venerdì 15 febbraio 2013

Repubblica 15.2.13
Bersani: “Siamo in un mare di vaffa... servirà un governo da combattimento”
Ma Monti insiste su Vendola: “Lontani anni luce, deve cambiare”
di Giovanna Casadio


ROMA — «Siamo immersi in un mare di Vaffa’...». Bersani si rivolge proprio al popolo dei vaffa’, agli scontenti, ai delusi, ai disgustati dalla politica di cui Grillo sembra avere l’esclusiva. A “-9” giorni dalle elezioni, l’appello del candidato premier del centrosinistra è all’Italia immersa «in un mare di rancore, sfiducia, disillusione, populismo, e appunto di un Vaffa’ di proporzioni generico-globali cosmiche». Arrabbiato del resto, ripete, «sono pure io». Però non si può distruggere e basta; la protesta da sola non porta da nessuna parte. «Serve perciò un governo da combattimento perché non possiamo non registrare che siamo tutti arrabbiati».
Dalla rabbia quindi al governo del cambiamento, dell’alternativa. Bersani è ieri in Sardegna, nella terra forse più flagellata dalla disoccupazione. Ironizza e denuncia, il segretario del Pd: «In questa campagna elettorale c’è una gara a chi la spara più grossa, e al primo posto c’è sempre Berlusconi con la promessa di 4 milioni di posti di lavoro, però neppure Grillo scherza con i suoi mille euro al mese per tre anni e Maroni con la moneta padana». I problemi sono altri; sono il lavoro innanzitutto e come uscire dalle secche della crisi economica. Su questo “nodo”, Bersani si sbilancia immaginando in un suo futuro governo un superministero dello Sviluppo e dell’Economia che veda un alleggerimento delle competenze del Tesoro. Guidato da chi? Da qualcuno che abbia «una buona comunicazione con il premier», in un rapporto fiduciario come fu quello tra Prodi e Padoa-Schioppa. Una delle ipotesi, già fatta nei mesi passati, è Fabrizio Saccomanni, il direttore generale di Bankitalia. Ma ci sono anche Enrico Letta e Fabrizio Barca in pole position. Di certo, l’identikit tracciato da Bersani («È molto importante avere preso applausi ma anche fischi, perché se no fai fatica »), non sembra essere quello di Monti. Su di lui, ammette, «mi ero fatto un altro film... pensavo che la dimensione di terzietà potesse essere utile».
Invece il Professore è nell’agone politico, impegnato a prendere le distanze da Berlusconi ma anche da Vendola, l’alleato di Bersani. «Io e Vendola siamo lontani anni luce come visione del mondo e di quello che serve per fare aumentare l’occupazione e soprattutto per i giovani», è la rotta montiana. Certo se il leader “rosso” «dovesse cambiare opinione, si può sempre ridiscutere tutto», aggiunge. Ma tra i due il battibecco continua. Monti rimbrotta: «Non ha titolo per darmi lezioni, non ne accetto da Vendola». Che contrattacca: «Non accetto scomuniche da Monti». Sul tappeto ci sono in realtà, le questioni concretissime di cassa integrazione, diritti del lavoro, tasse. «Noi siamo alleabili ma non malleabili», conclude il Professore.
E nel rush finale verso il voto, il Pd pensa anche al futuro del partito. Per scaramanzia non se ne parla, tuttavia Bersani annuncia che, se vincesse, non farebbe il doppio mestiere di premier e di segretario. Immagina una transizione- soft, e di «fare girare la ruota » lasciando il passo ai giovani. Renzi, il sindaco “rottamatore”, l’ex sfidante di Bersani ora impegnato completamente nella campagna elettorale in giro per l’Italia, non è interessato alla successione alla segreteria. Sarà ministro? Risponde Bersani: «Deciderà lui, ma spero prenda più gusto alla vita del partito». Così come Barca, al quale va l’invito: «Si tenga a disposizione...». Il segretario concluderà la campagna a Napoli (giovedì) e a Palermo (mercoledì); nessuna grande piazza romana (al contrario di Grillo che sarà a San Giovanni). Scambio di battute ieri all’aeroporto di Roma con Ingroia . «Prenderò un bicchiere di vino rosso perché siamo noi i veri rossi», scherza Ingroia. E Bersani: «Io vino bianco, siamo troppo rossi...».

l’Unità 15.2.13
Immigrazione, la proposta Pd
di Rachele Gonnelli


Bersani lo ripete spesso che il primo atto del suo governo sarà la cittadinanza ai figli degli immigrati nati e cresciuti in Italia. Ma non c’è solo questo nel programma del Pd sulla delicata questione dell’immigrazione.
Su quello che è stato il tema cruciale della scorsa legislatura oggi c’è un «assordante silenzio», fa notare Livia Turco, responsabile del Forum immigrazione dei democratici, perché il centrodestra dopo aver sbraitato e condotto una battaglia ideologica «squillando trombe e tromboni» ora «ha ammainato la bandiera con imbarazzo, perché le politiche securitarie messe in campo fin qui sono risultate del tutto fallimentari». Sono aumentati gli irregolari e si è dovuto provvedere con una nuova sanatoria, l’Italia è stata condannata dall’Europa e dall’Onu per il trattamento riservato ai profughi e ai migranti nei Cie, peraltro con costi elevatissimi, mentre i Comuni sono stati lasciati soli nel cercare di mettere in piedi una politica di integrazione e coesione sociale, perché il fondo nazionale è stato totalmente azzerato dal governo Berlusconi. «Ma colpisce anche il silenzio di Monti continua l’ex ministra che potrebbe spendere almeno qualche parola su un tema come questo che richiede il massimo riformismo». Per il Pd è sempre un tema cruciale ma va completamente rovesciato l’approccio.
«L’ottica del centrodestra è sempre stata quella di aver di fronte un migrante occasionale, da rimandare a casa il prima possibile mettendo tutti gli ostacoli possibili alla sua integrazione», spiega Turco. L’impianto progressista parte invece dal dato di fatto che in Italia vivono e lavorano 5 milioni di stranieri che hanno diritto di programmare la loro vita in modo normale e alla luce del sole. «Perciò la cifra della nostra proposta aggiunge gira intorno a come rendere praticabile e regolare l’ingresso, piuttosto che come chiudere le frontiere, ma sprovincializzando il problema, perché la politica migratoria deve essere definita a livello europeo, così come le quote-flussi non possono essere più definite solo a livello nazionale, ma in un mercato del lavoro europeo, facilitando la circolazione».
La proposta del Pd è articolata in 10 punti, molti dei quali da inserire in un paio di disegni di legge correttivi delle storture da mettere in campo nei primi mesi del nuovo governo: dall’abrogazione della Bossi-Fini e della successiva Maroni-Berlusconi alla nuova normativa sul diritto d’asilo, dall’abolizione del reato di clandestinità e della tassa sul permesso di soggiorno al superamento dei Cie e delle legislazioni speciali sull’identificazione e sul trattamento dello straniero migrante, fino ai requisiti per i ricongiungimenti familiari o la reintroduzione dello sponsor per il permesso di soggiorno, incluso per ricerca di lavoro e studio. Altri provvedimenti da mettere in campo in un secondo tempo: dal voto amministrativo al varo di un vero e proprio codice che raccolga in un unico testo semplice e coerente tutte le norme. «L’Italia deve porsi come protagonista in Europa su questo tema, per valorizzare l’immigrazione come risorsa, invece di piangere l’assenza dell’Europa», conclude Livia Turco. Utilizzando la cooperazione con l’altra sponda del Mediterraneo. Anche perché lì non ci sono più regimi-gendarmi, ma possibili partner.

La Stampa 15.2.13
Asilo politico negato. A 19 anni si dà fuoco al gate di Fiumicino
A Roma il dramma di un ivoriano “Centinaia i disperati come lui”
di Flavia Amabile


Solo la profonda disperazione può costringere una donna o un uomo a darsi fuoco. E di speranze non ne aveva ormai più il diciannovenne originario della Costa d’Avorio che ieri mattina si è cosparso di benzina e si è dato fuoco all’aeroporto di Fiumicino. La domanda di asilo era stata rifiutata, pensava di avere come unica alternativa il ritorno in patria anche se in realtà poteva ancora presentare una nuova domanda per chiedere l’asilo politico e attendere nel frattempo la risposta da detenuto nel Cie di Ponte Galeria.
La vicenda ha inizio a gennaio quando il diciannovenne arriva in Italia e chiede asilo politico. Il 23 gennaio arriva la risposta ufficiale della Commissione italiana. È un rifiuto. Il giovane potrebbe presentare ricorso, ha quindici giorni di tempo, invece preferisce lasciare l’Italia ed andare in Olanda dove spera di avere maggiore fortuna. Arrivato ad Amsterdam, la polizia olandese lo ferma: secondo quanto prevede il «Regolamento Dublino» viene rinviato nel paese dove ha chiesto asilo, e quindi in Italia. Viene effettuato il rientro ma c’è anche l’obbligo di presentarsi agli uffici della Polizia di Frontiera per l’attuazione del decreto di espulsione. L’obbligo era previsto per ieri mattina. E poco dopo le 10 il giovane è arrivato, ha mostrato agli agenti di turno il decreto di espulsione emesso dalla Questura di Roma ma subito dopo ha estratto una tanica di benzina da un borsone che aveva con sé. Si è versato addosso il liquido, ha acceso un fiammifero e ha tentato di darsi fuoco. Gli agenti hanno fatto il possibile per fermarlo ma le fiamme li hanno aggrediti, il diciannovenne si è liberato ed è uscito fuori dove si è dato fuoco.
Le grida degli agenti hanno richiamato Tiziana Guarna, una funzionaria della Dogana di Fiumicino: «Ho sentito delle grida provenire dall’ufficio vicino e ho visto prima il poliziotto e ho spento il fuoco. Poi mi sono accorta dell’altro ormai steso a terra. C’era chi mi urlava: «Spegnilo! Spegnilo». E ho scaricato l’estintore sul suo corpo. Li ho salvati? Me ne sono resa contro solo dopo, lì per lì ho pensato soltanto ad agire», racconta.
Il diciannove e l’agente sono stati trasportati in ospedale. Il primo in gravi condizioni ma non in pericolo di vita, il secondo con ustioni al braccio destro. E la vicenda ha risollevato il problema delle richieste di asilo. Christopher Hein, direttore del Consiglio Italiano rifugiati, chiede che questo gesto faccia «aprire gli occhi davanti alla disperazione di richiedenti asilo e rifugiati». Per il presidente della Croce Rossa Italiana, Francesco Rocca «l’accoglienza e l’inserimento dei migranti nel nostro tessuto sociale è una delle più importanti sfide umanitarie per il nostro Paese». Mentre secondo Filippo Miraglia, responsabile immigrazione dell’Arci, questo gesto estremo «dovrebbe far riflettere tutti».

I radicali contro Zingaretti
il Fatto 15.2.13
L’ombra di Crespi, consulente di due padroni: l’esposto contro Zingaretti e l’assist a Storace
di Paola Zanca


Questa sera, ore 20.30, Luigi Crespi sarà lì, dietro le quinte degli studi di SkyTg24. In onda c’è il dibattito tra i candidati alla presidenza della regione Lazio. Ma per chi tiferà, l’ex sondaggista di fiducia di Silvio Berlusconi? Per “l’amico” Giuseppe Rossodivita, in corsa per i Radicali, o per “il cliente” Francesco Storace, ariete del centro-destra? Lo spin doctor, si sa, non ha colore. Ma in questi ultimi dieci giorni di campagna elettorale, il ruolo del professionista della comunicazione assume singolari convergenze. È difficile spiegare altrimenti lo strano caso di un candidato che imbraccia le stesse armi del suo avversario.
IL CASO è sulle cronache da giorni: Nicola Zingaretti, super favorito aspirante presidente in quota Pd finisce nella bufera per un contratto di assunzione da parte del Comitato promotore del Pd. Il giorno prima della sua candidatura alla Provincia di Roma, cinque anni fa, Zingaretti riceve un aumento di stipendio (da 5 mila a 8 mila euro lordi). Lui spiega che lavora per il partito dal ‘93 e che quell’aumento dipende dal fatto che, nel frattempo, è diventato segretario regionale. I Radicali, che hanno presentato un esposto, ritengono invece che l’aumento sia servito a Zingaretti a non perdere vantaggi contributivi, visto che la cifra in più sarebbe stata rimborsata dal datore di lavoro, la stessa Provincia di cui è diventato presidente. La Procura ha aperto un fascicolo, ma senza ipotesi di reato. La storia era già scritta in un’interrogazione presentata da un consigliere provinciale del Pdl. Allora, cadde nel nulla. Oggi invece piomba nel mezzo di una campagna elettorale che sembrava già chiusa. Rossodivita provoca l'imbarazzo, Storace lo cavalca immediatamente, dall’alto delle tre pensioni che chiuderanno la sua carriera di giornalista, consigliere regionale e deputato.
ED È QUI che arriva Crespi: con il candidato dei Radicali ha “un rapporto di amicizia” nato quando l’avvocato Rossodivita ha ricevuto l’incarico di difendere il fratello di Luigi Crespi, Ambrogio, in carcere a seguito dell’inchiesta sulla ‘ndrangheta al Nord. “Ha visto che avevo un sito internet che faceva schifo - spiega Rossodovita - e mi ha dato una mano a sistemarlo”. Con Storace, invece, non ha un rapporto diretto: è la Spinweb srl di Emanuele Floridi a seguire la campagna del leader de La Destra. Ma i rapporti tra la Spinweb e Crespi sono talmente stretti da avere lo stesso numero di telefono. Rossodivita rivendica la sua battaglia per la legalità, in linea con lo scandalo Fiorito, che i Radicali furono i primi a denunciare. Chiuso il sipario sull’era Polverini, il partito di Pannella ha cercato prima l’alleanza con il Pd, poi con lo stesso Storace. È andata male con entrambi. Poi è arrivato Crespi.

La Stampa 15.2.13
Il peso delle inchieste nell’urna
di Marcello Sorgi


La domanda è semplice e s’affaccia spontanea: a chi giova? Chi sarà il beneficiario dell’ondata di inchieste, fermi e arresti, che ha scandito dall’inizio la lunga vigilia elettorale e ha toccato il suo apice? A gioire - e a disperarsi -, a giorni alterni sono tutti: sullo scandalo del Monte dei Paschi di Siena, Berlusconi e il centrodestra hanno campato, alle spalle del centrosinistra, per la prima metà della campagna. Poi Bersani e il Pd hanno ripreso a sorridere quando il vento è girato, da qualche giorno, e la falce giudiziaria ha puntato su Formigoni e Finmeccanica. La giornata di ieri, da questo punto di vista, è stata un capolavoro di par condicio delle manette: uno dopo l’altro sono stati catturati il direttore finanziario della banca senese Gianluca Baldassarri; un noto imprenditore, considerato vicino al Cavaliere, come Angelo Rizzoli; e un finanziere dalla dubbia carriera, Alessandro Proto, impadronitosi del quotidiano «Pubblico», con ambizioni di scalata anche sulla Rizzoli.
Non è affatto difficile, a questo punto, rispondere al quesito che tutti si pongono: l’unico che ha qualcosa da guadagnarci, da questo fuoco di fila di ordini di cattura, è Beppe Grillo. Fino a poco fa, infatti, la descrizione dell’Italia che il leader del Movimento 5 Stelle sciorinava tutte le sere nel suo “Tsunami tour” - rivolto a folle osannanti anche sotto la neve -, seppure efficace poteva ancora apparire esagerata, e costruita su misura solo per ascoltatori estasiati nel sentirsela ripetere. Di recente, invece, ciò che Grillo urla quotidianamente con la sua voce stentorea é diventato purtroppo simile alla realtà. Non é più solo la rappresentazione grottesca di un comico che pizzica sapientemente, con il mestiere che tutti gli riconoscono, le corde dell’ironia e dell’esaltazione di dettagli ributtanti, per far ridere e piangere, insieme, i suoi fan. Parola più, parola meno, é diventato ciò che sotto i nostri occhi ogni giorno prende forma.
Un paese che appare, a giudicare dall’urgenza e dalla portata delle iniziative giudiziarie, più corrotto di quel che si sapeva o si poteva immaginare. Popolato da avventurieri pieni di soldi, che sempre trovano ascolto presso esponenti periferici delle amministrazioni e dei partiti, e subito dopo riescono a risalire al centro delle decisioni, conquistandosi un posto in prima fila. Promettono guadagni strepitosi, oppure, come rivelano gli incredibili verbali dell’inchiesta su Formigoni, si fanno largo con mazzette di banconote da cinquecento euro. Altri tempi, quelli di Tangentopoli vent’anni fa, in cui le carte da dieci o cinquantamila lire venivano allineate nelle famose valigette, che finivano in buona parte ad alimentare il finanziamento illecito dei partiti. Qui in un colpo passano di mano centinaia di milioni, e alle volte qualche miliardo, barche, ville, conti di ristorante a base di ostriche e champagne, viaggi e vacanze pagate in lussuosi alberghi esotici. L’arricchimento opaco é del tutto personale. E ciò accade mentre l’Italia attraversa la sua crisi più grave; e dopo cinquant’anni, vede riaffacciarsi la fame, quella vera.
Ma la cosa più sorprendente, davanti a questo, sono le risposte dei cosiddetti leader politici tradizionali. Bersani, Berlusconi e per certi versi, duole dirlo, anche Monti, che del passato non ha nulla da rimproverarsi, stanno reagendo all’ondata giudiziaria che rischia di sommergerli con gli stessi argomenti usati nel 1993 e ’94 dai loro predecessori, travolti da Tangentopoli. Berlusconi accusa la magistratura di essere un cancro, é ipergarantista nei confronti degli accusati o degli arrestati che militano dalla sua parte e si lamenta, al contrario, perchè i giudici che indagano a Siena non fanno circolare i verbali degli interrogatori che potrebbero essere usati dal centrodestra come strumento di propaganda. Inoltre, e non era certo il momento giusto, é arrivato a proporre la reintroduzione dell’immunità per i parlamentari. Bersani ha minacciato di “sbranare” chi tentasse di caricare le responsabilità dello scandalo del Monte dei Paschi sul Pd, che pure ha indicato il novanta per cento degli amministratori della banca. E Monti, irritato con chi ha contestato al governo la mancata sostituzione del presidente di Finmeccanica
Giuseppe Orsi, quando i dubbi sul suo operato s’erano fatti più forti, ha reagito dicendo che non aveva gli elementi, nè il potere, di indurre l’amministratore accusato di aver pagato tangenti alle dimissioni.
Intendiamoci: non é tutto oro quel che adesso riluce nelle inchieste. Anzi, arrestati e accusati di oggi, domani potranno risultare innocenti. Solo per fare un esempio, ieri é stato assolto con formula piena Augusto Minzolini, l’ex direttore del Tg1 che, indagato per peculato per l’uso improprio della carta di credito aziendale, ci aveva rimesso il posto. E tuttavia, gli attacchi alla magistratura (anche quelli motivati), il garantismo a fasi alterne, secondo chi é colpito dalle inchieste, il diniego a qualsiasi costo anche delle colpe più evidenti, sono gli stessi ingredienti che portarono all’affossamento dell’intera classe dirigente della Prima Repubblica: logorata, sì, da mezzo secolo di permanenza al potere senza ricambio, ma non per questo meritevole di essere condannata in blocco, senza distinzioni né prove d’appello, e soprattutto senza calcolare le conseguenze che la ghigliottina generalizzata avrebbe poi provocato. Allora, ad avvantaggiarsene, furono Berlusconi e la sinistra. Che a sorpresa, almeno nei comportamenti, ora sembrano diventati alleati. Senza accorgersi del rischio di consegnare il Paese al guitto salito sul palcoscenico per annunciare la loro fine.

