giovedì 14 febbraio 2013

l’Unità 14.2.13
Bersani: saremo noi a tagliare gli sprechi
«Grillo è come il Cav»
di Andrea Carugati


Napoli, Caserta, Benevento, Avellino. Pier Luigi Bersani continua il suo tour nel Mezzogiorno. Ieri tappa in Campania, dove i temi chiave della campagna elettorale Pd, lavoro e legalità, sono particolarmente caldi.
Il leader Pd cerca di tenersi alla larga «dai politicismi», dal risiko delle alleanze, dai quotidiani attacchi di Monti a Vendola e al Pd. Prende di petto, invece, la destra, la Lega, i populismi. A partire da Grillo. «Lui ha nominato i deputati al pari di Berlusconi, bisogna tenere ben presente come è organizzato quel movimento. In Sicilia Grillo offre mille euro a tutti per tre anni, somiglia a quell’altro che propone di abolire l’Irpef, dice via l’Irap e promette quattro milioni di posti di lavoro. Sarebbe inimmaginabile venire a patti con lui». E ancora: «Il Pd è il contrario del populismo dove c’è sempre qualcuno che suona il piffero e il popolo deve andargli dietro. Che si chiami Grillo o Berlusconi, il meccanismo del populismo è quello. Noi non siamo così, noi siamo per la libertà della gente che sceglie qualcuno finché tocca a lui. E poi si cambia».
LA SFIDA A GRILLO
L’obiettivo di questi ultimi giorni di campagna elettorale è polarizzare la sfida tra Bersani e Berlusconi: «Qui vince uno solo, chi arriva primo. O vincono la destra e il leghismo o vinciamo noi», è il messaggio che lancia ai tanti indecisi, e in particolare a chi è tentato dai 5 stelle, a chi vorrebbe interpretare questo voto come uno «sfogo» contro il sistema. «Noi possiamo offrire una possibilità di cambiamento serio a tutte queste persone», non fa che ripetere Bersani. «C’è tanta gente che è ancora disposta a riflettere». Lo faremo, spiega, «senza raccontare favole», ma puntando anche su quei temi come la sobrietà e i costi della politica che tanta presa fanno sull’elettorato mobile. La sfida a Grillo è aperta. E sarà uno de leit motiv di questi ultimi giorni di campagna. Per ricordare agli indecisi che col voto al comico non si va da nessuna parte.
MENO SOLDI AI PARLAMENTARI
Di qui l’idea di lanciare alcune proposte, prima del 24 febbraio. Di annunciare che il prossimo governo, nei primi 100 giorni, si farà sentire su temi come lo stipendio dei parlamentari, quelli dei manager pubblici, la pletora dei cda. «Non c’è ragione per cui un parlamentare guadagni più di un sindaco di una grande città», è una della convinzioni che il leader Pd ripeterà anche in questi giorni. Numeri alla mano, si tratta di un tetto intorno ai 5000 euro, meno della metà delle retribuzioni attuali degli onorevoli. «Guardate, mi hanno consigliato di spararle grosse anch’io, ma ho resistito alle pressioni», ha detto ieri sera ad Avellino. «Così come Berlusconi non può rinunciare a raccontare balle, noi non possiamo rinunciare a dire la verità». Tra queste verità, ci sarà anche un impegno diretto «del governo» a ridurre i costi della politica.
Ma una stoccata a Berlusconi non può mancare: «Vuole restituire dei soldi? Cominci coi 4,5 miliardi delle quote latte, dai 4 miliardi di Alitalia e dai 4 mancanti dal condono tombale 2002. Sono 3 volte l’Imu. Ma li deve tirare fuori di tasca sua».
Nel merito delle proposte, il leader Pd ribadisce che sull’Imu «si può fare un’operazione intorno ai 2,8 o tre miliardi di euro per ottenere uno sgravio a favore dei ceti popolari», mentre «si potrebbe caricare qualcosa in più sui grandi patrimoni immobiliari, senza fare Robespierre». «L’idea della non pignorabilità della prima casa e del luogo di lavoro va salvata: nel settore della riscossione, per intenderci Equitalia, sono d’accordo che un bene produttivo non venga pignorato e credo che si possa fare qualcosa di preciso anche per ottenere una moratoria sulla rateizzazione dei mutui», ha detto in un’intervista al Mattino di Napoli.
Intervenendo in mattinata a un incontro con i costruttori edili di Napoli, Bersani fissa i suoi paletti sul tema della corruzione: «Bisogna andare giù più pesanti, le norme fatte dal governo Monti sono troppo deboli. Sappiamo che non sono noccioline. Ma è il primo segnale che voglio dare». E poi aggiunge: «Dobbiamo dare una mano al settore edilizio senza consumare altro territorio».
LE CORREZIONI DI MONTI SU SEL
Quanto all’accenno di dialogo di Monti verso Vendola (poi parzialmente ritrattato), il leader Pd si limita a «registrare questa apertura». «Se inizia a esserci questa correzione, sono contento. Con tutti i problemi che ci sono, con il dilagare dei populismi, mi sembra esagerato prendersela sempre con Vendola, è uno sport che non porta da nessuna parte».
«Con tutti i problemi che ha questo Paese, il problema è Vendola?», insiste il leader del centrosinistra. «Noi abbiamo una coalizione con Sel e chiediamo ai cittadini di darci il 51%, che useremo come se fosse il 49%. Saremo liberi e aperti con tutti poi ognuno farà il suo».
«Il 2013 sarà l’anno più pesante. Questa è la situazione in cui ci han portato. Ora tocca a noi. Perché quando ci sono delle grane, tocca a noi. E allora bisogna avere idee chiare e chiarezza nei messaggi», dice Bersani alla affollata platea del teatro Gesualdo di Avellino. «Vinceremo ma ci troveremo in una situazione in cui ci sarà un mare di populismo, di rabbia, di disaffezione e quindi il governo non dovrà solo governare. Dovrà combattere per dare un po’ di credibilità alla politica».

Corriere 14.2.13
Pd, il palco a Roma diventa un problema
I Cinque Stelle puntano a un milione di persone in piazza. Il timore dei confronti
di Maria Teresa Meli


ROMA — In altri tempi, in tempi normali, Roma sarebbe già tappezzata di manifesti con il nome di Pier Luigi Bersani scritto a caratteri cubitali e l'annuncio della grande manifestazione di chiusura della campagna elettorale.
Niente di tutto ciò quest'anno. Ancora ieri non si sapeva quando e dove (i maligni aggiungono anche un «se») il segretario parlerà nella Capitale. E c'era addirittura chi sosteneva che Bersani chiuderà la campagna in Lombardia e non a Roma.
Più di una settimana fa, invece, si era parlato di piazza San Giovanni Bosco, al Tuscolano. Ma ora è tutto di nuovo in forse. Eppure le date delle altre grandi adunate elettorali si conoscono. E anche i luoghi dove si terranno già si sanno. Il leader del Pd domenica sarà a Milano, a piazza Duomo. Con lui Giuliano Pisapia, Umberto Ambrosoli e tanti big del partito, a cominciare dall'ex segretario Walter Veltroni. Poi mercoledì 20 Bersani sarà a Palermo, con Matteo Renzi, e il giorno dopo a andrà a Napoli.
Possibile che solo la data di Roma sia un problema? Possibile sì. E un grosso problema, oltretutto, con tanto di nome e cognome: Beppe Grillo. Il comico genovese infatti si sta impegnando a fondo per portare almeno un milione di simpatizzanti a piazza San Giovanni. E al Pd temono che se per Bersani, lo stesso giorno, ci fosse meno gente, peraltro pure in uno spazio ben più ristretto come quello del Tuscolano, nessun media risparmierebbe il paragone impietoso. Sarebbe un boomerang comunicativo tremendo. Il Partito democratico e il suo segretario non possono subire un incidente simile.
Poco male se il leader del Movimento 5 Stelle si è impossessato di una piazza storica della sinistra italiana. Lo aveva fatto ben prima Silvio Berlusconi. Il vero guaio è il confronto: è l'inevitabile successo di pubblico di Grillo che temono al Pd. Ci si può sempre affidare alla Cgil di Susanna Camusso, che di Bersani è buona amica, ma lo stesso sindacato non è più in grado di mobilitare le folle di un tempo.
È comprensibile che il leader del Partito democratico non voglia chiudere la campagna elettorale in modo così controproducente, anche perché in realtà Bersani nei suoi giri per l'Italia sta constatando che un po' dovunque c'è interesse per il centrosinistra. Per esempio, ieri a Napoli, con i costruttori campani, il segretario del Pd si è piacevolmente stupito quando il presidente dell'Ance regionale, Elio Sava, gli ha detto senza troppi giri di parole: spero di incontrarla nuovamente nelle vesti di presidente del Consiglio.
Quella che per il leader dei costruttori della Campania è una speranza è per Bersani una meta a lungo voluta, con determinazione e pervicacia. Il numero uno del Pd non teme Berlusconi, mentre è convinto che sarà Grillo a fare un exploit elettorale. Però sa anche un'altra cosa: pure se il Cavaliere resta indietro nei sondaggi e se il comico genovese non può aspirare a trasformare il suo movimento nel maggior partito italiano, la possibilità che al Senato il centrosinistra non abbia una maggioranza sufficiente esiste.
Ma neanche questa non propriamente piacevole prospettiva lo fa desistere dai suoi intenti: «Il pareggio non esiste: chi ha vinto alla Camera, vince anche a Palazzo Madama, non possono essere due o tre senatori in meno a pregiudicare la governabilità».

Repubblica 14.2.13
Il politologo D’Alimonte: soltanto il Veneto è sicuramente perso per la sinistra
“Il Pd può conquistare il Senato ma stia attento all’offensiva 5 Stelle”
Grillo anche al 20% non cambia il verdetto se pesca di qua e di là.
Se erode i democratici fa vincere Berlusconi
di Annalisa Cuzzocrea


ROMA — Una variabile importante, per il risultato delle elezioni, è data dal Movimento 5 stelle. Il tour di Beppe Grillo riempie le piazze. I suoi consensi erano già dati in crescita negli ultimi sondaggi, e potrebbero salire visti gli scandali Mps, Saipem, Finmeccanica, e i colpi mediatici che ha in mente l’ex comico, dallo sbarco in tv al Piacere Day di Piazza San Giovanni. Eppure, secondo Roberto D’Alimonte, professore di Sistema politico italiano alla Luiss di Roma, anche se Grillo arrivasse al 20, 22 o 23 per cento, non cambierebbe nulla. «A meno che — precisa — quei voti in più non arrivassero da un’erosione del Pd».
In quel caso, cosa succederebbe?
«Che il boom dei 5 stelle potrebbe far vincere Berlusconi. Il ragionamento è semplice: se l’incremento di voti di Grillo è di tipo “ecumenico”, se cioè pesca un po’ di qua e un po’ di là, non cambierà niente. Se invece dovessimo scoprire che i voti aggiuntivi sono sottratti più al Pd che al Pdl o a Monti, allora potremmo anche trovarci di fronte alla sorpresa di un Grillo che fa rivincere Berlusconi alla Camera».
Nel primo caso, è davvero certo che non cambierebbe nulla?
«Non sul piano dell’esito del voto, perché probabilmente Bersani otterrà la maggioranza assoluta alla Camera e almeno relativa al Senato».
Quindi la conquista del Senato è ancora alla portata del centrosinistra?
«Sì, credo che l’unica regione che il centrosinistra può ragionevolmente considerare già persa è il Veneto. Sicilia e Lombardia invece sono ancora in bilico».
In ogni caso arriveranno in Parlamento decine e decine di grillini. Quale sarà l’effetto su Camera e Senato?
«La presenza di una pattuglia così consistente di deputati e senatori grillini sarà un pungolo molto forte nei confronti di chiunque formerà il governo».
Secondo lei come andrà a finire?
«Credo che Bersani vincerà alla Camera, ed è ancora possibile che che possa ottenere la maggioranza assoluta dei seggi al Senato. Oppure, che al Senato abbia bisogno di Monti per fare un governo».
Un esecutivo che tenga insieme Bersani, Vendola e Monti?
«È l’esito più probabile».
Ma è ancora possibile, dopo le accuse reciproche che si sono scambiati il premier uscente e il leader di Sel?
«Sì, perché io credo che né Vendola né Monti si possano prendere la responsabilità di non fare un governo e creare le condizioni per un ritorno alle urne, come in Grecia».
E non sarebbe un governo fragile, pronto a cadere al primo colpo di vento?
«Non è detto. Esiste un possibile terreno di accordo che riguarda da una parte una nuova legge sulla cittadinanza e sulle unioni civili, cose che stanno molto a cuore alla sinistra, e dall’altra una serie di riforme economiche che invece premono a Monti».
Pensa davvero che la sinistra del Pd e Sel accettino le riforme che vuole Monti?
«Che alternativa hanno? Se il centrosinistra non ottiene la maggioranza assoluta dei seggi l’accordo è ineluttabile. Nel caso fallisse, si tornerebbe a votare, aprendo la strada al ritorno di Berlusconi. O alla vittoria definitiva di Grillo».

Corriere 14.2.13
Latitanti sono le Regole
di Sergio Rizzo


Dopo l'arresto di Giuseppe Orsi la sospensione dei pagamenti alla Finmeccanica da parte dell'India era scontata. Non finirà lì, temiamo. Si parla di un'azienda pubblica nel cui capitale sono presenti molti investitori privati, che opera in un settore strategico e ha una fortissima proiezione internazionale, con rapporti anche governativi. È impossibile prevedere quali ripercussioni avrà questa vicenda in quei contesti. Ma nell'opera di ricostruzione dell'immagine aziendale i nuovi vertici dovranno impegnarsi a fondo. La Finmeccanica ha 70 mila dipendenti, rappresenta il cuore tecnologico dell'industria italiana ed è espressione di quel poco che ancora ci resta della grande impresa manifatturiera.
Le implicazioni rischiano dunque di rivelarsi ben più pesanti di una giornata di passione in Borsa. Anche perché, in concomitanza di una campagna elettorale che getta un'ombra di incertezza sulla stabilità di qualunque futuro governo inquietando i mercati, quella della Finmeccanica non è l'unica ferita a grondare sangue. Paolo Scaroni, amministratore delegato dell'Eni, altra grande impresa pubblica il cui ruolo viene spesso paragonato a quello di un vero e proprio ministero degli Esteri «parallelo», è indagato per una faccenda di presunte tangenti algerine. Mentre l'ex presidente della terza banca italiana, il Monte dei Paschi di Siena, è sotto inchiesta per aver nascosto agli organi di vigilanza alcune operazioni che hanno causato gravi perdite: con l'aggravante, per Giuseppe Mussari, di essere stato per tre anni il capo dei banchieri italiani, incaricato di trattare in nome e per conto di tutti loro gli accordi di Basilea. Lo scandalo senese, poco ma sicuro, non migliorerà i rapporti internazionali delle nostre banche.
In questa tempesta perfetta non mancano pesanti responsabilità. Così premurosa quando si tratta di spartire poltrone nelle aziende pubbliche e in certe banche, la nostra politica non mostra mai identica reattività quando sarebbe necessario. Nel caso del Monte dei Paschi, ha tollerato il permanere di un rapporto perverso fra banca e partiti locali. Per non parlare della colpevole inerzia del governo di fronte al dilagare del tumore dei derivati. Nel caso della Finmeccanica, invece, ha chiaramente sottovalutato il rischio. Si poteva intervenire prima? Probabilmente si doveva. Difficilmente, in Paesi come la Germania o il Regno Unito, l'azionista pubblico sarebbe rimasto completamente indifferente davanti a un'accusa di corruzione internazionale formulata dalla magistratura già molti mesi fa. Non fosse altro, per tutelare entrambi: l'azienda e l'accusato. In Italia, invece, no.
Anziché intervenire per tempo, qui si preferisce fare esercizi di dietrologia. Sempre dopo. C'è chi si chiede se lo scandalo del Monte non sia scoppiato ad arte proprio ora per mettere in difficoltà il Pd, e chi sospetta che l'arresto di Orsi nasconda un siluro alla Lega Nord, partito certo non ostile a quel manager, il cui leader Roberto Maroni punta a governare la Lombardia. Altri non escludono che pure l'inchiesta sull'Eni faccia parte di un'offensiva dei magistrati in piena campagna elettorale…
L'unico fatto sicuro è che quando in certi casi la politica non agisce tempestivamente lo spazio vuoto viene occupato dalla magistratura. Lo sappiamo da almeno vent'anni. Peccato che la lezione non sia servita a niente.

l’Unità 14.2.13
Zingaretti: trasparenza e diritti patto per lo sviluppo del Lazio
«La polemica coi radicali ferisce, tutti sanno che sono dipendente del mio partito da 25 anni»
Videoforum a l’Unità con il candidato del centrosinistra: da questa crisi e dagli scandali si esce attraverso la politica
di Jolanda Bufalini


Videoforum in redazione con Nicola Zingaretti, candidato alla presidenza del Lazio. Alle 12 il via, inizia il direttore de L’Unità: «Fiorito nel Lazio, la clinica Maugeri in Lombardia sono l’epifenomeno di un fallimento». Il collasso del modello politico del centro destra dice Claudio Sardo fa di Zingaretti «un candidato nazionale del centro sinistra che si propone al governo del paese». Risponde Nicola Zingaretti: «Noi rispondiamo allo scandalo di Fiorito e Maruccio con un’altra idea di politica. I risvolti giudiziari hanno origine nella crisi del centrodestra affrontata attraverso una erogazione spropositata di fondi. È così che si allarga la distanza fra cittadini e istituzioni politiche». La prima «nostra battaglia continua Zingaretti è stata per il voto. È una patologia della democrazia senza precedenti in Europa che la Regione, seconda solo alla Lombardia per Pil, sia stata chiusa per sei mesi». «L’ambizione dice Zingaretti è uscire da questa melma attraverso la politica, ricostruendo la speranza. La risposta all’antipolitica non può essere tecnica».
Fra le domande dei lettori c’è la questione sollevata dai radicali: «Ferisce risponde Zingaretti che i radicali puntino su una cosa come questa in campagna elettorale ma, nel merito, sono dipendente del mio partito da 25 anni, ho già risposto a una interrogazione parlamentare del Pdl nel 2009: diventai segretario regionale attraverso le primarie, il comitato provvisorio del contratto si formò in attesa che il Pd approvasse lo statuto».
Le nomine della Polverini potranno essere riviste? Fiorito, il Pd poteva non sapere? I 700 in mobilità del Recup? «Sulle nomine – risponde il candidato presidente – Polverini sta abusando dei poteri di ordinaria amministrazione, per questo ricorreremo al Tar. C’è comunque un giudizio politico negativo su nomine fatte dieci giorni prima del voto». Quanto al Pd: «L’ex capogruppo Montino ha riconosciuto l’errore politico, questo ci ha portato alla scelta del voto e siamo stati di esempio anche per la Lombardia. Le liste del Pd sono di totale rinnovamento. Nelle liste avversarie, invece, hanno trovato posto con tracotanza i protagonisti del sistema di potere che ha generato i Fiorito e i Maruccio». «Graziani ha risposto Zingaretti alla domanda sul mausoleo di Affile è stato un carnefice».
La sanità ha occupato, come giusto, buona parte del videoforum: «Il sistema sanitario è pubblico anche con i privati ha detto Zingaretti e non vogliamo contrapposizione fra lavoratori. Da 7 anni si sta destrutturando il vecchio modello di sanità senza costruirne uno nuovo. Sarà dura ma dobbiamo e possiamo tirarcene fuori. Ci vuole un patto con il futuro premier Pier Luigi Bersani, il piano di rientro non può essere piegato alla sola contabilità». Zingaretti punta su tre priorità: «Riduzione dei costi per beni e servizi (attualmente a +17%) attraverso la centrale unica degli acquisti già avviata da Marrazzo», «qualità delle nomine attraverso un’autorità terza di valutazione». «Nel Lazio ci sono pronto soccorso affollati ma non c’è un sistema di prossimità, che costa meno ed è più umano». Quanto ai 700 lavoratori del Recup: «È un effetto perverso della Regione chiusa dalla Polverini, che non paga». Superare il commissariamento è «un obiettivo strategico ma ci sono ancora 780 milioni di disavanzo». Non funziona il blocco del turn over che produce precari, non funziona la riduzione delle prestazioni che spinge le persone verso altre regioni.
Costi della politica e sprecopoli: «Il Lazio ha 8 miliardi di debiti perché appalti, bandi e promesse sono stati fatti per creare consenso politico anziché per fare. Dovremo gestire con trasparenza, a cominciare dalla riduzione dei Cda, come nel caso dell’Ater. L’azienda delle case popolari era una sola, ora ci sono 7 Ater con altrettanti consigli di amministrazione e moltiplicazione di dirigenti».
Luca Landò introduce il tema della crisi economica. Fra i primi provvedimenti di Zingaretti ci saranno gli strumenti per favorire il credito, le start up e l’innovazione: «Nella regione della capitale spiega il candidato università e centri di ricerca creano un terreno molto fertile per internazionalizzare le imprese, per i venture capital» ma la «pigrizia delle classi dirigenti ha fatto sì che il Lazio sia fermo su un binario morto». Compito di chi governa è scoprire la vocazione del territorio. Il limite del governo tecnico di Monti è, secondo Zingaretti, la mancanza di «un’idea politica di sviluppo». La vocazione del Lazio è nell’economia del mare, nel patrimonio storico artistico e naturale che il piano casa della Polverini mortifica, mentre serve investire sui trasporti: «Non posso mandare i turisti in giro se non funzionano i treni per i pendolari». Anche la piaga del lavoro nero e del caporalato si combatte con lo sviluppo: «Sì a leggi severe risponde Zingaretti ma c’è fame di lavoro, le condizioni sociali drammatiche sono la prima cosa da combattere».
La domanda di Pietro Spataro è sui diritti. «Sì ai diritti degli omosessuali», dice Zingaretti. Ma, innanzi tutto, va declinato l’articolo 32 della Costituzione, il «diritto alla salute». Negli ultimi 20 anni i diritti delle persone si sono andati restringendo, «non è stato sempre così nella nostra storia, non era così quando si approvava lo statuto dei lavoratori, si costruivano case popolari, si dava la terra ai piccoli agricoltori. Bisogna tornare ad ampliare i diritti di cittadinanza».

Corriere 14.2.13
Contributi a Zingaretti, la Procura apre un fascicolo
di Paolo Foschi


ROMA — La procura di Roma ha aperto un fascicolo sull'esposto presentato da Marco Pannella sul caso dei contributi versati dalla Provincia di Roma al presidente Nicola Zingaretti. Non ci sono né indagati, né ipotesi di reato e — trapela da Piazzale Clodio — si tratta di «un atto dovuto». Il caso ruota intorno all'assunzione di Zingaretti con un contratto da 8 mila euro lordi al mese nel febbraio del 2008 da parte del Comitato promotore regionale del Pd, esattamente il giorno prima dell'annuncio della candidatura per la Provincia. E intanto il Secolo d'Italia ha annunciato per oggi la pubblicazione di un dossier sulla vicenda che inchioderebbe l'esponente del centrosinistra.
Zingaretti, che adesso corre per la Regione Lazio, secondo i Radicali potrebbe aver fatto ricorso a questa manovra per garantirsi un'elevata contribuzione previdenziale a carico della Provincia. Secondo la normativa vigente, infatti, per i consiglieri eletti che abbiano un rapporto di lavoro dipendente l'ente pubblico è tenuto a rimborsare il mancato guadagno e i contributi previdenziali. I Radicali sospettano che Zingaretti si sia fatto assumere con uno stipendio molto alto dal partito sapendo che il partito stesso non si sarebbe fatto carico degli oneri, ma contando di maturare una posizione previdenziale sostanziosa a spese della Provincia.
«Zingaretti è assunto dal partito fin dal 1991, nel 2008 ha avuto un aumento da 5.000 a 8.000 euro al mese perché a ottobre era stato eletto segretario regionale del Pd ma ancora non era stata costituita la federazione laziale» dicono dal suo staff. «Perché però non ha lasciato l'incarico quando è stato eletto presidente della Provincia ed è stato sostituito da Morassut alla guida del Pd laziale?» si chiedono dal centrodestra. «Mantenendo il contratto da segretario regionale pur senza avere più la carica, ha ottenuto il versamento dei contributi da parte della Provincia» osservano i Radicali.
La questione crea un certo imbarazzo anche nel Pd: non esiste un contratto nazionale per inquadrare i segretari regionali, ma quegli 8.000 euro al mese sembrano tanti all'interno del partito, anche se — osservano da Largo del Nazareno — le unioni regionali hanno «piena autonomia decisionale e patrimoniale» ma a quanto pare gli stipendi medi dei segretari regionali — se corrisposti — sono «decisamente più bassi». L'attuale responsabile del Lazio, Enrico Gasbarra, comunque, non percepisce compenso dal partito, essendo parlamentare.
La vicenda, fascicolo della procura a parte, avrà in ogni caso strascichi legali: lo staff di Zingaretti ieri ha confermato la querela per diffamazione contro i Radicali, che a loro volta hanno annunciato azioni legali contro l'esponente del Pd.

