domenica 17 febbraio 2013

l’Unità 17.2.13
L’appello
Su unita.it firma per sostenere il centrosinistra


«Siamo alle ultime battute di una campagna elettorale confusa, rissosa, e da parte di taluni estremamente menzognera. Due scenari inquietanti si profilano come possibili dall esito del voto: o un caos ingovernabile; o il ritorno al potere di uomini e di forze, che negli anni passati hanno già portato il Paese verso la catastrofe.
Per evitare tutto questo, l’unica strada è votare per la coalizione di centro-sinistra, assicurandole
l’autosufficienza, che le consentirebbe di mettere in piedi un governo stabile, autorevole, rispettabile a livello europeo, in grado di gestire al meglio politiche e alleanze». Comincia così l’appello firmato, tra gli altri, da Alberto Asor Rosa, Umberto Eco, Stefano Rodotà, Gustavo Zagrebelsky, Claudio Magris, Barbara Spinelli e Nadia Urbinati.
Per aderire basta andare sul nostro sito www.unita.it.

l’Unità 17.2.13
Bersani: unioni civili entro un anno
Il leader Pd annuncia anche la legge contro l’omofobia entro i primi sei mesi
Su Vendola: «È un uomo di governo»
Oggi in piazza Duomo a Milano assieme al leader Sel, Tabacci Ambrosoli e Pisapia
di S. C.


L’impegno ad approvare una legge sull’omofobia in sei mesi e una sulle unioni civili entro un anno, la conferma che non romperà l’alleanza con Vendola, che anzi vede come «uomo di governo», e poi l’offensiva contro un Berlusconi che «si sente minacciato se si parla di regole» e contro una Lega «che con le famose ronde padane non ha fermato la ‘ndrangeta, che anzi è si è infiltrata nella giunta regionale in Lombardia». Bersani va al rush finale della campagna elettorale senza cambiare registro, deciso a «non raccontare favole» e però annunciando quel che sicuramente farà una volta a Palazzo Chigi. Intanto, per quel che riguarda le alleanze: «Vendola sta governando una Regione, a differenza di quello che pensano tanti altri, io penso a lui come un uomo di governo», dice il leader del Pd a uso e consumo di Monti e soci. «Inutile che mi dicano “con Vendola no”, perché allora vuol dire no con Bersani, punto».
Ma soprattutto, il candidato premier del centrosinistra mette in chiaro che non mancherà di fedeltà ai suoi valori e convincimenti quale che sia la maggioranza che si verrà a creare in Parlamento dopo il voto di domenica e lunedì. In un messaggio inviato alla convention organizzata a Roma da Agedo, Arcigay, Arcilesbica, Equality Italia, Famiglie Arcobaleno, Bersani si è impegnato a estendere, entro sei mesi, la Legge Mancino anche ai reati di omofobia e transfobia e ha dichiarato che entro un anno dall’eventuale elezione a Palazzo Chigi prenderà «la legge tedesca sulle unioni omosessuali» per «tradurla nella legislazione italiana», compreso «il nodo del riconoscimento del diritto del bambino che cresce all’interno di un nucleo famigliare omogenitoriale a vedere riconosciuto dalla legge il legame affettivo con il genitore non biologico, soprattutto nei casi di malattia o morte del genitore biologico» (nel messaggio Bersani ha anche ricordato come sia necessaria una legge sul divorzio breve e una seria revisione della legge 40).
Diritti civili, norme su lavoro e occupazione, misure per la legalità sono i tasti su cui il leader Pd continuerà a battere nei prossimi giorni. A Grillo, che se ne esce con la proposta di «una commissione d’inchiesta sui vertici Pd», Bersani chiede di «rispondere di alcune cose», a cominciare da questa: «Visto che va dicendo che non ci sono più destra e sinistra, gli chiedo io: ma il figlio di un immigrato, nato qui, che studia con i nostri ragazzi, è italiano o no? Io penso di sì, lui è sempre convinto di no?».
Ma l’obiettivo principale rimangono Berlusconi e la Lega. Al primo che dice di essere «minacciato» da Bersani perché vuole una legge su conflitto di interessi, anticorruzione, falso in bilancio,
il leader del Pd replica: «È curioso Berlusconi, io non minaccio nessuno però prendo atto che tutte le volte che si parla di regole Berlusconi si sente minacciato». All’ex premier, che fa sapere di avere il «sogno prima di morire» di passare sul Ponte sullo Stretto di Messina, Bersani fa anche presente che ormai è ampiamente dimostrata una cosa: «Il ponte sullo Stretto è una di quelle cose che porta fuori strada, fa discutere, spendere soldi per niente. Senza risultati». Mentre alla Lega manda a dire: «Non dimentichiamo perché in Lombardia si va al voto anticipato. Le famose ronde padane non hanno fermato la ‘ndrangheta, che anzi è arrivata fino alla giunta regionale in Lombardia».
Parole dette ieri dalla Puglia ma che oggi Bersani ripeterà a Piazza Duomo, all’appuntamento a sostegno di Umberto Ambrosoli a cui il leader del Pd parteciperà insieme anche a Giuliano Pisapia, Nichi Vendola e Bruno Tabacci. La sfida in Lombardia è doppiamente importante, per ottenere la maggioranza al Senato e per impedire che a riconquistare il governo della Regione sia l’asse Pdl-Lega. Ironizzando sulla promessa di Berlusconi di restituire i soldi dell’Imu e sull’annuncio di Roberto Maroni di coniare una nuova moneta in Lombardia in caso di vittoria, Bersani dice polemicamente: «Ora vuole coniare il “Marone”, ma sappiano che i 4 miliardi e mezzo delle quote latte li devono restituire in euro, non in “Maroni”».
L’iniziativa di oggi a Milano sarà importante, ma per avere la maggioranza al Senato sarà decisivo conquistare il premio di governabilità anche in Sicilia. Non a caso, mercoledì Bersani sarà a Palermo insieme a Matteo Renzi e Rosario Crocetta. La giornata di venerdì, per la chiusura della campagna elettorale, sarà invece dedicata soprattutto agli appelli al voto in tv.

l’Unità 17.2.13
Il «pacchetto giovani» del Pd: sgravi mutui, tempo pieno, salario minimo
Pronte le misure per rilanciare il lavoro con incentivi alle nuove assunzioni e contrastare la precarietà
di simone Collini


Al quartier generale del Pd lo definiscono «pacchetto giovani». Sono due pagine, frutto della selezione e sintesi delle proposte messe a punto dai diversi dipartimenti del partito: Economia e Lavoro ma anche Scuola, Ambiente, Cultura. Alcune Pier Luigi Bersani le ha già annunciate nei giorni scorsi, altre le lancerà in quest’ultima settimana di campagna elettorale. Come ripete infatti il candidato premier del centrosinistra in pubblico come in privato, primo (con obiettivo polemico Berlusconi) «da questa crisi si esce non raccontando favole ma presentando proposte concrete per creare lavoro» e, secondo (differenziandosi da chi come Monti parla ancora di correzioni da apportare allo Statuto dei lavoratori) «maggiore occupazione si crea non con nuove regole per il mercato del lavoro ma rilanciando l’attività economica». E il documento che via via sta illustrando Bersani parla proprio di questo.
In cima alla lista c’è una misura per immettere liquidità e permettere alla Pubblica amministrazione di pagare i debiti arretrati alle piccole e medie imprese. Nella proposta messa a punto dal Pd si parla di 10 miliardi l’anno per cinque anni che possono essere trovati mediante emissioni di titoli del Tesoro sul modello dei Bpt Italia e che consentirebbero un rafforzamento finanziario delle imprese e quindi un’incentivo per innovazione e nuove assunzioni.
Ma siccome per superare la crisi è anche necessario rilanciare i consumi e favorire la stabilità, le nuove assunzioni non dovranno essere sotto il segno della precarietà. Per questo nel pacchetto preparato in vista della sfida del governo c’è una parte corposa dedicata a come incentivare i contratti a tempo indeterminato e a come realizzare una rete di tutele per i lavoratori assunti con contratti a tempo determinato. Nel documento si parla di una «graduale convergenza» tra quanto versato per chi ha contratti a termine e chi ha un lavoro stabile («un’ora di lavoro a tempo determinato non può costare meno di un’ora a tempo indeterminato», è la battuta a cui ricorre spesso Bersani). Una misura, si precisa nel testo che dovrebbe diventare operativo in caso di vittoria alle elezioni della prossima settimana, «da considerare come primo tassello di una complessiva riforma del sistema fiscale per alleggerire il carico sui redditi da lavoro ed impresa». Il paragrafo dedicato a come «superare la precarietà» prevede anche l’«introduzione di un salario o compenso minimo, determinato in riferimento agli accordi tra le parti sociali, per i lavoratori e le lavoratrici escluse dai contratti collettivi nazionali di lavoro», la definizione di «una base di diritti comune a tutte le forme di lavoro: dall’indennità di disoccupazione alla universalizzazione dell’indennità di maternità all’indennità di malattia» e il sostegno ai contratti di apprendistato «attraverso la semplificazione delle procedure autorizzative, la ridefinizione dei requisiti formativi e la revisione degli incentivi alla stabilizzazione».
Un’altra proposta su cui punta molto il Pd riguarda un piano di riqualificazione per scuole e ospedali da finanziare con i fondi strutturali europei e con quanto recuperato da una riduzione delle spese militari. Secondo i calcoli effettuati dai dipartimenti del partito, le operazioni per la messa in sicurezza, l’efficienza energetica, la manutenzione e la bonifica da amianto dovrebbero ammontare a 7 miliardi e mezzo da investire nell’arco di tre anni. Cifra che verrebbe trovata, oltre che attingendo ai fondi Ue, lavorando su una diminuzione delle spese militari: il bilancio della Difesa ammonta per il 2012 a 19,96 miliardi di euro, pari all’1,2% del Pil, e in prospettiva dovrebbe aumentare a 20,93 miliardi di euro per il 2013, ma per Bersani si tratta di spese ingiustificate, tanto più a fronte della crisi in corso.
Per quanto riguarda l’occupazione femminile, il pacchetto di proposte prevede una serie di incentivi fiscali per le mamme che lavorano e anche un ampliamento dell’offerta degli asili nido. Nel documento si parla di una detrazione fiscale di 100 euro al mese per le lavoratrici con figli minori di 6 anni (che si andrebbe ad aggiungere alle detrazioni per figli a carico già vigenti). «Alla copertura delle minori entrate Irpef, circa 1,2 miliardi di euro all’anno si legge nel testo si provvede mediante la riduzione delle tax expenditure relative alle assicurazioni private».
Il pacchetto prevede anche un piano di piccole opere che possano realizzare gli enti locali con una deroga al Patto di stabilità interno, il rilancio dell’economia verde, lo sviluppo della banda larga e aiuti alle imprese attraverso il credito d’imposta per la ricerca e l’innovazione. Nel documento si parla però anche della necessità di ripristinare un adeguato numero (40 mila) di borse di studio (nel testo si sottolinea che il diritto allo studio è garantito solo al 9% della popolazione studentesca, mentre in Francia e Germania si registra una percentuale del 25) e di un’operazione con la Cassa depositi e prestiti (per una somma di 2 miliardi) per favorire l’accensione di mutui per l’acquisto della prima casa da parte delle giovani coppie.

La Stampa 17.2.13
Bersani non teme il recupero “Smacchieremo il giaguaro”
di Federico Geremicca


La sintesi migliore delle difficoltà in cui naviga il Pd in questa poco esaltante campagna elettorale l’ha forse trovata ieri Rosy Bindi, ricorrendo a un’immagine assai efficace: «C’è chi attraversa lo stretto di Messina a nuoto e chi sogna di attraversarlo sul Ponte: ecco, l’Italia è in mezzo a questi due populismi... ». Non solo l’Italia, però: perché in mezzo, inevitabilmente, c’è stato (e ci resta) anche Pier Luigi Bersani, stretto tra la propaganda di Grillo e quella di Berlusconi, e tallonato - come se non bastasse - dal tecnicismo autorevole di Mario Monti.
Per intendere le insidie di quest’ultima settimana di campagna elettorale, bisogna innanzitutto ricordare che Pier Luigi Bersani era pronto - fino a Natale: e cioè non un secolo fa - a combatterne una del tutto diversa, con un campo di battaglia libero dalla presenza di Berlusconi e Monti. Quella che gli si prospettava, insomma, era una campagna decisamente in discesa: come giocare per lo scudetto senza avere Juve e Milan tra i piedi. Nel giro di una settimana o poco più, invece, lo scenario gli è radicalmente mutato di fronte: il leader Pd se ne è preoccupato, naturalmente, ma non spaventato.
Chi ha faticato di più, forse, a cogliere l’insidia delle novità intercorse, è stato il gruppo dirigente dei democrats, oggetto - è storia di una settimana fa - di una preoccupata reprimenda da parte di Massimo D’Alema (impegnatissimo nella campagna anche se non candidato): siamo partiti col piede sbagliato - ha accusato l’ex premier - e mentre noi parliamo già di ministri e sottosegretari, Berlusconi ha recuperato otto punti percentuali. Morale: «Diamoci una mossa, oppure si mette male». Il messaggio è stato recepito, ed è giorni - ormai - che l’intero stato maggiore del Pd è in giro per l’Italia a combattere una battaglia diventata più difficile di quanto previsto.
Quest’ultima settimana, Pier Luigi Bersani la attraverserà senza cambiare una virgola nello stile e nel messaggio da lanciare. Una ironia tranquilla, non cattiva: «Tra qualche giorno smacchieremo il giaguaro», ha ripetuto ieri, riproponendo una delle metafore tanto amate dal popolo Pd. E poi il profilo basso e la preoccupazione di chi sa che chi vince la partita del governo troverà bruttissime gatte da pelare: «Siamo nella crisi più profonda del dopoguerra - ha detto ieri da Lecce - dovevamo dire agli italiani come ne veniamo fuori: e non se ne viene fuori sparando stupidaggini».
Non che la tentazione non abbia fatto breccia, naturalmente: «A me mi hanno tirato per la giacca in queste settimane - ha confessato Bersani - dicendomi “sparane qualcuna anche tu”... Ma invece penso che dobbiamo tenere il profilo da forza seria: abbiamo sempre fatto quello che abbiamo detto. Favole non ne racconteremo». Ed è una scommessa, naturalmente, far leva sul senso di responsabilità (e sulla memoria) degli italiani mentre la crisi erode i bilanci familiari e tutto intorno è una tripudio di riduzione delle tasse, milioni di nuovi posti di lavoro, il ritorno della mistica del Ponte sullo Stretto e via dicendo...
Un’ultima settimana ventre a terra con la chiusura in una piazza della periferia romana e qualche appuntamento suggestivo. Quello di Palermo, per esempio (capoluogo di una delle regioni più in bilico): mercoledì tutti in piazza assieme a Matteo Renzi, che sarà pure uno che strizza l’occhio all’elettorato del centrodestra ma adesso è precisamente quel che serve. È anche lì che occorre drenare voti per sfuggire all’incombente rischio di una vittoria di Pirro: e cioè, Pd primo partito d’Italia, centrosinistra coalizione vincente ma senza numeri sufficienti per governare il Senato e dunque costretto a stipulare alleanze con Monti, sempre che il Professore riesca ad eleggere senatori a sufficienza.
Anche questo infatti è a rischio in un finale di campagna che si sta caratterizzando per la vera e propria esplosione di consensi per Beppe Grillo. Come arginarla? Bersani insiste: dicendo quel che abbiamo detto fino a ora, che è la verità. Ma anche indurendo i toni su un tema a lui caro eppure diventato un caso: l’alleanza con Nichi Vendola, attaccato da destra, da centro e perfino da sinistra. «È inutile che mi indicano “con Vendola no”, perché vuol dire con Bersani no. Esiste una coalizione, è quella lì e tutti devono rispettarla. Poi, se vinciamo, gli altri vedranno cosa intendono fare, se vogliono rispondere alla nostra disponibilità al dialogo o hanno delle preclusioni». Il dado, anche l’ultimo, è tratto: non è un prendere ma ci va vicino. E decidano gli altri, appunto, cosa fare...

Corriere 17.2.13
«Conclave» e «cavalli», così il web aggira il divieto


Mascherati i nomi dei capi coalizione, l'ex premier diventa Varenne e Bersani il bonario cardinale di Piacenza
Su Internet
Per aggirare il silenzio elettorale sui sondaggi, il sito notapolitica.it pubblica gli ultimi aggiornamenti sotto forma di corse di cavalli
L'ex trottatore
Silvio Berlusconi, ad esempio, diventa Varenne, il cavallo italiano re del trotto mondiale

MILANO — Nelle segrete stanze del Vaticano o al trotto sulla pista dell'ippodromo, le percentuali dei partiti su Internet si camuffano così. Dalla mezzanotte del 9 febbraio è scattato il divieto di pubblicare sondaggi, ma la legge non ha fermato quei siti online patiti di dati e organizzati di conseguenza. L'ultimo report di youtrend.it, ad esempio, riguarda la conquista del Nordest, con il post del 13 febbraio «Voci dal Conclave: rilevazione sui candidati in Veneto»: i protagonisti «porporati» sono «il bonario cardinale di Piacenza» (Bersani), «il vulcanico cardinale di Monza e Brianza» (Berlusconi), «il sobrio cardinale di Milano, decano uscente del collegio cardinalizio» (Monti), «l'irruente camerlengo di Genova» (Grillo), «l'imperturbabile grand'Inquisitore del Sant'Uffizio di Palermo» (Ingroia) e «l'estroso ecclesiarca di Mirafiori» (Giannino). Ecco i risultati sul Veneto, «il patriarcato di Venezia»: il distacco tra Monti e Berlusconi «si sarebbe più che dimezzato, attestandosi intorno ai 2-3 voti (era pari a 9 cardinali 2 settimane fa). A guadagnarci sarebbero l'ecclesiarca di Mirafiori e ancor più il camerlengo pentastellato di Genova, che avrebbe superato di gran lunga quota 20 secondo gli ultimi conteggi».
Su notapolitica.it, invece, gli aggiornamenti arrivano dall'«Ippodromo San Nicola» e anche qui la decrittazione è immediata, con Bersani primo, Berlusconi secondo e Monti terzo: «La scuderia Bien Comun chiude agevolmente prima, distanziando di 6 lunghezze la rivale Maison Liberté. Molto buona la prova di Fan Idole che corre il miglio in 30 secondi netti. Varenne non va malissimo ma è lontano dalla forma dei giorni migliori: con 19 secondi traina la sua scuderia ma manca dello sprint finale per coronare la rimonta. Al centro della pista svetta Ipson de la Boccon: 10 secondi il suo tempo al traguardo».

Corriere 17.2.13
Gli analisti divisi sul «coprifuoco demoscopico»
Mannheimer: è una regola sbagliata tutti chiamano per conoscere i numeri
Piepoli: il divieto c'è e va rispettato
di D. Mart.