Repubblica 15.2.13
La paura che frena il favorito
di Marc Lazar


Ogni giorno, negli ambienti politici italiani, ma anche in Europa nel mondo, si sente esprimere una crescente inquietudine: quale sarà, il 24 e il 25 febbraio, la scelta degli italiani? Si formerà una maggioranza chiara alla Camera e al Senato? È possibile che vinca Silvio Berlusconi? Che tipo di governo uscirà dalle urne? Tutti interrogativi ai quali oggi non sapremmo rispondere, ma che portano ad alcune constatazioni su cui vale la pena di soffermarsi, per fare maggior chiarezza su quanto accade nei pochi giorni che ci separano dal voto.
È diventato sempre più difficile, se non impossibile, fare previsioni certe in materia elettorale; una difficoltà che nel caso italiano può essere facilmente spiegata. Innanzitutto con la ben nota distorsione causata dalla legge elettorale del 2005, che rende aleatori i risultati al Senato, facendoli dipendere dall’esito elettorale di talune ragioni. Vengono poi ad aggiungersi altri fattori legati alla situazione particolare di questo 2013. L’Italia è passata da una forma di bipartitismo imperfetto, più simile a una quadriglia bipolare – con un Pd affiancato dall’Italia dei valori, contrapposto a un Pdl alleato alla Lega Nord – a un sistema estremamente frammentato. Stavolta sono in lizza tre principali schieramenti con i loro leader emblematici, Pierluigi Bersani, Silvio Berlusconi e Mario Monti, mentre altre due personalità – Beppe Grillo e Antonio Ingroia – rendono ancora più confusa l’offerta politica, e più imprevedibile l’esito del voto.
Ma singolarità non vuol dire eccezione. Il pronostico elettorale è diventato quasi ovunque un esercizio rischioso – a cominciare, ad esempio, dalla Francia. Sei mesi prima delle elezioni, François Hollande era dato come largamente vincente; ma in finale il suo vantaggio si è ridotto a 1.139.983 voti, dopo una spettacolare rimonta del suo rivale, Nicolas Sarkozy. Un libro di recente pubblicazione, a cura del politologo Pascal Perrineau, dal titolo La décision électorale en 2012, offre materia di riflessione sul complicato processo che porta l’elettore – in Francia come in Italia – a fare la sua scelta. Certo, le presidenziali francesi sono assai diverse dalle elezioni politiche italiane: i francesi scelgono direttamente un presidente della Repubblica dotato di poteri considerevoli, mediante un sistema maggioritario a doppio turno, con molteplici candidature al primo scrutinio, mentre al secondo restano in lizza due soli candidati. Tuttavia il libro sopra citato contiene due principali ordini di insegnamenti che potrebbero essere facilmente applicati all’Italia.
Da un lato, la difficoltà di prevedere il voto degli elettori dipende innanzitutto dal clima che regna nelle nostre democrazie. In Francia come in Italia. Un clima in parte antipolitico, definito dal sociologo francese Jean-Louis Missika col termine di «politicizzazione negativa», che può indurre tre tipi di comportamenti: l’astensione, per disgusto della politica in generale o per insoddisfazione nei confronti dei candidati di una data consultazione elettorale; il voto di protesta, che quest’anno in Italia va a favore di Bebbe Grillo, di Antonio Ingroia, e persino a Silvio Berlusconi, venuto a cacciare in queste terre presentandosi, con un formidabile escamotage, come oppositore dell’establishment italiano ed europeo; e infine la scelta, per lo più scettica e rassegnata, di uno dei principali candidati, Bersani o Monti, ma senza alcun entusiasmo, anticipando i futuri motivi di delusione in caso di vittoria di questi ultimi.
D’altra parte, la decisione degli elettori obbedisce a un mix di tre elementi temporali più o meno articolati tra loro. Per ragioni politiche, sociali, economiche e culturali, molti elettori sono in qualche modo vincolati a una scelta, e preannunciano con molto anticipo predisposizioni politiche abbastanza evidenti. Sono legati a uno schieramento, a un partito, a un leader, e il loro voto è dunque chiaramente identificabile. Ma questa categoria di elettori è in calo; non ha più le certezza di un tempo, ed è quindi sensibile – al pari di chiunque non abbia ancora fatto la sua scelta – al clima dell’ultimo scorcio della campagna elettorale, durante la quale molte opinioni possono cambiare. In Italia Silvio Berlusconi ha giocato fino in fondo questa carta per riaggregare i suoi elettori dispersi e recuperare astensionisti e indecisi ex Pdl. Le sue incessanti apparizioni in tv, le sue strabilianti dichiarazioni, le sue infinite promesse e provocazioni lo hanno nuovamente proiettato al centro dell’attenzione, mettendo sulla difensiva i suoi concorrenti. A quanto risulta dai sondaggi, avrebbe parzialmente raggiunto il suo obiettivo. Anche Beppe Grillo e Antonio Ingroia sono stati molto presenti in questa fase – indubbiamente più di Mario Monti e di Pierluigi Bersani.
Arriva infine il momento cruciale, quello in cui si cristallizza la decisione definitiva dell’elettore. Gli ultimi istanti della campagna elettorale sono fondamentali. L’Italia e gli italiani sono entrati in questa fase. In Francia, nell’intervallo tra il primo e il secondo turno, aveva preso forma una sorta di duplice referendum: pro o contro Sarkozy, pro o contro la sinistra. Quali aspetti assumerà il confronto in Italia, in questi ultimi giorni di campagna elettorale? Saranno gli attori politici a deciderlo. Ma dovranno fare in fretta. Soprattutto Bersani, che come già Hollande lo scorso anno, è certamente in testa, ma deve mantenere il vantaggio sul suo principale avversario (Berlusconi) e sui challenger (Grillo e Ingroia), così come sul suo eventuale alleato di domani, Mario
Monti.
Traduzione di Elisabetta Horvat

Corriere 15.2.13
Gianfranco Fini
«Sbagliai a sciogliere An L'alleanza a sinistra? Si vedrà»


«Io non sono come Berlusconi che dice che non sbaglia mai». Gianfranco Fini si confessa nella videochat di Corriere.it. E ammette: «Ho commesso l'errore madornale di sciogliere An» per confluire nel Pdl: è «una colpa che non perdonerò mai a me stesso». Ma nel corso del confronto con i visitatori del sito, che gli hanno posto domande anche sulla vicenda della casa di Montecarlo e sulla scelta di non dimettersi da presidente della Camera dopo la caduta del governo Berlusconi, il leader di Fli non ha dato per scontata l'alleanza con Bersani e Vendola: «Bisogna vedere se si creano le condizioni: ciò che conta è il programma».

l’Unità 15.2.13
In monastero
Georg e le suore seguiranno Benedetto XVI

Il segretario personale del cardinale Joseph Ratzinger, che lo ha seguito dopo l’elezione del 19 aprile 2005 nell’appartamento pontificio, lo accompagnerà il 28 febbraio sera a Castelgandolfo e poi nella nuova residenza in Vaticano, all’interno dell’edificio che ospitava le monache di clausura. Vivrà lì, ma non avrà particolari incombenze. «Il Papa viene accompagnato a Castel Gandolfo e poi al monastero da mons. Georg Gaenswein, che continua a seguirlo ha reso noto il portavoce vaticano, padre Federico Lombardi -, e dalle “memores domini”. Il nucleo fondamentale della famiglia pontificia lo accompagna in questa fase». Mons. Georg continuerà dunque a conservare il doppio compito di segretario personale del Pontefice e prefetto della Casa pontificia, «e penso che svolgerà la sua funzione. Padre Georg è stato anche di recente elevato al rango arcivescovile, ma sottolinea padre Lombardi «conoscendo lo stile
del Santo Padre, non penso che pensi di avere bisogno, nel suo ritiro, di un vescovo come segretario personale». Poche certezze anche su altre questioni «logistiche» sulla la sede vacante e sul futuro di Papa Ratzinger. Non è chiaro quando verrà sigillato l’appartamento papale solitamente chiuso alla morte di un Pontefice.
A Castel Gandolfo Benedetto XVI dovrebbe stabilirsi «nel suo normale alloggio» per il tempo «necessario» prima di trasferirsi nel monastero sul colle in Vaticano dove si prevede andrà a vivere dopo l’elezione del suo successore. Non è chiaro se riceverà una pensione. «Non lo so, ma ovviamente ci si prenderà cura di lui», risponde Lombardi, che definisce «piuttosto economica» la sistemazione del Papa in monastero. «Ha esigenze modeste, ha un tenore di vita estremamente semplice. Penso proprio che non sarà un grande aggravio per la Santa Sede».

il Fatto 15.2.13
Padre Amorth “Grazie dagli esorcisti”


“Benedetto XVI ha fatto molto per gli esorcisti, consentendo di poter amministrare il sacramentale dell’esorcismo non solo a persone che subiscono la possessione diabolica ma anche a chi subisce disturbi diabolici”, ha detto padre Amorth, presidente dell’Associazione degli Esorcisti Ansa

il Fatto 15.2.13
Roger Mahony
Coprì i pedofili, ma sarà al Conclave
di Marco Politi


Otto anni dopo torna in conclave un cardinale, che coprì preti pedofili nella sua diocesi. Allontanato dal suo successore da ogni incarico ecclesiastico, che aveva mantenuto dopo il pensionamento, il porporato viene tuttavia ritenuto degno di scegliere il nuovo pontefice. Si chiama Roger Mahony, cardinale ed ex arcivescovo di Los Angeles dal 1985 al 2011. Le 14 mila pagine di documenti della diocesi, rese note su ordine del tribunale, hanno rivelato che Mahony e l’incaricato diocesano del problema-abusi, monsignor Thomas Curry, avevano concordato ripetutamente iniziative per tenere “lontani” dalla polizia preti criminali.
“Leggere questi documenti è un’esperienza brutale e dolorosa”, ha confessato il nuovo vescovo di Los Angeles Josè Gomez. Il fenomeno portato alla luce in questi anni è gigantesco. L’arcivescovado di Los Angeles ha già dovuto patteggiare risarcimenti per 660 milioni di dollari per rispondere a circa 500 casi di abusi. Un duro editoriale di condanna del Washington Post scandisce che il cardinale Mahony è “fortunato a non essere in prigione”. Era già successo al conclave del 2005. Allora si trattava del cardinale Bernard Law, chiamato provvidenzialmente da papa Wojtyla a Roma (dove gli era stata affidata la basilica di Santa Maria Maggiore) per evitargli guai con la giustizia. Il motivo era sempre il medesimo: spostamenti sistematici di parrocchia in parrocchia di preti pedofili. Nel 2005 una piccola delegazione di vittime, appartenenti alla organizzazione statunitense Snap, aveva pregato pubblicamente davanti a piazza San Pietro per chiedere che Law non fosse fatto entrare in conclave.
Invano. Puntuale come un fantasma, il carico di peccati e di problemi non risolti dalla Chiesa cattolica si ripresenta ora inesorabilmente alla porta della cappella Sistina. Non è un “problema specifico” come si affrettano a dichiarare i difensori d’ufficio dei sacri palazzi. Sesso e soldi – Ior, corruzione, pedofilia – hanno contribuito negli ultimi tre anni ad assestare colpi durissimi alla credibilità dell’istituzione ecclesiastica. E se la Chiesa vuole risalire la china deve affrontare definitivamente anche questi due nodi. Il dossier degli abusi è uno dei più pesanti di quelli che si accumulano simbolicamente sul tavolo dei cardinali-elettori, chiamati a metà marzo all’elezione papale.
PAPA RATZINGER durante il suo pontificato ha dato il segnale di una netta svolta, condannando senza scusanti i crimini e quanti tra i vescovi sono rimasti inerti, chiedendo pubblicamente perdono alle vittime e incontrandole in varie parti del mondo, invitando gli episcopati a elaborare linee di azione, a stabilendo pene ecclesiastiche più severe. Ma non c’è dubbio che la sua azione si sia impantanata tra resistenze e opposizioni. A ogni passo in avanti verso la pulizia ha spesso corrisposto un contraccolpo sotterraneo. A Los Angeles il vescovo Gomez ha agito sicuro dell’appoggio di Benedetto XVI, ma contro il pontefice si sono scatenati nell’ambiente dei vescovi e cardinali più conservatori giudizi durissimi per avere “osato” stabilire il precedente che un cardinale – qual è Mahony – si può “punire pubblicamente”. Attacchi sotterranei a papa Ratzinger, motivati anche dalla paura che si aprano armadi pieni di scheletri, perché di vescovi e cardinali che hanno soprasseduto alla denuncia di preti criminali ce n’è più d’uno. Un brutto segnale per la politica di pulizia totale è stato anche il sollecito trasferimento a Malta del promotore di giustizia del Sant’Uffizio, monsignor Scicluna. Trasferimento-promozione (Scicluna diventa arcivescovo) propugnato dal segretario di Stato Bertone. Scicluna è stato il collaboratore più determinato di Ratzinger (fu lui a raccogliere il dossier che ha incriminato il fondatore dei Legionari di Cristo Marcial Maciel) e più volte ha denunciato il clima di omertà sui delitti di pedofilia e la “cultura del silenzio” all’interno della Chiesa italiana. Allontanarlo l’autunno scorso non è stato un segnale incoraggiante, anche se il successore padre Robert Oliver di Boston appare egualmente deciso.
SCORAGGIANTI sono anche le notizie provenienti dalla Germania, che spesso è stata un esempio per come l’episcopato organizza a vari livelli il contrasto agli abusi. Aveva suscitato grande interesse l’accordo tra la conferenza episcopale tedesca e l’Istituto di ricerca criminologica della Bassa Sassonia per un esame di tutte le cartelle personali del clero di Germania. Improvvisamente, sul finire del 2012, il contratto con l’Istituto è stato sciolto per volontà dell’episcopato. Motivi del contrasto: posizioni differenti sulla “tutela della privacy” dei colpevoli e il rifiuto del direttore dell’Istituto professore Christian Pfeiffer di sottoporre preventivamente ai vescovi il rapporto finale. Il vescovo di Tre-viri, monsignor Ackermann, incaricato nazionale dell’episcopato tedesco per il dossier-abusi, assicura che il progetto sarà realizzato con un altro “partner”. Ma le varie forme di resistenza, che in tanti Paesi si sono manifestate contro l’operazione-trasparenza, rivelano in quale ginepraio Benedetto XVI si è cacciato quando si è proposta una linea di tolleranza zero. Tocca al conclave dare al nuovo papa un mandato per andare sino in fondo. Il punto è questo: la “volontà politica” come si diceva una volta in Italia.

La Stampa 15.2.13
Sentenza in tribunale
Argentina “La chiesa complice dei golpisti”
di E. Guan.


Buenos Aires. La Chiesa argentina è stata giudicata complice della repressione della dittatura militare fra il 1976 e il 1983. La sentenza viene dal tribunale di La Rioja, provincia del Nord del Paese, dove durante il regime erano molto attivi i sacerdoti del movimento del Terzo Mondo. Due di loro, Carlos Dios Murial e Gabriel Longueville, furono sequestrati e uccisi. Nella sentenza di condanna per i responsabili militari della zona, i magistrati hanno chiarito che esisteva un piano del regime in collaborazione delle alte gerarchie ecclesiastiche per eliminare i preti scomodi.
«I membri del popolo di Dio, così come il resto della società argentina si aspettano oggi da un’istituzione cosi importante come la Chiesa cattolica un ripudio chiaro e nitido a chi permise che si perpetrassero i gravissimi crimini che conosciamo», scrivono i giudici.
Fra i religiosi uccisi negli anni Settanta spicca il nome del vescovo di la Rioja Enrique Angelelli, scomparso in un incidente d’auto mai del tutto chiarito, quello del vescovo di San Nicolas Horacio Ponce de Leon e del «prete dei poveri» padre Carlos Mugica. Le gerarchie della chiesa argentina hanno appoggiato il golpe: il nunzio apostolico a Buenos Aires era Pio Laghi, amico intimo dell’ammiraglio Emilio Massera.

il Fatto 15.2.13
Bertone “sistema” lo Ior
Il camarlengo cambia la guida dell’istituto bancario e vuole comprere l’Idi
di Carlo Tecce


La sede vacante non preoccupa. Il 28 febbraio, ultimo giorno di pontificato, in apparenza non esiste. Perché il cardinale Tarcisio Bertone non si cura di scadenze e rituali: sistemata la pratica Ior con la nomina di un nuovo presidente, il belga Bernard De Corte o un tedesco appartenente ai Cavalieri di Malta, il segretario di Stato vuole acquistare l’Idi. L’istituto sanitario dermopatico – che riunisce una serie di strutture di eccellenza – è traboccante di inchieste, indagati e debiti, ma è ancora gestito – come da un secolo – dai frati di una congregazione esterna al Vaticano, i Figli dell’Immacolata concezione.
ARCHIVIATA la torbida direzione di padre Franco Decaminada – che deve rispondere ai magistrati romani che contestano la bancarotta fraudolenta –, il dramma dei 1.500 lavoratori non è più sopportabile: in questi giorni, aspettando un ipotetico socio privato e un contributo regionale, i sindacati stanno affrontando una trattativa che potrebbe condurre a un licenziamento su tre. E così, per ritoccare un’immagine compromessa, il Vaticano vuole soccorrere la Congregazione prima che Benedetto XVI si ritiri in preghiera e il nuovo papa cominci la bonifica in Curia. Occorre l’avallo di Joseph Ratzinger, che più volte ha invocato una soluzione per l’Idi, affinché il cardinale Bertone possa realizzare l’ambizioso progetto di un polo sanitario vaticano assieme al Bambin Gesù, dopo aver fallito l’operazione San Raffaele di Milano per l’opposizione di Ettore Gotti Tedeschi, il banchiere che guidava lo Ior cacciato nove mesi fa. La Congregazione ha un’esposizione bancaria ancora non quantificata, ma la voragine non è inferiore ai 600 milioni di euro.
Il Vaticano può utilizzare la cassa più florida, proprio l’Istituto per le Opere religiose, che avrebbe 7 miliardi di euro liquidi, e dunque non soffre cifre esponenziali. Non sarà un investimento scellerato perché la Santa Sede punterebbe a un accordo di ristrutturazione finanziaria con le banche coinvolte, soprattutto Unicredit, e avrebbe a disposizione un patrimonio immobiliare di 1,5 miliardi. Il segretario di Stato avrebbe già individuato il cardinale da spedire all’Istituto, affiancato da un amministratore delegato laico che avrebbe già superato il parere di Benedetto XVI. Il Vaticano potrebbe offrire oltre 300 milioni di euro e poi siglare un patto con le banche per salvare i dipendenti senza stipendio da mesi: contenti i porporati, contento il papa. I tempi sono stretti, e la Santa Sede non vuole sbattere contro il conclave, che andrà a congelare la gestione ordinaria. Dal 1° marzo, Tarcisio Bertone batterà moneta, sarà il camerlengo plenipotenziario. Ma il cardinale piemontese non è un uomo timoroso: è riuscito a risolvere a suo favore la complicata faccenda Ior, tenuta in sospeso per un anno tra veleni e sospetti. La commissione cardinalizia, presieduta proprio da Bertone, presto dovrà formalizzare l’incarico conferito a Bernard De Corte, ex Brederode, Cobepa e Wereldhave Belgium, tutti fondi privati d’investimento. De Corte, se non numero uno, sarà consigliere.
LA STESSA commissione dovrà subire un rimpasto perché – per questioni di opportunità – il cardinale Attilio Nicora lascerà la poltrona al collega Domenico Calcagno. Nicora fu scelto da Benedetto XVI per la guida di Aif, l’Istituto di informazione finanziaria che combatte il riciclaggio di denaro: proprio una norma più stringente, voluta da Nicora e sgonfiata da Bertone, avrebbe provocato contrasti insanabili sfociati con l’allontanamento di Gotti Tedeschi.
Sarà rinnovato anche il Consiglio di amministrazione: esce Ronaldo Hermann Schmitz (Deutsche Bank), entra Ernest von Freyberg (banchiere tra la Germania e il Giappone), resta l’italiano Antonio Maria Marocco.
La corsa contro il calendario di Bertone procede senza interruzione e l’affare Idi sarebbe l’ultimo rintocco prima di riunirsi sotto gli affreschi in Cappella Sistina per eleggere l’erede di San Pietro.
MA IL POTERE si garantisce con piccole e forse impercettibili mosse che, però, valgono tantissimo: sempre la Segreteria di Stato ha arruolato come mediatore (advisor) Renè Bruelhart, gran navigatore dei mercati finanziari. Unica pecca: lo svizzero Bruelhart, che operava nel paradiso fiscale del Liechtenstein, è da poco direttore generale di Aif. Sarà un po’ controllore e un po’ consulente del controllato. E le fumate bianche non sono finite.