Repubblica 14.2.13
Contributi a Zingaretti, i pm indagano “Sono sereno, querelo chi mi infanga”


ROMA — La Procura di Roma ha aperto un fascicolo, senza ipotesi di reato e senza indagati, dopo l'esposto dei Radicali nel quale si accusa Nicola Zingaretti di «aver fatto pesare i suoi contributi previdenziali sulla Provincia di Roma». Il caso è stato affidato al sostituto Corrado Fasanelli. Gli accertamenti saranno fatti dalla Guardia di Finanza. Nell'esposto presentato da Marco Pannella si punta l'indice su «un'assunzione sospetta di Zingaretti, da parte del Comitato Provvisorio Pd Lazio, avvenuta il giorno prima della sua candidatura a presidente della Provincia di Roma». Il sospetto paventato dai Radicali è quello di un meccanismo truffaldino messo in atto per ottenere dalla Provincia il rimborso dei contributi previdenziali e di quelli connessi al Tfr per uno stipendio di 8 mila euro lordi. Una ricostruzione respinta da Zingaretti, candidato del centrosinistra a governatore del Lazio, che annuncia una querela per calunnia. «Non c'è nulla di anormale né di illegale» afferma «sono una persona perbene e nella mia vita non ci sono segreti. Quella dei Radicali è soltanto una vergognosa macchina del fango».

il Fatto 14.2.13
La fuga dei capitali vaticani: 230 milioni dall’Apsa a Londra
L’emorragia degli ultimi tre anni scoperta dai Pm che indagano anche sullo Ior
di Marco Lillo


L’ENTE DICHIARA REDDITI PER 22 MILIONI ALL’ANNO E PAGA SOLO 3 MILIONI DI TASSE

Un flusso inarrestabile di soldi che hanno preso il volo da Roma a Londra. L'Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica, l'Apsa, cioè l'ente economico più importante dello Stato Vaticano assieme allo Ior, ha effettuato bonifici per ben 229 milioni di euro da Roma a Londra negli ultimi tre anni. La Procura di Roma ha scoperto l'emorragia di capitali in uscita dall’Italia quasi per caso. I pubblici ministeri che indagano sullo Ior, Nello Rossi e Stefano Fava, stavano monitorando i conti dello Ior accesi presso le filiali della ex Banca di Roma, ora Unicredit, nelle zone di Roma limitrofe alla Città del Vaticano. E invece hanno scoperto i flussi in uscita dell’Apsa. I pm hanno chiesto alla Guardia di Finanza di approfondire la posizione fiscale dell’ente vaticano e hanno scoperto che l’Amministrazione del Patrimonio della Santa Sede dichiara 22 milioni di reddito ai fini Ires e paga solo 3 milioni di euro di imposte.
   DAL 2009 infatti la Procura indaga per violazione della normativa antiriciclaggio il direttore generale dell’Istituto Opere Religiose, Paolo Cipriani, e l’ex presidente Ettore Gotti Tedeschi. Anche se presto Gotti potrebbe essere archiviato e non si esclude possa diventare un testimone a carico. Intanto il nuovo presidente, dopo la cacciata di Gotti a maggio, sarà nominato nelle prossime ore e dovrebbe essere un banchiere straniero, forse belga.
   Nell’ambito di quel procedimento i magistrati sequestrarono 23 milioni di euro su un conto del Credito Artigiano perché ritenevano che lo Ior schermasse i reali proprietari dei fondi. Con la complicità di qualche prelato, i soldi neri di criminali, di truffatori o dei politici in cerca di anonimato per le loro tangenti, erano irriconoscibili per gli investigatori da quelli provenienti dal fondo alimentato dai contribuenti italiani con l’otto per mille.
   Dopo quel sequestro la Santa Sede nel dicembre del 2010 con un motu proprio di Benedetto XVI introdusse una legislazione antiriciclaggio e creò anche l’Aif, l’autorità antiriciclaggio vaticana, preposta a fornire informazioni alle autorità italiane. Una svolta storica: l’Aif presieduta dal cardinale Attilio Nicora a partire dall’aprile 2011 collaborò con l’Uif, omologo ufficio anti-riciclaggio italiano, e fornì alcune risposte alle richieste inoltrate - tramite l’Uif - da parte della Procura. Il direttore generale dell’Aif, un ex funzionario Uif, l’avvocato Francesco De Pasquale, era persino dotato di poteri autonomi di ispezione sui conti dello Ior.
   La rivoluzione avviata da Benedetto XVI convinse a tal punto la Procura che i pm Rossi e Fava autorizzarono il dissequestro dei 23 milioni di euro. Se il Vaticano li avesse voluti muovere dal conto del Credito Artigiano ovviamente avrebbe dovuto comunicare con chiarezza di chi erano e a chi andavano ma intanto i milioni del Vaticano tornavano liberi dal vincolo legale.
   Dopo quel bel gesto da parte italiana però il Vaticano ha cambiato completamente linea. Il Segretario di Stato Tarcisio Bertone e i suoi consulenti, a partire dall’avvocato Michele Briamonte dello Studio legale Grande Stevens hanno cominciato a sollevare il tema della irretroattività: il Vaticano non poteva tradire la fiducia dei suoi correntisti. Nessuna informazione sarebbe stata data sui movimenti avvenuti sui conti Ior prima dell’aprile del 2011, data di entrata in vigore della legge voluta dal Papa. Era solo il primo passo. A gennaio del 2012 con un apposito provvedimento la Segreteria di Stato ha cancellato le norme più avanzate della legge voluta dal Papa. E soprattutto ha eliminato il potere di ispezione autonomo da parte dell’Aif sullo Ior. Le ispezioni dovevano essere autorizzate dalla Segreteria di Stato guidata da Tarcisio Bertone. A dicembre del 2012 Il direttore generale italiano, Francesco De Pasquale, viene sostituito con lo svizzero René Brulhart, già capo dell’antiriciclaggio del Liechtenstein.
   Nel frattempo il Vaticano lentamente svuota i suoi conti italiani. Per fare un esempio, il conto del Credito Artigiano presso il quale restano fermi tuttora i 23 milioni sbloccati, nel biennio 2008-2009 aveva movimentato 116 milioni di euro in entrata e 117 milioni di euro in uscita. Oggi quel conto dello Ior, e gli altri che esistono ancora nelle altre banche italiane, a partire da Unicredit e Banca del Fucino, sono stati svuotati per portare i soldi a Londra presso la Jp Morgan o a Francoforte alla Deutsche Bank. Il Vaticano pur di non sottostare ai controlli della Banca d’Italia e della magistratura preferisce bypassare il sistema bancario italiano. Anche i bancomat, dopo lo stop di Bankitalia del gennaio scorso sono stati riattivati da due giorni a questa parte grazie a una società finanziaria svizzera, la Aduno SA, preferita alla filiale italiana della Deutsche Bank perché può continuare a schermare i flussi mediante lo Ior, e non è soggetta al controllo della Banca d’Italia.
   Il Vaticano continua a comportarsi come uno Stato canaglia all'interno dell’Italia. Il nostro paese bonifica un miliardo di euro all’anno per il sostentamento della Chiesa dell’otto per mille e il Vaticano lo ripaga portando tutti i suoi soldi in Svizzera o a Londra. Questa è la questione più delicata che il prossimo Governo dovrebbe affrontare con il prossimo Papa.

Corriere 14.2.13
Alemanno scrive a Monti: evento straordinario, servono 5 milioni di euro
di Alessandro Capponi


ROMA — Il prezzo per una delle terrazze con vista sulla cupola di San Pietro? Per il tecnico della tv canadese, appollaiato lassù e già al lavoro, è «very expensive»: mille euro al giorno, del resto, è una cifra «molto cara» mica solo per lui. E però in questa piccola parte della città intorno al Vaticano — il rione Borgo Pio, via della Conciliazione, via delle Mura Aurelie — le dimissioni di Joseph Ratzinger e ancor di più il conclave che verrà, rappresentano un'occasione di guadagno: così chi possiede una terrazza con affaccio sulla basilica punta ad affittarla ai network televisivi arrivati da tutto il mondo. Per avere l'inquadratura giusta, durante i funerali di Giovanni Paolo II, una tv americana sborsò centomila euro. Con la crisi che c'è, oggi, in molti dicono che i prezzi siano scesi, ma evidentemente non molto. Anche perché l'afflusso di troupe di tutto il pianeta è costante, ininterrotto: le richieste d'accredito pervenute in ventiquattr'ore per il prossimo conclave sono seicento. Per domenica, sulla piazza per l'Angelus di Benedetto XVI, sono attesi centocinquantamila fedeli.
Anche il sindaco Gianni Alemanno, in una lettera al presidente del Consiglio Mario Monti, descrive l'eccezionalità del momento: «Signor Presidente — scrive Alemanno — le dimissioni dal Soglio di Pietro, annunciate dal Santo Padre Benedetto XVI, hanno avuto un rilievo mediatico planetario e generato una partecipazione e una vicinanza affettiva nei confronti del Pontefice di portata straordinaria. Tale attenzione e partecipazione si sono manifestate con la richiesta di posizionamento dei mezzi radio-televisivi da ogni parte del mondo e con l'afflusso di centinaia di migliaia di persone». Motivo, secondo Alemanno, per domandare aiuto al governo nazionale: «Non sfugge a nessuno che il carattere della straordinarietà dell'evento determina la necessità di dotare Roma di risorse e mezzi anch'essi straordinari. Per questo richiedo un suo autorevole intervento per l'emanazione di un apposito provvedimento che disponga la messa a disposizione di Roma Capitale dei mezzi e delle risorse necessarie a garantire il massimo dell'assistenza a tutti i pellegrini». Il fine, sostiene il sindaco, è «tutelare, nel miglior modo possibile, l'immagine dell'Italia nel mondo». La cifra stimata, per accogliere i pellegrini dal 28 febbraio fino alla proclamazione del nuovo Pontefice, è di 4,5 milioni.

l’Unità 14.2.13
Hamma Hammami
Portavoce ufficiale del Fronte popolare tunisino, amico del leader dell’opposizione assassinato il 6 febbraio a Tunisi
«In nome di Chokri, la Tunisia difende la rivoluzione»
di Umberto De Giovannangeli


«La verità non è materia di scambio. Non è barattabile con qualche poltrona. A esigere verità e giustizia sono il milione e mezzo di tunisini che hanno trasformato il funerale di Chokri Benaid in una imponente manifestazione a sostegno dei principi della rivoluzione jasmine. Chiediamo la costituzione di una commissione d’inchiesta indipendente sull’assassinio di Chokri e le aggressioni contro sindacalisti, intellettuali, giornalisti, artisti. Nel solo mese di gennaio 50 reporter hanno subito aggressioni di vario tipo. E quasi sempre la polizia è rimasta a guardare». Ad affermarlo è Hamma Hammami, portavoce ufficiale del Fronte popolare il blocco laico, riformista e di sinistra che ha subito messo alle corde la maggioranza ed Ennahda in particolare l’uomo che ha preso il posto del leader assassinato lo scorso 6 febbraio. Di Chokri Benaid, Hammami non era solo un compagno di partito, era soprattutto un amico suo e della famiglia. Condannato nel 1972 e 1995 per reati d’opinione considerati attentati alla sicurezza dello Stato, Hammami entrò in clandestinità nel 1998. L’anno seguente fu condannato a nove anni di reclusione per ribellione alle leggi repressive di Ben Alì. Nel 2002, opponendosi alle accuse, tornò in patria e venne arrestato. Quanto all’attuale governo, Hammami è perentorio: «Sono politicamente responsabili di questo odioso crimine». Nel giorno dello sciopero generale organizzato dall’Ugtt, il maggiore sindacato tunisino, un milione e mezzo di tunisini hanno partecipato ai funerali di Chokri Benaid. Partiamo da quel giorno. Cosa ha rappresentato?
«Ha rappresentato molte cose. Anzitutto, il tributo ad un uomo coraggioso, ad un leader che nonostante le minacce ricevute ha continuato a denunciare pubblicamente il tradimento della rivoluzione perpetrato da chi vuole trasformare la Tunisia in uno Stato teocratico, oscurantista. Per questo è stato assassinato. Lei è italiano, e nella storia del suo Paese vi sono stati politici assassinati dai fascisti perché avevano denunciato pubblicamente i crimini del regime...».
C’è chi, per questo, ha definito Benaid il «Matteotti tunisino».
«Un riferimento appropriato, che rende onore a Chokri e che, al tempo stesso, dà conto della situazione in cui versa il mio Paese. Quello di Benaid è un omicidio pianificato, eseguito da professionisti, che hanno goduto di coperture ai massimi livelli».
Torniamo a quella grande manifestazione. Del tributo ad una «martire per la libertà» si è detto. Ma cos’altro ha rappresentato?
«Quella manifestazione testimonia anche che il popolo vuole una “seconda rivoluzione”. La protesta coinvolge tutti gli strati sociali: la gente chiede pane e lavoro, libertà e giustizia sociale, uguaglianza e dignità. E non saranno le squadracce paramilitari degli islamisti a frenare la protesta».
Squadracce paramilitari. A chi si riferisce?
«Agli squadristi della Lega per la protezione della rivoluzione, di cui chiediamo lo scioglimento. Ma questo chiama in causa Ennahda (il partito islamista al potere, ndr). Tutti sanno che questi squadristi sono protetti da Ennahda. “Chiunque critica Ennahda può essere vittima di violenza”, aveva denunciato Benaid, il giorno prima di essere assassinato».
Il primo ministro Hamadi Jebali ha ribadito che «non vi è altra scelta che quella di formare un governo di transizione, indipendente dai partiti».
«Una proposta che si è subito scontrata con la volontà del partito di cui Jebali fa parte: Ennahda. Le minacce contro Belaid ed altri esponenti dell’opposizione sono ormai da tempo quotidiane, ma nessuno di quelli che doveva fare qualche cosa s’è mosso. Non è più il tempo di assistere in silenzio. Perché ieri c’è stato Lotfi Naguedh, oggi Chokri Belaid, e domani... già domani chis-
sà a chi toccherà (Lotfi Naguedh era un esponente di Nidaa Tounes ed è stato massacrato a bastonate, calci e pugni, a Tataouine, nell’assalto ad una sede sindacale da parte delle squadracce della Lega per la protezione della Rivoluzione, ndr)».
Da compagno di lotta e amico di lunga data, è stato lei ha dare l’ultimo saluto a Chokri Benaid, parlando alla immensa folla che si era riunita a Tunisi. «Non faremo marcia indietro, ma la Tunisia dovrà rimanere unita come tu volevi! Chokri, continueremo la lotta nel tuo nome». «È così. L’unità è fondamentale per difendere i principi della rivoluzione. Così come la determinazione a non arretrare di un passo di fronte alla violenza di un potere che usa tutti i mezzi, dall’intimidazione fino all’omicidio politico, pur di perpetuarsi. Non abbiamo lottato contro il regime corrotto e dispotico di Ben Ali per vedere instaurata una dittatura islamista».
Lei sottolinea la ricerca dell’unità...
«Quella che si è realizzata con lo sciopero generale il giorno del funerale di Chokri...».
Ma sul piano politica questa unità quale obiettivo prioritario dovrebbe porsi? «Quello di riscrivere una Costituzione fondata sui principi che sono stati alla base della rivoluzione del 14 gennaio. E su questa base andare a nuove elezioni per l’Assemblea costituente».

il Fatto 14.2.13
La Primavera velata è divenuta apartheid
Dai treni separati agli stupri durante le manifestazioni
Tante donne arabe ormai si pentono di aver partecipato alle rivoluzioni
“Si stava meglio sotto i vecchi regimi”
di Roberta Zunini


Da una settimana sui treni egiziani ci sono scompartimenti riservati alle donne. La motivazione non è chiara. C'è chi sostiene si tratti di una protezione contro le violenze sessuali, altri ritengono sia, almeno per ora, uno dei pochi risultati incontrovertibili della cosiddetta primavera araba: l'apartheid sessuale. Del mondo femminile. Siccome nella maggior parte dei paesi arabi teatri delle rivoluzioni di due anni fa, Tunisia ed Egitto in testa, le donne godevano degli stessi diritti degli uomini, ciò che sta accadendo sembra paradossale. E le donne arabe emancipate e di formazione laica sono sempre più preoccupate. Due giorni fa, sempre per rimanere in Egitto, è stata indetta una giornata contro le violenze sessuali che sono aumentate sensibilmente. Ci sono stati numerosi stupri intorno a piazza Tahrir ogni volta che la gente è scesa in piazza. Uno stratagemma per impedire alle donne di unirsi alle proteste e una conseguenza del clima di impunità che ruota attorno a qualsiasi tipo di violazione nei confronti delle donne.
MA LA SITUAZIONE È REGREDITA anche dal punto di vista legislativo e la Costituzione approvata lo scorso dicembre impoverisce addirittura i diritti delle bambine: si va dall'abolizione del minimo di 18 anni per il matrimonio delle ragazze, un fatto gravissimo che potrebbe riportare a galla l'incubo delle spose bambine, alla depenalizzazione delle mutilazioni genitali femminili. “Mi pento di aver partecipato a questa rivoluzione - dice una giovane artista egiziana che vuole rimanere anonima - ciò che abbiamo ottenuto è peggio di ciò che avevamo. Per noi donne c'erano molte più possibilità durante l'era Mubarak. È una delusione terribile e bisogna che ne prendiamo atto il più velocemente possibile”. Il problema è che il mondo femminile egiziano non è rappresentato politicamente. Le candidate elette per il parlamento sono state il 2% e nella Commissione di revisione della Costituzione solo il 6%. La condizione della donna è ancora tollerabile in Tunisia, “ma sentiamo la nostra libertà sotto minaccia perché i diritti di parità acquisiti fin dagli anni '60 non sono condivisi dalla nuova dirigenza. Pensi che un imam del Qatar che è venuto qui in Tunisia a predicare il Corano, ha cercato di convincere i fedeli che anche le bambine dovrebbero portare il velo ” dice la professoressa Soumaya Gharsallah, direttrice del museo nazionale, che ha studiato e insegnato presso le più importanti facoltà d'arte internazionali.
In Tunisia l'anno scorso i partiti islamici avevano cercato di inserire nella Costituzione una legge che riduceva le donne a soggetti “complementari” dell'uomo. Le proteste di piazza, che hanno visto la partecipazione anche di molti uomini, hanno però sventato questo triplo salto all'indietro. La Libia è ancora in una fase di grande instabilità per giudicare se le donne, che sono tornate nel paese per partecipare alla rivoluzione, vedranno riconosciuti i loro diritti e la piena libertà. Perché questa spesso non è garantita, prima che dal potere in carica, dalla famiglia e dall'entourage. Come avviene in Somalia, dove né gli shabaab (sorta di talebani in versione africana) né dittatori o signori della guerra sono in carica. Eppure qualche giorno fa, una donna è stata portata davanti al giudice perché aveva osato denunciare il suo stupratore.
Il timore è che i soldi delle potenze del Golfo, dove le donne non hanno alcun diritto, riescano a comprare la libertà delle nordafricane, delle egiziane, delle yemenite e maliane in cambio di aiuti economici al potere, come sempre gestito da uomini.

La Stampa 14.2.13
Israele, il prigioniero X un australiano del Mossad
Netanyahu ha provato a nascondere l’identità dell’uomo suicida nel 2010
Ben Zygler, suicida a 34 anni. Era sposato e aveva due figli
di Claudio Gallo


Dopo dieci mesi di ricerche, una trasmissione televisiva australiana ha gettato un esile fascio di luce su uno dei misteri più fitti e inquietanti di questi anni: il Prigioniero X, la maschera di ferro israeliana. Era un ebreo australiano di 34 anni l’uomo che neppure i suoi carcerieri conoscevano, tenuto in regime di totale isolamento, senza avvocati, senza visite, in spregio a tutte le leggi internazionali.
Nonostante ancora oggi la censura ufficiale proibisca ai media nazionali di parlare di lui, era trapelato che nel 2010 si era tolto la vita impiccandosi, nonostante fosse tenuto sotto sorveglianza 24 ore su 24. Poco tempo prima del suicidio, il parlamentare del partito di sinistra Meretz scrisse una lettera al procuratore generale Yehuda Weinstein chiedendo notizie del recluso: «Imprigionare in completo isolamento e totale anonimità è una cosa molto grave». Un alto funzionario assicurò il deputato che tutto era «sotto il controllo giudiziario».
Tre anni dopo la scoperta della prigione segreta nota come «Camp 1391», nel 2003, Israele aveva assicurato che non esistevano più detenzioni al di fuori degli standard giudiziari internazionali. Il Prigioniero X era rinchiuso nel penitenziario di Ayalon, che in un primo tempo ospitò anche Ygal Amir, l’assassino di Peres. Una prigione notoria per il detenuto che non c’era.
Il programma «Foreign Correspondent» dell’«Abc News» australiana ha rivelato l’altra sera che si chiamava Ben Zygler, aveva 34 anni e la doppia cittadinanza australiana e dello Stato ebraico. Aveva una moglie israeliana, due figli e lavorava per il Mossad, talvolta con i nomi di Ben Alon e Ben Allen. Quest’ultima identità è quella con cui sarebbe stato spedito il cadavere in Australia.
Sul motivo per cui l’hanno imprigionato con tanta crudeltà e segretezza non ci sono ipotesi se non l’ovvia osservazione che si tratterebbe di qualcosa legato alla sicurezza nazionale. La sua memoria è ancora oggi maledetta. Racconta «Haaretz» che martedì scorso il premier Netanyahu aveva convocato un incontro semi-segreto con i vertici dei media, giornalisti e proprietari. Voleva essere sicuro che sulla vicenda non uscisse una riga.
Richard Silverstein, un blogger americano, rivelò che il Prigioniero X era Ali Reza Asgari, ex generale dei Pasdaran iraniani, sparito a Istanbul, rapito o forse fuggito per vendersi ai servizi segreti occidentali. Ma Silverstein si era ricreduto: «Le mie fonti mi hanno ingannato, vogliono distogliere l’attenzione dalla vera identità del carcerato».
Nel 1983 era sparito allo stesso modo il chimico israeliano Marcus Kingberg, spia dei sovietici. A lui è andata meglio: dopo lunghi anni in galera sotto falso nome, oggi vive in Francia.

Repubblica 14.2.13
Il prigioniero che imbarazza Netanyahu
Australiano arruolato nel Mossad, si impicca in carcere
E il governo censura la notizia
di Fabio Scuto


GERUSALEMME — Il “prigioniero X” scuote a fondo lo Stato d’Israele, scatena una bufera di sospetti e accuse sul governo Netanyahu ed entra con passo pesante anche nell’area grigia dell’intelligence, dei servizi segreti, del Mossad, squarciando almeno in parte il segreto di Stato che fino a ieri sera aveva coperto il caso. Con il governo affannato a soffocare la notizia, confermata solo ieri, e la stampa in Israele, imbavagliata dalla censura, ma decisa a combattere la sua battaglia per libertà d’informazione. Il caso è acceso dalla tv australiana Abc che martedì ha rivelato che il “prigioniero senza nome” in un carcere israeliano di massima sicurezza, trovato impiccato nella sua cella nel 2010, era in realtà un ebreo australiano arruolato dal Mossad, uno 007 che aveva compito audaci missioni in Iran, Libano e Siria. Il premier israeliano ha cercato di impedire la diffusione della notizia convocando i proprietari e i direttori di giornali e tv per chiedere di non pubblicare informazioni «relative a un incidente molto imbarazzante per una certa agenzia del governo». Ma il caso del “prigioniero X” è arrivato ieri pomeriggio alla Knesset con le interrogazioni parlamentari dell’opposizione che — approfittando della loro immunità parlamentare — hanno aggirato la censura e chiesto spiegazioni al ministro della Giustizia presente in aula. Un minuto più tardi stampa, tv, blog, twitter e social network israeliani, “liberati dalla censura”, hanno finalmente potuto iniziare a raccontare la storia di Ben Zygier. Il prigioniero del carcere di massima sicurezza di Ayalon, detenuto per reati ignoti e confinato in isolamento totale, era tenuto d’occhio costantemente da telecamere di sicurezza. Nemmeno i secondini sapevano chi fosse o cosa avesse fatto, tranne che quella cella speciale era stata costruita per un precedente inquilino, l’assassino dell’ex premier Rabin. Un livello di sicurezza che fa pensare a reati gravissimi, al tradimento, forse un doppio-triplo gioco nello spionaggio con qualche Paese nemico. Fu ritrovato impiccato, un apparente caso di suicidio, nel dicembre 2010; la salma fu poi trasferita in segreto a Melbourne e sepolta in un cimitero ebraico.
Zygier, che in Israele si faceva chiamare Ben Alon, era arrivato da Melbourne nel Duemila a 24 anni, aveva sposato una donna israeliana e i due avevano due figli piccoli. Dopo il servizio militare, venne arruolato dal Mossad e grazie al suo passaporto australiano — ne userà diversi con diversi nomi — ha viaggiato in Iran, Libano e Siria, entrando “nel cuore del nemico” di Israele.
La “spy story” è ancora tutta da rivelare. Troppe nebbie e troppi misteri per Aluf Benn, direttore del quotidiano Haaretz.
«Il caso», scrive nel suo infuocato editoriale, «riflette la mentalità retrograda dei capi dello spionaggio israeliano, che pensano di vivere ancora nel secolo scorso con i segreti chiusi nelle casseforti del regime». Non è meno tenero il giornalista e scrittore Yossi Melman, specialista del mondo dello spionaggio: «Il governo, l’esercito, la censura devono rendersi conto che viviamo nel 21esimo secolo e non è più possibile proteggere certi segreti».

La Stampa 14.2.13
I sonnambuli asiatici
di Yoon Young-Kwan


Piaccia o meno ai politici e agli esperti dell’Est asiatico, le attuali relazioni internazionali della regione sono più simili alle politiche europee ottocentesche dell’equilibrio dei poteri che all’Europa stabile di oggi. Lo testimoniano il crescente nazionalismo in Asia Orientale, le dispute territoriali e la mancanza di efficaci meccanismi istituzionali per la cooperazione e per la sicurezza. Mentre l’interdipendenza economica tra Cina, Giappone, Corea del Sud e i membri dell’Associazione delle Nazioni del Sudest asiatico continua ad aumentare, le loro relazioni diplomatiche sono gravate da rivalità e diffidenza come quelle tra i Paesi europei nei decenni precedenti alla Prima Guerra Mondiale.
Caratteristica comune, allora come oggi, è lo spostamento del potere. Allora, il relativo potere della Gran Bretagna era in declino mentre quello tedesco era in crescita dopo l’unificazione tedesca nel 1871.
Allo stesso modo, almeno in termini di sviluppo economico, se non militare, gli Stati Uniti e il Giappone sembrano aver avviato un processo di declino rispetto alla Cina. Naturalmente, questo processo non è irreversibile: un’efficace leadership politica e riforme interne riuscite negli Stati Uniti e in Giappone, insieme con il fallimento della Cina nel gestire le pressioni politiche dal basso, possono ancora fermare questo spostamento di potere apparentemente inesorabile.
Grandi spostamenti di potere contraddistinguono le epoche in cui i principali leader politici potrebbero fare gravi errori di politica estera. Infatti, la cattiva gestione delle relazioni internazionali in tali momenti critici ha spesso portato a grandi guerre. Le potenze emergenti tendono a chiedere un ruolo più importante nella politica internazionale, quelle in declino tendono ad essere riluttanti ad adeguarsi e i politici nei ruoli chiave sono suscettibili di fraintendere le intenzioni dei leader di altri Paesi e di reagire in modo eccessivo alle loro azioni.
Storicamente, le potenze emergenti tendono ad sviluppare troppo presto un eccessiva fiducia in se stesse e questo le porta a comportarsi in modo imprudente, cosa che spaventa i loro vicini. Ad esempio, il Kaiser Guglielmo II congedò Otto von Bismarck dal Cancellierato nel 1890, meno di 20 anni dopo la formazione del Secondo Reich, e cominciò a distruggere la rete di alleanze che Bismarck aveva abilmente intessuto. La sua rozza diplomazia spaventò la Francia, la Gran Bretagna e la Russia, rendendo più facile per loro unirsi contro la Germania.
La nuova assertività diplomatica della Cina nel 2010 – nata a ridosso della peggiore crisi finanziaria dal 1930 – ricorda quella della Germania guglielmina. In entrambi i casi, l’insicurezza non è il risultato di una minaccia esterna, ma delle stesse azioni dei capi politici.
Alla fine del 2010, mi sono sentito in un certo senso sollevato quando un leader cinese di rilievo, il consigliere di Stato Dai Bingguo, ha annunciato che la Cina avrebbe aderito al percorso di uno sviluppo pacifico. Ma la retorica di alcuni cinesi, soprattutto in campo militare, per quanto riguarda il Mar Cinese Meridionale e altre rivendicazioni della sovranità cinese suggerisce che non tutti nella leadership del Paese sono impegnati con tutto il cuore in tale percorso. La misura in cui le politiche dal nuovo leader del Paese, Xi Jinping, terranno conto dell’insicurezza dei vicini della Cina – e abbandoneranno una ricerca di assoluta sicurezza per la Cina – sarà una delle variabili chiave che influenzeranno la sicurezza dell’Est asiatico negli anni a venire.
La politica estera americana sarà un altro fattore strategico. Se gli Stati Uniti perseguiranno un approccio prevalentemente conflittuale, la politica dell’Asia orientale inevitabilmente si polarizzerà proprio come nell’Europa multipolare del XIX secolo si formò un ordine sempre più bipolare di pari passo con le crescenti tensioni tra la Germania e la Gran Bretagna. Il cosiddetto «pivot verso l’Asia» dell’America potrebbe essere necessario dal suo punto di vista, date le preoccupazioni dei suoi alleati asiatici sulla Cina. Ma, se gli Stati Uniti non vogliono in Asia un confronto stile Guerra Fredda, devono fare di più per cercare di coinvolgere la Cina nella formazione di una struttura praticabile per la sicurezza regionale.
Un approccio di confronto degli Stati Uniti nei confronti della Cina, del resto, comporterebbe un ulteriore fattore destabilizzante: il Giappone potrebbe diventare molto più audace del necessario nella sua politica estera. Dopo che Guglielmo II non rinnovò l’accordo con la Russia nel 1890, le relazioni bilaterali peggiorarono e questo fornì al suo alleato, l’Austria, il via libera diplomatico per trattare con la Serbia – e, cosa più importante, con i patroni russi della Serbia. Così, Wilhelm contribuì involontariamente allo scoppio della guerra nel 1914.
Ci sono già alcuni segnali preoccupanti di un errore di calcolo giapponese. Il nuovo primo ministro giapponese, Shinzo Abe, ha detto, così è stato riferito, che sta pensando di rinunciare alla dichiarazione di Kono del 1993, che ammetteva che i militari giapponesi avevano violentato e ridotto in schiavitù donne asiatiche ed europee durante la Seconda guerra mondiale. Se Abe lo farà, le relazioni giapponesi con la Corea del Sud e la Cina subiranno un grave danno.
Non è nell’interesse di nessuno, Giappone incluso, dato che i giapponesi condividono molti problemi di sicurezza con il Sud Corea. Così la diplomazia degli Stati Uniti dovrà essere abile. Deve alleviare il senso d’insicurezza del Giappone per la crescita della Cina e persuadere i nuovi leader giapponesi a comportarsi con prudenza astenendosi da comportamenti eccessivamente nazionalisti. Francamente, con due decenni di stagnazione economica già alle spalle, il Giappone ha cose più importanti a cui pensare.
In contrasto con i loro sforzi multilaterali in Europa, dopo la Seconda guerra mondiale gli Stati Uniti hanno creato in Asia una rete di sicurezza a raggiera, formata da alleanze bilaterali USA-centriche. Un risultato è che non è mai stato stabilito nessun canale diretto per la cooperazione per la sicurezza tra i Paesi asiatici e ciò ha contribuito al basso livello di fiducia in Asia orientale, anche tra gli stretti alleati degli Stati Uniti come il Giappone e la Corea del Sud. Ed è proprio qui che la Corea del Sud, un alleato di medie dimensioni degli Stati Uniti, sarà in una posizione migliore rispetto alle maggiori potenze del Nordest asiatico a fungere da facilitatore.
C’è molto da imparare dai fallimenti diplomatici che hanno portato alla Prima guerra mondiale. Una nuova storia di Christopher Clark, che parla del preludio diplomatico a quella guerra s’intitola, molto opportunamente, I sonnambuli. Il problema oggi per gli Stati Uniti e i leader dell’Asia orientale è se si sveglieranno e svilupperanno efficaci meccanismi multilaterali di cooperazione alla sicurezza prima di infliggere a se stessi un grave danno.

