martedì 12 febbraio 2013

l’Unità 12.2.13
Fecondazione: confermato il no alla legge italiana
Strasburgo boccia il ricorso di Monti
Respinto il ricorso: «La diagnosi pre-impianto va consentita»
Il governo aveva chiesto il riesame
di Gioia Salvatori


ROMA Avevano fatto ricorso perché a loro, fertili ma con una malattia ereditaria scritta nel dna, non era consentito di accedere alla diagnosi pre-impianto del loro embrione. La Corte Europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo aveva dato ragione alla coppia ordinando di rivedere la legge 40 ma il governo dei tecnici, nello stupore dei laici, si era messo di traverso facendo ricorso contro la sentenza a favore dei coniugi Costa-Pavan. Un atto inaspettato: perché un governo fortemente europeista fa ricorso contro una Corte europea? Perché un governo chiamato a risanare i conti si dedica con veemenza a un tema etico? Oggi, col senno del dopo salita in politica del senatore Monti, è facile rispondere.
Lo scorso 28 agosto, quando arrivò la sentenza europea e il ministro della salute Balduzzi annunciò il ricorso, si poteva solo sospettare. Ora un altro pezzo della legge 40 è smontato, ora il diritto alla fecondazione medicalmente assistita con diagnosi pre-impianto ce l’hanno tutti, non solo le coppie sterili, anche quelle fertili ma portatrici di una malattia ereditaria. La legge 40 viola il principio di uguaglianza e la Carta europea dei diritti dell’uomo, aveva scritto la scorsa estate la Corte Europea di Strasburgo intimando al Parlamento di riscrivere la legge. Ieri Strasburgo ha confermato tutto, respingendo al mittente il ricorso del ministro della Salute Balduzzi arrivato in corner, mentre il governo tecnico già traballava. Per i laici il respingimento del ricorso è un’altra vittoria, per l’ex sottosegretario Eugenia Roccella, Pdl, già animatrice dei movimenti cattolici pro-life, a un passo dalle elezioni il ministro Balduzzi dovrebbe emanare delle nuove linee guida della legge 40. A Roccella replica l’avvocato Filomena Gallo dell’associazione radicale Luca Coscioni sottolineando l’evidenza: e cioè che i tempi per le linee guida non ci sono; «il prossimo Parlamento – aggiunge non può più esimersi dal riscrivere la legge 40 tenendo presente che da quando è nata ad oggi sono arrivate 23 ‘decisioni’, cioè ordinanze di tribunali, sentenze internazionali e della Corte costituzionale, contro la legge 40. Di fatto aggiunge da oggi le coppie fertili potranno chiedere di accedere alla fecondazione medicalmente assistita con diagnosi pre-impianto senza più fare ricorso al tribunale di zona, forti di sentenze internazionali che danno loro questa facoltà. È una vittoria della cultura laica e un'affermazione dei diritti delle persone che vorrebbero avere un figlio», conclude il legale che ha seguito la coppia.
Della legge 40 resta ben poco, ci hanno pensato tribunali, corti nostrane ed europee a picconarla. Grazie a varie sentenze oggi è superato il limite tre embrioni da concepire e obbligatoriamente impiantare: a tutela della salute della donna, per evitare continui stimolazioni ovariche e prelievi, se ne possono formare di più e si possono pure congelare. Resta il divieto di fecondazione eterologa ma l’avvocato Gallo ricorda che diversi tribunali hanno detto che è incostituzionale e a breve risponderanno alla Corte Costituzionale che li ha sollecitati a «formulare meglio la richiesta di incostituzionalità del divieto di eterologa». Presto ci sarà altra giurisprudenza sul divieto di fecondazione con un gamete esterno alla coppia, dunque, perché anche su questo tema c’è qualcuno che studia nei tribunali di Firenze, Bologna, Catania e Milano «E speriamo che la politica non si faccia sostituire ancora una volta dai tribunali», è laconica l’avvocato Gallo.
Le reazioni alla sentenza non tardano ad arrivare: «È stato respinto un ricorso che non andava fatto», dice il vicepresidente del Pd, Ivan Scalfarotto. «La decisione della Corte di Strasburgo ha detto invece Anna Finocchiaropresidente dei senatori Pd conferma la necessità di riscrivere la legge40 sulla procreazione assistita per aiutare le giovani coppie». Aspettiamo la politica alla prova dei fatti, col prossimo Parlamento, quando una legge sbagliata sarà da riscrivere per dare a tutti gli stessi diritti, tutelare la salute della donna e i desideri di tutte le coppie che vogliono un figlio.

La Stampa 12.2.13
Fecondazione, l’Italia bocciata a Strasburgo
Per la Corte legge 40 da riscrivere. Eliminando gli ostacoli allaprocreazione
di Marco Zatterin


La famiglia Costa-Pavan ha vinto, il dossier italiano sulla procreazione assistita deve essere riaperto. La coppia, fertile e in dolce attesa, s’è vista proibire la diagnosi prenatale dell’embrione, chiesta per verificare la presenza d’una malattia ereditaria di cui i due sono portatori. Per questo, sono ricorsi alla Corte europea dei diritti umani, tribunale del Consiglio d’Europa, contro la legge 40/2004 che regola le gravidanze medicalmente assistite. I magistrati di Strasburgo hanno dato loro ragione. Due volte: a fine agosto, con un pronunciamento formale; e ieri, bocciando l’appello della Repubblica italiana.
La decisione delle toghe europee rende definitiva la sentenza emessa la scorsa estate. Di fatto suggerisce l’eliminazione di ogni ostacolo alla procreazione assistita, nonché alle diagnosi preimpianto per le coppie affette o portatrici sane di malattie genetiche. In agosto, la Corte aveva sancito «l’incoerenza del sistema legislativo italiano in materia di diagnosi preimpianto». Ora ha respinto la richiesta delle autorità italiane, basata a suo modo di vedere su appunti procedurali e non di merito.
Un passo indietro. Nel 2006 i due coniugi hanno avuto una bambina affetta da fibrosi cistica: allora hanno scoperto di essere portatori sani della malattia, che si trasmette in un caso su quattro. Quando la donna ha intrapreso una nuova gravidanza, nel 2010, si è sottoposta alla diagnosi prenatale con esito positivo: di conseguenza, ha deciso di abortire. La coppia vorrebbe adesso un altro bambino, con la fecondazione in vitro per assicurarsi la certezza della sua sanità, cosa che si può avere con lo screening. Ma ciò è vietato però dalla legge 40, che riserva la pratica alle coppie sterili, o a quelle in cui il partner maschile abbia una malattia sessualmente trasmissibile, ad esempio l’Aids.
Per tutta risposta, i Costa-Pavan si sono rivolti a Strasburgo, asserendo che la normativa italiana viola il diritto alla vita privata (e familiare), e crea una discriminazione rispetto alle altre coppie. La Corte ha bocciato in agosto gli articoli 13 e 4 della legge 40. Il primo è quello che vieta «qualsiasi sperimentazione su embrione umano». Il secondo prescrive che «il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita è circoscritto ai casi di sterilità, o di infertilità inspiegate, documentate da atto medico, nonché ai casi di sterilità o di infertilità da causa accertata e certificata da atto medico». Bocciando il ricorso italiano, Strasburgo invita a riscrivere la legge. Anche perché, si sottolinea, il ricorso alla fertilizzazione in vitro (e quindi allo screening) è ammesso in quindici Paesi europei. Mentre in Europa il divieto della diagnosi preimpianto è previsto solo in Italia, Austria e Svizzera.
Molteplici le reazioni. L’associazione Luca Coscioni, difensore della coppia Costa/Pavan, parla di «una vittoria della cultura laica e un’affermazione dei diritti delle persone che vorrebbero avere un figlio». Chiede all’Italia di adeguarsi al più presto. Antonio Palagiano, Presidente della Commissione d’inchiesta sugli errori in campo sanitario (candidato di Rivoluzione Civile), ritiene che «sia la fine della legge 40». Nichi Vendola, presidente di Sel, ha criticato la legge, «oscurantista». Mentre più voci del Pd chiedono la revisione totale della norma, il Pdl è manifestamente contro."Il testo attuale vieta in moltissimi casi le diagnosi preimpianto"

Repubblica 12.2.13
Legge 40, l’ultima bocciatura dell’Europa
Respinto il ricorso dell’Italia. “Deve permettere la fecondazione assistita alle coppie fertili”
di Caterina Pasolini


STRASBURGO — L’Europa boccia ancora una volta la legge sulla fecondazione assistita, e anche il governo italiano che aveva provato a cambiare le carte in tavola. La Corte europea dei diritti umani ha infatti deciso di non accettare il ricorso, presentato l’ultimo giorno utile in gran segreto a novembre, con il quale l’Italia ha chiesto il riesame della
sentenza con cui la stessa Corte ad agosto aveva cassato la legge 40. Definendola senza mezzi termini «incoerente col sistema legislativo e che viola il diritto alla la vita privata e familiare».
Col nuovo no dei giudici, la sentenza è diventata esecutiva e quindi la legge italiana dovrà adeguarsi alla carta europea e prevedere l’accesso alle tecniche di fecondazione assistita a tutte le coppie fertili che possono trasmettere malattie genetiche ai loro figli. E che fino ad oggi erano escluse dalle tecniche e dall’assistenza a meno di non
appellarsi ogni volta ai tribunali.
Come Anna e Marco, portatori di fibrosi cistica che si erano rivolti alla Corte di Strasburgo chiedendo giustizia, sentendosi discriminati da un paese dove «con la mia malattia mi lasciano abortire ma non mi fanno fare la diagnosi pre impianto che potrebbe far nascere un bambino sano ed impedire il dramma di un aborto» aveva raccontato la donna. Proprio per questo motivo la Corte ad agosto aveva sancito «l’incoerenza del sistema legislativo italiano in materia di diagnosi preimpianto «visto che con una legge, la 194 consente l’aborto per la patologia, e con un’altra, la 40, vieta accertamenti che potrebbero evitarlo». Un sistema legislativo, aveva aggiunto, «che viola il diritto al rispetto della vita privata e familiare », condannando l’Italia a pagare 15mila euro di danni morali agli aspiranti genitori. La decisione della Corte ha provocato immediate reazioni in Italia, soprattutto contando che più di 80 parlamentari avevano scritto al ministro della Salute Balduzzi per invitarlo a non presentare ricorso. «Sono stati risolti i dubbi del ministro, Strasburgo boccia il suo ricorso, la legge 40 è da riscrivere» twitta il senatore Marino del Pd mentre Palagiano dell’Idv si augura che «il nuovo parlamento abbia il coraggio di riscrivere la legge garantendo alle donne italiane gli stessi diritti che nel resto del mondo». Questa è una vittoria importante per le donne ma il governo ha perso un’altra occasione per far bella figura, rinunciando a proporre il vergognoso ricorso».
Conosce bene le donne che lottano per avere un figlio Filomena Gallo, presidente dell’Associazione Coscioni, legale di tante coppie come l’avvocato Niccolo Paoletti, difensore della coppia che ha vinto a Strasburgo. «Questa è una vittoria della cultura laica, oggi è stata eliminata una dolorosa discriminazione nell’accesso alle cure ed è un motivo di gioia per tutti quelli che dopo anni di sofferenze sognano di avere un bambino che possa avere un vita possibile, nonostante le malattie di cui sono portatori sani. È un passo avanti nell’uguaglianza: sino ad oggi la legge 40 valeva solo per le coppie sterili o i portatori di patologie virali, come hiv ed epatite. Adesso quello che resta da fare è la battaglia perché la diagnosi pre-impianto sia possibile nelle strutture pubbliche, come prevede la sentenza di Cagliari di novembre, o al massimo su convenzione. Perché la tutela della salute, il sogno di un figlio non malato non deve essere un lusso da ricchi».

l’Unità 12.2.13
Bersani prepara il rush finale: «La sfida è tra noi e la destra»
Il leader Pd in Lombardia con Ambrosoli replica a Monti: «Dà bacchettate ma è suscettibile alle critiche. Rivoluzione liberale? La farà il Pd»
Lettera ai sindaci: «Autonomie locali decisive»
di Simone Collini


Domenica a Milano con Nichi Vendola e Bruno Tabacci, la prossima settimana a Palermo insieme a Matteo Renzi e Rosario Crocetta. E poi il passaggio in Campania domani e in Puglia sabato, perché se Lombardia e Sicilia saranno decisive per la conquista del Senato anche in queste altre due regioni non si può abbassare la guardia. Pier Luigi Bersani va al rush finale della campagna elettorale chiamando alla mobilitazione militanti, simpatizzanti ma anche i sindaci del Pd, e soprattutto lanciando questo messaggio: «In Italia abbiamo avuto destre stataliste, populiste, demagogiche, qualche volta autoritarie, ma mai liberali. Io intendo fare una rivoluzione liberale. Un po’ l’ho fatta dice ricordando i provvedimenti adottati da ministro su mutui, energia, treni, assicurazioni e ora intendo riprenderla».
Bersani sa che la partita è sul filo di lana, che il vero avversario, Silvio Berlusconi, non ha chance di vittoria e che però a rischiare di mandare tutto all’aria è la presenza degli altri protagonisti in campo. Come Mario Monti, che pur sapendo quale intreccio ci sia tra regionali e politiche in Lombardia ha deciso di appoggiare Gabriele Albertini, col rischio che a conquistare la Regione sia il leghista Roberto Maroni. Per questo Bersani insiste sul fatto che la partita è tra centrosinistra e centrodestra, stigmatizzando chi propone invece quello che il leader Pd definisce un «voto semi-utile».
In quest’ultima decina di giorni di campagna elettorale Bersani continuerà quindi a colpire a testa bassa Berlusconi: «Parla di donne come fossero bambole gonfiabili», dice riferendosi alle battute a doppio senso fatte dall’ex premier a un’impiegata della Green power durante una manifestazione. Ma il leader del Pd non risparmierà stoccate all’indirizzo dell’attuale presidente del Consiglio, che con la sua «Scelta civica» può condizionare a favore di Berlusconi le prossime elezioni: «Lo vedo un po’ suscettibile, ma non si può pensare di dare bacchettate e ricevere carezze, tante ne dai, tante ne prendi, sennò uno sta fuori dalla politica», dice all’indomani della battuta di Monti sull’uscita «infantile» di Bersani riguardo all’esito del vertice europeo sul bilancio («una vittoria di Pirro»). Il leader del Pd replica anche nel merito a quell’«infantile» pronunciato dal capo del governo, spiegando: «Non è una critica infantile ma adulta, perché io son ben contento se l’Italia spende un euro in meno e prende un euroinpiù,manoncistoadirechela prospettiva di bilancio europea va bene così. L’Italia così non va da nessuna parte». Per il leader del Pd l’accordo siglato a Bruxelles la scorsa settimana è stato raggiunto «dando retta agli inglesi e a qualche alleato nordico» ed avendo tagliato la gran parte delle risorse destinate a crescita e sviluppo è tutto nel segno del «ripiegamento». Basta guardare a un dato: «Il bilancio federale degli Stati Uniti rappresenta il 22% del Pil Usa, quello europeo l’1% del Pil Ue».
Parole che Bersani pronuncia proprio nella penultima tappa che fa in Lombardia, muovendosi tra Vimercate e Bergamo insieme ad Umberto Ambrosoli. Il prossimo appuntamento sarà domenica, insieme anche a Vendola e Tabacci, a Piazza Duomo, perché il risultato regionale dipenderà in gran parte anche dalla capacità del centrosinistra di fare il pieno di voti a Milano. Ci sarà anche Giuliano Pisapia a lanciare la volata alla coalizione dei progressisti e democratici. E non sarà il solo sindaco che in questi ultimi giorni di campagna elettorale schiaccerà il piede sull’acceleratore.
SOTTO IL SEGNO DI BERLINGUER
Bersani ha scritto a tutti i sindaci del Pd una lettera in cui si sottolinea che l’Italia potrà salvarsi se torneranno al centro della scena le autonomie locali. Formalmente è un ragionamento su ciò che serve per superare la crisi e ciò che il Pd al governo intende fare per raggiungere l’obiettivo, ma è chiaro che l’iniziativa risponde anche all’esigenza di coinvolgere quante più risorse possibili per vincere le elezioni. Un’operazione che andrà avanti con lettere scritte ad altre categorie istituzionali e professionali, ma anche e soprattutto con l’invito a militanti e simpatizzanti del Pd a dare una mano nei prossimi giorni con campagne di porta a porta e volantinaggio nelle principali piazze italiane. Il messaggio che sta facendo girare per arruolare volontari è sotto il segno di Enrico Berlinguer, citato in queste parole: «Proseguite il vostro lavoro... casa per casa... strada per strada».
Bersani sa che la vittoria è a un passo, ma anche che non si potrà stare «seduti su una sedia», perché «l’Italia è suggestionata dai populismi, dalla demagogia» e «serve una battaglia di civilizzazione». Lo dice parlando a Bergamo, nel corso di un’affollata iniziativa insieme ad Ambrosoli: «Sono convinto che vinciamo, ma attenzione che saremo comunque in un’Italia che sarà suggestionata da populismi, demagogia. Serve una battaglia di civilizzazione, non si può star seduti su una sedia». Anche per questo, dice, i voti sono sicuramente «tutti utili», ma per «battere la destra» e voltare finalmente pagina dopo vent’anni di berlusconismo c’è una sola scelta possibile, il Pd e il centrosinistra: «Il meccanismo elettorale fa vincere chi arriva primo, c’è poco da discutere. Tutti i voti sono utili, ma se vuoi un voto per vincere, per battere la destra, ce n’è uno solo. È matematica, non è un’opinione».
E a Monti che insiste nel criticare i partiti e la «vecchia politica», Bersani prima di chiudere il tour lombardo lancia un paio di messaggi. Il primo, escludendo accordi pre-elettorali: «Non ho intenzione di far tavoli o tavolini». Il secondo: «Il governo tecnico ci ha tenuto fuori dal precipizio. Con il nostro aiuto. Sarebbe meglio che il Professore se ne ricordasse».

l’Unità 12.2.13
«+ sapere = sviluppo». Oggi a Roma il convegno di Left
Studenti, ricercatori e docenti al Teatro Eliseo per discutere di risorse pubbliche e politiche per l’innovazione con esponenti di Pd e Sel
di Mario Castagna


Ci sarà spazio per il cahier de doléances, le lamentazioni sullo stato comatoso dell’università italiana. Ma gli organizzatori hanno pensato alla giornata di oggi come un momento per discutere del futuro dell’Italia attraverso il futuro dell’università e della ricerca del nostro Paese.
Oggi al Teatro Piccolo Eliseo a Roma si ritroveranno studenti, ricercatori, docenti chiamati a raccolta da Left. «+ Sapere = Sviluppo» è il titolo di questo grande appuntamento che il settimanale offre alla coalizione guidata da Pier Luigi Bersani per confrontarsi con un mondo troppo bistrattato dalle politiche degli ultimi governi.
A poche settimane dalla scadenza elettorale gli operatori della conoscenza chiederanno precisi impegni alla politica. In primis, uno stop alla contrazione delle risorse pubbliche, per le quali l’Italia è agli ultimi posti tra i Paesi Ocse. Poi, un nuovo slancio per la ricerca pubblica, fondamentale per l’innovazione tecnologica, insieme a nuove politiche industriali. E una riforma del sistema di valutazione, tanto importante quanto oggi inefficiente. Infine, un nuovo sistema per il diritto allo studio, su cui il ministro Profumo ha recentemente redatto un decreto di riforma duramente contestato dagli studenti.
«Oggi, riprendendo discussioni interrotte in passato, serve interrogarsi sul ruolo del sapere come motore di sviluppo di un Paese, indipendentemente dalle logiche mercantilistiche, ma non svincolato dalla sua funzione originaria di strumento capace di innovare e di migliorare le condizioni sociali ed economiche delle persone ci racconta Luca Spadon, portavoce del sindacato studentesco Link negli ultimi anni il dibattito pubblico sull’università si è concentrato principalmente intorno ai temi dell’organizzazione delle strutture universitarie. Sarebbe ora di parlare della funzione dell’università nella costruzione del nuovo modello di sviluppo».
Oggi, nel mondo dell’università e della ricerca, sono molti a pensare di avere ormai oltrepassato il punto di non ritorno. I dati divulgati dal Cun sul crollo delle iscrizioni universitarie e sui tagli al finanziamento hanno portato all’attenzione di tutti la drammatica situazione. Ma la vita quotidiana di studenti, ricercatori e professori è costellata da tempo di prove tangibili del declino. Anche se colpita da mille problemi che la affliggono ogni giorno, però l’università italiana non è solo una storia di lacrime e sangue. I redattori di Roars negli ultimi mesi hanno fatto della loro piccola rivista telematica una grancassa di idee purtroppo poco diffuse sui grandi giornali. Hanno messo insieme i numeri e hanno ribaltato tanti luoghi comuni. Le università italiane sono troppe e alcune vanno chiuse, si legge spesso sulle colonne dei grandi quotidiani italiani. Peccato che l’Italia abbia 1,6 atenei per milione di abitanti contro i 2,3 dell’Inghilterra, i 3,4 dell’Olanda, gli 8,4 della Francia e addirittura i 14,5 degli Usa. La ricerca italiana produce poco e i soldi investiti sono risorse buttate, si dice spesso giustificando i tagli di bilancio. Ma a guardare bene le classifiche internazionali, gli atenei italiani hanno un buon livello medio, senza grandi eccellenze ma con tante università di buona qualità su tutto il territorio nazionale. Le classifiche internazionali sulla produttività scientifica collocano l’Italia sempre nelle prime posizioni. Se poi il sostegno pubblico fosse maggiore l’Italia potrebbe anche primeggiare in molte discipline.
Di chi è quindi la colpa del declino italiano? Sicuramente di qualche barone e del nepotismo che domina poche facoltà. Ma soprattutto del declino degli investimenti privati nei settori della ricerca e dell’innovazione.
L’Italia è agli ultimi posti in tutte le classifiche sulle industrie innovative, sull’occupazione dei giovani laureati e sul numero di ricercatori occupati nel settore privato. Anche per questo Left ha scelto di mettere dall’altra parte del tavolo non solo chi nel Pd e in Sel si occupa di questi temi, ma anche Stefano Fassina, che per i democratici si occupa di lavoro ed economia. Per ribattere all’assunto di berlusconiana memoria che se abbiamo le scarpe più belle del mondo, possiamo anche fare a meno delle nostre università.

La Stampa 12.2.13
Il timore di Thorne: la sinistra rischia di non fare le riforme
L’ambasciatore: potrebbe non avere una maggioranza solida
di Maurizio Molinari


L’ America si aspetta una vittoria del centrosinistra nelle elezioni italiane «ma l’interrogativo è se avrà una maggioranza solida»: ad affermarlo è l’ambasciatore Usa a Roma, David Thorne, intervenendo al summit «L’Italia incontra gli Stati Uniti» organizzato dall’«Italian Business & Investment Initiative».
Thorne partecipa ad una sessione dell’evento assieme all’ex premier Giuliano Amato ed al ministro del Tesoro Vittorio Grilli quando il moderatore del «Council on Foreign Relations», Gideon Rose, chiede delle previsioni sull’imminente voto. «Ci sarà una maggioranza di sinistra ed è meglio di una maggioranza di destra» risponde Amato, assicurando al parterre di analisti e diplomatici che «le riforme continueranno in Italia con il nuovo governo e saranno nell’agenda dei prossimi due anni». È una previsione che punta a rassicurare l’amministrazione Obama e pochi attimi dopo Thorne interviene, descrivendo l’approccio degli Stati Uniti al voto. «All’inizio il nostro timore riguardava la nascita di un nuovo governo» esordisce con franchezza, facendo presente che «è rientrato» perché «è evidente che i cambiamenti intervenuti con le riforme sono destinati ad essere permanenti». È un riferimento alle assicurazioni che il centrosinistra ha dato a Washington sulla continuazione delle riforme iniziate dal premier Monti. «Il centrosinistra vincerà - afferma Thorne - ma sarà forte abbastanza per sostenere le riforme? ». È su questo interrogativo che si sofferma, aggiungendo: «Serve una maggioranza solida, noi speriamo che durerà». Tale augurio si lega non solo alla convinzione che le riforme debbano continuare per il risanamento dell’Italia, ma anche al fatto che «siete una nazione determinante per rendere forte l’Europa» e il bisogno di «leader politicamente forti nell’Unione Europea» è anche nell’interesse degli Stati Uniti «perché il nuovo Segretario di Stato John Kerry vuole rafforzare la partnership atlantica».
A conferma del valore dell’alleanza fra i due Paesi, Thorne definisce «molto utile sotto innumerevoli aspetti il ruolo svolto dall’Italia in Nordafrica» a fianco degli Stati Uniti «nella stagione delle primavere arabe» e, rivolgendosi ad un pubblico di imprenditori, suggerisce di «investire in Italia» premiando non solo la «vivacità delle aziende locali» ma anche «la riforma della Giustizia» intrapresa dal governo Monti «perché ha conseguenze molto importanti e positive» anche sull’economia. Riguardo all’incontro di venerdì alla Casa Bianca fra i presidenti Giorgio Napolitano e Barack Obama, Thorne lo definisce «un omaggio alla carriera» del Capo dello Stato italiano, sottolineandone in particolare il merito del «costante sostegno alle riforme» da cui dipendono il risanamento e la crescita. Soffermandosi a più riprese sul ruolo di Napolitano «a favore delle riforme», Thorne è apparso indicarlo come una sorta di garante durante la transizione verso il nuovo esecutivo.
In precedenza Amato aveva criticato, davanti a Grilli, il recente accordo sul bilancio dell’Unione Europea lamentando «l’aver accettato la prevalenza dell’austeritàsenza l’inserimento della crescita in maniera tale da non essere positivo neanche per la Germania». Amato ha inoltre incalzato il ministro affermando che «è un errore cercare le risorse per gli stimoli nel bilancio nazionale mentre bisognerebbe sfruttare meglio gli strumenti sovranazionali». Grilli ha evitato di rispondere, soffermandosi piuttosto sulla «volatilità dei mercati», definendola «normale prima delle elezioni» e confermando che «la ripresa è prevista nel secondo semestre dell’anno anche se è presto per indicare quale sarà la sua entità».

