lunedì 18 febbraio 2013

l’Unità 18.2.13
Da Milano la scossa per l’Italia
Bersani: con noi fuori dal buio
Il popolo di centrosinistra ci crede: ora si cambia
di Laura Matteucci


La sorpresa in piazza Duomo è Romano Prodi, inatteso, applauditissimo ospite. Parla da un palco dopo quattro anni «non per nostalgia», dice, «non alla ricerca di un ruolo», «ma perché oggi ne vale la pena». Perché, come dirà di lì a poco Ambrosoli, «quest’anno il 25 Aprile cade in febbraio». Da Milano per la Lombardia e per il Paese, sotto il titolo «L’Italia giusta»: non ci sono nemmeno più posti in piedi sotto la madonnina per ascoltare tutto lo stato maggiore del centrosinistra, Pier Luigi Bersani, Nichi Vendola, Bruno Tabacci, naturalmente il sindaco Giuliano Pisapia, insieme per tirare la volata al candidato alla Regione Umberto Ambrosoli, oltre che per il voto nazionale. «La Lombardia è sempre stato il luogo da dove è partita la svolta, sia nel bene che nel male attacca Bersani Qui è partito il motore delle forze di liberazione e della ricostruzione, da qui chiuderemo questa lunghissima fase ventennale di leghismo e berlusconismo: tireremo fuori dal buio la regione e tutta l’Italia». Mentre parla si agita sotto di lui lo striscione «Siamo tutti smacchiatori di giaguari» portato da alcuni milanesi (ma forse sono lombardi, perché in piazza Duomo ieri pomeriggio sono arrivati da tutta la regione), le metafore del segretario del Pd sono diventate pure quelle un «bene comune». E lui, sia chiaro, non manca l’appuntamento: «Tra sette giorni dice smacchieremo il giaguaro».
C’è anche la musica, a Milano (Paolo Jannacci, Roy Paci), ma la gente è arrivata a migliaia soprattutto per sentire le parole, per un’overdose di buona politica, e perché no? di ottimismo, perché questa volta si può vincere davvero. Sarà anche la partita decisiva, ma la Lombardia «non è l’Ohio d’Italia», ricorda Tabacci in un intervento particolarmente appassionato: «Non ci può essere incertezza, non si può nemmeno vincere di misura, noi lombardi dobbiamo caricarci sulle spalle la responsabilità di tutto il Paese: ci vuole un cambiamento etico e morale, non solo politico. L’Italia non è solo un problema di tasse, come qualcuno ci vuole far credere, è un problema di cuore e di coscienza». Aggiunge Pisapia: «Fino ad oggi, andando in giro ci ricordavano il bunga bunga, in Lombardia ci ricordano altro che non so se sia meglio o peggio. Con Ambrosoli saremo orgogliosi di essere lombardi e con Pier Luigi non ci vergogneremo di essere italiani». Dal palco il richiamo forte è alla massima mobilitazione per quest’ultimo scorcio di campagna elettorale: «Noi dice Bersani siamo in giro per l’Italia per risvegliare la nostra arma atomica, che è la partecipazione della nostra gente. Qui non c’è l’uomo solo al comando, qui ci sono milioni di protagonisti della nuova politica».
Parole chiave degli interventi di tutti, il lavoro, la giustizia sociale, la legalità, l’onestà. «Al primo giorno a Palazzo Chigi è Bersani che parla chiamerò la Caritas, l’Arci e i Comuni a far dire agli italiani che c’è un sacco di gente che non riesce a mangiare, e partiamo da lì». Parole come pietre per una Milano Lombardia, Italia che arranca nella crisi e nella precarietà, e che se ancora non se ne fosse accorta prima sta capendo ora fino in fondo dalle cronache giudiziarie il modo con cui Formigoni e le sue giunte Pdl-Lega hanno mantenuto per anni il potere. «Noi siamo quelli che amano le regole dice Ambrosoli Non abbiamo bisogno di continuità col passato, ma di nuove prospettive. È il momento di alzarci in piedi, il momento dell’indignazione». E Bersani, lo dirà in chiusura, promette una «grande lenzuolata di norme contro la corruzione. È ora che si premino gli onesti, non i furbi. E qui in Lombardia le ronde padane non hanno nemmeno fermato la ‘ndrangheta». Giustizia sociale, lotta alla povertà e alla precarietà sono i temi intorno ai quali ruota anche l’intervento di Vendola, che ricorda una volta di più: «Non sarò l’elemento di disturbo per il governo Bersani, ma la garanzia di governabilità e di stabilità». Si parla molto di donne, anche. Proprio qui, nella stessa piazza in cui solo qualche giorno fa migliaia di persone si sono ritrovate per manifestare contro la violenza alle donne, la dignità femminile diventa un tema centrale, come mai prima nelle campagne elettorali. «Liberiamoci di questo maschilismo patetico invita Vendola di questa volgarità. Riprendiamoci la politica alta, non quella che parla al basso ventre».
Il passaggio chiama automaticamente in causa Grillo, che si appresta, domani pomeriggio, al suo bagno di folla proprio qui, in piazza Duomo a Milano. Per lui che tra l’altro ieri sera ha disdetto un confronto su Sky, «perché lì qualcosina gliel’avrebbero chiesta» Bersani ha alcune domande, destinate pure queste a restare senza risposta: «Come fa chiede il leader Pd a parlare di Berlinguer, come ha fatto a Bologna, e poi a Roma a stringere la mano a quelli di casa Pound? Come fa a dire che i figli degli immigrati nati in Italia non sono italiani?». Populismo, non-politica, il «tanto sono tutti uguali».
Il palco di Milano sa benissimo che la tentazione per tanti può essere forte, dopo anni di corruzione e tangenti e mafie, persino. Ed è anche per questo che, lo ricorda Bersani in chiusura, «è fondamentale ricostruire un rapporto vero, sentimentale tra politica, istituzioni e cittadini».

l’Unità 18.2.13
«A Milano il 25 aprile sarà fra una settimana»
Tanti i giovani e le donne, una famigliola cingalese sventola la bandiera
dei democratici. Nel popolo della piazza forte è l’aspettativa di un successo
di Oreste Pivetta