ROMA — Renato Mannheimer conferma che in questi giorni di «coprifuoco demoscopico» arrivano agli istituti specializzati molte richieste: «Non solo dai partiti, ma anche dalle grandi banche, dalla finanza internazionale... Tutti vogliono sapere come andranno le elezioni e, sinceramente, non mi capitava questo tipo di assalto informativo dai tempi in cui c'era la lira...». Per cui i sondaggi vengono commissionati dai clienti istituzionali e non, che poi, se lo ritengono opportuno, li fanno circolare all'interno delle rispettive strutture e magari fanno in modo che qualche dato sensibile arrivi anche all'esterno: «Per questo — chiosa Mannheimer — credo che questa norma su un divieto lungo 15 giorni sia sbagliata perché i sondaggi si fanno lo stesso e circolano comunque. Tanto vale renderli riconoscibili e tracciabili per evitare i dati falsi e fortemente inattendibili. In America i sondaggi vengono diffusi anche il giorno del voto».
Il black out di due settimane può alimentare, dunque, un vero mercato nero. Come con il proibizionismo, osserva il sondaggista indipendente Marco Bocconi, talvolta circolano prodotti poco riconoscibili: «Magari sondaggi fatti in casa su campioni di 300-500 intervistati che, francamente, non significano nulla per quanto riguarda l'ampiezza del campione contattato». Prima che scatti il divieto, chi diffonde i sondaggi deve, per così dire, seguire la procedura prevista in pubblicità per i medicinali: vale a dire, indicare ai telespettatori e/o ai lettori chi fa le rivelazioni, con quale metodo, con che tipo di campione. Bene, tutta questa procedura non può essere ovviamente rispettata nel periodo di «coprifuoco» per cui è difficile poi risalire alla fonte.
Nicola Piepoli parla, senza troppi giri di parole, di «malvezzo di Silvio Berlusconi che usa i sondaggi come mezzo di lotta politica: ma il Cavaliere prima o poi sarà preso con le mani nel sacco...». Dunque, insiste Piepoli, «io sono legalista: se il divieto c'è, va rispettato...». Chi invece non lo osserva «sa bene che di dati probabili forniti dagli istituti di ricerca ce ne sono molti e che molteplici sono i correttivi utilizzati per rendere attendibili i numeri grezzi». Tanto per fare un esempio, spiega Piepoli, per le liste del cosiddetto «Pianeta dello "stato nascente della politica", secondo una felice definizione di Alberoni, lo strumento attraverso il quale si pongono le domande fa la differenza». In altre parole, per stimare il risultato del Movimento Cinque Stelle conta se si usa il telefono fisso o il telefonino per raggiungere gli intervistati: con la rete mobile i punti percentuali in più per Grillo sono 4.

l’Unità 17.2.13
Prepensionare  per offrire 90mila posti
di Enrico Rossi

* Presidente Regione Toscana

POLITICA E ISTITUZIONI NON POSSONO RIMANERE CON LE MANI IN MANO DI FRONTE AL RECORD DELLA DISOCCUPAZIONE giovanile, che a novembre ha raggiunto il 37,1%. La più alta percentuale dal ’92, con un trend di crescita di 5 punti in un solo anno. Il fatto che il problema non interessi solo l’Italia ma tutta l’Europa non è per noi di alcun conforto, anche perché la situazione italiana è peggiore della media, con più di un giovane ogni tre senza lavoro.
La Toscana sta un po’ meglio: ogni quattro giovani tra i 15 ed i 24 anni che cercano lavoro, uno non lo trova e gli altri tre, quando va bene, sono costretti ad accettare condizioni lavorative molto distanti dai loro progetti. Proseguendo di questo passo c’è la certezza che una generazione si perda, che resti fuori dal lavoro e dalla vita sociale.
Fermare e invertire questa deriva è la priorità. Politica e istituzioni devono fare subito qualcosa di concreto. In Toscana da circa due anni stiamo sperimentando il progetto GiovaniSì, che ha coinvolto 50mila giovani con tirocini e praticantati retribuiti, contributo per l’affitto a chi esce dalla casa dei genitori, servizio civile regionale, aiuti per avviare attività autonome, nelle professioni, nel manifatturiero e in agricoltura.
Il progetto ha dimostrato di funzionare e potrebbe essere adattato ed esteso al resto del Paese. Dobbiamo poi continuare a batterci per modificare il comportamento dell’Europa, che continua a perseguire una politica depressiva, di forte austerità, affidando la crescita solo alle esportazioni extra-Ue. Ma tutto questo non basta. Bisogna fare di più e senza attendere i necessari cambiamenti delle politiche economiche. Occorre partire subito, anche con piccole iniziative, purché concrete e in grado di dare risposte a questa esigenza prioritaria.Avanzo una proposta: si possono creare alcune migliaia di posti di lavoro, a costo zero, nella pubblica amministrazione. So bene che in questi anni la propaganda della destra liberista e populista ha fatto di tutto per svilire il lavoro della Pa, dipingendola come un ricettacolo di assistenzialismo inefficiente e costoso. In realtà i dati dimostrano che in Italia abbiamo un numero di addetti proporzionalmente non superiore a quello di altri Paesi. Penso che sia possibile e necessario intervenire per recuperare efficienza e produttività, restituendo alla nostra amministrazione il suo ruolo di fattore essenziale per la competitività.
Poter assumere un certo numero di giovani aiuterebbe a risolvere questi problemi, assicurando il necessario ricambio con energie fresche e adeguatamente formate e motivate. Soprattutto se si riuscisse a farlo senza aggravare i conti pubblici.
Con l’aiuto degli uffici regionali e dell’Irpet (il nostro istituto di ricerca in materia di economia) ho provato a fare due conti: in Toscana ci sono quasi 210mila dipendenti pubblici il cui costo medio è di circa 32mila euro a testa; prima della riforma pensionistica 20mila di questi lavoratori si aspettavano di andare in pensione nel giro di tre anni, mentre oggi sono costretti a prolungare la loro attività lavorativa. Se gli consentissimo di andare in pensione supponiamo sempre nei prossimi tre anni (quindi 6-7mila l’anno) il costo per ognuno di loro scenderebbe a circa 24mila euro, con un risparmio netto di 8mila euro. Ogni tre lavoratori in pensione si recupererebbero 24mila euro, pari pari il costo di un giovane appena assunto. Risultato: in tre anni avremmo l’uscita «anticipata» di 20mila dipendenti pubblici che consentirebbero l’ingresso di circa 7mila giovani.
Se proiettiamo questi dati della Toscana sul piano nazionale potremmo offrire ripeto, a costi invariati un’opportunità di lavoro a circa 90mila giovani, una bella iniezione di energie vitali nell’amministrazione pubblica. Certo, non risolutiva, ma sufficiente a ridare un po’ di fiducia ad una generazione che rischia inevitabilmente di perderla.

l’Unità 17.2.13
Camusso: nuovi modelli per i contratti
I giovani democratici incontrano i loro candidati e presentano con reti e associazioni le proposte sul lavoro
di Mario Castagna

Si tirano le somme al centro congressi Frentani. I Giovani Democratici si ritrovano, dopo quattro anni di attività politica, per un bilancio insieme alla dozzina di parlamentari che provengono dalla loro organizzazione che verranno eletti nelle liste del Pd alle prossime elezioni. E con le decine di associazioni, reti, coordinamenti di precari e di giovani professionisti con cui hanno costruito la campagna Alta Partecipazione si ritrovano alla fine di questa lunga camminata tra le condizioni di vita dei giovani italiani. Un esperimento, piuttosto riuscito, di nuove relazioni tra partiti e attivismo sociale, che si é concluso ieri con una grande assemblea che ha visto la partecipazione di centinaia di ragazzi.
L’Associazione nazionale archeologi, la rete degli studenti, la Link coordinamento universitario, l’associazione Giosef, la fondazione Benvenuti in Italia, e tante altre associazioni, hanno voluto sottoscrivere, con i giovani candidati alla Camera dei Giovani Democratici, l’elenco delle loro proposte. E tutti hanno voluto mettere la firma sul grande striscione che all’ingresso ras-
sumeva il lungo elenco di proposte. E a siglare questo patto ieri c’erano anche Stefano Fassina, Matteo Orfini e Susanna Camusso, oltre a centinaia di ragazzi venuti da tutta Italia.
Ad aprire la giornata è stato Fausto Raciti, segretario nazionale dei Giovani Democratici, che ha rivendicato con forza i risultati positivi dei Gd alle primarie per i parlamentari: «I tanti giovani che il Pd porterà in Parlamento non costituiscono solo un importante dato di cambiamento anagrafico ma sono anche il simbolo e il risultato di un impegno collettivo costruito in anni di lavoro. Siamo i garanti del cambiamento, quelli che chiuderanno 20 anni di berlusconismo: tra le priorità l’approvazione di uno statuto del lavoro autonomo, il rilancio di vere politiche industriali soprattutto nel Sud e investimenti veri in innovazione e ricerca, che non sono un costo ma una
necessità».
Ai tanti che accusano il Pd di aver messo ai margini della campagna elettorale le condizioni di vita delle giovani generazioni, Stefano Fassina ha voluto rispondere con l’orgoglio di chi in questi mesi ha voluto conoscere veramente il disagio dei giovani italiani: «Forse sono stati messi ai margini dai talk-show televisivi, ma non dal Partito democratico. Per ricostruire il Paese servono soluzioni. Noi veniamo da vent’anni di soluzioni improvvisate, affidate a uomini della provvidenza. Questa volta bisogna scegliere il Pd, perché solo i percorsi democratici offrono risposte concrete».
Susanna Camusso invece ha fatto anche autocritica rispetto al ruolo del sindacato nella tutela dei precari. L’ha chiamata contrattazione inclusiva, a dimostrare che nei nuovi contratti che la Cgil firmerà nei prossimi mesi, verranno incluse anche migliori condizioni di lavoro per precari e lavoratori autonomi. E la segretaria generale della Cgil sa bene che la strada è in salita anche per le divisioni che il mondo del lavoro ha al suo interno: «Questo è un paese in cui sono chiare le divisioni ma non é chiaro l’orizzonte e la direzione di marcia. Bisogna trovare un meccanismo di solidarietà dentro il modo del lavoro. É complicato chiedere a chi ha garanzie di tutelare anche chi non le ha. È per questo che é un passaggio essenziale individuare un nuovo modello di contrattazione».
IL PRIMO MATTONE
E ieri da Roma è stato posato il primo mattone di questa nuova costruzione. Ma soprattutto è stata lanciata una sfida a chi conclude ogni decisione con un laconico «non ci sono soldi». Quasi una litania che questi ragazzi sentono da molti anni, più di quanti essi ne abbiamo passati nella politica attiva. Invece non sono pochi coloro che citano gli investimenti in formazione, nell’innovazione e nella ricerca come l’unica soluzione per uscire dalla crisi, un investimento che non può essere tagliato. Molti dei ragazzi che entreranno in parlamento il prossimo mese ci arriveranno direttamente dalle aule universitarie. E faranno un salto nell’età adulta, nonostante qualcuno li considererà poco più che bambini per almeno altri 20 anni.

l’Unità 17.2.13
Nadia Urbinati
La politologa, tra i firmatari dell’appello per il centrosinistra:
«Voto utile? No, voto intelligente e stabile. Con Ingroia nessun patto»
«Solo un Pd forte può fare riforme giuste»
intervista di Federica Fantozzi


Nadia Urbinati perché ha firmato l’appello per il voto a favore del centrosinistra? Quali sono le sue preoccupazioni? «Il mio principale timore è la frammentazione del voto a sinistra. Non è un appello al voto utile, visto che ogni voto lo è, bensì al voto intelligente. Strategico. Razionale. Bisogna considerare il nostro sistema elettorale ed evitare la perdita di rappresentatività. Anche dal punto di vista dello scopo: servono un governo e una maggioranza forti».
Se, invece, alla fine il Pd non fosse nelle condizioni di «dirigere il traffico»?
«A mio avviso, ci sono tutte le condizioni per tornare a votare poco dopo. È questo il motivo dell’appello. Bisogna rafforzare il centrosinistra per rendere più stabile l’eventuale alleanza con il centro. Altrimenti saranno più facili rotture, incomprensioni e tensioni a sinistra. Con il rischio concreto di elezioni anticipate».
Al di là della loro consistenza numerica, come giudica le nuove forze in campo, da Grillo a Ingroia a Giannino?
«Sono ovviamente diverse. Il M5S e Rivoluzione Civile sono movimenti demagogici e populisti. Usano uno scontento giustificato e argomenti veri per una proposta che non è né potrà mai essere di governo. E’ irragionevole pensare che Ingroia diventi premier». Però ha appena annunciato la squadra. lui premier con l’Interim alla Giustizia, Travaglio all’Informazione, Giacché all’Economia.
«Certo, non può dire che si presenta per quindici deputati, ma è uno scenario senza fondamento. Irragionevole. Queste piccole formazioni fanno azione di contrasto per non consentire una maggioranza stabile e duratura. Vogliono mantenere sempre i giochi aperti. La democrazia lo consente, ma lo schema deve essere ciclico: ogni cinque anni, non in ogni momento».
Lei esclude, dopo il voto, la possibilità di un’intesa con Ingroia? «Assolutamente sì. Già sarà complicato in queste condizioni fare un accordo con Monti, figurarsi con frammenti radicali che rappresentano scontento popolare e dissociazione rispetto all’establishment politico».
Queste forze potranno avere, nel prossimo Parlamento, una funzione utile di cane da guardia rispetto ad abusi dell’«establishment politico»?
«E’ la funzione dell’opposizione. Ma se è frammentaria e debole non funziona. Nel nostro sistema elettorale troppi cani da guardia finiscono per abbaiare ma non mordere. L’unico effetto è rendere difficile la governabilità. La situazione dell’Italia è molto difficile».
Che pronostico fa per Grillo? Come sarà il nuovo Parlamento contaminato dalla società civile?
«Grillo è un fenomeno ben più grosso di Ingroia. Ed è un’incognita reale. Cosa faranno i grillini in Parlamento? Dove andranno? Che proposte faranno? Nessuno lo sa»
La “salita” in campo di Monti lha migliorato o peggiorato lo scenario italiano?
«Il suo passaggio da tecnico a politico ha significato varie cose. La neutralizzazione del bipolarismo, intanto, che rende la strada del futuro governo più ardua».
La scelta del premier l’ha delusa?
«È un paradosso: alla fine è diventato un fattore destabilizzante anche lui. A modo suo ha contribuito a quell’ingovernabilità che voleva combattere. Poi, per rastrellare più voti, deve attaccare un giorno a destra e un giorno a sinistra».
Al di là della tattica, non crede che l’interlocutore di Monti sia Bersani?
«Se il centrosinistra sarà più forte sì. Altrimenti sarà il centrodestra. Non vuole essere di parte. Vuole fare l’ago della bilancia. E deve prendere peso: con il 10% Monti è un soffio, non potrà imporre i temi della sua agenda». Non crede che la presenza in campo di Monti, come contraltare alla sinistra, porterebbe in un eventuale maggioranza a una condivisione di responsabilità per il Pd in un momento molto complicato in cui è facile fare errori?
«Questo tipo di ombrello funziona fino a un certo punto. Al momento di decisioni forti, positive o negative, non si può delegare ad un alleato. Col senno di poi, tutto parte dal novembre 2011: il voto avrebbe chiarito le cose. È come se l’Italia avesse paura dell’alternanza: fa di tutto per cercare mediazioni e compromessi. Che vanno anche bene: ma dopo, non prima».
Con un Pd forte e un centrosinistra stabile, invece, ci sarebbero le condizioni per una legislatura capace di fronteggiare la crisi e fare le riforme strutturali che servono all’Italia?
«È difficile dirlo. Non credo alle svolte, la democrazia procede in direzione riformista ma non è un sistema rivoluzionario. Certo, in quel modo sarebbero più facili scelte coraggiose come contenere il dogma dello spread e reindirizzare le politiche dell’Unione Europee».
In che direzione dovrebbe andare l’Europa?
«Le decisioni che privilegiano l’austerity e i sacrifici economici non sono le più convincenti per noi. Ma è ovvio che in assenza di un contraltare a Cameron e Merkel si va a finire lì. Un nuovo sistema di alleanze, invece, sarebbe in grado di contenere la frana liberista».

il Fatto 17.2.13
Cinema e realtà
Il Paese delle sedi vacanti e dei poteri nascosti
di Furio Colombo


Mi nasconderò al mondo” ha detto l’ex Papa a un’assemblea di preti romani che hanno accolto con uno scroscio lunghissimo di applausi la strana frase. Sono in tanti ad applaudire, in piedi, con forza, benché non sappiano esattamente che cosa è accaduto e perché.
È ciò che accade in un film uscito da pochi giorni, con il titolo solo apparentemente celebrativo di Viva la libertà. Quando andrete a vederlo (un’esperienza inevitabile, perché parla di noi, adesso) non dimenticate che è stato scritto (nel libro Il Trono vuoto) e girato, prima della drammatica e misteriosa fuga del Papa. Vuol dire che l’autore del libro e del film, Roberto Andò è un profeta, che (come Nanni Moretti con il suo Habemus Papam) ha visto prima del tempo quell’avvicendamento impossibile? O forse vuol dire che alcune persone attente e sensibili hanno toccato prima di altri il muro che costringe un intero Paese a una lunga fermata? Il fatto interessante, nel film di Andò, è che la storia è subito quella che deve essere e che ci tormenta: la politica senza voce, senza volto, senza sbocchi, imprigionata in una routine fra rito e interessi personali, fra celebrazioni e convenienze che, come in Vaticano, rendono impossibile qualunque gioco.
LA STORIA è questa (e non importa che sia profetica, importa che stia narrando la nostra vita di adesso molto meglio delle più accurate notizie quotidiane): il capo del più grande partito di opposizione, proprio nel più difficile e delicato momento elettorale, scompare. È una fuga, è la decisione di uno che vuole scomparire dalla vita pubblica, perché non sa tener testa, per esempio, all’accusa, che gli viene gridata all’inizio, di non avere voce, di non avere coraggio, di non avere forza – e dunque volontà – per guidare chi ha fiducia in lui. Qui comincia una storia fantastica che però è fortemente verosimile perché è una grande parabola, tra sogno e speranza, del tempo che stiamo vivendo. Si scopre che l’uomo che fugge ha un fratello gemello tanto estroverso e impetuoso e aggressivo e coraggioso e franco, quanto il fuggitivo era propenso a sottrarsi. Il senso è chiaro. I cittadini non stanno cercando una nuova fede o una diversa ideologia. Cercano una nuova voce. Questa nuova voce infatti, quasi di colpo, prima fa alzare la testa agli esperti, poi riempie le piazze. Perché? Perché non parla nel vuoto, perché mostra di avere scoperto che la politica siamo “noi”. E che nessun “io” ha il privilegio di sapere da solo qual è la strada. Perché è diretta: riconosce gli errori. Perché è chiara: si rende conto della solitudine e lo dice. Perché è coraggiosa. E lo dimostra pronunciando senza sotterfugi la parola “paura”. Solitudine e paura, questo capisce il fratello gemello del candidato in fuga, che non ha mai “fatto politica”. Viene da una casa di cura per malattie mentali, dove medicine e cure ti abituano all’idea che star bene vuol dire avere coraggio.
L’autore-regista non ci dice se il coraggio viene dalle medicine o dalla guarigione o da un mix misterioso fra leader e cittadini. Ma c’è, e la gente lo sente. E sente che è finito lo svicolare dietro il gergo deliberatamente non chiaro detto “politichese” che protegge solo chi lo usa, perché dice e non dice, e persino le promesse (per non parlare della visione del futuro) restano nebbia e non vincolano nessuno. Con il nuovo venuto, che fra i cittadini e la macchina politica sceglie senza esitazione i cittadini e si fa trovare, con immensa sorpresa dei “professionisti della politica”, dalla loro parte, c'è un mare di gente e un mare di vita.
È COME un risveglio magico dopo un incantesimo. Ma il film (come la narrazione) di Andò, allo stesso tempo lieve come un sogno e pesante come uno studio sociologico sul rapporto fra cittadini e potere, mostra anche l’altra faccia del miracolo: il vero politico ha trovato un rifugio in una vita normale e lontana in cui ci sono affetti, legami, persone, lavoro. Un mondo umano colmo di vibrazioni umane (dette, prima degli anni Sessanta, “sentimenti”) che dal palco della politica non si vede, dunque al quale un politico professionista non ha nulla da prendere e nulla da offrire.
La strana favola del film ci fa assistere a una doppia trasformazione: il gemello splendido e pazzo sta per uscire di scena, una scena politica che non conosceva e che ha dominato perché ha capito subito che la richiesta più grande è l’intenso calore che emana da qualcuno che davvero pensa quello che dice e dice con coraggio ciò che allontana la solitudine e la paura. Il politico, che era fuggito, sta per tornare, ma è un altro. Ha toccato la vita e forse questo fatto strano e raro lo ha cambiato per sempre. Forse. Deve chiudersi con ambiguità, questa storia. Qualcuno ci guarda con un sorriso e non sappiamo se sia il pazzo che ormai la gente adora, o il ben calibrato segretario di partito che ha perduto la misura politica che rende sterile tutto ciò che tocchi, e ha acquistato la misura umana, poiché ha visto e sfiorato la solitudine e la paura. È ambigua la fine, l’ultima scena, affinché la strana, bellissima storia non resti un apologo e lasci spazio a una sorta di speranza. Chissà, nell’epoca della sparizione dei Papi, tutto potrebbe succedere.

l’Unità 17.2.13
Pensioni, crollo verticale del potere d’acquisto
Rapporto Spi Cgil: in 15 anni perso il 33% mentre il valore medio degli assegni registra il 5% in meno
La riforma Fornero blocca la rivalutazione e in due anni sottrae 1135 euro a 6 milioni di pensionati
Cantone (Spi): «È una patrimoniale che grava su una parte del Paese Ora tocca a chi ha di più»
di Felicia Masocco