Repubblica 12.2.13
L’endorsement Usa al centrosinistra “All’Italia serve una maggioranza forte”
L’apertura dell’ambasciatore Thorne. Lo stop al Cavaliere
di Federico Rampini


NEW YORK — «Occorre che un esecutivo di centro-sinistra sia abbastanza forte per governare. L’Italia ha bisogno di una forte maggioranza. La cosa peggiore, sarebbe un governo che non riesca a durare». È insolitamente esplicito l’ambasciatore americano in Italia, David Thorne. Forse perché sta parlando in casa. È a New York, davanti a una platea fatta prevalentemente di suoi colleghi, operatori che vengono come lui dal mondo del business. È un campionario di investitori americani (o italo-americani) dall’industria e dalla finanza.
Lontano dalla tensione della campagna elettorale italiana, l’ambasciatore fa capire chiaramente su quale scenario punta l’Amministrazione Obama. Partendo dalla «ragionevole previsione di una maggioranza di centro- centro-sinistra» che ha evocato davanti a lui Giuliano Amato, l’ambasciatore ripete più volte quell’aggettivo: «Strong». Bisogna che quella maggioranza sia forte, «per proseguire sul cammino delle riforme, perché il governo Monti nel primo anno ha fatto un buon lavoro, ma un anno non basta». L’uscita di Thorne avviene, non a caso, a pochi giorni dall’arrivo del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano a Washington.
Il portavoce della Casa Bianca, Jay Carney, ha confermato che Barack Obama riceverà Napolitano questo venerdì mattina alle dieci nell’Oval Office, la stanza degli eventi più solenni. Napolitano viene definito nel comunicato della Casa Bianca «uno stretto alleato e un amico degli Stati Uniti», e Obama attende di vederlo per «rafforzare i legami tra le due nazioni». Anche se la visita di Napolitano ha il sapore di un «saluto di addio», le elezioni saranno al centro di quel colloquio. Lo stesso Thorne è stato richiamato in patria anche per questo incontro fra i due presidenti. Ha avuto modo di confrontarsi col Dipartimento di Stato sulle elezioni italiane. Il suo messaggio arriva durante il summit economico Italia-Usa organizzato dalla Italian Business & Investment Initiative a New York con la partecipazione di Amato, del ministro dell’Economia Vittorio Grilli, di amministratori delegati di Alitalia, Enel, Eni, Wind.
Dietro le parole di Thorne sulla «strong majority» affiorano lo scenario desiderato, e quello più temuto da Casa Bianca e Dipartimento di Stato. Nel rendere omaggio al lavoro compiuto da Monti come presidente del Consiglio, al «grande miglioramento dei rapporti tra i due governi» che si verificò dopo l’uscita di scena di Silvio Berlusconi, l’ambasciatore allude al fatto che per Obama l’arrivo del governo Monti nel novembre 2011 significò l’avvio del graduale superamento di una crisi acuta dell’eurozona. Sono risultati che Washington non ha dimenticato. Con il partito democratico italiano i rapporti sono antichi e solidi, e Napolitano sarà ricevuto da Obama con affetto: una lettera personale di stima da parte di Obama venne recapitata al Quirinale a dicembre, a ridosso dello scioglimento anticipato delle Camere in Italia.
Le minacce insite nel nostro voto per Washington sono rappresentate dalle forze demagogiche e anti-europee, quelle che potrebbero riaprire un focolaio di crisi italiana nell’eurozona. Di qui l’importanza che la futura maggioranza di centro-sinistra «sia forte», ed esprima «un governo capace di durare». Sembra l’identikit implicito di un governo Bersani-Monti. Thorne aggiunge un riferimento geostrategico: «L’Italia ha un ruolo critico da svolgere per stabilizzare Tunisia, Libia, Egitto».
Il summit economico di New York, ospitato al Peterson Hall del Council of Foreign Relations, offre anche una sintesi della futura agenda di governo che gli investitori americani vorrebbero vedere realizzata in Italia. È un sondaggio compiuto in una platea importante: molti di questi investitori sottolineano che «i capitali Usa potrebbero salvare un pezzo di media industria italiana, quella che rischia di scomparire quando arriva la successione generazionale, oppure rischia di soccombere perché non ha le risorse finanziarie per affrontare la competizione delle potenze emergenti».
Imprenditori e gestori di fondi che prendono la parola nell’affollatissima riunione elencano una serie di ostacoli all’investimento estero nel nostro paese. Nell’ordine di successione degli interventi, ecco un campione rappresentativo. Un coro quasi unanime. «L’euro è troppo caro, insostenibile, a questi livelli rischiamo di strapagare le acquisizioni
di aziende italiane, ci conviene comprare aziende Usa». «Investite poco nell’istruzione ». «Non state proteggendo le vostre capacità manifatturiere, il vostro saper fare, anche artigianale ». «Avete un problema di cultura civica, la corruzione è diffusa, i politici strapagati, manca trasparenza anche nel vostro capitalismo». «La vostra burocrazia ha un’avversione all’economia di mercato, siete il solo paese dove il braccio destro dell’imprenditore è il suo commercialista ». «Le vostre piccole imprese conoscono poco i mercati globali, a volte non parlano neppure l’inglese». Thorne nel trarre le somme aggiunge due elementi. «L’Italia — dice l’ambasciatore Usa — ha fatto troppo poco per proiettarsi tutta intera nell’economia digitale, l’alfabetizzazione a Internet è ancora in ritardo, anche nelle piccole imprese. Avete anche bisogno di riformare la giustizia civile, perché i tempi siano equiparabili agli altri paesi avanzati, e i cittadini così come gli operatori economici possano avere delle certezze».

La Stampa 12.2.13
«Lui rappresenta la società civile».
In Lombardia Ingroia si schiera con Ambrosoli
C’è chi calcola che un centrista su tre può andare col candidato del centrosinistra
di F. Pol.


Il leader del Pd «I voti sono tutti utili, ma lì o vinciamo noi o Maroni»

La partita vera si gioca in Lombardia. Ma chi contro chi è ancora tutto da vedere. Rivoluzione Civile di Antonio Ingroia che a livello nazionale se la vede da sola, in Regione si schiera con il candidato del centrosinistra Umberto Ambrosoli: «Lui rappresenta la società civile». Gabriele Albertini che corre per il centro di Mario Monti e a questo punto nemmeno tutto, fa il nervoso: «Adesso tutti i giustizialisti sono con Ambrosoli. Ma le uscite isolate e personalistiche non sposteranno di nulla gli equilibri elettorali». Sarà. Ma l’endorsement dei montiani - a partire dalla capolista di Scelta Civica nel collegio di Lombardia 1 per la Camera Ilaria Borletti Buitoni - rischia di scompaginare quel testa a testa dato per certo fino a pochi giorni fa tra Roberto Maroni, aspirante Governatore per la Lega e il centrodestra tutto, e Umberto Ambrosoli che a questo punto può contare sull’appoggio di Pd, Sel, Idv, Rivoluzione Civile e pure sulla diaspora montiana.
Mancano meno di due settimane al voto e i giochi rimangono aperti. E proprio per questo la chiamata alle armi si fa più forte. Il segretario del Pd Pierluigi Bersani assicura di non voler aprire alcuna trattativa con la compagine di Mario Monti «Né tavoli, né tavolini» - ma si capisce dal suo appello che vuole solo schiacciare sull’acceleratore: «I voti sono tutti utili, ma se uno vuole un voto utile per battere la destra e vincere ce n’è solo uno e in Lombardia appare chiarissimamente. O vince Ambrosoli o vince Maroni... ». Ma a questo punto conta anche la ricaduta che può avere a livello nazionale e mica solo per i decisivi voti che attribuiranno seggi al Senato lo spostamento dei singoli schieramenti su un candidato o un altro. C’è chi calcola - quando i sondaggi non sono già più possibili - che un centrista su tre potrebbe andare con Ambrosoli. Mario Monti, il primo a fare l’endorsement verso Gabriele Albertini si ripete: «Ogni elettore è libero di votare come vuole ma il nostro candidato per la Lombardia rimane Albertini». E almeno a parole pure Roberto Maroni sembra non temere gli effetti di un voto disgiunto dei centristi pronti a schierarsi col suo antagonista: «Se uno è un moderato che vota Monti poi non può scegliere chi è sostenuto dalla sinistra».

Repubblica 12.2.13
Il leader di “Fermare il declino” si dice contrario al voto disgiunto: “Ma la Regione ha bisogno di cambiare”
Giannino apre al candidato del centrosinistra “Pronto a collaborare, è meglio di Maroni”
Se un elettore sceglie me in Parlamento e il candidato del centro sinistra al Pirellone merita rispetto
Nel centrodestra a guida berlusconiana lo smottamento sarà inevitabile, il Carroccio doveva guardare oltre
di Tommaso Ciriaco


ROMA — Oscar Giannino non ha dubbi: Umberto Ambrosoli è meglio di Roberto Maroni. Contrario al voto disgiunto, il giornalista e leader di “Fermare il declino” non nasconde però di preferire il candidato del centrosinistra nella sfida per la regione Lombardia. Di più, a due settimane dal voto regionale per scegliere il successore di Roberto Formigoni, Giannino si dice pronto a collaborare con Ambrosoli «sui singoli provvedimenti».
Diversi montiani sono usciti allo scoperto, annunciando un voto disgiunto a favore di Ambrosoli.
«E’ una circostanza che mi colpisce, perché quattro settimane fa hanno dato vita a una nuova formazione e oggi dicono a chi pensa di votarli che si può scegliere il voto disgiunto».
Eppure tempo fa lei disse di apprezzare Ambrosoli, mentre fu critico con Maroni.
«Il giudizio lo riconfermo, ma non sono nelle condizioni di chiedere di sostenere Ambrosoli e di non votare per il nostro candidato».
E allora come si concretizza questa preferenza per il candidato del Pd?
«Il miglior aiuto che possiamo dare a una coalizione di Ambrosoli è avere quanti più consiglieri regionali possibile, in modo da permettere alla Regione di fare passi avanti, ad esempio sulla sanità».
Questo significa sostenere un governo regionale di centrosinistra?
«Dobbiamo mettere i nostri consiglieri regionali nelle condizioni di dare un sostegno sui singoli provvedimenti, per cambiare lo schema dopo 18 anni di politiche
unidirezionali. Cosa diversa è invece il voto disgiunto, perché in questo caso daremmo una mano a partiti zoppi. Bisogna superare l’attuale schema, in questo senso il voto disgiunto non lo capisco».
E cosa si sente di dire a un elettore che sceglie Giannino in Parlamento e Ambrosoli in Regione?
«Gli elettori hanno sempre ragione. A differenza di Berlusconi, io ho il massimo rispetto per gli elettori: sono liberi di anteporre il proprio giudizio a tutto il resto, ci mancherebbe...».
Teme che una vittoria di Maroni possa far traballare gli equilibri nazionali?
«Questo non lo credo, perché nel centrodestra a guida berlusconiana ci sarà comunque uno smottamento inevitabile. L’errore di Maroni è stato di prospettiva. Ha fatto male a tornare sui suoi passi, alleandosi di nuovo con Berlusconi. E’ una prospettiva senza futuro, il segretario della Lega doveva guardare oltre».
Con le Politiche ci sarà un cambio di direzione a livello nazionale?
«La vera novità di massa è Grillo. Poi ci siamo noi, anche se siamo appena nati. L’importante è che ci sia in Parlamento un quinto, forse anche un quarto del totale di parlamentari “nuovi”. Questo cambia la situazione. Pensate a uno come Amato: non ce la farà ad andare al Quirinale e non per una questione di numeri, ma per la pressione fortissima che ci sarebbe nel Paese».
Allo stesso modo serve un cambio di rotta in Lombardia.
«La Regione ha bisogno di cambiare. In fondo è lo stesso motivo per cui il centrosinistra ha scelto Ambrosoli dalla società civile ».

La Stampa 12.2.13
Militari e volontari così la Cina addestra gli “hacker rossi”
di Ilaria Maria Sala


Di nuovo viene lanciato l’allarme per l’hacking dalla Cina, vista ormai da più parti come il «Paese più pericoloso», come ha detto il direttore di Google, Eric Schmidt, pochi giorni fa. Abbiamo chiesto a Xiao Qiang, direttore del progetto China Digital Times, a Berkeley, di parlarci degli hacker cinesi:
Chi sono gli hacker cinesi?
«Ci sono due grandi categorie da contraddistinguere. Una è quella di cui si parla forse di più, che costituisce un tipo di hacking favorito da sponsorizzazione governativa e militare. Su questo, per ovvi motivi, le i n fo r m a z i o n i sono un po’ più difficili da ottenere, anche se la loro azione è visibile. Poi ci sono invece gli altri hacker, quelli che possiamo definire come i “patrioti”: persone che decidono in modo indipendente di dedicarsi a danneggiare siti esteri, in particolare, o di dissidenti, o di intercettare le informazioni altrui, che si tratti di quotidiani stranieri o giornalisti che per questi lavorano o gruppi in esilio che vogliono combattere. Questi, si chiamano “hacker rossi”, hong ke in cinese».
Come agiscono questi «hacker rossi»?.
«Una persona di mia conoscenza è stato per un certo periodo un hacker rosso: un giovane informatico brillante, motivato dal “patriottismo” e dall’emozione dell’hacking. Di solito questo tipo di hackers, contrariamente a quelli governativi, non ha nessun incentivo a mantenersi discreto, per questo si può capire qualcosa di loro andando su uno dei loro tanti website, che danno un’idea della loro ideologia e delle loro attività: come quelli di chinahacker.com, iper-nazionalisti, una comunità di hackers che lavora sia dentro che fuori dalla Cina ma che ha come loro principale obiettivo quello di portare avanti azioni che danneggiano chi determinano essere i “nemici della Cina”».
Quali sono i loro obiettivi?
«Principalmente colpiscono il Giappone, gli Usa e Taiwan. Non tutti restano in questo campo per sempre, e spesso attirano l’attenzione del governo: quello che conoscevo io, per esempio, dopo diversi anni ha lasciato, ed ha aperto una piccola azienda informatica, legittima. Poi, è stato avvicinato dal governo, affinché tramite la sua azienda fornisse computer gratuiti alle Ong. Di sicuro è un modo per controllarle, non è neutro che sia un ex hacker a essere incaricato di queste attività da parte del governo, in modo indiretto. Ma è un’evoluzione naturale: spesso queste persone dopo un periodo da freelance lavorano per il governo, anche se non tutti sono così espliciti nelle loro attività».
E gli hacker «istituzionali»i?
«Lo Stato sponsorizza l’hacking in modo estremamente aggressivo, e lo indirizza verso ogni tipo di obiettivo possibile. La strategia è ad ampio raggio. Non si tratta necessariamente di persone che sono in Cina in modo fisico, possono lavorare anche dall’esterno, anche se per la maggior parte sono per l’appunto cinesi, e in ogni caso sponsorizzati dal governo cinese».
Pechino non teme ricadute negative a livello internazionale?
«Abbiamo visto anche la Corea del Sud essere presa di mira in modo concertato da attacchi che probabilmente hanno origine in Cina. In certi casi, lo sforzo è per portare avanti hacking cancellando il proprio percorso, e dare l’impressione che queste azioni originino altrove, spesso da Taiwan, per screditare e confondere le acque».

Repubblica 12.2.13
Gallimard pubblica il nuovo libro del fondatore del “Nouvel Observateur” Che racconta un incontro con il grande autore
Lo sguardo di Camus
Quando Albert trovò la felicità nel deserto
di Jaen Daniel


Sulle alture intorno a Tangeri un tempo c’era una scogliera detta del «kif», perché il locale, alquanto rudimentale, che vi sorgeva sopra forniva da fumare questa cannabis un po’ grossolana. Quello che sorprende, su questa collina che sovrasta l’oceano, è vedere dei banchi accatastati gli uni sugli altri, come se ci si trovasse di fronte a una scena teatrale o dentro una scuola. Lo spettacolo è l’acqua a perdita d’occhio, di qua l’oceano, più a est il mare. Su questa scogliera i giovani sognano. Io credevo che lo facessero soltanto i vecchi. Hanno il desiderio di perdersi in questa distesa indistinta, dove nulla interrompe lo sguardo. Stanno là, pietrificati e felici, come ne ho visti spessissimo, come mi sono visto talvolta, di fronte al deserto.
Un giorno Camus ha invitato un uomo giovanissimo a passare da lui alla Nouvelle Revue Française.
Mi ha scelto senza conoscermi veramente, sembrava smanioso di parlare. Tornava dal deserto algerino. Non ricordavo di aver mai conosciuto un uomo tanto raggiante. Sembrava innamorato. E in effetti era posseduto dal suo viaggio. Usava termini religiosi. Era stato visitato e ne tornava accompagnato. Quanto l’ho amato quel giorno! Quanto sono stato felice che mi confidasse quella grazia! Ma Camus ha terminato il racconto di quella trance con un aneddoto. Passando da Algeri era andato a rivedere la baia delle sue felicità, dall’alto di quello che si chiamava il balcone Saint-Raphaël. Lì aveva incontrato un algerino molto modesto, un uomo di mezz’età, dal viso grave, dolce e segnato, e che notandolo, dopo aver terminato la sua meditazione di fronte alla calma degli Dei, gli aveva detto: «Tu guardi, tu guardi come se conoscessi». Perché conosco, ha risposto Camus. L’arabo lo ha contemplato a lungo, combattuto fra lo scetticismo e la simpatia. Poi gli ha accordato un sorriso di benvenuto e di benedizione. Camus raccontava tutto questo felicissimo. «Quell’arabo e io sapevamo tutto quello che serve sapere sul mondo», mormorò per concludere. In seguito ho capito che cosa volevano dire, lui e quell’arabo. Un tuffo nell’Oceano primordiale, estraneo e allo stesso tempo materno, un inserimento nel grande vuoto che è anche il grande tutto e l’impressione inebriante di far parte del cosmo.
Non so se sarei riuscito a fumare del kif in un posto diverso da Tangeri. E non so nemmeno se avrebbe avuto lo stesso effetto. Credo che quella città sia un po’ folle. Mi ha dato le vertigini. In quel momento è la sola città del Nordafrica che sia veramente libera, nella sua allegria e nella sua giovinezza. Si sveglia intorno alle sei della sera e a quel punto comincia ad abbandonarsi a una serie ininterrotta di rappresentazioni. I tangerini sono dei sonnambuli, nel duplice senso della parola. Sono instabili, come il sole sullo Stretto, incerti come i venti che esitano fra due mari, brulicanti come le onde che si susseguono sulle spiagge immense, deserte, infinite. Nella folla brunastra e sensuale passano a volte correnti bionde di vichinghi e valchirie. La capigliatura che ricade sulle spalle, la criniera alta, la schiena carica di un enorme zaino da campeggio, tenuto fermo con delle cinghie sulle cosce nude. Queste correnti circolano nell’indifferenza generale, tanto non suona strano da queste parti lo straniero, tanto si sente a casa propria in questa appendice cosmopolita dell’Africa, questo istmo britannizzato dell’Andalusia. Ho anche l’impressione che l’effetto del kif non sia lo stesso nei giorni in cui l’Atlantico si infervora e nei giorni in cui regna il Mediterraneo.
In ogni caso, è Tangeri che mi ordina di ritornare a Blida.
Da noi gli anziani dicevano e il padre ripeteva cose ben diverse. Per esempio, e Dio sa quant’erano solenni allora, che non si poteva giudicare riuscita la propria vita se non si invecchiava nella propria città e non si moriva in casa propria. Bisognava andare a consultare il patriarca a casa sua, bisognava che i bambini diventati adulti fossero presenti per chiudergli gli occhi una volta arrivata la sua ora. La città natale e la casa di famiglia sono i rifugi del sacro. Credevo di aver relegato l’attaccamento alla città e alla casa avita nella polvere dei continenti scomparsi quando d’improvviso, grazie a una pipa di kif, ho preso a pensarvi, ripensarvi e poi a sognarli. Ho cominciato ad assomigliare sempre più all’hidalgo della Mancha, che confonde i ricordi e i progetti, il fantastico e il reale e che non può avere altra cornice di vita che l’immaginario. I miei personali romanzi cavallereschi si sono trasformati in quelli di un piccolo borgo diventato capitale, di una piccola casa diventata castello e di tutti i personaggi romanzeschi che per me hanno contato quanto degli amici veri.
Allora, poiché non sogno di essere bocciato alla maturità perché non riesco ad afferrare il concetto di valenza nella chimica, poiché non sogno di essere contemporaneamente campione di tennis, direttore d’orchestra e grande attore, eccomi improvvisamente proiettato a casa mia, e sento il rumore delle cascate e delle sorgenti nelle montagne affacciate sul mare, nella città degli avi e nella casa di famiglia. La sospensione della pena è terminata.
L’intervallo è finito. L’esilio dimenticato. Vengo a prolungare la stirpe. Prolungo la continuità. La vita non si interrompe, si perpetua grazie alla vitalità delle radici. Ci saranno tanti rami che cadranno insieme alle foglie, ma l’albero rimarrà, unico ed eterno. Ma a ogni modo la casa è la trasmissione, la durata, non è la morte. Tutto continua. Eccomi. Arrivo. Riapro la bottega chiusa il giorno prima da mio padre. Riprendo l’eredità. Ho indossato il grembiule grigio che gli serviva per proteggersi dalle nuvole di farina. Sento mia madre che grida «Jules» dal balcone, e la vedo che mi sorride quando si accorge che sono a fianco di mio padre. Vestito come lui. Al mio posto. A svolgere la mia funzione. Là dove serve. Là dove si deve. Tu non volevi che io restassi. Per lo meno è quello che dicevi. Per favorire le mie partenze dicevi: «Va, figlio mio». Ma mi facevi scrivere: «Quando tornerai, non avremo più il diritto di essere infelici ». Tu pensavi alla guerra e al fatto che io potessi scamparvi, non al mio ritorno fra voi. Ma eccomi: sono qui. Ti faccio rivivere attraverso il mio ritorno, e non hai più il diritto di essere infelice. Perché non sono tornato a mani vuote. Non sono un viaggiatore senza bagaglio. Metto ai tuoi piedi tutte le ricchezze della mia vita vissuta e della mia vita sognata. Ho radunato tutto. Non lascio dietro niente. Niente e nessuno. Qui a Blida, Ourida piccola rosa, ritrovo tutto a sessant’anni di distanza, la piazza d’armi attorno a cui passeggiano gruppi diversi e chiedono notizie gli uni degli altri ogni volta che si incrociano, a distanza di qualche minuto. Ho ritrovato Badigel, il principe guercio e ruffiano, i piccoli lustrascarpe più informati di tutti, la strada degli ottonai, del ciabattini, dei mozabiti, e poi il mercato arabo, dove per la prima volta mi sento a casa, mentre quand’ero bambino mi era ostile. Mi indirizzano verso il giardino Bizot, oggi giardino Lumumba.
(Traduzione di Fabio Galimberti) © Editions Gallimard (Parigi), 2013

Repubblica 12.2.13
I manoscritti
Online i tesori della British


LONDRA — È una delle più grandi collezioni di libri medievali al mondo: 25mila volumi che risalgono tutti a prima del 1600, tra cui numerosi papiri e veri e propri tesori. Fino ad ora, per vederli, bisognava venire di persona alla British Library di Londra. Ma da ieri la grande biblioteca pubblica ha cominciato a mettere online gratuitamente, i suoi gioielli del Medioevo, seguendo il mantra secondo cui niente (o quasi) in una biblioteca dovrebbe essere inaccessibile. Tra i primi titoli finiti sul web c’è un Vangelo secondo Luca
del nono secolo in latino, un libro dell’Apocalisse in spagnolo, un Petit Livre d’Amour
e l’unico manoscritto di Beowulf sopravvissuto a un incendio nel 1731. (E.F.)

l’Unità 12.2.13
Non compreso, ma parla a noi
Il contrasto al relativismo, sfida anche per i progressisti
di Mario Tronti


Ecco una notizia! Mi colpisce, come un fulmine, a metà mattinata.
Il tempo è grigio, freddo e piovoso, non promette nulla di buono. Apprendo che è un fulmine, a ciel sereno, anche per il cardinal Bagnasco. Si tratta quindi di una decisione maturata e presa in interiore homine, secondo le indicazioni del suo amato Agostino. Mi dispiace. Mi ero abituato alla presenza mite, riservata, sottile, nel linguaggio come nel pensiero, di Papa Ratzinger. Temo il peggio, come accade troppo spesso per le novità che irrompono in questa triste epoca.
Pochi come Benedetto XVI erano rimasti così fedeli al nome e alla figura che aveva portato con sé prima di salire al soglio pontificio. Una vita di studi e di opere a livello teologico, che non aveva abbandonato una volta assunta la responsabilità pontificale. L’aveva solo adattata, in modo molto personale, alle dovute esigenze pastorali. La narrazione storiografica della vicenda terrena di Gesù era in realtà il suo modo di parlare ai fedeli, quasi intrattenendoli nelle forme di un messaggio di consapevolezza e però anche di speranza. Non disdegnava certo la pratica di gestione dell’istituzione Chiesa, nel lungo periodo di cura della Congregazione che aveva in cura la propagazione della fede, e nel ravvicinato rapporto operativo con Papa Woityla. Ma si vedeva che era di più, e qualcosa di diverso da tutto questo.
Si notava come un impaccio nel suo rapporto con la folla, si scorgeva un desiderio di ritrarsi presto dall’esposizione pubblica, per tornare nella penombra a coltivare la sua passione per la musica. Del resto non si può frequentare quotidianamente la parola della grande musica senza rassegnarsi a convivere con i segni di una mesta melanconia del vivere. Mi piace pensare che a motivare questa più che eccezionale scelta sia stata meno la stanchezza del corpo e in maggior grado una stanchezza dello spirito. Ha detto, annunciando di lasciare il palcoscenico del mondo, di volersi ritirare in una vita di preghiera. Quanto infatti è concesso a un pregare intenso e prolungato in quella funzione politica di Papa-re, che la Chiesa si ostina ad assegnare al pontefice romano? Sì, l’eremo in un recesso del Vaticano, in un luogo che è stato di clausura, molto più che il balcone su piazza San Pietro, sembra adatto a Papa Benedetto.
Se lo stile è l’uomo, questo gesto rivela un tipo di umanità non comune. Decidere di scendere volontariamente dal soglio più alto, per abbassarsi ad essere un semplice strumento del Signore in contemplazione, è un atto di esemplare nobiltà d’animo, che questo tempo del volgare apparire non riuscirà neppure ad comprendere. Un atto di kenosi, di svuotamento di sé, della propria presunta onnipotenza. Da rileggere, per il caso, l’inno paolino in Filippesi 2, il Cristo che «pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini». Lo so che anche questa volta si chiacchiererà intorno a motivazioni più terra terra intorno ai segreti del Vaticano, ma per un momento prendiamoci una pausa di meditazione. Fa bene in questa concitazione dei giorni.
Papa Ratzinger non è stato ben compreso. Fin dalla sua elezione ha pesato su di lui l’immagine di guardiano dell’ortodossia, in quanto proveniente dall’Ufficio erede del Tribunale dell’Inquisizione. È stato visto come sostanzialmente ostile alla svolta del Concilio, quando ne era stato un protagonista, chiuso alle altre dimensioni religiose, mentre si sforzava di portare avanti il dialogo più aperto possibile. Specialmente il mondo laico, cosiddetto progressista, ha seguito in modo assai distratto il suo fondamentale contrasto nei confronti dell’egemonia in atto del relativismo, in ogni campo, dalla sostanza della storia alla pratica della vita. Del tutto in ombra è stata lasciata la sua iniziativa innovatrice negli equilibri della gerarchia ecclesiastica. Eppure è proprio attraverso Benedetto XVI che è passata, soprattutto nella Cei, l’assunzione di quella frontiera che vede nell’unità dinamica di questione sociale e questione antropologica un punto strategico fondamentale per una ricostruzione civile e morale, dopo la devastazione degli ultimi anni e decenni. E c’è solo da sperare che da qui non si torni indietro.
«La sofferta decisione» recita il tempo di uno degli ultimi quartetti di Beethoven, quelli straordinariamente innovativi per la musica dell’avvenire. Non possiamo che pensare a questo, di fronte all’evento. Chiniamoci con rispetto e cerchiamo di capire.

l’Unità 12.2.13
Le forze di un Papa
La Chiesa è stata posta davanti a un bivio storico, ma questa domanda non riguarda solo i credenti
di Claudio Sardo