Repubblica 15.2.13
L’ombra del Cavaliere su La7 in vendita
La7 a Bassetti, antenne a Clessidra l’affare in perdita di Telecom sulla tv
La fretta sospetta per favorire il Cavaliere prima del voto
di Giovanni Valentini


È DIVENTATA ormai una corsa contro il tempo la controversa operazione finanziaria per vendere La7. E anche contro le prossime elezioni e la prospettiva di una svolta politica. Ma, soprattutto, contro il pluralismo dell’informazione.
E CONTRO la libera concorrenza, come avviene purtroppo in Italia da trent’anni a questa parte, sotto la dominazione del regime televisivo. Su richiesta di un quinto dei consiglieri, è stato convocato in tutta fretta per lunedì prossimo, 18 febbraio, il Cda di Telecom che controlla la rete tv, rilanciata nelle ultime stagioni dall’arrivo di “anchorman” come Mentana e Santoro o di “anchorwoman” come Lilli Gruber. Il “sinedrio” della capogruppo dovrà decidere se vendere La 7, a quale prezzo ed eventualmente a chi. Ma la partita s’incrocia inevitabilmente con gli interessi economici e politici di alcuni “poteri forti”, dietro i quali si staglia l’ombra inconfondibile di Berlusconi e Mediaset, suo colosso di famiglia.
In realtà, l’oggetto della complessa e oscura trattativa è Telecom Italia Media, la scatola finanziaria che, oltre all’emittente tv, detiene anche le infrastrutture tecniche per trasmettere: tre multiplex, cioè “fasci” di frequenze digitali, in concessione dallo Stato per vent’anni. Una risorsa demaniale scarsa, un bene pubblico che appartiene a tutti i cittadini. E sono proprio questi “mux”, come vengono chiamati in gergo, il pezzo pregiato in palio. Tanto più che, in base a una direttiva europea sulla cosiddetta “neutralità tecnologica”, a partire dal 2016 si potrà chiedere il cambio della loro destinazione d’uso e quindi utilizzarli anche per altre funzioni, dalla telefonia mobile alla banda larga o ultralarga.
Si tratta, dunque, di due cespiti distinti che hanno ovviamente un valore diverso. La 7, nonostante che sia stata rilanciata dalla recente “campagna acquisti” e anzi proprio per questo, ha accumulato finora circa 250 milioni di debiti e prevede di perderne ancora un centinaio nel 2013, con un plotone di circa 500 dipendenti a carico. Tutto ciò a fronte di 175 milioni di raccolta pubblicitaria all’anno, pari a una quota del 4,49% (dati Nielsen), per un’audience di 419 mila telespettatori e uno share del 3,72 nel giorno medio, valori che salgono a 1,36 milioni e al 4,84% in prima serata (elaborazioni Studio Frasi su dati Auditel).
Con la loro capacità trasmissiva, invece, i tre “mux” vengono sfruttati “in affitto” anche da una serie di altri operatori, da Discovery a Mtv, da Sport Italia al Gruppo De Agostini. Valgono almeno 120 milioni l’uno. Producono un rispettabile fatturato di 75 milioni all’anno e, ammortamenti a parte, un ragguardevole Mol (margine operativo lordo) di 43. Un bell’affare per Telecom, insomma, che invece sembra impaziente di sbarazzarsene.
Per questo “pacchetto”, a cui si sono dichiarati interessati anche altri pretendenti come Diego Della Valle ed Europa 7 di Francesco Di Stefano, al momento sul tavolo del Cda Telecom si confrontano due offerte d’acquisto. Una presentata da Cairo Communication, l’editore torinese già assistente di Berlusconi e pubblicitario di scuola Publitalia. L’altra del fondo Clessidra che fa capo all’ex amministratore di Fininvest, Claudio Sposito. Anche se entrambi provengono per così dire dalla stessa “scuderia”, le loro proposte appaiono tecnicamente differenziate e sembrano fatte apposta per restringere l’alternativa fra l’una o l’altra, in modo da neutralizzare la concorrenza a Mediaset.
In considerazione dei debiti accumulati finora da TI Media (260 milioni, principalmente per La 7) e delle perdite previste di altri 100 per quest’anno, la proposta di Cairo per la sola rete televisiva contempla addirittura una consistente “dote” che la parte venditrice dovrebbe versare all’acquirente, oltre ad accollarsi il passivo. Un’operazione che alla società guidata da Franco Bernabè costerebbe molto cara, ma che avrebbe almeno il vantaggio di alleggerirla di un’attività in perdita e di preservare invece le infrastrutture di trasmissione.
Al contrario, l’offerta (si fa per dire) di Clessidra si potrebbe riassumere così, in termini da supermercato: mi regali i tre “mux” e mi prendo La 7. Il fondo di Sposito, di cui la famiglia Berlusconi è il principale o uno dei principali investitori, propone l’equivalente di un obolo e chiede di essere sgravato dai debiti. In sostanza, il valore negativo de La 7 verrebbe largamente coperto da quello dei multiplex.
Una volta conclusa eventualmente l’operazione, in ossequio alla separazione fra operatori di rete e fornitori di contenuti prevista dalla legge, Clessidra gestirebbe il ricco affare dei “mux” e affiderebbe l’emittente tv a Marco Bassetti, già consulente del Biscione; marito e socio di Stefania Craxi; ex titolare di Endemol, una delle maggiori
società di produzioni tv, fornitrice di Mediaset. Mani più che sicure, insomma. Ammesso poi che, in futuro, Bassetti non incontri troppe difficoltà, non abbassi il tono e il livello della rete o non decida addirittura di metterla in liquidazione.
Qui, però, torna in gioco lo spettro del conflitto di interessi. Fra i consiglieri di amministrazione della Telecom, chiamati a valutare le due proposte, si trova Gaetano Micciché in rappresentanza di Banca Intesa, advisor finanziario del Fondo Clessidra. Un altro componente è Renato Pagliaro, espresso da Mediobanca, partecipata da Fininvest con Ennio Doris (Mediolanum) e Piersilvio Berlusconi nel Cda. Poi i due consiglieri indicati da Generali, su cui Mediobanca ha un peso determinante: Gabriele Galateri e Tarak Ben Ammar, quest’ultimo produttore cinematografico tunisino, ex consigliere di Mediaset e socio di Berlusconi che possiede, attraverso una controllata Fininvest, il 22% della sua “Quinta Communications”. E infine, Elio Catania, insediato dal Pdl al vertice delle aziende municipa-lizzate di Milano.
Su questo assortito quintetto, favorevole alla cessione de La 7 al Fondo Clessidra, incombe il rischio — possibile ed eventuale — di un’azione di responsabilità da parte degli altri soci e dei piccoli azionisti. Per disfarsi di una rete televisiva in perdita, è proprio necessario vendere sotto costo un “asset” di pregio come i tre multiplex che, oltretutto, appartengono al “core business” di Telecom e possono valere ancor più in futuro? E se poi l’Antitrust, in forza delle sentenze emesse dalla Corte costituzionale nel 1994 (bocciatura della legge Mammì) e nel 2002 (limite di due reti a testa) contro la concentrazione tv, dovesse stabilire che l’affitto pluriennale delle frequenze da parte di uno stesso soggetto (Mediaset) equivale di fatto a un controllo? Sono interrogativi pesanti che al prossimo Cda della Telecom dovrebbero almeno sconsigliare questa fretta sospetta di decidere.

La Stampa 15.2.13
Aperti fino a marzo
Gli ultimi sei Opg verso la chiusura


Il 31 marzo chiuderanno i sei ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) ancora presenti in Italia, come previsto dalla legge 9/2012: dal 1° aprile gli 800 malati mentali residenti negli Opg per i reati commessi saranno senza un centro che li segua e li curi. Infatti le strutture alternative previste per l’assistenza non sono ancora state approntate dalle Regioni. La Società italiana di psichiatria (Sip), chiede di prorogare la data di chiusura degli Opg: potrebbero esserci «rischi per la sicurezza».

Repubblica 15.2.13
La rivoluzione delle donne. A milioni nelle piazze per difendere la dignità
Balli in tutto il mondo contro femminicidi e violenze
di Michela Marzano


LA MANIFESTAZIONE è una di quelle rivoluzioni pacifiche al servizio della civiltà, affinché le donne cessino di essere trattate come semplici oggetti a disposizione degli uomini. Una rivoluzione capace di portare ad azioni concrete per la prevenzione delle violenze, l’educazione dei più giovani e la tutela delle persone più fragili. Azioni che purtroppo sono ancora troppo timide e inefficaci. In tutto il mondo, infatti, i dati delle violenze contro le donne sono terrificanti, anche se in misura variabile a seconda dei paesi. Come se, indipendentemente dai costumi, dalla cultura e dal credo religioso, le donne continuassero ad essere in balia delle pulsioni maschili. Pulsioni sessuali o brutali. Pulsioni distruttive, come direbbe Freud, che si scatenano quando vengono meno le dighe psichiche della civiltà e della cultura, e sembra normale e scontato che certe persone diventino il capro espiatorio di tutto ciò che non va.
Le violenze contro le donne, che si tratti degli stupri o del femminicidio, hanno origini profonde e mille diramazioni. Certe società le legittimano. Altre le tollerano. Altre ancora cercano di contrastarle. Ancora mai, però, si è cercato di fare veramente qualcosa perché si arrestassero, cercando di sradicare tutti quei pregiudizi che circondano ancora le donne. E che permettono ad alcuni uomini di sentirsi giustificati quando umiliano pubblicamente le donne — negando loro competenze e dignità — o addirittura
se ne sbarazzano quando diventano scomode o inopportune. Come se, nonostante tutte le battaglie condotte fino ad oggi per promuovere l’uguaglianza, fosse ancora forte l’idea secondo cui le donne sono, in fondo, inferiori agli uomini. Retaggio culturale di un mondo in cui alcune persone — sempre le stesse, sempre gli uomini — avrebbero
il diritto di trattare altre persone — sempre le stesse, sempre le donne — come oggetti, come cose, come mercanzie, come prodotti.
Ironia della sorte, proprio questa notte si è consumata un’altra tragedia al femminile: con quattro colpi di pistola, Oscar Pistorius, il primo uomo dalle gambe amputate a correre alle Olimpiadi, ha ucciso a Pretoria la sua fidanzata. Certo, Pistorius nega l’intenzionalità del proprio gesto. Avrebbe sparato convinto che fosse penetrato in casa un ladro. E fino a quando le condizioni esatte dell’omicidio non saranno chiarite, non possiamo aggiungere altro. Nonostante la polizia sembri poco convinta dalla versione di Pistorius e sia più incline a credere che si tratti di un femminicidio, viste anche le segnalazioni di precedenti violenze domestiche. Terribile coincidenza nel giorno di San Valentino, che Reeva Steenkamp avrebbe voluto festeggiare con il proprio fidanzato, dopo aver postato nel suo blog un’immagine in memoria di una diciassettenne stuprata e uccisa il 2 febbraio da una gang sud-africana. Terribile coincidenza che mostra a che punto è ancora difficile mettere un termine a questa violenza che si scatena contro le donne, proprio in quanto donne.
Speriamo che le immagini delle danze di ieri possano avere un impatto non solo simbolico su questo flagello contemporaneo. Sarebbe infatti opportuno che le immagini — insufficienti in quanto tali a debellare le violenze — si traducessero in azioni e che le azioni portassero ad un cambiamento culturale profondo. Il messaggio è semplicissimo: le donne sono esseri umani dotati di valore intrinseco, e nessuno dovrebbe osare negarlo, come accade invece ancora oggi. La loro vita non ha un prezzo, a differenza delle cose. Ha sempre e solo una dignità. La dignità delle persone, indipendentemente dal sesso.

Repubblica 15.2.13
Il sindacato dei giornalisti: subito un tavolo di confronto. Monti: i ricavi vengano dal mercato
La Fnsi agli editori: insieme contro la crisi


ROMA — La Federazione nazionale della stampa (Fnsi) si appella «al senso di responsabilità» degli editori (Fieg) e chiede di aprire «immediatamente un tavolo di confronto per affrontare con il massimo rigore» una «crisi ormai ufficializzata» dell’editoria nazionale, «con chiusure di decine di testate storiche e l’espulsione dalle redazioni di quasi un migliaio di giornalisti». Nel documento conclusivo del Consiglio nazionale del 13 febbraio, la Fnsi parla di «allarme acuto» e di «preoccupazione estrema», per il sommarsi alla crisi economica e del settore anche della «scarsa lungimiranza degli editori nella definizione di strategie, palesi errori manageriali e investimenti sbagliati».
La Federazione chiede poi al governo che verrà «interventi indispensabili e urgenti», come «la riforma delle leggi dell’editoria, l’istituzione di un fondo pubblico valido almeno un triennio per l’innovazione, la definizione di un welfare attivo del lavoro per gestire nella maniera meno traumatica possibile le uscite anticipate per la crisi».
Il premier uscente Mario Monti ieri ha però già frenato: «Sono sicuro che il prossimo governo sarà anch’esso sensibile a queste situazioni, ma è illusorio che semplicemente il denaro dei contribuenti possa andare a sostituirsi ai ricavi nel caso in cui questi non vengano dal mercato».

l’Unità 15.2.13
Francia: «Sì alla sedazione terminale»
L’Ordine dei medici: «In casi eccezionali l’aiuto a morire è un atto d’umanità»
L’impegno elettorale di Hollande
di Roberto Arduini


Non eutanasia, ma un «diritto all’umanità». Con questa motivazione i medici in Francia aprono la strada al ricorso alla «sedazione terminale» dei pazienti. Il Consiglio Nazionale dell’Ordine, che lo ha auspicato senza menzionare esplicitamente il termine «eutanasia», la ritiene possibile per i pazienti che l’abbiano richiesta in modo «persistente, lucido e reiterato». La pratica inoltre deve essere limitata a «situazioni eccezionali» come «agonie prolungate» o «dolori insopportabili», sulle quali la legge attuale non fornisce alcuna indicazione. Inoltre, tali «casi clinici eccezionali» che sorgono solo dopo l’introduzione di cure palliative, se cioè le normali terapie non sono più efficaci dovranno essere accertati non da un solo medico ma in modo collegiale, secondo criteri da stabilire.
Attualmente, la legge Leonetti in vigore dal 22 aprile 2005 vieta eutanasia e suicidio assistito, ma prevede «dosi terapiche in grado alleviare il dolore al paziente, con il suo consenso, anche nel caso in cui tali dosi possano abbreviare quel che rimane della vita». Questa norma copre la maggioranza dei casi che si possono verificare nella pratica clinica, ma non determinate agonie prolungate e dolori fisici o psicologici che rimangono incontrollabili nonostante le cure palliative. Su questo i medici francesi si sono espressi, perché sono situazioni che, «sebbene rare, non possono rimanere senza risposta». Secondo le stime, ogni anno in Francia si verificherebbero circa tremila casi di eutanasia.
Di una modifica alla legge si era già parlato concretamente a dicembre, quando il presidente francese, Francois Hollande, aveva richiesto un rapporto su questa delicata materia per verificare le circostanze in cui possa essere accettabile alleviare il dolore ai pazienti, in vista della presentazione di un disegno di legge all’Assemblea nazionale, prevista per giugno. Il rapporto, in 140 pagine, spiegava come l’applicazione «della legge che ha lo scopo di garantire le cure palliative è insufficiente, dopo 13 anni», che l’applicazione di quella «relativa ai diritti del malato (legge Kouchner) è insufficiente dopo 10 anni», che l’applicazione «della legge Leonetti è insufficiente, dopo 7 anni». E rimarcava che bisogna dare un maggiore accesso alle cure palliative.
LA PROPOSIZIONE 21
«L’attuale legislazione ha spiegato Hollande non risponde alle legittime preoccupazioni espresse da persone che sono malate in modo grave e incurabile». Il cosiddetto Rapport Sicard, stilato da Didier Sicard dopo cinque mesi di lavoro e una dozzina di «dibattiti cittadini», risponde anche alla «proposizione n.21» del programma elettorale di Hollande che contemplava «l’assistenza medica per terminare dignitosamente l’esistenza per tutti i maggiorenni in fase avanzata o terminale di una male incurabile».
Con il loro voto positivo, i medici francesi hanno sentito il bisogno di dare il via libera al principio della sedazione terminale, perché spesso succede che venga equivocato con l’eutanasia. Il dibattito si è, infatti, riacceso improvvisamente nelle ultime settimane, quando sono state raccolte 11mila firme contro la radiazione dall’albo di un medico del pronto soccorso accusato di aver avvelenato sette pazienti in fin di vita e che ora rischia l’ergastolo. Una lettera di protesta è stata firmata da 250 medici il 6 febbraio e indirizzata ad Hollande. Nella lettera si specifica come la sedazione terminale è un «principio presente e accettato eticamente da tempo nel mondo medico, il cui fine non è provocare la morte, ma controllare il dolore e la sofferenza. In questo processo è noto che, come effetto secondario, ci possa anche essere un’accelerazione della morte».

il Fatto 15.2.13
La guerra dei cimiteri tra ebrei e musulmani
Gli ultraortodossi profanano tombe arabe a Gerusalemme
Episodi del genere stanno diventando sempre più frequenti
di Roberta Zunini


Non è la prima volta che accade, anzi. Fino a qualche tempo fa però succedeva solo in Cisgiordania. Ma, ormai, è una lugubre prassi che i coloni distruggano le tombe dei palestinesi anche nei cimiteri delle comunità arabe israeliane. Decine di tombe sono state profanate la scorsa notte in un cimitero islamico nel cuore di Gerusalemme ovest, la zona dove vive la maggior parte dei cittadini di origine ebraica. I muri e le lapidi sono stati imbrattati con lo spray. Ovunque sono state disegnate stelle di David accompagnate dalle solite, sinistre, scritte: “'Morte agli arabi” e “Il prezzo da pagare “(Tag-Mehir, in ebraico). È quest’ultima la firma con cui i coloni più oltranzisti rivendicano ogni volta le loro gesta. Fra le tombe inoltre sono state trovate alcune bottiglie vuote di vino e liquori: un’ulteriore provocazione visto che l’alcol è vietato ai fedeli musulmani.
L'anno scorso ci furono incursioni notturne anche a Yaffo, nei pressi di Tel Aviv, in varie cittadine della Galilea ma ciò che è avvenuto ieri è considerato ancora più grave perché è successo a Gerusalemme. Come a segnalare che questa “guerra” non risparmia più nessuno, nemmeno i morti e nemmeno quelli sepolti nella Città Santa. La furia vendicativa di chi pensa che la conquista della terra possa avvenire solo attraverso la violenza e l'umiliazione dell'avversario, non conosce più limiti, nè morali nè geografici. Per i coloni tutto è sacrificabile pur di raggiungere il proprio scopo. Persino l’isolamento crescente di Israele da parte dell’intera comunità internazionale - stanca dell’appoggio dato dal governo uscente e, con ogni probabilità, di quello entrante, alla parte più violenta della popolazione israeliana - è un fatto del tutto secondario. Dopo ogni profanazione le principali istituzioni israeliane, il presidente Shimon Peres in testa, in genere si affrettano a condannare l'accaduto e la polizia ad aprire un'inchiesta, che in genere si conclude in un nulla di fatto. Eppure i gruppi di coloni più agguerriti sono ben conosciuti dalle forze dell'ordine e dall'intelligence israeliana. Il motivo per cui tutti sanno chi siano gli autori di queste bieche provocazioni, è che, per l’appunto, ogni volta si premurano di lasciare la propria firma. Mentre gli slogan pieni di insulti variano, soprattutto quelli contro Mometto, il “prezzo da pagare” non manca mai. Perché i coloni che vorrebbero vivere nella grande Israele (dalle sponde del Mediterraneo alla riva ovest del fiume Giordano, cioè l'attuale Israele e la Cisgiordania) ripulita dalla presenza palestinese, ci tengono a far sapere che sono stati loro. Tag-mehir ha un solo significato: arabi se volete vivere ed essere sepolti qui dovrete pagarne il prezzo.