Le pensioni valgono sempre meno, il loro valore nominale, cioè l’importo degli assegni, è congelato o comunque cresce a passo di lumaca rispetto al caro-vita, ai rincari dei prezzi di beni e servizi e delle tariffe. Lo Spi, il sindacato dei pensionati della Cgil, ha calcolato che negli ultimi 15 anni il potere d’acquisto delle pensioni è precipitato, perdendo il 33%, la bellezza di un terzo. Nello stesso periodo il valore medio di una pensione è calato del 5,1%. È un dato pesantissimo, tanto più se si considera che le pensioni degli italiani non sono da nababbi.
Nel prossimo futuro non andrà meglio. La situazione denuncia lo Spi è destinata a peggiorare a causa del blocco della rivalutazione annuale introdotto con la riforma Fornero, che ha alleggerito 6 milioni di pensionati di 1.135 euro (in media) in due anni. Qualche esempio: un anziano con un assegno di circa 1.200 euro netti ha perso 28 euro al mese nel 2012 e nel 2013 ne perderà 60, mentre chi percepisce una pensione di circa 1.400 euro netti ha perso 37 euro al mese nel 2012 e ne perderà 78 nel 2013. «Come se non bastasse continua lo Spi nel 2013 tasse e tariffe saranno alle stelle e incideranno sui pensionati italiani per una spesa media totale di 2.064 euro pro capite, il 20% in più rispetto al 2012».
IL PROSSIMO GOVERNO SI MUOVA
Per le tasse tra addizionale regionale Irpef, addizionale comunale, Imu e Tares se ne andranno infatti mediamente 640 euro, il 12% in più rispetto al 2012. Per quanto riguarda invece le tariffe la spesa media sarà di 1.424 euro tra telefonia fissa, acqua, luce, gas e riscaldamento. Pesano inoltre il canone Rai e l'aumento dal 22% al 23% dell'Iva che scatterà il prossimo luglio.
Tutto questo mentre fioccano argomenti più o meno accattivanti sul perché e il per come non colpire i redditi più alti con una patrimoniale che sarebbe iniqua e dannosa viene spiegato per l’economia. «In Italia la patrimoniale c’è ed è quella che grava sui pensionati, che più di tutti stanno pagando il conto della crisi taglia corto la leader dello Spi, Carla Cantone Sarebbe bene che il prossimo governo la facesse pagare ai ricchi, che invece poco o nulla stanno contribuendo alle sorti del Paese».
Al governo che verrà lo Spi non chiede la luna ma alcuni interventi da mettere in cantiere subito per sottrarre al rischio povertà una consistente fetta del Paese. Quindi: rimuovere il blocco della rivalutazione annuale, alleggerire il carico fiscale e rilanciare welfare e sanità. Buon senso e buona amministrazione: e se non bastassero, Carla Cantone ricorda che «i pensionati rappresentano il 25% degli elettori e a votare ci vanno eccome».
Molte di queste proposte si ritrovano già nei programmi elettorali, quantomeno dei partiti di sinistra. Il Pd (con Stefano Fassina), Sel (con Titti di Salvo) e poi Rivoluzione Civile (con Antonio Ingroia), commentano con allarme il dossier dello Spi e raccolgono la necessità di agire con sollecitudine. «Si tratta di una grave emergenza sociale», commenta Fassina, «nel programma di governo del Pd c’è l'impegno a riavviare un tavolo di discussione con le rappresentanze dei pensionati al fine di arrivare a soluzioni, nella gradualità imposta dai vincoli di bilancio, sia per l’emergenza potere d'acquisto sia per rispondere ai problemi e cogliere le opportunità della transizione demografica in corso».
«Siamo di fronte ad una ingiustizia e anche ad un errore grossolano perché riducendo pensioni e salari, dalla crisi non siesce-gli fa eco Di Salvo -Noi di Sinistra Ecologia Libertà vogliamo cambiare pagina e lo faremo con il centrosinistra e senza badanti». Rivoluzione Civile, infine, ricorda la sua proposta di un’imposta patrimoniale da fare pagare ai super ricchi per ridurre le tasse su stipendi e pensioni».

l’Unità 17.2.13
Carceri sovraffollate Bisogna intervenire
di Sandro Favi

Responsabile carceri del Pd

«NON POSSIAMO RASSEGNARCI ALLA LOGICA: O L’AMNISTIA O NIENTE». C’è anche questo nell’appello accorato di Giorgio Napolitano, che pur rispettoso delle prerogative delle istituzioni e del ruolo delle forze politiche, le chiama a rispondere responsabilmente del dramma che si consuma nelle nostre carceri, per restituire all’Italia l’onore macchiato dalle condanne della Corte di Strasburgo, che ora ci concede un anno per intervenire sull’intollerabile sovraffollamento che le affligge.
Il Pd è convinto che si può fare. Ed anche  presto e bene. Si può restituire dignità e senso di umanità alle condizioni della detenzione agendo in una logica di sistema, a partire dalla cancellazione della legislazione che più pesantemente ha contribuito ad accrescere i tassi di incarcerazione come la legge ex-Cirielli che ha introdotto abnormi inasprimenti di pena e ingiustificate preclusioni alla concessione delle misure alternative per i recidivi reiterati; con l’abrogazione del reato di ingresso e di soggiorno illegale nel territorio dello Stato; con la modifica della legge Fini-Giovanardi, tale da favorire l’affidamento terapeutico dei tossicodipendenti condannati per reati di minore entità ovvero con misure cautelari, per loro, a basso impatto segregante.
Una serie articolata di misure incisive sul sovraffollamento delle carceri, che anche una commissione mista Csm-ministero della Giustizia e magistratura di sorveglianza (meglio conosciuta come commissione Giostra), ha puntualmente individuato e di cui una buona parte potrebbe essere adottata con un decreto legge i cui presupposti di costituzionalità ed urgenza ci sono tutti.
Occorre, poi, un intervento sulle norme della custodia cautelare, eliminando le ipotesi che ne prevedono l’obbligo in base al tipo di reato e non per le strette esigenze di tutela processuale, anche per adeguarsi alle ripetute dichiarazioni di illegittimità della Corte costituzionale, che giustifica l’obbligatorietà solo nelle ipotesi di reati di mafia o di terrorismo Bisogna, inoltre, introdurre più stringenti criteri di chiara indispensabilità e di adeguata motivazione, oltre che di limitazione della durata, in rapporto al principio di massima speditezza delle indagini e del giudizio. A tale scopo, si possono estendere le misure cautelari coercitive ed interdittive, limitando ancora di più il ricorso alla custodia cautelare in carcere, per la quale abbiamo in Italia un tasso di maggiore spread rispetto ai Paesi europei nostri omologhi.
La sola amnistia finirebbe per avere un più limitato impatto sul sovraffollamento penitenziario, perché si applicherebbe a reati che prevedono pene massime fino a tre o quattro anni di reclusione, ma che nella pratica giudiziaria determinano sanzioni molto minori e comunque per reati diversi da quelli che, in concreto, portano ai grandi numeri di persone in carcere.
Puntiamo, invece, decisamente ad un ampliamento e ad un potenziamento delle misure alternative al carcere dotandole di risorse, di professionalità, di supporto, di opportunità concrete di reinserimento sociale. Un’area dell’esecuzione penale che in Europa viene considerata più efficace per la riduzione di alcuni fenomeni di illegalità e della recidiva di reato.
Si può riprendere la previsione di sospensione del procedimento penale con messa alla prova dell’imputato, un istituto che ha dato una buona prova di efficacia in ambito minorile e, per questo, particolarmente idoneo per i giovani adulti, che incorrono in quelle aree dell’illegalità, dalle quali possono essere più precocemente ed utilmente sottratti.
Si deve recepire, finalmente, la direttiva europea per l’introduzione del reato di tortura, come recentemente ha ribadito Pier Luigi Bersani, rispondendo alle puntuali domande di Amnesty International.
Infine, riteniamo che per dare sostanza all’articolo 27 della Costituzione, sia necessario chiamare a raccolta le migliori energie e risorse del Paese, per mettere in campo una strategia per l’inserimento lavorativo, per il diritto allo studio, per la formazione professionale, per l’assistenza socio-familiare, per la cura e la riabilitazione dalle tossicodipendenze e dalla sofferenza psichiatrica, coordinando gli interventi dello Stato, del Servizio sanitario nazionale, delle Regioni e degli enti locali, dell’imprenditoria e del volontariato.

Repubblica 17.2.13
La Regione degli sprechi: 15 milioni di premi illegittimi
La Ragioneria dello Stato: dubbi sulle assunzioni
di Mauro Favale


ROMA — La Regione degli scandali è anche una Regione fuori legge: spese cresciute a dismisura, bilanci poco chiari, società partecipate in crisi, violazione delle norme sull’assunzione del personale, premi assegnati illegittimamente a dirigenti, senza che venissero fissati gli obiettivi da raggiungere. Un lungo elenco di irregolarità, violazioni e discutibili aumenti di costi avvenuti nel Lazio tra il 2007 e il 2011, tra la seconda metà dell’amministrazione guidata da Piero Marrazzo e i primi due anni di quella presieduta da Renata Polverini.
Prima ancora di Franco Fiorito e di Vincenzo Maruccio, prima dello svelamento del sistema dei fondi ai gruppi consiliari che ha visto entrare a Regina Coeli l’ex capogruppo del Pdl e l’ex capogruppo dell’Idv, il Lazio, dunque, era già finito sotto accusa: due ispettori della Ragioneria dello Stato sono stati inviati lo scorso giugno a fare le pulci ai bilanci e alle spese per il personale della macchina regionale. Con risultati disastrosi, trasmessi all’inizio di quest’anno alla procura presso la Corte dei Conti: una relazione dettagliata di oltre 300 pagine che rappresentano un cahier de doléances firmato da due ispettori, Luciano Cimbolini e Vito Tatò.
I documenti elaborati fotografano la situazione di una Regione che si ritrova sulle spalle il fardello di un indebitamento complessivo di 11 miliardi di euro e di un deficit sanitario di 700 milioni. Gli ispettori della Ragioneria sono andati a scavare attorno a queste macro cifre, scoprendo che, in 5 anni, la spesa per le consulenze del Consiglio è cresciuta del 493% (da 1,35 a 8 milioni di euro), quella per posta, telefoni e cancelleria segna un +226% (da 10,8 milioni a 35,2), quella per il funzionamento dei gruppi consiliari + 35% arrivando ai 14 milioni del 2011. Inoltre, come se non bastasse, c’è la parte dedicata alle spese per il personale, con giudizi pesantissimi. Scrivono gli ispettori: «Risulta evidente come gli atti regolamentari e amministrativi abbiano sconfinato oltre il limite dell’autonomia decisionale e organizzativa regionale, per superare i cogenti limiti individuati dalle norme statali e contrattuali in materia di gestione e trattamento economico del personale ». Tra il 2007 e il 2010 la Regione Lazio ha utilizzato 6 milioni e 300 mila euro per «finanziare illegittime procedure di stabilizzazione» degli LSU, i lavoratori socialmente utili. Ancora: c’è stata una «illegittima corresponsione ai titolari di posizioni organizzative e di alta professionalità, della retribuzione di risultato in assenza della prescritta preventiva assegnazione degli obiettivi da raggiungere per complessivi 15 milioni e 250 mila euro nel periodo 2007-2012».
Laconico il commento degli ispettori: «Appare evidente che, anche per i titolari di incarichi di posizione professionale e di alta professionalità, la corresponsione della retribuzione di risultato non sia stata fondata su una puntuale verifica del grado di raggiungimento di obiettivi preventivamente assegnati» ma si sia trasformata in «un incremento generalizzato della retribuzione mensilmente percepita».
Tra le tante violazioni, poi, c’è quella che riguarda la modalità con cui vengono conferiti gli incarichi dirigenziali: in tantissimi casi, tra Consiglio e giunta, non sono state effettuate le prescritte procedure selettive, molti dirigenti non sono laureati, il numero limite di assunzioni viene costantemente superato, e viene superata anche la durata massima dei contratti. Così, tra un’irregolarità e l’altra, il Lazio va alle urne tra una settimana. A chi arriverà, il compito (che gli ispettori definiscono «ineludibile») di «riportare la gestione in linea con le regole e i limiti previsti a livello nazionale, anche per ottenere risparmi di spesa che consentirebbero di rispettare in modo più agevole i vincoli di finanza pubblica».

Repubblica 17.2.13
La normalità della corruzione
di Guido Crainz


PER RISCOPRIRE le cricche e le banconote nascoste in un pacchetto di sigarette, o la risata di un imprenditore nella notte del dolore aquilano: da Tangentopoli, insomma, non eravamo mai usciti, e riprese poi una slavina che non ha risparmiato quasi nessuna istituzione o parte politica. Quasi nessuna area del Paese. E siamo ora a chiederci che cosa non abbiamo compreso del nostro passato e che cosa semmai è cambiato: da dove nasce cioè una violazione quotidiana della legalità che non riguarda più solo la politica.
Era prevedibile, purtroppo, come era stato prevedibile quel che le indagini di Mani Pulite misero in luce. Italo Calvino aveva descritto lucidamente la realtà già nel 1980, in un “Apologo sull’onestà nel Paese dei corrotti” dall’inizio fulminante: «C’era un Paese che si reggeva sull’illecito ». Calvino proseguiva: «Nel finanziarsi per via illecita ogni centro di potere non era sfiorato da nessun senso di colpa perché (…) ciò che era fatto nell’interesse del gruppo era lecito, anzi benemerito, in quanto ogni gruppo identificava il proprio potere col bene comune; l’illegalità formale, quindi, non escludeva una superiore legalità sostanziale ». Una illegalità profondamente interiorizzata, dunque, e quasi “sincera” nella sua arroganza: di qui il carattere drammatico che il disvelamento talora ebbe, le crisi laceranti che talora indusse. “Rivelava” le conseguenze di una lotta per l’occupazione dello Stato e dell’economia condotta negli anni Ottanta da partiti sempre più privi di progetti e ragioni ideali (lo analizzava con dolente lucidità uno storico attento ai valori etici e civili come Pietro Scoppola). Sullo sfondo, allora, un Paese immerso nei falsi bagliori di una “modernità” basata su consumi e arricchimenti sfrenati, artificialmente alimentati da un debito pubblico che ingigantiva. Un Paese che si illudeva di poter sperperare senza pagare dazio: e dilapidava così non solo il proprio denaro ma anche il proprio essere responsabile e civile. Un vero dramma, insomma, di cui il degradare del ceto politico era l’espressione più visibile ma non l’unica, come per un attimo ci illudemmo.
Per certi versi oggi siamo ancora oltre, con il dilagare di una “normalità della corruzione” in cui confluiscono, nelle loro differenze, il Batman di Anagni e l’industria privata e pubblica, il potentato lombardo di Formigoni e il Monte dei Paschi di Siena, manager e immobiliaristi, con un melmoso e infinito contorno di nutelle, cartucce da caccia e usi ancor meno nobili del denaro dei cittadini. Sullo sfondo, oggi, il ventennio berlusconiano e la crescente centralità di un arricchimento privato che era elemento solo accessorio, e spesso perfino assente, nella corruzione politica di vent’anni fa. Le cronache inoltre ci dicono con impietosa chiarezza che oggi è chiamata in qualche modo in causa non solo la classe politica ma una classe dirigente più ampia: quella “società stretta” – quella élite, in altri termini – su cui Giacomo Leopardi rifletteva quasi due secoli fa analizzando «lo stato presente del costume degli italiani». Da essa, annotava, viene l’impronta a tutta la nazione, e qui vi è però una differenza di enorme rilievo rispetto ad altri Paesi europei: «Gli uomini politi di quelle nazioni si vergognano di fare il male come di comparire in una conversazione con una macchia sul vestito o con un panno logoro o lacero». Da noi non è così, concludeva Leopardi, e da questo nasceva il suo rovello.
A questo rinviano anche, pur in forme diverse, le domande che attraversano oggi un Paese in sofferenza, impoverito, attraversato da pulsioni spesso dolorose. Scosso alle fondamenta da una sfiducia nella politica che dà fiato a nuovi avventurieri del populismo antipolitico – come avvenne già negli anni Novanta – e al tempo stesso tiene artificialmente e paradossalmente in vita i più vecchi e screditati araldi di quegli stessi inganni. E siamo alla vigilia di un voto che può essere decisivo, in diverse e opposte direzioni. Può aprire varchi a disastri persino inimmaginabili se dà vita ad un Parlamento ingovernabile o pesantemente condizionato dal centrodestra. Ma può anche dare il primo avvio ad un’inversione di tendenza: il primissimo passo di una risalita inevitabilmente lunga e difficile. Oggi più che mai la speranza di un “buon voto” può esser tenuta in vita ed alimentata solo da un impegno del centrosinistra di grandissimo respiro, in primo luogo sul terreno che ha visto le frane più devastanti. Dalla politica sono venuti molti anni fa i segnali più visibili di un degrado avanzante, spetta oggi alla politica dare impulso ad un possibile cambiamento di rotta.
È indubbiamente essenziale che il centrosinistra illustri con la massima chiarezza sino all’ultima ora, sino all’ultimo minuto le sue proposte principali, da quelle fiscali a quelle relative alla crescita. E indichi gli strumenti e le competenze che saranno messe in campo, anche con la delineazione di un possibile governo di altissimo profilo: una “squadra di governo” capace di dare fiducia e speranza ad un’Italia sperduta, provata, talora incattivita. Vi è però un impegno preliminare e non rimandabile, da “comunicare” con una nettezza e chiarezza senza precedenti: misure assolutamente drastiche ed esemplari contro la corruzione e al tempo stesso tagli fortissimi ai costi e agli sperperi della politica. Misure da adottare – queste sì – nel primo consiglio dei ministri dopo le elezioni, nella sua primissima delibera. È un impegno assolutamente indispensabile per poter parlare al Paese. Per garantirgli che si può uscire insieme dalla bufera, e da una crisi del sistema politico sin qui incapace di riformarsi. E incapace quindi di riformare l’Italia.

l’Unità 17.2.13
Amr Moussa
Già ministro degli Esteri e segretario della Lega Araba, è oggi uno dei leader del Fronte
di salvezza nazionale, cartello dell’opposizione
«L’Egitto non si piegherà a una dittatura islamista»
di Umberto De Giovannangeli


I Fratelli Musulmani «non hanno dato il via alla rivoluzione contro Hosni Mubarak, ma ci hanno solo messo il cappello sfruttandola. Ed ora voglino cancellarla». A denunciarlo è l’ex segretario della Lega Araba: Amr Moussa, oggi uno dei leader del Fronte di salvezza nazionale, che unisce i maggiori parrtiti dell’opposizione alla Fratellanza e al presidente Mohamed Morsi. «Loro dice Moussa a l’Unità hanno solo aderito in seguito alla rivoluzione, raccogliendone però tutti i frutti. Non credo che lo Stato religioso faccia gli interessi dell’Egitto». Moussa, già ministro degli Esteri e candidato alle elezioni presidenziali del giugno 2012, ammette che «certamente c’è una parte del Paese che è filo islamico, ma c’è anche una grande parte che è tradizionalmente araba e non religiosa. Io non credo che tutto il Medio Oriente sarà islamico, penso che avremo un nuovo Medio Oriente con più tendenze politiche. È per questo Medio Oriente che continuo a battermi».
C’è chi sostiene, e non solo tra i giovani di Piazza Tahrir, che i Fratelli Musulmani intendano controllare in tutto e per tutto lo Stato. Qual è in merito la sua posizione?
«Di grande preoccupazione e allarme. Qualsiasi partito che vince le elezioni prova a piazzare i suoi uomini di fiducia in posizioni nevralgiche, e questo è comprensibile. Ma c’è una differenza abissale tra il piazzare i propri sostenitori e il cercare di cambiare, stravolgendolo, il volto dello Stato. Sono convinto che i Fratelli Musulmani intendano imporre in Egitto un regime a partito unico; un partito che si chiama Libertà e Giustizia (il braccio politico della Fratellanza, ndr) e che si propone di governare con il presidente, il “suo” presidente: Mohamed Morsi». Intervenendo al World Economic Forum di Davos, il primo ministro egiziano, espressione dei Fratelli Musulmani, Hisham Qandil, ha sostenuto che «Occorrono otto-dieci anni per stabilizzare una rivoluzione come la nostra».
«La sua è una illusione, una pericolosa illusione. Forse Qandil ha ragione per la stabilizzazione politica. Ma per quella sociale ed economica otto-dieci anni sono troppi. In Egitto non abbiamo tutto questo tempo, il Paese sta esplodendo».
Lei ha avuto parole molto dure verso la Costituzione voluta dai Fratelli Musulmani, tuttavia ha deciso di partecipare al referendum che ha portato alla vittoria il «si». Non è un atteggiamento contraddittorio?
«Assolutamente no. Dovevamo prendere una decisione: boicottare il referendum, consegnando il campo agli islamisti, o lottare, nelle piazze e nelle urne, per il “no”. Io ero tra quelli che hanno perorato la partecipazione al voto, e non ne sono pentito. Tutt’altro. Perché resto convinto che una democrazia vera vive sul confronto tra punti di vista diversi, tra opzioni, progetti alternativi. Il punto discriminante è un altro...». Quale?
«Che nessuno usi una vittoria elettorale per annullare l’avversario. Il voto non dà il diritto ad imporre la “dittatura della maggioranza”, tanto più quando questa maggioranza non è tale: perché a dire “sì” alla Costituzione islamista è stata una minoranza degli egiziani, se si contano quanti hanno disertato le urne e quanti hanno votato “no” ( il testo è stato approvato soltanto da poco più di 8 milioni di egiziani, su un corpo elettorale di 52 milioni di persone, circa il 20 per cento dei consensi, ndr). L’Egitto non può sopportare altri colpi di mano, anche se ammantati di “democraticità”. Se ciò dovesse ripetersi, la reazione sarà molto dura». In passato, lei ha sostenuto l’importanza di un coinvolgimento dei partiti islamici nella vita democratica. È ancora di questo avviso?
«Certamente c’è una parte del Paese che è filoislamico. Negarlo significa chiudere gli occhi di fronte alla realtà. La partecipazione dei partiti islamici alla vita politica è un passaggio obbligato nel processo di democratizzazione. Ma il banco di prova non è nel partecipare alle elezione, è saper gestire il dopo. Se guardo all’Egitto riscontro che c’è anche una grande parte che è tradizionalmente araba e non religiosa. La Costituzione dovrebbe definire un quadro condiviso di diritti e di doveri. È ciò per cui continuiamo a batterci. Il nostro “no” alla nuova Costituzione non nasce da pregiudizi ideologici, ma da un’attenta analisi del testo: è un “no” per i limiti imposti alle libertà di espressione, all’uguaglianza tra uomini e donne, per la conferma dei privilegi dei militari. Voglio ribadirlo con la massima chiarezza: non vogliamo rovesciare Morsi, ma vogliamo una Costituzione migliore».
Esistono ancora margini per ritrovare un percorso comune che eviti all’Egitto di precipitare nel baratro dell’instabilità e del muro contro muro?
«Chiunque abbia consapevolezza della posta in gioco deve impegnarsi per la riconciliazione nazionale. In gioco è il futuro dell’Egitto, un bene comune».

l’Unità 17.2.13
Tunisia
Ennahda rilancia la sfida: continueremo a governare, nessun cedimento


Migliaia di sostenitori del partito islamico di Ennahda hanno manifestato nel centro di Tunisi per difendere il diritto del loro movimento a dirigere il governo di coalizione, messo a rischio dalla decisione del premier Hamadi Jebali (peraltro numero due dello stesso Ennahda) di formare un esecutivo tecnico che gestisca la crisi innescata dall’omicidio del leader dell’opposizione, Chokri Belaid. Ennahda e gli altri membri della coalizione di governo insistono invece sulla necessità di formare un esecutivo di unità formato non da tecnici, come proposto da Jebali, ma da personalità politiche indipendenti: la coalizione può contare su 125 deputati sui 217 dell’Assemblea Costituente, ben oltre i 109 necessari per sfiduciare il Primo ministro. Jebali che aveva intenzione di annunciare già ieri i la composizione del nuovo governo ha rinviato a domani e trattative con i vari partiti; la manifestazione è la seconda organizzata da Ennahda dopo l’omicidio, di cui la formazione islamica viene considerata da molti come mandante: alla prima avevano partecipato solo 3mila persone, mentre un milione e 400mila di persone avevano invece assistito ai funerali di Beladi. Rached Ghannouchi, leader di Ennahda, ha nuovamente contraddetto il primo ministro tunisino e numero due del partito islamista, annunciando che gli islamisti non sono pronti a cedere il potere. «Potere stare tranquilli, Ennahda non cederà mai il potere fino a quando godrà della fiducia del popolo e della legittimità delle urne», ha esclamato il dirigente islamista al termine della manifestazione dei suoi sull’Avenue Bourguiba. La sfida continua.