I SONO EVENTI CHE METTONO I CRONISTI DAVANTI A UNA STORIA PIÙ GRANDE DI QUELLA CHE SOLITAMENTE RACCONTANO E COMMENTANO. Le dimissioni di Papa Benedetto dal soglio pontificio sono questo. E non tanto perché in duemila anni di vita della Chiesa di Roma i precedenti si contano sulla punta delle dita. Non è certo Celestino V il metro di paragone.
L’impressione piuttosto è che il Papa teologo, rimasto ormai senza le forze che lui stesso ritiene necessarie per proseguire il ministero, abbia posto anzitutto alla Chiesa, e quindi al mondo, una domanda cruciale e drammatica sulla fede nella modernità, sulla comunione nel secolo dell’individualismo, sul ruolo delle istituzioni nel divenire della società. Una domanda posta con la libertà che nessuno pensava potesse prendersi un Papa. Peraltro un Papa che ha avuto non pochi problemi di comprensione con il mondo contemporaneo.
Da marzo Benedetto XVI non sarà più Pietro. Ma continuerà a pensare, a pregare, a vivere nella comunità dei cristiani, dunque a condividere la testimonianza e la fede. E il suo magistero non è svanito, anzi per molti aspetti resta incompiuto, e continuerà a vivere nella Chiesa-comunità mentre un nuovo Papa si affiancherà al vecchio. Non sarebbe stato possibile un gesto come quello a cui ieri abbiamo assistito senza il Concilio Vaticano II, senza la sua novità, senza che fossero abbattute le barriere di una sacralità separata che impedivano di guardare la sacralità del mondo. Forse le forze mancanti al Papa non sono solo quelle dovute all’età o alla malattia: forse le forze mancanti riguardano la capacità di tutta la Chiesa di procedere sulla strada del Concilio, di tenere insieme la Verità con le antenne e le sofferenze del mondo, di conservare lo spirito critico verso il moderno senza perdere la carità. Forse il Papa ha preso questa decisione perché ha percepito la straordinarietà del momento, e anche delle decisioni inedite che la Chiesa dovrà assumere per rinnovare se stessa e contribuire a rilanciare un umanesimo, nel tempo in cui i mercati, la finanza, le tecnoscienze sembrano aver conquistato il potere sull’uomo.
Viene persino da chiedersi se ciò che si sta aprendo in Vaticano è un conclave, o addirittura un Concilio. Viene da chiedersi se Papa Benedetto abbia colto la necessità di un confronto a questa altezza, arrivando alla conclusione che, per compiere il passo, è necessario appunto un nuovo Papa, un nuovo «pronunciamento dello Spirito». In fondo l’allontanamento dalla Chiesa di tante persone soprattutto nelle società più ricche e secolarizzate, lo scandalo della pedofilia in diversi continenti, persino il caso clamoroso del corvo vaticano che ha portato al Papa sofferenze indicibili sono fenomeni che alludono ad un conflitto irrisolto tra la Chiesa e un mondo dove le reti di solidarietà si stanno corrodendo, dove la politica rischia di essere solo immanenza (solo presente, senza passato e senza futuro), dove il valore e il desiderio dell’individuo si misurano con la ricchezza economica.
Ma la Chiesa cosa fa? Cosa riesce a testimoniare? Quanto è coerente? Che capacità di comunione, di carità, di fratellanza, di povertà esprime? Papa Benedetto per anni ha cercato di offrire alla società ormai multiculturale e multireligiosa, e anche alla cultura laica, un terreno di confronto sulla ragione dell’uomo. Spesso è stato inseguito, ingiustamente, da un pregiudizio di anti-modernità. Ma il moderno non è subalternità alla vulgata dominante. Senza spirito critico non c’è l’uomo, né la comunità. La fede religiosa può essere un antitodo al liberismo dominante. E all’individualismo radicale che ne è l’essenza culturale.
Queste dimissioni sono certamente un atto di libertà. Un gesto personale, che appartiene anzitutto al legame inscindibile tra la coscienza di un Papa e la Chiesa. Ma da oggi questo gesto è una sfida alla Chiesa e un interrogativo a quel mondo che intende ancora coltivare un pensiero critico. Tra i temi irrisolti del post-Concilio c’è sicuramente la collegialità dei vescovi e dunque il governo mondiale della Chiesa. Fin qui si è cercato di far convivere la centralità della Curia romana con il parziale coinvolgimento del Sinodo, con la relativa autonomia delle Conferenze episcopali, con l’apertura ai laici nella gestione delle comunità locali. Qualcuno ha detto in questi anni il cardinal Martini lo disse anche alla vigilia dell’ultimo conclave che sarebbe stato necessario aprire un nuovo Concilio per ridare slancio evangelico della Chiesa. Non un Vaticano III, disse Martini, ma concili tematici. Compreso uno sulla famiglia e sui temi che riguardano la morale sessuale. La collegialità della Chiesa da marzo avrà un testimone che nessuno potrà dimenticare: il vecchio Papa dimissionario che vive accanto al nuovo Papa. È impossibile dire cosa accadrà. Certo, siamo davanti a un bivio storico. Che riguarda i credenti e l’attualità della loro fede. Ma che non può lasciare indifferente chi cerca un riscatto dell’uomo sulla povertà, la solitudine, l’ingiustizia, la sudditanza ai poteri che si ritengono indiscutibili.

l’Unità 12.2.13
Una domanda sull’uomo che non riguarda solo i credenti
di Vincenzo Vitiello


LA NOTIZIA HA COLTO DI SORPRESA TUTTI, DAI CARDINALI A CUI BENEDETTO XVI SI È RIVOLTO PER ANNUNCIARE LE SUE DIMISSIONI, ai giornalisti, ai politici, alla gente comune. Un fatto che non accadeva da secoli, da quando il povero Pietro da Morrone, passato alla storia col nome di Celestino V, investito di un compito superiore alle sue forze, si ritirò, colpito dalla dura sentenza di Dante. Il gesto di Papa Ratzinger è stato invece accompagnato da unanimi giudizi di profondo rispetto per il coraggio dimostrato nel rinunciare ad un compito storico troppo oneroso per i suoi anni. Interrogati sull’evento, storici della Chiesa e «vaticanisti», uomini di varia cultura credenti e non, hanno più o meno detto le stesse cose: lo stupore per l’inatteso, le previsioni sul futuro conclave, i dubbi sulla presenza di un Papa dimissionario «accanto» a quello che verrà eletto, e così via.
Esemplare la conferenza stampa di padre Lombardi subito dopo l’annuncio delle dimissioni: esemplare per le domande rivoltegli e per le risposte da lui date, tutte rivolte al mondo storico. Per carità, non era certo quella la sede per una discussione teologica. Ma aveva preannunciato le dimissioni un pontefice, non un presidente della Repubblica, una regina, un capo di governo! Un pontefice, che è eletto così almeno dice la Chiesa cattolica sì dai prìncipi di questa Chiesa, i cardinali, ma in quanto ispirati dal Santo Spirito. Non è in questione la fede che pure sarebbe doveroso chiedere a uomini di Chiesa, o a storici, giornalisti e politici, che si dichiarano cattolici -; è in questione il rispetto non formale, ma sostanziale, di «contenuto», del punto di vista di chi quelle dimissioni ha annunciato. Rispetto che riguarda tutti quelli che si interrogano su questo evento, che ha un indubbio spessore teologico.
Perché riguarda sì il mondo storico, i nostri giorni e le nostre opere, ma in relazione a quanto è «oltre» il nostro tempo e il nostro operare, e lo accompagna, ispirandolo talora, contrastandolo talaltra. Bene: quale rapporto mettono in giuoco queste dimissioni? Il rapporto orizzontale interumano, o quello verticale tra uomo e Dio? L’evento è straordinario per questo, e non perché sono poco più di settecento anni che non accadeva! C’è quindi da chiedersi per il rispetto non formale di questo Papa teologo, studioso di Agostino e della storia del cristianesimo, della Teologia trinitaria quali dubbi abbiano inquietato i suoi giorni riguardo al rapporto tra la sua elezione come capo della comunità dei credenti e la provvidenza del Dio in cui crede, con una fede che ha sempre inteso portare a ragione, e cioè umanamente giustificare. Dubbi che non sono soli suoi e dei credenti della sua Chiesa e della sua fede. Sono di quanti guardano alla storia degli uomini, al mondo degli uomini con sguardo puro, senza certezze e senza disperazione, nella consapevolezza che la storia, il mondo degli uomini, è attraversata da una differenza che inquieta ogni «pensante»: la differenza tra accadimento e azione, che non è lo stesso che dire: provvidenza e tempo storico.

il Fatto 12.2.13
Papato e cinema. Marco Bellocchio
“Una piccola rivoluzione, diversa dal film di Moretti”
di Malcom Pagani


Da ateo perplesso sulla contaminazione tra vita e finzione, Marco Bellocchio non crede nelle profezie: “Habemus Papam, il film di Moretti, traduce in fantasia di fuga la rottura traumatica di un uomo che sente il peso dell’investitura. L’addio di Ratzinger è un’altra storia e lo spirito dei due rifiuti, diverso. Il papa meditava l’abbandono graduale e non si è certo svegliato ieri annunciando: ‘Ragazzi, basta, me ne vado’”. Sempre ancoràto alla sponda laica della luna, il regista non trascorre notti insonni: “È un gesto eccezionale e politico che con buon senso, restituisce alla Chiesa il suo ruolo di ramificata potenza mondiale alla costante ricerca di un’energia che l’attuale Papa, forse malato, non possiede più. Ratzinger non vuole scendere dalla croce da morto come Wojityla, né pensa di essere il vicario di Cristo in terra. Mette in equilibrio fede e ragione e distingue la funzione dall’essere Joseph. Un signore di 86 anni che si discosta dai predecessori, pontefici che esponevano la sofferenza ai fedeli come esempio di sacrificio e sopportazione. Quasi un martirio a cui Ratzinger, con una scelta umana e quindi più laica, si sottrae. Riconosce i limiti dell’esistenza. Il crudo dato: invecchiando si declina. E fare il papa tra uno scandalo e l’altro è un mestiere massacrante”.
La notizia è rilevante.
Ma a me, le dico il vero, turba relativamente. Nel percorso intrapreso con me stesso molti anni fa mi accorsi che non c’era spazio per la religione. Così adesso pur avendo avuto un’educazione cattolica, osservo da fuori. Dall’esterno, non dico con indifferenza, ma da spettatore. Pur essendo molto interessato alla biografia di certi santi o a figure come Dossetti, tra le mie curiosità non c’è mai stato il percorso di Ratzinger.
Perché?
Lo rispetto e so che è un serio teologo, ma è distante dal mio immaginario. Per noi cresciuti con Bianco Padre: “Siamo arditi della fede / siamo araldi della croce / a un tuo cenno / alla tua voce / un esercito all’altar”, i papi erano, anche nella più fiera opposizione ideologica, grandi personaggi. Pio XII, intransigente anticomunista. O Giovanni XIII. L’ho sentito e risentito. Tratto gentile, delicato, aperto. Di Ratzinger, anche sforzandomi, non mi vengono in mente momenti in cui abbia prestato una particolare attenzione a quel che diceva.
Ratzinger incontrò il mondo del cinema.
Non andai. Pur nutrendo curiosità intellettuale, senza esprimere alcun giudizio e stimando la quasi totalità dei cineasti che si recarono ad ascoltarlo sotto la volta della Cappella Sistina. Mi piacque sottrarmi. Non esserci. Disse cose che non mi parvero illuminanti per il lavoro di un artista. A titolo personale, presenziare mi sembrò un gesto di ossequio che preferii evitare.
Siamo abituati a vedere l’abdicazione coincidere con la morte.
A Ratzinger auguro anni di cammino felice e di studio, ma nell’indubbia novità, è un funerale anche questo. Con gli onori riservati a un capo che si sfila. A un funzionario che si dimette. Siamo soliti vedere il papa in carica fino all’ultimo istante. In un certo senso si afferma un princìpio democratico. In una Chiesa che impiega secoli per riabilitare Galileo e che da secoli coniuga il perdono del peccato e la difesa della proibizione, l’addio anticipato è una piccola rivoluzione. Poi c’è un’altra cosa.
Quale?
Ha azzerato la campagna elettorale. Un sollievo. Ripetono da mesi le stesse cose in una recita noiosissima. Il principale attore, quello che se la cava meglio con le menzogne, forse cova altri colpi di scena. Per qualche ora Ratzinger gli ha tolto il proscenio.

il Fatto 12.2.13
In gioventù arruolato nelle truppe di Hitler


FIGLIO di un commissario di gendarmeria, Joseph Ratzinger (giovane, nella foto di fianco) è cresciuto nella diocesi di Passavia, nella Bassa Baviera.
In seguito agli ordini di Hitler che rendeva obbligatorio per tutti i giovani di età compresa fra i 14 e i 18 anni arruolarsi nella Hitlerjugend, all’età di 16 anni venne assegnato in un reparto di artiglieria contraerea esterno alla Wehrmacht che difendeva gli stabilimenti della Bmw a Monaco. Fu assegnato per un anno a un reparto di intercettazioni radiofoniche. Con il peggioramento delle sorti tedesche nel conflitto fu trasferito e incaricato allo scavo di trincee. Con la disfatta tedesca, nell’aprile 1945 Ratzinger fu recluso per alcune settimane in un campo degli Alleati, vicino a Ulma, come prigioniero di guerra e rilasciato il 19 giugno 1945.
Lo scrittore nobel Günter Grass sostiene di aver conosciuto Ratzinger in quel periodo: “Nel campo di Bad Aibling – racconta – tre sigarette Camel mi fruttarono un cartoccetto di cumino, che masticai in ricordo del maiale con cavoli al cumino. E un po’ di cumino barattato lo passai al mio compagno, assieme al quale stavo accovacciato al riparo di un telone sotto la pioggia. Si chiamava Joseph, e non riesce a uscirmi di mente. Io volevo diventare questo, lui quello. Io dicevo che esistono più verità. Lui diceva che ne esiste una sola. Io dicevo di non credere più a niente. Lui insellava un dogma dopo l’altro. Io esclamavo: ma Joseph, non avrai in mente di fare il grande inquisitore o qualcosa di più? Lui faceva sempre qualche punto in più e giocando citava Sant’Agostino, come se avesse davanti le sue confessioni nella versione latina”. Non è confermato che il giovane Joseph incontrato da Grass fosse il futuro Papa.

Repubblica 12.2.13
Lo storico: “Benedetto XVI si ritira dalla modernità Qui sta la forza plurisecolare del cristianesimo”
Le Goff “Abdica come i re Una rivoluzione quel trono vuoto dopo 600 anni”
“Dimissioni” è un termine che riguarda le democrazie. Credo sia più opportuno usare un altro termine
“Nel gesto del Papa si compendiano lucidità, modestia e la speranza di consentire alla Chiesa di rimontare la china”
di Giampiero Martinotti


PARIGI Jacques Le Goff è stupito e affascinato dal gesto di Benedetto XVI, uno di quei rarissimi eventi che, secondo il grande storico, dimostrano la forza plurisecolare del cristianesimo.
Professor Le Goff, la rinuncia del Papa fa pensare al trono vuoto: è un’immagine adeguata a riassumere il gesto del pontefice?
«Sì e no. Personalmente, non è un’immagine che mi tocca molto, ma è importante per una religione: fa vedere che anche se la religione non ha una testa umana da mostrare, c’è sempre il trono che simboleggia l’esistenza di un re nel cielo, Dio. Di conseguenza, il trono vuoto è il simbolo della continuità. È uno degli atout del cristianesimo, che ha sempre evitato le rotture e per cui l’unica rottura è stata l’incarnazione di Gesù. Ci possono essere crisi, svolte, catastrofi, ma il trono di Dio è sempre lì. Questa eterna associazione fra il cambiamento e la continuità, incarnata dal trono vuoto, è una delle virtù del cristianesimo».
Come ha reagito alle dimissioni?
«Non si tratta di dimissioni, perché le dimissioni vengono date davanti a un’assemblea davanti a cui si è responsabili. È un termine che riguarda le democrazie, non esiste per il Papa. Credo si debba ritornare alla parola abdicazione come per i monarchi».
Perché lo ha fatto, secondo lei?
«Lui dice che è per l’età e la fatica, ma fondamentalmente si ritira davanti al mondo moderno. Si sente incapace di padroneggiare questo mondo, di far sentire sufficientemente la voce del Dio dei cristiani e della Chiesa cattolica in questo mondo. Nel suo ritiro si compendiano la lucidità, la modestia, la speranza di permettere alla Chiesa di rimontare la china e di affrontare meglio il futuro».
E adesso cosa succederà?
«È la domanda più importante: cosa farà il conclave? Certo, non lo so, non sono cardinale, né ecclesiastico e nemmeno uno specialista della chiesa contemporanea. Come storico guardo al passato: non c’è mai stato un papa che si sia ritirato fra il XV secolo e oggi. Nel Medioevo ci sono stati due casi. Si parla soprattutto di Gregorio XII, papa nel periodo del Grande Scisma, che si può dire si sia dimesso davanti al concilio di Basilea: nel Medioevo c’era chi pensava che il concilio fosse superiore al papa. Prima ancora, nel 1294, c’è stato Celestino V, di cui parla Dante nella Divina Commedia
come colui che fece “il gran rifiuto”. Malgrado le differenze molto grandi, c’è qualcosa di comune a Celestino V e a Benedetto XVI».
A più di sette secoli di distanza vede una somiglianza fra i due casi?
«Celestino V era un eremita tradizionale, Ratzinger un teologo tradizionale. Penso ci sia qualcosa di paragonabile. Celestino V pensava di essere incapace di guidare la Chiesa perché apparteneva profondamente al cristianesimo medievale tradizionale, quello dominato dal monachesimo, l’anacoretismo, mentre la cristianità si era profondamente modificata, aveva conosciuto uno sviluppo rurale e urbano considerevole e alla fine del Duecento era diventato un mondo nuovo. Vedo una rassomiglianza tra allora e questo inizio del XXI secolo. Mi vien da pensare a una cosa che come storico mi ha sempre colpito, anche se non sono credente: penso che una parte dell’Occidente abbia avuto fortuna ad avere come religione il cristianesimo».
Come mai? Cosa c’è di così diverso dalle altre religioni?
«Essenzialmente per due ragioni. La prima è che il cristianesimo distingue quel che appartiene a Dio e quel che appartiene a Cesare, non mescola religione e politica. La seconda ragione è che, nonostante i ritardi e le lentezze, nonostante la crisi che colpisce tutte le religioni, è sopravvissuto piuttosto bene, perché ha saputo adattarsi alle mutazioni profonde di questo mondo. E credo che in queste ore stiamo assistendo a uno di quegli avvenimenti plusirisecolari caratteristici del cristianesimo».
Lei ha detto che Ratzinger si ritrae davanti alla modernità, eppure il teologo che veniva catalogato come reazionario se ne va con gesto moderno.
«Era successa la stessa cosa con Celestino V: non si era mai visto niente del genere e per questo Dante ne parla. Ratzinger non rende omaggio alla modernità, perché al tempo stesso il suo gesto è un rifiuto della modernità: il papa che abdica se ne ritira».

La Stampa 12.2.13
Padre Georg e la “sua” famiglia lo seguiranno in un monastero all’interno del Vaticano
di Luca Rolandi, Mauro Pianta


Il primo Papa dimissionario dell’era contemporanea ha trovato casa in un monastero di clausura. Una volta lasciato il soglio pontificio, il 28 febbraio prossimo, Joseph Ratzinger si trasferirà per un breve periodo nella residenza estiva di Castel Gandolfo per stabilire nuovamente la propria residenza in Vaticano, nel monastero «Mater Ecclesiae», dentro le mura leonine. Non sarà solo, l’(ex) papa Ratzinger. Con lui, infatti, secondo quanto trapela da ambienti di Oltretevere, si trasferirà anche una parte dell’attuale «famiglia» pontificia: alcune delle Memores Domini, le consacrate di Cl che hanno prestato servizio nel suo appartamento in questi anni. E per un certo periodo, nell’appartamento attualmente in fase di ristrutturazione, potrebbe trovare posto anche il suo segretario, mons Georg Gänswein.
«Non sarà in clausura», ha spiegato ieri padre Lombardi rispondendo ai giornalisti. «Non credo che debba essere considerato recluso in nessun modo - ha detto -. Avrà la sua normale libertà. Certo è una situazione inedita, vediamo come la vivrà. Non posso dire tutto quello che farà», ma «più volte lui ha detto di voler dedicare l’età anziana alla scrittura, allo studio e alla preghiera».
Il monastero, collocato lungo le mura che papa Leone IV (847-855) fece erigere nell’847 per proteggere la basilica di San Pietro dall’attacco dei Saraceni, nacque nel 1994 per volontà di Giovanni Paolo II il quale affidò alla religiose il compito di accompagnare, con le loro preghiere le attività del Pontefice e della Curia Romana. Le monache Visitandine, presenti dal 2009, hanno lasciato la struttura nel novembre del 2012 quando sono iniziati i lavori di ristrutturazione. Oltre al supporto spirituale le religiose hanno fornito al Pontefice i prodotti della terra coltivati nel grande orto del monastero: sulla tavola di Ratzinger arrivavano peperoni, pomodori, zucchine, cavoli e aranci.
L’orto è una delle parti più belle del monastero che si estende su quattro livelli con ambienti comunitari, dodici celle monastiche, un’ala nuova di 450 metri quadri, una Cappella, il Coro per le claustrali, la biblioteca, il ballatoio, una siepe sempreverde e una robusta cancellata per delimitare la zona di clausura. Dall’esterno la struttura appare semplice: il collegamento con l’ambiente circostante avviene attraverso una scalinata immersa nel verde ed un loggiato coperto; una siepe ed una cancellata precludono le zone di clausura all’introspezione; mentre due percorsi differenti, perimetrali consentono l’accesso dei fedeli al monastero, rispettivamente nelle zone della Cappella e della portineria. La cappella è spartana: le vetrate artistiche e il crocifisso dello scultore Francesco Messina la abbelliscono.
Papa Ratzinger ha più volte dimostrato di apprezzare il «Mater Ecclesiae», tanto da aver celebrato qui la messa in tre occasioni diverse: nel 2005, nel 2006 e infine nel 2009. Dal 13 maggio 1994 - giorno del tredicesimo anniversario dell’attentato subito dal Papa polacco in piazza San Pietro - il complesso ha ospitato quattro diversi ordini: fino al 1999 quello delle Clarisse, dal 1999 al 2004 quello delle Carmelitane, dal 2004 al 2009 quello delle Benedettine e dal 2009 al 2012 quello delle Visitandine. Dalla metà di aprile 2013, invece, l’inquilino più celebre: Joseph Ratzinger, il pontefice che diede le dimissioni.

lunedì 11 febbraio 2013

l’Unità 11.2,13
La dichiarazione di Torino: un rinascimento per l’Europa
Pubblichiamo l’atto finale del vertice dei Progressisti europei, concluso sabato a Torino
«Per una Unione democratica di pace, prosperità e progresso»
Completare un’autentica Unione economica e monetaria richiede una revisione dei Trattati
Una Unione democratica è indispensabile per dare agli europei la possibilità di incidere sul mondo