Corriere 15.2.13
Superman, eroe (segretamente) ebreo

In Israele si discutono le supposte origini ebraiche di Superman (nell'immagine). L'identità del super eroe risulterebbe dalle origini dei suoi autori (Jerry Siegel e Joe Shuster), dal nome «kriptoniano» «Kal-El» (in ebraico «voce o vascello di Dio») e dall'idea, tipica degli ebrei emigrati negli Usa, di mimetizzarsi americanizzando il proprio nome (qui, assumendo l'identità del giornalista Clark Kent).

La Stampa 15.2.13
L’allarme di Toni Morrison “Nell’America di Obama sta tornando il razzismo”
La Nobel denuncia: l’odio insegnato a scuola e nelle famiglie
di Maurizio Molinari


La scrittrice Toni Morrison ha ricevuto nel 2012 da Obama la «Medal of Freedom»

Dall’inizio di febbraio a una lista selezionata di americani, in più città, sono state recapitate a domicilio sei pagine dattiloscritte da Toni Morrison, l’ultima scrittrice americana a vincere un Nobel della letteratura. Si tratta di un testo di dura denuncia del razzismo che dilaga negli Stati Uniti. «Dall’indomani dell’elezione di Barack Obama la nostra nazione è divenuta teatro di un’odiosa ondata di razzismo e intolleranza che porta con sé antisemitismo, omofobia e altri pericolosi pregiudizi» scrive la scrittrice afroamericana, puntando l’indice contro «l’estrema destra religiosa portabandiera di una nuova forma di intolleranza mascherata da moralità».
Il terreno di scontro di questa battaglia con il razzismo, si legge a pagina 2, è nelle scuole e dentro le famiglie dove «insegnare l’odio ai bambini è la cosa peggiore che si possa fare al mondo». Per questo Morrison chiede ai destinatari della lettera-appello sostegno morale, appoggio politico e donazioni finanziarie per Morris Dees, il co-fondatore del «Southern Poverty Law Center» di Montgomery in Alabama roccaforte della «sfida all’intolleranza». Dees è il promotore di una campagna riuscita a far adottare da 80 mila scuole americane il «Giuramento della Tolleranza», portando gli alunni a condividere una formula che recita: «Rispettiamo le persone che hanno credo, cultura, razza, identità sessuale e altre caratteristiche diverse dalle nostre». Sono già 400 mila gli insegnanti che lo hanno accettato nelle rispettive classi ma, racconta Toni Morrison, la reazione dei razzisti è stata massiccia e violenta: «Morris Dee, i collaboratori e la sua stessa famiglia sono stati minacciati». «Gruppi razzisti stanno dando vita ad una campagna di intimidazione contro Morris Dee, i suoi cari e lo staff del Southern Poverty Law Center» sottolinea Morrison, citando «arresti eseguiti» e «oltre trenta complotti sventati» che «puntavano a ucciderlo».
Per la scrittrice simbolo delle battaglie contro la segregazione, la difesa del «Giuramento della Tolleranza» è il terreno sul quale si svolge lo scontro «con i nuovi razzisti». La ragione ha anche a che vedere con l’identità di Dee: «E’ un uomo bianco cresciuto in Alabama dove avrebbe potuto aderire al Ku Klux Klan ma invece ha scelto di guidare uno studio legale che ha ottenuto 2,5 milioni di risarcimenti per un adolescente ispanico massacrato di botte dai seguaci degli Imperial Klans». Per Morrison l’ondata del «nuovo razzismo» investe, prima ancora di afroamericani ed ebrei, gli immigrati di ultima generazione: ispanici e asiatici. «Le famiglie messicane terrorizzate da gruppi di vigilantes» e «i pescatori vietnamiti aggrediti dal Klan in Texas» descrivono un’intolleranza la cui gravità sta nell’essere sostenuta attraverso l’odio per le minoranze «trasmesso dai genitori ai figli».
In ultima analisi, la riflessione investe le radici del razzismo, da ricercarsi nelle singole famiglie impermeabili a quanto avviene nella nazione che ha eletto per due volte Obama alla Casa Bianca. Ecco da dove viene la scelta di scrivere la lettera che sostiene il coinvolgimento di scuole e insegnanti per consentire alle nuove generazioni di sviluppare gli anticorpi contro l’intolleranza. Ed è una lettera ad personam perché, come Morrison sottolinea, «per ottenere dei profondi cambiamenti bisogna voler pensare, e fare, l’impensabile»: sono i singoli a poter fare la differenza.

La Stampa 15.2.13
Giordano Bruno 413 anni dopo


La presentazione di un raro manoscritto di Giordano Bruno, sulle possibili radici napoletane della Rosacroce d’oro, è il momento clou della due giorni in programma oggi e domani a Napoli al Maschio Angioino, dedicata al filosofo nolano morto sul rogo il 17 febbraio del 1600. Il legame di Giordano Bruno con la città e la volontà di fare rivivere in chiave moderna il suo pensiero sono i due aspetti che hanno spinto il «Forum permanente delle nuove e antiche culture» a organizzare il convegno. Partecipano tra gli altri Clementina Gily, Salvatore Forte. Guido del Giudice, Francesco Afro de Falco.

giovedì 14 febbraio 2013

l’Unità 14.2.13
Bersani: saremo noi a tagliare gli sprechi
«Grillo è come il Cav»
di Andrea Carugati


Napoli, Caserta, Benevento, Avellino. Pier Luigi Bersani continua il suo tour nel Mezzogiorno. Ieri tappa in Campania, dove i temi chiave della campagna elettorale Pd, lavoro e legalità, sono particolarmente caldi.
Il leader Pd cerca di tenersi alla larga «dai politicismi», dal risiko delle alleanze, dai quotidiani attacchi di Monti a Vendola e al Pd. Prende di petto, invece, la destra, la Lega, i populismi. A partire da Grillo. «Lui ha nominato i deputati al pari di Berlusconi, bisogna tenere ben presente come è organizzato quel movimento. In Sicilia Grillo offre mille euro a tutti per tre anni, somiglia a quell’altro che propone di abolire l’Irpef, dice via l’Irap e promette quattro milioni di posti di lavoro. Sarebbe inimmaginabile venire a patti con lui». E ancora: «Il Pd è il contrario del populismo dove c’è sempre qualcuno che suona il piffero e il popolo deve andargli dietro. Che si chiami Grillo o Berlusconi, il meccanismo del populismo è quello. Noi non siamo così, noi siamo per la libertà della gente che sceglie qualcuno finché tocca a lui. E poi si cambia».
LA SFIDA A GRILLO
L’obiettivo di questi ultimi giorni di campagna elettorale è polarizzare la sfida tra Bersani e Berlusconi: «Qui vince uno solo, chi arriva primo. O vincono la destra e il leghismo o vinciamo noi», è il messaggio che lancia ai tanti indecisi, e in particolare a chi è tentato dai 5 stelle, a chi vorrebbe interpretare questo voto come uno «sfogo» contro il sistema. «Noi possiamo offrire una possibilità di cambiamento serio a tutte queste persone», non fa che ripetere Bersani. «C’è tanta gente che è ancora disposta a riflettere». Lo faremo, spiega, «senza raccontare favole», ma puntando anche su quei temi come la sobrietà e i costi della politica che tanta presa fanno sull’elettorato mobile. La sfida a Grillo è aperta. E sarà uno de leit motiv di questi ultimi giorni di campagna. Per ricordare agli indecisi che col voto al comico non si va da nessuna parte.
MENO SOLDI AI PARLAMENTARI
Di qui l’idea di lanciare alcune proposte, prima del 24 febbraio. Di annunciare che il prossimo governo, nei primi 100 giorni, si farà sentire su temi come lo stipendio dei parlamentari, quelli dei manager pubblici, la pletora dei cda. «Non c’è ragione per cui un parlamentare guadagni più di un sindaco di una grande città», è una della convinzioni che il leader Pd ripeterà anche in questi giorni. Numeri alla mano, si tratta di un tetto intorno ai 5000 euro, meno della metà delle retribuzioni attuali degli onorevoli. «Guardate, mi hanno consigliato di spararle grosse anch’io, ma ho resistito alle pressioni», ha detto ieri sera ad Avellino. «Così come Berlusconi non può rinunciare a raccontare balle, noi non possiamo rinunciare a dire la verità». Tra queste verità, ci sarà anche un impegno diretto «del governo» a ridurre i costi della politica.
Ma una stoccata a Berlusconi non può mancare: «Vuole restituire dei soldi? Cominci coi 4,5 miliardi delle quote latte, dai 4 miliardi di Alitalia e dai 4 mancanti dal condono tombale 2002. Sono 3 volte l’Imu. Ma li deve tirare fuori di tasca sua».
Nel merito delle proposte, il leader Pd ribadisce che sull’Imu «si può fare un’operazione intorno ai 2,8 o tre miliardi di euro per ottenere uno sgravio a favore dei ceti popolari», mentre «si potrebbe caricare qualcosa in più sui grandi patrimoni immobiliari, senza fare Robespierre». «L’idea della non pignorabilità della prima casa e del luogo di lavoro va salvata: nel settore della riscossione, per intenderci Equitalia, sono d’accordo che un bene produttivo non venga pignorato e credo che si possa fare qualcosa di preciso anche per ottenere una moratoria sulla rateizzazione dei mutui», ha detto in un’intervista al Mattino di Napoli.
Intervenendo in mattinata a un incontro con i costruttori edili di Napoli, Bersani fissa i suoi paletti sul tema della corruzione: «Bisogna andare giù più pesanti, le norme fatte dal governo Monti sono troppo deboli. Sappiamo che non sono noccioline. Ma è il primo segnale che voglio dare». E poi aggiunge: «Dobbiamo dare una mano al settore edilizio senza consumare altro territorio».
LE CORREZIONI DI MONTI SU SEL
Quanto all’accenno di dialogo di Monti verso Vendola (poi parzialmente ritrattato), il leader Pd si limita a «registrare questa apertura». «Se inizia a esserci questa correzione, sono contento. Con tutti i problemi che ci sono, con il dilagare dei populismi, mi sembra esagerato prendersela sempre con Vendola, è uno sport che non porta da nessuna parte».
«Con tutti i problemi che ha questo Paese, il problema è Vendola?», insiste il leader del centrosinistra. «Noi abbiamo una coalizione con Sel e chiediamo ai cittadini di darci il 51%, che useremo come se fosse il 49%. Saremo liberi e aperti con tutti poi ognuno farà il suo».
«Il 2013 sarà l’anno più pesante. Questa è la situazione in cui ci han portato. Ora tocca a noi. Perché quando ci sono delle grane, tocca a noi. E allora bisogna avere idee chiare e chiarezza nei messaggi», dice Bersani alla affollata platea del teatro Gesualdo di Avellino. «Vinceremo ma ci troveremo in una situazione in cui ci sarà un mare di populismo, di rabbia, di disaffezione e quindi il governo non dovrà solo governare. Dovrà combattere per dare un po’ di credibilità alla politica».

Corriere 14.2.13
Pd, il palco a Roma diventa un problema
I Cinque Stelle puntano a un milione di persone in piazza. Il timore dei confronti
di Maria Teresa Meli


ROMA — In altri tempi, in tempi normali, Roma sarebbe già tappezzata di manifesti con il nome di Pier Luigi Bersani scritto a caratteri cubitali e l'annuncio della grande manifestazione di chiusura della campagna elettorale.
Niente di tutto ciò quest'anno. Ancora ieri non si sapeva quando e dove (i maligni aggiungono anche un «se») il segretario parlerà nella Capitale. E c'era addirittura chi sosteneva che Bersani chiuderà la campagna in Lombardia e non a Roma.
Più di una settimana fa, invece, si era parlato di piazza San Giovanni Bosco, al Tuscolano. Ma ora è tutto di nuovo in forse. Eppure le date delle altre grandi adunate elettorali si conoscono. E anche i luoghi dove si terranno già si sanno. Il leader del Pd domenica sarà a Milano, a piazza Duomo. Con lui Giuliano Pisapia, Umberto Ambrosoli e tanti big del partito, a cominciare dall'ex segretario Walter Veltroni. Poi mercoledì 20 Bersani sarà a Palermo, con Matteo Renzi, e il giorno dopo a andrà a Napoli.
Possibile che solo la data di Roma sia un problema? Possibile sì. E un grosso problema, oltretutto, con tanto di nome e cognome: Beppe Grillo. Il comico genovese infatti si sta impegnando a fondo per portare almeno un milione di simpatizzanti a piazza San Giovanni. E al Pd temono che se per Bersani, lo stesso giorno, ci fosse meno gente, peraltro pure in uno spazio ben più ristretto come quello del Tuscolano, nessun media risparmierebbe il paragone impietoso. Sarebbe un boomerang comunicativo tremendo. Il Partito democratico e il suo segretario non possono subire un incidente simile.
Poco male se il leader del Movimento 5 Stelle si è impossessato di una piazza storica della sinistra italiana. Lo aveva fatto ben prima Silvio Berlusconi. Il vero guaio è il confronto: è l'inevitabile successo di pubblico di Grillo che temono al Pd. Ci si può sempre affidare alla Cgil di Susanna Camusso, che di Bersani è buona amica, ma lo stesso sindacato non è più in grado di mobilitare le folle di un tempo.
È comprensibile che il leader del Partito democratico non voglia chiudere la campagna elettorale in modo così controproducente, anche perché in realtà Bersani nei suoi giri per l'Italia sta constatando che un po' dovunque c'è interesse per il centrosinistra. Per esempio, ieri a Napoli, con i costruttori campani, il segretario del Pd si è piacevolmente stupito quando il presidente dell'Ance regionale, Elio Sava, gli ha detto senza troppi giri di parole: spero di incontrarla nuovamente nelle vesti di presidente del Consiglio.
Quella che per il leader dei costruttori della Campania è una speranza è per Bersani una meta a lungo voluta, con determinazione e pervicacia. Il numero uno del Pd non teme Berlusconi, mentre è convinto che sarà Grillo a fare un exploit elettorale. Però sa anche un'altra cosa: pure se il Cavaliere resta indietro nei sondaggi e se il comico genovese non può aspirare a trasformare il suo movimento nel maggior partito italiano, la possibilità che al Senato il centrosinistra non abbia una maggioranza sufficiente esiste.
Ma neanche questa non propriamente piacevole prospettiva lo fa desistere dai suoi intenti: «Il pareggio non esiste: chi ha vinto alla Camera, vince anche a Palazzo Madama, non possono essere due o tre senatori in meno a pregiudicare la governabilità».

Repubblica 14.2.13
Il politologo D’Alimonte: soltanto il Veneto è sicuramente perso per la sinistra
“Il Pd può conquistare il Senato ma stia attento all’offensiva 5 Stelle”
Grillo anche al 20% non cambia il verdetto se pesca di qua e di là.
Se erode i democratici fa vincere Berlusconi
di Annalisa Cuzzocrea


ROMA — Una variabile importante, per il risultato delle elezioni, è data dal Movimento 5 stelle. Il tour di Beppe Grillo riempie le piazze. I suoi consensi erano già dati in crescita negli ultimi sondaggi, e potrebbero salire visti gli scandali Mps, Saipem, Finmeccanica, e i colpi mediatici che ha in mente l’ex comico, dallo sbarco in tv al Piacere Day di Piazza San Giovanni. Eppure, secondo Roberto D’Alimonte, professore di Sistema politico italiano alla Luiss di Roma, anche se Grillo arrivasse al 20, 22 o 23 per cento, non cambierebbe nulla. «A meno che — precisa — quei voti in più non arrivassero da un’erosione del Pd».
In quel caso, cosa succederebbe?
«Che il boom dei 5 stelle potrebbe far vincere Berlusconi. Il ragionamento è semplice: se l’incremento di voti di Grillo è di tipo “ecumenico”, se cioè pesca un po’ di qua e un po’ di là, non cambierà niente. Se invece dovessimo scoprire che i voti aggiuntivi sono sottratti più al Pd che al Pdl o a Monti, allora potremmo anche trovarci di fronte alla sorpresa di un Grillo che fa rivincere Berlusconi alla Camera».
Nel primo caso, è davvero certo che non cambierebbe nulla?
«Non sul piano dell’esito del voto, perché probabilmente Bersani otterrà la maggioranza assoluta alla Camera e almeno relativa al Senato».
Quindi la conquista del Senato è ancora alla portata del centrosinistra?
«Sì, credo che l’unica regione che il centrosinistra può ragionevolmente considerare già persa è il Veneto. Sicilia e Lombardia invece sono ancora in bilico».
In ogni caso arriveranno in Parlamento decine e decine di grillini. Quale sarà l’effetto su Camera e Senato?
«La presenza di una pattuglia così consistente di deputati e senatori grillini sarà un pungolo molto forte nei confronti di chiunque formerà il governo».
Secondo lei come andrà a finire?
«Credo che Bersani vincerà alla Camera, ed è ancora possibile che che possa ottenere la maggioranza assoluta dei seggi al Senato. Oppure, che al Senato abbia bisogno di Monti per fare un governo».
Un esecutivo che tenga insieme Bersani, Vendola e Monti?
«È l’esito più probabile».
Ma è ancora possibile, dopo le accuse reciproche che si sono scambiati il premier uscente e il leader di Sel?
«Sì, perché io credo che né Vendola né Monti si possano prendere la responsabilità di non fare un governo e creare le condizioni per un ritorno alle urne, come in Grecia».
E non sarebbe un governo fragile, pronto a cadere al primo colpo di vento?
«Non è detto. Esiste un possibile terreno di accordo che riguarda da una parte una nuova legge sulla cittadinanza e sulle unioni civili, cose che stanno molto a cuore alla sinistra, e dall’altra una serie di riforme economiche che invece premono a Monti».
Pensa davvero che la sinistra del Pd e Sel accettino le riforme che vuole Monti?
«Che alternativa hanno? Se il centrosinistra non ottiene la maggioranza assoluta dei seggi l’accordo è ineluttabile. Nel caso fallisse, si tornerebbe a votare, aprendo la strada al ritorno di Berlusconi. O alla vittoria definitiva di Grillo».