Ministro degli Esteri della Corea del Sud dal 2003 al 2004, è attualmente professore di Relazioni internazionali alla Seoul National University e visiting professor alla Libera Università di Berlino.
Copyright: Project Syndicate, 2013. www.project-syndicate.org Traduzione di Carla Reschia

Repubblica 14.2.13
La città della bomba
Viaggio a Natanz, dove in un bunker sotterraneo l’Iran starebbe fabbricando l’ordigno nucleare che allarma il mondo
di Vanna Vannuccini


NATANZ (IRAN) Un rombo sordo arriva dalla strada. Convogli militari attraversano la periferia est della città, invisibili nella sera senza luna. I raggi intermittenti dei fari delle torri di controllo entrano dalla finestra, si riflettono sul soffitto del ristorante. Un cameriere chiude le tende. Natanz, con i suoi 12mila abitanti, si trova ai piedi di Kuh-e-Karkas, la montagna degli avvoltoi; rinomata per il clima, i frutteti ricchi dell’acqua che scende dal monte, e un antico monastero sufi. Molte famiglie di Teheran hanno qui case per il fine settimana. Ci si arriva in un paio d’ore, scendendo verso sud in direzione di Isfahan attraverso il deserto. “Paradiso di montagna” era l’appellativo con cui Natanz era conosciuta. Ma oggi è diventato un altro: città atomica. Quando i capi di governo del mondo discutono di un possibile attacco militare contro il programma atomico iraniano intendono soprattutto Natanz. È Natanz il cuore del programma.
Di fronte alla città, a due passi dall’autostrada, circondato da rotoli di filo spinato e protetto da torri di controllo e fari girevoli, c’è l’impianto per l’arricchimento dell’uranio con il suo Fep, che produce uranio arricchito al 5%, e il suo Pfep, un impianto pilota che arricchisce al 20% (quest’ultimo, sostiene il governo iraniano, servirà per il reattore sperimentale di Teheran utilizzato per la medicina nucleare).
Distruggere Natanz non sarebbe facile. L’impianto copre un’area di una ventina di chilometri quadri ed è costruito otto metri sotto terra, circondato da un muro di cemento armato spesso quasi tremetrieprotettoall’internoda un altro muro. Nel 2008 una foto fece il giro del mondo — quella di Ahmadinejad in camice bianco che attraversa il reparto delle centrifughe (di vecchio modello), seguito dal ministro della Difesa (un po’ incongruo in un impianto per usi civili) — e fornì involontariamente agli occidentali qualche chiave in più sull’impianto.
Da fuori si intravedono solo i cannoni antiaerei messi a difesa dell’impianto. «Se arrivano gli aerei israeliani ne faranno fuori parecchi » dice l’oste in un ristorante cittadino. La maggioranza dei clienti del ristorante pensa che il governo dovrebbe trattare e non mettere a rischio il paese; alcuni invece sono stufi che l’Occidente spadroneggi e rifiuti di riconoscere un diritto dell’Iran. Quando nel 2004 le centrifughe di Natanz entrarono in funzione, ci si preoccupò soprattutto perché sarebbero venuti meno turisti, racconta l’oste. Così infatti è stato. Non solo i turisti stranieri, che ormai sono
scomparsi dall’Iran (un paese per patrimonio culturale e artistico fra i primi nel mondo, al 138esimo posto per numero di visitatori). Anche i teheranesi hanno smesso di venire. Ma poi l’impianto nucleare ha avuto bisogno di forza lavoro, i negozi hanno decuplicato gli affari, il prezzo di case e terreni è salito alle stelle. «Ormai il destino di Natanz è legato all’impianto nucleare» dice uno dei clienti. Se il regime voglia costruire davvero una bomba o solo produrre combustibile per l’energia elettrica lui non lo sa, ma anche nel primo caso non avrebbe tutti i torti: «La bomba ce l’ha Israele e perfino il Pakistan che per anni ha ospitato Bin Laden. Ma, incredibilmente, il mondo ha paura solo dell’Iran!».
Le trattative sul dossier nucleare riprenderanno il 25 febbraio in Kazakistan. Oggi gli ispettori dell’Aiea sono a Natanz per la terza volta in tre mesi, dopo che a lungo le due parti si erano accusate a vicenda di bloccare il negoziato. L’inviato iraniano Ali Asghar Soltanieh dice di aver raggiunto un accordo con l’Agenzia su «alcuni punti» ma l’intesa resta sempre lontana. La verità è che nessuno vuol rinunciare alle proprie precondizioni. Per l’Occidente, l’Iran dovrebbe fare prima di tutto quello che i diplomatici chiamano “stop, ship, shut”: bloccare l’arricchimento al 20 % dell’uranio, spedire all’estero quello che hanno già arricchito e chiudere un grosso impianto. Per l’Iran, l’Occidente dovrebbe prima di tutto ridurre sostanzialmente le sanzioni (non offrendo solo “noccioline contro diamanti”, come gli iraniani chiamano l’ultima offerta occidentale) e riconoscere il diritto dell’Iran ad arricchire l’uranio. Nel 2010 un compromesso sembrava raggiunto, ma Ahmadinejad fu immediatamente sconfessato a Teheran: la politica iraniana è così polarizzata che i rivali del presidente preferirono bloccare un’intesa di cui Ahmadinejad avrebbe avuto il merito.
«L’Iran vuole che l’agenda nel nuovo round di colloqui menzioni esplicitamente le sanzioni e il diritto ad arricchire l’uranio, dopo di che è disposto a trattare su tutto» mi ha detto a Teheran il portavoce del governo Ramin Mehmanparast. Il ministero degli Esteri ha fatto sapere di essere disposto a firmare “un accordo complessivo” in questo senso. Essere singolarizzati, essere privati di un diritto che hanno tutti i firmatari del Tnp è inaccettabile per la Repubblica Islamica. Nessuno dei suoi dirigenti, nemmeno i riformatori dell’Onda Verde se avessero voce in capitolo, potrebbe assumersi politicamente questo vulnus dell’orgoglio nazionale. Il programma nucleare è considerato lo strumento per entrare nella modernità. Ma trasporta con sé tutti i pregiudizi e le paure di un paese che non si è mai scrollato di dosso il peso di un passato in cui le grandi potenze facevano il bello e il cattivo tempo. Gli iraniani hanno distillato questo passato in due concetti: la “perfidia” occidentale e le virtù cardinali dell’autosufficienza e del rispetto di sé.
Alla fine del 2009, gli scienziati che lavoravano a Natanz si accorsero che le centrifughe avevano cominciato a girare fuori controllo e ad autodistruggersi. Sembra che nel mezzo della notte alcuni computer cominciassero a emettere a tutto volume le note di
Thunderstruck, la canzone degli AC/DC, un gruppo rock degli anni 90. È seguita una vera e propria guerra fatta di virus, di attentati a scienziati, di esplosioni misteriose. L’Iran smentisce categoricamente di volere la bomba, che definisce «un imperdonabile peccato contro Dio» (così la Guida suprema Khamenei l’anno scorso al summit dei Paesi non allineati). Ma manda continuamente segnali nella direzione opposta: in questi giorni ha attivato a Natanz centrifughe Ir-2 di nuova generazione, che permettono di arricchire l’uranio a una velocità due volte e mezzo superiore ai vecchi modelli. I sospetti cominciarono qui: nel 2002 il Mek, un gruppo di opposizione molto controverso, denunciò che Teheran stava segretamente costruendo due impianti nucleari a Natanz dove il governo iraniano affermava di voler invece dissodare il deserto per renderlo coltivabile. Nel 2003 tre ministri degli Esteri europei volarono a Teheran e riuscirono a ottenere una pausa nel programma di arricchimento. Ma gli Stati Uniti allora erano interessati solo a un cambio di regime. Rovesciare la Repubblica islamica, con cui non avevano relazioni diplomatiche da dopo la rivoluzione, era la loro priorità: «Gli Usa non faranno mai nulla che possa accrescere la legittimità degli ayatollah» disse Condoleezza Rice agli europei. Il negoziato si bloccò.
Un compromesso è ancora possibile — oggi lo pensa anche l’Amministrazione americana. Per esempio un primo passo potrebbe essere convertire l’uranio arricchito al 20% in piastre metalliche. Anche la Cia non ha trovato prove che l’Iran voglia costruire l’arma nucleare, solo una “ambiguità strategica”. Come se gli iraniani dicessero: potremmo, se volessimo; e dipende da voi se un giorno vorremo. Il regime si vede impegnato in una lotta per la sopravvivenza. Se possibile senza bomba. Se indispensabile con. Il 2013 sarà l’anno decisivo, dicono tutti a Natanz.

Repubblica 14.2.13
Gli ex capi dello Shin Bet, intervistati nel film “The Gatekeepers”
“Ma una guerra è inutile” la verità dei servizi israeliani
di Antonio Monda

NEW YORK Continuare a perseguire azioni di guerra sarebbe per Israele un grave errore: è quello che sostengono gli ultimi sei direttori dello Shin Bet, l’agenzia israeliana per la sicurezza interna, che hanno accettato di farsi intervistare per la prima volta di fronte ad una telecamera in “The Gatekeepers” (I Guardiani) un documentario che racconta i retroscena di molti episodi tragici degli ultimi quaranta anni, e consente di comprendere la mentalità degli uomini preposti ad un compito drammatico e quasi sempre violento, ma di fondamentale importanza per l’esistenza stessa del Paese.
Nel documentario il regista Dror Moreh lascia parlare i suoi testimoni senza manipolare le immagini o aggiungere commenti, ma lo straordinario impatto emotivo ha suscitato enormi polemiche, alle quali il regista ha reagito dichiarando che per Israele l’estrema destra è più pericolosa della bomba dell’Iran. Per realizzare “The Gatekeepers”, candidato agli Oscar come miglior documentario, ha cominciato con l’intervistare Ami Ayalon, attualmente deputato del partito laburista, il quale ha convinto gli altri cinque ex-direttori a partecipare al progetto. I testimoni parlano con assoluto distacco, raggiungendo un effetto raggelante: si va dal racconto dell’assassinio di Rabin alla prima Intifada, dall’esecuzione di pericolosi terroristi al tentativo fallimentare di eliminarne altri, causando lutti nella popolazione civile. Gli indubbi risultati ottenuti, a cominciare da un calo drastico di attentati, si scontra con i metodi messi in atto, e le testimonianze ribadiscono sia l’impossibilità di fare altrimenti che la consapevolezza che l’uso della violenza non possa mai portare una pace reale a duratura: uno dei protagonisti teme di esser diventato «più crudele» senza per questo aver risolto il problema. «Non parlare ai nostri nemici è un lusso per Israele - ammette un altro dei “Guardiani” dobbiamo parlare con tutti anche con Hamas e con l’Iran. Non abbiamo alternative ». I titoli apposti ad ogni sezione del film rinforzano questa sensazione di gelo e disincanto: «Niente strategia, solo tattica»; «Dimentica la morale»; «Un terrorista è per un’altra persona un combattente per la libertà»; «Danni collaterali » e «La vittoria è vederti soffrire».
Ripetutamente i capi dello Shin Bet raccontano come abbiano fatto da capro espiatorio per scelte che venivano direttamente dai politici, e sono molti i passaggi sconvolgenti: il linciaggio dei terroristi responsabili del dirottamento di un autobus, il racconto di come si metta in conto il sacrificio di vittime innocenti, un attentato sventato in extremis e, soprattutto, il clima irrespirabile che circondava Rabin dopo l’accordo di pace con Arafat. Agghiaccianti le immagini di un finto funerale del premier, organizzato quando era ancora in vita, che vide la partecipazione di Benjamin Netanyahu ed una folla scatenata. A questo riguardo il regista nega di considerare l’attuale premier come mandante, ma imputa al suo partito una grave responsabilità morale. Ma gli attacchi a Netanyahu da parte dei Gatekeepers non mancano: «Ossessionato dall’Iran e inaffidabile», lo ha definito in un’intervista per il lancio del film Yuval Diskin, numero uno dello Shin Bet fino al 2011.
Le scelte più tragiche sono motivate con la salvezza dello stato e del popolo di Israele, ma anche nei momenti di successo prevale il pessimismo: alla luce di quanto avvenuto in tutti questi anni, Ami Ayalon sostiene che «si rischia di vincere la battaglia ma perdere la guerra» e cita con amarezza Clausewitz: «La vera vittoria è una migliore realtà politica».

La Stampa 14.2.13
Riapre a Firenze la Cappella Rucellai con il tempietto di Leon Battista Alberti


Riapre al pubblico la Cappella Rucellai a Firenze, scrigno trecentesco che custodisce uno dei capolavori di Leon Battista Alberti: il Tempietto del Santo Sepolcro. Cappella e Tempietto sono stati restaurati con il sostegno della Fondazione Marino Marini di Pistoia e il pubblico potrà visitarli transitando dal museo contemporaneo Marino Marini, adiacente, grazie all’apertura di un passaggio. La Cappella Rucellai, che fa parte della Chiesa di San Pancrazio, proprietà della Curia di Firenze, manterrà ovviamente la sua destinazione di luogo sacro destinato al culto, ma con la riapertura sarà maggiormente visitabile, purché lo si faccia negli orari del museo. Realizzato nel 1467, copia in scala di quello di Gerusalemme, il Tempietto di Leon Battista Alberti è noto agli studiosi d’arte di tutto il mondo. Nel 1808 la cappella fu separata dalla chiesa che venne sconsacrata e trasformata, per editto napoleonico, in una sala d’estrazione della Imperiale Lotteria di Francia, e da allora il varco di collegamento fu murato. Per festeggiare questo evento, il 16 e 17 febbraio, dalle ore 10 alle ore 19, l’ingresso al Museo Marino Marini e al Sacello dei Rucellai sarà gratuito al pubblico.

Repubblica 14.2.13
La verità è un errore
Parla il filosofo Carlo Sini mentre viene ripubblicata la sua opera che mette in discussione il pensiero occidentale
“Arrendiamoci, non possiamo conoscere la realtà”
intervista di Antonio Gnoli


Ho qualche dubbio che i filosofi – come si sente dire in giro – conoscano i sentieri della felicità e ci accompagnino per mano lungo quegli ameni percorsi. Ma un tale sospetto non deve indurre a gettarci tra le braccia dei torturatori del concetto, dei paranoici del pensiero, attenti a che nulla del reale sfugga alla loro occhiuta attenzione. La filosofia ha molto di problematico, di sfuggente, soprattutto oggi in cui le certezze sono messe in discussione alla radice. E a pensarlo, fra gli altri, con un percorso molto originale, è Carlo Sini che sta per compiere 80 anni. Allievo di Emanuele Barié ed Enzo Paci, per decenni professore di teoretica alla cattedra di Milano, Sini sta pubblicando per Jaca Book la sua intera opera. Dove ha sparso i suoi interessi: nel mondo antico, che è all’origine – almeno in Occidente – del passaggio denso di conseguenze dall’oralità alla scrittura; in quello moderno sovrastato da Spinoza ed Hegel e infine in quello contemporaneo dal quale affiorano i nomi di Husserl, Peirce e Wittgenstein.
«È un quadro veritiero, fatalmente approssimativo quello che lei riassume. Ma in fondo l’ultima parola non è mai la nostra. Diceva Peirce: il significato della mia vita è affidato agli altri».
Ma gli altri possono avere molti pregiudizi.
«Il che prova che la verità non è mai qualcosa di definitivo, siamo sempre in errore. In cammino. Non a caso io parlo di “transito della verità”».
A nessuno piace l’errore. La filosofia greca e poi il cristianesimo ci hanno insegnato a diffidare dell’errore e del peccato, suggerendo i modi per evitarli.
«C’è in queste filosofie o visioni del mondo un’idea di perfezione che ha provocato danni e fraintendimenti. E tutto ciò è nato dalla pretesa di affidare alla scrittura il ruolo di cardine su cui l’Occidente ha fondato il proprio sapere».
Prima i saperi si costituivano oralmente. Poi arriva la scrittura. Tutto diventa più semplice. Perché diffidarne?
«Non è una diffidenza, ma la consapevolezza che l’introduzione della scrittura modifica la nostra percezione del mondo. Il Logos, di cui parlano i greci, non potrebbe sussistere senza la scrittura».
Perché?
«Per il semplice motivo che ogni scrittura ha un supporto che è fuori dal corpo di chi parla. La scrittura – diversamente dall’oralità – ci pone di fronte a un sapere oggettivo che va interpretato. Quando è la voce a trasmettere il sapere, non c’è separazione o distanza tra ciò che diciamo e il mondo che lo accoglie e di cui facciamo parte. Nella scrittura invece va ravvisata quella radice oggettiva che si svilupperà con la scienza».
Questo è un passaggio ulteriore.
«È una continuità. Senza la scrittura alfabetica e matematica – che sono scritture per tutti – non avremmo avuto l’universale e quindi la scienza. L’universale – che i greci hanno chiamato Logos – ha determinato il corso del sapere occidentale. È stata la nostra forza, la nostra potenza, ma anche la nostra superstizione e il nostro equivoco».
Capisco la potenza, ma perché superstizione ed equivoco?
«Per la semplice ragione che sia la scienza che il senso comune pensano che ci sia un mondo fuori di noi che possiamo conoscere».
Effettivamente è così: da un lato la realtà dall’altro noi che l’avviciniamo e la conosciamo. Se vuole, molto rozzamente, siamo in una delle tante versioni del realismo.
«Posizione ingenua. Perché o noi facciamo parte di quella realtà oppure è illusorio
pensare di conoscerla».
Eppure, se non riuscissi a distinguermi dalla realtà esterna, allo stesso modo, non potrei conoscerla.
«Obiezione giusta. Nel senso che noi siamo parte della realtà pur distinguendoci da essa. Siamo parte della verità ma non siamo la verità».
Un bel paradosso. Allora cosa siamo?
«Siamo nella differenza del sapere, o meglio siamo in ciò che chiamo “l’essere in errore”. Verità ed errore sono in qualche modo due facce della stessa medaglia ».
Anche la scienza partecipa della verità e dell’errore. Ne fa esperienza, nel senso che corregge continuamente l’errore.
«Il lavoro della scienza è meraviglioso, va bene così, ne beneficiamo tutti. Sarebbe insensato rifiutare la scoperta di una cura contro il cancro o condannare un treno perché copre distanze lunghe in tempi sempre più brevi. Altra cosa è l’idea che gli scienziati per lo più si fanno del loro lavoro. Qui prevale quello che Husserl chiamava il pregiudizio “naturalistico”. Ossia il riferimento ingenuo e inconsistente a un misterioso mondo che è “là fuori” e a un ancor più misterioso “qui dentro”».
Lei, insomma, mette in discussione il modo tradizionale di concepire il dentro e il fuori, il soggetto e l’oggetto, la realtà e la coscienza. Dove collocherebbe tutto ciò?
«Nella vita che si svolge e che si traduce negli innumerevoli archivi dell’accaduto, i quali ricompongono di continuo il passato in nuovi archivi e mappe per il futuro».
Vedo che usa la parola “archivio”. Immagino che non sia solo il deposito delle conoscenze al quale attingiamo.
«È qualcosa di più strategico, è il modo di venire alla luce della verità pubblica».
I filosofi hanno a volte il vizio di rispondere a una complicazione con una complicazione ulteriore. Cos’è la verità pubblica?
«È quella, per esempio, che in questo momento io e lei pratichiamo in questa conversazione».
Una conversazione che al lettore potrà apparire troppo tecnica.
«Un margine di oscurità è preferibile a insulse certezze. E poi distinguerei tra competenza e sapere, anche se tra loro sono connessi. Una competenza analitica la posso apprendere anche da un computer opportunamente programmato; il sapere in senso complessivo non può invece fare a meno del coinvolgimento delle emozioni corporee profonde. Si tratta di creare un’intesa condivisa, cioè anche pubblica o comune».
Ciò che è pubblico è anche esposto al fraintendimento, al rumore mediatico, al sentire massificato.
«Che cosa sia stato e sia nel profondo il “secolo della masse” – l’espressione deriva da Sorel – è ancora una domanda attuale. Non abbiamo un pensiero all’altezza del problema, io credo. Che cosa significa fare politica, fare cultura, e quindi fare anche filosofia, in un tempo globalizzato, massificato, mercificato e via dicendo, non l’ha chiaro nessuno. La fiumana trascina le nostre antiche barche, ormai senza governo».
Appellarsi al passato o alla tradizione?
«Mi sembra evidente che la nostra grande tradizione storico-culturale si è formata in società così differenti dall’attuale che la pretesa di travasare in essa i nostri contenuti e i nostri stili di pensiero si rivela fatalmente utopica».
Propone una variante della filosofia della crisi?
«No, ma occorre prendere atto della crisi se la si vuole affrontare. Direi perciò che l’evidente crisi del modello capitalistico va in parallelo con la crisi di ciò che un tempo si considerava alta cultura. Il liberalismo politico e il liberalismo economico sono falliti nei loro propositi esattamente come la scuola pubblica e l’universale alfabetizzazione. Non possiamo rinunciarvi perché non conosciamo modelli più efficienti o più realistici, ma non ne deriviamo affatto quel benessere per tutti e quella diffusa formazione critica e liberatrice che erano attesi».
Suggerisce la rassegnazione?
«Suggerisco la consapevolezza. Ogni civiltà è destinata a tramontare: “Della civiltà non rimarrà che un cumulo di macerie e di cenere, ma sopra le ceneri aleggerà lo spirito”, lo ha detto Wittgenstein. Ci troviamo in mezzo a un grande sommovimento che ci sovrasta e ci inquieta. Il nostro compito è rimettere in gioco la verità. Disincagliarla dal dogmatismo. Non conosco modo migliore per riprendersi il futuro».

Carlo Sini è nato nel 1933 La sua opera viene ora ripubblicata da Jaca Book

Repubblica 14.2.13
L’infallibilità con la scadenza
di Vito Mancuso


IERI il portavoce della Sala Stampa Vaticana, il gesuita padre Lombardi, ha dichiarato che dalla sera del 28 febbraio prossimo Joseph Ratzinger non sarà più infallibile. Ora, se è già difficile capire come un essere umano possa giungere a essere infallibile, forse ancora più difficile è comprendere come possa all’improvviso cessare di esserlo. È stato però lo stesso padre Lombardi a chiarire bene la questione.