Corriere 17.2.13
Tutti i segreti del «Prigioniero X» Viaggi in Iran, un visto per l'Italia
Rivelazioni sullo 007 israeliano morto impiccato in carcere
di Elisabetta Rosaspina


GERUSALEMME — Tutto pareva essere filato liscio. Il caso 8493 si era chiuso senza mai essere stato ufficialmente aperto. Archiviato dopo un anno e mezzo di discretissima inchiesta giudiziaria, con un verdetto di suicidio. Né il primo né l'ultimo in un carcere, tanto più di massima sicurezza, tanto più dopo dieci mesi di completo isolamento del detenuto defunto. Per insindacabili «ragioni di Stato», i cittadini israeliani non avrebbero dovuto sapere niente di più sulla «maschera di ferro», quel prigioniero senza nome, senza volto e senza storia morto impiccato il 15 dicembre del 2010, nella cella di 16 metri quadri costruita 15 anni prima apposta per il più famoso ergastolano del paese: Yigal Amir, l'assassino dell'allora primo ministro Yitzhak Rabin. Quella cella, nell'unità numero 15 del carcere di Ayalon, pochi chilometri a sud est di Tel Aviv, era stata ereditata dal «prigioniero X», sottoposto a videosorveglianza permanente, senza che nemmeno gli agenti di custodia conoscessero il suo nome.
Ma una settimana fa, le avvisaglie di un improvvido scoop hanno spinto le autorità a convocare i vertici dei principali mezzi di informazione israeliana, direttori ed editori, per esortarli a ignorare, nell'interesse della sicurezza nazionale, alcune informazioni imbarazzanti per una certa agenzia governativa. Mossa inutile e controproducente: il giorno stesso, tre deputati dell'opposizione hanno chiesto conto al ministro della Giustizia Yaakov Neeman di un reportage trasmesso poche ore prima dalla tivù di Sydney, Abc, su «un cittadino australiano, che era sotto custodia israeliana, e si sarebbe ucciso in prigione».
Quelle notizie erano il frutto di dieci mesi di indagini parallele del reporter Trevor Bormann: a essersi impiccato nella cella di isolamento totale di Ayalon era un agente del Mossad. Australiano di nascita e cresciuto in una famiglia ebrea ardentemente sionista. Si chiamava Ben Zygier, come sta inciso ora sulla lapide nera del cimitero ebraico di Melbourne, la città in cui era nato il 9 dicembre del 1976 e che aveva lasciato, neanche ventenne, per vivere in Israele la sua prima esperienza in un kibbutz in Galilea. Aveva fatto «aliyah», il ritorno alla terra promessa, ma non soltanto per servire la sua nuova patria nell'uniforme dell'esercito.
Il mistero di Ben Zygier ha più risvolti dei passaporti (australiani) che gli sono stati intestati sotto altri nomi: Ben Alon, Ben Allen, Benjamin Burrows, permettendogli di viaggiare indisturbato, dal 2000 al 2010, soprattutto in nazioni ostili a Israele, come il Libano, l'Iran, la Siria. Ma forse anche in Paesi amici, come l'Italia, se è vero che aveva chiesto un visto di lavoro al consolato italiano di Melbourne. Sul suo impiego, in una società di copertura, con sede in Europa, per la vendita di componenti elettronici, aveva investigato nel 2009 un altro giornalista australiano a Gerusalemme, Jason Katsoukis, sempre respinto da «Mister X» quando lo cercò per chiarimenti. Forse a quel punto l'agente trasformista era già «bruciato». Forse aveva già parlato troppo, forse era sotto scacco dei servizi australiani, insospettiti dalla clonazione di documenti. Di fatto il 24 febbraio 2010 l'intelligence australiana riceve comunicazione dell'arresto di Ben Zygier, ma la notizia non viene trasmessa al ministero degli Esteri di Melbourne e tantomeno i motivi della sua cattura. «Accuse gravi», ammette uno dei suoi avvocati, Avigdor Feldman, che lo incontrò 24 ore prima del suicidio per valutare un patteggiamento con i giudici. Ma «il prigioniero X» voleva un processo. Pretesa insensata, per un fantasma.

Repubblica 17.2.13
Così l’eretico Giordano Bruno anticipava Einstein
di Piergiorgio Odifreddi


Oggi, 17 febbraio, ricorre l’anniversario del martirio di Giordano Bruno nel 1600.
Nel 1889 fu eretta a Campo de’ Fiori una statua, con la scritta: “A Bruno, il secolo da lui divinato qui dove il rogo arse”. Nonostante le minacce di Leone XIII di andare in esilio se fosse stata eretta, e le richieste di Pio XI che fosse abbattuta alla firma del Concordato, Mussolini dichiarò nel 1929 alla Camera: «la statua, malinconica come il destino di questo frate, resta dove è». Per ritorsione, il papa santificò l’anno dopo il cardinal Bellarmino, grande inquisitore di Bruno. E neppure il perdono
generalizzato richiesto durante il giubileo del 2000 ha riabilitato il nome dell’eretico. Ma quali erano le eresie di Bruno, che turba(va)no così tanto la Chiesa? Lungi dall’essere solo beghe di preti, alcune vertevano su delicate questioni scientifiche e matematiche. Nella Cena de le Ceneri un Bruno antitolemaico parla di uno spazio infinito, con infiniti mondi in evoluzione per un tempo infinito: una visione già anticipata da Lucrezio, e oggi divenuta parte del nostro immaginario cosmologico. Così come il cosiddetto “principio cosmologico” di Einstein, anticipato da Bruno in De la causa, principio et uno, secondo il quale l’universo appare nello stesso modo, da qualunque punto e in qualunque direzione lo si osservi. In De l’universo, universo et mondi Bruno propone addirittura una distinzione fra due tipi di infinito: il “tutto infinito” dell’universo, e il “totalmente infinito” di Dio. Egli aveva dunque percepito un barlume della cornucopia di infiniti che Georg Cantor avrebbe scoperto alla fine dell’Ottocento: per sua e nostra fortuna, quando ormai i roghi si erano spenti.

Il Sole 24 Ore Domenica 17.2.13
Giordano Bruno 1548-1600
Profeta on the road in cerca della libertà
Quella del nolano è una delle vite più avvincenti della storia della filosofia
A 28 anni iniziò una fuga senza fine in cerca di un luogo
in cui esercitare la propria libertà di pensiero
di Massimo Bucciantini

nelle edicole, più tardi qui

Corriere 17.2.13
Una mostra a Ravenna. Follemente artisti
Viaggio nella pittura ai confini psichiatrici Da Bosch agli outsider un dibattito eterno intorno alla creatività
di Melisa Garzonio


Benvenuti nel regno delle ombre. Negli scenari infernali raccontati da Hieronymus Bosch e Pieter Bruegel il Vecchio, dove l'uomo, perennemente preda o signore del male, è dipinto nei suoi aspetti più sconci e corrotti. I due maestri introducono in stile tardo gotico nel paesaggio del fantastico e del visionario che fa da fondale alla mostra «Borderline. Artisti tra normalità e follia. Da Bosch a Dalí, dall'Art Brut a Basquiat», aperta da oggi al Museo d'Arte di Ravenna. Bruegel colpisce duro nelle incisioni dei Vizi e delle Virtù, Bosch, nel suo «Elefante da battaglia», mette alla berlina un'umanità grottesca, oscenamente ridicola.
Il sonno della ragione genera mostri, c'è anche Goya coi suoi magistrali quadretti sulla Follia, e Théodore Géricault, sublime pittore di demoni in salsa romantica. Mostra affascinante e pericolosa. Non una passeggiata tra rasserenanti capolavori, ma un percorso su filo di lama, sospesi su abissi senza fondo. E non c'è via d'uscita: delle duecento opere in mostra, non una che ti riporterà finalmente a casa. Nessun ponte teso tra realtà e immaginario. L'artista ti consegna al caos, al nessun luogo. Il viaggio si conclude, quindi, in quella zona d'ombra dove i confini tra giorno e notte, vero e falso, reale e sognato, sono instabili per definizione. Del resto, l'intento dei curatori (il direttore del Mar Claudio Spadoni, l'editore Gabriele Mazzotta e lo psichiatra Giorgio Bedoni) era proprio questo: superare i confini.
Ecco allora perché, tra gli artisti «ufficiali» della storia dell'arte, dai fiamminghi del XVI secolo ai giorni nostri, troviamo un elenco di outsider che, con poche eccezioni, non hanno posto nei manuali dell'arte. Sono gli autodidatti, i solitari che hanno prodotto per lo più nel silenzio e nell'emarginazione dei ricoveri psichiatrici e, comunque, al di fuori di ogni possibile manipolazione culturale. Sono i produttori irregolari della cosidetta arte «folle», gli autori brut, dove il termine sta per «brutale», ma anche «primitivo», infantile, reclutati dal pittore francese Jean Dubuffet nel suo viaggio (cominciato nel 1945) lungo gli ospedali psichiatrici della Svizzera. I big, gli autori storici, si chiamano Adolf Wölfli e Scottie Wilson, ma tra le prime e più toccanti scoperte c'è Aloïse Corbaz, oggi considerata una star dell'Art Brut. Nata a Losanna nel 1886, rimasta orfana, è costretta a emigrare in Germania, a Lipsia. Ha una bella voce, e viene convocata nella cappella privata del Kaiser, Guglielmo II. Da qui scatta un innamoramento che sfocerà in un devastante delirio passionale. Internata con diagnosi di schizofrenia, nel segreto dei bagni dell'ospedale comincerà a dipingere le immagini infantili della passione: bocche di fuoco, re, principesse, storie d'amore, balli a corte. Le opere dei «folli» oggi appartengono alla Collection de l'Art Brut di Losanna, che ne ha prestate una quarantina. Dalle prime battute, la mostra solleva una domanda: che cos'è l'arte? Un prodotto naturale, innato, biologico il cui campo d'indagine è affidato alla scienza, oppure è fenomeno culturale, appreso, di pertinenza degli storici?
«Le due ipotesi non sono in contrasto — spiega Claudio Spadoni — l'arte è all'origine un impulso creativo e nasce analfabeta nel senso totale del termine. Paul Klee ne era convinto. Alla creatività infantile è accostabile anche quella dei primitivi, non ancora manipolati da un sistema culturale, di cui proponiamo in mostra qualche manufatto». A questo tipo di creatività incolta e non omologata si ispirerà, sul finire degli anni '40, il gruppo CoBrA (acronimo delle città da cui provengono i suoi artisti: Copenhagen, Bruxelles e Amsterdam). In mostra, le opere di Jorn, Appel, Alechinsky, Corneille aggrediscono le pareti del museo con una colata di colori aggressivi, materici, ma aggregati sul filo di un'astrazione formale. Nessuna imposizione da fuori, ma soltanto la voce del proprio tormento controlla, invece, il flusso convulso di colori che sanguinano dalle pitture di Madge Gill, Voijslav Jakic, August Walla, Gaston Teuscher, Gaston Chaissac e altri artisti esclusi per problemi psichiatrici. Producono a ritmi esagerati, disegnano e dipingono su fogli, tele e ogni superficie tracciabile, ossessionati da un incontrollabile horror vacui. È soprattutto nella resa del corpo che esprimono il disagio maggiore. Gino Sandri, Federico Saracini, il primo internato a Mombello, il secondo al San Lazzaro di Reggio Emilia, sempre lo stesso volto, lo stesso sguardo; Eugenio Santoro, scultore-operaio emigrato in Svizzera, passa una vita intera a scolpire alberi da frutto con forme di mostruosi volti umani. Sì, lo faceva anche Francis Bacon: «Io voglio deformare la cosa al di là dell'apparenza, ma allo stesso tempo voglio che la deformazione registri l'apparenza...». Ecco la differenza, spiega Spadoni: «Bacon usava la consapevolezza e aveva il controllo della proprie pulsioni, là dove l'artista brutale, alienato, metteva in gioco tutto e soltanto se stesso».

Corriere 17.2.13
Quando la «Melanconia» era un fiore all'occhiello
di Francesca Bonazzoli


Il binomio «genio follia», secondo cui gli artisti sono tutti matti, strani e eccentrici, non è un semplice luogo comune, ma ha una tradizione di pensiero autorevole e millenaria. Già nei culti dell'antica Grecia dedicati a Dioniso, la creatività e l'ispirazione erano messe in relazione con la follia e il delirio mistico. Nel «Fedro», Platone afferma che un artista che possegga la sola abilità, senza il delirio delle Muse (il daimon), è un artista incompleto. E anche secondo Aristotele, tra il genio e il folle c'è solo una differenza di grado, non di natura. In particolare di colore della bile: «Gli eccessi che la bile determina, fanno sì che tutti i melanconici si distinguano dagli altri uomini, non a causa di una malattia, ma a causa della loro natura originale». Idea che, trascurata durante il Medioevo, viene ripresa durante l'Umanesimo dal filosofo fiorentino Marsilio Ficino (1433-1499). Figlia prediletta di Saturno, la Melanconia (dal greco: melaina, nera, e cholé, bile) era spiegata come la fase preliminare e necessaria del processo creativo e in questa luce, nel Cinquecento, diventa addirittura un segno distintivo da esibire snobisticamente anche attraverso il colore degli abiti (il nero è il più adatto), l'atteggiamento riservato e l'eccentricità del comportamento. Il Vasari, nelle «Vite», sottolinea sempre la stranezza come qualità esclusiva del genio: Botticelli viene descritto «inquieto sempre» e «cervello stravagante», il Pontormo come «giovane malinconico e soletario». E la Melanconia è senz'altro indicata come la caratteristica principe del più geniale degli artisti: Michelangelo. A 74 anni, mentre componeva versi come «La mia allegrez'è la maniconia / E 'l mio riposo son questi disagi», scriveva a Giovan Francesco Fattucci, uno dei suoi rari amici: «Voi direte bene che io sia vecchio e pazo: e io vi dico, che per istar sano e con manco passione, non ci trovo meglio che la pazzia».
La prova di quanto questi atteggiamenti fossero rispettati nel Rinascimento, viene dall'affresco de «La scuola di Atene», in Vaticano, dove Raffaello ha reso il suo monumentale omaggio a Michelangelo ritraendolo come personificazione della Melanconia, e non risulta che Michelangelo se ne sia risentito. Ma questa vague melanconica, che da Firenze si estese all'intera Europa fino al grande melancholicus Dürer, nel Seicento finisce in risacca. Le nuove figure degli artisti gentiluomini, come Rubens, Van Dyck, Bernini, Velàzquez, fanno passare di moda il temperamento saturnino. Così le terribili vicende come quelle di Annibale Carracci, fragile genio che per la delusione della sua misera paga «diede in una grandissima melanconia» che lo portò alla morte; o come quella del suicidio del Borromini che, «assalito con maggior forza dall'ipocondria, che a tal lo ridusse in pochi giorni, che niuno lo riconosceva più», introdussero dei distinguo fra la mania platonica e la malattia mentale, corroborati dalla nascente scienza medica.
Ma basta lasciar passare poco più di un secolo che il binomio «genio follia» viene recuperato dal Romanticismo e poi dal Decadentismo, epoche culturali in cui si volle addirittura individuare nella malattia l'origine dell'arte. Se la scienza affermava per esempio con Lombroso che «v'hanno tra la fisiologia dell'uomo di genio e la patologia dell'alienato non pochi punti di coincidenza» e si appassionava a casi psicotici maniaco depressivi come quello di Van Gogh studiato dal dottor Gachet, per parte loro gli artisti si compiacevano della propria eccezionale capacità di soffrire. Proust poteva così affermare: «Tutto ciò che è grande nel mondo lo dobbiamo ai nevrotici. Essi solo hanno fondato le religioni e dato vita ai nostri capolavori» e Thomas Mann, convinto che la malattia è in grado di «affinare l'uomo, e renderlo intelligente e eccezionale», si trovava nella stessa linea di pensiero di Schopenhauer secondo il quale «il genio è più prossimo alla pazzia dell'intelligenza media».
Una corrente di pensiero che porterà alle trappole ideologiche del Novecento culminate in certa psichiatria tedesca che, durante il nazismo, stabilirà come l'arte moderna esprime «regressione e malattia» e gli artisti «sono persone degenerate appartenenti ai gruppi razziali inferiori». Naturalmente la psichiatria ha sviluppato differenti scuole, ma la complessità del rapporto fra genio e follia è sfuggita anche a Freud. Mentre certa psichiatria francese manteneva infatti stretti rapporti col Surrealismo, Freud, da Londra, scriveva all'amico Stefan Zweig a proposito del suo incontro con Dalí: «Fino a ora ero incline a considerare i Surrealisti, che sembra mi abbiano prescelto come loro santo patrono, dei puri folli, o diciamo puri al 95 per cento», ma appena poche righe sotto questa timida riabilitazione, tornava ad esprimere i suoi dubbi sostenendo che il concetto di arte andava mantenuto «entro certi limiti». Quale sia l'ampiezza di questi limiti è questione ancora aperta, ma basta andare in un museo per capire che oggi è molto più vasta.