Corriere 14.2.13
Latitanti sono le Regole
di Sergio Rizzo


Dopo l'arresto di Giuseppe Orsi la sospensione dei pagamenti alla Finmeccanica da parte dell'India era scontata. Non finirà lì, temiamo. Si parla di un'azienda pubblica nel cui capitale sono presenti molti investitori privati, che opera in un settore strategico e ha una fortissima proiezione internazionale, con rapporti anche governativi. È impossibile prevedere quali ripercussioni avrà questa vicenda in quei contesti. Ma nell'opera di ricostruzione dell'immagine aziendale i nuovi vertici dovranno impegnarsi a fondo. La Finmeccanica ha 70 mila dipendenti, rappresenta il cuore tecnologico dell'industria italiana ed è espressione di quel poco che ancora ci resta della grande impresa manifatturiera.
Le implicazioni rischiano dunque di rivelarsi ben più pesanti di una giornata di passione in Borsa. Anche perché, in concomitanza di una campagna elettorale che getta un'ombra di incertezza sulla stabilità di qualunque futuro governo inquietando i mercati, quella della Finmeccanica non è l'unica ferita a grondare sangue. Paolo Scaroni, amministratore delegato dell'Eni, altra grande impresa pubblica il cui ruolo viene spesso paragonato a quello di un vero e proprio ministero degli Esteri «parallelo», è indagato per una faccenda di presunte tangenti algerine. Mentre l'ex presidente della terza banca italiana, il Monte dei Paschi di Siena, è sotto inchiesta per aver nascosto agli organi di vigilanza alcune operazioni che hanno causato gravi perdite: con l'aggravante, per Giuseppe Mussari, di essere stato per tre anni il capo dei banchieri italiani, incaricato di trattare in nome e per conto di tutti loro gli accordi di Basilea. Lo scandalo senese, poco ma sicuro, non migliorerà i rapporti internazionali delle nostre banche.
In questa tempesta perfetta non mancano pesanti responsabilità. Così premurosa quando si tratta di spartire poltrone nelle aziende pubbliche e in certe banche, la nostra politica non mostra mai identica reattività quando sarebbe necessario. Nel caso del Monte dei Paschi, ha tollerato il permanere di un rapporto perverso fra banca e partiti locali. Per non parlare della colpevole inerzia del governo di fronte al dilagare del tumore dei derivati. Nel caso della Finmeccanica, invece, ha chiaramente sottovalutato il rischio. Si poteva intervenire prima? Probabilmente si doveva. Difficilmente, in Paesi come la Germania o il Regno Unito, l'azionista pubblico sarebbe rimasto completamente indifferente davanti a un'accusa di corruzione internazionale formulata dalla magistratura già molti mesi fa. Non fosse altro, per tutelare entrambi: l'azienda e l'accusato. In Italia, invece, no.
Anziché intervenire per tempo, qui si preferisce fare esercizi di dietrologia. Sempre dopo. C'è chi si chiede se lo scandalo del Monte non sia scoppiato ad arte proprio ora per mettere in difficoltà il Pd, e chi sospetta che l'arresto di Orsi nasconda un siluro alla Lega Nord, partito certo non ostile a quel manager, il cui leader Roberto Maroni punta a governare la Lombardia. Altri non escludono che pure l'inchiesta sull'Eni faccia parte di un'offensiva dei magistrati in piena campagna elettorale…
L'unico fatto sicuro è che quando in certi casi la politica non agisce tempestivamente lo spazio vuoto viene occupato dalla magistratura. Lo sappiamo da almeno vent'anni. Peccato che la lezione non sia servita a niente.

l’Unità 14.2.13
Zingaretti: trasparenza e diritti patto per lo sviluppo del Lazio
«La polemica coi radicali ferisce, tutti sanno che sono dipendente del mio partito da 25 anni»
Videoforum a l’Unità con il candidato del centrosinistra: da questa crisi e dagli scandali si esce attraverso la politica
di Jolanda Bufalini


Videoforum in redazione con Nicola Zingaretti, candidato alla presidenza del Lazio. Alle 12 il via, inizia il direttore de L’Unità: «Fiorito nel Lazio, la clinica Maugeri in Lombardia sono l’epifenomeno di un fallimento». Il collasso del modello politico del centro destra dice Claudio Sardo fa di Zingaretti «un candidato nazionale del centro sinistra che si propone al governo del paese». Risponde Nicola Zingaretti: «Noi rispondiamo allo scandalo di Fiorito e Maruccio con un’altra idea di politica. I risvolti giudiziari hanno origine nella crisi del centrodestra affrontata attraverso una erogazione spropositata di fondi. È così che si allarga la distanza fra cittadini e istituzioni politiche». La prima «nostra battaglia continua Zingaretti è stata per il voto. È una patologia della democrazia senza precedenti in Europa che la Regione, seconda solo alla Lombardia per Pil, sia stata chiusa per sei mesi». «L’ambizione dice Zingaretti è uscire da questa melma attraverso la politica, ricostruendo la speranza. La risposta all’antipolitica non può essere tecnica».
Fra le domande dei lettori c’è la questione sollevata dai radicali: «Ferisce risponde Zingaretti che i radicali puntino su una cosa come questa in campagna elettorale ma, nel merito, sono dipendente del mio partito da 25 anni, ho già risposto a una interrogazione parlamentare del Pdl nel 2009: diventai segretario regionale attraverso le primarie, il comitato provvisorio del contratto si formò in attesa che il Pd approvasse lo statuto».
Le nomine della Polverini potranno essere riviste? Fiorito, il Pd poteva non sapere? I 700 in mobilità del Recup? «Sulle nomine – risponde il candidato presidente – Polverini sta abusando dei poteri di ordinaria amministrazione, per questo ricorreremo al Tar. C’è comunque un giudizio politico negativo su nomine fatte dieci giorni prima del voto». Quanto al Pd: «L’ex capogruppo Montino ha riconosciuto l’errore politico, questo ci ha portato alla scelta del voto e siamo stati di esempio anche per la Lombardia. Le liste del Pd sono di totale rinnovamento. Nelle liste avversarie, invece, hanno trovato posto con tracotanza i protagonisti del sistema di potere che ha generato i Fiorito e i Maruccio». «Graziani ha risposto Zingaretti alla domanda sul mausoleo di Affile è stato un carnefice».
La sanità ha occupato, come giusto, buona parte del videoforum: «Il sistema sanitario è pubblico anche con i privati ha detto Zingaretti e non vogliamo contrapposizione fra lavoratori. Da 7 anni si sta destrutturando il vecchio modello di sanità senza costruirne uno nuovo. Sarà dura ma dobbiamo e possiamo tirarcene fuori. Ci vuole un patto con il futuro premier Pier Luigi Bersani, il piano di rientro non può essere piegato alla sola contabilità». Zingaretti punta su tre priorità: «Riduzione dei costi per beni e servizi (attualmente a +17%) attraverso la centrale unica degli acquisti già avviata da Marrazzo», «qualità delle nomine attraverso un’autorità terza di valutazione». «Nel Lazio ci sono pronto soccorso affollati ma non c’è un sistema di prossimità, che costa meno ed è più umano». Quanto ai 700 lavoratori del Recup: «È un effetto perverso della Regione chiusa dalla Polverini, che non paga». Superare il commissariamento è «un obiettivo strategico ma ci sono ancora 780 milioni di disavanzo». Non funziona il blocco del turn over che produce precari, non funziona la riduzione delle prestazioni che spinge le persone verso altre regioni.
Costi della politica e sprecopoli: «Il Lazio ha 8 miliardi di debiti perché appalti, bandi e promesse sono stati fatti per creare consenso politico anziché per fare. Dovremo gestire con trasparenza, a cominciare dalla riduzione dei Cda, come nel caso dell’Ater. L’azienda delle case popolari era una sola, ora ci sono 7 Ater con altrettanti consigli di amministrazione e moltiplicazione di dirigenti».
Luca Landò introduce il tema della crisi economica. Fra i primi provvedimenti di Zingaretti ci saranno gli strumenti per favorire il credito, le start up e l’innovazione: «Nella regione della capitale spiega il candidato università e centri di ricerca creano un terreno molto fertile per internazionalizzare le imprese, per i venture capital» ma la «pigrizia delle classi dirigenti ha fatto sì che il Lazio sia fermo su un binario morto». Compito di chi governa è scoprire la vocazione del territorio. Il limite del governo tecnico di Monti è, secondo Zingaretti, la mancanza di «un’idea politica di sviluppo». La vocazione del Lazio è nell’economia del mare, nel patrimonio storico artistico e naturale che il piano casa della Polverini mortifica, mentre serve investire sui trasporti: «Non posso mandare i turisti in giro se non funzionano i treni per i pendolari». Anche la piaga del lavoro nero e del caporalato si combatte con lo sviluppo: «Sì a leggi severe risponde Zingaretti ma c’è fame di lavoro, le condizioni sociali drammatiche sono la prima cosa da combattere».
La domanda di Pietro Spataro è sui diritti. «Sì ai diritti degli omosessuali», dice Zingaretti. Ma, innanzi tutto, va declinato l’articolo 32 della Costituzione, il «diritto alla salute». Negli ultimi 20 anni i diritti delle persone si sono andati restringendo, «non è stato sempre così nella nostra storia, non era così quando si approvava lo statuto dei lavoratori, si costruivano case popolari, si dava la terra ai piccoli agricoltori. Bisogna tornare ad ampliare i diritti di cittadinanza».

Corriere 14.2.13
Contributi a Zingaretti, la Procura apre un fascicolo
di Paolo Foschi


ROMA — La procura di Roma ha aperto un fascicolo sull'esposto presentato da Marco Pannella sul caso dei contributi versati dalla Provincia di Roma al presidente Nicola Zingaretti. Non ci sono né indagati, né ipotesi di reato e — trapela da Piazzale Clodio — si tratta di «un atto dovuto». Il caso ruota intorno all'assunzione di Zingaretti con un contratto da 8 mila euro lordi al mese nel febbraio del 2008 da parte del Comitato promotore regionale del Pd, esattamente il giorno prima dell'annuncio della candidatura per la Provincia. E intanto il Secolo d'Italia ha annunciato per oggi la pubblicazione di un dossier sulla vicenda che inchioderebbe l'esponente del centrosinistra.
Zingaretti, che adesso corre per la Regione Lazio, secondo i Radicali potrebbe aver fatto ricorso a questa manovra per garantirsi un'elevata contribuzione previdenziale a carico della Provincia. Secondo la normativa vigente, infatti, per i consiglieri eletti che abbiano un rapporto di lavoro dipendente l'ente pubblico è tenuto a rimborsare il mancato guadagno e i contributi previdenziali. I Radicali sospettano che Zingaretti si sia fatto assumere con uno stipendio molto alto dal partito sapendo che il partito stesso non si sarebbe fatto carico degli oneri, ma contando di maturare una posizione previdenziale sostanziosa a spese della Provincia.
«Zingaretti è assunto dal partito fin dal 1991, nel 2008 ha avuto un aumento da 5.000 a 8.000 euro al mese perché a ottobre era stato eletto segretario regionale del Pd ma ancora non era stata costituita la federazione laziale» dicono dal suo staff. «Perché però non ha lasciato l'incarico quando è stato eletto presidente della Provincia ed è stato sostituito da Morassut alla guida del Pd laziale?» si chiedono dal centrodestra. «Mantenendo il contratto da segretario regionale pur senza avere più la carica, ha ottenuto il versamento dei contributi da parte della Provincia» osservano i Radicali.
La questione crea un certo imbarazzo anche nel Pd: non esiste un contratto nazionale per inquadrare i segretari regionali, ma quegli 8.000 euro al mese sembrano tanti all'interno del partito, anche se — osservano da Largo del Nazareno — le unioni regionali hanno «piena autonomia decisionale e patrimoniale» ma a quanto pare gli stipendi medi dei segretari regionali — se corrisposti — sono «decisamente più bassi». L'attuale responsabile del Lazio, Enrico Gasbarra, comunque, non percepisce compenso dal partito, essendo parlamentare.
La vicenda, fascicolo della procura a parte, avrà in ogni caso strascichi legali: lo staff di Zingaretti ieri ha confermato la querela per diffamazione contro i Radicali, che a loro volta hanno annunciato azioni legali contro l'esponente del Pd.

Repubblica 14.2.13
Contributi a Zingaretti, i pm indagano “Sono sereno, querelo chi mi infanga”


ROMA — La Procura di Roma ha aperto un fascicolo, senza ipotesi di reato e senza indagati, dopo l'esposto dei Radicali nel quale si accusa Nicola Zingaretti di «aver fatto pesare i suoi contributi previdenziali sulla Provincia di Roma». Il caso è stato affidato al sostituto Corrado Fasanelli. Gli accertamenti saranno fatti dalla Guardia di Finanza. Nell'esposto presentato da Marco Pannella si punta l'indice su «un'assunzione sospetta di Zingaretti, da parte del Comitato Provvisorio Pd Lazio, avvenuta il giorno prima della sua candidatura a presidente della Provincia di Roma». Il sospetto paventato dai Radicali è quello di un meccanismo truffaldino messo in atto per ottenere dalla Provincia il rimborso dei contributi previdenziali e di quelli connessi al Tfr per uno stipendio di 8 mila euro lordi. Una ricostruzione respinta da Zingaretti, candidato del centrosinistra a governatore del Lazio, che annuncia una querela per calunnia. «Non c'è nulla di anormale né di illegale» afferma «sono una persona perbene e nella mia vita non ci sono segreti. Quella dei Radicali è soltanto una vergognosa macchina del fango».

il Fatto 14.2.13
La fuga dei capitali vaticani: 230 milioni dall’Apsa a Londra
L’emorragia degli ultimi tre anni scoperta dai Pm che indagano anche sullo Ior
di Marco Lillo


L’ENTE DICHIARA REDDITI PER 22 MILIONI ALL’ANNO E PAGA SOLO 3 MILIONI DI TASSE

Un flusso inarrestabile di soldi che hanno preso il volo da Roma a Londra. L'Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica, l'Apsa, cioè l'ente economico più importante dello Stato Vaticano assieme allo Ior, ha effettuato bonifici per ben 229 milioni di euro da Roma a Londra negli ultimi tre anni. La Procura di Roma ha scoperto l'emorragia di capitali in uscita dall’Italia quasi per caso. I pubblici ministeri che indagano sullo Ior, Nello Rossi e Stefano Fava, stavano monitorando i conti dello Ior accesi presso le filiali della ex Banca di Roma, ora Unicredit, nelle zone di Roma limitrofe alla Città del Vaticano. E invece hanno scoperto i flussi in uscita dell’Apsa. I pm hanno chiesto alla Guardia di Finanza di approfondire la posizione fiscale dell’ente vaticano e hanno scoperto che l’Amministrazione del Patrimonio della Santa Sede dichiara 22 milioni di reddito ai fini Ires e paga solo 3 milioni di euro di imposte.
   DAL 2009 infatti la Procura indaga per violazione della normativa antiriciclaggio il direttore generale dell’Istituto Opere Religiose, Paolo Cipriani, e l’ex presidente Ettore Gotti Tedeschi. Anche se presto Gotti potrebbe essere archiviato e non si esclude possa diventare un testimone a carico. Intanto il nuovo presidente, dopo la cacciata di Gotti a maggio, sarà nominato nelle prossime ore e dovrebbe essere un banchiere straniero, forse belga.
   Nell’ambito di quel procedimento i magistrati sequestrarono 23 milioni di euro su un conto del Credito Artigiano perché ritenevano che lo Ior schermasse i reali proprietari dei fondi. Con la complicità di qualche prelato, i soldi neri di criminali, di truffatori o dei politici in cerca di anonimato per le loro tangenti, erano irriconoscibili per gli investigatori da quelli provenienti dal fondo alimentato dai contribuenti italiani con l’otto per mille.
   Dopo quel sequestro la Santa Sede nel dicembre del 2010 con un motu proprio di Benedetto XVI introdusse una legislazione antiriciclaggio e creò anche l’Aif, l’autorità antiriciclaggio vaticana, preposta a fornire informazioni alle autorità italiane. Una svolta storica: l’Aif presieduta dal cardinale Attilio Nicora a partire dall’aprile 2011 collaborò con l’Uif, omologo ufficio anti-riciclaggio italiano, e fornì alcune risposte alle richieste inoltrate - tramite l’Uif - da parte della Procura. Il direttore generale dell’Aif, un ex funzionario Uif, l’avvocato Francesco De Pasquale, era persino dotato di poteri autonomi di ispezione sui conti dello Ior.
   La rivoluzione avviata da Benedetto XVI convinse a tal punto la Procura che i pm Rossi e Fava autorizzarono il dissequestro dei 23 milioni di euro. Se il Vaticano li avesse voluti muovere dal conto del Credito Artigiano ovviamente avrebbe dovuto comunicare con chiarezza di chi erano e a chi andavano ma intanto i milioni del Vaticano tornavano liberi dal vincolo legale.
   Dopo quel bel gesto da parte italiana però il Vaticano ha cambiato completamente linea. Il Segretario di Stato Tarcisio Bertone e i suoi consulenti, a partire dall’avvocato Michele Briamonte dello Studio legale Grande Stevens hanno cominciato a sollevare il tema della irretroattività: il Vaticano non poteva tradire la fiducia dei suoi correntisti. Nessuna informazione sarebbe stata data sui movimenti avvenuti sui conti Ior prima dell’aprile del 2011, data di entrata in vigore della legge voluta dal Papa. Era solo il primo passo. A gennaio del 2012 con un apposito provvedimento la Segreteria di Stato ha cancellato le norme più avanzate della legge voluta dal Papa. E soprattutto ha eliminato il potere di ispezione autonomo da parte dell’Aif sullo Ior. Le ispezioni dovevano essere autorizzate dalla Segreteria di Stato guidata da Tarcisio Bertone. A dicembre del 2012 Il direttore generale italiano, Francesco De Pasquale, viene sostituito con lo svizzero René Brulhart, già capo dell’antiriciclaggio del Liechtenstein.
   Nel frattempo il Vaticano lentamente svuota i suoi conti italiani. Per fare un esempio, il conto del Credito Artigiano presso il quale restano fermi tuttora i 23 milioni sbloccati, nel biennio 2008-2009 aveva movimentato 116 milioni di euro in entrata e 117 milioni di euro in uscita. Oggi quel conto dello Ior, e gli altri che esistono ancora nelle altre banche italiane, a partire da Unicredit e Banca del Fucino, sono stati svuotati per portare i soldi a Londra presso la Jp Morgan o a Francoforte alla Deutsche Bank. Il Vaticano pur di non sottostare ai controlli della Banca d’Italia e della magistratura preferisce bypassare il sistema bancario italiano. Anche i bancomat, dopo lo stop di Bankitalia del gennaio scorso sono stati riattivati da due giorni a questa parte grazie a una società finanziaria svizzera, la Aduno SA, preferita alla filiale italiana della Deutsche Bank perché può continuare a schermare i flussi mediante lo Ior, e non è soggetta al controllo della Banca d’Italia.
   Il Vaticano continua a comportarsi come uno Stato canaglia all'interno dell’Italia. Il nostro paese bonifica un miliardo di euro all’anno per il sostentamento della Chiesa dell’otto per mille e il Vaticano lo ripaga portando tutti i suoi soldi in Svizzera o a Londra. Questa è la questione più delicata che il prossimo Governo dovrebbe affrontare con il prossimo Papa.