Piazza Milano. Passa molto di qui, da piazza del Duomo. Passano i leader politici (Maroni e Berlusconi scelgono in verità il chiuso di un teatro), passa di qui la via di un cambiamento, tra Parlamento e Regione, dopo tanta infinita televisione, la piazza con la gente, come una volta e probabilmente da sempre, con le bandiere, con la musica. Con le facce e le emozioni. E con i discorsi, con i comizi. Piazza del Duomo ne ha viste tante di pagine di storia.
Umberto Ambrosoli, il candidato del centrosinistra a guidare la Lombardia, ha concluso richiamandone una, tra le più gloriose, il 25 Aprile: «Cambiare si può. Questa volta il 25 Aprile arriverà a febbraio, arriverà la settimana prossima». A Grillo non importerà nulla della Resistenza, della Liberazione, dell’antifascismo, ma è ancora ai valori espressi da quelle giornate di lotta che si richiama la migliore politica, la buona politica, la politica che si sente responsabile per il Paese e per tutti, che si candida a governare perché quei valori abbiano ancora vita. Paradosso di queste elezioni italiane: sembra che solo il centrosinistra ambisca a governare, gli altri sperano solo di impedire un governo, Berlusconi da sempre perché è convinto di poter solo lui governare; Grillo per spazzare via tutti, non si sa poi per far che cosa, perché si sente l’unico onesto al mondo, un giustiziere; Maroni per impadronirsi del suo «granducato del Nord» e mettersi di traverso; Ingroia, chissà, forse solo per testimoniare il suo malumore; Monti per fare l’ago della bilancia e pesare, senza avere i voti e il consenso... Nel segno tutti della divisione, della contrapposizione, destra contro sinistra, nord contro sud, liberali modernisti contro socialdemocratici chissà perché passatisti. Bersani ha usato più volte le parole giustizia, solidarietà, comunità. Ha detto più volte «insieme», che è il contrario di «divisi». La piazza lo ha applaudito con calore, quell’entusiasmo che non è facile sentire in giro quando si parla in modo serio di problemi gravi, quando non ci sono solo promesse e proclami, quando si presentano le cose per quello che sono, con i soldi che mancano, il lavoro che sparisce, la fiducia degli altri Paesi che si incrina.
«Solidarietà», «comunità», «insieme», sono voci di quella tradizione che sta nella Resistenza ma sono anche le condizioni perché il Paese riparta, perché si riaccenda la speranza. Come lo sono state ed è ancora la storia che parla sessant’anni fa, dopo la guerra, nella stagione della ricostruzione. Ambrosoli a un certo punto ha invocato il dovere della carità, la virtù teologale che va assieme a fede e speranza. Di fronte alla chiesa che fu di Martini e che è stata, fino a poco tempo fa, di Tettamanzi, dire di amore disinteressato nel bene degli altri è richiamarsi all’insegnamento di quei vescovi, al carattere forte della chiesa ambrosiana, minoritaria e sociale per vocazione, ribadire la necessità e soprattutto la possibilità di stare «insieme». Ricordare la carità cristiana ha la sua forza polemica di fronte ai tradimenti di chi di quella stessa chiesa si vantava interprete e rappresentante. Tabacci, che è un democristiano ed è un cattolico, ha confessato d’aver provato una stretta al cuore leggendo dei casi della fondazione Maugeri e di quelli dell’ex presidente Formigoni: barbari sognanti e lestofanti nella Lombardia degli scandali, delle tangenti, degli inquisiti, dove sono nati la Lega e Berlusconi, luogo simbolico e decisivo per cambiare qualcosa o molto, la Lombardia una volta «locomotiva dell’Italia verso l’Europa», che con Maroni rischierebbe semplicemente l’isolamento, dall’Europa e dall’Italia.
Mai forse, come questa volta, ascoltando, in mezzo alla piazza, s’è percepita la convinzione di un successo. Non sarà questione di sondaggi, è soprattutto la voglia di cambiare, di «rigenerare la politica» (espressione di Ambrosoli), di chiudere una pagina, pure il desiderio di normalità, quella di un Paese normale, capace ci affrontare con raziocinio i guai che l’opprimono, consapevole delle proprie virtù: Grillo potrà riempire le piazze, ma i voti si contano nelle urne e l’unica alternativa a Berlusconi e a Maroni è questo centrosinistra. Che si è mostrato compatto, unito, solidale. Vale la foto di gruppo: il sindaco Pisapia, che la «rivoluzione» la vinse due anni fa, Tabacci, Ambrosoli, Vendola, Bersani e, a sorpresa, Romano Prodi, il leader di una volta che sale sul palco e riprende il discorso interrotto. Un discorso che continua nel segno della ragionevolezza e della concretezza, senza mai promettere la luna, ma impegna in una dura battaglia di rigore, di responsabilità. Un esempio di concretezza: il disegno di salvaguardia della risorsa «terra», di città in città, di paese in paese (disegno fondamentale in una regione come la Lombardia inondata dal cemento della speculazione).
Sul palco ancora, alle spalle dei leader, c’erano molti giovani, in piedi, accovacciati. Probabilmente erano anche loro scenografia di un rinnovamento. Ci sono nelle liste come ci sono tante donne (altro bel segno, quando Formigoni e la sua giunta sono stati persino richiamati dagli organi amministrativi regionali per la eccessivamente scarsa presenza femminile). Però lo stesso valeva dentro la piazza: giovani e donne. Mi ha colpito l’immagine di una famigliola cingalese che ascoltava e sventolava la bandiera del Pd. Un altro tema posto da molti del centrosinistra: quello dei diritti (e in questo caso dei diritti degli immigrati).
Piazza del Duomo ha uno stretto rapporto con la storia: non solo il 25 Aprile, tanti altri 25 Aprile, i funerali di piazza Fontana, le manifestazioni sindacali, i grandi comizi.
Ricordo la conclusione di una campagna elettorale. Sul palco teneva il suo discorso Enrico Berlinguer. In piazza si gridava: «È ora, è ora di cambiare, il Pci deve governare». Non andò così. Moro fu assassinato dalle Brigate rosse. Tornarono Andreotti, Cossiga, Forlani, arrivò Spadolini, arrivò Craxi. Il Pci non esiste più. Bersani ha rincuorato la sua gente: «Noi siamo più forti di quel che pensiamo».

l’Unità 18.2.13
Voto centrosinistra ma è inevitabile l’accordo con Monti
di Emanuele Macaluso