E ha sottolineato che l’infallibilità “è connessa al ministero petrino, non alla persona che ha rinunciato al Pontificato”. L’attuale pontefice cioè è infallibile in quanto papa Benedetto XVI, perché, da papa, gode della particolare grazia legata al suo stato di Romano Pontefice, che la teologia chiama precisamente “grazia di stato”. Non è per nulla infallibile invece in quanto individuo di nome Joseph Ratzinger, il quale, da uomo come noi, può sbagliare nelle cose ordinarie della vita, per esempio nei giudizi sulle persone (e non penso ci possano essere dubbi sul fatto che su qualcuno dei collaboratori non abbia sempre visto giusto), nei giudizi po-litici, e persino in quelli biblici e teologici. Ratzinger era del tutto consapevole di tutto ciò, visto che scrisse nel suo primo volume su Gesù che “ognuno è libero di contraddirmi”, e che cosa spinge un papa a dire che ognuno è libero di contraddirlo (persino quando scrive su Gesù!), se non precisamente la consapevolezza della sua umana possibilità di sbagliare? Ma se le cose stanno così, in che cosa precisamente consiste l’infallibilità papale e da dove viene?
L’infallibilità che spetta al Romano pontefice è il penultimo dei dogmi dichiarati dalla Chiesa cattolica. Venne proclamato dal Concilio Vaticano I con la Costituzione dogmatica
Pastor aeternus del 18 luglio 1870, in un’Europa che il giorno dopo avrebbe visto lo scoppio della Guerra franco-prussiana tra il Secondo Impero francese e il Regno di Prussia e in una Roma che quasi già preavvertiva l’arrivo delle truppe piemontesi pronte a dare l’assalto alla capitale dello Stato pontificio. Il papa regnante era Pio IX, che sei anni prima aveva pubblicato una vera e propria dichiarazione di guerra al mondo moderno, il famoso Sillabo ossia raccolta di errori proscritti. Ad essere assediata quindi, prima ancora che lo fosse la capitale dello Stato pontificio, era la mente cattolica, che assisteva all’inarrestabile processo che l’andava privando di quel primato morale e spirituale che deteneva da secoli. Si spiega così il desiderio di accentramento attorno alla figura del papa e del suo primato da cui scaturì il dogma dell’infallibilità pontificia. Esso dichiara che il Romano pontefice, quando parla ex cathedra, cioè quando definisce una dottrina in materia di fede e di morale, gode di infallibilità. E che per la fede cattolica non si tratti di un semplice optional, ci ha pensato il Vaticano I a renderlo chiaro: “Se poi qualcuno, Dio non voglia!, osasse contraddire questa nostra definizione: sia anatema”. Anatema, per chi non lo sapesse, è sinonimo di scomunica.
Dal 1870 a oggi il dogma dell’infallibilità è stato usato solo una volta, per la precisione da Pio XII nel 1950 quando proclamò il dogma dell’Assunzione in cielo della Beata Vergine Maria in corpo e anima. Ma nonostante l’uso parsimonioso, la questione dell’infallibilità divenne rovente lo stesso a causa del celebre teologo svizzero Hans Küng che, precisamente per aver criticato l’infallibilità pontificia con un libro che fece epoca dal titolo Infallibile? Una domanda (1970), venne privato da Giovanni Paolo II della qualifica di teologo cattolico.
È credibile oggi un dogma come quello dell’infallibilità papale? A mio avviso esso finisce piuttosto per allontanare dal sentimento religioso. Io penso infatti che per la coscienza sia la stessa nozione di infallibilità a risultare oggi improponibile, quando le stesse scienze esatte si dichiarano consapevoli di presentare dati sempre sottoposti a possibile revisione e come tali dichiarabili solo “non falsificati” e mai assolutamente veri. Viviamo in un’epoca in cui la stessa nozione teoretica di verità risulta poco credibile, tanto più se si tratta di verità assoluta, dogmatica, indiscutibile. Ratzinger lo sa bene, e non a caso da tempo accusa quest’epoca di “relativismo”, ma non è colpa di nessuno se le cose sono così, è lo spirito dei tempi che si muove e si manifesta nelle menti dopo un secolo
qual è stato il ’900, e occorre prenderne atto se si vuole continuare a parlare al mondo di oggi.
Anche alla luce del fatto che un papa, Onorio I, venne dichiarato eretico dal concilio ecumenico Costantinopolitano III, Küng proponeva di sostituire a infallibilità il concetto di indefettibilità, intendendo dire con ciò che la questione sottesa all’infallibilità non riguarda la ragione teoretica, ma la volontà, “il cuore” come direbbe Pascal, ovvero che la Chiesa non verrà mai meno al compito bellissimo di essere fedele al suo Signore e al primato del bene e dell’amore che ne consegue. A me pare una proposta più attuale, più umile, più evangelica.

Repubblica 14.2.13
Padre Lombardi: “Virtù connessa con il ruolo, niente più assistenza dello Spirito Santo”
Con la rinuncia via anche il dogma dell’infallibilità
“Solo il pontefice in carica non sbaglia mai”


CITTÀ DEL VATICANO — Chi rinuncia al Pontificato — come nel 1294 fece Celestino V e, come farà il 28 febbraio 2013, Benedetto XVI — oltre a perdere tutte le prerogative papali, non sarà più dotato del dono dell’infallibilità in materia di fede così come deciso dal Concilio Vaticano 1 indetto da papa Pio IX nel 1870. Papa Ratzinger, quindi, continuerà a essere uno dei più grandi teologi contemporanei, non cesserà di essere un prolifico scrittore, ma non sarà più “infallibile” in materia di verità di fede e di
morale. È uno dei tanti nuovi aspetti a cui andrà incontro Joseph Ratzinger, quando non sarà più il capo supremo della Chiesa universale alle ore 20 del 28 febbraio. La spiegazione sulla fine dell’infallibilità ratzingeriana è stata fornita ieri da padre Federico Lombardi. Il portavoce, rispondendo a un giornalista, ha detto che «come la teologia insegna ci sono situazioni, rare, in cui si può parlare di infallibilità del Papa, ma essa è connessa al Ministero Petrino, cioè a questo particolare servizio alla Chiesa esercitato dal Papa in carica, non alla persona che ha rinunciato al Pontificato». «L’infallibilità è connessa al ministero» e Ratzinger, spiega padre Lombardi, «non avrà più quest’assistenza particolare dello Spirito Santo». Il dogma dell’infallibilità fu proclamato nel 1870 con la costituzione Pastore Aeternus nella quale si sancisce che quando il Papa parla ex Cathedra in materia di fede non può errare perché ispirato direttamente dallo Spirito Santo.
(o. l. r.)

Repubblica 14.2.13
Il mito antico della rinuncia
Con il suo atto il “dictator” romano ha creato il paradigma del disinteresse e dell’amore per la patria
Un eroe universale, tanto che in America gli hanno dedicato una città
di Maurizio Bettini


Agli inizi del VI secolo a. C. Atene, preda di gravi tumulti, decise di affidarsi a un solo uomo: Solone. Egli fu nominato arconte, arbitro e legislatore, una posizione che gli permise di dare alla città leggi destinate a durare nei secoli. Ma non tutti i contemporanei le apprezzarono. Non passò giorno infatti senza che vi fossero rimostranze, tanto che Solone decise di rinunziare alla carica. Dichiarò che voleva fare un viaggio e chiese alla città un congedo di dieci anni. Immaginava che nel frattempo gli Ateniesi si sarebbero abituati alle sue leggi — non fu così, via lui prese il potere Pisistrato e ad Atene fu instaurata la tirannide. Ma non è questo che interessa, è piuttosto il modo in cui Solone lasciò il potere. Egli credeva fortemente nell’uguaglianza, per questo se ne andò come sarebbe potuto andarsene chiunque altro: imbarcandosi su una nave, senza né cerimonie né dichiarazioni ufficiali.
Ed eccoci a Cincinnato. Tutti ricordano la scena dei legati del Senato che si recano da lui per offrirgli la carica di dittatore. Lo trovano che sta arando il proprio campo, e prima di dar loro ascolto egli chiede alla moglie di portargli la toga. La situazione è drammatica, Equi e Sabini minacciano la città e c’è bisogno di un dictator.
Cincinnato lascia l’aratro, assume la dittatura, che gli conferisce un potere praticamente
assoluto, e porta a termine la propria missione. Dopo di che, passati appena sedici giorni, e nonostante fosse stato nominato dittatore per sei mesi, egli abbandona i suoi poteri e torna ad arare. Questo gesto lo trasformerà in un paradigma di disinteresse e amore per la patria — tanto che gli americani, dopo la Rivoluzione, decideranno di dedicargli perfino una città, Cincinnati Ohio. Ed ecco il modo in cui Livio descrive l’abbandono del potere: dictatura… se abdicauit, letteralmente Cincinnato «si escluse dalla dittatura». In realtà questa espressione, se abdicare, costituisce la formula canonica usata in latino allorché un magistrato rinunzia alla propria carica. Perché dunque non l’ha usata anche Benedetto XVI? Al contrario si è contentato di un semplice
ministerio… renuntiare, dichiarando cioè di “rinunciare” al proprio ministero. Naturalmente non si tratta di «dare le dimissioni», come qualcuno ha frettolosamente tradotto, trasformando così il papa in un amministratore delegato che non ha soddisfatto il Cda. Di certo però l’altra espressione, se abdicare, sarebbe stata almeno più classica. Dato che il latino della dichiarazione non è impeccabile (il cardinale Antonio Bacci, per anni massimo latinista del Vaticano, avrebbe almeno controllato le concordanze), potremmo immaginare che si tratti di un italianismo, un calco del nostro «rinunciare all’incarico ».
Però potrebbe trattarsi anche di una scelta di modestia, dato che il verbo abdicare, ancora per un uditorio italiano, avrebbe evocato connotazioni (forse troppo) regali. Pur se la formula usata da Edoardo VIII di Inghilterra, quando abdicò in favore del fratello nel 1936, fu proprio «to renounce the throne», come correttamente si dice in inglese. Dunque per un uditorio anglofono, ammesso che vi siano ancora inglesi disposti ad ascoltare dichiarazioni in latino, quel renuntio del papa suona inevitabilmente solenne. E se invece pensassimo a tutte le volte in cui il verbo renuntio, specie nella latinità cristiana, viene usato per descrivere la “rinunzia” alle cose del mondo, che distolgono da pensieri più alti? Le recenti vicende in cui il soglio pontificio si è trovato coinvolto, potrebbero in effetti suggerirlo.

Repubblica 14.2.13
Il significato psicoanalitico dell’abbandono
Quando Narciso sa dire addio
Gli incarichi, i ruoli professionali, le funzioni sociali, servono a nascondere il carattere finito e mortale dell’esistenza umana
Si tratta dunque di saper accettare i propri limiti
di Massimo Recalcati


La vita umana necessita di maschere per esistere. È un fatto: ciascuno di noi ne indossa una o più d’una quando si trova impegnato nelle funzioni e nei ruoli sociali che lo riguardano. Non a caso l’interrogativo: «ma chi credo di essere?» spesso attraversa il dubbio della coscienza che muove verso il gesto della dimissione da un incarico. Per questo i soggetti che credono senza incertezze al proprio Io, gli “Egoarchi” come li avrebbe definiti Giuseppe D’Avanzo, sono solitamente soggetti immuni dal rischio di dimissioni perché privi di quella quota necessaria di distanza da se stessi che rende possibile l’autocritica e il riconoscimento dei propri errori. Una leadership consapevole si misura dal modo in cui sa lavorare per preparare la sua dissoluzione rendendo possibile la sua permutazione e la sua trasmissione simbolica. Al contrario un eccessivo attaccamento al proprio Io rende impossibile l’esercizio di una leadership democratica perché resiste al principio della delega della responsabilità. Perché vi sia il gesto autentico delle dimissioni vi deve essere esperienza tormentata del dubbio e della propria vulnerabilità.
Gli incarichi, i ruoli professionali, le funzioni sociali, le investiture pubbliche, insomma tutto ciò che offre una identità collettivamente riconoscibile alla vita umana, ricoprono il carattere finito, mortale, leso dell’esistenza umana. Il gesto delle dimissioni è sempre ricco di echi emotivi perché implica la caduta della funzione stabilizzatrice e rassicurante di queste maschere che agiscono come dei veri e propri abiti identificatori. Si tratta di una spogliazione traumatica che riporta la nostra vita alla sua condizione più nuda. È l’ora della verità; l’evento che ci ricorda che il nostro essere è irriducibile alla maschera sociale che lo riveste. Per questa ragione nel soggetto dimissionario possiamo rintracciare sempre una quota depressiva legata alla perdita dell’identità narcisistica che l’identificazione alla maschera pubblica gli garantiva. Ma può valere anche il contrario: dare le dimissioni può significare per chi compie questo atto un effetto salutare di liberazione dai lacci della maschera. All’uomo — che è un essere in continuo divenire — l’abito rigido dell’identificazione appare sempre come un abito troppo stretto; lasciarlo cadere può allora allargare la vita, può essere una perdita feconda che rende possibile un affacciarsi rinnovato sul mondo.
Per la psicoanalisi la malattia e la sofferenza mentale sono legate ad un eccesso di identificazione rigida al proprio Io e al suo Ideale di padronanza. Il gesto della dimissione è un test di salute mentale perché implica la capacità del riconoscimento del proprio limite, cioè della propria castrazione. Non a caso è proprio la Legge simbolica della castrazione a presiedere l’intero percorso evolutivo della vita, il quale esige continue dimissioni simboliche: il bambino deve dimettersi dal suo ruolo per entrare nella turbolenze attive dell’adolescenza; l’adolescente deve dimettersi per assumersi la responsabilità della vita adulta e, a sua volta, l’adulto deve affrancarsi dal proprio Io per accettare la vecchiaia come transizione finale verso la morte. E non è forse proprio questo ultimo passaggio della vita a rivelare che l’attaccamento ad una identità rigida non può essere il destino dell’uomo, ma il tentativo, tragico o farsesco, di rivestire artificialmente la sua finitezza mortale? Non è forse questo che s’incontra ogni volta che si dà gesto autentico, non solo tattico, di dimissioni? Non è per questa ragione che Nietzsche pensava all’uomo come ad un “ponte ”, ad un “tramonto”, ad un essere destinato a superare sempre se stesso, ad un “oltreuomo”?

mercoledì 13 febbraio 2013

l’Unità 13.2.13
Il convegno
Al dibattito organizzato da Left, la denuncia delle associazioni studentesche: «Senza una svolta l’università è destinata al declino»
Diritto allo studio, tagliato il 90 per cento dei fondi
di Mario Castagna


Un taglio del 90%. Non proprio la risposta che gli studenti si aspettavano dal ministro Profumo durante il negoziato che stanno portando avanti in questi giorni sul nuovo decreto sul diritto allo studio. A denunciarlo è Luca Spadon, portavoce del sindacato studentesco Link, durante l’assemblea che ieri Left ha organizzato per porre alla coalizione di centrosinistra alcune questioni cruciali per salvare la ricerca e l’università italiana. E Spadon, per dimostrare che l’apertura del ministro rischia di essere solo un bluff, ha portato le tabelle ministeriali con gli impegni di bilancio per gli anni 2013/2015.
E i dati parlano chiaro. Per il 2013 sono a disposizione sul bilancio Miur, per il pagamento delle borse di studio, quasi 103 milioni di euro. Per il 2014 ed il 2015 invece i milioni diventano poco meno di 13. Un taglio del 90%, una doccia fredda per gli studenti che solo ieri hanno incontrato il ministro per discutere del contestato decreto. Se i soldi rimanessero così pochi, il crollo delle iscrizioni denunciato pochi giorni fa dal Cun sarebbe destinato ad aggravarsi. Anche gli studenti dei Giovani Democratici hanno voluto denunciare il regresso che sta attraversando l’università italiana: «Senza politiche per gli studenti l’università é destinata ad un lungo ed inesorabile declino» ci dice Enrico Lippo della Run, che ieri faceva parte della delegazione che ha incontrato il ministro.
E c’è chi il declino lo vuole fermare, chi invece lo vuole accelerare, come il popolarissimo partito nato su Facebook. E ieri nell’affollatissima sala del Piccolo Teatro Eliseo la parola declino è risuonata molte e troppe volte. «È necessario assumere il dato del declino italiano come un dato strutturale, solo avendo questa consapevolezza si possono mettere in campo misure efficaci per invertire la rotta». Daniela Palma, economista ricercatrice dell’Enea ha le idee chiare in materia. Dalle pagine del blog keynesblog, ha provato a lanciare l’allarme più volte ma, come il grande economista inglese, l’ingiusta accusa di estremismo fa finire nel cassetto qualsiasi proposta di riforma.
Il mondo della conoscenza ha dimostrato però che è in grado di fare proposte per riformare il sistema e non per affossarlo. E di portare avanti queste proposte con una carica «ideologica» almeno pari a chi in questi anni ha attaccato senza sosta il sistema pubblico dell’istruzione. E i nomi di Alesina, Giavazzi e Zingales sono risuonati più volte ieri in sala: «Secondo Zingales non possiamo permetterci di essere un paese che si occupa di biotecnologie, dovremmo pensare ai cinesi e agli indiani che vogliono visitare Roma, Venezia e Firenze. Queste sono le idee che hanno affumicato l’aria negli ultimi anni». Così Giuseppe de Nicolao, dell’Università di Padova e redattore della rivista Roars, che combatte da mesi una battaglia culturale in difesa dell’università italiana.
Sono molti a chiedere che di queste materie non se ne occupi nuovamente un rettore, ma piuttosto chi in questi anni ha denunciato con forza i problemi da risolvere, così come sono in molti a ricordare che, tra tanti errori fatti, l’ultimo governo dell’Ulivo ha aumentato a livelli oggi inimmaginabili la dotazione finanziaria per questo comparto. La richiesta è quindi di ripartire da lì, riportando il finanziamento a quanto fu deciso dal presidente Prodi, non solo per salvare quel patrimonio di saperi, conoscenze e persone che è l’università italiana ma per invertire la rotta e riportare l’Italia al posto che le compete.
A rispondere alle sollecitazioni di ricercatori, sudenti e docenti c’erano ieri Umberto Guidoni per Sel e Walter Tocci per il Pd ma Left ha voluto invitare anche Stefano Fassina proprio per parlare del nesso fondamentale tra il sapere e lo sviluppo. E Fassina ha voluto anche prendersi degli impegni «Servono subito atti simbolici che invertano la tendenza e politiche di lungo periodo per aprire una nuova stagione. Non chiedeteci anche voi il programma dei primi 100 giorni. Tutte le categorie, dai pensionati minimi alle donne di Se non ora quando, ci chiedono un impegno per i primi giorni di governo. Al mondo della conoscenza serve un impegno che duri anche più di 100 giorni. Vi prometto il massimo impegno a correggere la rotta».

l’Unità 13.2.13
Lazio
Zingaretti, il candidato del centrosinistra querela i Radicali


«Una macchina del fango in piena campagna elettorale. Per questo ho dato mandato ai miei legali di presentare una querela per diffamazione»: risponde così,, il candidato alla Regione Lazio Nicola Zingaretti alle accuse mosse dai Radicali sulla vicenda della sua assunzione nel Comitato Pd il giorno prima della sua candidatura a presidente della Provincia di Roma. «Il presidente della Provincia da sempre non riceve un salario, ma un’indennità di carica fissa di circa 5mila euro al mese, come previsto dalla legge. L’ente rimborsa esclusivamente i contributi previdenziali agli eventuali datori di lavoro degli eletti spiega Zingaretti che continua La mia dichiarazion e
dei redditi è sempre stata online sul sito internet della Provincia di Roma e la questione sollevata dal Partito Radicale sulla stampa è già stata oggetto di una risposta esauriente a un’interrogazione del gruppo consiliare Pdl della Provincia di Roma in data 2 aprile 2009».
«Nella mia vita conclude Zingaretti sono stato prima dipendente della Sinistra Giovanile e successivamente, del Pds, poi dei Ds e, dalla sua costituzione, del Partito Democratico, in maniera continuativa con assunzioni e riassunzioni determinate dai processi politici e dalle conseguenti trasformazioni giuridiche della ragione sociale del partito in cui milito».

l’Unità 13.2.13
Videoforum
Oggi alle 12 Zingaretti risponde alle domande dei lettori

Videoforum a l’Unità con il candidato del centrosinistra alla Regione Lazio, Nicola Zingaretti. L'esponente democratico sarà oggi in redazione dalle ore 12 assieme al direttore Claudio Sardo. Per partecipare scrivere a @unita.it, su Twitter con l'hashtag #lazioitalia, e su facebook/unitaonline.it.
Gli scandali di Polverini, la ridiscesa in campo della destra di Storace, la crisi economica e il futuro. Sono tanti i temi in campo, e molte le questioni spinose. Scrivete le vostre domande che saranno girate al candidato governatore.

l’Unità 13.2.13
Un busto per Cecchin dal costo di 100mila euro
È polemica
di Luciana Cimino


ROMA Ha lasciato la firma del suo passaggio il sindaco Alemanno sul finire del suo mandato. Una statua dedicata a Francesco Cecchin il diciassettenne di estrema destra morto nel 1979 a seguito di un pestaggio, issata nottetempo a piazza Vescovio (in un quartiere oggetto di scritte inneggianti al ventennio e intimidazioni alle sedi locali di Pd e Anpi). Un passaggio non condiviso con i cittadini della zona, i quali al contrario da anni, cercano di convincere il Campidoglio a creare un percorso sulla violenza politica degli anni di piombo.
La vicenda comincia nel 2009 con una delibera di giunta che prevede l’intitolazione dei giardini a «Francesco Cecchin, vittima della violenza politica». A ridosso dell’inaugurazione, nel giugno 2011, associazioni, partiti e Anpi si mobilitano inviando una lettera aperta al primo cittadino nella quale si chiede di intitolare il giardino a «tutte le vittime della violenza politica». Ci colpiscono, scrivono nella missiva (firmata anche da Ettore Scola, Nicola Tranfaglia, Citto Maselli, Vincenzo Visco, Luigi Manconi) «la mancanza di un’adeguata informazione alla cittadinanza e le conseguenze che potranno derivare in un quartiere teatro di episodi di violenza politica». Il sindaco si dichiara favorevole ma l’indomani si svolge comunque l’inaugurazione alla presenza di un commosso Alemanno accompagnato dall’allora ministro Giorgia Meloni. E da croci celtiche, portate dai militanti di Forza Nuova che hanno una storica sede a pochi metri. Infine ieri mattina gli abitanti del quartiere al risveglio hanno trovato la stele. «Montare alla chetichella un monumento non è utile a creare un clima di condivisione e ad allontanare lo spettro della violenza», dice il segretario del Pd capitolino, Marco Miccoli. L’Anpi Roma con il presidente Francesco Polcaro parla di «indecente operazione nostalgica e fascista dal chiaro sapore elettorale oltre che uno spreco di soldi pubblici in una città dove sono all’ordine del giorno episodi di squadrismo dell’estrema destra».
La statua è costata 102 mila euro, «ci turba spiega Valentina Caracciolo, segretario del circolo Pd Salario che questi soldi vengano spesi mentre non si trovano le risorse per l’ascensore per i bambini disabili alla scuola Santa Maria Goretti o per il padiglione con l’amianto e le mense». Elena Improta, segretaria dell’associazione dei partigiani del II Municipio, commenta «la consulta sulla violenza politica è rimasta solo una proposta del centrosinistra, la destra con i suoi morti "segna" i territori e ne fa luoghi di culto». Il centro destra risponde a vario titolo: «proteste strumentali», «ci sarebbe piaciuto vedere un coro unanime di plauso», «indecenti ragli dell’Anpi» fino a Maurizio Gasparri che chiede a Bersani di scusarsi «a nome del suo partito per le vergognose parole del suo segretario romano».

l’Unità 13.2.13
Bersani: azzoppando il Sud non si governa
di Simone Collini


Vincere, anche per ricominciare a parlare di Mezzogiorno dopo che Berlusconi e Lega l’hanno cancellato dall’agenda politica. Dopo la Lombardia, Bersani fa tappa nell’altra regione chiave per ottenere la maggioranza al Senato, la Sicilia. Il 61 a 0 a favore del centrodestra è ormai un ricordo lontano, soprattutto dopo il successo di Crocetta alle regionali dello scorso ottobre, ma il centrosinistra non può certo star tranquillo e l’appello al voto utile qui è d’obbligo. Non a caso, muovendosi tra Priolo, Catania e Messina, Bersani attacca Berlusconi non solo per il modo «malato» in cui vede le donne, ma per aver teorizzato insieme alla Lega, in tutti gli anni in cui è stato al governo, che una separazione del Paese tra Nord e Sud facesse bene alla nostra economia.
«La Sicilia e il Mezzogiorno sono da dieci anni fuori dal dibattito politico», denuncia il leader del Pd parlando in un’affollata sala del complesso fieristico “Le ciminiere”. «Io ovunque vada, sia al Sud che al Nord, dico sempre questa cosa che siamo un’Italia sola. Questo è l’oggetto di questa campagna elettorale. O andiamo avanti con il leghismo per altri 10 anni, dopo che abbiamo assistito all’aumento della recessione, allo sballamento della finanza pubblica e anche al record del distacco, della disarticolazione di questo Paese, oppure cerchiamo di prendere un’altra strada. Nessuno pensi che azzoppando il Sud, il Nord possa galoppare. Abbiamo visto che non è così. Adesso bisogna ricostruire».
PIÙ LAVORO CON L’ECONOMIA VERDE
Bersani si candida a guidare da Palazzo Chigi quest’opera di ricostruzione lanciando proprio dalla Sicilia anche un piano per creare occupazione con l’economia verde. «Ci sono dieci grandi luoghi industriali da bonificare e da rilanciare in questo nostro Paese secondo nuove normative», dice il leader del Pd incontrato gli operai dell’ex area industriale di Priolo Gargallo, nel siracusano, nella mensa dell’ente di addestramento Ciapi. «Pensiamo ad un piano di riqualificazione dell’edilizia esistente a fini di efficienza energetica ed ambientale, un rilancio delle rinnovabili con poche incentivazioni, molta semplificazione e la costruzione di una rete di distribuzione intelligente, e un ciclo di rifiuti da mettere a governo cercando di evitare in quel campo degli sprechi e creare invece delle risorse per dare lavoro. Su questi quattro punti siamo pronti ad operare una volta al governo».
BERLUSCONI E L’IDEA MALATA
È di questo che vuole parlare Bersani in questo finale di campagna elettorale, anche se non risparmia bordate a Berlusconi per i doppi sensi con cui si rivolge alle donne o per il modo in cui ne parla («come fossero bambole gonfiabili», aveva detto Bersani l’indomani della battuta  dell’ex premier all’’impiegata della Green power): «Il Pd elegge in Parlamento il 40% di donne. A Berlusconi dovrei chiedere quante bambole elegge, visto come si esprime, come ragiona, per la malattia che ha in testa». E poi, dopo che Santanchè, Prestigiacomo e altre esponenti del Pdl si dicono offese: «Per me anche quelle del Pdl sono donne con la loro autonomia, intelligenza, dignità. È per Berlusconi che sono bambole».
Non è però su questo terreno che Bersani vuole sfidare Berlusconi. In quest’ultima decina di giorni prima del voto, il leader del Pd continuerà a sfornare delle proposte per far fronte alla crisi e creare occupazione. Risponde con un sorriso a chi gli fa notare che questa non è la strategia giusta per avere dei gran titoli sui giornali: «Io non sono uno che racconta favole». Dice che è «appassionato alla riduzione delle tasse per pensionati, lavoratori e famiglie a basso reddito e per chi investe per dare lavoro», ma sottolinea che a pochi giorni dal voto «si parla di tutto ma non del problema, che è il lavoro». E insiste ricordando il piano per le piccole opere lanciato la scorsa settimana, l’operazione per la riqualificazione di scuole e ospedali (7,5 miliardi in tre anni), la proposta di una emissione di titoli di Stato di 10 miliardi l’anno per cinque anni per pagare i debiti della Pubblica amministrazione nei confronti delle piccole e medie imprese.
Misure che darebbero ossigeno, dice da Catania, a un Sud che «soffre di più» la crisi: «Per l’Italia non c’è speranza se non c’è qualche segno più per il Mezzogiorno. È una certezza matematica. Intorno a questo concetto noi facciamo la nostra campagna elettorale. Perché non intendo seguire gli altri sul piano della loro demagogia. Gli italiani sono intelligenti, e noi puntiamo sulla loro intelligenza. Siamo alternativi al leghismo e alla destra berlusconiana. Ed ho fiducia che il giaguaro lo smacchiamo».
La prossima volta che tornerà in Sicilia sarà per andare a Palermo, la prossima settimana, per un’iniziativa in piazza insieme a Crocetta e a Matteo Renzi.

il Fatto 13.2.13
Bersani al Cavaliere: “Quante bambole porti?”