Corriere 14.2.13
Alemanno scrive a Monti: evento straordinario, servono 5 milioni di euro
di Alessandro Capponi


ROMA — Il prezzo per una delle terrazze con vista sulla cupola di San Pietro? Per il tecnico della tv canadese, appollaiato lassù e già al lavoro, è «very expensive»: mille euro al giorno, del resto, è una cifra «molto cara» mica solo per lui. E però in questa piccola parte della città intorno al Vaticano — il rione Borgo Pio, via della Conciliazione, via delle Mura Aurelie — le dimissioni di Joseph Ratzinger e ancor di più il conclave che verrà, rappresentano un'occasione di guadagno: così chi possiede una terrazza con affaccio sulla basilica punta ad affittarla ai network televisivi arrivati da tutto il mondo. Per avere l'inquadratura giusta, durante i funerali di Giovanni Paolo II, una tv americana sborsò centomila euro. Con la crisi che c'è, oggi, in molti dicono che i prezzi siano scesi, ma evidentemente non molto. Anche perché l'afflusso di troupe di tutto il pianeta è costante, ininterrotto: le richieste d'accredito pervenute in ventiquattr'ore per il prossimo conclave sono seicento. Per domenica, sulla piazza per l'Angelus di Benedetto XVI, sono attesi centocinquantamila fedeli.
Anche il sindaco Gianni Alemanno, in una lettera al presidente del Consiglio Mario Monti, descrive l'eccezionalità del momento: «Signor Presidente — scrive Alemanno — le dimissioni dal Soglio di Pietro, annunciate dal Santo Padre Benedetto XVI, hanno avuto un rilievo mediatico planetario e generato una partecipazione e una vicinanza affettiva nei confronti del Pontefice di portata straordinaria. Tale attenzione e partecipazione si sono manifestate con la richiesta di posizionamento dei mezzi radio-televisivi da ogni parte del mondo e con l'afflusso di centinaia di migliaia di persone». Motivo, secondo Alemanno, per domandare aiuto al governo nazionale: «Non sfugge a nessuno che il carattere della straordinarietà dell'evento determina la necessità di dotare Roma di risorse e mezzi anch'essi straordinari. Per questo richiedo un suo autorevole intervento per l'emanazione di un apposito provvedimento che disponga la messa a disposizione di Roma Capitale dei mezzi e delle risorse necessarie a garantire il massimo dell'assistenza a tutti i pellegrini». Il fine, sostiene il sindaco, è «tutelare, nel miglior modo possibile, l'immagine dell'Italia nel mondo». La cifra stimata, per accogliere i pellegrini dal 28 febbraio fino alla proclamazione del nuovo Pontefice, è di 4,5 milioni.

l’Unità 14.2.13
Hamma Hammami
Portavoce ufficiale del Fronte popolare tunisino, amico del leader dell’opposizione assassinato il 6 febbraio a Tunisi
«In nome di Chokri, la Tunisia difende la rivoluzione»
di Umberto De Giovannangeli


«La verità non è materia di scambio. Non è barattabile con qualche poltrona. A esigere verità e giustizia sono il milione e mezzo di tunisini che hanno trasformato il funerale di Chokri Benaid in una imponente manifestazione a sostegno dei principi della rivoluzione jasmine. Chiediamo la costituzione di una commissione d’inchiesta indipendente sull’assassinio di Chokri e le aggressioni contro sindacalisti, intellettuali, giornalisti, artisti. Nel solo mese di gennaio 50 reporter hanno subito aggressioni di vario tipo. E quasi sempre la polizia è rimasta a guardare». Ad affermarlo è Hamma Hammami, portavoce ufficiale del Fronte popolare il blocco laico, riformista e di sinistra che ha subito messo alle corde la maggioranza ed Ennahda in particolare l’uomo che ha preso il posto del leader assassinato lo scorso 6 febbraio. Di Chokri Benaid, Hammami non era solo un compagno di partito, era soprattutto un amico suo e della famiglia. Condannato nel 1972 e 1995 per reati d’opinione considerati attentati alla sicurezza dello Stato, Hammami entrò in clandestinità nel 1998. L’anno seguente fu condannato a nove anni di reclusione per ribellione alle leggi repressive di Ben Alì. Nel 2002, opponendosi alle accuse, tornò in patria e venne arrestato. Quanto all’attuale governo, Hammami è perentorio: «Sono politicamente responsabili di questo odioso crimine». Nel giorno dello sciopero generale organizzato dall’Ugtt, il maggiore sindacato tunisino, un milione e mezzo di tunisini hanno partecipato ai funerali di Chokri Benaid. Partiamo da quel giorno. Cosa ha rappresentato?
«Ha rappresentato molte cose. Anzitutto, il tributo ad un uomo coraggioso, ad un leader che nonostante le minacce ricevute ha continuato a denunciare pubblicamente il tradimento della rivoluzione perpetrato da chi vuole trasformare la Tunisia in uno Stato teocratico, oscurantista. Per questo è stato assassinato. Lei è italiano, e nella storia del suo Paese vi sono stati politici assassinati dai fascisti perché avevano denunciato pubblicamente i crimini del regime...».
C’è chi, per questo, ha definito Benaid il «Matteotti tunisino».
«Un riferimento appropriato, che rende onore a Chokri e che, al tempo stesso, dà conto della situazione in cui versa il mio Paese. Quello di Benaid è un omicidio pianificato, eseguito da professionisti, che hanno goduto di coperture ai massimi livelli».
Torniamo a quella grande manifestazione. Del tributo ad una «martire per la libertà» si è detto. Ma cos’altro ha rappresentato?
«Quella manifestazione testimonia anche che il popolo vuole una “seconda rivoluzione”. La protesta coinvolge tutti gli strati sociali: la gente chiede pane e lavoro, libertà e giustizia sociale, uguaglianza e dignità. E non saranno le squadracce paramilitari degli islamisti a frenare la protesta».
Squadracce paramilitari. A chi si riferisce?
«Agli squadristi della Lega per la protezione della rivoluzione, di cui chiediamo lo scioglimento. Ma questo chiama in causa Ennahda (il partito islamista al potere, ndr). Tutti sanno che questi squadristi sono protetti da Ennahda. “Chiunque critica Ennahda può essere vittima di violenza”, aveva denunciato Benaid, il giorno prima di essere assassinato».
Il primo ministro Hamadi Jebali ha ribadito che «non vi è altra scelta che quella di formare un governo di transizione, indipendente dai partiti».
«Una proposta che si è subito scontrata con la volontà del partito di cui Jebali fa parte: Ennahda. Le minacce contro Belaid ed altri esponenti dell’opposizione sono ormai da tempo quotidiane, ma nessuno di quelli che doveva fare qualche cosa s’è mosso. Non è più il tempo di assistere in silenzio. Perché ieri c’è stato Lotfi Naguedh, oggi Chokri Belaid, e domani... già domani chis-
sà a chi toccherà (Lotfi Naguedh era un esponente di Nidaa Tounes ed è stato massacrato a bastonate, calci e pugni, a Tataouine, nell’assalto ad una sede sindacale da parte delle squadracce della Lega per la protezione della Rivoluzione, ndr)».
Da compagno di lotta e amico di lunga data, è stato lei ha dare l’ultimo saluto a Chokri Benaid, parlando alla immensa folla che si era riunita a Tunisi. «Non faremo marcia indietro, ma la Tunisia dovrà rimanere unita come tu volevi! Chokri, continueremo la lotta nel tuo nome». «È così. L’unità è fondamentale per difendere i principi della rivoluzione. Così come la determinazione a non arretrare di un passo di fronte alla violenza di un potere che usa tutti i mezzi, dall’intimidazione fino all’omicidio politico, pur di perpetuarsi. Non abbiamo lottato contro il regime corrotto e dispotico di Ben Ali per vedere instaurata una dittatura islamista».
Lei sottolinea la ricerca dell’unità...
«Quella che si è realizzata con lo sciopero generale il giorno del funerale di Chokri...».
Ma sul piano politica questa unità quale obiettivo prioritario dovrebbe porsi? «Quello di riscrivere una Costituzione fondata sui principi che sono stati alla base della rivoluzione del 14 gennaio. E su questa base andare a nuove elezioni per l’Assemblea costituente».

il Fatto 14.2.13
La Primavera velata è divenuta apartheid
Dai treni separati agli stupri durante le manifestazioni
Tante donne arabe ormai si pentono di aver partecipato alle rivoluzioni
“Si stava meglio sotto i vecchi regimi”
di Roberta Zunini


Da una settimana sui treni egiziani ci sono scompartimenti riservati alle donne. La motivazione non è chiara. C'è chi sostiene si tratti di una protezione contro le violenze sessuali, altri ritengono sia, almeno per ora, uno dei pochi risultati incontrovertibili della cosiddetta primavera araba: l'apartheid sessuale. Del mondo femminile. Siccome nella maggior parte dei paesi arabi teatri delle rivoluzioni di due anni fa, Tunisia ed Egitto in testa, le donne godevano degli stessi diritti degli uomini, ciò che sta accadendo sembra paradossale. E le donne arabe emancipate e di formazione laica sono sempre più preoccupate. Due giorni fa, sempre per rimanere in Egitto, è stata indetta una giornata contro le violenze sessuali che sono aumentate sensibilmente. Ci sono stati numerosi stupri intorno a piazza Tahrir ogni volta che la gente è scesa in piazza. Uno stratagemma per impedire alle donne di unirsi alle proteste e una conseguenza del clima di impunità che ruota attorno a qualsiasi tipo di violazione nei confronti delle donne.
MA LA SITUAZIONE È REGREDITA anche dal punto di vista legislativo e la Costituzione approvata lo scorso dicembre impoverisce addirittura i diritti delle bambine: si va dall'abolizione del minimo di 18 anni per il matrimonio delle ragazze, un fatto gravissimo che potrebbe riportare a galla l'incubo delle spose bambine, alla depenalizzazione delle mutilazioni genitali femminili. “Mi pento di aver partecipato a questa rivoluzione - dice una giovane artista egiziana che vuole rimanere anonima - ciò che abbiamo ottenuto è peggio di ciò che avevamo. Per noi donne c'erano molte più possibilità durante l'era Mubarak. È una delusione terribile e bisogna che ne prendiamo atto il più velocemente possibile”. Il problema è che il mondo femminile egiziano non è rappresentato politicamente. Le candidate elette per il parlamento sono state il 2% e nella Commissione di revisione della Costituzione solo il 6%. La condizione della donna è ancora tollerabile in Tunisia, “ma sentiamo la nostra libertà sotto minaccia perché i diritti di parità acquisiti fin dagli anni '60 non sono condivisi dalla nuova dirigenza. Pensi che un imam del Qatar che è venuto qui in Tunisia a predicare il Corano, ha cercato di convincere i fedeli che anche le bambine dovrebbero portare il velo ” dice la professoressa Soumaya Gharsallah, direttrice del museo nazionale, che ha studiato e insegnato presso le più importanti facoltà d'arte internazionali.
In Tunisia l'anno scorso i partiti islamici avevano cercato di inserire nella Costituzione una legge che riduceva le donne a soggetti “complementari” dell'uomo. Le proteste di piazza, che hanno visto la partecipazione anche di molti uomini, hanno però sventato questo triplo salto all'indietro. La Libia è ancora in una fase di grande instabilità per giudicare se le donne, che sono tornate nel paese per partecipare alla rivoluzione, vedranno riconosciuti i loro diritti e la piena libertà. Perché questa spesso non è garantita, prima che dal potere in carica, dalla famiglia e dall'entourage. Come avviene in Somalia, dove né gli shabaab (sorta di talebani in versione africana) né dittatori o signori della guerra sono in carica. Eppure qualche giorno fa, una donna è stata portata davanti al giudice perché aveva osato denunciare il suo stupratore.
Il timore è che i soldi delle potenze del Golfo, dove le donne non hanno alcun diritto, riescano a comprare la libertà delle nordafricane, delle egiziane, delle yemenite e maliane in cambio di aiuti economici al potere, come sempre gestito da uomini.

La Stampa 14.2.13
Israele, il prigioniero X un australiano del Mossad
Netanyahu ha provato a nascondere l’identità dell’uomo suicida nel 2010
Ben Zygler, suicida a 34 anni. Era sposato e aveva due figli
di Claudio Gallo


Dopo dieci mesi di ricerche, una trasmissione televisiva australiana ha gettato un esile fascio di luce su uno dei misteri più fitti e inquietanti di questi anni: il Prigioniero X, la maschera di ferro israeliana. Era un ebreo australiano di 34 anni l’uomo che neppure i suoi carcerieri conoscevano, tenuto in regime di totale isolamento, senza avvocati, senza visite, in spregio a tutte le leggi internazionali.
Nonostante ancora oggi la censura ufficiale proibisca ai media nazionali di parlare di lui, era trapelato che nel 2010 si era tolto la vita impiccandosi, nonostante fosse tenuto sotto sorveglianza 24 ore su 24. Poco tempo prima del suicidio, il parlamentare del partito di sinistra Meretz scrisse una lettera al procuratore generale Yehuda Weinstein chiedendo notizie del recluso: «Imprigionare in completo isolamento e totale anonimità è una cosa molto grave». Un alto funzionario assicurò il deputato che tutto era «sotto il controllo giudiziario».
Tre anni dopo la scoperta della prigione segreta nota come «Camp 1391», nel 2003, Israele aveva assicurato che non esistevano più detenzioni al di fuori degli standard giudiziari internazionali. Il Prigioniero X era rinchiuso nel penitenziario di Ayalon, che in un primo tempo ospitò anche Ygal Amir, l’assassino di Peres. Una prigione notoria per il detenuto che non c’era.
Il programma «Foreign Correspondent» dell’«Abc News» australiana ha rivelato l’altra sera che si chiamava Ben Zygler, aveva 34 anni e la doppia cittadinanza australiana e dello Stato ebraico. Aveva una moglie israeliana, due figli e lavorava per il Mossad, talvolta con i nomi di Ben Alon e Ben Allen. Quest’ultima identità è quella con cui sarebbe stato spedito il cadavere in Australia.
Sul motivo per cui l’hanno imprigionato con tanta crudeltà e segretezza non ci sono ipotesi se non l’ovvia osservazione che si tratterebbe di qualcosa legato alla sicurezza nazionale. La sua memoria è ancora oggi maledetta. Racconta «Haaretz» che martedì scorso il premier Netanyahu aveva convocato un incontro semi-segreto con i vertici dei media, giornalisti e proprietari. Voleva essere sicuro che sulla vicenda non uscisse una riga.
Richard Silverstein, un blogger americano, rivelò che il Prigioniero X era Ali Reza Asgari, ex generale dei Pasdaran iraniani, sparito a Istanbul, rapito o forse fuggito per vendersi ai servizi segreti occidentali. Ma Silverstein si era ricreduto: «Le mie fonti mi hanno ingannato, vogliono distogliere l’attenzione dalla vera identità del carcerato».
Nel 1983 era sparito allo stesso modo il chimico israeliano Marcus Kingberg, spia dei sovietici. A lui è andata meglio: dopo lunghi anni in galera sotto falso nome, oggi vive in Francia.

Repubblica 14.2.13
Il prigioniero che imbarazza Netanyahu
Australiano arruolato nel Mossad, si impicca in carcere
E il governo censura la notizia
di Fabio Scuto


GERUSALEMME — Il “prigioniero X” scuote a fondo lo Stato d’Israele, scatena una bufera di sospetti e accuse sul governo Netanyahu ed entra con passo pesante anche nell’area grigia dell’intelligence, dei servizi segreti, del Mossad, squarciando almeno in parte il segreto di Stato che fino a ieri sera aveva coperto il caso. Con il governo affannato a soffocare la notizia, confermata solo ieri, e la stampa in Israele, imbavagliata dalla censura, ma decisa a combattere la sua battaglia per libertà d’informazione. Il caso è acceso dalla tv australiana Abc che martedì ha rivelato che il “prigioniero senza nome” in un carcere israeliano di massima sicurezza, trovato impiccato nella sua cella nel 2010, era in realtà un ebreo australiano arruolato dal Mossad, uno 007 che aveva compito audaci missioni in Iran, Libano e Siria. Il premier israeliano ha cercato di impedire la diffusione della notizia convocando i proprietari e i direttori di giornali e tv per chiedere di non pubblicare informazioni «relative a un incidente molto imbarazzante per una certa agenzia del governo». Ma il caso del “prigioniero X” è arrivato ieri pomeriggio alla Knesset con le interrogazioni parlamentari dell’opposizione che — approfittando della loro immunità parlamentare — hanno aggirato la censura e chiesto spiegazioni al ministro della Giustizia presente in aula. Un minuto più tardi stampa, tv, blog, twitter e social network israeliani, “liberati dalla censura”, hanno finalmente potuto iniziare a raccontare la storia di Ben Zygier. Il prigioniero del carcere di massima sicurezza di Ayalon, detenuto per reati ignoti e confinato in isolamento totale, era tenuto d’occhio costantemente da telecamere di sicurezza. Nemmeno i secondini sapevano chi fosse o cosa avesse fatto, tranne che quella cella speciale era stata costruita per un precedente inquilino, l’assassino dell’ex premier Rabin. Un livello di sicurezza che fa pensare a reati gravissimi, al tradimento, forse un doppio-triplo gioco nello spionaggio con qualche Paese nemico. Fu ritrovato impiccato, un apparente caso di suicidio, nel dicembre 2010; la salma fu poi trasferita in segreto a Melbourne e sepolta in un cimitero ebraico.
Zygier, che in Israele si faceva chiamare Ben Alon, era arrivato da Melbourne nel Duemila a 24 anni, aveva sposato una donna israeliana e i due avevano due figli piccoli. Dopo il servizio militare, venne arruolato dal Mossad e grazie al suo passaporto australiano — ne userà diversi con diversi nomi — ha viaggiato in Iran, Libano e Siria, entrando “nel cuore del nemico” di Israele.
La “spy story” è ancora tutta da rivelare. Troppe nebbie e troppi misteri per Aluf Benn, direttore del quotidiano Haaretz.
«Il caso», scrive nel suo infuocato editoriale, «riflette la mentalità retrograda dei capi dello spionaggio israeliano, che pensano di vivere ancora nel secolo scorso con i segreti chiusi nelle casseforti del regime». Non è meno tenero il giornalista e scrittore Yossi Melman, specialista del mondo dello spionaggio: «Il governo, l’esercito, la censura devono rendersi conto che viviamo nel 21esimo secolo e non è più possibile proteggere certi segreti».

La Stampa 14.2.13
I sonnambuli asiatici
di Yoon Young-Kwan


Piaccia o meno ai politici e agli esperti dell’Est asiatico, le attuali relazioni internazionali della regione sono più simili alle politiche europee ottocentesche dell’equilibrio dei poteri che all’Europa stabile di oggi. Lo testimoniano il crescente nazionalismo in Asia Orientale, le dispute territoriali e la mancanza di efficaci meccanismi istituzionali per la cooperazione e per la sicurezza. Mentre l’interdipendenza economica tra Cina, Giappone, Corea del Sud e i membri dell’Associazione delle Nazioni del Sudest asiatico continua ad aumentare, le loro relazioni diplomatiche sono gravate da rivalità e diffidenza come quelle tra i Paesi europei nei decenni precedenti alla Prima Guerra Mondiale.
Caratteristica comune, allora come oggi, è lo spostamento del potere. Allora, il relativo potere della Gran Bretagna era in declino mentre quello tedesco era in crescita dopo l’unificazione tedesca nel 1871.
Allo stesso modo, almeno in termini di sviluppo economico, se non militare, gli Stati Uniti e il Giappone sembrano aver avviato un processo di declino rispetto alla Cina. Naturalmente, questo processo non è irreversibile: un’efficace leadership politica e riforme interne riuscite negli Stati Uniti e in Giappone, insieme con il fallimento della Cina nel gestire le pressioni politiche dal basso, possono ancora fermare questo spostamento di potere apparentemente inesorabile.
Grandi spostamenti di potere contraddistinguono le epoche in cui i principali leader politici potrebbero fare gravi errori di politica estera. Infatti, la cattiva gestione delle relazioni internazionali in tali momenti critici ha spesso portato a grandi guerre. Le potenze emergenti tendono a chiedere un ruolo più importante nella politica internazionale, quelle in declino tendono ad essere riluttanti ad adeguarsi e i politici nei ruoli chiave sono suscettibili di fraintendere le intenzioni dei leader di altri Paesi e di reagire in modo eccessivo alle loro azioni.
Storicamente, le potenze emergenti tendono ad sviluppare troppo presto un eccessiva fiducia in se stesse e questo le porta a comportarsi in modo imprudente, cosa che spaventa i loro vicini. Ad esempio, il Kaiser Guglielmo II congedò Otto von Bismarck dal Cancellierato nel 1890, meno di 20 anni dopo la formazione del Secondo Reich, e cominciò a distruggere la rete di alleanze che Bismarck aveva abilmente intessuto. La sua rozza diplomazia spaventò la Francia, la Gran Bretagna e la Russia, rendendo più facile per loro unirsi contro la Germania.
La nuova assertività diplomatica della Cina nel 2010 – nata a ridosso della peggiore crisi finanziaria dal 1930 – ricorda quella della Germania guglielmina. In entrambi i casi, l’insicurezza non è il risultato di una minaccia esterna, ma delle stesse azioni dei capi politici.
Alla fine del 2010, mi sono sentito in un certo senso sollevato quando un leader cinese di rilievo, il consigliere di Stato Dai Bingguo, ha annunciato che la Cina avrebbe aderito al percorso di uno sviluppo pacifico. Ma la retorica di alcuni cinesi, soprattutto in campo militare, per quanto riguarda il Mar Cinese Meridionale e altre rivendicazioni della sovranità cinese suggerisce che non tutti nella leadership del Paese sono impegnati con tutto il cuore in tale percorso. La misura in cui le politiche dal nuovo leader del Paese, Xi Jinping, terranno conto dell’insicurezza dei vicini della Cina – e abbandoneranno una ricerca di assoluta sicurezza per la Cina – sarà una delle variabili chiave che influenzeranno la sicurezza dell’Est asiatico negli anni a venire.
La politica estera americana sarà un altro fattore strategico. Se gli Stati Uniti perseguiranno un approccio prevalentemente conflittuale, la politica dell’Asia orientale inevitabilmente si polarizzerà proprio come nell’Europa multipolare del XIX secolo si formò un ordine sempre più bipolare di pari passo con le crescenti tensioni tra la Germania e la Gran Bretagna. Il cosiddetto «pivot verso l’Asia» dell’America potrebbe essere necessario dal suo punto di vista, date le preoccupazioni dei suoi alleati asiatici sulla Cina. Ma, se gli Stati Uniti non vogliono in Asia un confronto stile Guerra Fredda, devono fare di più per cercare di coinvolgere la Cina nella formazione di una struttura praticabile per la sicurezza regionale.
Un approccio di confronto degli Stati Uniti nei confronti della Cina, del resto, comporterebbe un ulteriore fattore destabilizzante: il Giappone potrebbe diventare molto più audace del necessario nella sua politica estera. Dopo che Guglielmo II non rinnovò l’accordo con la Russia nel 1890, le relazioni bilaterali peggiorarono e questo fornì al suo alleato, l’Austria, il via libera diplomatico per trattare con la Serbia – e, cosa più importante, con i patroni russi della Serbia. Così, Wilhelm contribuì involontariamente allo scoppio della guerra nel 1914.
Ci sono già alcuni segnali preoccupanti di un errore di calcolo giapponese. Il nuovo primo ministro giapponese, Shinzo Abe, ha detto, così è stato riferito, che sta pensando di rinunciare alla dichiarazione di Kono del 1993, che ammetteva che i militari giapponesi avevano violentato e ridotto in schiavitù donne asiatiche ed europee durante la Seconda guerra mondiale. Se Abe lo farà, le relazioni giapponesi con la Corea del Sud e la Cina subiranno un grave danno.
Non è nell’interesse di nessuno, Giappone incluso, dato che i giapponesi condividono molti problemi di sicurezza con il Sud Corea. Così la diplomazia degli Stati Uniti dovrà essere abile. Deve alleviare il senso d’insicurezza del Giappone per la crescita della Cina e persuadere i nuovi leader giapponesi a comportarsi con prudenza astenendosi da comportamenti eccessivamente nazionalisti. Francamente, con due decenni di stagnazione economica già alle spalle, il Giappone ha cose più importanti a cui pensare.
In contrasto con i loro sforzi multilaterali in Europa, dopo la Seconda guerra mondiale gli Stati Uniti hanno creato in Asia una rete di sicurezza a raggiera, formata da alleanze bilaterali USA-centriche. Un risultato è che non è mai stato stabilito nessun canale diretto per la cooperazione per la sicurezza tra i Paesi asiatici e ciò ha contribuito al basso livello di fiducia in Asia orientale, anche tra gli stretti alleati degli Stati Uniti come il Giappone e la Corea del Sud. Ed è proprio qui che la Corea del Sud, un alleato di medie dimensioni degli Stati Uniti, sarà in una posizione migliore rispetto alle maggiori potenze del Nordest asiatico a fungere da facilitatore.
C’è molto da imparare dai fallimenti diplomatici che hanno portato alla Prima guerra mondiale. Una nuova storia di Christopher Clark, che parla del preludio diplomatico a quella guerra s’intitola, molto opportunamente, I sonnambuli. Il problema oggi per gli Stati Uniti e i leader dell’Asia orientale è se si sveglieranno e svilupperanno efficaci meccanismi multilaterali di cooperazione alla sicurezza prima di infliggere a se stessi un grave danno.