Domenica si vota e voterò la coalizione di centrosinistra, il cui successo può garantire un minimo di stabilità politica. Anche perché sarà inevitabile una intesa con le forze raccolte attorno a Monti. Le chiacchiere preelettorali servono ad eccitare, ma non ci sono alternative. E lo dico a prescindere dal risultato che si potrà verificare al Senato.
La disputa attorno al ruolo di Sel è solo propagandismo per Monti e per Vendola. Quest’ultimo, è bene ricordarlo, assolve bene da anni un ruolo rilevante di governo in una delle più grandi e significative Regioni italiane. E Vendola fa finta di non vedere che senza il governo Monti, con tutti i limiti che conosciamo, la questione sociale sì, proprio la questione sociale, che non può essere scorporata dall’insieme dell’economia e dalle condizioni generali del Paese sarebbe quella che vediamo in Grecia e anche in Spagna.
La verità è che in questa campagna elettorale si è cancellata la realtà economico-sociale in cui si trova l’Italia. Non si dice come uscire da una crisi, che si fa sempre più stringente, con una politica che promuove la crescita e l’occupazione. Cosa fare in un Paese che ha perso competitività anche se i salari sono tra i più bassi di quelli che si registrano in Europa. Non basta dire che occorrono riforme: quali? Attenzione, in discussione è la struttura dello Stato che non regge più. Invece si parla d’altro. Non parlo solo del Cavaliere che promette il rimborso dell’Imu, l’abbassamento delle tasse a tutti, i condoni a gogò, un posto di lavoro a chi lo chiede, una passeggiata sul ponte di Messina e, perché no!, una villeggiatura in Sardegna o a Malindi.
Che siano stati soprattutto i governi di Berlusconi e Maroni ad affossare questo Paese, sembra ed è un ovvietà. Ma, ancora una volta, i leader del centrosinistra hanno sottovalutato il fatto che in Italia c’è uno zoccolo duro di forze conservatrici che si identificano nella filosofia politica del Cavaliere. Gruppi sociali che sono cresciuti e convivono con l’illegalità, considerata però «legalità» perché imposta da uno Stato e una Costituzione in cui non si riconoscono. Non è il sovversivismo delle classi dirigenti di cui parlava Gramsci: il fenomeno è più diffuso e coinvolge parte del popolo. La sinistra dovrebbe riflettere su questa realtà e avere una politica che non sia solo di denuncia del malcostume del Cavaliere e una invocazione dell’azione giudiziaria. E c’è anche Grillo che sputa su tutto e su tutti raccogliendo consensi che mostrano una impressionante caduta della cultura politica di massa. Anche su questo versante le responsabilità della sinistra sono rilevanti. Se migliaia di giovani seguono, non solo sul web ma nelle piazze, un comico che produce politica predicando l’antipolitica, vuol dire che c’è un vuoto culturale dovuto a un vuoto di iniziative, di lotta politica, di comportamenti esemplari. La campagna elettorale serve anche a segnalare fenomeni e fatti politici, sociali e culturali, su cui è bene riflettere per costruire il futuro.
Seguendo questo ragionamento dico che si sottovaluta un fatto di enorme rilievo: è la terza volta che gli italiani sono chiamati a votare con una legge che nega agli elettori un giudizio sui candidati al Parlamento. C’è una democrazia dimezzata: regalo della destra, su cui il centrosinistra non ha fatto una battaglia parlamentare e di massa, con il popolo truffato. Mi ha colpito come il senatore Monti replicando, con una lettera al Corriere, alla critica di Galli Della Loggia sul ruolo dei «notabili» ha giustificato l’inclusione nelle liste del suo movimento-partito di alcune personalità. Non sono «notabili», ha detto, ma intellettuali competenti che ho collocato nella testa di lista. Cioè li nomina deputati. In effetti i «notabili» con metodi discutibili cercano e hanno consensi, cioè voti. Nell’epoca in cui viviamo c’è un notabilato che non fa i conti con gli elettori. Lo stesso criterio ha usato Bersani per un vasto gruppo di persone che non ha partecipato alle primarie. E quelli che vi hanno partecipato non l’hanno fatto per essere, come in Usa, candidati a sfidare in un collegio l’avversario, ma per essere nominati deputati.
Il Cavaliere non ha avuto gli scrupoli di Monti e Bersani: ha nominato suoi fans, competenti o ignoranti, onesti o disonesti, ma «a servizio» della causa non solo della destra (il che sarebbe logico) ma di una persona e di Mediaset.
E in ogni caso pronti a votare tutto, anche per Ruby nipote di Mubarak. E che dire della lista di Ingroia dove si sono radunati con Di Pietro reduci di guerre perdute? I verdi al verde di elettori, rifondatori del comunismo familiare senza popolo in cerca di nomina. Ingroia con questa armata brancaleone dovrebbe svelare agli italiani, sul piano politico, la «vera storia» della trattativa Stato-mafia. Mistificazioni. Conclusione. I sondaggi e soprattutto la razionalità ci dicono che il centrosinistra, ottenendo il 35% dei voti, avrà con il Porcellum il 55% dei deputati e non si sa quanti senatori. Nella situazione di questo Paese si possono fare grandi e forti riforme con il 35% dei consensi reali? Monti e i suoi amici considerano un successo se toccano il 15%. Il Professore pensa di governare con questi consensi reali? Vuole continuare a giocare con la storiella dei «riformisti che sono a sinistra e a destra» per governare? Non è venuto il momento per Monti, Bersani e Vendola di dire agli elettori come stanno le cose e cioè che l’accordo tra i due schieramenti è obbligato dai fatti e spiegare cosa vogliono e possono fare insieme?

l’Unità 18.2.13
Vendola, l’ossessione del candidato Ingroia
Il magistrato continua ad attaccare il leader di Sel:
«Chi lo vota fa una scelta di centrodestra, perché sta con il Pd, che ha già fatto l’accordo con Monti»
di Rachele Gonnelli


E’ ambiguo, nel senso di duplice, l’atteggiamento di Antonio Ingroia nei confronti di Beppe Grillo, che pure è il mittente di molti dei suoi discorsi e pensieri. Da una parte pare invidiarlo e blandirlo, dall’altra lo attacca duramente. Rivalità. Ieri il «partigiano della Costituzione» era a Perugia, in una Sala dei Notari piena anche se non proprio grande come la piazza Castello di Torino e protestava di essere ignorato dalla grande stampa «perché Sky non viene a intervistare me a casa mia?» per poi attaccare Grillo come super-ricco ed evasore fiscale «è per questo che non mi risponde sulla proposta di sequestro dei patrimoni illeciti e sulla patrimoniale?» e contemporaneamente per tendergli la mano. «Sono tanti i punti programmatici comuni con il Movimento 5 Stelle ma lui strepita senza proporre niente di concreto».
Attacca tutti, Ingroia, anche Monti e Bersani naturalmente, in questo finale di campagna elettorale con lo scenario di una tangentopoli che per l’ex magistrato palermitano «è solo la continuazione delle precedente, però allargata a macchia d’olio».
Ma quello a cui proprio non concede nulla e non dà quartiere è Nichi Vendola. Perché? È sempre la storia del taxi, Vendola «si è accordato con il Pd per assicurarsi l’ingresso in Parlamento», «ha sottoscritto un accordo programmatico che già comprendeva l’accordo con Monti e ora non può dire di non essere d’accordo». Mentre Rivoluzione civile è «senza alleanze, senza taxi» e quindi «con le mani libere, non legata a lobby e poteri forti». Un refrain un tantino vittimistico. Anche quando, in serata, torna ad attaccare Mario Monti con un twitter accusandolo di accettare il confronto solo «con i suoi ex sostenitori», «ha paura di confrontarsi con me».
Un giovane intervistatore di una emittente perugina, Umbria24, gli chiede candido: perché un elettore dovrebbe votare voi invece di Vendola? E poi anche: alla fine non ha timore di favorire il centrodestra? La risposta è sempre la stessa. «Vendola sta con Bersani, che fa il governo con Monti che è di centrodestra». Salvo poi dire in coda che è sempre possibile una convergenza programmatica su singole tematiche e proposte. Purché le iniziative siano le sue, come la proposta di legge Ingroia-La Torre sulle confische dei patrimoni frutto di traffici illeciti, di mafia, di corruzione e di evasione fiscale o come la riforma del processo, per sveltire i procedimenti e allungare le prescrizioni: una delle riforme, quella della giustizia, che Ingroia vede, specularmente a Berlusconi, come priorità della prossima legislatura.
L’ex pm di Palermo a chi gli rimprovera di aver rimesso in piedi una coalizione molto simile alla sinistra Arcobaleno non nega che quell’armata Brancaleone fosse «un’accozzaglia di forze politiche», senza colla dunque. Ma continua a spacciarsi come portavoce di un «movimento nuovo, autonomo dai partiti che vi hanno aderito». Quanto a chi paga le spese dei manifesti e delle trasferte, lui dice di aver vinto diverse cause e di pagare le spese in parte con quei soldi. Ma per la trasparenza dei conti c’è da aspettare.