“NOI PORTIAMO in Parlamento il 40% di donne. A Monti chiedo quante ne eleggi? A Berlusconi invece dovrei dire ‘quante bambole porti’?” Pier Luigi Bersani non le manda a dire a Silvio Berlusconi, puntando tutto sul suo modo “malato” di vedere le donne. La battuta si appoggia su quella del leader del Pdl, che ha chiesto “ma lei quante volte viene?” a un’impiegata Green Power.
IL CANDIDATO PREMIER DEL PD aveva già accusato il Cavaliere di assimilare il gentil sesso a delle bambole gonfiabili, “per come ragiona, per come si esprime, per la malattia che ha in testa”, spiega Bersani durante il comizio di Catania. Daniela Santanchè replica duramente: “Bambola? Vallo a dire a tua sorella”, e anche Mario Monti ritiene fuori luogo il paragone di Bersani.

il Fatto 13.2.13
Monti (forse) cambia idea su Vendola
“Sulle persone le opinioni possono mutare, ma il governo dev’essere riformista”
di Wanda Marra


In un governo con Vendola? “Ognuno può evolvere e cambiare opinione per quanto riguarda singole persone. Quello che è sicuro è che non farò mai parte di un governo che non abbia un forte accento riformatore”. Fino a tre giorni fa Mario Monti era il primo a scagliarsi contro Nichi Vendola, a chiedere a Bersani di scegliere, con toni decisi, per non dire ricattatori. Ieri, per la prima volta, mostra qualcosa che se non è uno spiraglio gli assomiglia molto. Effetto diretto, almeno sembrerebbe, di trovarsi lui al centro del mirino per non aver spinto prima i vertici di Finmeccanica a dimettersi. Intervistato da Enrico Mentana al Tg de La7 Vendola lo chiama “il Presidente” e parla sommessamente della possibilità che lui si trovi a “guidare” o a “partecipare” a un governo che faccia le riforme. Dalla postura allo sguardo, dai toni che non sono né quelli gelidi del super tecnico, né quelli un po’ ruffiani del candidato nonno col cagnolino delle ultime settimane, il Professore trasmette debolezza. Tant’è vero che non raccoglie nemmeno la chiusura di Vendola, che non si lascia sfuggire l’occasione di sbattergli la porta in faccia: “Monti dice che appoggerebbe un governo riformatore? Giusto per chiarirci, per me e per Monti la parola riformismo ha due significati molto diversi”. Secondo Vendola, “per Monti è riformista abbattere lo Statuto dei diritti dei lavoratori. Per me lo Statuto è il capolavoro del riformismo italiano”. Un no categorico.
Monti da Mentana non si scompone. Nel suo staff minimizzano: sono cose che il Professore ha sempre detto, si è sempre dichiarato disponibile a governare con chi approvi i suoi provvedimenti. Nessuna novità. Perché, anzi, si fa notare pure che i rapporti tra i due sul piano personale sono ottimi. In questa campagna elettorale tutta fatta di dichiarazioni tattiche, distanze e avvicinamenti strategici, ieri è Monti che fa un passo verso l’altro, è lui che abbassa i toni.
Come non notare che mentre Mentana lo incalza, a un certo punto lui risponde: “Ma non sono già passati i cinque minuti? ” Non si può certo dire che fino ad ora abbia fatto mancare la sua presenza in tv.
La questione Finmeccanica arriva dopo il “tradimento” di molti dei suoi candidati in Lombardia, che si sono detti pronti a votare per Ambrosoli e non per il candidato di “Scelta civica” Albertini. Anche su questa vicenda è stato costretto a correggere il tiro: prima aveva detto un no netto al voto disgiunto, poi ha detto che comunque nella sua lista c’è libertà.
Insomma, sembra proprio che il Professore cominci ad essere consapevole del fatto che la sua salita in politica per ora sembra più una delusione che altro. E nel frattempo si dà spazio a - dubbie - trovate elettorali: la signora Elsa ieri si è fatta vedere mentre faceva compere per il cagnolino Empy al negozio “Palla di pelo”.
Con un terremoto giudiziario nella regione più importante, con Maroni che impose Orsi ai vertici di Fineccanica e la chiusura delle indagini su Formigoni, per una volta è il Pd che, dopo aver subito il caso Mps, rifiata e vede la vittoria in Lombardia.
“L'arresto del presidente di Finmeccanica Orsi è un fatto serio”, dice il segretario del Pd, Pierluigi Bersani. “Forse -aggiunge- il governo doveva fare qualche mossa prima”. Ogni riferimento non è puramente casuale.

Corriere 13.7.13
Ma il fattore G allarma anche il Pd
Tra 5 Stelle e recupero del Pdl la Camera può diventare un'incognita
di Monica Guerzoni


ROMA — Più l'ora «x» si avvicina, più cresce il terrore che sarà Beppe Grillo a fare la differenza nelle urne, tanto che adesso anche Mario Monti ha preso a sparare contro il «simpatico comico» che riempie le piazze con il suo «populismo devastante». Ma è nel Partito democratico che il «fattore G» ha fatto scattare l'allarme rosso. Al Nazareno c'è preoccupazione perché la crescita di Grillo non si ferma, soprattutto nelle regioni del Centro e del Sud: un'onda che può erodere consensi tanto al Pdl quanto al Pd.
E c'è un altro, inconfessabile timore che turba gli ultimi comizi di Pier Luigi Bersani. La paura che il sorpasso evocato dal Cavaliere possa materializzarsi davvero. Non solo al Senato, ma persino alla Camera. Quello che fino a pochi giorni fa poteva sembrare uno scenario da fantapolitica è diventato un tema per bocca dello stesso leader democratico, che esorcizza lo spauracchio della sconfitta a sorpresa dicendo che «se vince Berlusconi il Paese va contro un muro».
E ieri sul Sole 24 Ore Roberto D'Alimonte ha parlato di Montecitorio come della «vera incognita» di queste elezioni, ragionando sull'ipotesi che molti italiani abbiano deciso di votare per Berlusconi (o per Grillo) senza però rivelarlo, per riserbo o pudore. Per il politologo il combinato disposto tra la «lenta erosione» di consensi subita da Pd e Sel negli ultimi due mesi e il recupero del Cavaliere può riaprire la partita alla Camera, dove per strappare agli avversari il premio di maggioranza basta un voto in più.
«Berlusconi che vince le elezioni? Io non ci credo» scaccia il fantasma Pier Ferdinando Casini, convinto che la crescita di Grillo arrechi danni soprattutto al centrodestra. Intanto però il comico si gode lo spettacolo dei leader «in preda al panico», che si uniscono «come il trenino dell'amore» perché hanno paura di lui. «Grillo riempie le piazze, ma magari tanti vanno a sentirlo solo per godersi lo spettacolo — spera Davide Zoggia, responsabile Enti locali del Pd —. Io non lo sottovaluto, di certo avrà numeri importanti. Ma sono fiducioso. La forchetta rimane larga, la nostra linea su progetti e alleanze tiene». E Berlusconi che vince alla Camera? «È una possibilità remota». Il futuro dell'Italia è nelle mani degli indecisi, il che spiega l'insistenza di Bersani sul voto utile e gli avvertimenti dell'ex premier agli elettori incerti tra grillismo e berlusconismo: il Movimento 5 Stelle è pieno di candidati che vengono dalla sinistra e dopo il voto il comico e il segretario del Pd non potranno che collaborare. Anche i centristi hanno scoperto il «fattore G». Andrea Romano, capolista di Scelta civica in Toscana alla Camera, dice che i montiani non hanno mai sottovalutato Grillo, «mai pensato che sia un fenomeno residuale o irrilevante», ma lui la crescita esponenziale del movimento non la vede: «Noi siamo la novità costruttiva, loro sono quella distruttiva. Se Grillo vincesse farebbe male a questo Paese». Nell'entourage di Monti pensano che il populismo stia scappando di mano al leader genovese e che, comunque, la sua corsa è un problema del Pd e del Pdl, più che del centro. «Grillo ha una fortissima carica antiliberale — spiega Carlo Calenda, candidato con Monti nel Lazio —. Il nostro elettorato è molto diverso dal suo».
Beppe Fioroni, ex ministro del Pd, ha l'impressione che la crescita di Grillo sia stata sottostimata. La Camera non lo preoccupa, mentre pensa anche lui che l'effetto Grillo possa farsi sentire al Senato nelle regioni in bilico, come Lombardia, Sicilia e Campania: «Bersani deve insistere sul voto utile per impedire a Berlusconi di risorgere e convincere gli italiani che non ci servono capipopolo che cavalcano l'onda». A furia di cavalcare l'onda il comico può arrivare lontano e Massimo D'Alema lo ha capito tra i primi. «Grillo al 18 per cento è un indicatore inquietante — avverte l'ex premier —. Bisognerebbe ridurlo, perché spaventa gli investitori».

Corriere 13.1.13
Giannino fa il record di sottoscrizioni e doppia i Democratici
di Emanuele Buzzi


MILANO — A un passo dalla meta, con un obiettivo ambizioso sempre più vicino, per scoprire il risultato che non ti aspetti, quello che ribalta le logiche dei sondaggi. Nella corsa alle donazioni, tra i partiti che hanno pubblicato online le cifre per ora ottenute, Fare per fermare il declino è la vera sorpresa. Oscar Giannino e i suoi militanti hanno raccolto finora 1.353.531,75 euro — su un traguardo fissato poco oltre i due milioni —, un'enormità se confrontata con la corazzata Pd (che alla voce «altre erogazioni liberali» dichiara 458.390 euro). «Ma il Pd ha tra le risorse di cui può disporre pacchi enormi di rimborsi elettorali, che noi rifiuteremo», chiarisce Giannino. Che poi prende in contropiede: «Se mi chiede se sono soddisfatto dico "non troppo", si poteva fare di più. In realtà noi abbiamo deciso di partecipare alle elezioni solo l'8 dicembre e gran parte dei finanziamenti viene da fondatori ed aderenti». «Non autorizzo nessuna iniziativa finché non c'è la copertura finanziaria — spiega il candidato premier —. La nostra è una campagna fatta di piccole cose, ora ho dato l'ok per cento camion vele per gli ultimi giorni».
«La donazione media è di circa 30 euro», spiega il coordinatore alla tesoreria Lorenzo Gerosa. Che specifica: «Solo il 10% dei fondi proviene dai tesseramenti, ci sono state solo una decina di persone che hanno offerto cifre superiori ai diecimila euro». In realtà le donazioni di Fare per fermare il declino sono iniziate a luglio, con la pubblicazione online del manifesto, e si basano, oltre alle libere elargizioni, anche su contributi volontari dei singoli candidati, prestiti infruttiferi, fund raising legato a singoli eventi. E sia Gerosa sia Giannino citano proprio l'anti-meeting organizzato a Milano pochi giorni fa come esempio: «Una manifestazione dove ogni partecipante ha pagato di tasca propria per autofinanziarla».
Cifre alla mano, sondaggi compresi, Giannino ha ottenuto cifre più ingenti del Movimento 5 Stelle. Beppe Grillo ha lanciato la campagna per le donazioni — obiettivo un milione di euro — solo a fine dicembre, ma fino a ieri sera il leader aveva raccolto 484.272,66 euro da 11.221 persone (circa 43 euro di media). A dire il vero, però, le donazioni per i grillini sono diffuse anche a livello locale (i piemontesi hanno incassato 10 mila euro, poco più di duemila i campani, quasi 13 mila euro nel Lazio) ed è stato richiesto un ulteriore sforzo economico anche ai partecipanti del comizio di chiusura in piazza San Giovanni a Roma.
Diverso, invece, il discorso per il Pd: i democratici possono contare su quasi 58 milioni di euro di rimborsi elettorali e più di 5 milioni in contributi da parte dei parlamentari. Il partito ha deciso di investire per la voce «elezioni, propaganda, comunicazione» 16 milioni di euro e quasi 13 milioni per il personale, contro l'1% (circa 20 mila euro) previsto da Giannino.

Repubblica 13.2.13
Rimonta finita, il Pdl ora arranca i delusi fuggono verso i 5 Stelle
Democratici in allarme: ma a Palazzo Madama si rischia
di Goffredo De Marchis, Carmelo Lopapa


ROMA — La grande rimonta finisce qui. Il triste risveglio del Cavaliere coincide con la consegna degli ultimi rilevamenti. «Ci siamo fermati» ha confidato in queste ore ai dirigenti del Pdl, scrutando le tabelle. Lo slancio, che avrebbe toccato il suo apice all’indomani dell’uno-due su Imu e condono, sembra svanito. La fuga dei delusi continua, ormai inesorabile, e a senso unico, verso Grillo. Un’erosione che in queste ore tuttavia preoccupa anche il fronte avversario. Pierluigi Bersani non dorme affatto sonni tranquilli, nonostante il vantaggio. «A Montecitorio il divario adesso è incolmabile, ma per il Senato in Sicilia e Lombardia c’è ancora da combattere » è la tesi del segretario Pd.
Già, la partita si gioca anche sui numeri degli italiani all’estero e del Trentino, con il suo elettorato di confine. A Largo del Nazareno calcolano che la probabile conquista di quel doppio bacino valga almeno otto senatori. I democratici sono invece convinti che il leader dei 5 Stelle non possa più pescare nel loro campo. Ma è meglio non fidarsi perché Grillo è in grado di destabilizzare qualsiasi pronostico. La piazza sotto il gelo di Bergamo, ieri sera, quella di Mantova sotto la neve, due giorni fa, raccontano più di qualsiasi sondaggio. Per questo il candidato premier del centrosinistra prepara
una proposta finale per il Paese da illustrare giusto dopo che scenderà il sipario su Sanremo. Lo stesso ha intenzione di fare Silvio Berlusconi. Neutralizzato in parte l’effetto choc di dieci giorni fa, l’ex premier ha intenzione di segnare con un «grande annuncio» una delle ultime uscite pubbliche a ridosso del 24 febbraio. «Dovrà entrare in tutte le case, come l’Imu» va ripetendo. Ma né lui, né Brunetta sanno al momento cos’altro inventarsi per parlare al portafogli degli italiani.
Quel che preoccupa è lo stop decretato dai sondaggi. Inatteso. Tanto più che i rilevamenti sono antecedenti all’abdicazione del Pontefice. E ora la doppia tenaglia Vaticano-Sanremo, sotto il profilo mediatico, rischia di oscurare del tutto la ribalta tv sulla quale il Cavaliere scommetteva. Dal quartier generale, Paolo Bonaiuti nega che la frase sul Senato sia un’ammissione di sconfitta probabile: «Nessuna resa, la rimonta è in pieno svolgimento e l’attacco a Grillo è solo la constatazione che tra loro in tanti provengono da centri sociali e frange estreme». Sta di fatto che da ieri sera Berlusconi ha ricominciato a registrare a tamburo battente video messaggi e interviste con decine di tv private. E lo stesso farà questa mattina poco prima di volare a Bari e ancora venerdì, limitando la missione in Sicilia (benché altra regione in bilico) alla sola giornata di sabato. Ma le ultime 48 ore fanno registrare anche un’inversione nella strategia elettorale. Adesso, più che Monti, c’è appunto Beppe Grillo nel mirino. È lui il «nemico», al quale si sono votati centinaia di migliaia di elettori del centrodestra che il Cavaliere non riesce più a catturare. Il timore è che se il M5s continua a crescere e il Pdl si è inchiodato, è perché la “spinta propulsiva” si è esaurita, l’overdose in tv non basta più. Come se non bastasse, il pieno coinvolgimento di Roberto Formigoni nell’inchiesta Maugeri, con l’accusa di associazione a delinquere, non travolge solo la corsa del capolista in Lombardia al Senato, ma rischia di far vacillare l’intera partita nella regione decisiva.
Troppe incognite. E il dialogo «intercettato» ieri sera tra Giuliano Ferrara, Gianni Letta e Franco Frattini, durante il ricevimento all’ambasciata italiana presso la Santa Sede, rivela la disillusione. «Gianni, ma tu ci credi davvero a questa rimonta? » chiede il direttore del Foglio all’eminenza azzurra berlusconiana. «Sì, è vera». E Ferrara: «Se fosse così, sarebbe clamoroso, perché Berlusconi ha sbagliato tutto quello che poteva sbagliare». Letta annuisce. Con l’ex ministro Frattini che chiosa: «Io comunque a questa rimonta non ci credo».

il Fatto 13.2.13
Potente che va o che resta, il red carpet dei Patti Lateranensiu
Da “re” Bertone a Mario Monti e i suoi ministri, fino al presidente Napolitano
Tutti schierati per omaggiare un potere in crisi di identità
di Carlo Tecce


Evviva, i Patti lateranensi. Evviva, detto così senza fiato, con quell'entusiasmo di una cerimonia anemica, tra uomini e donne potenti che stanno per lasciare il potere, per un po' o per sempre. Ambasciata italiana in Vaticano, palazzo Borromeo, ore 16. Ci vuole una berlina tedesca, di grossa cilindrata e di grosse apparenze, per guidare la Chiesa vacante. Ci vuole una bandierina vaticana appesa al cofano, immobile che trattiene il vento, e indica la rotta di una Mercedes appena partorita in concessionaria. Nera.
E POI UN PAIO di Mercedes, ancora, per sigillare il corteo e far brillare l'illustre passeggero. Il prossimo camerlengo, il cardinale Tarcisio Bertone, che non oscilla in questi giorni di perdoni e dimissioni. Ma si mostra rigido, regale e sicuro di sé. Come la bandierina con le chiavi decussate. E viene accolto con doverose strette di mano, circondato da quei porporati che ne formano la corrente: un passo indietro, c'è Attilio Nicora, il cardinale che gestisce le informazioni finanziarie e siede in commissione cardinalizia Ior. L'ingresso non è trionfale: di più. Adesso che Bertone ha raggiunto il professor Mario Monti, i ministri che aspettano tecnicamente annoiati, un oggetto d'antiquariato s'avvicina lentamente. Una tendina grigio abito di suora, né aperta né serrata, copre l'espressione rassegnata di Angelo Bagnasco, il capo dei vescovi italiani, che viaggia con una Mercedes perfetta per i raduni d'epoca. Sarà pur vero che la Chiesa è una, mai divisibile, però quest'immagine plastica – e motoristica – ne mostra (almeno) due. Il segretario di Stato dovrà governare la Chiesa dal primo marzo, anzi: quando le lancette segneranno le venti di giovedì 28 febbraio, ultimo minuto di Joseph Ratzinger in BenedettoXVI. Mancano 16 giorni e una dozzina di ore, però il cardinale piemontese ha l'esperienza, e le influenti relazioni, per non subire il calendario. Palazzo Borromeo ha riunito le istituzioni in fase di congedo, il presidente Giorgio Napolitano ne è consapevole: “È un periodo di cambiamenti che corrispondono alla normalità della vita democratica”. Bertone non avverte il cambiamento. E si comporta come se la carica di segretario di Stato, che dovrà consegnare al prossimo pontefice, non solo per i 78 anni già compiuti, fosse imperitura. E dispensa annunci: “Napolitano saluterà il Santo Padre in udienza speciale”. Fa un piccolo pasticcio con il protocollo perché il presidente italiano dovrà correggere: “Se sarò invitato, ci sarà una comunicazione”. C'è da aver fiducia in Bertone, che apprezza con sguardo inafferrabile l'intervento di Enzo Moavero, ministro per gli Affari europei: “Siamo felici per come si sia risolta la questione Imu”. Il cardinale non dice grazie, non replica, non deve: china il capo, di un paio di centimetri. Palazzo Chigi spedisce un folto gruppo: i ministri Terzi di Sant'Agata, Cancellieri, Severino, Fornero, Ornaghi, Riccardi, impegnati a seguire un rituale stanco. A ottenere nozioni sui fedeli in Africa e in America Latina, su scambi interculturali e prospettive spirituali. La parte materiale non conquista i piani di un anniversario che coincide con i saluti finali di una generazione al comando. Bertone non rientra in questa categoria. Vuole rassicurare: “La Chiesa è solida”. E maneggia con maestria argomenti attuali, anche scottanti. La butta lì tra i colloqui – fra i due bilaterali con Monti prima e Napolitano poi – come se fosse un aggiornamento meteorologico: “Abbiamo scelto il nuovo presidente per l'Istituito per le Opere religiose. E non ci risultano conti riferibili a Mps”. Se lo confessa, e di confessione si tratta, il cardinale non sconfina: il consiglio di amministrazione sta per scadere, Ettore Gotti Tedeschi è stato cacciato ormai da nove mesi. C'è una questione non marginale, però: la nomina spetta a una commissione di cardinali che Bertone presiede, ma questa delicata investitura dovrebbe coinvolgere il prossimo pontefice. Per un motivo semplice: lo Ior è la cassa vaticana e un propulsore atomico di scandali. La comitiva rinuncia al rinfresco. Le tartine dormono sui tavoli di ciliegio. C’è chi dice addio e chi arrivederci.

il Fatto 13.2.13
Prove del fallimento di un papa
Errori e occasioni sprecate: dalla macata condanna dei tedeschi ad Auschwitz alla comunione per i divorziati
di Marco Politi


E se fossero stati otto anni persi? Otto anni in cui tanti problemi già maturi ai tempi di Giovanni Paolo II sono stati semplicemente rimandati senza nemmeno essere avviati a soluzione. Dalla carenza di preti al ruolo delle donne, ad un nuovo approccio alla sessualità, alla rilancio dei rapporti ecumenici.
La cosa più sorprendente, il giorno dopo le dimissioni annunciate di Benedetto XVI, è la calma con cui il popolo cattolico le sta accogliendo. Certo c’è sorpresa e a tratti sconcerto, ma la gran massa ha digerito subito la novità e vuole semmai capire meglio dove papa Ratzinger ha sbagliato. Dove ha fallito. Perché a livello popolare si è capito da tempo che Benedetto XVI è stato “incapace” in termini di leadership e di governo dei problemi planetari della Chiesa cattolica. D’altronde già l’anno scorso la sua popolarità era caduta al 39 per cento e quella della Chiesa nel 2013 (Eurispes) al 36. Segno di una grave disaffezione dei fedeli e dell’opinione pubblica nei confronti dell’istituzione ecclesiastica e del suo capo. Ora, tra i difensori a oltranza del papato-idolo (dove tutto ciò che fa il pontefice è perfetto e a sbagliare sono sempre gli altri), si va diffondendo il mito della sua solitudine e di una Curia cattiva, che gli remava contro. Favole. Un papa è sempre solo, diceva Paolo VI. La questione è semmai quali collaboratori si sceglie e l’efficienza con cui realizza la sua strategia.
Le gaffe su gay e preservativi
Benedetto XVI troppe volte si è fermato a metà. Nel 2010 ha condannato con durezza gli abusi sessuali commessi dagli uomini di Chiesa e ha proclamato il dovere dei preti-criminali di recarsi davanti ai tribunali. Poi però non ha emanato un decreto per rendere obbligatorio che i vescovi denuncino i colpevoli. Né ha ordinato che si aprano gli archivi diocesani alla ricerca di denunce insabbiate, che corrispondono a migliaia di vittime inascoltate. Lo stesso è accaduto con la trasparenza delle finanze vaticane. Nel 2010 il Papa costituisce un’alta autorità finanziaria (AIF), dotata di ampi poteri di ispezione non solo dello Ior ma di ogni movimento di denaro nella Santa Sede. Pochi mesi dopo il suo più stretto collaboratore il Segretario di Stato cardinale Bertone limita drasticamente le competenze dell’autorità finanziaria, incassando poi i rimbrotti della commissione finanziaria europea Moneyval. Si può forse descrivere Bertone come un nemico accanito del pontefice? In realtà si possono trovare negli scritti di Benedetto XVI molti passi illuminanti sull’essere cristiani nel mondo d’oggi, ma la predicazione anche alta non basta. Serviva il governo concreto, serviva – e non c’è stata – la sensibilità geopolitica e il piglio del governante risolve le questioni aperte e non ne crea.
Troppi i passi falsi. A Regensburg nel 2006 Benedetto XVI non si rende conto che una frase sprezzante di un vecchio imperatore bizantino su Maometto offenderà milioni di musulmani. Ad Auschwitz non si rende conto che non può attribuire solo ad una “banda di criminali” lo scivolamento della Germania nella barbarie nazista. Volando in Africa, non si rende conto che affermare che il preservativo peggiora la diffusione dell’Aids è un affronto alla comunità scientifica e al buon senso di tante suore e missionari, che lo distribuiscono per frenare la pandemia. Ancora poche settimane fa non si rende conto che stringere la mano all’udienza generale alla presidente del Parlamento ugandese, Rebecca Kadaga, che propugna la pena di morte per i gay, è un gesto impensabile mentre monta nelle strade di Roma l’odio anti-gay. Né la semplice lettura delle rassegne stampa gli impedisce di procedere all’annullamento della scomunica del vescovo lefebvriano Williamson, fanatico negatore dell’Olocausto. Glielo hanno tenuto nascosto? Non deve accadere per chi esercita un potere monarchico assoluto. Vuol dire che ha sbagliato nella scelta delle persone cui affida i dossier più delicati.
Le concessioni ai lefebvriani e il disamore dei cattolici
Gli ebrei sono rimasti amareggiati per la riedizione della preghiera del Venerdì Santo nella messa di Pio V, in cui si affaccia nuovamente il tema di una loro cecità rispetto alla venuta di Cristo. I cattolici si sono disamorati per la sua decisione di reintrodurre a tutti i livelli la messa preconciliare. Ma più ancora la maggioranza dei cattolici è stata ferita dalle sue concessioni ai lefebvriani, permettendo che la retta interpretazione dei testi più importanti del Vaticano II diventassero oggetto di un negoziato con i nemici più fanatici del Concilio. Quel Concilio che papa Ratzinger ha voluto leggere ossessivamente nell’ottica della “continuità” con la storia della Chiesa, quando i documenti conciliari più fecondi (sulla libertà religiosa, sulla fine dell’antisemitismo, sulla riforma liturgica, sull’ecumenismo, sui rapporti con l’Islam e le religioni orientali) rappresentano una svolta radicale con il passato.
Questioni irrisolte: corruzione e Ior
Iniziando il suo pontificato, Benedetto XVI ha dichiarato di non avere un programma di governo, ma di proporsi solo la sequela della parola di Dio. Non è una nota di merito. Un pontefice, che guida oltre un miliardo di fedeli, deve avere un programma di azione. L’hanno avuto papi diversissimi come Paolo VI e Pio XII, Wojtyla e Giovanni XXIII. Non averlo ha significato lasciare marcire molte questioni. Il tema della comunione negata ai divorziati risposati papa Ratzinger si proponeva di “studiarlo” nel 2005, appena eletto, e otto anni dopo non aveva ancora una risposta. Il tema della collegialità, cioè di un governo della Chiesa universale a cui partecipano i vescovi, lo aveva ben chiaro, quando da cardinale poche settimane prima dell’elezione disse che la Chiesa non può più essere governata in modo “monarchico”. Per otto anni ha deciso invece le strategia fondamentali del suo pontificato (verso i lefebvriani, i dissidenti anglicani o sulle questioni ecumeniche) in maniera solitaria e autoritaria.
La sua ripetizione ossessiva dei “principi non negoziabili” ha provocato uno scisma sotterraneo, silenzioso ma profondo, all’interno del Popolo di Dio. L’incapacità di reggere con mano ferma una Curia spaccata e dilaniata da forti conflitti interni, l’incapacità di andare a fondo alle denunce di corruzione di monsignor Viganò o di sostenere il presidente dello Ior Gotti Tedeschi nella richiesta di fare certificare da un’agenzia esterna i bilanci della banca vaticana, sono stati il colpo finale per l’autorità di Benedetto XVI. Il problema non è il maggiordomo infedele, il problema è che nessuno nel Vaticano di Ratzinger ha voluto discutere dei fatti maleolenti emersi dalle carte. Non è un caso che lunedì una folla non sia precipitata in piazza San Pietro al grido di “non farlo… rimani! ”. Chi ha il potere assoluto alla fine ne risponde senza mediazioni. Doveva essere un pontificato di transizione. Si è trasformato in una stagnazione. L’abdicazione per molti è arrivata come un sollievo.