Ministro degli Esteri della Corea del Sud dal 2003 al 2004, è attualmente professore di Relazioni internazionali alla Seoul National University e visiting professor alla Libera Università di Berlino.
Copyright: Project Syndicate, 2013. www.project-syndicate.org Traduzione di Carla Reschia

Repubblica 14.2.13
La città della bomba
Viaggio a Natanz, dove in un bunker sotterraneo l’Iran starebbe fabbricando l’ordigno nucleare che allarma il mondo
di Vanna Vannuccini


NATANZ (IRAN) Un rombo sordo arriva dalla strada. Convogli militari attraversano la periferia est della città, invisibili nella sera senza luna. I raggi intermittenti dei fari delle torri di controllo entrano dalla finestra, si riflettono sul soffitto del ristorante. Un cameriere chiude le tende. Natanz, con i suoi 12mila abitanti, si trova ai piedi di Kuh-e-Karkas, la montagna degli avvoltoi; rinomata per il clima, i frutteti ricchi dell’acqua che scende dal monte, e un antico monastero sufi. Molte famiglie di Teheran hanno qui case per il fine settimana. Ci si arriva in un paio d’ore, scendendo verso sud in direzione di Isfahan attraverso il deserto. “Paradiso di montagna” era l’appellativo con cui Natanz era conosciuta. Ma oggi è diventato un altro: città atomica. Quando i capi di governo del mondo discutono di un possibile attacco militare contro il programma atomico iraniano intendono soprattutto Natanz. È Natanz il cuore del programma.
Di fronte alla città, a due passi dall’autostrada, circondato da rotoli di filo spinato e protetto da torri di controllo e fari girevoli, c’è l’impianto per l’arricchimento dell’uranio con il suo Fep, che produce uranio arricchito al 5%, e il suo Pfep, un impianto pilota che arricchisce al 20% (quest’ultimo, sostiene il governo iraniano, servirà per il reattore sperimentale di Teheran utilizzato per la medicina nucleare).
Distruggere Natanz non sarebbe facile. L’impianto copre un’area di una ventina di chilometri quadri ed è costruito otto metri sotto terra, circondato da un muro di cemento armato spesso quasi tremetrieprotettoall’internoda un altro muro. Nel 2008 una foto fece il giro del mondo — quella di Ahmadinejad in camice bianco che attraversa il reparto delle centrifughe (di vecchio modello), seguito dal ministro della Difesa (un po’ incongruo in un impianto per usi civili) — e fornì involontariamente agli occidentali qualche chiave in più sull’impianto.
Da fuori si intravedono solo i cannoni antiaerei messi a difesa dell’impianto. «Se arrivano gli aerei israeliani ne faranno fuori parecchi » dice l’oste in un ristorante cittadino. La maggioranza dei clienti del ristorante pensa che il governo dovrebbe trattare e non mettere a rischio il paese; alcuni invece sono stufi che l’Occidente spadroneggi e rifiuti di riconoscere un diritto dell’Iran. Quando nel 2004 le centrifughe di Natanz entrarono in funzione, ci si preoccupò soprattutto perché sarebbero venuti meno turisti, racconta l’oste. Così infatti è stato. Non solo i turisti stranieri, che ormai sono
scomparsi dall’Iran (un paese per patrimonio culturale e artistico fra i primi nel mondo, al 138esimo posto per numero di visitatori). Anche i teheranesi hanno smesso di venire. Ma poi l’impianto nucleare ha avuto bisogno di forza lavoro, i negozi hanno decuplicato gli affari, il prezzo di case e terreni è salito alle stelle. «Ormai il destino di Natanz è legato all’impianto nucleare» dice uno dei clienti. Se il regime voglia costruire davvero una bomba o solo produrre combustibile per l’energia elettrica lui non lo sa, ma anche nel primo caso non avrebbe tutti i torti: «La bomba ce l’ha Israele e perfino il Pakistan che per anni ha ospitato Bin Laden. Ma, incredibilmente, il mondo ha paura solo dell’Iran!».
Le trattative sul dossier nucleare riprenderanno il 25 febbraio in Kazakistan. Oggi gli ispettori dell’Aiea sono a Natanz per la terza volta in tre mesi, dopo che a lungo le due parti si erano accusate a vicenda di bloccare il negoziato. L’inviato iraniano Ali Asghar Soltanieh dice di aver raggiunto un accordo con l’Agenzia su «alcuni punti» ma l’intesa resta sempre lontana. La verità è che nessuno vuol rinunciare alle proprie precondizioni. Per l’Occidente, l’Iran dovrebbe fare prima di tutto quello che i diplomatici chiamano “stop, ship, shut”: bloccare l’arricchimento al 20 % dell’uranio, spedire all’estero quello che hanno già arricchito e chiudere un grosso impianto. Per l’Iran, l’Occidente dovrebbe prima di tutto ridurre sostanzialmente le sanzioni (non offrendo solo “noccioline contro diamanti”, come gli iraniani chiamano l’ultima offerta occidentale) e riconoscere il diritto dell’Iran ad arricchire l’uranio. Nel 2010 un compromesso sembrava raggiunto, ma Ahmadinejad fu immediatamente sconfessato a Teheran: la politica iraniana è così polarizzata che i rivali del presidente preferirono bloccare un’intesa di cui Ahmadinejad avrebbe avuto il merito.
«L’Iran vuole che l’agenda nel nuovo round di colloqui menzioni esplicitamente le sanzioni e il diritto ad arricchire l’uranio, dopo di che è disposto a trattare su tutto» mi ha detto a Teheran il portavoce del governo Ramin Mehmanparast. Il ministero degli Esteri ha fatto sapere di essere disposto a firmare “un accordo complessivo” in questo senso. Essere singolarizzati, essere privati di un diritto che hanno tutti i firmatari del Tnp è inaccettabile per la Repubblica Islamica. Nessuno dei suoi dirigenti, nemmeno i riformatori dell’Onda Verde se avessero voce in capitolo, potrebbe assumersi politicamente questo vulnus dell’orgoglio nazionale. Il programma nucleare è considerato lo strumento per entrare nella modernità. Ma trasporta con sé tutti i pregiudizi e le paure di un paese che non si è mai scrollato di dosso il peso di un passato in cui le grandi potenze facevano il bello e il cattivo tempo. Gli iraniani hanno distillato questo passato in due concetti: la “perfidia” occidentale e le virtù cardinali dell’autosufficienza e del rispetto di sé.
Alla fine del 2009, gli scienziati che lavoravano a Natanz si accorsero che le centrifughe avevano cominciato a girare fuori controllo e ad autodistruggersi. Sembra che nel mezzo della notte alcuni computer cominciassero a emettere a tutto volume le note di
Thunderstruck, la canzone degli AC/DC, un gruppo rock degli anni 90. È seguita una vera e propria guerra fatta di virus, di attentati a scienziati, di esplosioni misteriose. L’Iran smentisce categoricamente di volere la bomba, che definisce «un imperdonabile peccato contro Dio» (così la Guida suprema Khamenei l’anno scorso al summit dei Paesi non allineati). Ma manda continuamente segnali nella direzione opposta: in questi giorni ha attivato a Natanz centrifughe Ir-2 di nuova generazione, che permettono di arricchire l’uranio a una velocità due volte e mezzo superiore ai vecchi modelli. I sospetti cominciarono qui: nel 2002 il Mek, un gruppo di opposizione molto controverso, denunciò che Teheran stava segretamente costruendo due impianti nucleari a Natanz dove il governo iraniano affermava di voler invece dissodare il deserto per renderlo coltivabile. Nel 2003 tre ministri degli Esteri europei volarono a Teheran e riuscirono a ottenere una pausa nel programma di arricchimento. Ma gli Stati Uniti allora erano interessati solo a un cambio di regime. Rovesciare la Repubblica islamica, con cui non avevano relazioni diplomatiche da dopo la rivoluzione, era la loro priorità: «Gli Usa non faranno mai nulla che possa accrescere la legittimità degli ayatollah» disse Condoleezza Rice agli europei. Il negoziato si bloccò.
Un compromesso è ancora possibile — oggi lo pensa anche l’Amministrazione americana. Per esempio un primo passo potrebbe essere convertire l’uranio arricchito al 20% in piastre metalliche. Anche la Cia non ha trovato prove che l’Iran voglia costruire l’arma nucleare, solo una “ambiguità strategica”. Come se gli iraniani dicessero: potremmo, se volessimo; e dipende da voi se un giorno vorremo. Il regime si vede impegnato in una lotta per la sopravvivenza. Se possibile senza bomba. Se indispensabile con. Il 2013 sarà l’anno decisivo, dicono tutti a Natanz.

Repubblica 14.2.13
Gli ex capi dello Shin Bet, intervistati nel film “The Gatekeepers”
“Ma una guerra è inutile” la verità dei servizi israeliani
di Antonio Monda

NEW YORK Continuare a perseguire azioni di guerra sarebbe per Israele un grave errore: è quello che sostengono gli ultimi sei direttori dello Shin Bet, l’agenzia israeliana per la sicurezza interna, che hanno accettato di farsi intervistare per la prima volta di fronte ad una telecamera in “The Gatekeepers” (I Guardiani) un documentario che racconta i retroscena di molti episodi tragici degli ultimi quaranta anni, e consente di comprendere la mentalità degli uomini preposti ad un compito drammatico e quasi sempre violento, ma di fondamentale importanza per l’esistenza stessa del Paese.
Nel documentario il regista Dror Moreh lascia parlare i suoi testimoni senza manipolare le immagini o aggiungere commenti, ma lo straordinario impatto emotivo ha suscitato enormi polemiche, alle quali il regista ha reagito dichiarando che per Israele l’estrema destra è più pericolosa della bomba dell’Iran. Per realizzare “The Gatekeepers”, candidato agli Oscar come miglior documentario, ha cominciato con l’intervistare Ami Ayalon, attualmente deputato del partito laburista, il quale ha convinto gli altri cinque ex-direttori a partecipare al progetto. I testimoni parlano con assoluto distacco, raggiungendo un effetto raggelante: si va dal racconto dell’assassinio di Rabin alla prima Intifada, dall’esecuzione di pericolosi terroristi al tentativo fallimentare di eliminarne altri, causando lutti nella popolazione civile. Gli indubbi risultati ottenuti, a cominciare da un calo drastico di attentati, si scontra con i metodi messi in atto, e le testimonianze ribadiscono sia l’impossibilità di fare altrimenti che la consapevolezza che l’uso della violenza non possa mai portare una pace reale a duratura: uno dei protagonisti teme di esser diventato «più crudele» senza per questo aver risolto il problema. «Non parlare ai nostri nemici è un lusso per Israele - ammette un altro dei “Guardiani” dobbiamo parlare con tutti anche con Hamas e con l’Iran. Non abbiamo alternative ». I titoli apposti ad ogni sezione del film rinforzano questa sensazione di gelo e disincanto: «Niente strategia, solo tattica»; «Dimentica la morale»; «Un terrorista è per un’altra persona un combattente per la libertà»; «Danni collaterali » e «La vittoria è vederti soffrire».
Ripetutamente i capi dello Shin Bet raccontano come abbiano fatto da capro espiatorio per scelte che venivano direttamente dai politici, e sono molti i passaggi sconvolgenti: il linciaggio dei terroristi responsabili del dirottamento di un autobus, il racconto di come si metta in conto il sacrificio di vittime innocenti, un attentato sventato in extremis e, soprattutto, il clima irrespirabile che circondava Rabin dopo l’accordo di pace con Arafat. Agghiaccianti le immagini di un finto funerale del premier, organizzato quando era ancora in vita, che vide la partecipazione di Benjamin Netanyahu ed una folla scatenata. A questo riguardo il regista nega di considerare l’attuale premier come mandante, ma imputa al suo partito una grave responsabilità morale. Ma gli attacchi a Netanyahu da parte dei Gatekeepers non mancano: «Ossessionato dall’Iran e inaffidabile», lo ha definito in un’intervista per il lancio del film Yuval Diskin, numero uno dello Shin Bet fino al 2011.
Le scelte più tragiche sono motivate con la salvezza dello stato e del popolo di Israele, ma anche nei momenti di successo prevale il pessimismo: alla luce di quanto avvenuto in tutti questi anni, Ami Ayalon sostiene che «si rischia di vincere la battaglia ma perdere la guerra» e cita con amarezza Clausewitz: «La vera vittoria è una migliore realtà politica».

La Stampa 14.2.13
Riapre a Firenze la Cappella Rucellai con il tempietto di Leon Battista Alberti


Riapre al pubblico la Cappella Rucellai a Firenze, scrigno trecentesco che custodisce uno dei capolavori di Leon Battista Alberti: il Tempietto del Santo Sepolcro. Cappella e Tempietto sono stati restaurati con il sostegno della Fondazione Marino Marini di Pistoia e il pubblico potrà visitarli transitando dal museo contemporaneo Marino Marini, adiacente, grazie all’apertura di un passaggio. La Cappella Rucellai, che fa parte della Chiesa di San Pancrazio, proprietà della Curia di Firenze, manterrà ovviamente la sua destinazione di luogo sacro destinato al culto, ma con la riapertura sarà maggiormente visitabile, purché lo si faccia negli orari del museo. Realizzato nel 1467, copia in scala di quello di Gerusalemme, il Tempietto di Leon Battista Alberti è noto agli studiosi d’arte di tutto il mondo. Nel 1808 la cappella fu separata dalla chiesa che venne sconsacrata e trasformata, per editto napoleonico, in una sala d’estrazione della Imperiale Lotteria di Francia, e da allora il varco di collegamento fu murato. Per festeggiare questo evento, il 16 e 17 febbraio, dalle ore 10 alle ore 19, l’ingresso al Museo Marino Marini e al Sacello dei Rucellai sarà gratuito al pubblico.