La Stampa 18.2.13
Sbarramento e premi Tutte le trappole della legge elettorale
Domenica il voto: così il “Porcellum” aumenta il rischio di ingovernabilità
di Paolo Festuccia


La legge è la numero 270 del 21 dicembre 2005. Ai più nota come «Porcellum». E da otto anni disciplina l’elezione dei membri di Camera e Senato. Si tratta, in breve, della legge elettorale più discussa e criticata dal giorno della sua promulgazione. E a nulla sono valsi, in questi anni, gli appelli del Capo dello Stato Giorgio Napolitano alla forze politiche per riformarla.
Come funziona Nella sostanza si tratta di un sistema proporzionale che prevede liste bloccate, dove, l’elettore non sceglie direttamente i candidati, che sono eletti invece secondo l’ordine di presentazione in base ai seggi ottenuti dalla singola lista. Insomma, i cittadini non scelgono i loro rappresentati (e questo è il primo elemento di criticità) ma sono le segreterie dei partiti a stabilire chi avrà o meno chance di entrare nell’emiciclo parlamentare.
Differenze tra il voto per la Camera e quello al Senato Per ottenere seggi alla Camera ogni coalizione deve ottenere almeno il 10% dei voti nazionali mentre per le liste non collegate la soglia minima viene ridotta al 4%. Lo stesso parametro (4%) è applicato alle liste collegate a una coalizione che non ha raggiunto la soglia. Le liste collegate a una coalizione che abbia superato tale parametro partecipano alla ripartizione dei seggi se superano il 2% dei voti, o se rappresentano la maggiore delle forze al di sotto di questa soglia all’interno della stessa, insomma, il miglior perdente. Per esemplificare se una coalizione, ad esempio quella guidata dal premier uscente Mario Monti, non riuscisse ad ottenere il 10% dei voti nazionali alla Camera, le tre liste collegate componenti la coalizione per avere loro rappresentanti in aula dovrebbero almeno ottenere il 4%. Diversamente resterebbero fuori. Mentre se il 10% fosse centrato, alle liste basterebbe loro anche il 2%, e comunque, il miglior risultato sotto questa soglia consentirebbe anche alla prima lista sotto il 2% (il miglior perdente) di ottenere la rappresentanza.
La ripartizione dei seggi Alla coalizione di lista più votata, cioè quella che ottiene la maggioranza relativa, qualora non abbia già ottenuto 340 seggi, è attribuito il cosiddetto premio di maggioranza qualunque sia la percentuale di voti raccolta. Anche per il Senato è previsto un premio di maggioranza volto ad assicurare il 55% dei seggi regionali (non nazionali) alla coalizione (o lista) che abbia ottenuto voti. Il meccanismo però è diverso rispetto alla Camera perché opera su base regionale con conseguenza che può determinarsi una maggioranza diversa da quella formatasi alla Camera. Per i seggi a Palazzo Madama, infatti, le soglie di sbarramento sono pari al 20% per le coalizioni, 3% per le liste coalizzate, l’8% invece per quelle non coalizzate e per le liste che si sono presentate in coalizioni che non abbiano conseguito il 20%.
Il rischio ingovernabilità Poniamo il caso che ci siano quattro forze con quattro leader destinate a contendersi la sfida elettorale: Bersani, Berlusconi, Grillo e Monti. E poniamo il caso che Bersani ottenga la maggioranza dei consensi alla Camera. Da questo successo non discende, però, che lo stesso Bersani abbia un vantaggio, anche minimo, al Senato in ogni regione. Almeno per due motivi: in primo luogo perché l’elettorato attivo per i due rami del Parlamento non coincide, e poi perché l’elettore può esprimere due voti diversi differenti tra Camera e Senato. Non solo, prevalere a livello nazionale - proprio a causa del funzionamento dei premi di maggioranza delle legge - non comporta il raggiungimento di un vantaggio in ogni circoscrizione elettorale. Inoltre, mentre il premio di maggioranza alla Camera è pari al 54% dei seggi, al Senato per maggioranza si intende quella assoluta di seggi che è 158. A questo si deve aggiungere la ripartizione estera e il numero di seggi assegnato per le regioni TrentinoAlto-Adige e Valle D’Aosta nonché i due seggi del Molise. In tutto fanno 16 seggi, che non sono per nulla influenti, se si tiene conto che sono un ventesimo del totale.
La situazione ottimale, dunque, per una lista o una coalizione sarebbe quella di risultare vincente, non solo alla Camera (anche con la sola maggioranza relativa) ma in ogni singola regione. Ma ciò, stando agli ultimi sondaggi noti appare difficile. E così, ad esempio, se la coalizione più votata alla Camera vincesse in tutte le regioni ma non in Lombardia perderebbe 27 seggi di premio conquistandone solo 7 e fermandosi così a 151, tre meno della soglia di maggioranza prevista. E così, peggio, se perdesse anche in altre regioni. In maniera sintetica, la ipotetica lista vincente alla Camera potrebbe conservare anche la maggioranza in Senato soltanto se la differenza tra i seggi del premio di maggioranza e i seggi conquistati nella file dell’opposizione sia meno di 17.
Le incognite Al Senato rimane il nodo di quanti seggi i partiti minori potranno «sottrarre» alle forze più accreditate per la vittoria. Da qui il forte invito elettorale lanciato da Pd e Pdl al «voto utile». Alla Camera il tema cruciale - come del resto anche a Senato - resta la novità Grillo e il consenso che ruoterà intorno a Mario Monti.

Corriere 18.2.13
Debiti Ds, «ancora 100 milioni»

di A. Bac.
ROMA — «Il debito dei Ds verso le banche? Non ammonta neanche a 100 milioni. Ed è relativo ai mutui agevolati contratti da L'Unità spa in liquidazione, il cui rimborso il partito si è accollato». Ugo Sposetti, storico tesoriere dei Ds, ridimensiona l'allarme lanciato ieri dal Fatto quotidiano circa il «buco» nelle casse del partito che è confluito nel Pd. Sposetti spiega che finora non è stata possibile alcuna transazione con le banche perché i mutui contratti dai giornali (di partito o meno) fino al 2000 sono stati assistiti, grazie a una legge del 1987, da una garanzia dello Stato. Per questo gli istituti di credito preferiscono aspettare il rimborso totale pubblico anziché accontentarsi di quello parziale offerto dal partito. Intanto nel 2011, secondo il rendiconto dei Ds, le banche hanno recuperato 20 milioni pignorando i contributi elettorali e riducendo il debito pregresso a 101 milioni. Dal 2012 alcune banche hanno deciso di chiudere la partita rifacendosi sui beni donati dai Ds alle fondazioni.