il Fatto 13.2.13
Soldi e porpore, la guerra per lo Ior di Tarciso Bertone
Epurato il gruppo che collaborava con l’Italia sull’antiriciclaggio
Il controllo adesso è gestito da uno svizzero che lavorava in un paradiso fiscale
di Marco Lillo


Sarà ricordato per i rotoloni di contanti sotto le tuniche questo Conclave. I cardinali in arrivo da tutto il mondo dovranno portare le mazzette di banconote, se vorranno fare acquisti dentro le mura Leonine, perché i pos dei bancomat della Santa Sede continuano a essere bloccati da gennaio. La Vigilanza della Banca d’Italia negli incontri delle scorse settimane ha posto un aut aut al nuovo direttore dell’AIF, l’autorità antiriciclaggio vaticana, René Brulhart. I soldi non devono più passare per lo IOR, ma direttamente dal conto della Deutsche Bank Italia Spa, soggetta alla Vigilanza di Bankitalia. Il Vaticano però ha risposto picche perché non vuole rendere controllabili da Bankitalia i reali intestatari dei flussi e pensa di poter scavalcare l’Italia con una mossa astuta: il bancomat sarà riaperto e appoggiato estero su estero su una banca extracomunitaria non soggetta al controllo di Bankitalia né dell’Europa.
Quella dei rotoloni di contante e dei pos fermi non è l’ombra più lunga dello scandalo IOR che si allunga sulla successione al soglio di Pietro. Nella scelta di Joseph Ratzinger di abbandonare la carica ha giocato un ruolo importante anche la sua sensazione di essere troppo debole per arginare la “mattanza” portata avanti nel settore del controllo delle finanze vaticane dal Segretario di Stato Tarcisio Bertone. Mattanza, più che lotta, è il termine giusto per descrivere l’andazzo degli ultimi mesi confermato ancora ieri dall’ultima indiscrezione: il Segretario di Stato ha comunicato informalmente durante i colloqui bilaterali con l’Italia di volere approfittare dei pochi giorni di pieni poteri rimasti per nominare il nuovo consiglio di sovrintendenza e il nuovo presidente dello IOR, la banca del Vaticano.
BERTONE PRESIEDE la commissione cardinalizia che sovrintende allo IOR, della quale fa parte anche il suo rivale, il cardinale Attilio Nicora. Nove mesi dopo la rimozione del presidente Ettore Gotti Tedeschi, più vicino a Nicora e al Papa, Bertone sta per piazzare un suo fedelissimo al suo posto. Il favorito era un ex compagno di studi di Bertone, l’avvocato torinese Carlo Maria Marocco. A dicembre però l’ex notaio, membro dell’attuale Consiglio di sovrintendenza dello IOR, è stato nominato presidente della Cassa di Risparmio di Torino e ora si fa il nome di Pellegrino Capaldo.
L’altra partita fondamentale per Bertone è quella dell’Autorità antiriciclaggio, l’AIF. Dopo essere stato sostituito nel 2011 con il bertoniano monsignor Domenico Calcagno alla guida del-l’APSA, l’amministrazione del patrimonio Santa Sede, Nicora rischia ora di essere rimosso anche dalla presidenza dell’AIF. Bertone potrebbe far valere il doppio incarico di Nicora come ragione di incompatibilità per farlo fuori o dalla presidenza dell’organismo antiriciclaggio AIF o dalla Commissione cardinalizia che controlla lo IOR. Si completerebbe così il disegno che mira a ricondurre sotto il suo controllo l’AIF e lo IOR rimuovendo gli uomini più collaborativi con le autorità italiane.
GOTTI TEDESCHI ha dovuto lasciare la presidenza dello IOR non certo per il coinvolgimento del banchiere nell’inchiesta della procura di Roma - come erroneamente è stato scritto - ma per una ragione opposta. Insieme al cardinale Attilio Nicora e all’ex direttore generale dell’AIF Francesco De Pasquale, Gotti era il fautore dell’inserimento di una normativa più seria in materia di antiriciclaggio. Lo IOR per decenni si è comportato in Italia come una fiduciaria che scherma i reali proprietari dei fondi, talvolta politici corrotti o criminali comuni dotati della sponda Oltretevere. La Procura di Roma ha indagato nel 2010 il direttore generale dello IOR Paolo Cipriani e Gotti Tedeschi proprio per violazione della normativa formale antiriciclaggio. Ma Gotti, a differenza di Cipriani, si è mostrato collaborativo con la Procura e Bankitalia, un atteggiamento sgradito Oltretevere. Nel dicembre del 2010 Benedetto XVI vara una legislazione antiriciclaggio severa e crea l’AIF, un’autorità antiriciclaggio per dialogare con l’UIF italiana. Comincia lo scambio di informazioni tra AIF e le procure italiane, attraverso l’UIF. Per far capire che fa sul serio, il Vaticano nomina come direttore generale dell’AIF un ex funzionario dell’UIF di Bankitalia, l’avvocato Francesco De Pasquale e come presidente proprio il cardinale Nicora.
A QUEL PUNTO lo IOR e l’antiriciclaggio diventano il teatro dello scontro tra la fazione dei “vincenti” capeggiata dal segretario di Stato Tarcisio Bertone e i “perdenti” del cardinale Nicora. A gennaio del 2012 Bertone si riprende i poteri ispettivi sullo IOR. L’autorità di Nicora e De Pasquale non può più ficcare il naso nei conti IOR per poi riferire ai pm italiani. A maggio viene messo alla porta il presidente IOR Gotti Tedeschi, favorevole alla normativa più severa. Alla fine del 2012 salta il direttore generale AIF, De Pasquale retrocesso a semplice consigliere AIF. Al suo posto arriva René Brulhart, svizzero ma soprattutto ex capo dell’autorità omologa di un paradiso fiscale come il Liechtenstein. Non proprio un segnale di severità.
Il cardinale Attilio Nicora sente stringersi il cerchio intorno. Con la scusa della sua doppia carica (controllore, in qualità di presidente AIF e controllato, in qualità di membro della commissione cardinalizia dello IOR) Bertone si accinge a farlo fuori. Un problema che invece non viene rilevato per un altro membro dell’AIF, Giuseppe Dalla Torre, che è presidente del Tribunale del Vaticano. Intanto si avanza un nuovo uomo forte all’AIF: il genero di Antonio Fa-zio, proprio lui l’ex governatore della Banca d’Italia. Si chiama Tommaso Di Ruzza, è assunto come impiegato ma è stato subito proposto come vicedirettore dell’AIF. Una nomina saltata proprio per l’opposizione del cardinale Attilio Nicora. Nato nel 1975 ad Aquino e presidente del circolo Tommaso d’Aquino, Di Ruzza è membro del Pontificio consiglio per la giustizia e per la pace.
L’arcivescovo Mamberti e il governatore emerito suocero Antonio Fazio, insieme al vescovo Mario Toso, segretario del Pontificio Consiglio della giustizia e della pace erano presenti alla tre giorni organizzata dal Circolo San Tommaso nel luglio 2012. Non è diventato vicedirettore ma è stato nominato vicario del direttore. In molti davano per probabile la rimozione di Nicora e l’ascesa del giovane e bravo Di Ruzza al posto di Brulhart nel lungo periodo. Poi sono arrivate le dimissioni del Papa.

La Stampa 13.2.13
Sui bancomat il Vaticano aggira la Banca d’Italia
Dopo il no a Deutsche Bank accordo con una società svizzera non soggetta alle norme comunitarie
di Alessandro Barbera


Fino a ieri, per turisti e dipendenti delle mura vaticane era diventata una scomoda abitudine. Chiunque volesse spendere un euro entro i confini era costretto a munirsi di contante: niente Bancomat e carte di credito nei musei, negozi di souvenir, nella famosa farmacia internazionale o al supermercato. Colpa della decisione con la quale a inizio gennaio la Banca d’Italia aveva messo i sigilli alle decine di sportelli e Pos Deutsche Bank Italia sparsi nei sacri palazzi. «Il Vaticano può avere tutti i punti bancomat che crede, ma non con banche italiane», spiegavano allora fonti di Palazzo Koch. Benché al suo interno circoli liberamente l’euro, ai sensi della normativa antiriciclaggio il Vaticano è considerato a tutti gli effetti Paese extracomunitario.
Per circa un mese Banca d’Italia e Aif - l’Autorità di informazione finanziaria del Vaticano - hanno cercato una soluzione al problema. L’unico modo per superare l’impasse e permettere a Deutsche di riprendere il servizio era la piena adozione degli standard operativi dell’Unione europea da parte delle autorità della
Santa Sede. Ma i tempi erano stretti, e in Vaticano c’era invece l’esigenza di riprendere rapidamente il normale servizio. Una decisione diventata tanto più urgente dopo la scelta del Papa di rinunciare al Soglio e l’imminente convocazione di un nuovo Conclave, eventi che stanno moltiplicando il numero dei vistitatori. Secondo alcune stime il blocco dei pagamenti elettronici costerebbe al Vaticano trentamila euro al giorno.
Così l’Aif ha scelto un escamotage, stipulando un nuovo accordo con un gruppo svizzero che non opera in Italia, la Aduno. Non si tratta di una banca in senso stretto, bensì di una società specializzata nei pagamenti elettronici controllata da un gruppo di piccole banche cantonali, da Banca Migros e dall’austriaca Raiffesen, uno dei cinque istituti uscito di recente dal comitato dell’Euribor dopo le polemiche sulle qualità dell’indice che fissa i costi dei mutui. Dal 2008 - lo si legge nel sito internet della società - Aduno si occupa però anche di «credito privato e leasing». In Vaticano ci tengono a sottolineare che Aduno promette di garantire la trasparenza «come un soggetto comunitario» e che la decisione di scegliere le vie brevi non impedirà di proseguire i colloqui con Banca d’Italia per adeguare la normativa.
Resta il fatto che la decisione della Santa Sede non aiuterà a migliorare la reputazione del sistema finanziario vaticano, già colpita dalla brusca uscita di scena dai vertici dello Ior di Ettore Gotti Tedeschi e dal fatto che - a distanza di otto mesi quella poltrona resta misteriosamente vacante. Per il Vaticano la decisione della Banca d’Italia era stato un fulmine a ciel sereno: in quegli ottanta punti vendita gestiti dalla filiale italiana della banca tedesca erano transitati - secondo i documenti acquisiti dalla Procura di Roma, 40 milioni di euro sui quali la Banca d’Italia non aveva nessuna informazione. La stessa Procura che da tempo indaga sui buchi del sistema antiriciclaggio dell’Istituto per le opere religiose nei cui conti, fino al blocco, finivano i soldi raccolti da Deutsche. Per l’installazione di quelle macchinette la banca avrebbe dovuto chiedere un’autorizzazione, ma quella richiesta non era mai stata inoltrata. Nel 2011 era stata proprio la Procura di Roma a segnalare l’anomalia, dalla quale scaturì un’ispezione della Banca d’Italia. Solo dopo i controlli la banca chiederà una sanatoria, negata da Via Nazionale il 6 dicembre.

il Fatto 13.2.13
Siamo tutti figli di nessuno
risponde Furio Colombo


CARO COLOMBO, chiedo aiuto. Non sono religioso ma mi fa uno strano effetto stare senza Papa. C'è un grande spazio vuoto e non ho neppure capito perché.
Fabrizio

C’È UN RAPPORTO fra la percezione, un po’ misteriosa e un po’ allarmante, dello spazio vuoto e la ragione di quel vuoto. Infatti o fingiamo di credere che siano ragioni interne di fede e di chiesa, e decidiamo che non ci riguardano, perché non siamo né cardinali né teologi (in questo caso neppure credenti), o ammettiamo, come è stato detto da molti, che stiamo assistendo a un dramma politico. Il fatto che si tratti di politica della Chiesa non tranquillizza. Perché è difficile liberarsi dalla sgradevole immagine di una frattura che attraversa in profondo il nostro tempo e la vita collettiva di tutti. Quel maggiordomo furtivo che si aggirava rubando carte nelle stanze del papa non è un vecchio thriller di avventure vaticane. È storia contemporanea italiana in terribile armonia (Dante usa la parola “armonia” anche parlando dell’Inferno) con quanto avviene in altri Palazzi, non religiosi, dove c'è sempre qualcuno che fa sparire agende e borse sui luoghi delle stragi, e ci può sempre essere, all'ultimo istante, una sentenza autorevole che ordina la distruzione di carte “senza che nessuno le legga”. Dopo avere interpretato per anni la figura di Joseph Ratzinger come quella di uno “straniero” rispettabile e colto ma poco interessato alla storia del mondo, mentre crollavano cornicioni e si sprecavano vite umane, spinte in massa verso una nuova miseria, ecco che all'improvviso si alza qualcuno che dice “io non posso”. Alcuni (alcuni di noi) hanno interpretato questa frase come umana e – nel senso alto della parola – politica. Non una risposta dell'umile e indebolito credente a Dio, ma una sfida alla Curia romana di un uomo che non è disposto a giocare i giochi delle carte rubate che (penserebbe un narratore di fiction) precedono o seguono ricatti. La vicenda ha una grandezza shakespeariana più che le dimensioni di un ex voto. Ci dice che molto è accaduto e molto sta accadendo che non può essere accettato come se fosse obbedienza dovuta o “sacrificio sulla croce”. Il cittadino europeo Ratzinger, di professione prete e di vocazione teologo, non ha respinto la croce, sembra ad alcuni di noi, estranei agli affari religiosi della chiesa, ma attenti all'evento. Ha spinto indietro trattative e baratti che sono, per forza, di natura politica e attinenti al potere. C'è un vuoto, è vero. La forza di Ratzinger, a quanto pare finora, è stata di dirlo invece di fingere obbedienza e di scegliere la strada immensamente più facile del silenzio-complicità.

il Fatto 13.2.13
Pedofilia “Mahony non deve votare per il Papa”


Los Angeles si divide sul voto al Conclave del Cardinale “in disgrazia” Roger Mahony. Tra i fedeli e le vittime degli abusi del clero molte voci si sono levate per chiedere che non sia fatto entrare nella Cappella Sistina per eleggere il nuovo Pontefice. L’alto prelato, “degradato” dall’arcivescovo Jose Gomez per avere insabbiato per anni lo scandalo della pedofilia, ha annunciato sul suo blog l’imminente partenza per Roma “per ringraziare Benedetto XVI per il suo servizio alla Chiesa e partecipare all’elezione del suo successore”. Uno degli 11 cardinali americani che hanno diritto di voto nel Conclave, Mahony è stato il capo dell’arcidiocesi di Los Angeles fino al 2011. Due settimane fa il suo successore Jose Gomez lo ha rimosso da tutti gli incarichi cresime, parlare in pubblico – per aver protetto i preti pedofili della diocesi. Lunedì i rappresentanti delle vittime dei preti pedofili avevano chiesto a Benedetto XVI un gesto di leadership negli ultimi giorni del suo pontificato e oggi Kristine Ward della National Survivor Advocates Coalition lo ha esplicitato: “Il Papa dovrebbe impedirgli di votare”, ha scritto la Ward sull'influente National Catholic Reporter argomentando che che al posto dell’alto prelato dovrebbe esserci nella Sistina “una sedia vuota”. E anche per Manuel Vega, un ex poliziotto che da chierichetto fu molestato da Padre Fidencio Silva, il cardinale ha “le mani sporche” e non dovrebbe aver voce in capitolo nella scelta del nuovo pontefice.

Repubblica 13.2.13
Il NYT attacca: “A Sodano 15mila dollari dal prete pedofilo”


NEW YORK — Ce la farà Roger Mahony, uno degli 11 cardinali americani, a partecipare al Conclave? Lui ha già annunciato nel suo blog di aver preparato le valigie per Roma. Ma tra i 71 milioni di cattolici d’oltreoceano nessuno si dimentica che appena due settimane fa Mahony, ex-arcivescovo di Los Angeles, è stato rimosso dal suo successore da tutti gli incarichi per aver protetto i preti pedofili della diocesi. «Il Papa dovrebbe quanto meno impedirgli di votare», ha scritto ieri l’influente National catholic review.
Le polemiche su Mahony mostrano come la decisione di Benedetto XVI abbia scatenato negli Usa una reazione molto emotiva. «Il Papa ha un’ultima possibilità di rimediare ai torti del recente passato», ha scritto ieri sul New York Times Jason Berry, autore di un libro sulla mala-finanza del Vaticano: «Dovrebbe espellere il cardinale Angelo Sodano, decano del collegio cardinalizio, il quale più di ogni altro è il simbolo di un uso del potere che ha corrotto le gerarchie ecclesiastiche». Sono parole dure, quelle rivolte contro l’ex Segretario di Stato. Accusato anche di aver ricevuto 15mila dollari da Marcial Maciel Degollado, il sacerdote messicano fondatore dei Legionari di Cristo ritenuto responsabile di abusi.
(ar. zam.)

l’Unità 13.2.13
Abu Omar, Pollari condannato a dieci anni
Sentenza d’appello per il rapimento dell’imam di Milano. Nove anni per Marco Mancini
L’ex direttore del Sismi: «Anche Tortora fu condannato a 10 anni... »
di Massimo Solani


Il rapimento dell’ex imam di Milano Abu Omar fu «un crimine che ha violato anche il diritto umanitario» eseguito con la complicità degli ex vertici del servizio segreto militare che agirono «in un quadro opaco e al di fuori delle istituzioni». Così il sostituto procuratore generale di Milano, Pietro De Petris, aveva sostenuto la sua richiesta di condanna nei confronti dell’ex direttore del Sismi Niccolò Pollari e dell’ex numero 2 del servizio segreto Marco Mancini. Una requisitoria durissima evidentemente condivisa dai giudici della quarta sezione della Corte d’Appello di Milano che ieri hanno condannato Pollari a dieci anni di reclusione (12 era la richiesta) e Mancini a nove al termine del processo d’appello bis per il rapimento dell’imam «prelevato» a Milano da uomini Cia il 17 febbraio del 2003 nel quadro delle extraordinary renditions volute dall’amministrazione Bush per il contrasto al terrorismo internazionale. Sentenza dura anche per gli agenti Giuseppe Ciorra, Raffaele Di Troia e Luciano Di Gregori condannati a sei anni di carcere. «È stata condannata una persona che tutti in Italia sanno essere innocente», la prima reazione di Pollari. «Non voglio fare paragoni ha accusato ma ricordo che anche Enzo Tortora fu condannato a dieci anni».
Si conclude così, con una condanna per sequestro di persona a carico dell’ex direttore del Sismi Pollari, il quarto atto di uno dei processi più complicati degli ultimi anni e sul quale altissima è stata la tensione fra la magistratura milanese e i governi succedutisi nel frattempo. In primo e secondo grado, infatti, venne deciso il non luogo a procedere nei confronti di Pollari e Mancini «per l’esistenza del segreto di Stato» (articolo 202 del Codice di procedura penale) messo dal governo Prodi, e confermato da quello Berlusconi, sulla vicenda del rapimento dell’ex imam. Una decisione ribaltata nel settembre scorso dalla Corte di Cassazione che, confermando le condanne a 23 agenti Cia e al collaboratore di Pollari Pio Pompa, aveva annullato con rinvio in appello le sentenze per l’ex direttore del Sismi e Mancini. Per la Cassazione, infatti, il non luogo a procedere era stato disposto dai giudici di primo e secondo grado in virtù di una «interpretazione eccessivamente estensiva» e parzialmente illegittima del segreto di Stato.
Per questo la Suprema Corte aveva imposto così la celebrazione di un nuovo processo e una nuova analisi di atti e documenti prima erroneamente ritenuti coperti da segreto. Nel frattempo, dopo la condanna in appello a sette anni nel processo stralcio dell’ex capo della Cia in Italia Jeff Castelli che in primo grado era stato prosciolto insieme ad altri due agenti americani sulla base dell’immunità diplomatica, soltanto quattro giorni fa il governo Monti (che aveva confermato il segreto di Stato sul rapimento Abu Omar) ha sollevato davanti alla Corte Costituzionale un conflitto di attribuzioni contro la sentenza della Cassazione che aveva disposto un nuovo processo per Pollari e Mancini «nella parte in cui contiene statuizioni che incidono sulla sfera di competenza riservata al presidente del Consiglio in materia di segreto di Stato». Analogo conflitto di attribuzioni, poi, è stato sollevato dall’esecutivo contro la corte d’appello di Milano per l’ordinanza «con la quale è stata disposta l’acquisizione al procedimento di verbali che contengono riferimenti a fatti o circostanze da ritenersi coperti dal segreto di Stato prima apposto e poi opposto e confermato dai precedenti presidenti del Consiglio». Una decisione che non ha impedito, comunque, alla corte di appello di proseguire il dibattimento e arrivare così alle sentenza di condanna per Pollari, Mancini e gli altri tre 007 del servizio segreto militare.
«Come si faccia con serenità a condannare un innocente, che tutti sanno essere tale, è pazzesco. Che razza di esercizio è condannare un innocente?», commentava ieri Niccolò Pollari. «Io non solo sono estraneo a queste cose ma le ho impedite. Quindi non solo sono innocente, ma sono di più e il segreto di Stato prova la mia innocenza, non la mia colpevolezza. Dopo questa sentenza mi chiedo: i governi Prodi, Berlusconi e Monti sono stati dunque i miei complici? E se lo sono stati perché nessuno li interpella? Sono un uomo abituato a rispettare la legge ha poi concluso e mi auguro che chi deve interpretarla la interpreti bene».
Dopo il rapimento avvenuto a Milano in via Guerzoni, Abu Omar venne trasportato con un furgone alla base aerea statunitense di Aviano da dove, a bordo di un aereo di copertura della Cia, volò alla volta della base Usa di Ramstein in Germania e da lì verso il Cairo. In Egitto, raccontò poi Abu Omar dopo la liberazione, l’ex imam venne recluso nel carcere di Al Tora dove fu sottoposto a torture e sodomizzato. Ad Abu Omar e alla moglie gli imputati condannati ieri dovranno risarcire in solido una provvisionale di 1,5 milioni, mentre il resto del risarcimento sarà quantificato da una causa civile.

il Fatto 13.2.13
Gran Bretagna, Olanda & co: la carica degli anti F-35
La mappa dei Paesi che stanno lasciando il programma dei jet
di Daniele Martini


Se non è una fuga dagli F-35 poco ci manca. Perplessi di fronte ai clamorosi difetti del cacciabombardiere Lockheed Martin emersi durante le prove, spiazzati dai costi in crescita, dubbiosi circa l'utilità di un sistema d'arma così sofisticato da risultare paradossalmente vulnerabile, sette dei nove paesi del programma internazionale guidato dagli Stati Uniti, ci stanno ripensando. La lista delle marce indietro totali o parziali è stata fornita in una conferenza stampa da Francesco Vignarca, autore di Armi, un affare di Stato (edizione Chiarelettere) ed esponente con Rete italiana per il disarmo, Tavola della pace e Sbilanciamoci, del movimento che partito in sordina 4 anni fa, è via via riuscito a imporre il tema degli F-35 all'attenzione dell'opinione pubblica italiana. Secondo le rilevazioni di Vignarca i paesi pentiti o dubbiosi sugli F-35 sono Olanda, Australia, Canada, Turchia, Norvegia, Danimarca, Gran Bretagna. Gli unici che vanno avanti senza apparenti tentennamenti, ma con approcci differenti, sono gli Stati Uniti, dove Lockheed Martin ha la sede, e l'Italia che partecipa al progetto con Alenia-Aermacchi del gruppo Finmeccanica. Negli Usa il dibattito sugli F-35 è comunque aspro e alla luce del sole; qui da noi è rimasto per anni opaco e sottotraccia tanto che oggi c'è chi comincia a chiedersi – come fa pubblicamente Nichi Vendola –, se il caparbio attaccamento italiano all'affare non nasconda qualcosa di poco commendevole, tipo tangenti.
L’inchiesta di Amsterdam e il rinvio del Parlamento
L'Olanda dopo aver detto sì all'acquisto di 85 jet, ha votato contro in Parlamento rinviando ogni decisione definitiva alla conclusione di un'inchiesta sull'affare, presumibilmente nel 2015. L'Australia sembrava volesse comprare 100 F-35, ma nel frattempo ha deciso di acquistare 24 Boeing Super Hornet e quindi, di fatto, è come se avesse messo un freno all'acquisto del jet Lockheed. In Canada, paese candidato ad acquisire 80 velivoli, la polemica sugli F-35 è diventata un caso nazionale dopo che il Parlamento ha scoperto di aver ricevuto dal governo dati parecchio sottostimati sui costi del velivolo. L'esame dei conti è stato affidato a una società esterna, la Kpmg, la quale ha certificato che in 40 anni il programma sarebbe costato 45 miliardi di dollari, tre volte la cifra ufficiale fornita. In Turchia hanno rinviato l'acquisto dei primi due F-35, mentre la Norvegia, dopo aver prenotato 48 aerei, minaccia di non farne niente se su di essi non sarà piazzato il suo missile Kongsberg. Anche la Danimarca sembrava volesse dotarsi di 48 cacciabombardieri Lockheed, ma poi ha riaperto la gara aprendo la porta al Super Hornet o ad altri eventuali modelli.
Italia, mosca bianca al seguito Usa
Infine la Gran Bretagna che sembrava il partner più stretto degli Usa, dopo aver preso in considerazione l'acquisto di 138 aerei, ha rinviato la decisione di altri due anni subordinandola alla stesura del nuovo programma strategico di difesa e comunque sembra orientata a un taglio dell'ordinazione di due terzi. In questo contesto di ravvedimenti, Stati Uniti e Italia fanno la figura di mosche bianche. In Italia il ministro Giampaolo Di Paola, all'opposizione crescente agli F-35 ha offerto l'offa della riduzione della commessa da 131 velivoli a 90, senza intaccare però l'impegno di spesa che resta di 13 miliardi di euro. Gli Stati Uniti di Barack Obama, infine, si stanno comportando come fossero prigionieri della sindrome del too big to fail and too big to succed (troppo grande per fallire, ma anche troppo grande per avere successo). Hanno già speso troppo e assunto troppi impegni per potersi permettere il lusso di fare marcia indietro rispetto ai 2443 jet programmati, ma si rendono pure conto delle debolezze dell'affare e della necessità di non restare in balia del costruttore Lockheed, sottoposto senza sconti a esami severi.

l’Unità 13.2.13
«Sì, lo voglio»
Parigi approva le nozze gay
329 voti a favore, 229 contrari: passa la riforma di Hollande
Ora il testo all’esame del Senato
di Marco Mongiello


BRUXELLES Dopo più di dieci giorni di intensa battaglia parlamentare l’Assemblea nazionale francese ha approvato il progetto di legge «matrimonio per tutti» che introduce le nozze e le adozioni per gli omosessuali. Il 2 aprile il testo della normativa passerà al vaglio del Senato. Il voto finale è arrivato alle cinque di pomeriggio di ieri. Con 329 «sì» e 229 «no» l’Assemblea nazionale ha concluso la lunga maratona parlamentare iniziata il 29 gennaio.
I conservatori dell’Ump, il partito dell’ex presidente francese Nicolas Sarkozy, hanno utilizzato tutti i cavilli delle regole parlamentari per fare ostruzionismo. I deputati della sinistra però sono rimasti compatti restando in aula fino a notte per diversi giorni e ieri hanno potuto celebrare la vittoria, anche se non definitiva, della prima grande riforma sociale introdotta dal presidente francese François Hollande dalle sue elezioni a maggio dell’anno scorso.
«Questo è il voto dell’orgoglio», ha dichiarato il portavoce dei deputati socialisti Thierry Mandon, «orgoglio di permettere alla Repubblica di fare un passo da gigante verso l’uguaglianza dei diritti e di portare a termine una battaglia di 30 anni, orgoglio di aver partecipato pienamente al dibattito, di giorno come di notte, senza aver utilizzato alcun artificio di procedura».
IL 24 MARZO DESTRA IN CORTEO
Per il 24 marzo, poco prima dell’inizio dell’esame del progetto di legge al Senato il 2 aprile, l’opposizione conservatrice ha indetto un’altra manifestazione contro le nozze gay. Tra i deputati dell’Ump però iniziano a contarsi le prime defezioni per una battaglia che risulta sempre più inutile e antistorica. Due parlamentari conservatori, Franck Riester e Benoist Apparu, sono apertamente favorevoli al progetto «matrimonio per tutti». Altri tre, Nathalie Kosciusko-Morizet, candidata potenziale a sindaco di Parigi, Edouard Philippe, deputato e sindaco di Havre, e Pierre Lellouche, deputato di Parigi, hanno scelto di astenersi dal voto. In realtà i conservatori che si sono astenuti o che hanno votato a favore sono di più.
Fin dall'inizio del dibattito il partito di Sarkozy, oggi guidato da Jean-François Copé, aveva esitato a lanciarsi in una battaglia non condivisa dalla maggioranza dei francesi, che secondo i sondaggi sono in larga parte favorevoli alle nozze gay. Già nel 1999 la battaglia conservatrice contro i Pacs (Pacte civil de solidarité), che hanno rappresentato un primo riconoscimento giuridico delle unioni fra omosessuali, si è conclusa con una sonora batosta.
Quando lo scorso 7 novembre il ministro della Giustizia Christiane Taubira ha presentato il progetto di legge «matrimonio per tutti» è stato il clero francese a mobilitarsi per primo, incoraggiato anche da Papa Ratzinger. Il 17 novembre in occasione della visita dei vescovi francesi Benedetto XVI aveva esplicitamente invitato a «prestare attenzione ai progetti di leggi civili che possono attentare alla tutela del matrimonio tra un uomo e una donna». Quello stesso giorno la destra francese dell’Ump ha tenuto la sua prima manifestazione contro i matrimoni omosessuali, unendosi agli integralisti cattolici e all’estrema destra. La mobilitazione è stata poi ripetuta il 13 gennaio, quando a Parigi sono arrivati quasi un milione di manifestanti. Visti i sondaggi a favore delle nozze gay però la battaglia dei conservatori ha puntato soprattutto sulla contrarietà alle adozioni, sulle quali la società francese è divisa a metà.
In Europa però i Paesi in cui i matrimoni gay sono riconosciuti continuano ad aumentare. Oltre alle unioni civili, che esistono in dieci Paesi della Ue, i matrimoni omosessuali sono oramai legge in sei Paesi europei: Belgio, Olanda, Svezia, Danimarca, Spagna e Portogallo. Lo scorso 5 febbraio inoltre la Camera dei Comuni britannica, a maggioranza conservatrice, ha approvato con 400 voti a favore e 175 contrari il progetto di legge per introdurre entro l’anno i matrimoni tra persone dello stesso sesso.