Repubblica 14.2.13
La verità è un errore
Parla il filosofo Carlo Sini mentre viene ripubblicata la sua opera che mette in discussione il pensiero occidentale
“Arrendiamoci, non possiamo conoscere la realtà”
intervista di Antonio Gnoli


Ho qualche dubbio che i filosofi – come si sente dire in giro – conoscano i sentieri della felicità e ci accompagnino per mano lungo quegli ameni percorsi. Ma un tale sospetto non deve indurre a gettarci tra le braccia dei torturatori del concetto, dei paranoici del pensiero, attenti a che nulla del reale sfugga alla loro occhiuta attenzione. La filosofia ha molto di problematico, di sfuggente, soprattutto oggi in cui le certezze sono messe in discussione alla radice. E a pensarlo, fra gli altri, con un percorso molto originale, è Carlo Sini che sta per compiere 80 anni. Allievo di Emanuele Barié ed Enzo Paci, per decenni professore di teoretica alla cattedra di Milano, Sini sta pubblicando per Jaca Book la sua intera opera. Dove ha sparso i suoi interessi: nel mondo antico, che è all’origine – almeno in Occidente – del passaggio denso di conseguenze dall’oralità alla scrittura; in quello moderno sovrastato da Spinoza ed Hegel e infine in quello contemporaneo dal quale affiorano i nomi di Husserl, Peirce e Wittgenstein.
«È un quadro veritiero, fatalmente approssimativo quello che lei riassume. Ma in fondo l’ultima parola non è mai la nostra. Diceva Peirce: il significato della mia vita è affidato agli altri».
Ma gli altri possono avere molti pregiudizi.
«Il che prova che la verità non è mai qualcosa di definitivo, siamo sempre in errore. In cammino. Non a caso io parlo di “transito della verità”».
A nessuno piace l’errore. La filosofia greca e poi il cristianesimo ci hanno insegnato a diffidare dell’errore e del peccato, suggerendo i modi per evitarli.
«C’è in queste filosofie o visioni del mondo un’idea di perfezione che ha provocato danni e fraintendimenti. E tutto ciò è nato dalla pretesa di affidare alla scrittura il ruolo di cardine su cui l’Occidente ha fondato il proprio sapere».
Prima i saperi si costituivano oralmente. Poi arriva la scrittura. Tutto diventa più semplice. Perché diffidarne?
«Non è una diffidenza, ma la consapevolezza che l’introduzione della scrittura modifica la nostra percezione del mondo. Il Logos, di cui parlano i greci, non potrebbe sussistere senza la scrittura».
Perché?
«Per il semplice motivo che ogni scrittura ha un supporto che è fuori dal corpo di chi parla. La scrittura – diversamente dall’oralità – ci pone di fronte a un sapere oggettivo che va interpretato. Quando è la voce a trasmettere il sapere, non c’è separazione o distanza tra ciò che diciamo e il mondo che lo accoglie e di cui facciamo parte. Nella scrittura invece va ravvisata quella radice oggettiva che si svilupperà con la scienza».
Questo è un passaggio ulteriore.
«È una continuità. Senza la scrittura alfabetica e matematica – che sono scritture per tutti – non avremmo avuto l’universale e quindi la scienza. L’universale – che i greci hanno chiamato Logos – ha determinato il corso del sapere occidentale. È stata la nostra forza, la nostra potenza, ma anche la nostra superstizione e il nostro equivoco».
Capisco la potenza, ma perché superstizione ed equivoco?
«Per la semplice ragione che sia la scienza che il senso comune pensano che ci sia un mondo fuori di noi che possiamo conoscere».
Effettivamente è così: da un lato la realtà dall’altro noi che l’avviciniamo e la conosciamo. Se vuole, molto rozzamente, siamo in una delle tante versioni del realismo.
«Posizione ingenua. Perché o noi facciamo parte di quella realtà oppure è illusorio
pensare di conoscerla».
Eppure, se non riuscissi a distinguermi dalla realtà esterna, allo stesso modo, non potrei conoscerla.
«Obiezione giusta. Nel senso che noi siamo parte della realtà pur distinguendoci da essa. Siamo parte della verità ma non siamo la verità».
Un bel paradosso. Allora cosa siamo?
«Siamo nella differenza del sapere, o meglio siamo in ciò che chiamo “l’essere in errore”. Verità ed errore sono in qualche modo due facce della stessa medaglia ».
Anche la scienza partecipa della verità e dell’errore. Ne fa esperienza, nel senso che corregge continuamente l’errore.
«Il lavoro della scienza è meraviglioso, va bene così, ne beneficiamo tutti. Sarebbe insensato rifiutare la scoperta di una cura contro il cancro o condannare un treno perché copre distanze lunghe in tempi sempre più brevi. Altra cosa è l’idea che gli scienziati per lo più si fanno del loro lavoro. Qui prevale quello che Husserl chiamava il pregiudizio “naturalistico”. Ossia il riferimento ingenuo e inconsistente a un misterioso mondo che è “là fuori” e a un ancor più misterioso “qui dentro”».
Lei, insomma, mette in discussione il modo tradizionale di concepire il dentro e il fuori, il soggetto e l’oggetto, la realtà e la coscienza. Dove collocherebbe tutto ciò?
«Nella vita che si svolge e che si traduce negli innumerevoli archivi dell’accaduto, i quali ricompongono di continuo il passato in nuovi archivi e mappe per il futuro».
Vedo che usa la parola “archivio”. Immagino che non sia solo il deposito delle conoscenze al quale attingiamo.
«È qualcosa di più strategico, è il modo di venire alla luce della verità pubblica».
I filosofi hanno a volte il vizio di rispondere a una complicazione con una complicazione ulteriore. Cos’è la verità pubblica?
«È quella, per esempio, che in questo momento io e lei pratichiamo in questa conversazione».
Una conversazione che al lettore potrà apparire troppo tecnica.
«Un margine di oscurità è preferibile a insulse certezze. E poi distinguerei tra competenza e sapere, anche se tra loro sono connessi. Una competenza analitica la posso apprendere anche da un computer opportunamente programmato; il sapere in senso complessivo non può invece fare a meno del coinvolgimento delle emozioni corporee profonde. Si tratta di creare un’intesa condivisa, cioè anche pubblica o comune».
Ciò che è pubblico è anche esposto al fraintendimento, al rumore mediatico, al sentire massificato.
«Che cosa sia stato e sia nel profondo il “secolo della masse” – l’espressione deriva da Sorel – è ancora una domanda attuale. Non abbiamo un pensiero all’altezza del problema, io credo. Che cosa significa fare politica, fare cultura, e quindi fare anche filosofia, in un tempo globalizzato, massificato, mercificato e via dicendo, non l’ha chiaro nessuno. La fiumana trascina le nostre antiche barche, ormai senza governo».
Appellarsi al passato o alla tradizione?
«Mi sembra evidente che la nostra grande tradizione storico-culturale si è formata in società così differenti dall’attuale che la pretesa di travasare in essa i nostri contenuti e i nostri stili di pensiero si rivela fatalmente utopica».
Propone una variante della filosofia della crisi?
«No, ma occorre prendere atto della crisi se la si vuole affrontare. Direi perciò che l’evidente crisi del modello capitalistico va in parallelo con la crisi di ciò che un tempo si considerava alta cultura. Il liberalismo politico e il liberalismo economico sono falliti nei loro propositi esattamente come la scuola pubblica e l’universale alfabetizzazione. Non possiamo rinunciarvi perché non conosciamo modelli più efficienti o più realistici, ma non ne deriviamo affatto quel benessere per tutti e quella diffusa formazione critica e liberatrice che erano attesi».
Suggerisce la rassegnazione?
«Suggerisco la consapevolezza. Ogni civiltà è destinata a tramontare: “Della civiltà non rimarrà che un cumulo di macerie e di cenere, ma sopra le ceneri aleggerà lo spirito”, lo ha detto Wittgenstein. Ci troviamo in mezzo a un grande sommovimento che ci sovrasta e ci inquieta. Il nostro compito è rimettere in gioco la verità. Disincagliarla dal dogmatismo. Non conosco modo migliore per riprendersi il futuro».

Carlo Sini è nato nel 1933 La sua opera viene ora ripubblicata da Jaca Book

Repubblica 14.2.13
L’infallibilità con la scadenza
di Vito Mancuso


IERI il portavoce della Sala Stampa Vaticana, il gesuita padre Lombardi, ha dichiarato che dalla sera del 28 febbraio prossimo Joseph Ratzinger non sarà più infallibile. Ora, se è già difficile capire come un essere umano possa giungere a essere infallibile, forse ancora più difficile è comprendere come possa all’improvviso cessare di esserlo. È stato però lo stesso padre Lombardi a chiarire bene la questione.

E ha sottolineato che l’infallibilità “è connessa al ministero petrino, non alla persona che ha rinunciato al Pontificato”. L’attuale pontefice cioè è infallibile in quanto papa Benedetto XVI, perché, da papa, gode della particolare grazia legata al suo stato di Romano Pontefice, che la teologia chiama precisamente “grazia di stato”. Non è per nulla infallibile invece in quanto individuo di nome Joseph Ratzinger, il quale, da uomo come noi, può sbagliare nelle cose ordinarie della vita, per esempio nei giudizi sulle persone (e non penso ci possano essere dubbi sul fatto che su qualcuno dei collaboratori non abbia sempre visto giusto), nei giudizi po-litici, e persino in quelli biblici e teologici. Ratzinger era del tutto consapevole di tutto ciò, visto che scrisse nel suo primo volume su Gesù che “ognuno è libero di contraddirmi”, e che cosa spinge un papa a dire che ognuno è libero di contraddirlo (persino quando scrive su Gesù!), se non precisamente la consapevolezza della sua umana possibilità di sbagliare? Ma se le cose stanno così, in che cosa precisamente consiste l’infallibilità papale e da dove viene?
L’infallibilità che spetta al Romano pontefice è il penultimo dei dogmi dichiarati dalla Chiesa cattolica. Venne proclamato dal Concilio Vaticano I con la Costituzione dogmatica
Pastor aeternus del 18 luglio 1870, in un’Europa che il giorno dopo avrebbe visto lo scoppio della Guerra franco-prussiana tra il Secondo Impero francese e il Regno di Prussia e in una Roma che quasi già preavvertiva l’arrivo delle truppe piemontesi pronte a dare l’assalto alla capitale dello Stato pontificio. Il papa regnante era Pio IX, che sei anni prima aveva pubblicato una vera e propria dichiarazione di guerra al mondo moderno, il famoso Sillabo ossia raccolta di errori proscritti. Ad essere assediata quindi, prima ancora che lo fosse la capitale dello Stato pontificio, era la mente cattolica, che assisteva all’inarrestabile processo che l’andava privando di quel primato morale e spirituale che deteneva da secoli. Si spiega così il desiderio di accentramento attorno alla figura del papa e del suo primato da cui scaturì il dogma dell’infallibilità pontificia. Esso dichiara che il Romano pontefice, quando parla ex cathedra, cioè quando definisce una dottrina in materia di fede e di morale, gode di infallibilità. E che per la fede cattolica non si tratti di un semplice optional, ci ha pensato il Vaticano I a renderlo chiaro: “Se poi qualcuno, Dio non voglia!, osasse contraddire questa nostra definizione: sia anatema”. Anatema, per chi non lo sapesse, è sinonimo di scomunica.
Dal 1870 a oggi il dogma dell’infallibilità è stato usato solo una volta, per la precisione da Pio XII nel 1950 quando proclamò il dogma dell’Assunzione in cielo della Beata Vergine Maria in corpo e anima. Ma nonostante l’uso parsimonioso, la questione dell’infallibilità divenne rovente lo stesso a causa del celebre teologo svizzero Hans Küng che, precisamente per aver criticato l’infallibilità pontificia con un libro che fece epoca dal titolo Infallibile? Una domanda (1970), venne privato da Giovanni Paolo II della qualifica di teologo cattolico.
È credibile oggi un dogma come quello dell’infallibilità papale? A mio avviso esso finisce piuttosto per allontanare dal sentimento religioso. Io penso infatti che per la coscienza sia la stessa nozione di infallibilità a risultare oggi improponibile, quando le stesse scienze esatte si dichiarano consapevoli di presentare dati sempre sottoposti a possibile revisione e come tali dichiarabili solo “non falsificati” e mai assolutamente veri. Viviamo in un’epoca in cui la stessa nozione teoretica di verità risulta poco credibile, tanto più se si tratta di verità assoluta, dogmatica, indiscutibile. Ratzinger lo sa bene, e non a caso da tempo accusa quest’epoca di “relativismo”, ma non è colpa di nessuno se le cose sono così, è lo spirito dei tempi che si muove e si manifesta nelle menti dopo un secolo
qual è stato il ’900, e occorre prenderne atto se si vuole continuare a parlare al mondo di oggi.
Anche alla luce del fatto che un papa, Onorio I, venne dichiarato eretico dal concilio ecumenico Costantinopolitano III, Küng proponeva di sostituire a infallibilità il concetto di indefettibilità, intendendo dire con ciò che la questione sottesa all’infallibilità non riguarda la ragione teoretica, ma la volontà, “il cuore” come direbbe Pascal, ovvero che la Chiesa non verrà mai meno al compito bellissimo di essere fedele al suo Signore e al primato del bene e dell’amore che ne consegue. A me pare una proposta più attuale, più umile, più evangelica.

Repubblica 14.2.13
Padre Lombardi: “Virtù connessa con il ruolo, niente più assistenza dello Spirito Santo”
Con la rinuncia via anche il dogma dell’infallibilità
“Solo il pontefice in carica non sbaglia mai”


CITTÀ DEL VATICANO — Chi rinuncia al Pontificato — come nel 1294 fece Celestino V e, come farà il 28 febbraio 2013, Benedetto XVI — oltre a perdere tutte le prerogative papali, non sarà più dotato del dono dell’infallibilità in materia di fede così come deciso dal Concilio Vaticano 1 indetto da papa Pio IX nel 1870. Papa Ratzinger, quindi, continuerà a essere uno dei più grandi teologi contemporanei, non cesserà di essere un prolifico scrittore, ma non sarà più “infallibile” in materia di verità di fede e di
morale. È uno dei tanti nuovi aspetti a cui andrà incontro Joseph Ratzinger, quando non sarà più il capo supremo della Chiesa universale alle ore 20 del 28 febbraio. La spiegazione sulla fine dell’infallibilità ratzingeriana è stata fornita ieri da padre Federico Lombardi. Il portavoce, rispondendo a un giornalista, ha detto che «come la teologia insegna ci sono situazioni, rare, in cui si può parlare di infallibilità del Papa, ma essa è connessa al Ministero Petrino, cioè a questo particolare servizio alla Chiesa esercitato dal Papa in carica, non alla persona che ha rinunciato al Pontificato». «L’infallibilità è connessa al ministero» e Ratzinger, spiega padre Lombardi, «non avrà più quest’assistenza particolare dello Spirito Santo». Il dogma dell’infallibilità fu proclamato nel 1870 con la costituzione Pastore Aeternus nella quale si sancisce che quando il Papa parla ex Cathedra in materia di fede non può errare perché ispirato direttamente dallo Spirito Santo.
(o. l. r.)

Repubblica 14.2.13
Il mito antico della rinuncia
Con il suo atto il “dictator” romano ha creato il paradigma del disinteresse e dell’amore per la patria
Un eroe universale, tanto che in America gli hanno dedicato una città
di Maurizio Bettini


Agli inizi del VI secolo a. C. Atene, preda di gravi tumulti, decise di affidarsi a un solo uomo: Solone. Egli fu nominato arconte, arbitro e legislatore, una posizione che gli permise di dare alla città leggi destinate a durare nei secoli. Ma non tutti i contemporanei le apprezzarono. Non passò giorno infatti senza che vi fossero rimostranze, tanto che Solone decise di rinunziare alla carica. Dichiarò che voleva fare un viaggio e chiese alla città un congedo di dieci anni. Immaginava che nel frattempo gli Ateniesi si sarebbero abituati alle sue leggi — non fu così, via lui prese il potere Pisistrato e ad Atene fu instaurata la tirannide. Ma non è questo che interessa, è piuttosto il modo in cui Solone lasciò il potere. Egli credeva fortemente nell’uguaglianza, per questo se ne andò come sarebbe potuto andarsene chiunque altro: imbarcandosi su una nave, senza né cerimonie né dichiarazioni ufficiali.
Ed eccoci a Cincinnato. Tutti ricordano la scena dei legati del Senato che si recano da lui per offrirgli la carica di dittatore. Lo trovano che sta arando il proprio campo, e prima di dar loro ascolto egli chiede alla moglie di portargli la toga. La situazione è drammatica, Equi e Sabini minacciano la città e c’è bisogno di un dictator.
Cincinnato lascia l’aratro, assume la dittatura, che gli conferisce un potere praticamente
assoluto, e porta a termine la propria missione. Dopo di che, passati appena sedici giorni, e nonostante fosse stato nominato dittatore per sei mesi, egli abbandona i suoi poteri e torna ad arare. Questo gesto lo trasformerà in un paradigma di disinteresse e amore per la patria — tanto che gli americani, dopo la Rivoluzione, decideranno di dedicargli perfino una città, Cincinnati Ohio. Ed ecco il modo in cui Livio descrive l’abbandono del potere: dictatura… se abdicauit, letteralmente Cincinnato «si escluse dalla dittatura». In realtà questa espressione, se abdicare, costituisce la formula canonica usata in latino allorché un magistrato rinunzia alla propria carica. Perché dunque non l’ha usata anche Benedetto XVI? Al contrario si è contentato di un semplice
ministerio… renuntiare, dichiarando cioè di “rinunciare” al proprio ministero. Naturalmente non si tratta di «dare le dimissioni», come qualcuno ha frettolosamente tradotto, trasformando così il papa in un amministratore delegato che non ha soddisfatto il Cda. Di certo però l’altra espressione, se abdicare, sarebbe stata almeno più classica. Dato che il latino della dichiarazione non è impeccabile (il cardinale Antonio Bacci, per anni massimo latinista del Vaticano, avrebbe almeno controllato le concordanze), potremmo immaginare che si tratti di un italianismo, un calco del nostro «rinunciare all’incarico ».
Però potrebbe trattarsi anche di una scelta di modestia, dato che il verbo abdicare, ancora per un uditorio italiano, avrebbe evocato connotazioni (forse troppo) regali. Pur se la formula usata da Edoardo VIII di Inghilterra, quando abdicò in favore del fratello nel 1936, fu proprio «to renounce the throne», come correttamente si dice in inglese. Dunque per un uditorio anglofono, ammesso che vi siano ancora inglesi disposti ad ascoltare dichiarazioni in latino, quel renuntio del papa suona inevitabilmente solenne. E se invece pensassimo a tutte le volte in cui il verbo renuntio, specie nella latinità cristiana, viene usato per descrivere la “rinunzia” alle cose del mondo, che distolgono da pensieri più alti? Le recenti vicende in cui il soglio pontificio si è trovato coinvolto, potrebbero in effetti suggerirlo.

Repubblica 14.2.13
Il significato psicoanalitico dell’abbandono
Quando Narciso sa dire addio
Gli incarichi, i ruoli professionali, le funzioni sociali, servono a nascondere il carattere finito e mortale dell’esistenza umana
Si tratta dunque di saper accettare i propri limiti
di Massimo Recalcati


La vita umana necessita di maschere per esistere. È un fatto: ciascuno di noi ne indossa una o più d’una quando si trova impegnato nelle funzioni e nei ruoli sociali che lo riguardano. Non a caso l’interrogativo: «ma chi credo di essere?» spesso attraversa il dubbio della coscienza che muove verso il gesto della dimissione da un incarico. Per questo i soggetti che credono senza incertezze al proprio Io, gli “Egoarchi” come li avrebbe definiti Giuseppe D’Avanzo, sono solitamente soggetti immuni dal rischio di dimissioni perché privi di quella quota necessaria di distanza da se stessi che rende possibile l’autocritica e il riconoscimento dei propri errori. Una leadership consapevole si misura dal modo in cui sa lavorare per preparare la sua dissoluzione rendendo possibile la sua permutazione e la sua trasmissione simbolica. Al contrario un eccessivo attaccamento al proprio Io rende impossibile l’esercizio di una leadership democratica perché resiste al principio della delega della responsabilità. Perché vi sia il gesto autentico delle dimissioni vi deve essere esperienza tormentata del dubbio e della propria vulnerabilità.
Gli incarichi, i ruoli professionali, le funzioni sociali, le investiture pubbliche, insomma tutto ciò che offre una identità collettivamente riconoscibile alla vita umana, ricoprono il carattere finito, mortale, leso dell’esistenza umana. Il gesto delle dimissioni è sempre ricco di echi emotivi perché implica la caduta della funzione stabilizzatrice e rassicurante di queste maschere che agiscono come dei veri e propri abiti identificatori. Si tratta di una spogliazione traumatica che riporta la nostra vita alla sua condizione più nuda. È l’ora della verità; l’evento che ci ricorda che il nostro essere è irriducibile alla maschera sociale che lo riveste. Per questa ragione nel soggetto dimissionario possiamo rintracciare sempre una quota depressiva legata alla perdita dell’identità narcisistica che l’identificazione alla maschera pubblica gli garantiva. Ma può valere anche il contrario: dare le dimissioni può significare per chi compie questo atto un effetto salutare di liberazione dai lacci della maschera. All’uomo — che è un essere in continuo divenire — l’abito rigido dell’identificazione appare sempre come un abito troppo stretto; lasciarlo cadere può allora allargare la vita, può essere una perdita feconda che rende possibile un affacciarsi rinnovato sul mondo.
Per la psicoanalisi la malattia e la sofferenza mentale sono legate ad un eccesso di identificazione rigida al proprio Io e al suo Ideale di padronanza. Il gesto della dimissione è un test di salute mentale perché implica la capacità del riconoscimento del proprio limite, cioè della propria castrazione. Non a caso è proprio la Legge simbolica della castrazione a presiedere l’intero percorso evolutivo della vita, il quale esige continue dimissioni simboliche: il bambino deve dimettersi dal suo ruolo per entrare nella turbolenze attive dell’adolescenza; l’adolescente deve dimettersi per assumersi la responsabilità della vita adulta e, a sua volta, l’adulto deve affrancarsi dal proprio Io per accettare la vecchiaia come transizione finale verso la morte. E non è forse proprio questo ultimo passaggio della vita a rivelare che l’attaccamento ad una identità rigida non può essere il destino dell’uomo, ma il tentativo, tragico o farsesco, di rivestire artificialmente la sua finitezza mortale? Non è forse questo che s’incontra ogni volta che si dà gesto autentico, non solo tattico, di dimissioni? Non è per questa ragione che Nietzsche pensava all’uomo come ad un “ponte ”, ad un “tramonto”, ad un essere destinato a superare sempre se stesso, ad un “oltreuomo”?