Repubblica 18.2.13
In fuga dalle domande e dalla democrazia
di Ilvo Diamanti


CONFESSO di non averci creduto. Al ritorno annunciato di Grillo in tivù, a Sky. In un’intervista in diretta, dal suo camper. Infatti, nel pomeriggio il ritorno è stato rinviato. A mai più. Perché, ha scritto Grillo su Twitter, piuttosto che nei salotti tv, preferisce recarsi «nelle piazze, tra la gente ». Così si è servito, una volta di più, della televisione come strumento di propaganda.
Ma senza andarci, direttamente. E senza accettarne le regole, anche le più elementari. Tra le altre: accettare il confronto con un giornalista, rispondere a domande, magari critiche.
Non ho mai creduto davvero che Grillo si sarebbe fatto intervistare in tv. Per alcune ragionevoli ragioni.
Anzitutto, perché non gli conviene. In una fase in cui tutti i sondaggi registrano la crescita impetuosa del M5S. Spinto dagli scandali che hanno scosso gli ambienti politici, finanziari ed economici. Hanno colpito a destra, a sinistra e al centro, alimentando il vento che gonfia le vele del vascello di Grillo.
In secondo luogo, andare in televisione, accettare un’intervista, avrebbe significato, per Grillo, contraddire il proprio programma politico e la sua strategia di comunicazione.
Quanto al programma politico, Grillo predica e insegue la democrazia diretta e deliberativa. Che ha due luoghi privilegiati e due nemici espliciti. I luoghi privilegiati sono la piazza e la rete. La piazza: icona e metafora della democrazia ateniese, al tempo di Pericle. La democrazia della Polis. Dove i cittadini partecipano a tutte le decisioni che li riguardano. Anche se si tratta di un “mito” difficile da realizzare quando le dimensioni della cittadinanza superano i confini della città. La rete: la nuova piazza, che permette di allargare il confronto anche oggi, nella società globale. E di renderlo costante, continuo, puntuale. In tempo reale.
La strategia di comunicazione di Grillo, peraltro, coincide con i luoghi del suo programma. Perché la sua campagna elettorale si svolge davvero di piazza in piazza, in giro per l’Italia. Attraverso il suo Tsunami tour. Con grande, grandissimo successo di pubblico. Dovunque, il pienone. Gente stipata ovunque. Attivisti, simpatizzanti e curiosi. Ad ascoltare il Capo. Perché la comunicazione di Grillo, in piazza, non echeggia la Polis, ma semmai, il teatro, il palcoscenico. In fondo: la televisione come l’ha interpretata lui in passato. Quando si esibiva, da grande uomo di spettacolo. I suoi recital: non erano confronti e discussioni nell’agorà. Ma monologhi. Come oggi, nelle piazze. Trasformate in teatri, dove egli si esibisce dal suo palcoscenico. Le piazze, dove egli tiene le sue orazioni, inoltre, riproducono con efficacia la relazione “diretta” fra il Capo e il suo popolo. Una comunicazione, però, a senso unico. Perché nelle piazze non si discute: si ascolta, si applaude, si acclama. Al più, si protesta.
La rete, evidentemente, è un’altra cosa. È uno spazio di comunicazione aperto, che permette a tutti di intervenire. Anche se poi, in realtà, nella rete non tutti sono uguali. Non tutti hanno la stessa importanza. Non tutti contano come Grillo. Anche perché non è la stessa cosa partecipare a un meetup definito su base tematica e locale o alla discussione in rete su temi generali, in ambito nazionale.
Per questo trovavo singolare la scelta di Grillo di abbandonare la Piazza e la Rete per andare in tv. Per sottoporsi al confronto con un giornalista, su quesiti e questioni “im-previste”. Di fronte a un “pubblico” ampio. Con il quale il Capo non sarebbe stato in grado di stabilire un rapporto “empatico”.
Anche perché, ultima e decisiva ragione, la tv è l’emblema della “democrazia rappresentativa”. Cioè, per citare un autore d’altri tempi, il marchese di Condorcet: la democrazia “indiretta”. Mediata dai “rappresentanti”, cioè i partiti e i politici. E, oggi, dai media e i mediatori. Cioè: la tv e i giornalisti. I due nemici, contro cui aveva organizzato i Vday. Il primo contro la casta dei “politici”, il secondo contro quella dei “giornalisti”.
Per questo, alla fine, Grillo si è sfilato. In fondo, l’effetto-annuncio l’aveva ottenuto e sfruttato. Tutti attendevano il suo ritorno. Il mancato appuntamento dell’ultima ora ha agito da ulteriore notizia “televisiva”. Gli ha permesso di marcare la sua distanza e la sua opposizione. Il suo messaggio antipartitico e antitelevisivo. Moltiplicato, per il cortocircuito comunicativo dell’informazione televisiva, proprio dalla tivù.
Il problema è che, in questa occasione, la tv si è “rivoltata” contro chi la vuole usare senza prestarsi al gioco. In altri termini: Sky non si è limitata a prendere atto dell’intervista rifiutata all’ultimo momento da Grillo. Ma ne ha fatto motivo di sfida “democratica”. Ha, cioè, incalzato Grillo. Sollevando il dubbio che il rifiuto sia dettato dall’indisponibilità a rispondere alle domande, anzi: a “domande”. Dal timore del contraddittorio. Certo, nella democrazia mediale che abbiamo conosciuto, con l’avvento di Berlusconi, la televisione è stata sempre utilizzata in modo strumentale. Il Cavaliere, in particolare, l’ha usata per “monologare”, fin dalla “discesa in campo”. Ha accettato il confronto aperto, in campagna elettorale, solo quand’era sfavorito. Come nel 2006, per colmare il distacco da Prodi. Mentre l’ha rifiutato nel 2001 e nel 2008, quando i sondaggi lo davano in largo vantaggio. E oggi vorrebbe, di nuovo, confrontarsi. Ma da solo, con Bersani. Per sfuggire alla competizione multipolare di questa fase e riproporre (meglio: imporre) uno schema bipolare – e personalizzato – che, nei fatti, non c’è.
Grillo, invece, ha diviso e divide il mondo in due. Lui e gli altri. Lui contro gli altri: i partiti, i politici, i media e i giornalisti. Per questo rifiuta i partiti, non solo la partitocrazia. Non solo la “cattiva televisione” ma la tv in quanto tale. E caccia le telecamere dal palco anche quando cercano di riprendere “il popolo” del M5S nella sua Piazza.
Tuttavia, i principi della democrazia (come ha osservato Bernard Manin) prevedono la libertà dell’opinione pubblica. E richiedono, per questo, il confronto – critico e aperto — tra posizioni e idee diverse e alternative. Espresse da candidati diversi e alternativi. Nelle piazze e nella rete. Ma anche in tivù. Dove l’80% dei cittadini si informa quotidianamente.
L’intervista accettata – e poi rifiutata – da Grillo a Sky rischia, per questo, di apparire un segno di debolezza. Più che una sfida: una fuga. Dalla democrazia.