Il 2013 è un anno cruciale per l’Europa progressista. Dopo le vittorie dei socialisti in Slovacchia, Francia e Romania nel 2012, le elezioni in Italia e Germania potrebbero cambiare gli equilibri in seno al Consiglio europeo, aprendo la strada a una maggioranza progressista dopo le elezioni europee del 2014. La dichiarazione di Parigi e il lancio dell’iniziativa Renaissance for Europe nel marzo 2012 si sono concentrate sulla necessità di andare oltre le politiche di austerità, delineando i tratti di un nuovo e più equilibrato corso per un’Europa basata su stabilità, crescita e solidarietà. A Torino vogliamo elaborare la nostra visione dell’Europa politica: una Unione della democrazia basata su una sovranità condivisa, che costituisce la condizione essenziale per affrontare la crisi e per restituire potere ai cittadini e fiducia nel progetto europeo. Ciò che vogliamo realizzare è una Unione di progresso e prosperità per tutti, con un forte mandato da parte dei cittadini europei.
RIDEFINIRE I FONDAMENTI: SVILUPPARE LA DEMOCRAZIA
La crisi economica e finanziaria ha evidenziato la debolezza della governance dell’euro. L’introduzione di una moneta comune non è stata seguita dal completamento di una vera unione economica. Quindi, nonostante l’euro sia divenuto un simbolo importante del progresso nell’integrazione, esso non è diventato sinonimo di sicurezza, stabilità e controllo democratico. L’assenza di una adeguata architettura istituzionale si è riflessa in un compromesso tra l’intergovernativismo delle risorse da un lato, e il metodo comunitario delle regole dall’altro. Il primo ha implicato la canalizzazione dell’aiuto finanziario da parte degli Stati membri attraverso organismi intergovernativi. Il secondo, invece, si è tradotto in regole più severe di disciplina fiscale al livello europeo, con la conseguente attuazione delle politiche di austerità. Questo impianto si è dimostrato inefficace, sia politicamente che economicamente. Non ha migliorato la stabilità finanziaria e la sostenibilità fiscale. Al contrario, ha innescato un circolo vizioso di recessione e peggioramento dei conti pubblici, le cui conseguenze economiche e soprattutto sociali sono devastanti. Il deficit democratico delle politiche europee è arrivato fino agli Stati membri, erodendo il consenso pubblico non solo nei confronti del progetto europeo, ma anche delle stesse democrazie nazionali.
Un’Unione di regole fiscali gestita da tecnocrati non può andare oltre l’austerità e priva i cittadini del proprio diritto all’autodeterminazione. La disciplina di bilancio deve trasmettere un senso di sicurezza, attraverso meccanismi sostenibili e non soggetti a continue negoziazioni tra gli Stati membri e al loro interno. La continua trattativa non fa che minare ulteriormente la solidarietà europea, incentivando un modello di governance fondato sugli equilibri di potere e una gerarchia basata sulla ricchezza, e portando al tempo stesso le democrazie nazionali in rotta di collisione l’una con l’altra, divise tra chi sente di pagare portando il peso delle altre e quante, invece, si sentono governate dalle prime.
Il paradosso è che il tentativo di proteggere la sovranità nazionale ed evitare i trasferimenti fiscali ha generato un sistema di governance meno efficace, più invadente e meno rispettoso della sovranità degli Stati di ogni altro modello federale esistente, e al tempo stesso più oneroso per i contribuenti.
RISTABILIRE LA LEGITTIMITÀ: PIÙ POTERE AGLI EUROPEI
Una autentica Unione economica e monetaria richiede di un diverso modello di governance, che si basi sui seguenti elementi: a) un’attuazione equilibrata del Patto di stabilità e crescita, che riconcili la responsabilità fiscale con la crescita e l’occupazione, salvaguardando gli investimenti e i servizi pubblici e, allo stesso tempo, perseguendo la riduzione del deficit e del debito; b) un coordinamento più forte e più equilibrato delle politiche economiche al livello di Uem e politiche europee nuove e potenziate; c) un’unione bancaria completa, una Banca centrale europea attiva nella promozione della stabilità finanziaria e una effettiva regolamentazione dei mercati, che incentivi gli investimenti a lungo termine e scoraggi la speculazione; d) le politiche economiche devono essere accompagnate da un robusto sistema di politiche sociali responsabili, che divengano obiettivi vincolanti e rispondano agli impegni presi per il progresso e la prosperità. Questa è la ragione per cui deve essere elaborato un nuovo patto sociale che divenga una garanzia per tutti gli europei. L’autonomia dei partner sociali e il loro ruolo devono essere salvaguardati e rafforzati, favorendo l’emergere di un dialogo sociale europeo; e) un bilancio dell’Unione adeguato, fondato su risorse proprie, per promuovere la crescita e la competitività, per affrontare gli squilibri ciclici e quelli strutturali e sostenere la coesione sociale e territoriale; f) una capacità di emettere eurobond, per dare fondamenta più solide alla solidarietà finanziaria e facilitare il riscatto del debito.
Questo modello di governance richiede una migliore e più chiara divisione delle competenze e delle risorse tra l’Unione e gli Stati membri, oltre a una maggiore legittimità democratica e responsabilità a entrambi i livelli. Non deve fondarsi sul metodo intergovernativo, ma sulle istituzioni europee e sul «metodo comunitario», con una Commissione europea forte da un lato, che agisca come un vero e proprio governo, e una piena codecisione tra il Consiglio e il Parlamento europeo dall’altro. Il bilancio dell’Ue e dell’Uem deve venire da risorse proprie chiaramente legate alla ricchezza generata all’interno dell’Unione e alle specifiche funzioni regolatrici connesse alle competenze dell’Unione stessa. Gli Stati membri devono mantenere la responsabilità dell’attuazione delle linee-guida di politica economica co-decise a Bruxelles e dei bilanci nazionali all’interno dei limiti del quadro fiscale europeo.
Condividere la sovranità su una base democratica è l’unico modo per ripristinarla e dare potere ai cittadini. Il Parlamento europeo e i Parlamenti nazionali dovranno essere le forze motrici di questo processo e dovranno cooperare strettamente, esercitando al tempo stesso le rispettive prerogative sulla base del principio che la legittimità e il controllo democratico devono essere assicurati al livello in cui le decisioni vengono prese e attuate.
Il completamento di un’autentica Unione economica e monetaria richiede una revisione dei Trattati. Noi chiediamo la convocazione di una Convenzione nel corso della prossima legislatura, che possa costituire l’avvio di una nuova fase deliberativa sul futuro dell’Europa. Un simile obiettivo deve essere preparato facendo un pronto e pieno ricorso agli strumenti previsti dai Trattati esistenti (dalla cooperazione rafforzata all’articolo 136 del Tfue, alla clausola di flessibilità) e con un ampio dibattito pubblico che coinvolga la società civile, le parti sociali, i partiti politici, il Parlamento europeo e i Parlamenti nazionali. Le fondazioni di ispirazione progressista promuoveranno tale dibattito, fornendo il proprio contributo e le proprie proposte per una vera Unione economica e monetaria in un’Unione democratica.
RIACCENDERE L’AMBIZIONE: RIDARE SPERANZA
Politiche europee migliori e più forti non sono possibili senza una vera politica europea. Un’unione fiscale ed economica, infatti, richiede un’unione politica. Deve emergere una sfera pubblica davvero europea, che valorizzi il ruolo della società civile. Questa unità dei cittadini d’Europa dovrà rispettare pienamente e utilizzare al meglio i valori del pluralismo culturale e della diversità nazionale, portando il dibattito e il processo decisionale dell’Unione lungo assi politico-ideologici transnazionali, invece che lungo le tradizionali divisioni nazionali.
Le elezioni legislative nazionali devono essere concepite come parte integrante del processo politico europeo. A loro volta, le elezioni europee non devono essere più considerate come test di metà mandato per i partiti nazionali nei 28 Paesi membri, bensì come il momento in cui il cittadino europeo sceglie la direzione per l’Europa, offrendo un mandato democratico al Parlamento e al governo europeo.
Il Pse ha già deciso di indicare, prima delle elezioni, il proprio candidato «di punta» per il ruolo di Presidente della Commissione. Invitiamo tutti i partiti europei a fare lo stesso, conformandosi alla risoluzione approvata a larga maggioranza dal Parlamento europeo. La nomina di tali candidati deve essere collegata alla presentazione agli elettori di programmi basati su politiche europee alternative, sottoscritti dai partiti nazionali e dai loro candidati al Parlamento europeo.
La politicizzazione della Commissione e l’europeizzazione delle elezioni del Parlamento europeo e dei Parlamenti nazionali sono tappe cruciali verso una Unione politica, ma non sono sufficienti. È necessario promuovere e rafforzare la partecipazione diretta dei cittadini al processo decisionale europeo. L’Iniziativa cittadina europea deve diventare uno strumento ordinario per coinvolgere la società civile e i partiti politici in campagne su base transnazionale. Gli scioperi e le lotte sociali devono essere condotti a livello europeo, controbilanciando con il ruolo dei cittadini e dei lavoratori il crescente peso delle lobby e degli interessi costituiti nelle decisioni dell’Unione. I gruppi socialisti e democratici al Parlamento europeo e nei Parlamenti nazionali devono promuovere una stretta cooperazione sia con il Pse che con i partiti nazionali.
I giovani devono essere la forza portante del processo di costruzione di una vera società europea. Quindi, iniziative fondate su pari e qualificanti opportunità, come la Garanzia europea per i giovani o il programma Erasmus devono essere visti come un investimento nel futuro collettivo dell’Unione. I progressisti devono collaborare per promuovere un dialogo transnazionale e programmi di scambio, che favorirebbero la circolazione orizzontale delle buone pratiche e delle esperienze nazionali, rafforzando lo spirito europeo e la famiglia progressista. È un modo per recuperare il senso della militanza, arricchendola e conferendo una dimensione paneuropea all’attivismo politico. Ciò si potrà realizzare attraverso l’istituzione di un Erasmus progressista militante che, grazie allo sforzo collettivo dei partiti europei, potrà dare la possibilità di effettuare stage e scambi di attivisti tra le organizzazioni nazionali.
L’economia globale richiede una democrazia sovranazionale. Una Unione politica è la condizione per poter dare all’Europa un modello di governance efficace e legittimo, che promuova stabilità, crescita e solidarietà. Una Unione democratica è indispensabile per dare agli europei una voce e la possibilità di incidere sul mondo in cui vivono. L’impegno di «un nuovo Rinascimento per l’Europa» è proposta credibile su come realizzare questo sogno ambizioso.

l’Unità 11.2,13
L’europeismo è oggi la sfida decisiva dei progressisti
La dichiarazione di Torino apre una speranza, ma non mancano le resistenze tra le forze socialiste
di Paolo Soldini

A TORINO I LEADER DEL CENTROSINISTRA DI TANTI PAESI EUROPEI SI SONO RIUNITI PER RILANCIARE L’INIZIATIVA SULL’INTEGRAZIONE DELL’UNIONE. A Bruxelles i capi di Stato e di governo hanno licenziato un bilancio che per i prossimi sette anni mortifica le prospettive della ripresa e dello sviluppo dell’economia europea. La coincidenza temporale tra i due avvenimenti riflette una sostanza politica sulla quale è il caso di fare qualche riflessione.
Per dirla in modo un po’ retorico: lo schieramento socialista e democratico ha alzato la bandiera dell’Europa proprio mentre il fronte dei governi dei Ventisette, in maggioranza conservatori, la faceva cadere, forse senza neppure accorgersene.
Fuor di metafora, è il momento di chiedersi da che parte stiano, oggi, le ragioni della costruzione europea sul crinale sinistra-destra (che esiste eccome, checché se ne dica). Se si guarda alla cronaca degli ultimi giorni, di ragioni, non c’è dubbio, se ne vedono più sulla sinistra che sulla destra. Ma detto così è, forse, troppo semplice. Anche chi pensa che l’europeismo per la cultura della sinistra democratica sia un fatto naturale, storicamente determinato, non può chiudere gli occhi sulle contraddizioni e le debolezze che per un tempo molto lungo hanno contraddistinto le posizioni dello schieramento progressista sul cammino verso l’integrazione europea. E che in larga parte esistono e resistono.
Guardiamo alle vicende degli ultimi mesi, quelli della Grande Crisi del debito. Non c’è dubbio che i partiti di sinistra e di centrosinistra del continente abbiano avuto grossi problemi a tenere insieme la fede nel progresso dell’integrazione europea e la difesa delle caratteristiche «socialiste» della loro visione del mondo: il welfare, l’intervento pubblico nell’economia, la promozione degli investimenti e del lavoro. Di fronte al pensiero unico economico che si è via via imposto cavalcando l’influenza dei Paesi più grandi, più ricchi e con le finanze pubbliche più in ordine ma anche gli orientamenti delle istituzioni Ue, diversi partiti progressisti hanno ripiegato nelle trincee che proteggono (o dovrebbero proteggere) le conquiste sociali che nei diversi Paesi sono il loro patrimonio.
Nella strategia contro la crisi molta parte dello schieramento di sinistra ha giocato in difesa. Non ha saputo opporre un «suo» pensiero a quello ultraliberista e monetarista che dominava (e domina ancora). Non ha esercitato egemonia, non ha contrapposto una «sua» contro-agenda all’agenda scritta a Berlino, a Francoforte o a Bruxelles. Se non addirittura a Londra, la cui influenza nonostante che la Gran Bretagna sia fuori dall’euro si è mostrata sfacciata nel pasticciaccio combinato nel Consiglio europeo della scorsa settimana intorno al bilancio. La destra proponeva un modello e lo armava di strumenti come il Fiscal compact, la sinistra un po’ si adeguava e un po’ recalcitrava. Come la Spd tedesca, in perenne difficoltà nell’atteggiamento da assumere sugli esborsi tedeschi ai fondi di solidarietà. O come i socialisti francesi, con la loro lunga tradizione che solo ora Hollande pare voler superare, a chiudersi dentro i propri confini con il rifiuto a cedere all’Europa porzioni di sovranità.
C’è un paradosso in questa mancanza di egemonia. C’è, per lo meno, agli occhi di chi considera patrimonio della sinistra democratica proprio quelli che tutti i cittadini europei, anche quelli orientati a destra, ritengono siano i connotati ideali degli Stati europei e dell’Europa come comunità, quelli che fanno questo continente diverso, per esempio, dagli Stati Uniti d’America: il welfare, l’impronta sociale che deve avere l’economia di mercato, il ruolo della funzione pubblica e altri, simili, valori molto «europei». Che questi valori siano ben più radicati a sinistra che a destra è un fatto intuibile, ma ha anche solide controprove storiche. Il federalismo europeo di Altiero Spinelli nacque nel seno di una cultura di sinistra, nel momento in cui rompeva con la tragica deriva del comunismo nello stesso modo in cui lo facevano le grandi socialdemocrazie europee. Quel federalismo si opponeva al funzionalismo di chi, come ad esempio Jean Monnet, pensava a una costruzione europea «tecnica», da far crescere settore per settore e politicamente «neutrale». L’Europa di Spinelli, e più tardi di Jacques Delors, non era affatto «neutrale»: presupponeva il governo dell’economia, la regolazione della finanza, la costruzione e la difesa delle protezioni sociali, la promozione degli investimenti pubblici. L’eroina del liberismo europeo, Margaret Thatcher, lo riconobbe, quel carattere politico dell’Europa, e lo combatté aspramente. Con gli stessi argomenti che usano oggi non solo Cameron, ma anche Angela Merkel (la quale comunque in patria è assai più «socialista» che verso l’esterno) e altri leader europei.
Non è bene farsi troppe illusioni, ma quel che si è visto a Torino e quel che si legge nella dichiarazione che lì è stata diffusa, indica almeno un’inversione di tendenza. La sinistra democratica si riappropria di un ruolo che le appartiene e che avrebbe dovuto essere stato sempre il suo. In due Paesi importanti che vanno al voto, l’Italia e la Germania, «l’Europa siamo noi» può essere per i progressisti più che uno slogan.

l’Unità 11.2,13
Bersani in Lombardia: «Solo noi contro la destra»
Il leader Pd oggi nella regione decisiva: la sfida è tra la nostra coalizione e la destra
Appello a non disperdere i voti sia per le regionali che per il Senato
«Dobbiamo mettercela tutta perché stavolta possiamo vincere davvero e sconfiggere la destra»
di Maria Zegarelli

Il centrosinistra va alla sfida finale per conquistare i voti che gli consentano di avere la maggioranza sia alla Camera che al Senato. Bersani oggi sarà in Lombardia. Solo noi, dice, possiamo fermare la destra, il confronto vero è tra il centrosinistra e Berlusconi-Maroni. Il leader Pd non ha apprezzato i nuovi attacchi di Monti e ripete: guai a chi tocca la mia coalizione. Renzi a Novara: noi vogliamo vincere, dall’altra parte puntano solo a non farci governare.

«Quello che dovevo dire l’ho detto: la mia coalizione è questa e non permetto a nessuno di toccarla». Ieri Pier Luigi Bersani è rimasto a Piacenza, in vista del tour di oggi nella Regione dove si gioca tutto, la Lombardia e dove intende rilanciare il suo appello a non disperdere voti e a lavorare sodo perché «la vittoria è ad un passo e possiamo farcela». Ma non ha gradito l’ultima uscita di Mario Monti che gli ha dato dell’«infantile» per aver definito una «vittoria di Pirro» quella dell’accordo Ue siglato dal premier uscente. Né gli sono piaciuti gli attacchi, ormai quotidiani, a Sel e Stefano Fassina che sarebbero a detta del premierun ostacolo a qualunque possibile appoggio al Pd.
Come è probabile che sia Monti sia Casini che Fini non abbiano gradito l’ultimo spot che campeggia sul sito dei democratici dal titolo eloquente, «la solita minestra», con gli ingredienti tutti centristi: prezzemolo Casini, olio di ricino marcato Fini, cipolla da lacrimazione pesante Monti e via dicendo. Dunque clima freddo tra il centro e il centrosinistra, con l’affondo di Monti contro il voto disgiunto in Lombardia che montiani di peso sono pronti ad attuare per far vincere Ambrosoli e le repliche dirette e indirette dal Nazareno e via twitter con un Vendola supercinguettante.
Bersani ai suoi ha anticipato che domani tornerà alla carica durante gli incontri programmati in Lombardia ( nel pomeriggio incontrerà lavoratori e aziende dell’Hi techa Vimnercate, poi in serata si sposterà a Bergamo e a Merate) per invitare ingroiani e montiani a votare Ambrosoli alla Regione e centrosinistra al Senato perché «gli unici che possono battere Berlusconi siamo noi». I sondaggi che arrivano, ormai riservati, spingono ad essere ottimisti, «ma ha spiegato ai dirigenti locali e ai leader che in queste ore stanno battendo palmo a palmo l’Italia ce la dobbiamo mettere tutta. Dobbiamo lavorare dando il massimo perché stavolta possiamo vincere davvero». In Lombardia il voto disgiunto è una scelta che vede impegnati pubblicamente esponenti centristi e ingroiani, con lo scopo comune di sconfiggere Maroni (Albertini è considerato fuori gioco sin da ora) alla Regione e Berlusconi al Senato. Qui si eleggono 49 senatori, quelli in grado di fare la differenza, vincere anche al Pirellone vuol dire non lasciare il Nord, la parte più produttiva del Paese, in mano alla destra.
I PD BROTHERS IN SICILIA
Altra partita complessa ma fondamentale è quella della Sicilia, 24 senatori in palio, dove Bersani ha ottenuto la presenza del sindaco di Firenze, Matteo Renzi, per un comizio a due a Palermo il 21 febbraio che punterà a convincere i moderati ancora indecisi su Monti o Bersani. Iniziativa alla quale parteciperà anche il governatore Rosario Crocetta, che porterà il suo saluto e la cui lista, invece, ha l’obiettivo di portare un pacchetto di voti che potrebbe risultare decisivo.
«Noi vogliamo vincere le elezioni, dall'altro lato vogliono pareggiare o farci perdere ha detto ieri Renzi a Novara, platea di duemila persone e invito a Bersani a «rappresentare tutti» e «portare avanti le istanze di tutti», anche di quelli che alle primarie non lo hanno votato. Quella fascia più moderata, appunto, che oggi potrebbe essere attratta da Monti nelle cui liste è finito Pietro Ichino, il giuslavorista che aveva lavorato al programma di Renzi. E proprio con Ichino e le sue riforme sul lavoro, polemizza Cesare Damiano, rispondendo anche agli attacchi del professore a Sel, Fassina e Cgil che sul tema avrebbero posizioni conservatrici: «Monti si scordi che il Pd posso sottoscrivere sui temi del lavoro le teorie di Pietro Ichino, già contestate dal suo compagno di partito Alberto Bombassei. Noi non intendiamo dare continuità alla linea contenuta nelle riforme del ministro Fornero sul tema delle pensioni e del mercato del lavoro: sono stati commessi degli errori e noi intendiamo correggerli, a partire dai lavoratori rimasti senza reddito a seguito della riforma previdenziale».
Rivedere quella riforma, senza gettarla totalmente nel tritacarte, è anche l’intenzione ribadita dal segretario: su esodati, pensioni e mercato del lavoro il Pd intende mettere mano per colmare le lacune del testo Fornero e per prevedere misure che incentivino davvero le imprese ad assumere e regolarizzare gradualmente soprattutto i giovani. Temi su cui si giocheranno gli ultimi giorni di campagna elettorale.

La Stampa 11.2.13
Bersani
Diecimila piazze ma l’ultimo venerdì mega-offensiva tv
“Perché Monti ci attacca?”. Il focus è sulla Lombardia
di Carlo Bertini

È l’ultima cosa che potrebbe mai ammettere pubblicamente ora, a quindici giorni dal voto e con tutto il partito mobilitato in centinaia, se non migliaia (diecimila solo il prossimo week end), di iniziative dai nomi più astrusi, «merende democratiche», «aperitivo col candidato», «porta a porta tra le vie di... ». Ma in cuor suo, Pierluigi Bersani vive questa maratona di passione collettiva (la Bindi batte palmo a palmo la Calabria, Letta le Marche e la Campania, D’Alema fa comizi pure nei paesini e tutti gli altri non sono da meno) sentendosi già la vittoria in tasca. Convinto che il voto ad ogni tornata segnali una tendenza, una fase insomma, così è stato nel 2008, così fu nel 2006 e a ritroso. E dunque «se il Pd vince, vuol dire che vince il centrosinistra». Certo le ultime uscite di Monti qualche punto interrogativo lo sollevano, e lo stato maggiore del Pd si sta chiedendo se il professore abbia cambiato idea o se intenda confermare la propria disponibilità a collaborare per il «dopo». Perché, è questo uno dei ragionamenti venati di irritazione che risuonano tra Bersani e i suoi consiglieri, «davanti a questo spartiacque storico, davanti a questi rischi di derive populiste, con l’aria che tira tra Berlusconi e Grillo, Monti se la prende con Fassina e mette un veto su Vendola? Non sta in piedi».
E dunque se qualcosa non torna in queste continue bordate contro il Pd del professore, «a maggior ragione è necessaria una vittoria netta». E anche se il vertice Pd è confortato dai sondaggisti che danno il buon vantaggio alla Camera di 6-7 punti destinato a reggere, provare a strappare una maggioranza sia pur risicata al Senato è importante: per questo Bersani insieme a Renzi si spenderà nelle regioni più ballerine, chiudendo la sua campagna giovedì 21 a piazza Plebiscito a Napoli, andando il giorno prima a Palermo insieme al «rottamatore» e il 17 a Milano sul palco in piazza Duomo con Vendola e Ambrosoli. Per la chiusura a Roma ancora non ha deciso, sembra accantonata l’idea troppo rischiosa di sfidare Grillo in una piazza non lontana da San Giovanni: forse farà un saluto al comizio di chiusura della campagna di Zingaretti; di sicuro il venerdì della vigilia sarà impegnato in un vortice di comparsate televisive, da Uno Mattina alla Gruber, fino all’appello finale sulla Rai in prima serata.
Il leader Pd poi si è premurato di far arrivare in questi giorni a undici milioni di capifamiglia in Piemonte, Lombardia, Veneto, Campania, Sicilia, una sua lettera - con il suo faccione e lo slogan L’Italia Giusta, che comincia così: «Cara elettrice, caro elettore, il nostro Paese sta vivendo il suo momento più difficile e incerto. Ad ogni angolo si vedono sofferenza, disagio, sfiducia. Ma tutto questo non riesce a nascondere le grandi energie e la straordinaria capacità di riscossa che l’Italia ha sempre mostrato e che bisogna oggi risvegliare... Mi rivolgo a Lei senza raccontare favole o promettere miracoli, ma con la certezza che, assieme, sapremo darci tempi migliori».
Ma al di là di tutto - della rimonta di Berlusconi, della concorrenza a sinistra di Ingroia, dell’incognita Grillo - per Bersani e i suoi l’esito sarà questo: «A meno che non succeda chissà cosa, alla Camera dovremmo finire sopra e al Senato, o con la maggioranza o leggermente al di sotto».
Un sentimento di tranquillità dunque che accomuna sia Bersani che Renzi: convinti entrambi che il bacino di indecisi sia ormai sceso al livello più o meno fisiologico, che Berlusconi abbia già drenato quel che poteva, e che non siano da attendersi ulteriori smottamenti. E che sia possibile vincere in Sicilia e magari con un po’ di fortuna strappare anche la Lombardia, per l’effetto combinato dei due fattori Grillo e Giannino.
Ma a dare una sferzata di ottimismo al leader Pd hanno contribuito gli ultimi incontri avuti in questi giorni con esponenti del mondo economico, industriale, delle organizzazioni sociali, che a detta degli uomini di Bersani, lo hanno trattato già come premier in pectore. «Tutti a chiedergli dei prossimi provvedimenti sulla cultura, sul lavoro, sugli investimenti, sull’efficienza energetica. Nessuno chiede di Vendola e perciò quello che dice Monti sembra ancora più lontano dalla posta in gioco tra populismo e governabilità. Certo sono interessati al futuro di Monti, ma per capire cosa farà in chiave di collaborazione con Bersani... »
Il quale si gioca il rush finale dando in ogni sede lo stesso messaggio racchiuso nella lettera agli italiani, ripetuto pure nel milione di mail inviate al popolo delle primarie per mobilitarlo: «Siamo oggi la forza fondamentale che porta sulle spalle l’alternativa alla destra e che può prendersi la responsabilità di portare il cambiamento nel governo del Paese». Un messaggio che si sposa con quello che verrà lanciato nell’ultima tornata di manifesti elettorali per un appello in forma garbata al voto utile: «Il tuo voto sarà importante e decisivo per far vincere l’Italia giusta».

Repubblica 11.2.13
Bersani: il mio piano per rifondare la scuola
“Più risorse e più insegnanti così il Pd cambierà la scuola”
di Pierluigi Bersani

EDILIZIA SCOLASTICA
In Italia il 64% degli edifici non rispetta le norme sulla sicurezza. Serve un piano per la messa in sicurezza di ospedali e scuole
DISPERSIONE SCOLASTICA
Il tasso di abbandono scolastico nel nostro Paese è al 18%, con punte del 25-30 nel Sud e nelle periferie delle grandi città
FORMAZIONE INSEGNANTI
Sono 96mila gli aspiranti docenti per gli 11.542 posti messi a concorso dal ministero. Bisogna eliminare la precarietà

CARO Direttore, in questi giorni si parla molto di fisco ma troppo poco di lavoro, sanità, scuola. Se saremo chiamati a governare, restituire all’istruzione le risorse, la stabilità e la fiducia sarà il cuore del programma.
INSIEME, naturalmente, con occupazione e moralità. Dico questo nella consapevolezza che le ricette economiche non bastano a uscire dalla crisi: per fermare il declino è necessario rilanciare la formazione. In Europa, il nostro è uno dei Paesi con meno laureati, dove si legge di meno e si abbandona più precocemente la scuola. Questo incide nello sviluppo economico, sociale e culturale. Se dunque c'è un settore in favore del quale è giusto che altri ambiti della spesa statale rinuncino a qualcosa, quello è la formazione dei giovani. Dovremo investire in istruzione e diritto allo studio larga parte delle risorse rese disponibili dalla lotta all’evasione fiscale e alla corruzione, per riportare gradualmente l’investimento al livello medio dell’Ocse.
Se toccherà a noi governare, ci impegniamo ad affrontare tre emergenze.
Anzitutto la sicurezza delle scuole. Il 64 per cento degli edifici non rispetta le norme. Ricordiamo le tragedie di Rivoli e di San Giuliano. Non possiamo permettere il ripetersi di simili disastri mentre i nostri figli e nipoti sono seduti in un banco. Per questo, come
proponiamo da tempo, lanceremo un programma per la messa in sicurezza di ospedali e scuole, finanziato con la riduzione della spesa per armamenti e con fondi strutturali europei. Occorre liberare risorse allentando il patto di stabilità interno per gli enti locali che investono per dotarsi di ambienti di apprendimento innovativi ed ecosostenibili. Nello stesso tempo, vogliamo approvare una nostra proposta, scritta con l’associazione
Libera, perché i cittadini possano destinare l'8 x mille dello Stato all’edilizia scolastica.
In secondo luogo, è insieme con gli insegnanti che vogliamo cambiare la scuola per combattere la dispersione scolastica. Per dimezzarla entro il 2020, come chiede l'Europa, servono interventi mirati. Il tasso di abbandono scolastico in Italia è al 18 per cento, con punte del 25-30 per cento nel Sud e nelle periferie delle grandi città. La media europea è del 13 per cento e andrà ridotta al 10 per il 2020. Come sanno gli insegnanti, sono soprattutto i pre-adolescenti e gli adolescenti che lasciano la scuola,
già alle medie o nei primi anni delle superiori, in particolare negli istituti tecnici e professionali. Se ne vanno non perché siano meno bravi o intelligenti, ma perché in quell’età una scelta immatura di indirizzo scolastico può essere fatale.
Molti non ce la fanno perché l’ambiente sociale e familiare di provenienza è disagiato, con povertà materiali e culturali che rendono difficile l’inserimento scolastico. In questo modo la scuola rischia di essere lo specchio di una società ingiusta, invece di un “ascensore sociale”. Il giusto riconoscimento del merito deve essere accompagnato dalla valorizzazione delle opportunità che ciascuno ha di accedere alla formazione, altrimenti diventa solo la certificazione di un privilegio di nascita o di censo.
Se toccherà a noi, ci impegneremo per affrontare questa situazione: formazione offerta ai docenti in servizio per innovare la didattica, nuove tecnologie, scuole aperte tutto il giorno, rilancio della formazione tecnica e professionale, necessaria anche per sostenere il Made in Italy e contrastare la disoccupazione giovanile.
Infine serve un nuovo sistema di formazione e reclutamento degli insegnanti. Dagli anni Ottanta, sono state approvate continue riforme, con una stratificazione di diritti, spesso lesi, e sistemi ingarbugliati di punteggio che hanno alimentato sfruttamento e frustrazione professionale, precarietà di vita degli insegnanti e precarietà dell’apprendere. Migliaia di studenti ogni anno salutano maestri e professori a giugno nella certezza di non ritrovarli a settembre. Quello che serve è un nuovo piano pluriennale di esaurimento delle graduatorie per eliminare la precarietà dalla scuola e offrire la continuità didattica agli studenti. Bisogna definire un sistema che leghi la formazione iniziale al reclutamento e sappia selezionare i migliori laureati per accedere alla professione di insegnante attraverso numeri programmati per dare una dotazione di personale stabile a ogni istituto.
In conclusione, vorrei che la scuola accompagnasse il cambiamento che ho in mente per l’Italia. Molti ricordano con affetto e riconoscenza almeno un insegnante che gli ha trasmesso uno spunto per mettersi in cammino col passo giusto. Nessun’altra figura incide così in profondità nel patrimonio morale di una nazione.
Deve tenerlo presente chi coltiva ambizioni per il futuro italiano, perché non si riforma la scuola se non si ha un grande progetto di ricostruzione civica del Paese.
Non smarrirò questa consapevolezza se toccherà ai democratici e ai progressisti governare l’Italia.