Corriere 13.2.13
L'inverno islamista che gela la primavera araba
di Lorenzo Cremonesi


Nonostante il ritmo scoppiettante, infarcito di suggestioni stimolanti, slanci di entusiasmo e continui richiami alla storia culturale del mondo musulmano e dell'Occidente moderni, il nuovo libro di Khaled Fouad Allam (Avere vent'anni a Tunisi e al Cairo. Per una lettura delle rivoluzioni arabe, Marsilio, pp.206, 18) tradisce una profonda preoccupazione sulle conseguenze delle cosiddette «primavere arabe». I motivi sono presto detti: il Medio Oriente sta precipitando nel buio del fondamentalismo islamico, tanto che le avanguardie laiche e grandemente influenzate dai nuovi mezzi di comunicazione via web, che un ruolo così centrale hanno giocato nelle rivoluzioni in Tunisia o in piazza Tahrir al Cairo, sono vittime dei mostri che hanno contribuito a risvegliare con spirito di sacrificio.
Allam non nasconde la sua sofferta partecipazione. Qui è molto più che l'impegnato docente di Sociologia del mondo musulmano all'Università di Trieste. Racconta la giovinezza in Algeria, dove nacque nel 1955. Ricorda le ragioni della deriva antidemocratica tra i regimi arabi sorti dalle battaglie anti-coloniali. Soprattutto traccia un interessante parallelo tra i movimenti studenteschi occidentali del 1968 e le loro pallide emulazioni nelle università arabe di allora. Pallide perché — sottolinea — in Medio Oriente prevalsero l'autoritarismo, la repressione e la conservazione imposti dai regimi militari pseudo socialisti. «Speravamo che la questione palestinese potesse essere il nostro Vietnam. Ma non fu mai così», sottolinea.
Il pacifismo in piazza contro i bombardamenti in Vietnam mobilitò il mondo giovanile occidentale, creò utopie, voglia di rinnovamento. Invece, la sconfitta araba contro Israele nella guerra del 1967 fu il simbolo di un corale fallimento: dieci anni dopo si tradurrà nell'ascesa politica dei Fratelli Musulmani, con il conseguente aumento della repressione, il velo per le donne, la frustrazione sessuale generalizzata. Ricorda: «Quand'ero studente, tra la fine degli anni 60 e inizio degli 80, nell'Algeria del dopo Boumédienne, noi ragazzi ballavamo al ritmo dei brani dei Rolling Stones, dei Pink Floyd... Ma quando entravamo in un cinema vedevamo un pubblico di soli uomini. La presenza femminile era estremamente rara perché mal vista dalla puritana società araba». Rivoluzione e repressione: una costante sulla sponda meridionale del Mediterraneo. Per sottolinearlo, Allam pubblica in appendice il testo integrale della «Bozza di Costituzione dello Stato del Califfato», modello per tutti i movimenti islamici contemporanei. Se ne parla spesso: leggerla è importante.

l’Unità 13.2.13
Quaderno rubato: solo gioco e non un fuoco
di Bruno Gravagnuolo


CONTINUA IL TORMENTONE DEL QUADERNO «SCOMPARSO». Tormentone mediatico. Che almeno ci spinge a parlare e riparlare di Gramsci e dei controversi rapporti con Togliatti (il salvatore dei Quaderni!) L’ultima puntata è di Luciano Canfora sul Corsera, schierato con Franco Lo Piparo: per l’innegabile esistenza di un Quaderno scomparso. E qui Canfora aggiunge un elemento interessante, tratto da un volume Carocci del 2005: Togliatti editore di Gramsci (Chiara Daniele e Giuseppe Vacca). Da lì risulta che fonti sovietiche attestano in data 3 marzo 1945 la consegna a Togliatti di «34 quaderni di lavori di Gramsci». Infatti Togliatti al San Carlo di Napoli annuncia il 29 aprile 1945 l’arrivo «dei 34 quaderni fitti di scrittura». Tuttavia un altro documento sovietico attesta pure che il 10 Dicembre 1946, tra i vari materiali da consegnare ancora a Togliatti, c’è anche: «Quaderno: quantità 1». Quel quaderno è l’indice incompleto dei Quaderni steso da Tatiana Schucht dopo la morte di Gramsci. Fascicolo che contiene ancora copia del documento di inventario originario, di quel 10 dicembre. E Canfora ne conviene: il quaderno giunto in seguito è quello di Tatiana. Ma allora dice Canfora i Quaderni erano 35, visto che Togliatti disse al San Carlo che ne aveva 34. No. Perché Togliatti ha sempre parlato o di 30 (lettera a Manuilskij dell’116 -1937) o di 34 (San Carlo). Escludendo nel primo caso ma a Mosca non aveva ancora visto nulla i quaderni di traduzione (A, B, C, D) e in base a notizie indirette (Sraffa, Tania). Ma sempre includendo l’indice. Nel 1937: 29 più indice. E nel 1945, quando parla di 34: 29 teorici, più indice, più 4 di traduzioni. Togliatti computava così a maggior ragione nel 1945: a quella data infatti i Quaderni li aveva già visti ed esaminati tutti. E per lui una volta visti erano 34 a parte i due rimasti vuoti e benché quello di Tatiana non fosse ancora giunto dall’Urss. Ps: Togliatti prima dice 34, e poi ne fa mancare uno? O fu Gerratana... a rubare in seguito un quaderno? Assurdo.

l’Unità 13.2.13
Linguaggi e politica
Le parole per dirlo Il termine «femminicidio» entra di diritto nel Dizionario Civile
di Sara Ventroni


La docente di filosofia Fabrizia Giuliani inserisce la parola scomoda ma politicamente e socialmente necessaria nella pubblicazione
della Fondazione ItalianiEuropei
Una rivoluzione concettuale: l’alfabeto progressista

SIAMO NEL CUORE DI TENEBRA DI UN PASSAGGIO D’EPOCA. IN QUESTO MOMENTO LE PAROLE LANCIANO PONTI SOPRA LE MACERIE. Rinominare il mondo è un atto politico che richiede un impegno comune. Per fondare una nuova koinè è però necessario grattare la patina confortevole degli slogan. Qualche giorno fa, alla Casa dell’Architettura di Roma, in occasione dell’incontro «Le parole dell’Italia giusta», è stato presentato il nuovo alfabeto progressista. Sedici parole da declinare, per riannodare il legame tra ciò che siamo e quello che intendiamo salvare per il futuro.
Il legame tra costituente politica e alfabetizzazione civica impegna i cittadini e la classe dirigente. Stiamo per uscire da un ventennio di decomposizione delle relazioni sociali e abbiamo il dovere di divincolarci dall’abbraccio mortale di individualismo e postmodernità. Con una prospettiva euristica era nato, nel 2008, il Dizionario civile della Fondazione Italianieuropei, con voci dedicate ai rilettura dei concetti classici della politica. La stessa Fondazione ha organizzato l’incontro tra le famiglie progressiste europee, «Renaissance for Europe», che si è concluso sabato scorso a Torino.
Evidentemente è tempo di impegnare la riflessione in un nuovo orizzonte comune. Non è un caso, allora, se fa ingresso nel Dizionario civile la parola «femminicidio» (numero 1, 2013, pp. 189-90), a cura da Fabrizia Giuliani, docente di Filosofia del Linguaggio, candidata alla Camera per il Pd e tra le fondatrici del movimento Se non ora quando?
La grande mobilitazione del 13 febbraio 2011 ha messo per la prima volta in chiaro il rapporto tra la marginalizzazione politica delle donne e il declino del Paese. Una decadenza alla quale si è reagito non certo con il ricorso – come vorrebbero i detrattori al senso del decoro, ma facendo riferimento a una parola scandalosa e rivoluzionaria: dignità. Un concetto politico che non poteva più essere aggirato, nascosto o esorcizzato con nuovi détournement. La parola «dignità» andava necessariamente calata come una scialuppa nella mareggiata, per scongiurare il naufragio del Paese.
Così, si è aperta la strada al risveglio civico dell’Italia e alla costruzione di un nuovo pensiero delle donne: una voce politica pubblica e autorevole diretta e non metaforica. Perché le donne non rappresentano, le donne sono il Paese. E lo fondano, a partire dal pensiero che si fa azione politica. Di questo nesso si occupa da tempo la riflessione di Fabrizia Giuliani: dei legami tra le parole e la loro modellizzazione in concetti che agiscono nel presente. In quest’ottica, la voce del Dizionario lancia una sfida, perché il passaggio è delicato: la nuda parola, facile preda della retorica, deve farsi carico del peso di un nuovo significato condiviso. «Femminicidio» è infatti un’espressione scomoda. Solo se assimilata senza eufemismi può diventare strumento del diritto e della politica.
Noi siamo il Paese che fino al 1975 conosceva solo l’«uxoricidio», espressione che liquidava l’identità delle donne nel loro stato civile. Fino al 1981 l’Italia ha contemplato il delitto d’onore, appannaggio dei fratelli e dei mariti, cui veniva riconosciuta l’attenuante dell’offesa subìta: la macchia al diritto proprietario del maschio di famiglia.
Fuori dalle retoriche consolatorie, la voce sul «femminicidio» si colloca nel mezzo di un presente scottante, e spesso troppo ambiguo. Non si tratta infatti di preconizzare una falsa polarità tra neomaschi buoni – cavalieri di sorelle, moglie e madri contro i maschi cattivi, femminicidi.
Come ricorda Giuliani, non siamo davanti alla semplice registrazione di un neologismo: «La difficoltà a porre accanto al confisso -cidio la parola “femmina” e non più solo uxor (moglie), che ha un referente e una valenza semantica evidentemente diversi è specchio della difficoltà di riconoscere che il crimine attiene al genere e non solo a una parte di esso. Il nodo che qui la lingua ci segnala è la resistenza ad abbandonare un tratto dell’ordine patriarcale, nel quale l’identità la dignità di una donna coincide per intero con il suo stato civile».
Accolto per la prima volta in un dizionario politico, «femminicidio» non è un lemma da consumare nelle battaglie di retroguardia. Qualche giorno fa Sara Ficocelli, nell’inserto femminile di Repubblica, guardava con un certo ottimismo all’offerta televisiva italiana del 2012, passando in rassegna i numerosi programmi che hanno a tema la violenza sulle donne.
A dirla tutta, l’affresco mediatico non ci convince del tutto. Dal mainstream delle donne-figuranti al romanzo popolare delle vittime dell’amore molesto, il passaggio è breve. Insomma, si rischia il salto mortale da uno stereotipo all’altro. Questo accade perché ancora si procede, nel pensiero e nel linguaggio comune, a due velocità. Alla libertà delle donne non è infatti finora corrisposta un’adeguata consapevolezza maschile; se non, appunto, in forma di reazione violenta o di falsa coscienza.
Non ci si salva l’anima spostando la questione dal rude paternalismo alla salvifica protezione delle sorelle e delle madri della Nazione. La retorica del passaggio dal «possesso» alla «tutela» è stata già ampiamente consumata. Siamo oltre. Per questo è necessario intenderci sul significato delle parole. Per chi non se ne fosse ancora accorto: le donne stanno scrivendo il nuovo vocabolario politico del presente.

La Stampa 13.2.13
Caro amico ti sparo
Il 10 luglio del 1873 Paul Verlaine esplose contro Arthur Rimbaud il colpo di pistola più celebre della letteratura. Parigi lo ricorda con una mostra
di Alberto Mattioli


Il colpo di pistola più famoso della storia della letteratura francese fu esploso in Belgio. Siamo a Bruxelles, è il 10 luglio 1873, una giornata assolata, afosa e pesante. Paul Verlaine compra all’armeria Montigny, nella galleria Saint-Hubert, un revolver Lefaucheux calibro sette millimetri. Lo paga 23 franchi. Rientra in albergo, all’hôtel de la Ville de Courtrai, e lo mostra al suo amante Arthur Rimbaud, strillando: «È per te, per me, per tutti! ». Però i due escono a prendere l’aperitivo e vanno a cena. L’assenzio, la «fée verte», la fata verde che dà l’ebbrezza e brucia il cervello, cola a fiumi. Tornati in albergo, Verlaine perde definitivamente la testa e spara due colpi a Rimbaud gridando: «Prendi, ti insegno io a voler partire! ». Poi, a sua madre che accorre dalla stanza accanto, chiede di sparargli alla tempia.
Adesso una mostra al Musée des lettres et manuscrits di Parigi, Verlaine emprisonné, «Verlaine imprigionato», ricostruisce tutta la vicenda. Che prosegue all’ospedale. Rimbaud è leggermente ferito all’avambraccio sinistro, si fa medicare e racconta una storia qualsiasi. Potrebbe finire tutto lì. Ma annuncia di voler partire per Parigi. Sulla strada della stazione, Paul minaccia ancora, mostra la sua sette millimetri. Arthur si spaventa e scappa. Verlaine l’insegue. Finché Rimbaud si rivolge a un poliziotto, che li arresta tutti e due. Al commissariato, Rimbaud racconta. Segue denuncia e Une saison en enfer. La raccolta di poesie è di Rimbaud, ma il titolo si applica a Verlaine. La stagione all’inferno inizia il 13 luglio, quando per ordine del giudice t’Serstevens, i dottori Sernal e Vleminckx sottopongono il poeta a un umiliante esame corporale. Da un punto di vista sociale se non da quello legale, amare un uomo è ancora considerato più grave che sparargli. Referto: «P. Verlaine porta sulla sua persona delle tracce di abitudine di pederastia attiva e passiva».
Condannato a due anni di galera e 200 franchi d’ammenda, Verlaine resterà in prigione fino al 16 gennaio 1875, prima ai Petits Carmes di Bruxelles e poi nel carcere di Mons, cella numero 1. Lì scrive una serie di poesie sotto un titolo che dice tutto, Cellulairement, ma non pubblica mai il libro. Verlaine stesso ne distribuisce i brani in altre raccolte. Il manoscritto riappare nel 2004, a un’asta di Sotheby’s. Lo Stato francese lo compra per 299.200 euro, lo classifica «tesoro nazionale» e lo assegna al Musée des lettres che lo espone per l’occasione.
Intorno, una piccola ma curatissima mostra sviluppa la tesi che in realtà Verlaine fosse in prigione da sempre, ben prima di finirci fisicamente. Intanto, per il suo fisico ingrato, la sua bruttezza senza appello, la sua «maschera da vampiro». Poi, per l’atmosfera della famiglia. Il poeta nasce dopo tre aborti, troppo atteso e desiderato per non deludere. Incredibile ma vero, i tre feti dei fratelli mai nati sono conservati in boccali di vetro esposti in salotto, almeno finché Paul, completamente sbronzo, non li fracassa a colpi di bastone.
Ma Verlaine è prigioniero anche dell’alcol e soprattutto dell’assenzio, questa droga liquida che sta ai poeti maledetti dell’Ottocento come l’eroina ai rocker, non meno maledetti, del secolo seguente. Inizia a bere per sfuggire alla noia della sua prima vita da funzionario. E’ l’«heure verte», l’ora verde degli interminabili aperitivi al Café du Gaz di rue de Rivoli e poi, scendendo sempre più giù nella categoria dei locali e nella rispettabilità sociale, al Café du rat mort, a Pigalle, che in realtà non si chiamava così ma fu ribattezzato quando un avventore chiese, dall’odore che esalava della sala al primo piano, se c’erano dei topi morti.
Per Verlaine è davvero l’inferno. Picchia la moglie Mathilde che ha sposato senza amarla e il figlio piccolo. Il 9 maggio 1872, ubriaco come al solito, cerca di dare fuoco ai capelli di Mathilde e poi di pugnalarla. Intanto nella sua vita è entrato Rimbaud. Si incontrano per la prima volta il 24 settembre 1871: Arthur ha 17 anni, Paul è un vecchio di 27. Per Mathilde, Rimbaud è «un grande e solido ragazzo dalla figura rossastra, un contadino, gli occhi blu, abbastanza bello, ma con un’espressione sorniona». Sarà il grande amore di suo marito. Insieme, scrivono il Sonnet du trou du cul (evitiamo di tradurre): le due quartine sono di Verlaine, le due terzine di Rimbaud.
La relazione è tempestosa da subito. Rimbaud arriva a pugnalare Verlaine: cinque coltellate, tre in una coscia e due sulle mani. I due viaggiano, ma sono viaggi che sembrano una fuga: Bruxelles, Londra, di nuovo Bruxelles. Verlaine si mangia l’eredità di una zia, 30 mila franchi oro. L’ultimo atto a Bruxelles. Quando gli arriva in carcere la sua copia di Une saison en enfer, Paul ci legge una dedica gelida, quasi burocratica: «à P. Verlaine, A. Rimbaud».
Arthur morirà nel 1891, dopo una vita avventurosa e dopo che gli era stata amputata una gamba devastata dal cancro. Verlaine cinque anni dopo, trascinandosi in un’esistenza quasi da barbone, con l’unico conforto dell’assenzio. Esposti, in mezzo agli autografi delle poesie e ai verbali dei commissariati, ci sono due ritratti che valgono la visita. Uno è l’autoritratto che Verlaine si fece nel 1890, cubista prima del cubismo. L’altro il ritratto di Rimbaud di Cocteau, che in realtà è ispirato al Rimbaud malato dipinto da Jef Rosman dopo i famosi colpi di pistola. Ufficialmente, la mostra racconta un fatto di cronaca nera. In realtà, è una grande storia d’amore.

Corriere 13.2.13
Animale uomo, rischio estinzione
Viviamo la sesta crisi planetaria: ma non tutto è perduto
di Paola D’Amico


Immaginate due compagni di scuola, oggi affermati studiosi, che si rivedono dopo molti anni e iniziano un dialogo che si trasforma in un avvincente viaggio tra etologia e letteratura. Un viaggio che fa idealmente tappa in sei stazioni, dove i due divagano assieme sui rispettivi interessi e cercano, con la curiosità che ha improntato le loro rispettive vite dedicate alla ricerca, analogie e differenze fra il mondo animale, il mondo dell'uomo e l'universo letterario. Le domande che nascono in questo intenso scambio epistolare non sempre hanno risposte. Spalancano, invece, nuovi interrogativi creando l'effetto di scatole cinesi. E il dialogo, che si nutre di racconti e citazioni letterarie ed esempio tratti dall'osservazione del mondo animale, si tramuta spesso in gioco, dialettica dal quale il lettore non riuscirà a chiamarsi fuori.
L'uomo, i libri e gli altri animali (edito da il Mulino, pagine 240, 16) nasce dall'incontro di Remo Ceserani, uno dei maggiori studiosi di letteratura comparata, con l'etologo Danilo Mainardi. Come accade tra vecchi amici che si rivedono dopo un tempo memorabile è inevitabile che, innanzi tutto, essi si raccontino. Ed ecco, intervallate dalle acute analisi sul merlo di Palomar di Calvino o sulla teoria dell'uomo animale sociale di David Brooks, che diventerà il discutibile manifesto di un nuovo umanesimo, affiorare spunti biografici finora sconosciuti dei nostri due studiosi. Nati negli anni Trenta e dunque protagonisti, non solo testimoni diretti, di una grande e rapidissima trasformazione culturale. Quella che Ceserani spiega riprendendo i concetti di «società solida e liquida», introdotti dal filosofo e sociologo polacco Zygmunt Bauman per spiegare la postmodernità: il cambiamento epocale nei paesi industriali avanzati nella seconda metà del Novecento.
L'ultima stazione del loro viaggio è Soresina, davanti alla scuola elementare dove Remo Ceserani e Danilo Mainardi si conobbero, bambini. Era il '42, il futuro etologo era sfollato lì da Milano. Crescono insieme Danilo, al quale la sera il babbo leggeva i libri di Darwin al posto delle fiabe e Remo, nella grande casa dove non c'era distinzione tra la vita famigliare e lo studio fotografico del babbo. Innamorato degli animali già allora il primo, divoratore di libri il secondo. E qui affrontano i temi della propensione della natura al travestimento, agli inganni, alla metamorfosi, delle strategie di trasformazione degli animali, riprese dai miti raccontati nelle Metamorfosi di Ovidio o dall'Alcyone di D'Annunzio.
E, ancora, s'interrogano sull'aggressività nella specie uomo e nei paguri e nei granchi. Con la conclusione, qui sì possibile, che «le ataviche strategie utili in natura per evitare lo spargimento di sangue sono state nella nostra specie inattivate». Abbiamo perso anche gli istinti, cioè «le istruzioni genetiche per stare al mondo», concludevano in una dissertazione poco prima, «ma abbiamo sete di conoscenza». Perché ciò che ci differenzia dagli altri animali «è la straordinaria e unica capacità di evoluzione culturale che abbiamo sviluppato».
Si entra nel vivo del metodo scientifico — «basarsi solo su fatti accertati, senza lasciarsi distrarre da fede, superstizione e tradizione» — che pone sullo stesso piano lo studioso della filogenesi (lo scienziato) e il filologo (umanista): il bello della ricerca, concludono Ceserani e Mainardi, è che «ci propone sempre nuove sfide e nuovi indizi». «Nella ricostruzione delle vicende storiche — spiega il letterato — ci sono ostacoli insuperabili. La filologia è costretta a dichiarare i propri limiti e accontentarsi di fare ipotesi». Ma è proprio questo limite che la apparenta alla scienza. «Raramente in campo scientifico sono state scoperte verità assolute», controbatte l'etologo. Che, poi, racconta di quanto spiazzò i ricercatori di tutto il mondo il ritrovamento dell'Odontochelys, il più antico (per ora) fossile di tartaruga — Cina, 220 milioni di anni fa — che aveva un piastrone (a proteggere l'addome) ma non ancora il carapace intero.
Avevano scoperto, cammin facendo, nell'articolato scambio epistolare, quando Mainardi è nella laguna veneziana e Ceserani nella baia di San Francisco, di avere in comune molto più di quanto immaginavano. Il primo che lavora sui fenomeni, il secondo sulle parole che li descrivono, l'uno che ha come fonti primarie la natura e gli animali, l'altro i testi e le parole. La ricerca delle analogie tra due mondi solo apparentemente lontani comincia nella prima tappa con l'analisi di alcune parole chiave. Si parla così di comunicazione, da quella del mondo vegetale che sparge messaggi a non finire al vocalizzo dell'allocco, il fiero rapace notturno che popola i nostri boschi, «un suono trisillabo che fa così: huuuh- hu- huuuuuuuuuh», spiega Mainardi ricorrendo all'onomatopeica. E ancora si svelano le strategie degli inquilini non umani in città per superare il sottofondo acustico urbano. Si parla di rituali biologici e di riti culturali. Poi verranno il riso, il sogno, il bacio, il senso della morte, l'insegnamento generato dalle «cure parentali». Non c'è bisogno, è la conclusione, di essere fanatici animalisti per sentirsi coinvolti in una battaglia per il riconoscimento dei diritti di altre specie non umane.
«La vita è un unico lungo episodio, irripetibile. L'uomo non è protagonista assoluto, è specie giovanissima e a rischio di estinzione, che sta facendo a processo evolutivo avanzatissimo la sua presumibilmente breve comparsata».
Dicono i paleontologi che nella storia della Terra si sono già verificati cinque periodi di grave crisi. Quella che stiamo vivendo «è la sesta estinzione e l'abbiamo fabbricata noi. Solo salvando le altre specie e gli equilibri naturali potremo salvare noi stessi».