Corriere 17.2.13
Il talento del pittore matto, così convinsi Breton e Dubuffet
Portai a Parigi le opere di Zinelli, ora stella dell'«Art Brut»
di Vittorino Andreoli


Nel 1959, terminato il liceo, decisi di iscrivermi alla facoltà di Medicina con l'intento preciso di diventare psichiatra. Vinsi ogni dubbio dopo essermi recato al manicomio della mia città, Verona, il san Giacomo della Tomba, e aver visitato, accompagnato dal suo direttore, i 10 padiglioni di cui era fatto per ospitare i 1.200 matti di Verona.
Uscito dal «quinto femminile», il girone più drammatico, il direttore mi portò in un piccolo edificio situato dentro il grande parco: era l'atelier di pittura, il primo nato in Italia e accoglieva sei uomini e sei donne che avevano mostrato un qualche interesse all'espressione grafica. Era sorto nel 1957 su suggerimento di Michael Noble, uno scultore scozzese che viveva sul lago di Garda, e che aveva saputo di uno schizofrenico che spontaneamente tracciava segni sulle pareti del padiglione, e che dunque «sporcava» i muri da poco imbiancati e per questo veniva legato per impedirglielo.
Michael offrì i mezzi economici per costruire quell'atelier che io visitai nel mio primo giorno di manicomio. Il matto, Carlo Zinelli, ebbe un tavolo tutto per sé, la disponibilità dei materiali per dipingere il suo mondo. E a lui si aggregarono via via gli altri pittori. L'atelier mi affascinò e fui felice quando il direttore mi disse che potevo non solo frequentarlo ma anche dirigerlo. Tornavo da Padova e subito andavo all'atelier del manicomio, dai matti pittori. Le opere di Carlo Zinelli erano stupende, a vederle veniva Michael con i suoi amici, fra cui Buzzati e Moravia che si erano espressi con ammirazione. Carlo era in una fase della malattia che toglie la capacità di espressione linguistica, ridotta a «insalata di parole», ma componeva tavole coerenti con stilemi che mano a mano definivano un alfabeto e un linguaggio grafico: un vero racconto colorato su un uomo e sulla sua malattia.
Studiando questo tema nuovo e affascinante vengo a conoscere il movimento dell'Art Brut. Era nato in Francia nel 1945 per iniziativa di Jean Dubuffet, un nome che allora identificava un commerciante di vini e non un pittore. Era convinto che l'arte fosse condizionata pesantemente dalla cultura delle Accademie, da schemi intellettuali e che dovesse liberarsene: scrisse un libro («Asfissiante cultura») e si dedicò a l'Art Brut. «Brut» inteso proprio come «non-culturel». E coerentemente a questa idea, si mise a cercare e a raccogliere opere brut. Nasce così la Collection con le opere conservate nel Musée di 127, rue de Sèvres a Parigi, e subito dopo la Compagnie de l'Art Brut, costituita da persone di grande rilievo che ne diventano i garanti e i promotori.
Nel 1961 mi convinsi che Carlo Zinelli era un pittore brut e volli portare a Parigi le sue opere per mostrarne la bellezza e avere la conferma della sua appartenenza a quel movimento che nel frattempo era diventato importante, espressione di quella straordinaria officina che era la Parigi del tempo. Essere ricevuto da Dubuffet era un'impresa, roba da Ercole o da Prometeo. Ma quando quella mattina mi accolse in uno dei suoi palazzi parigini, ero sicuro che lo avrei incatenato sulle opere di Carlo che mi ero portato. Stetti a Parigi cinque giorni poiché aveva programmato di accompagnarmi da André Breton che era parte della Compagnie e il più ascoltato da Dubuffet.
Rimasi affascinato da quest'uomo, e felice quando tolse ogni dubbio a Dubuffet, definendo il mio pittore matto, non solo un brut, ma uno dei più importanti della collezione. E qui occorre tenere conto di un altro fatto. Dubuffet non poteva sopportare gli psichiatri e l'origine di questa allergia gravissima si lega a Antonin Artaud, l'inventore del «teatro della crudeltà» che era stato per anni curato da Gaston Ferdière, uno psichiatra che lo aveva trattato con 51 elettroshock. Dubuffet creò un comitato, presieduto da Breton, per la sua liberazione. Ci riuscirono e da allora gli psichiatri erano a lui insopportabili. Io non ero che uno studente, ma in uno dei successivi incontri, mi disse «vous etes un psychiatre non-psychiatre» e capii che era un complimento poiché lo espresse ridendo. Seppi poi che anche Breton lo era, ma non aveva mai esercitato. Del resto qualcosa la Compagnie aveva a che fare con questa disciplina se si considera che un'analisi sulla provenienza delle opere del Musée (oltre 5.000) aveva svelato che l'85 per cento proveniva dai manicomi. Da psichiatre non-psichiatre, nel 1966 scrissi una monografia su Carlo Zinelli (il numero 6 dei «Cahier»). E in quell'anno venni fatto membro de la Compagnie, l'unico italiano nella schiera dei pochi «eletti»; oggi sono il solo testimone vivente di quella avventura che finì nel 1976 quando le Musée venne donato e trasportato a Losanna in Svizzera. Nel frattempo sono diventato psichiatra e lo sono da 50 anni. E Carlo è tra gli esponenti della pittura del Novecento.

Repubblica 17.2.13
Matti da slegare. L’inferno
di Adriano Sofri


BARCELLONA POZZO DI GOTTO (Messina) Ci avviciniamo al Terzo Reparto, e uno grida, rivolto prima al direttore, poi a tutti noi: «Me lo merito? Non me lo merito! Non me lo merito! ». Abbiamo già visitato il Primo Reparto, il direttore ci ha avvertiti: «Al Terzo è più dura». È il vecchio Reparto Agitati. Non ci sarà nessun atto inconsulto, solo facce e gesti gentili e ansiosi e tristi. C’è un giovane chiuso, con lui bisogna stare attenti, avvertono; è lui stesso a sbattere la porta blindata della cella addosso al cancello già chiuso. Le altre camere sono aperte, grandi e luminose, sei persone, niente letti a castello. Pochi stanno in branda: meno di quanti se ne troverebbero, a qualunque ora, in una galera “normale”. Sta passando il carrello del vitto, portato da due giovani signore dall’aria cordiale. Gli internati (si chiamano così) raccontano di sé succintamente, devono aver fatto l’abitudine ai visitatori e imparato a usare il minuto che può toccar loro. «Venivano come al giardino zoologico».
Dicono il nome, l’età, gli anni che hanno trascorso lì, e una frase essenziale o due. Giovanni, 37, di Benevento, da dodici anni negli Opg di Secondigliano e di Aversa prima di qui, mostra una pancia rigonfia da un lato, «un accoltellamento, devo essere operato». Francesco, 33 anni, «mi sono impiccato, volevo smettere di vivere, invece ho ricominciato a fumare». Un altro Giovanni, «faccio 82 anni il 29 dicembre, ma sulle carte legali a febbraio», qui da due anni, «spero di restarci, a Messina un inferno, in nove in una cella». Vincenzo, di Palermo, è qui da diciassette anni. Salvatore è di Comiso, è giovane, si mette a piangere: «Mi manca la mia mamma». Gli Opg chiudono il 31 marzo, «ma è domenica!», dice allarmato. Già. Mi abbraccia, ha voglia di abbracciare, molti qui ce l’hanno. Carlo è più riservato all’inizio, poi cambia. «Trentasei anni, sono arrivato a trentatré, sto invecchiando qua dentro. Ho preso due anni per oltraggio, ho picchiato uno perché non volevo i farmaci, sono già alla seconda proroga. Mio padre lavorava all’Ilva a Taranto, è morto di tumore. Io scrivevo canzoni, guardate la mia poesia su Youtube, Catene». L’ho guardata, poi. Domenico, 40, ha fatto un anno di carcere, dieci di manicomi. «Non chiedo licenze perché non ho i soldi. Sono in dialisi da quando avevo diciott’anni. Non ce la faccio più, sono tutto consumato». Uno mi invita in disparte, è quello che gridava: «Me lo merito? Non me lo merito!», vuole dirmi qualcosa. Mi sussurra, che gli altri non sentano: «Non me lo merito!». Penso che non se lo meriti. Tutti nominano le proroghe. Chi viene qui non è imputabile, ma è dichiarato socialmente pericoloso. Alla scadenza dei due anni, viene prorogato di altri due (o cinque o dieci). All’infinito. Nella maggioranza dei casi, perché non ha dove andare fuori, e nessuno vuole accoglierlo. Un obbrobrio.
Il letto di contenzione è in una stanza bianca e linda. In verità tutto il reparto è ristrutturato di fresco, imbiancato: pavimento lustro, servizi igienici puliti, refettorio comune. È un letto normale, con una cinghia da passare sul petto, la “fiorentina”. Ce ne sono tre in tutto. Quando arrivai, dice il direttore, Nunziante Rosania, ce n’erano ventisette. Di quelli in cui la persona denudata è legata ai polsi e alle caviglie, e al centro del pagliericcio lurido c’è un buco dal quale defecare, e la persona a volte veniva lasciata lì per giorni e settimane e mesi. Guardate su Youtube il documentario girato dalla Commissione parlamentare, se vi regge il cuore. Buona parte dell’Opg è sequestrata dalla Commissione presieduta da Ignazio Marino, e un paio di reparti sono già chiusi. Nel prossimo, un giovane, Salvatore, mi si avvinghia al collo e mi bacia con foga, e fa lo stesso col direttore, che è due spanne più alto di lui e di me. Poi si precipita ad allestire una performance per la giovane fotografa, combinando giacche e attaccapanni, giornali, disegni, dolciumi. Intanto gli altri ci fanno ressa attorno. Remigio, 34 anni di Brindisi, racconta convulsamente la sua epopea di figlio di buona famiglia, tossicomane, rapinatore, e molto altro. Giuseppe: «Mia mamma è morta nel 2011, ho sempre il pensiero di lei, lei mi ha nutrito, mi ha vestito ». M., 36, marocchino, «ho preso due anni perché ho spaccato una televisione alla stazione centrale di Milano, dopo sempre proroghe, da sette anni. A Milano ho due sorelle, i cugini, potrei almeno fare il colloquio». Peppino, 54 anni, li ha compiuti oggi, e ringrazia il direttore, perché sua moglie gli ha fatto la torta, «di pandispagna, buonissima». (Non era previsto che lo sapessimo, dunque lo annoto con piacere). Salvatore, 53, «ho passato quattro mesi in carcere a Catania, molto meglio qui, leggo, scrivo poesie», mi regala un libro che le contiene, L’altra libertà.
Antonio è di quelli che se ne stanno in branda, ma si alza: 75 anni, è successo a marzo, «è partito un colpo di fucile» — ha colpito una donna, quel colpo — finisco i miei giorni qui dentro, almeno fosse un vero ospedale.
Ci ha accompagnati un ispettore della polizia penitenziaria, deve averne viste tante. Chiudendo gli Opg finisce, dice, che quelli difficili da gestire li mettono semplicemente a marcire in galera. Non mi piace la demagogia, aggiunge. Ci esorta a chiedere a chi è stato anche in carcere dove si stia meglio. Gioco facile. Pasquale, 45 anni: «Non voglio che chiude». Sta molto male, mostra il braccio tutto tagliato, avverte: «Mi impicco stanotte». Ha girato tutti gli Opg: «Questo è il meglio». «Non riusciamo, con lui», dicono, e scuotono la testa. Torna sempre. Ho tanti appunti. Mi dispiace, capisco che non si intravedano nemmeno, dietro le due righe a testa, le persone in pena. Ci sono oggi a Barcellona centottantatrè internati, più diciotto detenuti “normali” aggregati per lavorarci. La maggioranza è qui per i più futili motivi. Una quarantina ha commesso uno o più omicidi, quasi tutti in famiglia. Non è vero che non ne vogliano parlare, o che mentano. Oggi questo resta un posto infame, in cui persone malate vengono tenute prigioniere, e persone innocue vengono sequestrate perché fuori per loro non c’è posto. Ma com’è possibile, chiedo, che, alla vigilia, finalmente, di una chiusura decretata da anni, questo luogo si mostri decente, e appena poco fa era un inferno di abiezione? Dal 1997 al 2007 le cose cambiarono enormemente, rispondono. Venne espulsa la genia dei grandi mafiosi simulatori. Dal 2008 tutto precipitò. «C’erano centosessanta internati, un anno dopo quattrocento. Altro che letti a castello. Ci scaricavano — alla lettera, furgoni pieni — persone in condizioni estreme. In due anni abbiamo perso sessantadue agenti, in pensione anticipata o riformati all’Ospedale militare: non ce la facevano più. Non riuscivamo a pagare i farmaci. Abbiamo cinquantottomila metri quadri, e diecimila euro per la manutenzione di un anno. Le comunità ce li rimandano indietro. Nel cinquanta per cento dei casi tornano per aver saltato la terapia. I servizi di salute mentale territoriali dicono di non avere le strutture. In Sicilia il passaggio dalla Giustizia alla Sanità non è mai avvenuto: confidiamo ora in Crocetta e nella Borsellino. L’Opg resta comunque un carcere, e per definizione non può curare e soprattutto riabilitare. Ma la chiusura secca è la soluzione migliore? Quando andiamo a Roma sentiamo solo la domanda: “Dove li mettiamo?”».
Ci sono grosso modo tre condizioni: i dimissibili senz’altro, la maggioranza relativa. Quelli che hanno bisogno di essere seguiti con progetti personali, in piccole comunità assistite per la salute e il lavoro legate al territorio di provenienza. Per i più gravi, il peggio è la prospettiva manicomiale classica: sono pazzi, non appartengono più alla società. Invece, anche nelle condizioni più severe, le relazioni contano quanto la protezione e i farmaci. Salvatore, infermiere caposala, un’esperienza di quarant’anni: «A volte devi insegnargli a mangiare con le posate, a vestirsi, a farsi una doccia. Le soddisfazioni a noi le danno solo loro. Grazie a Margara ci fu un concorso per infermieri, e i vincitori vennero assegnati agli Opg. Prima c’era solo un pronto soccorso, andavamo a dare la terapia con la lampadina tascabile».
C’è una bella nuova casa data in comodato dal Comune, per alcuni internati. E c’è la Casa di solidarietà e accoglienza di Don Pippo Insana. Ha 68 anni, la sua missione è di chiudere l’Opg, con un confratello, don Gregorio, e volontarie preziose. Prete a 23 anni, nell’84 diventò cappellano dell’Opg. In licenza andava solo chi aveva i soldi, allora lui li accolse a casa sua. Il nome dell’associazione lo scelse un internato: aveva buttato giù da un balcone la sua bambina, oggi è una persona risorta. «Abbiamo avuto dei pluriomicidi» dice, «ma anche un barbone arrestato per non aver mostrato la carta d’identità che non aveva». La cosa peggiore, dice, è l’abbandono: parenti che non li vogliono più vedere, tutori che li derubano delle pensioni. Racconta il modo atroce di farli portare ai letti di contenzione dai lavoranti; non bisogna giudicare all’ingrosso il personale, dice, ma la Commissione parlamentare è stata benedetta. Però certi trattamenti sanitari obbligatori esterni riducono peggio che dentro.
Quando usciamo dall’ultimo reparto, il cancello viene chiuso. Salvatore, che non ha smesso un momento di improvvisare cerimonie e giochi di accoglienza, ora si attacca alle sbarre e lancia baci frenetici con la mano, mentre ci voltiamo a ricambiare i saluti. Quando siamo a una sufficiente distanza di sicurezza — da mettere la sua timidezza al sicuro — sentiamo un grido straziante: «Amoreeeeeee».

Gli internati dell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina). Oggi sono ottantatré, erano quattrocento fino a pochi anni fa. Secondo la legge voluta dalla Commissione d’inchiesta presieduta da Ignazio Marino, i sei Opg ancora funzionanti (Napoli, Aversa, Montelupo Fiorentino, Reggio Emilia e Castiglione delle Stiviere, oltre al siciliano) dovrebbero chiudere a breve e gli ospiti essere trasferiti. In basso, nella seconda foto da sinistra, uno dei tre letti di contenzione dell’Opg di Barcellona Pozzo di Gotto.

Corriere La Lettura 17.2.13
Helmut Schmidt. Un golpe Europa
Servono una leadership e un patto tra Berlino e Parigi. La Germania è arrogante
intervista di Paolo Valentino