Corriere 11.2.13
Il Pd infastidito dalle condizioni di Monti
di Maria Teresa Meli

ROMA — Il «no» di Monti al voto disgiunto in Lombardia era largamente atteso nel Partito democratico. Nessuno si faceva illusioni a proposito. Così come tutti davano per scontata l'irritazione del premier di fronte al pressing del centrosinistra per convincere una fetta di moderati ad abbandonare Gabriele Albertini per indicare Umberto Ambrosoli: «Questa è tutta un'operazione messa in atto dal Pd per tentare di dividerci», si è lamentato il Professore con i suoi.
A Largo del Nazareno l'impennata di Monti era ampiamente preventivata, anche perché i dirigenti del Partito democratico sono convinti che «il vero rischio» del fronte moderato sia quello di «spappolarsi» all'approdo in Parlamento. L'eventualità che ognuno vada per conto suo viene data per altamente probabile. Come la prospettiva che basti poco per agganciare qualche montiano e avere la maggioranza a prescindere da Mario Monti e Pier Ferdinando Casini. Quindi per i dirigenti del Pd è normale che il premier reagisca così di fronte alla prospettiva di una divisione del suo schieramento addirittura prima delle elezioni.
Non è questo che ha infastidito i vertici del Partito democratico. A esasperare è stato l'atteggiamento — ritenuto «arrogante» — con cui il presidente del Consiglio ha dettato le sue condizioni per un appoggio al Pd nella legislatura che verrà. Dovrà proseguire la riforma del lavoro avviata dal governo Monti, è stata la richiesta, fatta in termini perentori. Di qui le reazioni dure di due esponenti del Pd che tra loro hanno poco a che spartire: il lettiano Francesco Boccia e l'ex Cgil Cesare Damiano. Dice il primo: «Monti è ossessionato dalla nostra coalizione». E per questa ragione il premier conduce «attacchi scomposti» contro il Pd, che però «avvantaggiano solo il Pdl, la Lega e il Movimento 5 Stelle». E Damiano rincara: «Monti si scordi che noi possiamo sottoscrivere sui temi del lavoro le proposte di Ichino a cui abbiamo già detto di no. Il presidente del Consiglio non può porre condizioni».
E quest'ultima considerazione dell'ex ministro del governo Prodi è sottoscritta da tutti (o quasi) nel Partito democratico. Perché, come spiega il responsabile economico Stefano Fassina ad alcuni colleghi parlamentari del Pd, «gli elettori decideranno quale sarà la piattaforma, e gli altri seguiranno». Ossia: sarà il partito che otterrà più voti e vincerà le elezioni — ovvero il Pd — a stabilire il ruolino di marcia, anche nel caso in cui, per le imperfezioni del Porcellum, al Senato non dovesse esserci una maggioranza ben definita.
Sprezzante anche Anna Finocchiaro: «Monti fa solo demagogia a buon mercato». La risposta di Nichi Vendola, come era ovvio, visto che il bersaglio del premier è l'alleanza tra Partito democratico e Sel, è ancora più netta. Il presidente della Regione Puglia si rivolge direttamente a Monti e gli dice irridente: «È vero, sei un grande esperto del lavoro. Con te abbiamo mezzo milione di disoccupati».
Non bisogna però dimenticare che si tratta sempre di schermaglie da campagna elettorale. È vero che Bersani non ne può più di quelle che definisce le «docce scozzesi» che il premier riserva al Pd. Come ne ha fin sopra i capelli della «storia che l'Europa vuole Monti e non noi»: «Non è vero», ripete fino alla nausea il segretario del Pd. Che poi ricorda al presidente del Consiglio un particolare: «Noi veniamo bersagliati per l'alleanza con Vendola, ma chissà perché poi lui non si fa vedere in giro con Fini e Casini che non sono esattamente espressione del nuovo e della società civile».
Però la verità è che, «al di là di tutte le schermaglie elettorali», in un modo o nell'altro, nel Parlamento o nel governo, «l'unica opzione possibile è un'alleanza centrosinistra-Monti».

Repubblica 11.2.13
Quel voto di scambio che uccide la democrazia
di Roberto saviano

UNA parte consistente di Italia vota politici che poi disprezza. Una fetta consistente di voti viene direttamente controllata con un meccanismo scientifico e illegale. Il più importante e probabilmente il più difficile da analizzare, quello con cui i partiti evitano sistematicamente di fare i conti: il voto di scambio. A noi sembra di vivere in attesa di un perenne punto di svolta e in questo clima di incertezza siamo portati a pensare che il disagio creato dalla crisi economica, dalla corruzione politica, dalla cattiva gestione delle istituzioni, da venti anni di presenza di Berlusconi non potrà continuare ancora a lungo. Gli osservatori internazionali continuano ad augurarsi che gli italiani prenderanno finalmente coscienza di ciò che gli è accaduto, di tutto quello che hanno vissuto. E prenderanno le dovute misure. Che ne trarranno le giuste conseguenze. Che non cadranno negli stessi errori, nelle stesse semplificazioni. Ci si convince sempre di più di essere a un passo dal cambiamento perché le persone ovunque — in privato e negli spazi pubblici: dai bus ai treni, dai tram ai bar, dai ristoranti a chi viene intervistato in strada — appaiono stanche, disgustate. Vorrebbero fare piazza pulita, ma si trovano al cospetto di un sistema che ha tutti gli anticorpi per rimanere immutabile. Per restare sempre uguale a se stesso. Per autoconservarsi.
ESISTONO due tipi di voto di scambio. Un voto di scambio criminale ed un voto di scambio che definirei «acceleratore di diritti». In un paese dai meccanismi istituzionali compromessi, la politica diventa una sorta di «acceleratore di diritti», un modo — a volte l’unico — per ottenere ciò che altrimenti sarebbe difficile, se non impossibile raggiungere. Per intenderci: ci si rivolge alla politica per chiedere, talvolta elemosinare favori. Per pietire ciò che bisognerebbe avere per diritto. Mentre altrove nel mondo si vota un politico piuttosto che il suo avversario per una visione, un progetto, perché si condividono i suoi orientamenti politici, perché si crede al suo piano di innovazione o conservazione, qui da noi — e questo è evidente soprattutto sul piano locale — non è così. In un contesto come il nostro, programmi e dibattiti, spesso servono a molto poco servono alle elite, alle avanguardie, ai militanti. A vincere, qui da noi, è piuttosto il voto utile a se stessi.
IL DISPREZZO PER LA POLITICA
In breve, una grossa fetta di Italia che nei sondaggi e nelle interviste si esprime contro vecchi e nuovi rappresentanti politici, spesso vota persone che disprezza, perché unici demiurghi tra loro e il diritto, tra loro e un favore. Li disprezza, ma alla fine li vota. Questo meccanismo falsa completamente la consultazione elettorale. Perché a causa della sfiducia nella politica, pur di ottenere almeno le briciole di un banchetto che si immagina lauto e al quale non si è invitati, si è pronti a dare il proprio voto a chi promette qualcosa o a chi ha già fatto a sé o alla propria famiglia un favore. I vecchi potentati politici anche se screditati oggi possono contare su centinaia di assunzioni pubbliche o private fatte grazie alla loro mediazione e da questi lavoratori avranno sempre un flusso di voti di scambio garantito. In questo senso è fondamentale votare politici di navigata presenza perché sono garanzia che quel diritto o quel favore promesso verrà dato. In questa campagna elettorale, come nelle scorse, non si è parlato davvero di come «funziona» il voto di scambio, di come l’Italia ne sia completamente permeata. La legge recentemente approvata in materia di contrasto alla corruzione, sul punto, è assolutamente insufficiente. L’elettore, promettendo il proprio voto, ha la sensazione di ricavare almeno qualcosa: cinquanta euro, cento euro, un cellulare. Poca roba, pochissima: in realtà perde tutto il resto. La politica dovrebbe garantire ben altro. La capacità effettiva di ripensare un territorio, non certo l’apertura di un circolo per anziani o un posto auto. In cambio di una sola cosa, il politico che voti ti toglie ciò che sarebbe tuo diritto avere.
Ma è ormai difficile far passare questo messaggio, anche tra gli elettori più giovani. Sembra tutto molto semplice, ma è difficile far comprendere a chi si sente depauperato e privato di ogni cosa che il modo migliore per recuperare brandelli di diritti non è svendere il proprio voto per un favore. È tanto più difficile perché spessissimo ciò che l’elettore si trova costretto a chiedere come fosse un favore, sarebbe invece un suo diritto, il cui adempimento non è impedito, ma è fortemente (e a volte artificiosamente) rallentato dal mal funzionamento delle Istituzioni. Qui non si sta parlando di persone che truffano o di comportamenti sleali, ma di chi ha difficoltà a vedersi riconosciuta una pensione di invalidità necessaria a sopravvivere, o l’assegnazione di un alloggio popolare piuttosto che un posto in ospedale cui avrebbe diritto. Il disincanto si impossessa delle vittime delle lentezze burocratiche, che presto comprendono che per velocizzare il riconoscimento di un diritto sacrosanto devono ricorrere al padrino politico, cui sottostare poi per un tempo lunghissimo, a volte per generazioni, come accadeva con i vecchi capi democristiani in Campania e nel Sud in generale. Lo stesso accade talvolta per l’ottenimento di una licenza commerciale o per poter ottenere i premessi necessari alla apertura di un cantiere. Diritti riconosciuti dalla legge il cui esercizio, da parte del cittadino, necessita di una previa mediazione politica. E la politica di questo si è nutrita. Di questo ricatto. Ribadisco: non sto parlando di chi non merita, di chi non ha i requisiti, di chi sta forzando il meccanismo legale per ottenere un vantaggio, ma di chi avrebbe un diritto e non è messo in condizione di goderne.
Questo muro di gomma ostacola qualunque volontà di rinnovamento, poiché a giovarne nell’urna sarà sempre e soltanto il vecchio politico e la vecchia politica, non il nuovo. Il vecchio che ha rapporti. Per comprendere i meccanismi di voto di scambio, la Campania è una regione fondamentale, insieme alla Sicilia e alla Calabria. Da sempre, dai tempi delle leggendarie campagne elettorali di Achille Lauro, che dava la scarpa sinistra prima del voto e quella destra dopo. Ma nel resto d’Italia non si può dire che le cose vadano diversamente. Insomma, il meccanismo è rodato, perfettamente rodato e si interrompe solo quando il proprio voto viene percepito come prezioso, come importante per il cambiamento, tanto che non te la senti di svenderlo anche per ottenere ciò che per diritto ti sarebbe dovuto. E ancora una volta, questa campagna elettorale, in pochissimi ambiti si sta declinando sulle idee, quanto piuttosto su un generico rinnovamento a cui il Paese non crede. Più spesso si risponde con rabbia: tutti a casa, siete tutti uguali. L’allarme consistente sul voto di scambio in queste ore è in Lombardia.
A SPESE DEGLI ELETTORI
Ma su chi accede alla politica distrattamente, fa leva il politico di vecchio corso, pronto a riceverti nella sua segreteria e a mantenere la promessa fatta a carica ottenuta. Il politico che non dimentica perché ha un apparato che vive a spese degli elettori, un apparato che è un orologio svizzero: unica cosa perfettamente funzionante in una democrazia claudicante. Ecco perché è sbagliato sottovalutare la capacità berlusconiana non di convincere, ma di riattivare e di rendere nuovamente legittima questa capacità clientelare. Berlusconi non va in tv convinto di poter di nuovo persuadere, ma ci va con la volontà di rinfrescare la memoria a quanti hanno dimenticato la sua capacità di ricatto. Ci va per procacciarsi i numeri sufficienti a garantire, ancora una volta, la totale ingovernabilità del Paese. Ci va perché sa che ingovernabilità significa poter di nuovo contrattare. Quindi ecco le solite promesse: elargirà pensioni, toglierà tasse e, se anche non ci riuscisse, chiuderà un occhio, strizzandolo, a chi non ne può più. Berlusconi va a ribadire che gli altri non promettono nulla di buono. A lui non serve convincere di essere la persona giusta. A lui basta convincere i telespettatori che gli altri sono l’eterno vecchio e lui l’eterno nuovo. Nel momento in cui, quindi, non esiste un’idea di voto che cambi il paese, riparte il meccanismo della clientela. Dall’altra parte, la sensazione è che si preferisca campare di rendita. I «buoni» votano a sinistra. E su questi buoni si sta facendo troppo affidamento. Della pazienza di questi buoni si sta forse abusando. Se, intercettando un diffuso malcontento, Berlusconi promette la restituzione dell’Imu e un condono tombale, dall’altra parte non si fanno i conti con una tassazione ai limiti della sopportazione. Da un lato menzogne, dall’altro nessuna speranza, silenzio. E i sondaggi rispecchiano questa situazione. Rispecchiano quella quantità abnorme di delusi che solo all’ultimo momento deciderà per chi votare e deciderà l’esito. E su molti delusi il voto di scambio inciderà negli ultimi giorni.
Ogni partito in queste elezioni, come nelle precedenti, ci ha tenuto a conservare i suoi rapporti clientelari. Ecco perché gli amministratori locali sono così importanti: sono loro quelli che possono distribuire immediatamente lavoro. È nel sottobosco che si decidono le partite vere, che si fanno largo i politici disinvolti, quelli che risolvono i problemi spinosi, permettendo a chi siede in Parlamento di evitare di sporcarsi. E qui si arriva al voto di scambio mafioso che segue però logiche diverse. Le organizzazioni, nel corso degli anni, hanno cambiato profondamente il meccanismo dello scambio elettorale. Il voto mafioso degli anni ’70 e ’80 era in chiave manifestamente anticomunista, tendeva a considerare il Pci come un rischio per l’attenzione che dava al contrasto alle mafie sul piano locale, ma soprattutto perché toglieva voti al partito di riferimento, che è a lungo stato la Dc. Lo scopo era cercare di convogliare la maggior parte dei voti sulla Democrazia cristiana, voti che il partito avrebbe ottenuto ugualmente — è importante sottolinearlo — ma il ruolo delle organizzazioni era fondamentale per il voto individuale. Diventavano dei mediatori imprescindibili. Carmine Alfieri e Pasquale Galasso, boss della Nuova Famiglia, raccontano di come negli anni ‘90 non c’era politico che non andasse da loro a chiedere sostegno perché quel determinato candidato potesse ottenere una quantità enorme di voti. La camorra anticipava i soldi della costosa campagna elettorale per manifesti, per acquistare elettori, soldi che il partito al candidato non dava. In cambio i clan sarebbero stato ripagati in appalti.
MISTER 100 MILA VOTI
La storia di Alfredo Vito «Mister centomila voti», impiegato doroteo dell’Enel che prende negli anni ‘90 più voti di ministri come Cirino Pomicino e Scotti, applica una teoria che fa scuola al suo successo. «Do una mano a chi la chiede»: ecco la sintesi della logica che condiziona la campagna elettorale. I veri mattatori delle elezioni non erano — e non sono — quasi mai nomi conosciuti sul piano nazionale, ma leader indiscussi sul piano locale. Questo dà esattamente la cifra di cosa poteva accadere, della capacità che le organizzazioni avevano di poter convogliare su un determinato candidato enormi quantità di voti. E non è la legge elettorale in sé a poter ostacolare gli esiti nefasti del voto di scambio, che è frutto evidentemente di arretratezza economica e quindi culturale. La dimostrazione di questa sostanziale ininfluenza è data dal fatto che, se da un lato la selezione operata dai partiti non consente al cittadino di poter scegliere i propri rappresentanti, favorendo viceversa il «riconoscimento di un premio» per chi si è sobbarcato il gioco sporco dello scambio elettorale a livello locale, dall’altro, la scelta diretta del candidato — in un sistema che rifugge la trasparenza quasi si trattasse di indiscrezione — trasforma la competizione elettorale in una mera questione di budget, nella quale la capacità di acquisto dei voti diviene determinante.
Oggi, la maggior parte delle organizzazioni criminali sostengono anche candidati non utili ai loro affari, semplici candidati che hanno difficoltà a essere eletti. Vendono un servizio. Vai da loro, paghi e mettono a tua disposizioni un certo numero
di voti (emblematico il caso di Domenico Zambetti, che avrebbe pagato 200 mila euro per ottenere 4 mila voti alle elezioni del 2010). Questo significa che puoi anche non essere eletto le organizzazioni ti garantiscono solo un pacchetto di voti non tutto il loro impegno elettorale di cui sarebbero capaci. In alcuni casi candidano direttamente dei loro uomini in questo caso in cambio avranno accesso alle informazioni sugli appalti, avranno capacità di condizionare piani regolatori, spostare finanziamenti in settori a loro sensibili, far aprire cantieri, entrare nel circuito dei rifuti dalla raccolta alle bonifiche delle terre contaminate (da loro).
Con un pacco da cento di smartphone si ottengono 200 voti in genere. Quello della persona a cui va lo smartphone e quello di fidanzati o familiare.
Spese pagate ai supermercati per un due settimane/ un mese. Sconti sulla benzina (fatti soprattutto dalle pompe di benzina bianche). Bollette luce, gas, telefono pagate. Ricariche telefonini. Migliaia di voti saranno raccolti con uno scambio di questo tipo.
Difficilissimo da dimostrare siccome chi promette è raramente in contatto con il politico. Quindi anche se il mediatore è scoperto questi dirà che era sua iniziativa personale per meglio comparire agli occhi del politico aiutato escludendolo quindi da ogni nresponsabilità nel voto di scambio. Nel periodo delle elezioni regionali 2010, la Direzione distrettuale antimafia di Napoli ha aperto un’indagine sulla compravendita di voti. In Campania i prezzi oscillerebbero da 20 a 50 euro, 25 subito e 25 al saldo, cioè dopo il voto. In alcuni casi i voti vengono venduti a pacchetti di mille. Praticamente c’è una specie di organizzatore che promette al politico 1000 voti in cambio di 20.000 o 50.000 euro. Questa persona poi ripartisce i soldi tra le persone che vanno a votare: pensionati, giovani disoccupati. In Campania un seggio in Regione può arrivare a costare fino a 60.000 euro. In Calabria te la cavi con 15.000. Con 1000 euro in genere un capo-palazzo campano procura 50 voti. Il capo-palazzo è un personaggio non criminale che riesce a convincere le persone che solitamente non vanno a votare a votare per un tal politico. E come prova del voto dato bisogna mostrare la foto della scheda fatta col telefonino. In Puglia un voto può arrivare a valere 50 euro, lo stesso prezzo a cui può arrivare anche in Sicilia. A Gela proposto pacchetti di 500 voti a 400 euro. 400 euro per 500 voti: 80 centesimi a voto!
IL MECCANISMO PRINCIPE
E poi c’è il il meccanismo principe con cui si controllano i voti e si paga ogni singolo voto lo si ottiene con il metodo della «scheda ballerina». L’elettore che vuole vendere il proprio voto va dal personaggio che paga i voti riceve la scheda elettorale già compilata (regolare fatta uscire dal seggio) se la mette in tasca poi va al seggio, presenta il proprio documento di riconoscimento e riceve la scheda regolare. In cabina sostituisce la scheda data già compilata con la scheda che ha ricevuto al seggio, che si mette in tasca. Esce dalla cabina elettorale e vota al seggio la scheda precompilata. Poi va via. Torna dà la scheda non votata e riceve i soldi. La scheda non votata e consegnata viene compilata, votata, e data all’elettore successivo, che la prende e torna con una pulita. E avrà il suo obolo. 50 euro, 100 euro, 150 o un cellulare. O una piccola assunzione se è fortunato. Così si controlla il voto. Nessuno ha parlato di questo meccanismo, la scheda ballerina non ha interessato il dibattito elettorale. Eppure è più determinante di una tassa, più incisiva di una riforma promessa, più necessaria di una manovra economica.
In questa campagna elettorale, come in tutte le precedenti, non si è fatto alcun riferimento al voto di scambio sia come «acceleratore di diritti» sia quello criminale. Avrebbero dovuto esserci spot continui, articoli diffusi, che sensibilizzassero gli elettori a non vendere il proprio voto, a non cedere alle promesse di scambio. Si sarebbero dovuti sensibilizzare gli elettori a non decidere gli ultimi giorni di voto in cambio di qualche favore. Ma se non lo si è fatto significa che in gioco ci sono interessi enormi che andrebbero analizzati caso per caso. Nel 2010 provocando da queste queste stesse pagine invocammo l’OSCE (l’organizzazione per la sicurezza in Europa, ndr) a controllo del voto regionale mostrando come il voto di scambio fosse tritolo sotto la democrazia. L’OSCE non recepì l’appello come una provocazione ma come un serio allarme e rispose di essere disponibile ad intervenire e controllare il voto. Ma doveva essere invitata a farlo dal governo. Cosa che non fu fatta.
Con queste premesse, chi può dire cosa accadrà tra qualche giorno? Il monitoraggio sarà come sempre blando, affidato a singole persone o a gruppi isolati che denunceranno irregolarità. Ma dove nessuno vorrà farsi garante di trasparenza, chi verrà a dirci come si saranno svolte le elezioni? E ad oggi nessuno schieramento ha affrontato il tema del voto di scambio. Terribile nemico o fenomenale alleato?

Corriere 11.2.13
Croce celtica al gazebo. Democratici contro Storace

«Cosa centra una bandiera con la croce celtica con la campagna elettorale per la presidenza della Regione Lazio?», domanda Giulia Bongiorno (Udc e Fli), candidata alla presidenza della Regione Lazio: non è l'unica ad attaccare il candidato pdl Francesco Storace per la foto circolata ieri via web di un gazebo de La Destra a Frascati (Roma) con un banchetto coperto da una bandiera con la croce celtica. Il Pd attacca fin dal mattino: il segretario romano Miccoli chiede che «Storace si dissoci», il candidato alla Regione Jean Leonard Touadi parla di «episodi che fanno crescere l'intolleranza». Storace replica via Twitter: «Il Pd fa cagnara per una bandiera nel posto sbagliato. Ma non vedo le loro bandiere tricolori a lutto nel Giorno del Ricordo. Sciacalli». Ancora la Bongiorno: «Storace dovrebbe prendere subito le distanze da chi ha esposto un simbolo dell'estrema destra. Sempre che non voglia giustificarsi parlando di una bandiera a sua insaputa».

Il programma del Pd “Alla prova dei fatti”  è pubblicato a pagina 6 del Corsera nelle edicole oggi
 
Corriere 11.2.13
Bugie elettorali con le gambe corte
di Giovanni Sartori

Che brutte elezioni! Sino a fine mese la campagna elettorale diventerà rituale (in televisione) e i sondaggi di opinione dovranno essere clandestini. Poco male. Per mio conto ho già visto e sentito abbastanza. Per dirla alla Renzi, in partenza il «rottamando» sembrava che dovesse essere un Berlusconi che usciva di scena con il sorriso a tutti i denti e docile come non mai. Invece no. È lestamente tornato in scena più in forma di sempre, e in campagna elettorale è sicuramente stato il più bravo di tutti.
Il secondo vincitore, si direbbe, è Grillo. Riempie le piazze, azzecca spesso le critiche che piacciono anche per la loro volgarità, e risulta dai sondaggi che spedirà in Parlamento parecchie brave persone che però sono in grandissima parte digiune di tutto quel che occorre sapere per legiferare e governare. Monti, invece, non ha avuto sufficiente presa elettorale. Combattere una elezione cominciando dal discettare su «destra» e «sinistra» dimostra che quel mestiere non gli è congeniale. Quanto a Bersani, è persona solida che però non brilla mai; e che per di più (o per di peggio) si è voluto incastrare in una alleanza di ferro con Nichi Vendola, morbido nel dire ma fanatico nel pensare; il che sposta il Pd a sinistra e ne spaventa la componente e l'elettorato riformista.
Su queste premesse, e mettendo in conto una legge elettorale che è davvero un pasticcio (oltre che una «porcata»), è probabile e anche sperabile che avremo un Parlamento breve, nato morto. Tutti, a parole, hanno detto che il Porcellum andava cambiato; ma sotto sotto sia Berlusconi che Bersani erano tentati dall'enorme (abnorme) premio di maggioranza di quella legge, e quindi hanno manovrato, sotto sotto, per tenersela. Se così, male; male certamente per uno di loro, ma anche probabilmente male per tutti.
Intanto è interessante capire come è che il Cavaliere batte qualsiasi rivale nell'arte della «bugia continua», tale perché ogni volta viene creduta. Il suo genio è stato di inventare un alibi perfetto: la favola che il nostro capo del governo è impotente, che la Costituzione non gli consente di fare nulla. Questo alibi è falso; ma come fa il grosso pubblico a saperlo? Eppure nelle cose che interessano lui e i suoi interessi il nostro Cavaliere non si è mai lasciato fermare da nessuno. Ha persino imposto alla sua maggioranza in Parlamento di votare che lui riteneva in buona fede che Rubi «rubacuori» fosse egiziana, e anche nipote di Mubarak! Impotente o strapotente? La verità è che se l'alibi di Berlusconi è fasullo, è anche vero, ad onor del vero, che il grosso dei nostri costituzionalisti propone da tempo piccoli e facili rimedi atti a rafforzare i poteri del capo del governo per quel tanto che sarebbe utile e anche necessario. Ma il Cavaliere non è interessato. Per dare credibilità al suo alibi ci racconta che è tutta la Costituzione che va rifatta. Proprio no. Anche io l'ho scritto e spiegato non so quante volte. Ma il Cavaliere non legge, e il suo pubblico nemmeno. Per di più, il Cavaliere si è anche munito, per il futuro, di un secondo alibi: è l'Europa che gli lega le mani, è la Germania che lo vuole fare fuori.
Ma se il suo potere è così impotente, la domanda è: perché ci tiene tanto? Lui lo sa. Credo di saperlo anch'io. Ma è tempo che anche gli elettori lo scoprano. Sennò, peggio anche per loro.


Repubblica 11.2.13
Pdl assente ai Patti Lateranensi ultimo strappo con la Chiesa da Bertone-Bagnasco stop a Silvio
Ma Ruini e i conservatori: centrodestra male minore
di Claudio Tito

L’ULTIMO strappo tra i vertici della Chiesa italiana e il Pdl si è consumato proprio in queste ore. Con uno sgarbo che Segreteria di Stato e presidenza della Cei considerano poco digeribile.