La Stampa Tuttoscienze 13.2.13
Emma Wedgwood e Charles Darwin:
la loro storia non fu solo cementata dall’amore, ma anche da una rara intesa intellettuale
“La vita segreta di Emma madre dell’evoluzionismo”
di Gianna Milano


Emma, «donna Wedgwood», moglie di Charles Darwin, il teorico dell’evoluzione, cresce in una famiglia prestigiosa e illuminata e ha un’educazione illuminata. Vive in un ambiente con tendenze liberali, in un’età di cui si è scritto tutto e di più, quella vittoriana. Da generazioni i Wedgwood producono le più belle ceramiche d’Inghilterra. Poteva anche non sposarsi, se non voleva, poi però si innamora di un uomo che conosce da sempre: il primo cugino Charles. Quando lui torna dal viaggio intorno al mondo sul «Beagle» (dal 1831 al 1836) e inizia a lavorare alle sue rivoluzionarie idee, pensa che deve trovare moglie e s’accorge che la persona giusta per lui c’è: è la figlia dello zio preferito.
Emma, oltre che rispettosa moglie del famoso marito e madre dei loro 10 figli, diventerà una presenza attiva nella vita di Charles: è la prima a leggere le bozze degli scritti con le sue idee sull’evoluzione. A delineare ora la figura di questa donna straordinaria è il libro di Chiara Ceci, «Emma Wedgwood Darwin» (Sironi editore): non solo il ritratto di chi ha vissuto da protagonista un’era di grandi cambiamenti, ma l’affresco di un’epoca che rappresenta un punto di svolta, dai trasporti alla letteratura, dalla medicina alla musica. Si è tanto scritto su di lui che ci si è dimenticati di lei? «Si liquida Emma con aneddoti di vita famigliare. È una lacuna che ho tentato di colmare compiendo un viaggio a ritroso, tra archivi e luoghi remoti. Lei è stata testimone di un’epoca storica affascinante e il suo è un punto di vista privilegiato, in una casa frequentata da scrittori (Charles Dickens era loro vicino di casa), scienziati (come Charles Lyell) e primi ministri». Cosa si scopre andando a frugare tra le «pieghe del suo mondo»? «Emma e le tre sorelle fanno lunghi viaggi in Europa, durante i quali sono affiancate da insegnanti per continuare la loro già eccellente educazione. Nel 1832, mentre è a Parigi, prende lezioni dal musicista ceco Ignaz Moscheles. Più difficile, invece, è ricostruire la vicenda delle lezioni da Chopin. Emma le raccontò a una figlia ed effettivamente nel 1848, quando Chopin si trova a Londra, nella sua agenda delle lezioni il nome Wedgwood compare spesso». A 16 anni Emma compie un viaggio in Italia... «Nel 1825 vi passa con le sorelle e il padre sei mesi: Torino, Firenze, Roma, Napoli, Bologna e Milano. Ho studiato i suoi appunti per ricostruirne la narrazione. C’è un suo acquerello in cui è disegnata una guardia svizzera a Roma: rimase affascinata dai colori della divisa. Emma andò alla Scala per assistere alla “Cenerentola” di Rossini. Le piacque, ma si lamentò del brusio del pubblico». Fin dal 1839, all’inizio del matrimo­nio, lei ha un ruolo nello sviluppo e nella pubblicazione, 20 anni dopo, de «L’origine delle specie»: qual è sta­ to il suo contributo nella stesura? «Se si seguono le idee sull’evoluzione di Darwin, presto ci si imbatte in Emma, la prima al mondo a leggerle nell’abbozzo del 1844. Si trattava di uno scritto privato, embrionale, ma lui pensava che l’opinione della moglie sarebbe stata preziosa. Ci sono note scritte a margine da Emma: le aveva lette con interesse e nella parte in cui Darwin illustra l’evoluzione per mezzo della selezione naturale di strutture complesse come l’occhio, lei aveva commentato: “Supposizione impegnativa”». Come ha conciliato Emma la forte fe­ de religiosa con le idee rivoluzionarie del marito? «I dubbi religiosi del marito la atterrivano, ma non furono mai motivo di scontro, semmai di dolore. Nel 1839, appena sposati, Emma scrisse a Charles una lettera in cui esprime le sue preoccupazioni circa i suoi dubbi religiosi. Si chiede se lui non fosse troppo rigido nell’applicare i criteri del metodo scientifico a questioni che appartenevano al dominio della fede. Si preoccupava che la mancanza di fede di Charles potesse significare che non erano destinati a trascorrere insieme l’eternità».
La lettera è così importante che fu inclusa da Randal Keynes, pro­pronipote di Charles ed Em­ ma, nella mostra su Darwin nel 2009: giusto? «Sì. Fu Keynes a notare i bordi consumati della let­ tera che Darwin portò a lungo nel taschino. Una prova di quanto valesse per lui Emma. In calce lui scrisse un appunto struggente: “Quando sarò morto, sappi che molte volte ho baciato e pianto su questo foglio”. Ho scandagliato gli archivi in­ glesi, ma non ci sono scritti che testimonino come i due abbiano risolto questo conflitto». E’ vero che, nonostante le perplessità, fu Emma a incoraggiarlo a pubblicare la sua teoria? «Emma aveva sempre pensato che Charles lavo­ rasse con coscienza e sincerità e desiderasse la ve­ rità. Con le sue osservazioni critiche incoraggiava il marito a ponderare le sue affermazioni e suppor­ tare la teoria con il maggior numero di prove pos­ sibile. Ma, oltre a questo aiuto intellettuale, Emma ha avuto anche un ruolo pratico, perché ha sem­ pre aiutato Charles nella revisione delle bozze del­ le sue opere o rivedendo le edizioni straniere, visto che conosceva molte lingue, anche l’italiano». Quando ha iniziato la sua ricerca a chi ha pensa­ to potessero interessare le vicende della moglie di un uomo che ha cambiato la storia? «Mi piace l’idea che interessi a un pubblico di non specialisti e non per forza di appassionati darwiniani. Anzi. Preferirei quasi che il libro venis­ se considerato un romanzo, perché, per quanto tutto sia documentato, alla fine emerge una storia appassionante, quasi quanto la vita di una eroina di Jane Austen». Lei ha creato il sito www.emmadarwin.it, dove c’è anche «il blog di Emma». A che scopo? «Nel blog si può seguire l’iter delle mie ricerche, i miei spostamenti di casa in casa, di archivio in ar­ chivio. Esperienze che altrimenti avrei perduto. E’ un diario del mio viaggio nel mondo privato di Em­ ma. Mi chiedo come l’avrebbe presa lei questa mia interferenza nella sua vita».

La Stampa 13.2.13
La scienza dei sentimenti/1
I cuori degli innamorati battono all’unisono
di Valentina Arcovio


Università In California hanno chiuso 32 coppie in una stanza silenziosa: i cuori hanno iniziato a battere allo stesso ritmo

I cuori di due innamorati battono all’unisono, letteralmente. A dimostrare la veridicità di quella che veniva considerata soltanto una romantica metafora è stato uno studio dell’Università della California, coordinato dallo psicologo Emilio Ferrer, noto per i suoi numerosi studi sull’amore. Dai risultati, diffusi dall’American Psychological Association, è emerso che i cuori degli innamorati tendono a sincronizzarsi, cioè a battere insieme con la stessa frequenza.
Non solo. Sembra che gli innamorati tendano ad «armonizzare» anche la respirazione. Per dimostrarlo Ferrer e i collaboratori hanno monitorato i battiti cardiaci e la respirazione di 32 diverse coppie eterosessuali, lasciate in una stanza silenziosa, in un’atmosfera rilassante. La regola era di non parlarsi o toccarsi. In questo modo, i ricercatori sono riusciti a osservare e registrare una speciale sintonia: i cuori degli amanti hanno iniziato a battere sincronicamente.
Non solo. Gli innamorati inspiravano ed espiravano negli stessi intervalli di tempo. «Abbiamo visto un sacco di ricerche che hanno dimostrato che una persona può sperimentare in un rapporto quello che il partner vive emotivamente, ma questo studio dimostra che i due possono anche condividere le esperienze a livello fisiologico».
A controprova di questa romantica sincronia, Ferrer ha ripetuto lo stesso esperimento su individui non legati da una relazione di coppia. Ebbene, tra i due sconosciuti non è stata registrata nessuna sintonia, né cardiaca e né respiratoria. A contribuire maggiormente al «feeling» fisico che si crea in una coppia sarebbero soprattutto le donne. «Abbiamo trovato - riferisce Jonathan Helm, psicologo e coautore dello studio che le donne tendono a regolarsi in relazione al partner, probabilmente perchè hanno maggiori capacità empatiche».

La Stampa 13.2.13
La scienza dei sentimenti/2
Il destino degli innamorati è scritto dentro al cervello
di V. Arc.


Le persone con un rapporto durature illuminano zone diverse del cervello, dicono alla Brown University

Il destino di due innamorati è «scritto» nel cervello. Basterebbe, infatti, dare un’occhiatina in alcune aree cerebrali per sapere in anticipo se un amore durerà per sempre o quasi.
Un gruppo di ricercatori della Brown University hanno notato delle differenze significative nell’attivazione cerebrale dei soggetti impegnati in sodalizi più solidi. Per arrivare a queste conclusioni gli scienziati hanno sottoposto dodici persone, metà delle quali sono rimasti insieme al partner alla fine dell’esperimento (tre anni), a risonanza magnetica del cervello mentre veniva mostrata loro una foto del partner e veniva loro chiesto di pensare alla persona amata.
Ebbene, le persone che mostravano una maggiore attività nell’area caudata, che reagisce di solito alla bellezza visuale, ma meno nella corteccia mediale orbitofrontale, legata invece alle critiche e ai giudizi, le relazioni tendevano a essere ancora in piedi a 40 mesi dall’esperimento.
Sorprendentemente, ma non troppo, sottolineano i ricercatori, le aree del piacere erano meno «illuminate» nelle coppie solide, un fenomeno legato alla sazietà e alla soddisfazione. «Tutte le persone coinvolte nello studio provavano un amore molto intenso per il partner, e questo si vedeva nelle risonanze - spiega Arthur Aron, uno degli autori, in un articolo pubblicato dal “Daily Mail” - ma c’è qualche sottile indicatore che mostra quanto fossero in realtà stabili questi sentimenti. Solo se l’amore si combina con una visione positiva del partner e con un’attitudine a moderare i conflitti il rapporto sembra essere realmente produttivo».
Secondo i ricercatori la scoperta potrebbe avere un risvolto «pratico»: potrebbe per esempio aiutare le coppie in crisi a capire meglio le origini dei loro conflitti.

Repubblica 13.2.13
Esce domani la nuova raccolta di saggi di Zizek sulla contemporaneità: da Occupy alla crisi della Ue
L’Europa perduta
Basta ipocrisie, siamo noi i veri razzisti
di Slavoj Zizek


Quando, una decina di anni fa, gli sloveni stavano per entrare nell’Unione Europea, un nostro compatriota euroscettico propose una parafrasi sarcastica di una battuta dei Fratelli Marx sull’utilità di assumere un avvocato: noi sloveni abbiamo problemi? Entriamo nell’UE! Così avremo ancora più problemi, ma ci sarà l’UE a occuparsene! È così che oggi molti sloveni vedono l’UE: porta un po’ di aiuto, ma anche nuovi problemi (con le sue regolamentazioni e multe, le sue richieste di finanziare gli aiuti alla Grecia ecc.). Vale allora la pena difendere l’UE? La vera questione è, ovviamente, capire a quale Unione Europea ci riferiamo.
Un secolo fa, Gilbert Keith Chesterton descriveva così l’impasse fondamentale della critica alla religione: «Uomini che cominciano a combattere la Chiesa per amore della libertà e della umanità finiscono col combattere anche la libertà e l’umanità pur di combattere la Chiesa. […]». Non potremmo dire lo stesso dei difensori della religione? Quanti fanatici protettori della fede hanno cominciato con l’attaccare ferocemente la cultura laica contemporanea e hanno finito col rinunciare a qualsiasi esperienza religiosa significativa? Analogamente, molti partigiani della causa liberale sono così impazienti di lottare contro il fondamentalismo antidemocratico che finiranno per gettar via proprio la libertà e la democrazia così da poter combattere meglio il terrorismo. Se i “terroristi” sono pronti a distruggere questo mondo per amore dell’altro mondo, i nostri guerrieri antiterrorismo sono pronti a distruggere il loro mondo democratico per odio dell’altro mondo musulmano. Alcuni di loro amano a tal punto la dignità umana da essere pronti a legalizzare la tortura, e cioè la somma degradazione di questa dignità.
E non potremmo dire lo stesso anche di quelli che hanno aderito alla recente crociata europea contro la «minaccia dell’immigrazione »? Nel loro fervore di proteggere l’eredità giudaico-cristiana, i nuovi zeloti sono pronti a sacrificare il vero nucleo di questa eredità: ogni individuo ha un accesso immediato all’universalità (dello Spirito Santo o, oggi, dei diritti umani e della libertà); e io posso prendere direttamente parte a questa dimensione universale, indipendentemente dalla mia particolare posizione all’interno dell’ordine sociale globale. Le “scandalose” parole di Cristo nel Vangelo di Luca non puntano forse nella direzione di una tale universalità che ignora ogni gerarchia sociale? «Se uno viene a me e non odia suo padre, e sua madre, e la moglie, e i fratelli, e le sorelle, e finanche la sua propria vita, non può esser mio discepolo » (Luca 14:26). I legami familiari rappresentano qui una qualsiasi particolare relazione sociale, etnica o gerarchica, che determina il nostro posto nell’Ordine globale delle Cose.
L’“odio” imposto da Cristo non è quindi l’opposto dell’amore cristiano; ne è bensì l’espressione diretta: è l’amore stesso che ci impone di “slegarci” dalla comunità organica nella quale siamo nati; o, come disse San Paolo, per un cristiano non ci sono né uomini né donne, né ebrei né greci. Non sorprende affatto che l’apparizione di Cristo fosse considerata ridicola o scandalosa da coloro che si identificavano pienamente con un particolare modo di vivere. Ma l’impasse dell’Europa è ben più profonda. Il vero problema è che la maggior parte di quelli che criticano l’intolleranza verso l’immigrazione, invece di fare leva sul nucleo prezioso dell’eredità europea, si limitano a celebrare l’infinito rituale della confessione dei peccati dell’Europa, ad accettarne umilmente i limiti storici, e a esaltare la ricchezza delle altre culture. [...] Come sfuggire a questa impasse?
Un dibattito che ha avuto luogo in Germania può indicarci la via. Il 17 ottobre 2010 la cancelliera Angela Merkel ha dichiarato a un meeting di giovani membri del suo partito (l’Unione cristiano-democratica): «Questo approccio multiculturale, sostenere cioè che viviamo felicemente l’uno con l’altro, ha fallito. Ha fallito completamente». Il meno che si possa dire è che è stata coerente, facendo da eco a un precedente dibattito sulla Leitkultur (la cultura dominante) in cui i conservatori insistevano che ogni Stato si basa su uno spazio culturale dominante che i membri di altre culture devono rispettare. Ma invece di fare le anime belle che si indignano per l’emergere dell’Europa razzista annunciata da questo tipo di dichiarazioni, dovremmo guardarci allo specchio e chiederci con spirito critico fino a che punto il nostro multiculturalismo astratto ha contribuito a determinare questa sconfortante situazione. Se non tutte le parti condividono o rispettano gli stessi standard di civiltà, allora il multiculturalismo si trasforma in mutua ignoranza o odio regolamentati per legge.
Lo scontro sul multiculturalismo è già uno scontro sulla Leitkultur: non tra culture, ma tra visioni diverse di come culture differenti possano e debbano coesistere, sulle regole e le pratiche che queste culture devono condividere se vogliono coesistere. Dobbiamo dunque evitare di farci prendere dal gioco liberale riassumibile nel quesito: «quanta tolleranza ci possiamo permettere?». Dobbiamo tollerare che “loro” impediscano ai loro bambini di frequentare la scuola pubblica, che “loro” obblighino le donne a vestirsi e comportarsi in un certo modo, che “loro” combinino i matrimoni dei figli, che “loro” brutalizzino i gay tra le loro file? A questo livello, ovviamente, non siamo mai sufficientemente tolleranti, oppure lo siamo già troppo e trascuriamo i diritti delle donne ecc. Il solo modo di uscire da questo stallo è proporre e lottare per un progetto universalista positivo che possa essere condiviso da tutti i partecipanti. Gli ambiti di lotta in cui «non ci sono né uomini né donne, né ebrei né greci » sono molti, dall’ecologia all’economia. [...] Allora, forse, l’euroscettico sloveno non ha colto nel segno con la sua ironica citazione dei Fratelli Marx. Invece di perdere tempo nell’analisi di costi e benefici della nostra appartenenza all’UE, dovremmo concentrarci su ciò che l’UE veramente rappresenta. Nei suoi ultimi anni, Freud espresse la sua perplessità con la domanda: cosa vuole una donna? Oggi la domanda che dovremmo porci è invece: cosa vuole l’Europa? Per lo più agisce da regolatore dello sviluppo capitalistico globale; qualche volta flirta con la difesa conservatrice della tradizione. Entrambe queste vie conducono all’oblio, alla marginalizzazione dell’Europa. Il solo modo di uscire da questa impasse è che l’Europa rianimi la sua tradizione di emancipazione radicale e universale. Il nostro compito è quello di andare oltre la mera tolleranza verso altri, conquistare una positiva Leitkultur emancipativa che sola può sostenere un’autentica coesistenza e mescolanza di diverse culture, e impegnarci nell’imminente battaglia per questa
Leitkultur.
Non limitarsi a rispettare gli altri, ma offrire loro una battaglia comune, perché i nostri problemi più pressanti sono problemi comuni.
(Traduzione di Carlo Salzani) © 2012 © 2013 Adriano Salani Editore S.p.A. Milano

Repubblica 13.2.13
La concezione di Machiavelli messa in discussione
Senza metafisica non esiste politica
di Franca D’Agostini


Perché Machiavelli piace ai filosofi tardo-moderni o postmoderni (se è lecito ancora usare questa espressione, estremamente equivoca)? Semplice: perché è il filosofo che emancipa la politica dalla filosofia, e la lascia viaggiare da sola, sulle ali del potere. L’ha ricordato Giancarlo Bosetti su Repubblica del 22 gennaio, citando Gramsci (la grande “rivoluzione intellettuale” dell’autonomia della politica), e Isaiah Berlin (crollo definitivo della philosophia perennis, e ingresso nell’era del pluralismo postfilosofico). Ma forse è proprio il duplice mito dell’autonomia della politica, e della fine della philosophia perennis, ciò a cui dobbiamo rinunciare. In fin dei conti Machiavelli (come Carl Schmitt) fu un grande analista del potere come coercizione, ma ciò di cui parlava era il potere oligarchico, o monocratico. Mentre sappiamo che in democrazia (che è “government by discussion”) il potere è anzitutto pensiero (e ragionamento, e discorso).
Due libri appena usciti rovesciano il paradigma machiavelliano, e rilanciano l’idea del legame strettissimo, anzi quasi inestricabile, tra filosofia (proprio quella philosophia perennis che a Berlin non piaceva) e politica democratica. Il primo è Resisting Reality, di Sally Haslanger, epistemologa sociale dell’Mit (Oxford University Press), e il secondo è Disputandum est. La passione per la verità nel discorso pubblicodi Antonella Besussi, filosofa della politica alla Statale di Milano (Bollati Boringhieri). Haslanger applica i risultati della metafisica analitica alle questioni di giustizia. Il punto di partenza è la denuncia del clamoroso e in certo modo ingenuo fraintendimento che ha portato a pensare alle teorie costruttiviste della conoscenza come teorie che annientavano la realtà, sottoponendola a qualche oscura forza modellante (il potere, la soggettività, il linguaggio, gli schemi concettuali). Questo fraintendimento è stato caratteristico tanto dei critici del costruzionismo quanto di alcuni suoi sostenitori. Si veda per esempio la professione di antirealismo da parte di alcuni settori del femminismo (il concetto di realtà come residuo di una metafisica “logocentrica”), a cui giustamente rispondeva nel 1987 Catharine MacKinnon, ricordando che sbarazzarsi del riferimento alla realtà per i soggetti politici che ne subiscono gli urti è suicida oltre che assurdo.
Dice Haslanger, la nozione di costruzione sociale (o epistemica) ha da Kant in avanti una funzione critica molto precisa: serve a discutere quelle metafisiche perverse che danno per scontato che essere un afroamericano, un omosessuale, una donna, comporti alcune conseguenze date e non negoziabili, e vincoli perciò i portatori di tali determinazioni a subire una serie di condizioni socialmente inique. Ma certo, se ci si sbarazza della metafisica, ovvero della riflessione su che cosa è un omosessuale, una donna, o in generale che cosa è un essere umano, la revisione delle idee condivise su queste “costruzioni” diventa impossibile.
Per esempio, l’aggancio della decisione politica alla discussione sulle “credenze prime e ultime”, come dice Besussi, potrebbe servirci per capire bene che la tesi secondo cui la famiglia richiede l’alleanza uomo-donna non ha più reali fondamenti in quel che sappiamo degli uomini, delle donne, e delle relazioni tra gli uni e le altre. Certo, si può continuare a sostenerla, ma allora deve essere chiaro che lo si fa per pure questioni di potere (per esempio, per favorire una parte politica che figura come espressione di una metafisica dogmatica), e non perché la tesi in questione sia (creduta) vera.
La proposta di Besussi, detto in breve (perché il libro è ricco di argomenti ed esemplificazioni) va in direzione di una “normatività non autosufficiente”. Nota Besussi che la nostra cultura politica si è come inchiodata a ciò che si chiamerebbe la strategia della separazione (estensione del famoso principio di Bökenförde, per cui lo Stato laico non ha fondamenti e non vuole averne). «Il caso esemplare è rappresentato dalle guerre civili europee tra cattolici e protestanti. Chiuderle è stato possibile a condizione di riconoscere che se ci si uccide per stabilire qual è la religione vera, smettere di farlo richiede che la questione sia privata di rilevanza politica ». Questa procedura «sposta credenze metafisiche nel territorio extrapolitico delle convinzioni assolute, apprezzabili purché politicamente mute». Ma qui è precisamente il punto: che convinzioni false o discutibili non sono affatto apprezzabili, e l’errore per di più è considerarle “assolute”, pertanto non sottoponibili alla discussione circa la loro discutibilissima verità.

Repubblica 13.2.13
Primo Levi, l’ultimo libro che lesse ad Auschwitz
Esce per la prima volta “Tempesta” di Vercel, citato in “Se questo è un uomo”
di Valerio Magrelli


A volte un’unica lettura può fare la fortuna di un’opera. È il caso di un volume che gioca un ruolo cruciale in uno dei testi più celebri del Novecento italiano: Se questo è un uomo di Primo Levi. Lo spiega molto bene Andrea Cortellessa nell’introduzione alla traduzione italiana del libro di cui per ora taceremo il titolo. Verso la fine del suo capolavoro, Levi narra gli ultimi momenti nel lager di Auschwitz-Monowitz. L’11 gennaio 1945, quando si sente già il tuono dei cannoni russi, il detenuto viene ricoverato nell’infermeria per scarlattina. Poco dopo, però, i nazisti annunciano che l’indomani bisognerà lasciare il Campo. Per i ventimila reclusi, una marcia a tappe forzate nel gelo significa la morte. Levi, però, febbricitante, non può muoversi. Così, a tarda notte, un medico greco, «colto, intelligente, egoista e calcolatore», con un gesto fra pietà e disprezzo gli getta sulla cuccetta un romanzo francese: «Tieni, leggi, italiano». A distan-
za di anni lo scrittore ricorderà: «Ancora oggi lo odio per questa sua frase. Sapeva che noi eravamo condannati».
Cominciano così dieci giorni che Levi trascorre sprofondato in quel libro, il primo dopo tanto tempo, leggendolo e rileggendolo, finché avviene il miracolo: «I tedeschi non c’erano più». Il titolo del volume sarà svelato solo nel 1980, nell’antologia La ricerca delle radici: si trattava di Remorques di Roger Vercel, adesso pubblicato da Nutrimenti con il titolo Tempesta (traduzione di Alice Volpi). A distanza di decenni, l’autore di un saggio come I sommersi e i salvati si mostrò dunque attaccatissimo a quella lettura casuale. Secondo Cortellessa, il motivo che può averlo spinto verso Vercel può essere individuato nella trama: «In fondo cosa fanno il capitano Renaud e i suoi uomini, a bordo del loro rimorchiatore d’altura, se non salvare all’ultimo momento coloro che stanno per essere sommersi? » Bastano questi pochi indizi, per catapultarci all’interno di un’opera del 1935 che in verità riscosse un certo successo. Lo dimostra un fortunato film trattone da Jean Grémillon nel 1939 (sceneggiatura di André Cayatte, dialoghi di Jacques Prévert), con l’intento di riunire la coppia formata un anno prima da Jean Gabin e Michèle Morgan nel leggendario Quai des Brumes (Il porto delle nebbie).
Nato a Le Mans nel 1894, Roger Vercel (pseudonimo “obbligato” per un cognome quale Crétin) fu professore di lettere al collegio di Dinan, e nel 1934 ottenne il Premio Goncourt per il romanzo Capitan Conan, adattato per il grande schermo da Bertrand Tavernier nel 1996.
Dopo essersi distinto nella Prima guerra mondiale, trascorse una vita tranquilla e si spense nel 1957. Tuttavia, una foto del 1934 con i baffetti alla Hitler non sembra promettere nulla di buono. Infatti, due anni fa è emerso dagli archivi un suo articolo violentemente antisemita, pubblicato nell’ottobre 1940, che ha scatenato numerose polemiche. Ma veniamo ai suoi Remorques (ossia, banalmente, Rimorchi), che l’editore ha preferito rendere con il più epico ma prevedibile Tempesta.
Il libro narra la storia del capitano Renaud, comandante del rimorchiatore da salvataggio Ciclone. Basta un accenno del genere per rivelare la matrice conradiana dell’opera, con l’esplicito riferimento al racconto Tifone, tradotto in francese nientemeno che da André Gide. L’intreccio verte sul pericoloso salvataggio di un battello greco (sarà stato questo particolare a interessare il medico di Levi?), pilotato da un uomo che si rivelerà avido, ingrato e senza scrupoli. Ambientato fra i porti della Bretagna, Tempesta è insomma un’avventura marinara, ma segnata da un profondo dilemma sentimentale, poiché Renaud, afflitto dalla malattia della propria moglie, si sentirà per un momento attratto dalla moglie dell’altro capitano. Amore e morte, eroismo e tradimento, si alternano così in uno stile epico-realista, dominato dall’immenso personaggio del Mare. Ma anche nel lento, robusto e tradizionale flusso narrativo, si aprono scene stranianti. È il caso di una nave abbandonata che nasconde come carico delle casse di bambole, «bambole in abiti leggeri che dormivano tutte, perché avevano gli occhi mobili e erano distese sulla schiena».
Tempesta di Roger Vercel (Nutrimenti trad. A. Volpi pagg. 240 euro 18)

Repubblica 13.2.13
L’appello per Kadivar


PARIGI - Jacques-Alain Miller, genero e erede di Lacan, e Bernard-Henry Lévy sono i primi firmatari di un appello per la liberazione di un’analista iraniana, presidente dell’Associazione freudiana di Teheran. Mitra Kadivar da una decina di giorni è rinchiusa in un ospedale psichiatrico, curata come schizofrenica. L’appello ha avuto il sostegno di personaggi importanti della cultura: da Judith Miller (figlia di Lacan) a Philippe Sollers, da Julia Kristeva a Jack Lang, compresi due registi come Amos Gitai e Patrice Leconte. Tra gli italiani spicca il nome di Antonio Di Ciaccia, traduttore e curatore dell’opera lacaniana. E anche Carla Bruni è scesa in campo per l’analista invisa al regime iraniano.