Repubblica 18.2.13
Nell’ultima settimana prima del voto i leader imitano le performance di Palmiro Togliatti e Alcide De Gasperi
L’arma finale della campagna elettorale, nell’era televisiva ritorna il comizio
di Sebastiano Messina


E PIER Luigi Bersani riesce a radunare davanti al Duomo di Milano una platea così folta come non se ne vedeva da anni ad ascoltare il discorso di un politico. È la piccola grande rivincita del comizio sul talk show, della piazza sul teleschermo, e forse rivela qualcosa di più profondo del desiderio di ascoltare un candidato, magari è l’indizio che gli italiani non si accontentano più di vedere qualcuno che parla da chissà dove, ma vogliono esserci, vogliono ascoltare i protagonisti respirando la loro stessa aria, nella stessa piazza. Esattamente come hanno fatto quei cinquantamila cattolici che ieri mattina si sono ritrovati in un’altra piazza, davanti alla basilica di San Pietro, per sentire con le loro orecchie la voce del primo Papa che sta per andare in pensione, e ogni tanto tremava anche a lui la voce per l’emozione di vedere quella gran folla venuta per salutarlo.
Il più soddisfatto è di sicuro Grillo, che è riuscito a trasformare in una mossa vincente quel rifiuto ostinato della tv che poteva risultare un gesto autolesionistico, in questa campagna così povera di manifesti e così ricca di interviste in studio. Inondando di grillini piazza Castello, che non è la più grande ma certo la più spettacolare della città di Gramsci e di Gobetti, il comico che una volta riempiva i teatri ha completato simbolicamente il passaggio dalla piazza virtuale a quella reale, e ne è rimasto così soddisfatto che ha subito annullato con un tweet l’unica intervista televisiva che aveva promesso a Sky (candidandosi così a passare alla storia come l’unico leader che abbia fatto un’intera campagna elettorale senza che un solo giornalista abbia potuto fargli un paio di domande).
Centocinquanta chilometri più a est, rimirando quella piazza Duomo strapiena di milanesi che tifano per lui, anche a Bersani s’è scaldato il cuore, fino a fargli tirar fuori una promessa: «Ancora sette giorni e smacchiamo il giaguaro». E più dell’arrivo a sorpresa di Romano Prodi, che i comizi non li ha mai amati davvero perché sono così diversi dalle sue lezioni, è stato il colpo d’occhio delle bandiere del Pd e di Sel che ieri sembravano più numerose persino delle guglie del Duomo, a dargli la sensazione di stare davvero per farcela.
Chi c’è rimasto male, malissimo, è stato Berlusconi. Che avrebbe dovuto essere soddisfatto, pensavano i suoi, di quel Lingotto gremito di gente, di quella enorme sala così piena che i ritardatari si sono dovuti accontentare dei maxischermo (guardandolo ancora una volta in tv, dopo essere arrivati fin lì). E lui sì, sembrava allegro, ha fatto persino il suo numero interrogando il pubblico, come ai vecchi tempi. Eppure il tarlo dell’invidia alla fine deve aver colpito, perché a un certo punto non ha potuto nascondere la sua stizza per quelle piazze riempite dai suoi avversari. «Dovevamo andare in piazza anche noi, perché Grillo ci fa un baffo», ha scandito, sperando che nessuno si ricordasse il suo annuncio di un mese fa: «Non farò comizi, è a rischio la mia incolumità».
E anche se alla fine risulterà probabilmente decisiva la battaglia di slogan, di promesse, di trucchi e di effetti speciali che fino a venerdì continua su tutti i teleschermi, prepariamoci ai fuochi d’artificio delle ultime piazze. A cominciare dalla Piazza delle Piazze, ovvero la piazza romana di San Giovanni, quel-l’altare laico della sinistra italiana proprio davanti alla Scala Santa, che Grillo vuole sconsacrare portandoci nientemeno che un milione di seguaci, ovvero dieci volte la folla che la riempì per l’ultimo comizio di Palmiro Togliatti, il 3 luglio del 1964. “Oltre centomila persone a San Giovanni” titolò allora nove colonne l’Unità, relegando in basso la notizia della nascita del secondo governo Moro, accompagnata da un gelido commento: “Nenni recidivo”.
Allora non c’erano né share né sondaggi, bisognava contare la folla dei comizi per misurare la forza di un partito, e dunque era nelle piazze che i leader si sfidavano. Poi naturalmente ognuno la raccontava a modo suo, per chi non c’era. L’Unità era imbattibile. Titolone del 26 maggio 1958: “Il grande comizio di Togliatti a piazza San Giovanni”. Fogliettone basso: “Clamoroso fallimento del comizio democristiano tenuto da Fanfani a piazza del Popolo”. Altri tempi.

l’Unità 18.2.13
Pedofilia, lo scandalo del cardinale Usa sul Conclave Sarà pubblicato un ampio dossier sulle coperture date da Roger Mahony a 122 preti accusati
di Ga. B.


Sabato 23 febbraio il cardinale Roger Mahony, ex-vescovo di Los Angeles, non avrà tempo per ascoltare le confessioni dei fedeli. Sarà lui invece a dovere vuotare il sacco e raccontare quello che sa sullo scandalo dei preti pedofili che avrebbe contribuito ad insabbiare. Un tribunale di Los Angeles lo ascolterà come teste nel processo su uno dei tanti casi di violenza sessuale ai danni di minori, compiuti da religiosi della sua diocesi.
Dodicimila pagine di documenti rivelano il poco o il nulla che Mahony fece per punire i sacerdoti colpevoli, e il molto che si sarebbe industriato a mettere in opera per occultarne i crimini.
Quei fogli che gridano orrore sono rimasti segreti sino al 31 gennaio scorso, quando il successore di Mahony, l’arcivescovo José Gomez, decise di renderli pubblici. Riguardano centinaia di vicende in cui sono coinvolti 122 sacerdoti. Gomez ha agito su ordine del giudice Emilie Elias della Corte Suprema di Los Angeles. La sentenza rovesciava un precedente verdetto del 2011, che concedeva alla diocesi californiana di cancellare da quei files «scottanti» i nomi degli ecclesiastici coinvolti. Per il magistrato il diritto a conoscere la verità prevale sulla preoccupazione per l’imbarazzo che ne potrebbe derivare per le autorità cattoliche locali.
Ora però emerge un fatto nuovo, di cui parla il quotidiano Los Angeles Times. Si tratta di un malloppo di carte ancora riservate, destinato ad aprire un inedito inquietante capitolo della storia. Sono lettere scritte a suo tempo da Mahony al Vaticano per denunciare alcuni episodi e proporre la sospensione a divinis dei responsabili. A quanto sembra, non ottenne risposta. Il ché lascerebbe sospettare che la decisione di mettere tutto a tacere non fu presa in solitudine dal prelato americano. Qualcuno potrebbe averla esplicitamente o implicitamente avallata.
Nel frattempo Mahony, che il successore Gomez ha sollevato da «ogni incarico amministrativo o pubblico», non pare intenzionato almeno per ora a rinunciare al Conclave per la scelta del futuro pontefice. Formalmente gli spetta, in quanto cardinale. Sostanzialmente molti nella Chiesa cattolica auspicano abbia la saggezza di farsi spontaneamente da parte, o che dalla Santa Sede giungano pressioni da indurlo a restarsene sull’altra sponda dell’Atlantico.
C’è anche una terza ipotesi, un gesto coraggioso: la revoca della porpora da parte di Benedetto XVI. Sino al 28 febbraio Benedetto XVI è in carica e ha il potere di farlo. Nei confronti dell’arcivescovo «emerito» di Los Angeles come dell’irlandese Sean Brady, che coprì simili malefatte, e che sinora se l’è cavata con una sorta di surrogamento nelle funzioni di primate irlandese, affidate a un coadiutore dotato di pieni poteri.
L’imposizione della berretta cardinalizia, secondo il diritto canonico, non è un atto irreversibile. E il Papa potrebbe toglierla sia a Mahony che a Brady. Nel recente passato però analoghe aspettative rimasero deluse. Nel 2005 una delegazione di vittime dei pedofili si radunò in piazza San Pietro, pregando perché venisse negato l’accesso in Cappella Sistina al cardinale Bernard Law, che anziché punire i preti autori di violenze sessuali, era solito trasferirli in un’altra parrocchia. La clamorosa protesta fu inutile, Law partecipò al conclave per l’elezione del successore di Giovanni Paolo II.
Del resto lo stesso Gomez, pochi giorni dopo avere sospeso Mahony da ogni incarico pubblico, esortava i fedeli a «pregare per il cardinale mentre si prepara ad andare a Roma per eleggere il nuovo Papa». E sottolineava come Mahony resti comunque «vescovo, con pieni diritti di celebrare i sacramenti della Chiesa e svolgere attività pastorale senza restrizioni». Precisazione arrivata dopo che il suo predecessore, prendendo atto del provvedimento di sospensione, aveva ribattuto: «Non una volta in tutti questi anni, Gomez ha mai avanzato un solo dubbio sulle nostre politiche, pratiche e procedure per affrontare il problema degli abusi sessuali del clero sui minori».