IL SEGRETARIO del Pdl, Angelino Alfano, infatti, dopo aver disertato il concerto con il Papa, non prenderà parte nemmeno al tradizionale ricevimento che celebra l’anniversario dei Patti Lateranensi. Ci sarà Mario Monti, in qualità di presidente del consiglio, e il leader Udc, Pier Ferdinando Casini. Pierluigi Bersani, invece, presente al concerto con Benedetto XVI ha fatto sapere per tempo di non poter partecipare all’appuntamento.
A meno di un cambio di programma dell’ultima ora da parte di Alfano (che comunque verrebbe considerato tardivo dal punto di vista dei rapporti “politici”), domani pomeriggio nella sede dell’Ambasciata italiana presso la Santa Sede non ci sarà quindi nessuno dei “big” del Pdl. Non essendo previsto neanche Silvio Berlusconi. Non mancherà l’”ambasciatore” del Cavaliere, Gianni Letta, ma si tratta comunque di una lesione nei contatti tra Chiesa e centrodestra mai così evidente. Anzi, la “fotografia” nei saloni di Palazzo Borromeo dei cosiddetti “colloqui in piedi” senza una “presenza berlusconiana” non ha di fatto precedenti dal 1994. Del resto l’allontanamento delle attuali gerarchie ecclesiastiche dai rappresentanti pidiellini negli ultimi due anni è stato progressivo.
Eppure la “foto” di domani è anche il frutto di un ultimo scontro che si sta consumando all’interno della Conferenza episcopale italiana e con la Segreteria di Stato. Una battaglia che in questo caso vede alleati Tarcisio Bertone, numero uno della Curia, il presidente della Cei Angelo Bagnasco e l’Appartamento papale. Sull’altro fronte la “destra curiale” che sul versante della Cei si basa sull’asse cosrtuito da Ruini con il Patriarca di Venezia Moraglia e all’interno del Vaticano sulla convergenza tra il prefetto della Congregazione per il Clero Mauro Piacenza e monsignor Balestrero.
L’ultimo affondo della “corrente” ruiniana, infatti, c’è stato in occasione delle formazione delle liste elettorali. Secondo Don Camillo, il Cavaliere resta il «male minore» e lo strumento per conseguire un «risultato utile», al punto di benedire nel Lazio il patto tra Francesco Storace e Eugenia Roccella. «Berlusconi — va ripetendo da settimane — i voti ancora ce li ha». L’ipotesi di un’intesa tra il centrosinistra e la lista di Monti viene considerata «inappropriata». Non a caso, proprio i “bracci armati” di Ruini — a cominciare da Monsignor Fisichella — avevano chiesto a gennaio ai rappresentanti di Scelta Civica e al leader centrista Casini di mettersi alla guida di un nuovo centrodestra cercando di replicare una sorta di “Operazione Sturzo”. Con l’obiettivo, appunto, di rendere impossibile la successiva alleanza con lo schieramento di Bersani in virtù dei «valori non negoziabili».
Una linea contestata dall’asse Bertone-Bagnasco. Entrambi, infatti, considerano la presenza del Cavaliere nella corsa elettorale un ostacolo insormontabile sia a causa delle vicende Noemi e Ruby, sia per l’immagine internazionale dell’ex premier. Dopo le tensioni piuttosto vistose dei mesi scorsi, quindi, tra Segreteria di Stato e Cei è stata siglata una sorta di «tregua operosa». Resa plasticamente visibile alla presentazione alcune settimane fa del libro “La porta stretta” che raccoglie le prolusioni del presidente della Cei. Un patto che, secondo gli uomini più vicini ai vertici episcopali e della Curia, si basa anche sui nuovi orientamenti dei credenti praticanti. L’attivismo “ruiniano”, infatti, non sembra aver preso piede tra i cattolici di base se si considera il recente sondaggio pubblicato dal mensile Jesus: Pd e Scelta Civica sono in cima alle loro preferenze e il centrodestra scivola sempre più dietro. Anzi, tra quelli che un tempo votavano per il Cavaliere emerge la tentazione-Grillo. Per di più i «valori non negoziabili» non vengono considerati un criterio fondamentale per le scelte politiche. La disposizione verso il superamento del “rapporto esclusivo” con il centrodestra sta diventando quindi il perno di quella ricucitura di rapporti tra Bertone, Bagnasco e l’Appartamento papale. Basti pensare all’appello lanciato pochi giorni fa proprio dal capo della Cei che tutti hanno interpretato come un ulteriore stop al Cavaliere: «Gli italiani hanno bisogno della verità delle cose, senza sconti, senza tragedie ma anche senza illusioni. La gente non si fa più abbindolare da niente e da nessuno».
Ma questa scelta viene appunto criticata dalla componente “ruiniana” e dai conservatori. Al punto di tentare un accordo con l’ala più conservatrice della Chiesa. Non è un caso che di recente sia partita un’offensiva diplomatica con il Cardinale Piacenza (che aspirava alla successione di Bertone in Segreteria di Stato), con Moraglia (Patriarca di Venezia), e con l’arcivescovo di Ferrara Luigi Negri (vicino a Cl) e monsignor Balestrero (Sottosegretario per i Rapporti con gli Stati). A loro è offerta una sponda per creare un nuovo rapporto di forze. Si tratta di uno scontro che dentro la Curia richiama alla memoria il vecchio duello tra Papa Montini, Paolo VI, e l’arcivescovo Roberto Ronca, esponente della destra romana e della corrente più tradizionalista di Coetus Internationalis Patrum. Ma soprattutto ha aperto con un certo anticipo la scacchiera per il futuro Conclave.
Sta di fatto che in questa fase Bertone e Bagnasco non intendono accettare l’idea di una nuova concessione a Berlusconi ne giustificare alcune sue gaffe con il pricipio della “contestualizzazione”. I vertici della Cei, prima di optare per l’addio definitivo, avevano chiesto proprio ad Alfano — ottenendole — garanzie sulla necessità che Berlusconi non sarebbe ricandidato come guida. Assicurazioni che poi sono state smentite. Le differenze tra il Segretario di Stato e il presidente della Cei riguarderanno semmai la gestione delle scelte per il dopo voto. Ma al momento c’è un anello che li unisce: guardare al dopo-Berlusconi.

Repubblica 11.2.13
La rinascita in tv di Re Lanterna
di Franco Cordero

Dal Pd s’alza un allarme: i sondatori d’opinione dicono che Re Lanterna sia cresciuto d’otto punti da quando batte televisioni, radio, sale riservate; e l’esclamante chiede energiche risposte (è luminare d’alta politica: gli competono Esteri o Interno nel futuro governo, salvo che lo mandi in fumo un destino talvolta cinico e baro). In casi simili è raccomandabile l’esame di coscienza. Quel grido viene dall’inventore d’una storica manovra: diciotto anni fa l’attuale riemergente era sconfitto; e avversari troppo astuti, credendo d’usarlo, se l’associano in una commissione bicamerale intesa a rifondare lo Stato su modelli offerti dal Venerabile Licio Gelli. Gli hanno garantito le aziende, «patrimonio italiano», ossia l’arnese con cui frolla i cervelli. Ovvio che stia al gioco: succhia ogni possibile profitto; rovescia il tavolo, sbanca due volte le urne; e governando da padrone otto anni e mezzo, s’ingrassa nel gigantesco conflitto d’interessi. Manca poco alla bancarotta quando finalmente se ne va: in Europa era figura ridicola; tra gl’intimi persino Gianni Letta, ciambellano bisbigliante, gli consiglia d’eclissarsi; circolano immagini d’un torvo malumore. Uscita squallida, adeguata a chi spacciava trash, ma non è ancora il momento d’intonargli il “De profundis”. Lo sappiamo organicamente indenne dalle crisi d’anima: è venuto al mondo senza gli organi del pensiero e vita morale; caccia, azzanna, divora, digerisce, mai sfiorato dal dubbio perché gli alligatori non ne hanno, e finché durino gli spiriti animali, nelle sue partite è invincibile. Guai a chi gliele lascia giocare. Non ha eguali tra pirati in colletto bianco. Le mosse fraudolente gli riescono naturali come la ruota del pavone o i mascheramenti del predatore. Nella catena alimentare è vantaggio determinante non pensare, grazie all’automatismo dei riflessi: i suoi non sono più quelli d’una volta ma resta temibile; e l’insensibilità alla vergogna fa da scudo (lo dicono dialoghi tra le ospiti delle serate
osées).
Smisuratamente ricco, compra o affitta famigli, sgherri, spioni, indovini, poeti, musicanti, cappellani, baiadere.
Insomma, non era politicamente morto. Nelle due Camere ha poteri d’interdizione: uomini e donne del sì gli ubbidiscono perinde ac cadavera, atterriti dalla prospettiva che sfumino seggio, pensione, indennità; e il nuovo governo, chiamato a quadrare i conti sudando sangue, se l’Italia non vuol imboccare la via della Grecia, dipende da una maggioranza anomala, nella quale confluiscono gli oppositori. Sembrava stordito dal colpo ma solo chi vive nella luna può crederlo malinconicamente rinunciatario: la corte dei miracoli gli soffia sulle midolla; rimasti soli, ricadono nel niente da cui venivano; e ha l’impero da difendere, i famosi venti miliardi (tanti ne vantava; quanti siano adesso, lo sa lui, arroccato in misteriosi labirinti societari). Conoscendolo, converrebbe cogliere l’occasione ossia sbandare la stramba compagnia, appena varate le misure urgenti: invece passano i mesi, tredici, nell’illusione d’un «governo del presidente » che assesti la cosa pubblica sul filo armonioso delle «larghe intese» (era il leitmotiv delle prediche dal Colle); bella favola, se l’Olonese fosse un mite filantropo. Non lo è: ha tesori miliardari da difendere con unghie e denti (erano scesi in campo per non finire sotto i ponti o in galera, racconta l’Alter Ego); e dispone d’armi formidabili. Nessuno poteva pensare che stesse penitente, nell’angolo. Spenta l’eco dell’autunno 2011, issa la bandiera nera ventilando voti negativi: l’unica risposta seria è che il governo accetti la sfida dimettendosi; al diavolo le sciagurate «larghe intese».
Con due fischi mette in riga l’armata, dove ferveva qualche innocua velleità d’autonomia: il pirata non le tollera; paga bene, impicca i disubbidienti e dovendo rinforzare la ciurma, ne trova quanti vuole. In campagna elettorale spende l’arte d’imbonitore nei limiti imposti dalla natura (ricordiamolo, gli manca l’organo pensante), quindi scorre la solita pantomima: scarica le sventure economiche sui pianeti nefasti come se in otto anni su dieci non avesse governato lui, negando che vi fosse crisi; s’afferma vittima d’un complotto; salta alla gola del successore, le cui scelte condivideva fingendosi statista pensoso del bene pubblico; muove guerra all’Europa, in particolare alla Germania; sotterra l’euro; garantisce affari grassi; annuncia condono tombale e rimborso dell’imposta sulla casa, nel giro d’un mese, solo che gl’italiani lo rimandino a Palazzo Chigi. Quest’ultima mossa definisce l’uomo: vuol corrompere gli elettori usando i loro soldi, nota l’attuale premier; vero, ma l’aspetto elegante sta nella frode; possono sognarseli. Già visto e udito: aveva firmato un contratto con gl’italiani davanti alle telecamere; fa il suo mestiere d’istrione; l’effetto scenico cala perché gli anni pesano. Non è discorso politico e gli rende un servizio chi ne parla come se tale fosse, esortando gli avversari a discutere sobriamente. Qui sta l’inganno. In chiave lugubre- farsesca, con radici nella commedia italiana (vedi Alberto Sordi, Ugo Tognazzi, varie figure del mondo deforme felliniano), rivediamo la parte magnificamente impersonata da Jack Nicholson contro Batman, un sinistro Joker. Le schede diranno quanti gli hanno creduto: speriamo pochi ma in trent’anni d’ipnosi televisiva s’è allevata un’audience disintegrando pensiero e sentimenti; il malaffare fortunato ha dell’appeal anche ai piani sociali alti; lo slogan «arricchitevi » tocca corde sensibili; ed è notorio che siano tanti gli acquisibili mediante offerta fraudolenta d’un profitto illecito. E non dimentichiamo la Schadenfreude, gusto del male. L’apparente bagalone è negromante. Avversari deboli lo consideravano partner d’un normale gioco politico. Percepiscono i pericoli? Lascino qualche tempo sospesa la dialettica destra-sinistra: Arcore delenda est; l’effetto sarebbe tossico se B. riuscisse a infiltrarsi nel futuro assetto, ad esempio negoziando i voti quando le Camere eleggano il presidente della Repubblica.

Repubblica 11.2.13
“Chi sostiene Ingroia a Milano e in Sicilia rifletta e scelga Pd”
Dalla Chiesa: realtà, non ricatto
di Umberto Rosso

ROMA — E’ un “tesserato anomalo” del Pd, come lui stesso si definisce, che si tiene le mani libere. Ma Nando Dalla Chiesa, soddisfatto perché al Pirellone una parte dei montiani appoggerà Ambrosoli, lancia un invito al “voto disgiunto” per il Senato agli elettori di Ingroia, anche solo in Lombardia e Sicilia: alla Camera scelgano pure arancione, ma a Palazzo Madama con Bersani.
«Non sono un militante organico del Pd, ho fatto anche parte della Rete, ovvero un movimento del 2 per cento che comunque fu decisivo nell’abrogazione dell’immunità parlamentare».
Dunque, professor Dalla Chiesa?
«Dunque, faccio fatica a parlare di voto utile, a chiedere il segno sul partito più forte, perché può avere un sapore un po’ ricattatorio. Un coperchio messo su per impedire che sulla scena appaiano nuove soggettività politiche. Ma stavolta il clima è diverso, soprattutto in alcune situazioni. Gli elettori che hanno mente di votare Ingroia dovrebbero riflettere bene».
Dove?
«Il risultato per il Senato è in bilico in Sicilia e Lombardia. E nella mia regione la sfida è doppia, perché si vota anche per il presidente al Pirellone».
Monti scomunica il “voto disgiunto” per Ambrosoli, parla di suicidio politico.
«Ero uno dei tre saggi delle primarie di Ambrosoli. E so, per averlo costruito direttamente, che il suo “patto civico” non è un recinto del centrosinistra, è veramente aperto, copre un’area vasta di persone che non è detto votino Pd alle politiche ma per la Regione puntano su Ambrosoli. E’ questa la strada per battere il vecchio, ventennale asse fra Lega e Berlusconi. Il voto ad Albertini è un voto perso».
Torniamo al Senato. Il rischio è che, perdendo Lombardia e Sicilia, il centrosinistra non abbia la maggioranza parlamentare.
«In queste due regioni il pericolo è reale, concreto. Non è un ricatto agli elettori, è lo stato dell’arte. Ora, che in Parlamento sbarchi una pattuglia di arancioni è positivo, in particolare nella lotta alla mafia. Per alcuni candidati sono pronto a mettere la mano sul fuoco. Magari non per tutti, ma questo vale per qualsiasi partito. Però è un ragionamento che funziona per la Camera».
Al Senato gli arancioni rischiano di restare sotto l’8 per cento e quindi di disperdere i voti a vantaggio di fatto del Cavaliere.
«Non ne faccio nemmeno una questione di sondaggi, ma politica. In Lombardia e Sicilia siamo al testa a testa col Pdl, ogni singolo voto è decisivo. Vogliamo far rivincere Berlusconi? E poi, una maggioranza di centrosinistra salda sarebbe nell’interesse stesso di Rivoluzione civile».
Ne è sicuro?
«Alla Camera i deputati di Ingroia troverebbero molto più spazio e ascolto per le loro battaglie con un governo di centrosinistra che con uno di centrodestra. Lo dico sulla base della mia personale esperienza parlamentare».
Anche se Ingroia denuncia l’inciucio del Pd con Monti?
«Con numeri incerti, è chiaro che ci sarà l’alleanza. Però Monti, con tutti i suoi limiti, non è mica la stessa cosa di Berlusconi».

Repubblica 11.2.13
L’opera dell’ex direttore dell’Economist in una serata promossa dall’Espresso
Il Belpaese in coma secondo Emmott il film va a teatro contro la censura
di Paolo G. Brera

Su il sipario e addio censura: bocciato dal “MAXXI” per non turbare un’inedita
par condicio museale, il film verità sui vent’anni bui del Belpaese scritto dall’ex direttore dell’Economist Bill Emmott e girato da Annalisa Piras sarà comunque in sala dopodomani a Roma. “Girlfriend in a coma”, la ragazza «all’ultima spiaggia» come dice l’ad. della Fiat Sergio Marchionne nel trailer, è un tributo d’amore e di passione giornalistica per un Paese affossato dagli anni del berlusconismo, sventrato dalla mafia e dalla corruzione e svilito dalla tv a tutta chiappa. «Un pugno nello stomaco», racconta chi lo ha visto in anteprima, e un auspicio a voltare pagina rianimando la paziente prima che sia troppo tardi.
Il tema, a quanto pare, è risultato indigesto per il museo d’arte contemporanea diretto da Giovanna Melandri: dopo aver concesso la sala, l’ex ministro ulivista ne ha vietata la proiezione fino a elezioni trascorse, attirandosi migliaia di critiche per eccesso di zelo censorio. Ma l’ondata di indignazione sollevata dall’attonita protesta di Emmott e Piras ha travolto gli argini e l’Espresso, in collaborazione con Terravision Group, ha riportato il film in sala in avant premiere lo stesso giorno in cui era previsto al Maxxi: l’appuntamento è dunque per mercoledì 13 alle ore 21 al Teatro Eliseo, con ingresso libero e prenotazione obbligatoria via internet a partire da stamattina. Alla proiezione saranno presenti anche Emmott e Piras, che al termine del film parteciperanno a un dibattito con il direttore dell’Espresso, Bruno Manfellotto: «Il “no” del museo motivato dalla campagna elettorale, dalle leggi sulla par condicio e dall'inopportunità di mostrare un impietoso film-documentario sull'Italia di oggi che contiene, tra l'altro, anche una lunga intervista a Mario Monti — scrive l’Espresso presentando l’iniziativa — a molti è apparsa una censura, a noi soprattutto un gesto che sta a metà strada tra il tragico e il ridicolo. Ed è per questo che abbiamo deciso di fare ciò che il ministero dei Beni culturali e i suoi funzionari non si erano sentiti di approvare: proiettarlo, nello stesso giorno in cui l'avrebbe dovuto fare il Maxxi». Il giorno dopo, giovedì 14, si replica alle 18 al cinema Movieplex all’Aquila, con la stessa formula: evento prenotabile via internet sul sito dell’Espresso o del Centrodi Pescara e dibattito finale con l’ex direttore dell’Economist, che torna nel capoluogo abruzzese dove era stato nei giorni drammatici del terremoto. Intanto, da mercoledì sarà possibile acquistare in download il film dal sito dell’Espresso.
La “ragazza in coma” è l'Italia di Silvio Berlusconi vista come la vede un cittadino europeo, senza i filtri delle paillettese delle giarrettiere indossati per vent’anni delle tv private e pubbliche direttamente o indirettamente controllate dall’ex premier. Un viaggio in tre capitoli disegnati sullo schema della “Divina Commedia”: inferno, purgatorio e paradiso, un elettroshock che punta tutto sui germogli di cultura e innovazione che nonostante tutto continuano a spuntare al primo sole. La ragazza, forse, si salverà.

l’Unità 11.2,13
Emergenza carceri La pena non deve essere una vendetta
risponde Luigi Cancrini
psichiatra e psicoterapeuta

Lo ha messo nero su bianco perfino il Corsera: secondo Napolitano lo Stato coi detenuti viola la Costituzione, come se non fossero loro, a parte quelli caduti in pasto alla mala giustizia, che hanno infranto palesemente le regole del civil vivere che la nostra «mamma» ci ha imposto.
ENZO BERNASCONI

Napolitano da San Vittore rilancia l’emergenza carceri. Un ascoltatore propone a Gian Antonio Stella che presenta la rassegna stampa su Raitre, il problema dei reati minori, citando il caso del senegalese che, avendo più volte tentato di vendere dei cd pirata, dovrà restare in carcere per 12 anni. «Non ci si potrebbe occupare di lui fuori da un carcere?», chiede il lettore e risponde Stella di no, che i reati vanno puniti citando, per dare più forza alle sue argomentazioni, il caso del bidello che aveva dei precedenti per pedofilia e che è stato riassunto in una scuola. Il buonismo sui carcerati fa male, dice Stella, dimenticando che gli autori di reati sessuali contro i minori sono persone malate che non possono essere sbattute in carcere finché morte non li separi da una malattia che in carcere, dove nessuno si occupa seriamente di loro, peggiora e che fuori potrebbe essere curata se avessimo a disposizione leggi più civili. Ma riproponendo, soprattutto, quel luogo comune sulla detenzione come unica pena possibile che è l’ostacolo maggiore al superamento dell’emergenza carcere. In Italia e altrove, la democrazia farà un grande passo in avanti solo quando si capirà che ad avere ragione era Cesare Beccaria. La pena deve mirare alla riabilitazione, non alla vendetta.

Repubblica 11.2.13
Quanto è difficile valutare i docenti
Una nota ministeriale autorizza a non tener conto dei criteri “produttivi”
di Pier Aldo Rovatti

Come è noto, stanno insediandosi le commissioni nazionali che dovranno stabilire liste di idonei nei vari raggruppamenti scientifici dell’università. Da queste liste gli atenei dovranno poi pescare i futuri insegnanti. Bisogna considerare che l’imbuto è strettissimo (conformemente alle misere risorse disponibili) e che a questa prima tornata si è presentato un vero esercito di aspiranti, ciascuno dei quali dovrà essere valutato.
È evidente che le commissioni svolgeranno con molta difficoltà il loro compito, con il rischio di esplodere di fronte a un lavoro immane. La macchina, comunque, è stata avviata. Bisogna, però, anche ricordare che il tutto è stato preceduto da una sottile e generale misurazione bibliometrica: da tempo, infatti, un’Agenzia nazionale ha avuto l’incarico di classificare i “prodotti” di questa imponente massa di candidati servendosi di indici numerici che hanno permesso di stabilire una linea “mediana”, in-
somma una soglia da superare per poter essere considerati idonei. Alle spalle del lavoro delle commissioni sta insomma un processo di valutazione, supposto oggettivo, che non ha mancato di suscitare un mare di perplessità e di critiche, esplicitate anche su questo giornale.
Una notizia che mi pare sintomatica è costituita da una nota ufficiale del ministero dell’Istruzione datata 11 gennaio 2013. Il ministro, evidentemente preoccupato dall’affollamento delle candidature e dal conseguente rischio di paralisi delle commissioni, propone espedienti dilatori per almeno alcune di esse e anticipa subito un nuovo bando per il 2014 con il dichiarato intento di invitare la folla dei candidati a distribuirsi anche sul prossimo anno. Ma la nota ministeriale dice inoltre qualcosa di decisamente più importante: rassicura le commissioni che esse saranno sovrane e avranno piena autonomia e completa responsabilità riguardo alle loro scelte: in breve, comunica ai commissari che potranno anche non tenere conto degli indici di valutazione predisposti dall’Anvur (cioè dall’agenzia sopra nominata). Se ne servano se lo credono opportuno, ma sono liberi anche di “discostarsene” e perfino di non considerarle per nulla.
Non è una notizia da poco e non riguarda solo il mondo accademico nel quale da troppi anni il reclutamento è praticamente bloccato. Si apre, infatti, una piccola ma sintomatica incrinatura nel tessuto spesso di una “cultura della valutazione” che ha radici ormai bene impiantate in un’idea di “conoscenza” di tipo produttivistico ed è intrisa da parte a parte dalla logica ormai dominante dell’“impatto”, cioè dalla quantificazione delle risposte suscitate dai prodotti della ricerca.
Che questo impatto si traduca poi nel numero di citazioni e in una scelta (opinabile) della rilevanza dei luoghi di pubblicazione (riviste di serie “A”, ecc.) e di chi ha il privilegio di legittimarli, manifesta con chiarezza dove si origini tale “cultura” e chi ha il potere di orientarla. Insomma qui, a dispetto della sbandierata oggettività o neutralità, emerge proprio quell’intreccio tra sapere e potere che si vorrebbe occultare, e di conseguenza diventa visibile che la cultura della valutazione è governata da un principio di produttività che si ingrana perfettamente con le logiche complessive del sistema neoliberale ma non ci azzecca per niente con le esigenze intellettuali di chi si avvia sulla strada della ricerca e mira all’insegnamento universitario. Per dirla con un eufemismo, c’è uno iato tra la cultura della valutazione tutta concentrata sui prodotti e quella libera cultura critica che ha caratterizzato la storia gloriosa dell’autonomia universitaria fin dalla sua nascita.
Tornando allo specifico, esiste ormai in Italia una diffusa opinione critica in proposito: ci sono siti molto frequentati (come Roars) che raccolgono utilmente materiali e documenti critici, si stanno moltiplicando interventi pubblici, saggi e libri (per fare solo un esempio,
Valutare e punire di Valeria Pinto, appena uscito da Cronopio), e si ha in definitiva la sensazione che si stiano cominciando a fare seriamente i conti con una cultura che riduce ai prodotti e alla loro quantificazione un’“attività” intellettuale (di cui non siamo davvero privi) ben più ricca e fatta di esperienze che non si possono trasformare ipso facto in indici numerici.
La nota ministeriale alla quale mi sono riferito è certo solo un segnale, frutto peraltro di un’aspra battaglia (condotta dall’Associazione dei docenti di filosofia teoretica, Sifit). Ma è un segnale significativo perché rimette in circolazione parole come “autonomia” e “libertà”, che sono state troppo rapidamente evacuate dai discorsi dominanti e che è molto importante che vengano rimesse in campo e riattivate nelle pratiche, dato che poi è ispirandosi a esse che gli insegnanti universitari (e con loro tutti gli insegnanti di ogni ordine di scuola) si ostinano ancora a dare un riempimento di senso al loro mandato sociale e alla loro professionalità.