«Abbiamo fatto una cosa mai vista prima al mondo. Abbiamo mascherato un aiuto di 5 miliardi di marchi all'Italia come se fosse un'operazione tra le banche centrali». Nell'estate del 1974 il Cancelliere tedesco Helmut Schmidt e il presidente della Bundesbank, Karl Klasen, vennero in Italia per incontrare a Bellagio il primo ministro italiano Mariano Rumor e il governatore della Banca d'Italia, Guido Carli. Il risultato del vertice fu un credito di 5,2 miliardi di marchi dell'istituto di emissione tedesco a quello italiano, garantito da 5 tonnellate d'oro che Bankitalia mise a disposizione nelle proprie riserve. Quello che pochi sanno è che si trattò in realtà di ben altro.
«Né l'opinione pubblica tedesca, né quella italiana capirono cos'era successo. Era di fatto una violazione delle leggi fiscali tedesche. Ma se l'avessimo fatto come governo, avremmo dovuto chiedere il voto del Parlamento. Non l'abbiamo fatto. Però in quel momento era necessario agire così, era la cosa giusta da fare: l'Italia era in difficoltà finanziarie, noi tedeschi dovevamo aiutarla. Cinque miliardi di marchi erano una cifra importante al tempo. Ma l'Italia fu salvata, il prestito venne ripagato nei termini previsti e l'oro non venne mai toccato».
Mentre mi racconta l'aneddoto, col sorriso di chi sa di rivelare una piccola e sconosciuta pagina di storia europea, Helmut Schmidt riesce a fumare due sigarette e tirare una presa del suo adorato tabacco da fiuto. Avrà pure 95 anni l'ex Cancelliere federale, che l'età ha levigato nei tratti e ammorbidito nella figura, una volta snella e nervosa. Ma la sua testa rimane un brillante e i suoi occhietti azzurri sprizzano ancora vitalità e ironia. Non ha pescato a caso l'episodio del lago di Como. Gli serve per esemplificare un punto politico importante: «Ciò che accadde allora fu in un certo senso simile a quanto sta facendo oggi Mario Draghi: probabilmente il presidente della Bce agisce in violazione del Trattato, ma è necessario, sta facendo la cosa giusta».
Andare a trovare Schmidt nel suo ufficio amburghese è come fare un bagno di franchezza e di onestà intellettuale. Ma soprattutto è andare a ritrovare la forza dell'idea d'Europa, la chiarezza del progetto della casa comune, che i leader della sua generazione ebbero sempre presente non tanto nella retorica delle formule, quanto nella concreta azione di governo. Anche a costo di forzature e di colpi d'ala, ai quali nessuno degli attuali dirigenti politici europei appare desideroso e in grado di ispirarsi.
Signor Cancelliere, qual è lo stato dell'Unione? È più ottimista o più pessimista rispetto a un anno fa?
«Non ero ottimista un anno fa e non sono troppo ottimista oggi. Non c'è grande differenza».
Ma abbiamo assicurato la stabilità dell'euro: è d'accordo?
«L'euro non è il problema dell'Europa o comunque non è quello principale. I problemi europei sono molteplici. Al primo posto c'è l'indebitamento di alcuni Stati. Poi c'è l'incapacità dei leader europei di affrontarlo. Inoltre c'è un minore impegno verso l'integrazione rispetto a cinque anni fa. Tutti questi fenomeni affondano le loro radici nel 1991-1992, quando l'allargamento si sovrappose alla nascita dell'euro. Allora eravamo appena in dodici e commettemmo il doppio, ridicolo errore di invitare tutti a essere parte dell'Unione e allo stesso tempo di partecipare all'euro. Inoltre, quasi nessuno dei 27 Paesi membri ha mai pensato di pagare soldi al bilancio comune, di trovarsi cioè nella condizione di contributori, ma tutti sono sempre stati interessati a ottenere qualcosa, a spremere risorse. E questo hanno fatto. Da ultimo, nessuno o quasi degli attuali leader crede nella necessità dell'integrazione europea. Non si rendono conto che gli europei stanno giocando d'azzardo col futuro degli Stati-nazione in quanto singole entità».
Ma questa incapacità a comprendere la necessità dell'integrazione è di carattere politico o intellettuale?
«Entrambi. Nella sostanza è l'incapacità di capire la decrescente vitalità della civiltà europea, la sua decadenza. All'inizio degli anni Cinquanta, poco dopo la fine della guerra, eravamo in forte crescita demografica. Poi è subentrata la stagnazione e oggi siamo in piena denatalità. Demograficamente l'Europa rimpicciolisce e invecchia. Ma il resto del mondo — Asia, India, Africa e perfino il Nord America — cresce rapidamente, mentre noi andiamo in direzione opposta. Ci sono solo due altre nazioni demograficamente in crisi: la Russia e il Giappone. La percentuale della popolazione europea su quella mondiale continua a scendere: nel 2050 saremo il 7% e il nostro prodotto lordo non sarà più del 10%, mentre nel 1950 era il 30%. L'unica speranza di avere un ruolo è di averlo insieme, l'interesse strategico degli Stati-nazione europei nel lungo termine è la piena integrazione economica e politica. Ecco la ragione per cui parlo di inevitabile necessità».
David Cameron vuole rinegoziare il Trattato di Lisbona e poi sottoporre l'adesione inglese a referendum. Sarebbe un danno o un vantaggio per l'Ue se Londra uscisse?
«I motivi più importanti dietro l'iniziativa di Cameron sono puramente di carattere interno. Deve tenere a bada il suo partito e vuole dare agli elettori l'impressione di avere qualcosa da decidere. Detto questo, non è certo un contributo positivo al dibattito sull'integrazione europea. Eppure qualcuno lo ha preso sul serio. Ci sono stati predecessori di Cameron, da Harold Wilson a Lady Thatcher, che si sono mossi nella stessa direzione. L'unico leader inglese pro-europeo è stato Edward Heath. Harold McMillan fu quello che presentò la richiesta di adesione, ma soltanto per avere le mani nella torta: il mercato comune è sempre stato il loro unico orizzonte. E noi commettemmo l'errore nel 1972 di invitare gli inglesi, che ovviamente vennero. La prima cosa che chiesero fu il rimborso. Hanno sempre continuato su questa linea. Forse solo con Blair ci sono stati accenti diversi».
Ma se l'iniziativa di Cameron prendesse una dinamica propria, portando all'uscita del Regno Unito dall'Ue, chi ne avrebbe il danno maggiore, noi o loro? Sarebbe un disastro per entrambi come avverte Joschka Fischer?
«Sarebbe un disastro punto a basta. Ma potrebbe non durare più di due o tre anni. Poi verrebbe superato. Francamente non sono né a favore della loro cacciata, né a favore della loro permanenza. La mia preoccupazione è la fragilità della situazione attuale, nella quale nessuno sa cosa accadrà domani e nessuno è un vero leader. Qualche giorno fa abbiamo assistito a una convergenza tra Angela Merkel e David Cameron sul bilancio. Un po' ridicolo. La loro cooperazione sul taglio delle spese per la ricerca e la crescita aumenta le mie preoccupazioni. Perché resta il fatto che i due hanno finalità totalmente opposte. Il più grande leader europeo fu Churchill: dopo la guerra disse chiaramente a noi e ai francesi che dovevamo cooperare per creare gli Stati Uniti d'Europa, ma che il Regno Unito sarebbe rimasto fuori perché aveva il Commonwealth. I suoi successori hanno scelto di entrare in Europa, ma senza crederci».
Che cosa bisognerebbe fare per rilanciare l'integrazione?
«Se solo lo sapessi».
Al Congresso della Spd lei ha invitato il Parlamento europeo ad agire. Ha parlato di cooperazioni rafforzate tra i Paesi che lo vogliono, di regolamenti finanziari comuni, di separazione tra banche commerciali e banche d'investimento, di regole ferree sui derivati...
«Ho invitato il Parlamento europeo a fare un golpe. Penso ancora sia una buona cosa. Per esempio gli eurodeputati potrebbero dire no al bilancio. Si creerebbe una situazione agitata, che forse potrebbe essere necessaria a fare emergere una leadership. La separazione tra banche commerciali e d'affari è una delle cose che mi stanno a cuore. Ma bisogna stabilire chi è responsabile di formulare regole comuni per le banche. In questo momento 27 membri della Commissione di Bruxelles si occupano del problema. Ma non c'è nessuno che prenda decisioni per i 16 Paesi dell'Eurozona. Il solo che s'è visto sulla scena è stato Juncker, il premier lussemburghese, un uomo solo, senza staff, senza consiglieri. No, trovo tutto ciò ridicolo e privo di senso. Per questo sollecito l'Europarlamento a un putsch. Sento però che questa situazione ambigua e confusa sia destinata a protrarsi».
Ma se lei fosse oggi il Cancelliere, cosa farebbe?
«Per prima cosa non farei nulla contro i francesi e convincerei il mio collega francese a non fare nulla contro i tedeschi. Se fallissi in questo sforzo, mi dimetterei. Il mio dovere sarebbe ristabilire una forte alleanza franco-tedesca, cui dovrebbero associarsi l'Italia, l'Olanda, il Belgio, possibilmente anche la Polonia. Ma se non riuscissi a realizzare una piena cooperazione di mente e di cuore tra Parigi e Berlino, dovrei andarmene».
E crede che ciò sia possibile oggi?
«Sarebbe una scommessa, vista la situazione psicologica dei francesi e quella dei tedeschi. Se guardo alla Germania oggi, vedo ancora segni preoccupanti di arroganza. Meno di due o tre anni fa, ma nondimeno presenti. Come ho detto al Congresso socialdemocratico dobbiamo stare attenti: se la Germania tenterà di essere prima inter pares nella politica europea, una crescente percentuale dei nostri vicini penserà di doversi difendere da questo primato. Le conseguenze sarebbero paralizzanti per l'Europa, mentre noi ci isoleremmo. In fondo abbiamo bisogno di proteggerci da noi stessi».
Come risponde all'argomento del deficit democratico? L'opinione pubblica non sembra più così affezionata all'idea d'Europa...
«Più dell'opinione pubblica, direi che l'opinione pubblicata non sia così favorevole all'Europa».
Jürgen Habermas parla di un degrado della democrazia nelle istituzioni comunitarie. È d'accordo?
«Come constatazione dei fatti, è giusta».
È la stessa obiezione degli euroscettici.
«Non cambia il fatto che Habermas sia nel giusto».
Ma ci può essere integrazione senza sanzione democratica?
«La democrazia, ovvero la democrazia parlamentare è in parziale ritirata. Televisione, Internet e social media hanno in parte rubato il ruolo ai Parlamenti. Ma la colpa è almeno per metà degli stessi Parlamenti».
Quale considera il suo miglior contributo all'Europa?
«Direi la stretta cooperazione con la Francia. In questo ho potuto contare su Valéry Giscard d'Estaing. Vennero anche i risultati, fosse l'ampliamento, l'elezione diretta del Parlamento europeo o la creazione del Sistema monetario. Ma la cosa più importante fu la volontà di cooperare in armonia con Parigi. Fu possibile allora, anche perché l'Italia fu presente e attiva».
Qual è il suo maggior rimpianto come politico, la cosa che avrebbe voluto fare e non ha fatto?
«Non ci ho mai pensato. Non ho un evento o un fatto che mi venga in mente. Non ho mai perseguito progetti irrealistici. Sono stato sempre un pragmatico».
Cioè consiglierebbe ancora un medico ai politici che hanno le visioni?
«Assolutamente sì. È una cosa sensata».
È dispiaciuto che il Papa tedesco si sia dimesso?
«Sono neutrale, né dispiaciuto né compiaciuto. Lo considero un fatto della vita. Ma sono felice che il prossimo Papa non sarà un tedesco».
Che rapporti ebbe col Vaticano da cancelliere?
«Fui molto impressionato dall'umanità e dalla personalità di Giovanni Paolo II. L'ho incontrato tre volte. La prima volta lo vidi subito dopo l'attentato. Avevo già provato a contattarlo quando era arcivescovo di Cracovia. Ma a quel tempo si preoccupò che il nostro incontro avrebbe provocato troppo i sovietici. E così evitò l'incontro, mandò un suo sostituto. Aveva ragione. Noi volevamo attraverso di lui stabilire un contatto con Solidarnosc. Karol Wojtyla fu un grande uomo».
Lei si considera un uomo felice?
«Non sono felice, sono ancora vivo: ho 95 anni».
È una buona ragione per esserlo. La ricerca della felicità è uno dei diritti inalienabili dell'uomo.
«Non ho mai creduto a quella frase di Jefferson. La felicità non dipende da noi. La vita, la libertà sono diritti innati, ma la ricerca della felicità non mi convince. Ho dibattuto su questo una volta con un grande imprenditore canadese: mi disse che lui avrebbe cambiato la triade con vita, libertà e buon governo. Sono d'accordo. La ricerca della felicità non è né nei Dieci Comandamenti, né nella filosofia di Aristotele. Non c'è negli insegnamenti della Chiesa cattolica, né in quelli di Lutero: è un'invenzione di Thomas Jefferson. Personalmente credo nel dovere, non nella felicità».
L'intervista è finita. Helmut Schmidt respira profondamente, poi fiuta l'ennesima presa di tabacco. Ha appena terminato l'intero pacchetto di sigarette. Mi chiede della mia famiglia, se i miei genitori fossero cattolici. Gli racconto di mia madre credente, di mio padre ateo e iscritto al Pci. D'improvviso ha uno scatto: «Lei ricorda Enrico Berlinguer?». Certo, signor cancelliere. «Ho sempre nutrito una grande ammirazione per quell'uomo».

Corriere La Lettura 17.2.13
I neo-atei, la religione di chi non crede
Scettici, agnostici, indifferenti chiedono un nuovo status. E ottengono ascolto in Europa Perciò il difensore civico dell'Ue critica l'«opaca preferenza» accordata alle Chiese
di Marco Ventura

C'era anche Gandhi tra le migliaia di londinesi che, il 3 febbraio 1891, diedero l'estremo saluto a Charles Bradlaugh. Ateo professo, nel 1880 Bradlaugh fu il primo deputato britannico a rifiutarsi di giurare nel nome di Dio. Messo sotto pressione, si disse disposto a recitare la formula di rito, ma chiarì che, non credendo in Dio, quel «so help me God» era per lui privo di sostanza. Il papà di Winston Churchill, all'epoca membro di spicco della Camera dei Comuni, respinse la proposta in un celebre discorso sull'indispensabile «sanzione divina» dell'operato del Parlamento. Bradlaugh non poté insediarsi e dovette vincere di nuovo le elezioni per essere autorizzato, sei anni dopo, a giurare pro forma. Nel 1888, infine, fu reso facoltativo il giuramento davanti a Dio.
Per vincere, Bradlaugh aveva dovuto dare una solida forma associativa alla compagine atea, fondando nel 1866, con Annie Besant, la National Secular Society. La lotta per i diritti dei non credenti era inscindibile da quella contro l'imperialismo cristiano: avvocato dei diritti dei popoli colonizzati, Bradlaugh era sbeffeggiato dai colleghi parlamentari come il «deputato indiano». Perciò, quel 3 febbraio 1891, Gandhi era al cimitero di Brookwood.
L'omaggio al difensore dei diritti delle colonie non faceva tuttavia del Mahatma un adepto della causa atea. Dopo i funerali, mentre attendeva il treno alla North Station, Gandhi vide un militante ateo aggredire un prete. L'episodio, raccontò poi il padre dell'indipendenza indiana, «aumentò la mia avversione per l'ateismo». Un secolo dopo i funerali di Bradlaugh, negli anni Novanta del Novecento, per due volte le istituzioni europee premiarono la battaglia di atei e agnostici perché i loro diritti non fossero secondi a quelli delle Chiese. Nel 1993 la Corte di Strasburgo condannò per la prima volta uno Stato, la Grecia, per aver violato il diritto di propagandare una fede, e definì nell'occasione la libertà di pensiero, coscienza e religione non soltanto come strumento a tutela dei credenti, ma anche come «un bene prezioso per atei, agnostici, scettici e indifferenti». Quattro anni più tardi, una dichiarazione non vincolante nel trattato di Amsterdam riconobbe alle «organizzazioni filosofiche e non confessionali» uno status analogo a quello delle Chiese, associazioni e comunità religiose. Nel 2007, a Lisbona, il principio entrò a pieno titolo nel trattato sul funzionamento dell'Unione Europea, il cui l'articolo 17 impegna l'Unione a «un dialogo aperto, trasparente e regolare» non soltanto con le Chiese, ma anche con le organizzazioni filosofiche e non confessionali.
Dalla pretesa di Bradlaugh di giurare senza Dio fino al trattato di Lisbona, la militanza atea è andata inseguendo le Chiese sul loro terreno. Le associazioni umaniste, atee e agnostiche lottano per godere degli stessi benefici delle Chiese, per sfruttare i medesimi canali di propaganda. Gli umanisti belgi sono stati d'esempio, con i loro insegnanti di religione e persino con i loro cappellani militari. Come un'ombra, gli atei organizzati hanno seguito le strategie delle Chiese, cercando spazi di riconoscimento e di azione nei singoli Stati, e soprattutto, nell'ultimo ventennio, presso le istituzioni di Bruxelles. Fino al successo storico di due settimane fa.
Il 1° febbraio il difensore civico europeo ha ufficialmente censurato la commissione europea perché si era rifiutata di discutere con la Federazione umanista europea il diritto delle Chiese di selezionare il proprio personale, in particolare negli ospedali e nelle scuole, in funzione di criteri, come l'orientamento sessuale e le opinioni religiose, su cui di norma un datore di lavoro non può metter becco. Il difensore civico Nikiforos Diamandouros ha criticato, in generale, l'opaca preferenza accordata alle Chiese, a scapito delle associazioni atee e agnostiche, e ha ingiunto di conseguenza alla commissione di chiarire le regole del gioco nel «dialogo aperto, trasparente e regolare» con Chiese e organizzazioni filosofiche e non confessionali.
Lo scontro tra propaganda religiosa e propaganda atea è un elemento essenziale del nostro paesaggio sociale e politico. Con più di un europeo occidentale su quattro che non si identifica con una religione, cresce il margine di manovra per le associazioni umaniste, autoproclamatesi come le rappresentanti politiche, e addirittura legali, degli europei senza religione. In società liberaldemocratiche aperte allo scambio di idee, in cui lo Stato non può identificarsi con la fede, e tanto meno con una fede, la militanza di atei e agnostici occupa ogni spazio disponibile.
Il caso più emblematico resta il braccio di ferro ingaggiato in Germania dopo la pubblicazione nel 2007 di un libro di propaganda atea per bambini scritto da Michael Schmidt-Salomon e illustrato da Helge Nyncke (Wo bitte geht's zu Gott?, fragte das kleine Ferkel, «Per andare da Dio?, chiese il piccolo porcellino»). Mentre il Franco Freda di piazza Fontana pubblicava il libro in Italia, il vescovo di Ratisbona, Gerhard Ludwig Müller, tuonava contro il dilagare del neo-ateismo, eco minacciosa del comunismo e del nazismo, e accusava dal pulpito l'autore del libro di avere giustificato l'infanticidio in uno scritto precedente. Schmidt-Salomon, militante ateo della Fondazione Giordano Bruno, denunciava il prelato, per avere riportato scorrettamente il suo pensiero, e la diocesi bavarese, per aver pubblicato l'omelia incriminata. Chiedeva pertanto al tribunale di riconoscere il principio che anche in un sermone vanno rispettati i diritti delle persone. Nell'agosto 2011 la Suprema corte amministrativa federale ha chiuso la vicenda giudiziaria, accogliendo la richiesta di Schmidt-Salomon e condannando la diocesi al pagamento delle spese: la libertà di predicazione, hanno sancito i giudici, non include il diritto di citare infedelmente il pensiero altrui. Se per gli atei tedeschi è stata una vittoria dello Stato di diritto, per la Chiesa cattolica la sentenza offende la libertà religiosa. Tanto che meno di un anno dopo la condanna, nel luglio scorso, il Pontefice ha scelto il vescovo Müller come nuovo capo della Congregazione per la dottrina della fede. Il governo tedesco ha intanto respinto le pressioni perché il libro venisse censurato e la polemica ha spinto le vendite.
Reiterando l'attacco dell'ateo al prete di cui fu testimone Gandhi più di un secolo fa, la storia di Schmidt-Salomon propone una sfida radicale. Un manifesto di propaganda religiosa, «Manca qualcosa a chi non conosce Dio», spinge un porcellino e un porcospino a cercare Dio. I due amici si scontrano con l'ottusità di un vescovo, di un rabbino e di un muftì e tornano a casa convinti che si sta meglio senza Dio e che i credenti sono un po' tocchi. In un mondo in cui credere e non credere si intrecciano fino a divenire quasi indissolubili, i due estremi della militanza atea e di quella religiosa si somigliano sempre di più.

Corriere La Lettura 17.2.13
Il veleno che ha ucciso il Sessantotto. Assegnandoci un presente rancoroso
La cronaca romanzata di Romano Luperini, in una Pisa affollata di facce note e con la riflessione assistita da Franco Fortini
di Daniele Giglioli


Colpisce, in L'uso della vita. 1968, terzo romanzo di Romano Luperini, la diffrazione tra il contenuto incandescente e il tono, come definirlo? Triste no. Cupo nemmeno, e neanche amaro. Slontanato, forse; insieme partecipe e distante. E colpisce ancor più se si pensa che l'autore, oggi uno dei nostri massimi italianisti, è stato attore di primo piano negli eventi narrati, il '68 a Pisa, anticipazione in pratica e teoria di tante cose che nel bene e nel male si sarebbero concretizzate di lì a poco, con l'esplosione mondiale della rivolta da Parigi a Praga, da Città del Messico a Berlino. Luperini, che definisce il suo testo «una cronaca romanzata», sfugge insieme alla Scilla euforica dell'arroganza alla «formidabili quegli anni» e alla Cariddi depressa dell'«eravamo belli e bravi, ma purtroppo...».
E ovviamente non è affatto pentito, come tanti che ne hanno ricavato un mestiere, di quanto ha fatto, detto e scritto allora. Ma neppure lo rivende, tutto lustro e ammiccante, agli scontenti di oggi. Fa brillare il passato nella sua unicità, nella sua singolarità, nella sua lontananza: nessuna familiarità, nessuna morale a buon mercato. Perché diventi esempio occorre prima avvertirne la distanza.
Come in ogni romanzo storico, i protagonisti sono inventati e i comprimari celebri. Massimo D'Alema, per esempio, entra in scena con le parole: «avventurismo... disoccupare... portare a casa qualcosa»; e sarà poi sempre così. A lui si contrappone Adriano Sofri, mercuriale, inquietante, demiurgo del caos e dell'improvvisazione. Paziente e umano Luciano Della Mea, generoso e plagiabile un Ovidio Bompressi appena dissimulato sotto il nome di Ottavio; tutti colti al momento della genesi, prima che i luoghi comuni si impossessino della loro vita. Romanzesco è invece il personaggio principale, Marcello, cui pure l'autore deve aver prestato molti tratti. Figlio di un partigiano, espulso dal Pci perché in contrasto con la linea del partito, non più studente ma supplente precario, partecipa agli eventi con un trasporto che non sempre scongiura un sottile senso di esclusione: sarà quella la vita, la gioia, la giustizia? Di ogni passo compiuto paga il prezzo intero, compreso un soggiorno non breve nelle patrie galere, il contrasto durissimo col padre comunista, un aborto clandestino della ragazza con cui ha scoperto la felicità di avere un corpo. I brontolii sinistri che si annunciano li avverte nelle ossa, e non per senno di poi: suo allievo è quel Soriano Ceccanti che la notte di Capodanno resterà paralizzato per un colpo di pistola nel corso della contestazione alla Bussola di Viareggio; e si intuisce che Ottavio/Ovidio, il suo più caro amico, si sta preparando quale che sia un destino tragico.
Con leggerezza mai provata, Marcello vive e pensa per la prima volta in accordo; o cerca di farlo. Ma a ricordargli la tensione insopprimibile tra i termini provvede un altro personaggio storico, Franco Fortini, cui Luperini ha dedicato da critico pagine di grande penetrazione. Anche qui, d'altra parte, il narratore e il critico si sommano, e l'autore, come diceva Manzoni, vale veramente per due. I passi in cui compare Fortini, che al movimento dedica una riprensione fraterna senza sconti, sono raffinatissimi pastiches da sue pagine celebri, prima fra tutte L'animale, una grande poesia: un topo ucciso da un predatore, a sua volta condannato dal veleno che avrebbe comunque finito la sua preda, in una splendida, lucente mattinata d'estate. Non tutto ciò che brilla è vero; la coincidenza di pensiero e azione, morale e politica, è uno sconto immeritato sulla contraddizione; il «buttare tutto sé stessi» in un'impresa è mistificazione, perché il «tutto sé stessi» è un mito estetizzante. Altra fatica, altra responsabilità, altra perenne incompiutezza appartiene a chi pensa che il fine della rivoluzione sia l'«uso formale» della propria vita di cui al titolo, anche questo ricavato da Fortini. Formale perché frutto di progetto, liberato dall'insensatezza di un disordine mercantile che nella vita vede solo un fattore di profitto.
Leggerezza e progetto hanno senso solo insieme; separati, sono il veleno che ha ucciso tanto il movimento quanto il suo futuro, il presente spaventato e rancoroso che ci tocca. La serietà, la severità di tono con cui Luperini rievoca la propria storia, saldano in unità mirabile sentimento e giudizio. Sconfitto (o beffardamente trionfatore, come dicono oggi alcuni), il suo '68 è stato l'apparizione di una verità difficile: sprecata allora, irrisa oggi, ma che non per questo ha cessato di valere.

