputato. Così il dibattimento non viene fissato finché la diagnosi non cambia, e non c'è limite di tempo. All'Opg di Napoli — che dall'antico convento di Sant'Eframo è stato trasferito qualche anno fa nella mai aperta sezione femminile del carcere di Secondigliano — ce ne sono due. Uno da dieci anni e un altro da quattro. E la loro storia di reclusi psichiatrici — fatta di diagnosi, di terapie e di un programma di recupero — non è nemmeno cominciata.
Ecco che cosa sono gli Opg e che cosa continueranno a essere fino a quando esisterà il concetto di pericolosità sociale e la relativa applicazione di misure di sicurezza. Le storie dei grandi boss che truccavano le carte per essere trasferiti dal carcere all'ospedale psichiatrico giudiziario per stare meglio e poter uscire prima sono vere ma non indicano niente. Nel suo libro Materiali dispersi (Tullio Pironti, 2010) l'ex direttore di Aversa, lo psichiatra Adolfo Ferraro, racconta, tra vari episodi, quello relativo alla reclusione di Raffaele Cutolo, e altri nomi famosi della storia criminale italiana sono passati per gli Opg, come per esempio Marcello Colafigli, della banda della Magliana, quello che nella fiction televisiva di Romanzo criminale corrispondeva al personaggio di Bufalo.
Poi ci sono le tragedie emerse, quelle che la cronaca ha molto raccontato. La tragedia di Antonia Bernardini, morta bruciata nel 1975 mentre è legata a un letto di contenzione nell'allora manicomio giudiziario di Pozzuoli. I suicidi ravvicinati, nel 1978, del direttore di Aversa, Domenico Ragozzino, e di quello di Napoli, Giacomo Rosapepe, entrambi coinvolti in inchieste sulla gestione dei manicomi. E ancora la morte di Giovanni Taras (1975) militante dei Nuclei armati proletari dilaniato dall'ordigno che stava mettendo sul tetto del manicomio di Aversa per attirare l'attenzione sulle condizioni inumane dei reclusi. E poi i suicidi degli internati: 44 in dieci anni, i più recenti a Barcellona Pozzo di Gotto, l'Opg che insieme ad Aversa sconvolse maggiormente prima la Commissione europea e poi quella del Senato.
Suicidi che solo letture superficiali o di comodo possono attribuire al disagio psichico di chi ha scelto la morte. In realtà atti di disperazione di uomini che, per quanto psicopatici, hanno ben chiaro di essere finiti nel luogo destinato agli ultimi degli ultimi. E, per quanto magari ignoranti di questioni giudiziarie, hanno chiaro anche che da lì non sanno, e nessun avvocato o familiare o direttore o guardia potrà dir loro, se e quando verranno mai fuori. E se ora gli Opg chiuderanno davvero, cambieranno le strutture, e sicuramente saranno più umane, ma a chi gestirà le case di cura e custodia ogni internato frutterà circa 100 euro al giorno, e quindi il rischio che la cura e custodia diventino un business non si può escludere. E allora non si può escludere nemmeno che l'ergastolo bianco, magari un po' più bianco e meno puzzolente, continui ancora. E che per chi finisce in Opg continui a valere la logica del «fine pena forse». Ma forse anche no.

Corriere La Lettura 10.2.13
Pericolosità sociale
Un paradosso per i giudici: murare vivi gli «innocenti»
di Luigi Ferrarella

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il Fatto 10.2.13
Sul lettino
Lo strano caso (psicanalitico) di Herr Pier Luigi
di Alessandro Robecchi


Poco noto, ma certamente significativo, torna di grande attualità un saggio di Sigmund Freud. Uscito nei primi anni del ’900, “Il caso di Herr Pier Luigi” tratta di un non più giovane leader progressista. Un saggio che precisa una delle tematiche fondamentali della sinistra italiana: l’invidia del premier.
La psicoanalisi ha lavorato a lungo sul caso di Herr Pier Luigi, senza venirne a capo. La Sindrome della Rimonta è il primo nucleo individuato da Freud. Se si fosse andati al voto un anno fa, invece di fare un governo tecnico, Herr Pier Luigi avrebbe vinto in carrozza. Se si fosse votato subito dopo le primarie avrebbe vinto col cavallo bianco. Oggi, invece, è già tanto se porta abbastanza muli al Senato da evitare il pareggio, spettro che lo tormenta nei sogni. Herr Pier Luigi sogna di votare domani pomeriggio, al massimo dopodomani mattina. Al risveglio, basta un occhiata al calendario a sprofondarlo nella più cupa depressione: mancano due settimane. Altro motivo di grande turbamento è il proliferare delle sinistre. Già in passato la vittoria era stata vanificata dalla presenza di due sinistre. Questa volta, che di sinistre ce ne sono tre (lui, Sel e Ingroia), l’angoscia aumenta.
FREUD DESCRIVE con toni vividi un sogno di Herr Pier Luigi che dice in un comizio: “Sui costi della politica bisogna andar giù col badile”. Ma al risveglio, costernato, constata: “Porco boia, Ingroia mi ha fregato il badile”. Anche il conflitto con la nuova generazione turba i sonni di Herr Pier Luigi. “Ora è tardi per candidare Herr Matteo – dice sconsolato in una drammatica conversazione – e allora l’ho mandato a prendere a badilate Ingroia, per non perdere l’abitudine della sinistra di menare alla sua sinistra”. Resta centrale, nella trattazione del caso, la figura del nemico storico. Capace di promesse mirabolanti, il signor B. (Freud non ne svela l’identità) pare guadagni posizioni minuto dopo minuto. In un sogno particolarmente tormentato Herr Pier Luigi si figura alla guida di un autobus senza specchietti retrovisori, costretto a guidare guardando indietro. “Il paziente – annota Freud – si è svegliato un attimo prima dell’impatto con un grande olmo ai margini della strada”. Ripubblicato in questi giorni, “Il caso di Herr Pier Luigi” ha aperto un ampio dibattito nella comunità psichiatrica. Secondo le nuove interpretazioni, Herr Pierluigi non sarebbe solo una vittima, ma un demiurgo dotato di straordinari poteri che sa resuscitare i morti, e riportare in vita soggetti politicamente defunti come Herr B. Rischia alla fine di non vincere, di non perdere, di non pareggiare. Di affondare, insomma, nell’eterna palude italiana da cui nemmeno un bravo analista potrebbe salvarlo. Non è una coincidenza che “Il caso di Herr Pier Luigi” sia uno dei pochi saggi di Freud rimasti incompiuti, e si conclude con la frase: “Boh, pensateci un po’ voi tra un secolo”. Secolo che scade tra due settimane.