l’Unità 11.2,13
Non teista, non ateista, non antiteista
di Gianni Gennari

SU QUESTO GIORNALE SI STA RIFLETTENDO DA TEMPO ANCHE SUL RAPPORTO TRA SINISTRA E CATTOLICI OGGI. Venerdì scorso Vannino Chiti descriveva in proposito «Come cambia la sfida» e il giorno prima Michele Prospero ricordava «La lezione di Berlinguer» che consiste nel saper distinguere tra il centro e la destra. Sì, ma mi pare che il senso vero sia altro, ancora preziosissimo. Tra il 1973 la vicenda del golpe in Cile e il 1978 Enrico Berlinguer, constatando l’esperienza infelice dell’Est senza democrazia e con l’ateismo di Stato arrivò a dichiarare la sua scelta per l’Occidente libero, ma proprio nei confronti di cattolici e Chiesa ci fu altro, con il nome usato ed abusato di «compromesso storico», come accordo con il partito storico dei cattolici italiani in politica.
In quel contesto, nell’estate 1976, il vescovo di Ivrea Luigi Bettazzi scrisse una lettera al segretario del Pci, rispettosa e insieme ferma sui punti di dottrina, ma carica di accoglienza e simpatia per quel «popolo» comunista ritenuto lontano da ambedue le parti in causa, ma solo da chi o lo conosceva poco o lo voleva tale. E dopo quasi un anno di riflessione e di consultazioni Berlinguer rispose su Rinascita con una «Lettera al vescovo Bettazzi» che segnava una prospettiva del tutto nuova. Egli dichiarava la scelta per un partito e uno Stato «laico e democratico, come tale non teista, non ateista e non antiteista», superando in modo aperto l’ideologia materialista, e quindi un partito e uno Stato nei quali un cittadino di fede cattolica non si trovasse come estraneo, o utile idiota o avversario patentato. Di grande peso fu, nella vicenda, la spinta di un pensatore notoriamente cattolico, Franco Rodano, e l’azione di Antonio Tatò, segretario particolare di Berlinguer.
E non si trattò solo di una promessa: dagli statuti di quel Pci fu tolto l’obbligo di adesione all’ideologia filosofica marx-leninista comunque intesa. Seguì un momento di grande novità: personalmente potrei raccontare esperienze bellissime di ripresa di contatti, e anche di pratica religiosa, da parte di molti «compagni» allontanati, ma mai lontani veramente nel cuore, come liberati da un peso storico opprimente durato troppo a lungo. Ma i tempi non erano ancora maturi: l’ufficialità ecclesiastica non capì lo sforzo e la proposta, e fu subito un fuoco di «contraerea» diffusa, rafforzato dal fatto che la Dc di Fanfani cominciava proprio in quegli anni a manifestare i segni del suo tramonto basterà ricordare il referendum sul divorzio, voluto dalla politica e quasi imposto alla Chiesa di Paolo VI, e poi a cascata i fallimenti Dc a Roma e nelle politiche del 1976 e dintorni.
In quegli anni, 1976-1984, il successo di quel Pci fu visibile come mai prima, anche presso il popolo detto cattolico. La morte di Moro prima, e poi quella di Berlinguer misero fine a una stagione nuova, non accolta da molta parte della Chiesa ancora arroccata sul partito unico e neppure soprattutto dalla dirigenza che guidò il Pci dopo Berlinguer. Il Pci, poi Pds-Ds-Pd, si è via via segnalato, a mio giudizio, con una deriva di fondo laicista e spesso «radicaloide» che fino ad oggi ha reso difficile la prospettiva di convivenza aperta. Quella realtà, di una sinistra né atea, né teista, né antiteista non si è più realizzata, ma questa è e resta «la lezione» vera di Berlinguer, in tema, e questa mi pare ancora
l’unica via. Se il partito non è una Chiesa e la Chiesa non è un partito, tutti possono essere liberi sia nella Chiesa, tenendo fermi i principi di coscienza religiosa, che nel partito, con i suoi principi di giustizia, solidarietà, sussidiarietà e scelta della pace che aprono la via ad una autentica «laicità», non laicista e non clericale.
Oggi nessun credente dovrebbe essere costretto nel suo partito politico a subire un programma unico in aperto contrasto con la sua libera coscienza religiosa, pur sapendo che su questo altri possono pensare diversamente, e che su quei punti la libertà di coscienza per tutti, credenti o no, fa sì che democraticamente si possa anche andare a leggi non da tutti gradite come tali. Nel programma di un partito laico in questo senso non teista, non ateista, non antiteista non si avrà mai una scelta «obbligata» per un principio come tale opposto alla coscienza religiosa, e mai una scelta obbligata che offenda la coscienza non religiosa dei cittadini. Su queste materie varrà la scelta democratica, parlamentare o referendaria, che può anche portare a leggi non gradite alla coscienza cristiana, ma deve restare chiaro il diritto della Chiesa, e di ogni coscienza cristiana e cattolica, adulta quanto si vuole, ma coerente con i principi dell’etica religiosa, di opporsi legittimamente con la parola e con il voto alla loro approvazione.
È successo con la legge Fortuna del 1970 e con la 194 del 1978, confermate nel 1974 e nel 1981 anche con referendum popolari, quando molti cattolici sinceri pensarono che divorzio e aborto fossero e restassero un male, ma in coscienza insieme fedele e libera sia in Parlamento che nel referendum lo giudicarono «minore» rispetto a quanto si sarebbe verificato con la bocciatura o con l’abrogazione. Oggi la vera novità è che è chiaro a tutti, anche ufficialmente, che i credenti sono diversamente collocati nel panorama della politica attuale. E in questo contesto la vera lezione di Berlinguer può essere preziosa anche oggi.

l’Unità 11.2,13
Netanyahu «il falco» finito sotto assedio
Le elezioni israeliane hanno avuto un esito imprevisto per il premier che contava
di sbancare, portando il Paese più a destra
di Umberto De Giovannangeli

Un Paese che spiazza. Che rifiuta di essere ingabbiato in interpretazioni forzate, in stereotipi costruiti ad arte da chi non vuole capire e si accontenta di navigare in superficie. Un Paese che vive in trincea, che prova a difendersi «murandosi». Eppure, è il Paese in cui la magistratura non fa sconti ai signori della politica, che chiude in cella presidenti, primi ministri, per reati che hanno a che fare con l’etica pubblica.
Un Paese che tiene insieme ciò che in altri luoghi al mondo sembrerebbero opposti inconciliabili: i coloni oltranzisti e i giovani «indignados», gli ultraortodossi con i giovani che si battono per i diritti civili, per il matrimonio gay... Un Paese militarizzato ma non militarista, dove i destini delle forze di sinistra sono stati affidati a due donne, e il voto di 500mila elettrici indecise fino all’ultimo, ha determinato il successo del laico Lapid, il recupero dei laburisti (guidati dal’ex giornalista tv Shelly Yachimovich) e più a sinistra il raddoppio (da 3 a 6 seggi) di Meretz: la leader Zahava Gal-On ha voluto riservare le quote per le donne nelle primarie. Un Paese che sa essere impietoso con se stesso e al tempo stesso ritrovarsi unito, quando avverte di essere sotto minaccia. Una minaccia mortale. Un Paese da raccontare. In tempo reale. E ciò che fa «Israele 2013. Il falco sotto assedio» (Edizioni ETS, prefazione di Lapo Pistelli, fotografie di Nili Bassan), un instant-book politico, che da domani sarà in edicola con l’Unità in Toscana ed Emilia e successivamente nelle librerie in tutta Italia.
LA VITTORIA DIMEZZATA
Il libro racconta la storia delle ultime elezioni legislative, mettendo in scena i protagonisti dei maggiori partiti di maggioranza e minoranza, analizzando i risultati del voto tramite i commenti internazionali, raccontando come la politica incide sulla vita quotidiana attraverso le storie emblematiche di donne e uomini d’Israele che danno conto di una società complessa, ricca di fermenti e di contraddizioni. Una società viva. Un Paese che ha ribaltato anche le comode previsioni della vigilia elettorale di un 22 gennaio destinato a pesare non solo sul futuro d’Israele ma anche sul tormentato scenario mediorientale. Il voto ha incrinato l’idea di Israele in mano a «falchi» e «super falchi» della destra, nazionalista e ultraortodossa. Così non è stato. Quel voto ha detto molte cose. E la prima, la più importante, è che la società israeliana non è condannata a una deriva «sudafricana», ma resta una società aperta e plurale. Base indispensabile di un vero processo di pace con i palestinesi.
Il «falco» in questione è Benjamin Netanyahu. Il premier che voleva una investitura trionfale dal voto e invece si è trovato a gestire una «mezza vittoria» che appare come una «vittoria di Pirro». L’Israele che esce dalle urne è un Paese sospeso tra paure e speranze, tra un passato che non passa e un futuro che fa fatica a delineare aperture. Trasformare Israele in un fortino e resistere contro tutti, è parte della narrazione della destra israeliana. Una narrazione che rischia di imprigionare Israele. E con esso, l’intero Medio Oriente. Ma l’«altro Israele» quello che punta a divenire un Paese «normale», che rivendica diritti non solo per sé ma anche per i vicini palestinesi non ha smobilitato.
E, forte del risultato del 22 gennaio, è ancora lì ad «assediare il falco».

l’Unità 11.2,13
In edicola
Un instant book per capire

«Israele 2013 Il falco sotto assedio», uno sguardo sul Paese appena uscito dalle elezioni con un panorama politico non previsto dai sondaggi. Il libro, firmato da Alfredo De Girolamo, Umberto De Giovannangeli e Enrico Catassi per Ets edizioni, prefeazione di Lapo Pistelli, sarà da domani in edicola con l’Unità in Toscana ed Emilia a 2,80 euro più il prezzo del quotidiano. Il volume sarà poi disponibile in libreria.

Corriere 11.2.13
Fine delle primavere arabe In Libia torna la poligamia
Svolta nel dopo Gheddafi: la sharia detta legge
di Lorenzo Cremonesi

La sezione costituzionale della Corte Suprema di Tripoli reintroduce la poligamia in nome della legge musulmana. Un passo controverso, che spiazza i sostenitori più liberali della rivoluzione contro la dittatura di Muammar Gheddafi due anni fa e tinge ancor più di verde-Islam i nuovi regimi frutto delle «primavere arabe» in Medio Oriente. Una parte della società civile libica promette battaglia. A Tripoli la trentina di donne nominate tra i 200 parlamentari dalle prime elezioni libere il 7 luglio scorso vorrebbero reagire. A Bengasi sono in corso riunioni tra associazioni degli avvocati, studenti, ordini professionali e attivisti delle prime sommosse nel febbraio 2011. «In Libia prevale la consuetudine della famiglia mononucleare. Anche se la legge adesso lo permetterà, sono pochissimi gli uomini che vorrebbero avere più mogli. Certo quasi nessuno nelle città», commenta per telefono da Tripoli la deputata Lutfiah al Tabib, legata al fronte laico di Mahmoud Jibril.
Ma il massimo organismo giuridico libico segue con coerenza l'intenzione di applicare fedelmente la sharia (la legge islamica) già espressa a chiare lettere il 28 ottobre 2011 da Mustafa Abdel Jalil, l'allora leader del Consiglio nazionale transitorio che si era dato il compito di traghettare il Paese dal caos della guerra civile alla democrazia. Fu allora infatti proprio Jalil nel suo celebre «discorso della vittoria» ad annunciare che nella «nuova Libia» ogni uomo avrebbe avuto il diritto di sposare sino a quattro mogli nel pieno rispetto del Corano. A suo dire, era questo uno dei tanti provvedimenti mirati a cancellare per sempre il retaggio della dittatura di Gheddafi. Quest'ultimo, specie nella prima fase più socialista e «nasseriana» del suo quarantennio al potere, aveva cercato di concedere alcune migliorie allo status delle donne, introducendole massicciamente nel mondo del lavoro e appunto limitando, per quanto era possibile in una società tribale come quella libica, la poligamia: gli uomini potevano avere sino a quattro matrimoni, ma solo previo il consenso della prima moglie o l'approvazione di un giudice. In realtà, specie nelle zone desertiche e tra i villaggi ancora legati alle tradizioni, con il passare degli anni la questione era stata lasciata nelle mani dei leader religiosi locali. Ora la Corte Suprema decreta invece che la sharia torna ad essere autorità massima ed inappellabile in materia.
«È un decreto inammissibile. Tradisce lo spirito della rivoluzione. Noi donne libiche finiremo come le egiziane vessate sotto il tallone dei Fratelli Musulmani. Ci siamo riunite in tante a Bengasi appena sentito le notizie da Tripoli. Nei prossimi giorni indiremo manifestazioni di protesta. Ma vogliamo farlo in modo coordinato con il resto del Paese», commenta dal capoluogo della Cirenaica Najla Ilmangoush, militante della rivoluzione sin dai primi giorni e oggi impiegata di un'agenzia umanitaria non governativa occidentale. La preoccupazione per gli attivisti per la difesa dei diritti umani è però che i pesanti problemi che attentano alla stabilità interna del Paese mettano in ombra la battaglia contro la poligamia. «La politica passa in primo piano», osservano. Non hanno tutti i torti. A sette mesi dalle elezioni non è ancora stato definito il meccanismo di nomina per i 60 membri che dovrebbero comporre l'Assemblea costituente. Negli ultimi giorni si è deciso che ciò dovrebbe avvenire con una nuova tornata elettorale nazionale entro la fine dell'estate. Creando inevitabili ritardi al processo politico. Intanto crescono le tensioni in vista del secondo anniversario della rivoluzione tra il 15 e 17 febbraio. La polizia è in allarme. Si temono manifestazioni violente. Diverse compagnie aeree straniere, tra cui Alitalia, hanno sospeso i voli per la Libia.

Corriere 11.2.13
In Libia ritorna la poligamia, arretra l’orologio della Storia
di Giulio Sapelli

Quando finiremo di concepire la storia universale come una serie di passi che conducono gli umani verso uno stesso fine? Ossia verso società che sempre più assomigliano, nelle loro linee distintive, alle regole, alle istituzioni che le civiltà occidentali hanno costruito? Il mito dell'unificazione delle culture è fortissimo: ci rassicura; ma ci rende altresì inconsapevoli delle sfide che la diversità affolla attorno a noi. La globalizzazione ha portato al parossismo questa illusione. La diffusione del capitalismo, invece, quale che sia il modo in cui possiamo interpretarla e in cui essa avviene, non porta con sé omogeneità, ma invece eterogeneità: non unificazione, ma invece divisione morale dell'umanità.
Più il percorso storico avanza, più l'umanità culturalmente si divide perché emergono le culture un tempo latenti. Si pensi alla Libia: caduto Muammar Gheddafi, tutti pensavano che si potesse, in quei territori sedi di più antiche nazioni e di nessun Stato moderno, non solo imitare il percorso della democrazia occidentale, ma anche adottare la più sacra delle sue conquiste: la repressione degli istinti di dominazione del maschio sulla femmina a favore di quel rapporto tra i sessi che è l'amore individuale, base di un possibile rapporto egualitario. Un amore che giunse assai tardivo anche in Occidente. Ce lo insegnano Dante e il Dolce Stil Novo. Taluni pensavano di vederlo per sempre istituito anche in Libia, consacrato nelle leggi! Disillusione! La Sezione Costituzionale della Corte Suprema Libica ha reintrodotto la poligamia, ribaltando una parte della legge sul matrimonio del regime di Gheddafi che vietava a un uomo di avere più mogli, perché considerata contraria alla Sharia, la legge islamica. Gheddafi era indubbiamente un modernizzatore, un acceleratore della storia. Ora lo comprendiamo. Del resto, il leader del Consiglio nazionale transitorio libico, Mustafa Abdel Jalil, aveva annunciato che tutte le leggi di Gheddafi contrarie alla Sharia sarebbero state abolite.
In Libia una parte della società festeggia questa decisione, assunta dai capi del movimento che, appoggiato dall'Occidente, ha rovesciato il dittatore. Non era successo la stessa cosa con i Talebani in Afghanistan? Non succede la stessa cosa, in un processo molto più complesso, in Egitto? I patrimoni culturali millenari non si possano abolire con un aiuto militare. La storia universale non perdona: ha i suoi tempi.

La Stampa 11.2.13
Cina, addio a Zedong l’eroe della “diplomazia del ping pong”
di Ilaria Maria Sala

Zhuang Zedong, tre volte campione mondiale di pingpong, è morto ieri a Pechino, di tumore: aveva 73 anni. È stato una delle figure chiave in quella «diplomazia del ping-pong» che, negli Anni 70, portò al riallacciamento delle relazioni diplomatiche fra la Cina e gli Stati Uniti. È l’uomo cui si attribuisce l’iniziativa di offrire un disegno su seta dei monti Huashang al giocatore americano Glen Cowan nel 1971, quando questi si trovava ai 31esimi campionati mondiali di pingpong di Nagoya. Cowan aveva perso l’autobus che trasportava la squadra americana, e chiese un passaggio a quello con la squadra cinese, dove fu accolto da Zhuang, che gli avrebbe detto, tramite un interprete: «Per quanto il governo americano sia ostile alla Cina, il popolo americano è amico del popolo cinese. Ti offro questo pegno dell’amicizia fra i nostri due popoli».
La foto che ritrae insieme i due atleti, provenienti da due Paesi divisi dalla Guerra Fredda, fece il giro del mondo, dando inizio a un inaspettato disgelo fra Washington e Pechino.
Il gesto amichevole di Zhuang portò a un invito in Cina per i 15 membri della squadra americana, cui seguirono una visita della squadra cinese in America e una visita segreta di Henry Kissinger a Pechino. Di qui l’espressione «diplomazia del ping-pong», la visita di Richard Nixon a Pechino, nel 1972, primo presidente americano a visitare la Cina comunista, fino ad allora non riconosciuta ufficialmente, e, nel 1979, il riconoscimento.
Quando Zhuang diede il passaggio a Cowan, Mao Zedong commentò: «Zhuang non solo sa giocare bene a ping-pong, è anche forte in diplomazia». Lo conosceva bene non solo in quanto campione di pingpong contraddistinto da un modo particolare di tenere la racchetta («a penna») ma anche perché era uno degli atleti favoriti della moglie, Jiang Qing. Venne nominato ministro dello Sport ma fu proprio l’amicizia con lei a perderlo quando, dopo la morte di Mao nel 1976, con la fine della Rivoluzione Culturale, l’arresto della Banda dei Quattro e la condanna della stessa Jiang Qing, anche lui fu arrestato e per un certo periodo gli venne proibito di giocare a ping-pong. Fu autorizzato a tornare a Pechino solo nel 1985, dove finalmente potè di nuovo allenare giovani giocatori della nazionale dopo aver trascorso diversi anni ad allenare squadre di ping-pong di provincia.

Corriere 11.2.13
Quei contatti segreti dietro la svolta storica
di Ennio Caretto

All'inizio del 1971, nessuno in America avrebbe immaginato che sarebbe stato l'anno del disgelo con la Cina. L'attenzione popolare si concentrava sulla guerra del Vietnam, contro cui stava esplodendo la protesta, e sugli sbarchi degli astronauti sulla luna, tre sino ad allora. Ancora più dell'Urss, la Cina era il nemico, «la red menace» (la minaccia rossa) da tenere fuori delle Nazioni Unite. L'annuncio che il 6 aprile la squadra americana di ping pong, impegnata al mondiale di Nagoya in Giappone, era stata invitata a Pechino, colse perciò tutti di sorpresa. Ma dal 10 successivo, la visita eclissò le altre notizie di prima pagina per alcuni giorni. Quando il 14 dello stesso mese venne revocato l'embargo commerciale contro la Cina, si capì che la «diplomazia del ping pong» poteva segnare una svolta storica. Si apprese solo anni più tardi che in segreto il presidente Nixon aveva aperto alla Cina dal dicembre del 1970, con un messaggio del consigliere Kissinger al premier Zhou Enlai, di cui s'era fatto tramite il Pakistan, e che il 27 aprile del 1971, dopo il rientro in America della squadra di ping pong, aveva ricevuto una risposta positiva. Quel mese, l'America non potè che speculare sui retroscena e i motivi della svolta, attribuita dai più ai leader cinesi, e accontentarsi dei resoconti della squadra e del seguito, resoconti che posero fine alla «demonizzazione» del nemico. L'attendeva una sorpresa ancora maggiore: l'annuncio a luglio che Kissinger aveva visitato Pechino di nascosto, e che Nixon vi era stato invitato per i primi del 1972. In piena Guerra fredda, con l'America agitata da altri problemi interni, dal femminismo al voto ai diciottenni, la svolta causò profonde spaccature. A ottobre, la cacciata di Taiwan dalle Nazioni Unite e l'ingresso della Cina al suo posto fu vista come una sconfitta. Ma la Storia ha dimostrato che la svolta fu necessaria alla stabilità globale, e che triangolando con Mosca, dove si recò di lì a poco, e con Pechino, Nixon aveva visto giusto. Nixon fu costretto a dimettersi tre anni dopo a causa dello scandalo Watergate, ma il 1971 è rimasto l'anno in cui statisti molto lontani gli uni dagli altri seppero ottenere i massimi risultati dalla «diplomazia dello sport».

Corriere 11.2.13
Francia, la memoria della Repubblica
Hollande inaugura l'edificio progettato da Fuksas. «Adesso Parigi è più grande»
di Stefano Montefiori

PARIGI — La legge del 7 messidoro anno II (25 giugno 1794) stabilì che qualsiasi cittadino francese avrebbe potuto consultare gli atti dello Stato, sulla base del principio inscritto nella Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino: «La società ha il diritto di chiedere conto a ogni agente pubblico della sua amministrazione». Tutti i documenti della Repubblica francese, compreso l'originale della Dichiarazione dei diritti dell'uomo, sono ora contenuti nel grande scrigno costruito fuori Parigi dall'architetto italiano Massimiliano Fuksas.
Oggi il presidente François Hollande inaugura ufficialmente la nuova sede degli archivi nazionali a Pierrefitte, e nella sua casa parigina Fuksas spiega perché ne è così orgoglioso. «Prima di tutto, si tratta delle carte della République: il periodo dell'ancien régime resta all'hôtel de Soubise, nel Marais. Mi piace l'idea di cittadinanza, di uno Stato che si apre a coloro che un tempo erano considerati sudditi e non lo sono più».
Nell'edificio di cemento, cristallo e alluminio realizzato in periferia sono stati trasferiti — con un via vai di camion durato mesi — migliaia di documenti: dal testamento di Napoleone alle bozze, piene di correzioni, del discorso con il quale nel 1981 Valéry Giscard d'Estaing salutò i francesi lasciando l'Eliseo a François Mitterrand.
«Questo progetto ha un'importanza storica perché finalmente si esce dal périphérique», dice Fuksas, cioè dalla circonvallazione che racchiude i 20 arrondissement del comune di Parigi: il più grande cantiere francese degli ultimi anni è stato aperto lontano dal centro, «rompendo dunque con l'ipocrisia di una piccola capitale di due milioni di abitanti. Viene riconosciuto che la grande Parigi è un'area più vasta, periferie incluse, una megalopoli popolata da otto milioni di persone: scegliere Pierrefitte è una scelta politica e urbanistica». Poco lontano, a Saint-Denis, c'è la basilica dove sono sepolti i re di Francia, «che con l'abside dell'abate Suger rappresenta uno dei primi esempi al mondo dello stile gotico. La periferia fa parte della storia, è giusto tornare a produrre urbanità, riappropriarsene».
Il progetto di Grand Paris lanciato da Nicolas Sarkozy è stato frenato dalla crisi economica, ma la costruzione degli archivi nazionali a Pierrefitte è andata avanti. «Questa è una storia molto bella, purtroppo non una storia italiana — dice Fuksas —. Pierrefitte è il progetto di tre presidenti: Chirac trova i finanziamenti, Sarkozy realizza l'edificio e Hollande lo inaugura. Da noi ognuno avrebbe contestato le scelte del predecessore, qui lo Stato prosegue, al di là di chi siede all'Eliseo».
Come sono stati i rapporti con Nicolas Sarkozy? «Con lui ho lavorato bene. Mi invitava spesso a colazione all'Eliseo, era sua abitudine chiedere pareri su molti argomenti. Ho avuto la sensazione che qualche volta facesse le domande e volesse dare anche le risposte, ma insomma... Quel suo lato un po' così, i tacchi per sembrare più alto, i modi diretti, me lo rendevano simpatico. E comunque, in poco più di tre anni l'edificio è pronto».
Oltre due secoli di documenti storici della Repubblica francese racchiusi nelle losanghe dell'architetto romano, che a Roma fatica a terminare la «nuvola» del Centro congressi all'Eur. «Da noi tutto è più complicato, manca l'organizzazione dello Stato e mancano anche i manager all'altezza. A Roma non c'è un problema di amministrazione politica, il sindaco Alemanno mi sostiene; semplicemente l'impresa non è in grado di rispettare i tempi, non c'è neanche un cronoprogramma. Inaugureremo la nuvola forse tra otto mesi, chi può dirlo. Ma non voglio fare l'italiano lamentoso. Nonostante tutti gli impicci finirò, come ho finito (quella volta in soli 26 mesi) la Fiera di Milano. Mi sento italiano ed europeo, per questo gli archivi nazionali sono una grande soddisfazione: costruisco a Roma, a Parigi, a Strasburgo dove nacque mia nonna, nelle città che hanno contato per me. Da bambino i miei scappavano da nazisti e sovietici e dopo la guerra provarono a rifugiarsi a Vienna, ma io avevo ancora la cittadinanza lituana e non mi fecero entrare: è finita che, a Vienna, c'ho costruito due torri».
Il rapporto del 69enne Fuksas con la Francia comincia presto, nel 1981, quando François Mitterrand diventa presidente. «Lui e Lang decisero di chiamare a Parigi giovani artisti da tutta Europa, io ero quasi uno sconosciuto perché avevo lasciato presto il mondo universitario: appena laureato mi sono buttato a costruire, ho sempre preferito i cantieri all'accademia, e infatti all'epoca non comparivo nelle riviste. Notarono non gli articoli su di me ma i miei cantieri, e mi chiamarono a Parigi. Da allora la Francia mi ha fatto lavorare moltissimo, qui ho realizzato una cinquantina di progetti». Il velo di Mario Bellini per il dipartimento di arti islamiche del Louvre, il futuro nuovo palazzo di Giustizia di Parigi affidato a Renzo Piano, gli archivi nazionali a Fuksas: la fortuna degli architetti italiani a Parigi continua.
Gli esterni degli archivi nazionali a Pierrefitte sono firmati da Massimiliano, gli interni dalla moglie Doriana Fuksas, «ma abbiano lavorato insieme per entrambi, ormai è difficile distinguere chi fa cosa». Perché avere scelto le losanghe, seimila, che sono il segno distintivo dell'edificio? «A differenza del quadrato o del rettangolo la losanga non è monodirezionale, si sviluppa sulle diagonali, come tutta la mia architettura. È un aspetto che mi ricorda Caravaggio, tutti i suoi quadri si sviluppano lungo le diagonali, per le luci e le figure, e questo porta a una maggiore dinamicità. A Pierrefitte uno scatolone enorme, destinato a contenere 321 chilometri di scaffali, grazie alle losanghe acquista leggerezza».
All'interno dell'edificio c'è una lunga scultura, «una specie di bellissimo serpente geometrico di Antony Gormley, inglese: per ottenerlo ho dovuto accettare anche due artisti francesi», racconta Fuksas, che sorride delle pressioni — difficili da estirpare — legate alla nazionalità. «Quel che conta è che gli abitanti di Pierrefitte sembrano apprezzare la novità: ho cercato di costruire con gentilezza, di inserirmi nel contesto senza prepotenza, con volumi che rispettano le case basse della zona. Chi ci lavora dice di trovarsi bene, gli ambienti sono luminosi». Costo 200 milioni, circa 1.300 euro al metro quadrato. Non molto per conservare la storia della Francia repubblicana.