Corriere La Lettura 17.2.13
Perché la Fgci non ballava il Rock'n'Roll


«Un'organizzazione costretta a mediare fra l'adesione alla linea politica del partito e la necessità di essere una protagonista originale nel mondo giovanile». Schiacciata più che stimolata da questa dialettica, la Fgci (Federazione giovanile comunista italiana) non riuscì mai ad essere davvero protagonista, neppure nel «decennio dei giovani», ossia gli anni Sessanta. È il quadro che emerge dal saggio di Gianmario Leoni sul numero 267 della rivista «Italia contemporanea», voce dell'Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia (Insmli). Ne I giovani comunisti e il partito. La Fgci dal 1956 al 1968, Leoni parte dalla constatazione che durante la fase presa in considerazione l'organismo di rappresentanza dei giovani comunisti perse progressivamente tesserati, passando dai 392.394 del 1955 ai 125.438 del 1968. Un calo che rispecchiava quello degli iscritti al Pci nello stesso periodo, da 2.090.006 a 1.502.862, ma in proporzione assai superiore. Questa difficoltà a parlare con le nuove generazioni fu dovuta non solo alla cesura del 1956, l'anno dei fatti d'Ungheria e dell'VIII Congresso del Pci, ma all'incapacità dell'organizzazione comunista di fiutare lo spirito del tempo: la «gioventù bruciata» interpretata da James Dean e il fenomeno travolgente del rock and roll non potevano essere bollati come simboli di un americanismo deteriore. Che significato ha, si chiedeva Sandro Curzi sulla rivista della Fgci «Nuova Generazione», «questa manifestazione di americanismo in Italia? Chi sono questi giovani fans della nuova danza?». Il riferimento, tra l'altro, era a Mina e ai Rock Boys (Adriano Celentano, Giorgio Gaber, Enzo Jannacci e Luigi Tenco), che nel 1957 erano stati protagonisti del festival del rock and roll di Milano. L'organizzazione fu tuttavia un'importante palestra per i futuri leader del partito, da Enrico Berlinguer ad Achille Occhetto, da Luciana Castellina a Claudio Petruccioli. Bravi quadri di partito che non riuscirono mai ad agganciare il movimento giovanile, nemmeno quando esplose il Sessantotto.

Corriere La Lettura 17.2.13
Il sogno della salvezza genera mostri
Šalamov, testimone del Gulag, svela la vocazione totalitaria del comunismo
di Gaetano Pecora


All'ingresso del libro Varlam Šalamov (Scienze e Lettere), quasi ad avvertire che di scavo nella voragine del male si tratta, Luigi Fenizi accoglie il lettore con una domanda ruvida e assai poco cerimoniosa: perché — chiede — tutti conoscono Auschwitz, e nessuno (o quasi) conosce Kolyma? Per deficienza del materiale documentario? No, non è così. Oggi almeno ne sappiamo abbastanza per misurare l'orrore senza riparo del Gulag comunista. Ai cui delitti di malvagità non è neppure mancato il talento letterario di chi, come Varlam Šalamov, li ha rivissuti, li ha risentiti quei delitti, e così risentendoli e raccontandoli ha comunicato il suo strazio a pagine che stringono ed opprimono. Non la materia del racconto, dunque, e nemmeno la maestria del raccontare: nulla, nulla manca. Eppure… Eppure, spenzolante dal gancio di quell'interrogativo iniziale, la domanda resta: perché il nome di Himmler suscita esecrazione e quello, per dire, di Ežov, aguzzino tra i più disfatti nell'animo, non si dilata in circolo con l'onda dell'eguale sdegno? La risposta di Fenizi batte sull'«asimmetria dell'indulgenza», dove asimmetrico sta per sbilenco, sbilanciato; e sbilanciato proprio nel senso che sui piatti della umana canaglieria i crimini del nazismo pesano di più di quelli del comunismo perché (così, almeno, si pensa) quelli furono delitti che nulla può scusare; questi invece rimangono errori. Tragici, micidiali, ma pur sempre errori che come tali hanno deviato per strade torte un progetto — quello comunista, appunto — che aveva dalla sua la maestà degli ideali salvifici. Nulla di più sbagliato, secondo Fenizi, per il quale il verme era già nel frutto («non si sfugge — scrive — alla responsabilità della teoria») e c'è come un ponte volante tra la dottrina del comunismo e i suoi esiti concentrazionari. Non foss'altro perché la storia, nei rari momenti in cui sa essere maestra, ci insegna proprio questo: che la «salvezza» degli uomini riesce fatale alla loro libertà. Sempre, con l'implacabile regolarità di un metronomo, sempre, ogni qual volta si è dato di piglio alla «rigenerazione morale ed intellettuale» della collettività, sempre si è fatto capo ad un manipolo di fanatici che, in nome degli uomini quali dovranno essere, si arroga un potere tirannico sugli uomini quali effettivamente sono. Scrisse una volta Anatole France: «Quando si vuole rendere gli uomini buoni e saggi, liberi, moderati, generosi, fatalmente si è portati a volerli uccidere tutti. Robespierre credeva alla Virtù: fece il Terrore». Marx credeva di aver risolto «l'enigma della storia» (sono parole sue). Come meravigliarsi che quella fine, il capitombolo nel Gulag, fosse scritta nel principio?

Corriere La Lettura 17.2.13
Stalin
Il ritorno del georgian boy
Uomo del riscatto oppure Satana: un Paese diviso tra Occidente e Mosca
di Lorenzo Cremonesi


Tornare a Stalin per superarlo, e finalmente seppellirlo. È schizofrenico il rapporto dei georgiani con il loro «piccolo padre», simbolo imbarazzante di un passato che tanti vorrebbero morto e sepolto, ma che in realtà non passa affatto. Anzi, torna adesso a rinfocolare le polemiche sull'onda del progetto, in occasione dei 60 anni della morte, di riportare in pubblico quella massiccia statua in bronzo alta quasi sette metri che tre anni fa fu rimossa dal centro di Gori, la sua città natale, per erigerla — questa volta — proprio di fronte al museo a lui dedicato.
Un trasloco di 500 metri, dal sito originario del 1952 fino alla piazza principale. Ma, seguendo l'intensità del dibattito, pare che ogni metro misuri decine di chilometri e soprattutto rappresenti visioni opposte della memoria collettiva, del rapporto con il gigante russo dall'altra parte del Caucaso e della narrativa fondante l'identità georgiana dagli anni insanguinati del Novecento profondo a oggi. «Stalin si può amare, oppure odiare. Ma raramente lascia indifferenti. Subito dopo la rivoluzione delle Rose, nel 2003 i fedelissimi del presidente filo-americano Mikhael Saakashvili hanno cercato di cancellarlo. Però senza successo. Ora gli uomini nuovi della svolta filo-russa voluta dal neopremier Bidzina Ivanshivili, vincente alle elezioni dell'ottobre 2012 (controlla 85 seggi dei 150 complessivi, ndr), vorrebbero riproporlo con la stessa retorica della dittatura di mezzo secolo fa. Il che è egualmente assurdo», sintetizza Lasha Bakradze, direttore del museo della Letteratura georgiana e docente di Storia dell'Urss all'università di Tbilisi.
Dittatori, storia e memoria nazionali: il tema gli sta a cuore. Due anni fa è stato a Braunau, cittadina natale di Hitler in Austria, dove ha incontrato il sindaco assieme a quello di Predappio. «Stalin, Hitler e Mussolini hanno tanto in comune. Non ultima la necessità di riflettere sul racconto storico alle nuove generazioni», sostiene. La sera del 30 gennaio, Bakradze ha reso pubblici i risultati del sondaggio sponsorizzato dal noto istituto statunitense, Carnegie Endowment for International Peace, in cui risulta che circa un quarto dei quasi cinque milioni di georgiani si esprime senza riserve a favore dell'era staliniana e giustifica il Gulag. Una percentuale simile è all'opposto assolutamente negativa. E così si spiega: «I più anziani sono nostalgici, rimpiangono Stalin come un'icona della loro gioventù. Sono le vittime imbelli della modernizzazione, cresciute nel regime garantista socialista, e si sono impoveriti nel nuovo sistema economico liberale. Altri lo ammirano non in quanto leader comunista, ma perché fu un georgiano che acquistò fama mondiale. Stalin è il nostro georgian boy che si è fatto rispettare all'estero, un atteggiamento provinciale, tipico dei nazionalisti nei Paesi piccoli e insicuri. In verità, manca un processo di revisione critica approfondito. E senza ripensare, studiare, tornare alle fonti della propria storia, non si va lontano. Si è cercato di rimuovere Stalin e lui ci sbarra la strada. Perché la storia non va dimenticata, altrimenti torna a condizionare con un effetto boomerang che sorprende gli impreparati».
Parole puntualmente confermate dalla visita ai luoghi più noti che vorrebbero rappresentare la memoria recente della Georgia. Vai a Tbilisi, la capitale, e il Museo dell'occupazione sovietica raffigura Stalin come una sorta di Satana in Terra, il persecutore numero uno del popolo georgiano, così crudele e implacabile che al momento delle grandi purghe, a metà degli anni Trenta, decise di massacrare anche i vecchi compagni che l'avevano conosciuto giovanissimo tra le cellule di cospiratori comunisti di Gori. «Avrebbero potuto contraddire la narrativa agiografia ufficiale del regime, andavano eliminati», dice una delle giovani guide. La prima sala dell'esposizione documenta i massacri dei nobili e degli ufficiali georgiani ai tempi dell'invasione sovietica del 1921. Foto ingiallite di intere famiglie spazzate via. I resti bucherellati da raffiche intense di proiettili di un vagone in legno dove i difensori dell'indipendenza nazionale furono uccisi a centinaia. Viene automatico il parallelo con la narrativa polacca dell'eccidio dei propri quadri militari a Katyn, un ventennio dopo. «La propaganda sovietica ha avallato quei bagni di sangue», sottolinea Giorgi Kandelaki, eletto giovanissimo nel 2008 (aveva solo 25 anni) al Parlamento tra le file del Movimento unito nazionale, il partito di Saakashvili. «Dopo la caduta dell'impero zarista, la Georgia era rapidamente assurta alla dignità di Paese indipendente, pienamente inserito nella tradizione democratica occidentale. Stavamo entrando nella Lega delle Nazioni. Poi ci fu l'invasione e per quieto vivere l'Europa, a cui guardavamo con tante speranze, ci abbandonò al nostro destino», aggiunge per spiegare i motivi del radicato filo-americanismo tra i ranghi del suo partito sin dall'indipendenza guadagnata a fatica dopo il crollo dell'Urss, ormai oltre vent'anni fa.
Da qui al parallelo con le recenti tensioni, che segnano il braccio di ferro con Mosca per il controllo dell'Abkhazia e dell'Ossetia del Sud, il passo è breve. «Nel 2008 siamo entrati in guerra per difendere i nostri confini. Non dobbiamo farci illusioni. Le aspirazioni imperiali russe sulla Georgia non sono mai scemate. La nostra unica speranza è il sostegno occidentale», ribadisce. Nella seconda sala del museo i morti tra i soldati delle unità georgiane inquadrate nell'Armata rossa e spedite a contrastare l'invasione italo-tedesca nella Seconda guerra mondiale vengono equiparati alle vittime politiche della persecuzione comunista. «Partirono in 700 mila, 400 mila non sono tornati. Mandati a morire per ordine di Mosca», denunciano le didascalie in toni che però sollevano non poche perplessità anche tra quei circoli intellettuali georgiani che sono ben contenti di prendere le distanze dalla Russia di Putin.
Tutto diverso invece il museo dedicato a Stalin nel centro di Gori, fossilizzato nell'immagine del dittatore mummificata dalla ben nota coreografia trionfante e ossessiva dell'Unione Sovietica al tempo della sua massima potenza. Dista solo una settantina di chilometri dalla capitale, ma è come se fossimo in un Paese totalmente altro. Tbilisi e Gori, la critica radicale da una parte e l'apologia adorante dall'altra: le due «narrative» fanno a pugni tra loro in modo talmente stridente, estremo, persino paradossale, da far quasi credere sia una scelta voluta. «E invece no. Siamo alla guerra di propaganda, non c'è stato ancora alcun tipo di riflessione sistematica. Di fronte alle contraddizioni si lasciano le cose come stanno, anche a costo di cadere nel ridicolo», confessa la direttrice del museo di Gori, Liana Okropiridze. Qui permane praticamente immutata l'esaltazione tradizionale sovietica prima maniera dello Stalin figlio del popolo, costruttore dell'economia nazionale e condottiero vittorioso contro la barbarie nazista. Il museo venne eretto nel 1957, quattro anni dopo la sua morte. Lo volle Krusciov, che pure aveva già da tempo avviato la destalinizzazione, per accattivarsi i comunisti georgiani. Nel giardino sono ancora esposti la semplice abitazione in legno a un piano dove lui nacque nel 1879 e il vagone ferroviario attrezzato come ufficio in cui viaggiava spesso.
«Stalin aveva paura di volare, preferiva il treno. A costo di passarvi settimane intere», spiega puntigliosa e con un inglese da manuale Olga Topchisheili, la guida che lavora qui da tre decenni e si dice «entusiasta» del ritorno della statua in città: «Così attirerà più turisti». I numeri parlano chiaro dal registro del museo: i visitatori sono in crescita e in grande maggioranza stranieri. Nel 2011 sono stati oltre 24.500, di cui solo il 10 per cento georgiani. Nel 2012 la cifra è salita a 31.655, gli stranieri a quasi 27 mila. Al visitatore italiano mostra fiera i doni arrivati negli anni dai «compagni» che militavano nel più grande Partito comunista occidentale. «Dalle donne italiane di Mantova a Giuseppe Stalin campione della pace», si legge cucito a mano in filo rosso su una colomba di pezza bianca conservata in una bacheca di vetro. In un'altra sta una botticella di vino in legno chiaro con la dicitura: «Dai comunisti milanesi». Unica concessione al mutare dei tempi è una stanzuccia nel sottoscala, dove nell'ultimo anno è stata organizzata frettolosamente una minuscola esposizione in ricordo delle vittime dello stalinismo originarie di Gori. C'è la ricostruzione di una cella dal soffitto basso con accanto l'ufficio degli interrogatori della polizia segreta, sul muro si leggono i nomi di una trentina di deportati mai più tornati dalla Siberia. «In effetti non tutto era perfetto. Ci furono anche ingiustizie», ammette la guida arrossendo imbarazzata.
Poco lontano, nella piazza centrale dove stava la statua di Stalin, adesso c'è un grande parcheggio. Le auto sono per lo più Suv giapponesi, Bmw e Skoda da decine di migliaia di euro; stridono con la povertà delle abitazioni. Un paio di strade oltre la zona del centro i quartieri appaiono decrepiti, i muri scrostati, i palazzi sono casermoni grigi in perfetto stile sovietico anni Cinquanta. Il vecchio e il nuovo convivono spalla a spalla senza che uno prevalga sull'altro, sono lo specchio di questa fase di transizione caotica, dominata dall'incertezza. «La sera tra il 24 e 25 giugno 2010 arrivarono le ruspe senza preavviso. Faceva buio. Illuminarono la scena con gigantesche lampade al fosforo appese allo stabile del municipio appena di fronte. La statua era il simbolo della nostra città. Venne imbragata e smontata rapidamente. La portarono via come ladri nella notte. Vergogna. Avevano paura della reazione della popolazione. Noi bambini ci giravamo attorno in bicicletta. Era un punto di ritrovo per tutti. Non l'hanno neppure cancellata dalle cartoline. Per distruggere il piedestallo di marmo e pietra ci vollero altri due giorni», ricorda Lella Bedoshvili, 39 anni, cameriera al Cafè Hause, il bar che si affaccia direttamente di fronte al municipio, scontenta che la statua non torni esattamente dove stava prima.
Furiosamente avverso a qualsiasi forma di commemorazione è per contro il 41enne Jacob Jugashvili, pronipote del dittatore e uno dei pochi familiari ancora in vita, che viaggia di continuo tra Mosca e Tbilisi. «Ipocriti coloro che vogliono la statua. Stalin venne tradito e ucciso dal suo partito. Siamo vittime di una gigantesca cospirazione», afferma aggressivo, a testimonianza di quanto sia emotivamente difficile essere discendenti di un personaggio famoso.
Favorevole al compromesso per motivi di opportunità si dice invece il sindaco di Gori, il 51enne David Raznadze, strenuo militante della svolta pro-russa voluta da Ivanishvili. «Ero contrario alla rimozione della statua. Fu una decisione imposta da Saakashvili. Non che io sia stalinista, tutt'altro. Ma alla maggioranza dei quasi 60 mila abitanti di Gori la statua piaceva. E, soprattutto, perché offendere i vicini russi? Sono i nostri partner economici naturali. Io penso a un modello di integrazione nel Caucaso che si rifaccia a quello tra i Paesi dell'Europa unita. Sovranità politiche separate, ma stretta cooperazione economica. Ora è giusto erigere la statua di fronte al museo, una soluzione che dovrebbe accontentare un po' tutte le parti», spiega nel suo ufficio.
A conferma della sua argomentazione sottolinea l'importanza del nuovo accordo per la ripresa dell'esportazione del vino georgiano sul mercato russo, che era stata bloccata da Mosca nel 2006. «Meglio vendere il nostro vino ai russi, che fare la fila per entrare nella Nato», aggiunge, in aperta polemica con l'atlantismo del presidente. Ben venga dunque il gigante di marmo. Un accomodamento che raccoglie consensi anche tra i più critici a Gori. Dopo tutto Stalin era uno di loro. «I russi ci hanno fottuto», esclamano sarcastici. «Ma Stalin ha fottuto i russi».

Corriere La Lettura 17.2.13
Il Mengele sovietico era un pittore aristocratico
di Marcello Flores

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Corriere La Lettura 17.2.13
Geometrica bellezza. Così Mandelbrot scoprì i frattali
Nuvole e cavoli non hanno più segreti
di Stefano Gattei