La Stampa 18.2.13
Il padre carmelitano esorcista
“In questa storia c’è lo zampino del diavolo”
di Giacomo Galeazzi


«In quello che di impensabile sta accadendo, il diavolo ci ha messo entrambi gli zampini e pure la coda». Sotto gli occhi della «Santa Teresa» del Bernini, padre Ennio Laudazi, superiore della comunità carmelitana di Santa Maria della Vittoria, legge il Vangelo sulle tentazioni demoniache subite da Gesù nel deserto. Richiama la «testimonianza di fede» di Benedetto XVI e sprona a pregare per lui. «Viviamo una situazione molto difficile, siamo in una fase di vuoto- spiega padre Ennio-. Il vuoto fa paura ma Cristo non abbandonerà la sua Chiesa neppure stavolta». I toni sono accorati: «È inutile che facciamo supposizioni sulle cause delle dimissioni, possiamo solo pregare e affidarci a Dio». La centralissima chiesa è gremita e l’attenzione è massima. Padre Ennio si affida alla sua esperienza di esorcista («il maligno è in azione, cerca di accrescere le divisioni e i conflitti, ma non vincerà la sua battaglia») e scandisce le ultime parole di Santa Teresa: «Muoio da figlia della Chiesa». E conclude:«Abbiamo dedicato al Papa l’adorazione eucaristica. Il gregge è riunito attorno al suo Pastore, quindi non scapperemo di fronte ai lupi».

La Stampa 18.2.13
Nel buen retiro in Vaticano con una pensione da 2500 euro
L’ex Pontefice Ratzinger otterrà l’appannaggio da vescovo emerito
Il segretario Padre Georg aiuterà il Papa anche nella sua nuova veste di ex Pontefice
di Giacomo Galeazzi


«Non può toccare neppure una forchetta», sintetizzano in Curia. A meno che non promulghi subito lui stesso un «motu proprio» per cambiare le norme in vigore, il trasloco di Benedetto XVI sarà ridotto all’osso. Costituisce già un’eccezione il ritiro di due mesi alla residenza pontificia di Castel Gandolfo che per legge andrebbe sigillata al pari dell’appartamento in Vaticano, ma c’è da ristrutturare il monastero Mater Ecclesiae e da evitare occasioni di incontro con i conclavisti alloggiati nella vicinissima casa Santa Marta. Joseph Ratzinger potrà portare con sé soltanto il pianoforte, i doni (per esempio, i gatti di ceramica), le lettere private, gli effetti personali. Tutto il resto rimarrà nel Palazzo Apostolico: suppellettili, carte d’ufficio, oggetti in dotazione all’appartamento (quadri, sculture sacre, arredi). Stavolta, dunque, Ratzinger dovrà «viaggiare leggero».
Andata pesante, ritorno «light». Nell’aprile 2005, infatti, da Papa neoeletto organizzò il suo trasloco dall’abitazione di piazza della Città Leonina alla Terza Loggia, portando con sé le sue carte private, una serie di raccoglitori d’ufficio e di scatoloni, frutto degli studi e del lavoro di una vita. Al contrario stavolta avrà mille vincoli. Il 1° marzo, nel suo primo giorno dopo la rinuncia da Papa, non potrà fare la stessa cosa. La prassi vuole che gli appartamenti papali siano sigillati (ma questo non varrà per quello di Castel Gandolfo) alla morte del Pontefice per poter portare tutte le carte, i libri e quant’altro negli nell’Archivio Segreto, dove è regola che tutto rimanga conservato e non divulgato per un numero determinato di anni e, se così viene deciso, «sepolto» per sempre.
Nel suo testamento, Karol Wojtyla aveva chiesto di bruciare dopo la sua morte tutte le carte. Il segretario don Stanislao Dziwisz non lo fece e quando Ratzinger trovò la corrispondenza tra il predecessore e l’amica di gioventù Wanda Poltawska la chiamò e le consegnò tutte le lettere. «Queste appartengono a lei», le disse con delicatezza d’animo. Anche se non è ancora stato fissato il suo titolo post-dimissioni, con ogni probabilità Ratzinger diventerà vescovo emerito di Roma e come tale percepirà una pensione di circa duemila e cinquecento euro. Non avrà, invece, il «piatto cardinalizio» da cinquemila euro, cioè l’indennità mensile dei porporati a meno che il suo successore non gli conferirà «ex novo» la berretta rossa. Nei magazzini d’Oltretevere sono conservati ancora alcuni suoi mobili. Sono in deposito da otto anni: non furono mai portati nell’appartamento pontificio e probabilmente ora Ratzinger se li farà consegnare al monastero.
Mai i giuristi vaticani si erano confrontati con una rinuncia di Papa, che per giunta continuerà a vivere in Vaticano, anche se «nascosto al mondo» in un piccolo convento di clausura nei giardini vaticani. A poche centinaia di metri, però dal Palazzo Apostolico e dalle sue «carte», anche quelle private di teologo e di studioso. Sulla questione «sigilli» e archivi papali devono essere ancora fatte scelte definitive. «Chiederò al cardinale camerlengo Bertone, dopo che si sarà riunito con la Camera Apostolica e si sarà fatto un’idea precisa su questa questione- spiega padre Federico Lombardi-. Sarà fatta una distinzione tra la documentazione d’ufficio che riguarda il governo della Chiesa, e quella personale, per esempio, gli appunti della trilogia su Gesù». Insomma la linea di distinzione è chiara. «Ciò che è più personale lo segue e ciò che è d’ufficio non lo segue», precisa padre Lombardi.
Più complesso il discorso per le migliaia di libri di Ratzinger. Non possono entrare tutti nel piccolo monastero di clausura, ma l’ex Papa vivrà in Vaticano e se avrà bisogno di un libro non dovrà fare altro che chiederlo alla Biblioteca apostolica. L’arcivescovo Georg Gaenswein, suo fedele segretario e prefetto della Casa Pontificia, lo aiuterà nel trasloco insieme con il secondo segretario, il maltese Alfred Xuereb e le quattro «memores domini» che si occupano di tutte le incombenze quotidiane: pulizia dell’abitazione, cucina, mansioni domestiche. Il «buen retiro» è un edificio su quattro livelli con ambienti comunitari e dodici celle monastiche, un’ala nuova di 450 metri quadri, una cappella, il coro per le claustrali, la biblioteca, il ballatoio, una siepe sempreverde e una robusta cancellata per delimitare la zona di clausura, e poi un grande orto dove si coltivano peperoni, pomodori, zucchine, cavoli, e svettano limoni e aranci.
È un «normale», piccolo monastero se non fosse che è l’unico convento nel cuore della cittadella papale, a un passo da San Pietro e dal Palazzo Apostolico che ospiterà il successore di Benedetto XVI. La sua nuova residenza i già adesso è per Joseph Ratzinger la meta di preghiera, recita del rosario e passeggiate con don Georg.