Corriere 11.2.13
Gramsci e il «taccuino scomparso» prove inoppugnabili, non scoop
di Luciano Canfora

Sorprende il tono, per lo più risentito, che sfocia nelle pagine di «la Repubblica» quando si tratta del numero dei Quaderni di Gramsci: fioccano espressioni quali «voglia di scoop», «si legge sotto traccia», «sarebbe più serio», ecc. (da ultimo l'intervista a Joseph Buttigieg dell'altro ieri). Vorrei venire incontro al desiderio di conoscenza che comunque si coglie «sotto traccia» dietro codeste uscite un tantino sovreccitate.
Forse è rimasto sinora in ombra uno studio importante e benemerito di Giuseppe Vacca e Chiara Daniele, consistente nella raccolta di documenti sulla storia del testo: Togliatti editore di Gramsci (Carocci, 2005). Qui c'è la risposta alla vexata quaestio. Si tratta in particolare di due documenti figuranti rispettivamente alle pagine 73 e 83. Il primo è una lettera datata 20 aprile 1945, riservata, del vice-ministro degli Esteri sovietico Dekanozov attestante che alcuni giorni prima, il 3 marzo, «sono stati consegnati a Ercoli (=Togliatti) 34 quaderni di lavori di Antonio Gramsci» (l'arrivo dei «34 quaderni di Gramsci fitti di scrittura» fu confermato, come ormai ben noto, da Togliatti il 29 aprile 1945 al San Carlo di Napoli: il suo discorso è stato più volte ristampato). Il secondo documento è di venti mesi più tardi (10 dicembre 1946) ed è l'«inventario dei documenti personali di Antonio Gramsci in custodia presso l'Archivio dell'Istituto Marx-Engels-Lenin» di Mosca: materiali — si precisa — da «consegnare personalmente al compagno Togliatti». Tra i materiali lì descritti — molti dei quali sappiamo per certo che giunsero a Roma — c'è anche: «Quaderno: quantità, 1».
Si dà il caso che, grazie alla liberalità dell'attuale direzione della Fondazione Gramsci, si disponga anche del cosiddetto «Quaderno di Tania» contenente l'indicizzazione parziale che Tania allestì, e poi accantonò, del lascito gramsciano. Dentro tale «Quaderno», fisicamente del tutto simile ai 34, vi è anche la copia fotografica dell'elenco del 10 dicembre '46: dell'elenco cioè in cui si parla dell'isolato «Quaderno: quantità, 1». È dunque più che sensato pensare che quell'isolato «Quaderno» sopraggiunto successivamente sia per l'appunto quello di Tania.
Conclusione: se si include nel calcolo anche il «Quaderno di Tania», i «Quaderni» diventano 35. Dunque ce n'era comunque un altro di Gramsci, oltre ai noti 33.
Se poi si volessero far entrare in ballo anche i due «Quaderni» del tutto privi di scrittura la cui esistenza Francioni segnalò, e sostenere che nei 34 vanno computati anche quei due, i conti non tornerebbero ugualmente. I «Quaderni» scritti da Gramsci retrocederebbero a 32! Invece per fortuna ne abbiamo almeno 33. Dunque i due privi di scrittura non c'entrano.
Soggiungiamo una considerazione a dir vero ovvia. Perché stupirsi della scelta compiuta a suo tempo (1948-51) di non pubblicare qualcosa del lascito gramsciano? Anche dei «Quaderni» fin qui noti alcune parti furono escluse. E non erano prime stesure: erano stesure uniche (quelle che poi Gerratana chiamò «testi B»). Furono escluse e basta. Due giovani studiose hanno fornito di recente la documentazione in proposito nel volume Spie, Urss, antifascismo. Gramsci 1926-37 (Salerno Editrice, 2012), alle pagine 238-249. Utile l'intera indagine: contributo per chiunque voglia orientarsi nell'accorto mosaico costituito dalla cosiddetta edizione tematica dei «Quaderni di Gramsci».

l’Unità 11.2,13
Discendenze. Un topolino per papà
Secondo uno studio pubblicato su Science sarebbe il nostro ultimo antenato comune
L’albero filogenetico della vita sul nostro pianeta farebbe risalire ad un topiforme, corpo snello e passione per gli insetti, è all’origine dell’uomo
È apparso sulla Terra 400mila anni dopo la «grande estinzione» dei dinosauri a causa della caduta di un asteroide
di Pietro Greco

UN TOPOLINO, UN CORPO SNELLO DI POCHI CENTIMETRI, la bocca affusolata, la lunga coda che culmina in un ciuffo appena accennato e un’autentica passione per gli insetti. È apparso sulla Terra tra 200 e 400mila anni dopo «la grande estinzione», quando tra 65 e 66 milioni di anni fa tutti i dinosauri non volanti, scomparvero dalla faccia della Terra a causa delle variazioni climatiche innescate (o solo accelerate) dall’impatto di un grosso asteroide con il nostro pianeta.
Per l’americana Maureen A. O’Leary del Dipartimento di Scienze Anatomiche, Stony Brook University, e della Divisione di Paleontologia del Museo di Storia Naturale di New York e una intera sfilza internazionale di suoi collaboratori è l’ultimo antenato comune, sì insomma il papà, di noi tutti, pipistrelli, umani e balene, nati da una madre dotata di placenta. Per molti altri è, semplicemente, il topo della discordia.
Il mammifero si è materializzato venerdì scorso nell’articolo scritto da O’Leary e soci per la rivista Science al culmine di sei anni di intenso e innovativo lavoro, durante i quali sono stati presi in esame e comparati 4.541 caratteri appartenenti a 86 diverse specie di placentali (mammiferi con la placenta) fossili e viventi. I dati sui caratteri morfologici sono stati poi armonizzati con quelli prodotti dai biologici molecolari che hanno analizzato le sequenze dei Dna ed è stato così ricostruito l’albero filogenetico della vita che, dalle 5.100 specie di mammiferi placentali che attualmente vivono sul pianeta (uomo incluso), risale fino a lui, il nostro topiforme e antico antenato comune.
La notizia ha fatto il giro del mondo, perché colpisce il nostro sussiegoso immaginario realizzare che non discendiamo (solo) dalle scimmie eventualità che aveva generato orrore nel vescovo Samuel Wilberforce, ai tempi di Darwin ma addirittura dai topi.
Ma la novità della ricerca un vero capolavoro interdisciplinare, a cavallo tra paleontologia, biologia evoluzionistica e biologia molecolare non sta in questo (rinnovato) invito al disincanto sull’umana origine. Perché che tutti i mammiferi, uomo incluso, discendessero da animaletti della grandezza e della forma dei topi lo sapevamo da tempo. La novità scientifica proposta dal lavoro del gruppo guidato da Maureen O’Leary è tutta contenuta nella tempistica. È la sua (presunta) età che fa del mammifero topiforme di O’Leary il «topo della discordia». E che oppone (di nuovo) «i fossili agli orologi».
Il motivo è molto semplice. Secondo i biologi molecolari nel Dna di ogni vivente è contenuto, anche, un orologio. Il meccanismo del cronometro, considerato piuttosto preciso, è dato dal ritmo delle mutazioni (ovvero dei cambiamenti molecolari), assunto come costante nel medio e, soprattutto, nel lungo periodo. Analizzando il Dna di noi, Homo sapiens, e quello degli scimpanzé e utilizzando l’orologio molecolare, possiamo calcolare con una precisione ritenuta abbastanza alta quando è vissuto il nostro ultimo antenato comune: 5 o 6 milioni di anni fa. Quando analizziamo il genoma di tutte le scimmie e facciamo correre indietro l’orologio a Dna, scopriamo che l’ultimo antenato comune a tutte è vissuto 30 milioni di anni fa, o giù di lì.
Bene, quando i biologi molecolari analizzano il Dna di tutti i mammiferi e fanno ticchettare il loro orologio, verificano che l’ultimo antenato comune è vissuto 100 milioni di anni fa. Ben prima del periodo K-T (il periodo del cretaceo/paleocene, tra 66 e 65 milioni di anni fa). Il nostro papà topolino viveva quando sulla Terra scarrozzavano e dominavano i T. Rex, i triceratopi e altre decine e decine di specie di rettili. Quei 30-35 milioni di anni di differenza tra il topo dei paleontologi e quello dei biologi molecolari non sono, dunque, una differenza da poco.
Il litigio tra «fossili e orologi» è infatti clamoroso. Tutti piuttosto evidenti. Il primo è di natura evoluzionistica. Se il nostro papà topo viveva già ai tempi in cui dominavano i dinosauri, se al tempo dell’estinzione K-T esistevano da 29 a 39 lineages (linee di specie) come sostengono gli orologi molecolari, allora la nostra esistenza chiama fortemente in causa la contingenza. I mammiferi erano destinati a una «vita minoritaria», costretti a vivere nelle nicchie lasciate dai veri padroni della Terra, i dinosauri. Poi un evento casuale e imprevedibile l’impatto di un asteroide ha imposto la sparizione/evoluzione dei dinosauri e liberato spazi ecologici per i mammiferi, che per fortuna avevano caratteristiche adatte a sopravvivere al e nel grande cataclisma e che si sono ritrovati a essere le specie dominanti come nessuno, a priori, avrebbe potuto prevedere.
Se, invece, hanno ragione O’Leary e i suoi colleghi, tra dinosauri e mammiferi non c’è stata mai competizione. Semplicemente i mammiferi sono apparsi «dopo» l’estinzione/ evoluzione (una parte dei dinosauri si sono evoluti in uccelli). Non perché avessero caratteri adatti a sopravvivere al grande cataclisma, ma solo perché hanno trovato uno spazio ecologico nuovo.
Sia come sia, la scoperta del papà topo spalanca le porte a una domanda scontata, ma che impegnerà schiere di ricercatori nei prossimi mesi: come funziona, davvero, l’orologio biologico delle mutazioni? Quanto è affidabile? Ma impone anche di ripensare ad antiche domande: quando è giusto fare affidamento sui ritrovamenti dei fossili per cronometrare l’evoluzione della vita? Chi può impedirci di credere che schiere di topolini siano vissuti tra 100 e 65 milioni di anni fa e che noi non abbiamo, semplicemente, trovato per mille ragioni fossili vissuti in quella finestra temporale? Insomma, la partita «fossili contro orologi» non solo non è finita, ma è entrata in una nuova fase. Avvincente.

La Stampa 11.2.13
Veronesi: “La pensione diventi facoltativa”
di Roselina Salemi

Umberto Veronesi, 87 anni, 13 lauree honoris causa, direttore dell’Istituto oncologico europeo e della fondazione che porta il suo nome, è il testimonial perfetto per la longevità. E di lunga vita parlerà in settembre durante un convegno internazionale promosso dalla sua Fondazione con le Fondazioni Giorgio Cini e Silvio Tronchetti Provera a Venezia.
L’Italia è un Paese per longevi?
«Pensi alla “rottamazione”. Il temine è stato usato in politica come spinta al rinnovamento, ma in sé è denigratorio. Essere rottamato significa aver perso ogni ruolo nella società e solo in base all’età, perché così avviene per le auto. Trovo che questo principio sia sbagliato. Trovo ingiusto decidere il pensionamento in base all’età anagrafica, come se da un determinato compleanno la persona non sia la stessa del giorno prima. È un criterio crudele, discriminante e obsoleto».
Le età sono cambiate?
«Sì. Oggi ci affacciamo al lavoro a 25, 30 anni, mentre prima iniziavamo a 18: tutto si è spostato in avanti. Io sono favorevole ad un sistema che tenga conto anche dell’effettiva efficienza e produttività. Andrebbe introdotta un’età a partire dalla quale il pensionamento è facoltativo e viene deciso con l’ente o l’azienda per cui si lavora, in base al ruolo che ciascuno esercita e al suo progetto di vita».
Che cosa dà qualità a un’esistenza che si allunga?
«Nutrire la mente. Leggere, dibattere, scrivere il proprio diario o, se si riesce, poesie, partecipare agli incontri pubblici, andare al cinema, a teatro e alle mostre d’arte. Avere idee. La bussola deve essere orientata al futuro per immaginarlo e prevederlo, per quanto sia breve il suo orizzonte. Le idee non sono solo strumento di longevità, ma rappresentano la nostra immortalità terrena».
Ha una ricetta? Il successo è un buon antiossidante?
«Mi ritengo un uomo fortunato. Sono saltato su una mina e sono vivo, sono stato in guerra e sono tornato a casa, sono rimasto orfano di padre a sei anni, ho vissuto anche in povertà e sono sano, sono stato un pessimo studente e mi sono laureato a pieni voti con lode, ho faticato, ma ho incontrato uomini e donne che mi hanno aiutato moltissimo. Detto questo, credo la mia buona condizione sia legata anche al modo di vivere: mangio poco e vegetariano, consumo un pasto al giorno alla sera, digiuno almeno una volta alla settimana. Mentalmente sono curioso e non ho mai smesso di avere dubbi. Continuo a suggerire ricerche e sperimentazioni verso le aree grigie della medicina, a pensare a nuove vie per la lotta al cancro. Perché, vede, un uomo fortunato non è necessariamente un uomo di successo. Aver successo significa raggiungere un obiettivo, e io non ho raggiunto il mio».
Quale?
«Quando ho scelto di essere oncologo, 50 anni fa, ero convinto che avrei chiuso i miei occhi sapendo che il cancro era sconfitto. Così non sarà. Non vedrò la soluzione definitiva e quindi non vivrò il mio successo. Ma non credo che il successo aiuti la longevità. Conta l’equilibrio interiore e la consapevolezza di aver fatto ciò che l’intelligenza ci permette di fare. Questo sì».
La longevità può essere una ricchezza per la società?
«Lo è. Pensiamo anche a quanto una persona della terza età può contribuire nelle attività no profit. Non si può negare che esista un costo legato alle malattie. La longevità impone un ripensamento del sistema sanitario e sociale, ma è un patrimonio, a patto che vogliamo che lo sia».

Repubblica 11.2.13
Il figlio di Stalin si consegnò ai nazisti
Documenti inediti rivelano che Yakov Dzugasvili era disgustato dal regime sovietico
di Andrea Tarquini

BERLINO — Yakov Dzugasvili, il figlio di Stalin, si sarebbe arreso per scelta dettata da disperazione agli invasori nazisti, disgustato dal regime autoritario creato dal padre. Lo scrive Der Spiegel, sulla base dei verbali finora segreti degli interrogatori cui gli ufficiali tedeschi sottoposero “Stalin junior” nel campo di prigionia speciale.
«Il comando supremo (dell’Armata rossa, ndr) non è capace di nulla, per colpa loro abbiamo perso il 70 per cento dei carri armati», dice Yakov agli ufficiali che lo interrogano. E poi, sulle ragioni per l’iniziale incapacità di combattere dell’Armata rossa, sottolinea: «Le azioni insensate e da idioti della nostra leadership hanno inviato i reparti direttamente sotto il vostro fuoco ». Infine, all’offerta d’informare la sua famiglia sulla detenzione, replica «se volete usarmi una cortesia, non fatelo». Fino a oggi era noto che Stalin aveva rifiutato la proposta tedesca di scambiare Yakov con il Maresciallo von Paulus, fatto prigioniero a Stalingrado. Il figlio del ditattore morì in un campo di concentramento, ucciso dalle guardie o, secondo alcuni storici, suicida. Documenti da archivi russi, sempre citati da Spiegel, riferiscono che durante la ritirata Yakov, accompagnato solo da un soldato, a un certo punto gli disse «compagno, raggiungi tu la nostra unità, io mi fermo qui a riposare». Nel codice militare sovietico la resa era considerata alla stregua del tradimento.

Repubblica 11.2.13
Sono dunque penso
Diversi saggi ricostruiscono la svolta nel pensiero del filosofo tedesco avvenuta negli anni della vecchiaia
Ecco come Schelling ha rinnegato gli idealisti
di Maurizio Ferraris

Se anche non fosse stata quella di un grande filosofo, la lunga vita di Friedrich Wilhelm Joseph von Schelling, che aveva quattordici anni quando fu presa la Bastiglia e che morì nel 1854 mentre era in vacanza in Svizzera, ormai al tempo dei dagherrotipi e dei lampioni a gas, basta a illuminare un pezzo di storia intellettuale europea. Con i relativi usi e costumi accademici, politici e sentimentali, con figure come Goethe e Hegel e Hölderlin (e le donne di Schelling: Carolina, che per sposarlo divorzierà da Wilhelm August von Schlegel e morirà nel 1809; Paulina Gotter, che gli darà sei figli; sino alla passione platonica di Schelling settantenne per una giovinetta inglese, Eliza Tapp, adattissima per un caso clinico di Freud) tutto descritto con sublime maldicenza da Xavier Tillette, uno dei massimi studiosi di Schelling nella Vita di Schelling tradotta per Bompiani da Marco Ravera, con una ricca introduzione di Giuseppe Riconda. Ma ci sono anche motivi di attualità filosofica. Che, da una parte, come dimostra il libro di Emilio Carlo Corriero, Libertà e Conflitto. Da Heidegger a Schelling, per un’ontologia dinamica, con un saggio di Manfred Frank (Rosenberg e Sellier, 2012), riprendono la tradizione di studi schellinghiani avviati a Torino negli anni Settanta dal Luigi Pareyson, il maestro di Eco e di Vattimo. E dall’altra si aprono ad altre tradizioni, come nel libro di Wolfram Hogrebe e Markus Gabriel, Predicazione e genesi. L’assoluto e il mondo, a cura di Simone Luca Maestrone, uscito anch’esso recentemente da Rosenberg. Hogrebe è uno dei massimi filosofi tedeschi contemporanei, che con uno stile colto e ironico propone una rilettura di Schelling insieme analitica e speculativa. Gabriel, poco più che trentenne, è impegnato in un rinnovamento profondo della filosofia tedesca, in dialogo con altre tradizioni, dalla filosofia analitica al nuovo realismo. Ed è proprio il richiamo al realismo (esplicito anche nel volume di Corriero) che sta alla base di questa rinnovata attualità di Schelling, e in particolare della sua “seconda” o “tarda” filosofia, nel dibattito teorico contemporaneo.
Per Schelling “Cogito ergo sum”, il punto di partenza cartesiano, è stato un falso movimento: dal pensiero all’essere. Tutta la filosofia moderna, da Kant a Fichte, a lui stesso da giovane, a Hegel che ormai lo ha soppiantato nel favore filosofico dei tedeschi, è dunque una filosofia negativa. “Penso dunque sono”, “le intuizioni senza concetto sono cieche”, “il razionale è reale”, significa che la certezza va cercata nell’epistemologia, in ciò che sappiamo e pensiamo, e non nell’ontologia, in quello che c’è. Ma con questo si apre un abisso tra il pensiero e l’essere, uno iato destinato a non venir più recuperato, come del resto testimonia tutta la storia della filosofia degli ultimi due secoli. Per il secondo Schelling bisogna procedere in senso inverso. L’essere non è qualcosa di costruito dal pensiero, ma è qualcosa di dato, di offerto, prima che il pensiero abbia inizio. Non solo perché abbiamo la testimonianza di epoche interminabili in cui c’era il mondo ma non c’era l’uomo, ma anche perché ciò che inizialmente si manifesta come pensiero viene da fuori di noi: le parole di nostra madre, i miti che (esattamente come le barzellette) non hanno inventori, e sono residui di senso in cui ci imbattiamo proprio come alla Mecca ci si imbatte in un meteorite.
Il pensiero è anzitutto natura, cioè non è un cogito trasparente, ma un inconscio che si rivela poco alla volta, se si rivela. Incontriamo oggetti che avevano una consistenza ontologica indipendentemente dal nostro sapere e che di colpo o attraverso un lento processo vengono conosciuti. Scopriamo parti di noi (per esempio, di essere invidiosi, di avere la fobia dei topi o di amare qualcuno) così come scopriremmo pezzi di natura, resti fossili di dinosauri. Ci si rivelano elementi della società (per esempio, la schiavitù, lo sfruttamento, la subordinazione femminile e poi con una crescente sensibilità il mobbing o il politicamente scorretto), che, di colpo, risultano insopportabili, e che dunque prima rimanevano seppelliti, cioè assunti come ovvi, in un inconscio politico o sociologico. Verrà indubbiamente, e auspicabilmente in tantissimi casi, il momento della “presa di coscienza”. Ma sarà appunto un esercizio di distacco rispetto a una adesione precedente, non un atto assoluto di costruzione del mondo attraverso il pensiero. Nel mondo psicologico e sociale il motto di Schelling potrebbe essere “Sono dunque (talora) penso”.
Lo stesso vale nel mondo naturale. La tesi di Schelling è che la natura è spirito inconscio, il che può apparire una romanticheria, aggravata dal fatto che nei suoi ultimi anni il filosofo facesse sedute spiritiche con la Regina di Baviera. Ma di fatto apre a tutt’altro. Anzitutto spiega perché il pensiero aderisca al reale con una forza pre-teoretica che non è vinta da nessuno scetticismo: semplicemente, il pensiero è una parte del reale. E c’è un senso in cui, quando lo spirito indaga la natura, sta scoprendo se stesso. Non perché la natura sia il prodotto dello spirito, come appunto vogliono i pensatori negativi, ma perché lo spirito è un risultato della natura, esattamente come le leggi della gravità, della fotosintesi e della digestione. La mente, insomma, emerge dal mondo, e in particolare da quel pezzo di mondo che la riguarda più da vicino, il corpo e il cervello. Poi si confronta con l’ambiente, naturale e sociale, e con sé stessa. In questo confronto, che è una ricostruzione e una rivelazione e non una costruzione, la mente elabora (individualmente ma ancor più collettivamente) una epistemologia, un sapere, che assume a proprio oggetto l’essere. L’incontro fra mente e mondo, così come tra ontologia ed epistemologia, non è garantito, è sempre possibile l’errore. Ma quando la mente riesce a riconciliarsi con il mondo da cui proviene, allora abbiamo la verità.

Repubblica 11.2.13
Felici quanto basta
In un libro l’economista critica la cultura materialista del consumo
Cosa porta anche i benestanti a non accontentarsi di ciò che hanno
Skidelsky: “Il denaro ci nasconde il segreto della buona vita”
intervista di Federico Rampini

NEW YORK Lord Robert Skidelsky, grande storico inglese dell’economia, biografo di John Maynard Keynes, è una delle massime autorità sul pensiero che “salvò il mondo” dalla Grande Depressione degli anni Trenta. Suo figlio Edward è un filosofo. Hanno unito le loro intelligenze, e le loro discipline, per trovare una risposta alla crisi che vada “oltre” l’economia in senso stretto. Il loro saggio Quanto è abbastanza che esce oggi in Italia (Mondadori, 306 pagine, 17 euro e 50) prende spunto proprio da una riflessione di Keynes sui valori di una società post-industriale. In una conferenza del 1928, poi trasformata in un pamphlet nel 1930 (“Possibilità economiche per i nostri nipoti” pubblicato in Italia da Adelphi), Keynes dipinse un affresco visionario del futuro. Alcune delle sue profezie si sono avverate: l’immensa moltiplicazione di ricchezza. Altre no: non abbiamo usato il progresso tecnologico per ridurre drasticamente il tempo di lavoro e allargare a dismisura la sfera delle nostre attività culturali, artistiche, filantropiche. Al contrario di quanto auspicava Keynes, siamo immersi in un sistema iper-materialistico; anche coloro che hanno un tenore di vita benestante non si accontentano. L’incapacità di riconoscere quando “abbiamo abbastanza” è una malattia diffusa. È anche un limite della scienza economica, che non sembra avere nulla da dire in proposito. In questa intervista Skidelsky padre spiega il senso di una ricerca: l’aspirazione a una “buona vita”, la rifondazione dell’economia su basi etiche, per una crescita più sana e sostenibile.
Nella ricerca della “buona vita” vi ispiriate ad Aristotele, Kant, Marcuse, Bertand Russell. La scienza economica da sola è troppo angusta?
«Bisogna chiedere aiuto alla filosofia perché l’economia non ha molto da dirci su cosa costituisce una buona vita. L’economia è diventata una “disciplina del processo”, nel senso che si occupa dei mezzi e non dei fini. Si è basata sempre di più su un approccio metodologico che dà per scontato l’individualismo».
La grande crisi iniziata nel 2008, e da cui l’Europa ancora non è uscita, può servire almeno a renderci più saggi? Cambierà la gerarchia delle priorità che hanno guidato i nostri modelli di sviluppo?
«Qualche segnale positivo c’è. E un dubbio: che il rinsavimento sia solo temporaneo? Finiremo per uscire dalla recessione. Quando la macchina dell’economia si rimetterà in moto possiamo facilmente dimenticare le lezioni imparate nei tempi duri. Questo vale sia per gli individui sia per la società nel suo insieme. Le crisi scatenano un processo d’introspezione, ci costringono a guardare dentro noi stessi, personalmente e come comunità. Finché durano, è importante che ciascuno di noi contribuisca a questa riflessione autocritica, e poi che cerchi di renderla duratura».
Nel mondo anglosassone il vostro saggio ha suscitato già forti reazioni. Tra le voci critiche, alcuni vi accusano di avere una vizione “patrizia”, élitaria. La vostra società ideale che esalta il tempo libero, i consumi culturali, la creazione artistica, sembra distante dai bisogni di milioni di disoccupati in Occidente; o dalle aspirazioni di un miliardo di contadini cinesi e indiani.
«Questa è una critica superficiale. Noi ci troviamo per la prima volta nella storia umana davanti a questa possibilità: di vivere in un sistema che crea abbastanza ricchezza per tutti. È già una realtà nelle nazioni sviluppate dell’Occidente. Nel passato la ricchezza era riservata a minoranze; le società erano statiche; dei gruppi ristretti “scremavano” il surplus a loro vantaggio e così svilupparono uno stile di vita privilegiato dove c’era spazio per le attività creative del tempo libero. Oggi stiamo raggiungendo una situazione in cui quello stile di vita è alla portata di una parte crescente della popolazione. Quell’ideale di una “vita civile” un tempo era riservato agli aristocratici e ai ricchi. Gli stessi filosofi del passato quando disegnavano i loro modelli di una buona vita, si rivolgevano a delle minoranze. Ora che l’ideale può interessare una maggioranza tra noi, è il momento di estrarre dalle riflessioni del passato i valori di una buona vita».
Un’altra obiezione attacca il concetto di “abbastanza”. Come dimostra il comportamento dei signori della finanza, o altre oligarchie di straricchi, molti ritengono di non avere mai “abbastanza” denaro.
«Questo è il cinismo di chi vede l’essere umano come immutabile, dunque considera l’avidità e l’insaziabilità come tratti di natura. Ma in passato questi difetti furono affrontati attraverso delle limitazioni morali. Abbiamo bisogno di una morale proprio perché la natura umana non è perfetta, e tuttavia può essere trasformata, controllata».
Una critica differente: un eccesso di tempo libero verrebbe riempito con passatempi oziosi, volgari, degradanti, come la tv spazzatura, l’alcolismo e le droghe.
«Questo sì è un atteggiamento élitario, che tradisce disprezzo per la maggioranza della popolazione. Anche le élite di una volta erano soggette a queste tentazioni, eppure molti di loro impararono con il tempo a fare un uso nobile e creativo del tempo libero».
Un’obiezione pragmatica: l’arte e la cultura costano. Se fossi povero, potrei permettermi di andare al Metropolitan Opera? Questo darebbe ragione ai fanatici dello sviluppo: dobbiamo produrre sempre di più, per poterci permettere quei consumi sofisticati che ci appagano…
«Un biglietto dell’Opera costa sempre meno di tanti gadget tecnologici. Questa è una veduta diffusa in America: devi lavorare sempre di più per poterti permettere tutti quei gadget che l’industria ti vuol vendere. Alla fine lavori così tanto che non ti resta tempo per pensare a te stesso, e vivere una buona vita. Hai una vita riempita solo da oggetti. Quel che resta del tuo tempo libero è ad alta intensità di consumo. Ma non è obbligatorio subire questo modello. Bisogna ripensare il tempo libero, reimparare a godersi la vita. E non ce l’ho con tutti i gadget. Mi piace il Kindle, che serve a leggere…».
Due grandi nazioni occidentali sono già governate da leader di sinistra: l’America e la Francia. Barack Obama e François Hollande sono più “keynesiani” rispetto ai conservatori al potere in altri paesi. Le sembrano all’altezza della sfida che descrivete in questo libro? Nelle loro agende di governo c’è spazio per una nuova gerarchia di valori?
«Per quanto riguarda Hollande in Francia, è presto per dare un giudizio. Non ha ancora mostrato molto, spero che lo faccia. Obama capisce bene questi temi. Ha avuto una priorità: tirare fuori gli Stati Uniti dalla recessione, ridurre la disoccupazione, perseguire una distribuzione del reddito più equa. Era giusto che pensasse prima a quello. In quanto ai democratici americani nel loro insieme, saranno capaci di sviluppare una visione meno materialistica per il futuro del loro paese? Questo ci riconduce a un dibattito che avvenne già negli anni Cinquanta e Sessanta. Fu quello il primo periodo in cui l’America intuì che avrebbe potuto avere “abbastanza”. Una grande riflessione, un classico, fu il saggio di John Kenneth Galbraith La società opulenta. Si pose proprio questo problema: cosa c’è oltre l’opulenza? Dopo di allora quel filone di pensiero non è diventato maggioritario. La discussione si è fermata, con l’eccezione degli ambientalisti e dei teorici della decrescita, che comunque rimasero ai margini. Ora è venuto il momento di riprendere».