Quanto è lunga la costa della Bretagna? Forse nessuno sa rispondere a questa domanda senza consultare un atlante o cercare velocemente in Rete. Tutti (o quasi) sarebbero però d'accordo sul fatto che una risposta da qualche parte esiste, e che si tratta di un numero ben definito in rapporto a una data unità di misura. Le cose, però, sono più complicate di quello che sembra.
Questa stessa domanda costituisce il titolo di un breve ma rivoluzionario articolo pubblicato da Benoît B. Mandelbrot (1924-2010) sulla rivista «Science» nel 1967. Per rispondere, l'autore prende in considerazione un tratto di costa e muove da alcune considerazioni: la lunghezza è almeno uguale alla distanza in linea retta tra le estremità del tratto considerato; questo è però quasi sicuramente sinuoso, e di conseguenza è più lungo della retta che congiunge i suoi estremi. Per misurarlo si può procedere in vari modi, per esempio utilizzando un compasso di ampiezza fissata; alla fine, il prodotto del numero di rilevamenti per l'ampiezza dello strumento darà una prima misura della lunghezza del tratto di costa. Se si ripete l'operazione riducendo progressivamente l'apertura del compasso, tuttavia, la misura finale tenderà ad aumentare sempre di più. Non solo: se passiamo a una misura sempre più precisa di un tratto sempre più delimitato di costa, fino a considerare uno scoglio, un granello di sabbia, o anche solo una sua molecola, incontreremo sempre i medesimi ostacoli. Ogni misura dipenderà, inevitabilmente, dalla maggiore o minore capacità del nostro compasso di «avvicinarsi» al profilo reale. Avremo però sempre un risultato approssimato, come quando cerchiamo di far aderire un foglio di carta stagnola a un oggetto frastagliato.
Nel suo testo fondamentale sull'argomento, Gli oggetti frattali (uscito a Parigi nel 1975 e in edizione inglese rivista nel 1984), Mandelbrot analizza le proprietà comuni alla frequenza dell'uso delle parole e alle statistiche delle piene del Nilo, alla distribuzione delle galassie e alla struttura interna delle arterie e dei bronchi. In ognuno di questi casi, e in moltissimi altri, ogni piccola parte dell'oggetto è un'immagine esatta, su scala ridotta, dell'oggetto intero.
Come caratterizzare matematicamente questa proprietà, detta di autosimilarità? Per farlo Mandelbrot utilizza una generalizzazione dei concetti matematici introdotti da vari autori prima di lui (Henri Poincaré, Felix Hausdorff, Karl Weierstrass, Helge von Koch, Pierre Fatou e Gaston Julia, ma anche Giuseppe Peano) cui dà il nome di dimensione «frattale», dal latino fractus: «spezzato», «frammentato». Noi siamo abituati ad attribuire una dimensione intera agli oggetti: una dimensione per rette e curve, due dimensioni per piani e superfici, tre per un solido. A differenza di questi, gli oggetti «frattali» hanno una dimensione frazionaria.
L'approccio di Mandelbrot, reso possibile dal contemporaneo sviluppo dei computer (lavora per 35 anni presso i laboratori Ibm), ribalta la prospettiva tradizionale, consentendo di trattare le irregolarità non più come imperfezioni, ma come entità intrinseche e quantificabili. Oggetti comuni quali le strutture di piante, il profilo di nuvole e montagne, il greto dei fiumi, la forma dei fulmini, e così via, diventano misurabili: non più considerati imperfezioni, o irregolarità non trattabili rigorosamente, diventano suscettibili di studio, aprendo nuove vie alla ricerca.
I frattali si rivelano fondamentali tanto per il loro impatto scientifico quanto per il loro ruolo di rottura nei confronti della tradizione platonico-pitagorica. Con il suo lavoro, infatti, il matematico francese dà il colpo di grazia al programma bourbakista di rifondazione della matematica, al cui naufragio (negli anni Settanta) contribuì la presa di coscienza che l'eccessiva attenzione nei confronti degli aspetti formali si scontrava, da una parte, con l'impossibilità di un fondamento solido e coerente dell'edificio matematico e, dall'altra, con la necessità di consentire una maggiore libertà concettuale per perseguire nuove linee di ricerca (come successe con il calcolo infinitesimale nel XVII secolo, che poté svilupparsi sacrificando il rigore formale al fine di ottenere nuovi risultati).
Nella propria autobiografia, The Fractalist. Memoir of a Scientific Maverick (uscita postuma poche settimane fa per Pantheon Books, New York), Mandelbrot racconta di quando suo padre, durante la Seconda guerra mondiale, scampò alla morte abbandonando il gruppo di prigionieri fuggiti insieme a lui da un campo di concentramento tedesco e in marcia verso la città più vicina. Egli ritenne che procedere tutti insieme, lungo la strada principale, fosse troppo rischioso; si addentrò quindi nel bosco circostante, per tentare di ritornare a casa da solo. Di lì a poco, un bombardiere Stuka avrebbe mitragliato il gruppo di prigionieri, lasciandolo unico sopravvissuto. L'indipendenza di giudizio del padre sarà per Mandelbrot un modello: per tutta la vita egli avrebbe sempre proceduto, vigorosamente e caparbiamente, in una direzione diversa da quella degli altri. «Ortogonale rispetto a qualsiasi moda», come disse un suo amico matematico, Mandelbrot ha sollevato problemi nuovi in quasi tutti i campi di cui si è occupato: fisica, biologia, medicina, cosmologia, geologia, economia, linguistica, informatica e, naturalmente, matematica.
Un ruolo particolare ha svolto anche il lato estetico: è sufficiente un computer con un processore modesto e contenute capacità grafiche per esplorare frammenti sempre più piccoli di oggetti frattali semplici, scoprendo aspetti sempre nuovi. La chiave del successo, tuttavia, è stata la fecondità teorica della nuova geometria, capace di evidenziare strutture comuni a campi di indagine ritenuti lontani, quali la struttura delle galassie e la dinamica che accomuna i processi della corteccia cerebrale nei mammiferi, dal topo alla balena, passando per l'uomo.
A partire dagli anni Sessanta, l'applicazione della geometria frattale a questioni economiche ha condotto Mandelbrot a mettere in discussione alcuni consolidati fondamenti dell'economia classica e della finanza moderna, quali l'ipotesi di razionalità dei comportamento degli agenti economici, l'efficienza del mercato e quella secondo cui l'oscillazione dei prezzi è descrivibile come un cammino casuale, analogo al «moto browniano» di una particella in un fluido. Nel suo ultimo libro prima dell'autobiografia, Il disordine dei mercati (2004), Mandelbrot afferma la necessità di abbandonare l'idea che i mercati siano entità «moderatamente variabili». Quelle che i modelli economici tradizionali considerano anomalie imprevedibili sono, ai suoi occhi, il modo naturale di funzionare dei mercati, rappresentabile con gli strumenti messi a disposizione dalla geometria frattale: la volatilità dei prezzi è intrinsecamente selvaggia; il loro andamento è «ruvido», non liscio e continuo. «Quasi tutti i modelli più comuni, in natura, sono ruvidi», scrive in apertura dell'autobiografia. «Presentano aspetti che sono squisitamente irregolari e frammentati. Non semplicemente più elaborati della meravigliosa e antica geometria di Euclide, ma di una complessità enormemente più grande. Per secoli, l'idea stessa di misurare la ruvidità è stato un sogno vano — un sogno a cui ho dedicato la mia intera vita di scienziato».

Corriere La Lettura 17.2.13
L’algoritmo della pittura di Pollock
di Stefano Bucci

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Repubblica 17.2.13
Ossessione valutazione
Griglie, modelli standard strumenti bibliometrici
Ma si può identificare un criterio di analisi davvero oggettivo?
Dall’università alla ricerca la conoscenza è sempre più sotto esame e ridotta a puro dato numerico
Gli atteggiamenti umani mantengono un tasso di irregolarità e anche di irrazionalità che ne riducono in modo drastico la prevedibilità
di Roberto Esposito


Sulle modalità, i presupposti e le contraddizioni della valutazione applicata alla ricerca universitaria è già intervenuto su queste pagine Pier Aldo Rovatti. Come identificare criteri di valutazione oggettivi, soprattutto in ambiti di studio inevitabilmente governati da logiche soggettive, come quelli umanistici? E a chi compete la scelta dei valutatori – al ministero, ad altri valutatori, alla comunità scientifica nel suo complesso? Sono tutte questioni di problematica risoluzione, che però rischiano di precipitare l’intero sistema universitario in una sorta di gigantesco imbuto da cui non sarà facile uscire. Per coglierne l’origine, tuttavia, è bene arretrare lo sguardo allo sfondo retrostante – epistemologico e storico – a partire da cui questa grande macchina si è messa in moto. E cioè da una svolta che riguarda, prima ancora di decisioni politiche o di opzioni tecniche, l’intero regime del sapere contemporaneo.
Jerome Kagan, nel suo saggio su Le tre culture (Feltrinelli), lo descrive come un sistema solare in cui la fisica è il sole e la matematica il suo nucleo ardente. Se chimica e biologia sono i pianeti più vicini, su orbite più distanti ruotano economia, sociologia e politologia. Ancora più lontano orbitano storia e filosofia, mentre la letteratura e le arti si situano ai confini esterni di questo campo di forze. La partita decisiva, che ha determinato a lungo l’orientamento delle scienze sociali, è stata quella giocata tra fisica e biologia agli inizi dell’Ottocento, per essere vinta, almeno fin ad un certo momento, dalla prima. Che nella sede della Social Academy of Science di Washington si accampi la statua di Einstein e non quella di Darwin, la dice lunga a riguardo. Il polo di attrazione per l’economia come per la politologia, per la sociologia come per la linguistica, è stato il paradigma fisico-chimico, e non quello biologico. Ciò ha avuto conseguenze decisive nella vittoria di un sapere delle costanti su un sapere delle variabili. A differenza di ogni tipo di vita, soggetta ad una continua variazione, la struttura dell’ossigeno o la velocità della luce non mutano. Mentre i fisici tendono a spiegare fenomeni ad alta complessità con il minor numero di categorie, i biologi sono abituati a differenziare il proprio approccio per quante sono le infinite specie viventi, procedendo dall’astratto al concreto. Ciò che conta, per essi, assai più delle scale numeriche o degli algoritmi, è il contesto storico, ambientale, simbolico, all’interno del quale un fenomeno assume significato. Da allora la strada intrapresa dalle scienze sociali non ha più mutato direzione. Se l’economia adottava criteri sempre più rigidi – a partire dall’idea che gli individui tendono comunque a massimizzare i propri interessi – la scienza politica si specializzava nell’analisi dei modelli istituzionali e dei flussi elettorali. Quanto alla sociologia, dopo la breve parentesi della teoria critica di Adorno e Horkheimer, già con Lazarsfeld e Merton si convertiva a criteri bibliometrici, sostituendo la filosofia e la storia con sondaggi di opinione e analisi di mercato. Non è un caso che il modello sintattico formale per la linguistica, la teoria dell’intelligenza artificiale e i primi passi delle neuroscienze risalgano più o meno alla stessa fase – che è quella dell’invenzione dei sistemi elettronici di informazione.
Da quel momento, quanto più le scienze sociali si approssimavano ai paradigmi di quelle naturali, tanto più cresceva la fiducia nella loro capacità di risolvere problemi di grande portata. Ma, con essa, anche il pericolo di fallire i loro obiettivi, perdendo il rapporto con una realtà sfuggente a qualsiasi codificazione. Ciò che rendeva quei saperi formalizzati altamente friabili all’impatto con l’esperienza è il fatto che gli atteggiamenti umani mantengono un tasso di irregolarità, e anche di irrazionalità, che ne riduce drasticamente la prevedibilità. Contrariamente alle aspettative degli scienziati sociali, le opzioni, individuali e collettive, variano in funzione del tempo, del luogo, del ceto sociale, della cultura in una forma che tende a rompere ogni schema previsionale. Sentimenti, risentimenti, emozioni, attrazioni determinano le nostre scelte non meno degli interessi e dei calcoli.
A questa difficoltà di ordine epistemologico, si aggiunge un dato di carattere storico e, per così dire, geopolitico. Come osserva Valeria Pinto in un bel saggio già richiamato su queste pagine (Valutare e punire, Cronopio), l’identificazione della conoscenza con modelli computazionali in America nasce da una sorta di riconversione della strategia militare al terreno del sapere. Teoria dei giochi, teoria della decisione, pianificazione, calcolo costi/benefici derivano tutti dall’ambito della competizione bellica. In particolare la riorganizzazione della ricerca scientifica nasce, negli anni Cinquanta e Sessanta, dalla necessità degli Usa di rispondere al predominio sovietico in campo astrofisico. In età reaganiana questa applicazione del management alle procedure cognitive ha assunto una rilevanza ancora più accentuata. È la stessa che poco dopo sbarca in Europa prima con l’allineamento dell’Inghilterra thatcheriana e poi con l’adozione generale di tale modello produttivistico. L’unica forma di scienza accettata, e dunque finanziata, è quella produttiva di utilità sul breve periodo.
È proprio su questo presupposto, però, che con la crisi economica, l’intero sistema rischia di implodere. Una volta sospesa la legittimità di ogni tipo di sapere alla performance economica, il rischio che venga ingoiata nel gorgo dei debiti sovrani si è fatto tangibile. Quando la regina Elisabetta, in visita alla London School of Economics, ha chiesto agli economisti come mai non si fossero accorti della crisi incipiente che avrebbe messo alle corde l’intero pianeta, è come se si fosse strappato un velo. La scienza più corteggiata da imprese e governi appariva di colpo nuda davanti al più clamoroso dei fallimenti. È auspicabile che, prima che sia troppo tardi, si eviti di propagare questo clamoroso default all’intero campo del sapere.

Repubblica 17.2.13
“Pubblica o muori” quel nuovo sistema che spegne il sapere
di Michela Marzano

Perché rischiamo di perdere di vista l’eccellenza se misuriamo tutto solo sulla base del “quanto” George Orwell sarebbe stato orgoglioso. Strumenti bibliometrici, fattore di impatto standardizzato, peer review, prodotti, agenzie di valutazione. Anche nel mondo accademico trionfa la “neolingua”, quella lingua artificiale capace di cancellare ogni pensiero eretico per il trionfo dell’ideologia produttivistica contemporanea. Quella lingua che riduce il valore di un ricercatore al suo “fattore h” – il numero di volte in cui i suoi lavori sono “citati” all’interno di un certo numero di riviste – e che si affida al sofisticato software Publish or Perish (“pubblica o muori”) per il calcolo di “h”. Pubblica o muori, perché ormai conta solo l’eccellenza. Pubblica o muori, come se il linguaggio non avesse anche (e sempre) un valore simbolico. Ma come si fa a “uccidere” simbolicamente uno studioso solo perché la quantità di quello che pubblica nelle famose “riviste di serie A” non sarebbe sufficiente? Di che cosa stiamo parlando?
L’eccellenza è morta, viva l’eccellenza! Come se per valutare l’eccellenza della ricerca bastasse affidarsi al «numero delle citazioni medie ricevute da ogni pubblicazione ». Come se anche la ricerca, in nome dell’oggettività e della neutralità assiologica, dovesse sottomettersi all’imperativo del “quantitativo ad ogni prezzo”. Proprio mentre le università di tutta l’Europa stanno soccombendo sotto il peso di una valutazione che, bruciando il grosso dei finanziamenti pubblici, impedisce poi di finanziare tutti quei progetti che non si iscrivono nel mainstream. Per non parlare poi dell’energia e del tempo perso per preparare i dossier di valutazione: giorni e giorni passati a riempire caselle e formulari, invece di dedicarsi giustamente alla ricerca!
Le agenzie di valutazione, ormai, non sono più una caratteristica dei paesi anglosassoni. Sono arrivate anche in Francia e in Italia, con gli stessi effetti devastanti che già denunciavano qualche anno fa i colleghi britannici. Che si tratti dell’AERES (Agence d’Evaluation de la Recherche et de l’Enseignement Supérieur) in Francia o dell’ANVUR (Agenzia di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca) in Italia, il principio è lo stesso: si tratta di valutare non solo i “prodotti” della ricerca, ma anche la qualità delle università e degli enti di ricerca sulla base di una griglia ben definita a livello europeo, indipendentemente dal fatto che si parli di discipline scientifiche o umanistiche, tecniche o economiche. Numero di studenti che si laureano, numero di corsi di laurea, numero di pubblicazioni nelle riviste classificate, numero di brevetti, numero di citazioni, numero di stage proposti, numero di sbocchi professionali. Ma da quando in qua il “come” si valuta sulla base del “quanto”? Quali grande ricerche del passato sarebbero state finanziate sulla base di questi criteri? Quali capolavori sarebbero passati indenni dalle forche caudine degli strumenti bibliometrici?
Intendiamo bene. Non sto dicendo che la ricerca o le università non debbano essere valutati. Non sto dicendo che il merito non debba essere preso in considerazione quando si fanno i concorsi o si finanziano i progetti di ricerca. Sto solo dicendo che non si possono sempre e comunque privilegiare le discipline pratiche rispetto a quelle che si concentrano sulle conoscenze fondamentali; che non è giudizioso promuovere la standardizzazione del sapere; che l’eccellenza, per manifestarsi, ha bisogno di tempo e di elasticità. Nessuno nasce “eccellente”, lo diventa. E per diventarlo, si ha bisogno di procedere, come direbbe Popper, per tentativi ed errori. Tanto più che il risultato di questa logica quantitativa è sotto gli occhi di tutti: tanti curriculum sono pieni di un numero incalcolabile di articoli ripetitivi, aridi e poco interessanti. Articoli in cui, tra l’altro, ci si cita vicendevolmente tanto per far aumentare il fattore “h”.
Quando si è spinti a pubblicare a tutti i costi, sarebbe difficile aspettarsi il contrario. Visto che come sanno bene tutti coloro che lavorano nel mondo della ricerca, talvolta è necessario fermarsi, perdere tempo, fare altro. Scrivere e poi cancellare tutto quello che si è scritto. Andare in una direzione e poi tornare indietro. Il prezzo della ricerca è anche questo: perdere tempo. Ma come si fa a perdere tempo quando se non pubblichi, muori?

Repubblica 17.2.13
Arnold Böcklin
L’ipnotica “Isola dei morti” di Böcklin che Hitler volle comprare a tutti i costi
di Melania Mazzucco


Dove vanno i morti? In Paradiso? In cielo, tra le stelle? Sottoterra? Scendono nel triste Ade con una moneta sotto la lingua per pagare il traghetto di Caronte? Li aspetta la prateria degli asfodeli, oppure, come malvagi, il Tartaro – dove, come scriveva Omero, stridono di terrore come uccelli fuggenti? O, come giusti, i campi elisi? O ancora, l’isola boscosa dei beati – riservata a coloro che vissero virtuosamente? Oppure il grande nulla, dove alla fine di ogni dolore l’individuo si dissolve nel tutto? Qualunque cosa crediate, questo quadro offre una risposta seducente – e chiunque lo abbia guardato ha pensato che non sarebbe male se andasse a finire così.
È uno di quei rari quadri che mettono tutti d’accordo – forse perché tutti temiamo la fine. È dunque consolante, cosa che in genere nuoce all’arte, e spesso la abolisce. Non è questo il caso. Fin dalla primavera del 1880, quando Böcklin lo realizzò, in un mese – per una donna che aveva appena perso il marito e che gli aveva richiesto un quadro “per sognare” – L’isola dei morti esercitò una fascinazione ipnotica. Non era nemmeno finito e già gliene avevano chiesta una replica, e poi un’altra, e un’altra ancora – al punto che oggi se ne contano quattro varianti (una quinta è andata distrutta durante la seconda guerra mondiale). Tutte apprezzabili, ma la prima di una suggestione inimitabile.
L’ammirazione divenne unanime, quasi assordante. Böcklin, che dipingeva da più di trent’anni, con alterna fortuna, misteriosi paesaggi popolati da draghi, tritoni e ninfe, dovette restarne sorpreso. Come sempre accade, le ragioni del successo non avevano nulla a che vedere con l’opera. I nazionalisti tedeschi vi videro il simbolo dell’arte germanica. Ciò generò un fanatismo isterico, e procurò al pittore estimatori imbarazzanti, fra cui Adolf Hitler (ma Böcklin non lo seppe mai, perché dal 1901 riposava nel cimitero protestante di Fiesole dove, dopo una vita nomade fra la Svizzera, l’Italia e la Germania, aveva scelto di fermarsi per sempre). Il quadro al Führer piaceva talmente tanto che era riuscito ad acquistarlo. C’è una celebre foto scattata nella Cancelleria del Reich il 12 novembre del 1940. Si vedono Hitler e Molotov. La guerra già devasta, milioni di europei sono morti o stanno per morire. E cosa si vede, alle loro spalle? L’isola dei morti.
Ma un quadro non può scegliere i suoi amici.
È il crepuscolo: la notte cede al giorno o il giorno alla notte, perché nell’oscurità già si distingue la linea dell’orizzonte. Una barca a remi scivola sull’acqua nera, calma, immobile. Il remo è immerso, ma non solleva onde né spruzzi – al punto da rendere visibile il silenzio. La barca trasporta una bara, coperta da un drappo bianco. Ritta a prua c’è una figura inquietante, fasciata di veli bianchi, come una statua, o una mummia. Ma potrebbe anche essere l’anima del morto. La barca sta per approdare a un’isola: piccola, domina però il quadro. Falesie scoscese si ergono sul mare come montagne. In mezzo, cresce un bosco di cipressi. Un cimitero è infatti l’isola: nelle rocce, sono state scavate delle tombe – ora vuote. Un muro riverbera una luce chiara. Il buio sta per inghiottire il fantasma in bianco, richiudendosi su di lui. Tutto accade fuori dal tempo, in nessuna epoca, e dunque sempre.
L’isola, le figure minuscole, l’oscurità, il mare fermo, la quiete impenetrabile: tutto comunica il senso della solitudine. La pittura di Böcklin non ha sorelle. Non somiglia a quanto vanno sperimentando i suoi contemporanei, pur essendo L’isola dei morti dipinta negli stessi anni in cui Monet disfa il colore in materia, Degas scopre le ballerine, van Gogh percorre il Borinage per stare vicino ai minatori e Moreau spinge il simbolismo oltre il delirio. È un quadro fantastico dipinto con precisione accademica, una visione costruita con forme naturalistiche. L’atmosfera misteriosa piacque a De Chirico, Ernst e Dalí. È dunque un quadro che condensa – e non separa: sogno, realtà, ricordo, nostalgia.
L’immagine, apparentemente tradizionale, combina in modo nuovo paesaggi, stili e culture diverse. Il mito classico, il romanticismo nordico e la natura mediterranea. La barca di Caronte e le tombe etrusche, i cipressi di Fiesole e le rupi svizzere. È insomma la sintesi perfetta della ricerca di Böcklin, svizzero di nascita, tedesco di cultura, italiano per amore, che scese a Roma per il Grand Tour nel 1850 e da allora non poté più rinunciare alla libertà e alla luce delle contrade selvagge «del mondo non civilizzato del sud».
Infine, è anche un funerale. Quello, solenne e austero, che Böcklin sognava per sé. Non stava affatto morendo, anzi: nel 1880 sapeva fronteggiare dolori e malinconia, era un bellissimo uomo dagli occhi blu, traboccante di idee e di amore per la sua giovane moglie romana e i suoi figli (ne aveva messi al mondo 14, molti però morti bambini). Come tutti i pittori del XIX secolo, aveva vissuto fra l’emarginazione della miseria e la coscienza orgogliosa della propria diversità d’artista. Trovato un pubblico, il benessere, la fama, ormai sapeva di essere anche lui un eletto – uno dei favoriti degli dèi che i greci destinavano all’isola dei beati. Però sapeva anche che i miti sono favole, il mondo antico è morto, e l’isola dei beati non si trova. Un pittore può renderla reale solo dipingendola – imprigionando l’infinito su un riquadro di tela.
A volte le spiegazioni degli artisti sulle loro opere sono pletoriche, o fuorvianti. Non quella di Böcklin: un quadro deve raccontare qualcosa, diceva, far pensare come una poesia e lasciare un’impressione come un brano di musica. Non saprei aggiungere altro.
L’isola dei morti (1880) olio su tela, Basilea, Kunstmuseum

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