Corriere 18.2.13
Affari oltre Tevere e fascismo secondo un giornale inglese
risponde Sergio Romano


Ho letto l'articolo di David Leigh, giornalista del The Guardian, nel settimanale Internazionale dell'1 febbraio intitolato «Il segreto del Papa». L'articolo riporta come dato storico il pagamento da parte di Mussolini al Vaticano di una ingente somma di denaro in cambio del riconoscimento del regime fascista da parte del Papa. Con la somma ricevuta il Vaticano ha investito in vari immobili nel centro di Londra, Parigi e in Svizzera (in Italia ne aveva già tanti). Vorrei un suo commento.
Luciano Bosello

Caro Bosello,
Peccato. Il Guardian è un antico giornale radicale e ha ancora oggi il merito di assumere posizioni spregiudicate e coraggiose sulle grandi questioni politiche e sociali del momento. Ma l'articolo firmato da David Leigh, Jean-François Tanda e Jessica Benhamou sugli investimenti immobiliari dello Stato della Città del Vaticano nel mercato londinese è viziato da una svista storica, più volte ripetuta nel testo, che ha il brutto odore del più vecchio e trito anti-papismo inglese. Sino dal sottotitolo gli autori sostengono che gli investimenti vaticani nel Regno Unito, a partire dal 1931, hanno origini fasciste e che il denaro utilizzato dalla Santa Sede fu il prezzo pagato da Mussolini per il riconoscimento del suo regime.
Il lettore ignaro dei rapporti fra Italia e Chiesa Cattolica dopo l'Unità non troverà nell'articolo alcun cenno né alla Legge delle Guarentigie, promulgata dal governo italiano nel 1871, né al Trattato del Laterano e al Concordato firmati a Roma nel febbraio 1929. La legge fissava la somma che lo Stato italiano avrebbe versato alla Santa Sede, ogni anno, per garantirle, dopo la fine del potere temporale, una certa autonomia finanziaria. Per non pregiudicare il loro diritto ai territori perduti, Pio IX e i suoi successori rifiutarono d'incassarla e gli arretrati, compresi gli interessi, ammontavano nel 1929 a tre miliardi e 160 milioni di lire. Il Trattato riconosceva l'esistenza di uno Stato Vaticano, ne faceva un soggetto internazionale e liquidava il contenzioso finanziario, dopo un intervento di Mussolini, al ribasso: 750 milioni in contanti e un miliardo in consolidato 5 per cento al portatore. Il Concordato, infine, stabiliva quali sarebbero stati i rapporti fra Chiesa e Stato italiano all'interno del territorio nazionale. Non so come il Guardian abbia annunciato allora l'avvenimento. Ma ho fra le mie carte una fotocopia della prima pagina del Times, il maggiore quotidiano londinese del tempo, in cui la Conciliazione viene trattata come un evento d'importanza storica. Mussolini trasse grande vantaggio personale dalla conclusione degli accordi e divenne, agli occhi della Chiesa, l'«uomo della Provvidenza». Ma la firma dei trattati concludeva un'operazione avviata da Francesco Crispi e ripresa, più recentemente, da Vittorio Emanuele Orlando. Aggiungo che la benevolenza della Chiesa verso il regime era già stata acquisita da Mussolini quando la curia romana aveva incoraggiato l'esilio di Don Sturzo, leader del Partito popolare, e osservo che i rapporti fra Italia e Santa Sede, negli anni seguenti, furono tutto fuorché idilliaci.
La somma versata alla Santa Sede fu affidata dal Papa a un finanziere milanese, Bernardino Nogara, che divenne, di fatto, il primo ministro vaticano del Tesoro. Il suo ritratto, nell'articolo del Guardian, è quello di un malizioso e scaltro Cagliostro, ma il suo maggiore obiettivo, in anni di guerre e rivoluzioni, fu quello di mettere il denaro al riparo da svalutazioni, sequestri e confische. Ebbe certamente anche un'altra preoccupazione: quella di separare per quanto possibile la Santa Sede dal suo patrimonio e dall'uso che ne veniva fatto. Il denaro ha una sua logica che non è quella di una istituzione religiosa, e occorreva evitare che il Papato venisse pubblicamente coinvolto in operazioni discutibili. Al tempo di Nogara questa opacità sarebbe stata compresa a accettata; oggi, in una clima politico e morale alquanto diverso, il vescovo Marcinkus e lo Ior (Istituto per le opere di religione) hanno procurato alla Santa Sede, sino ai nostri giorni, più guai che benefici. Ma questa, ovviamente, è un'altra storia.

Corriere 18.2.13
I rettori ai candidati premier «Salvate le università»
La denuncia: oggi saremmo fuori dall'Ue degli atenei
di Mariolina Iossa


ROMA — Poi si parla di fuga dei cervelli. E ci si stupisce del crollo delle immatricolazioni. Oppure si guarda con ansia alle migliaia di studenti che rinunciano a laurearsi. Ultima fermata, per i nostri atenei, arrivati al capolinea prima del disastro. «Se vi fosse una Maastricht delle Università, noi saremmo ormai fuori dall'Europa». Eppure ovunque ci si volti, dice il presidente della Conferenza dei rettori, Marco Mancini, da nessuna parte si offrono ricette per i mali dell'università e della ricerca italiane, non ci sono soluzioni nelle agende politiche di chi si candida a governare il Paese. Proprio per questo, la Crui ha scritto una lettera aperta al prossimo presidente del Consiglio con 6 proposte per il futuro dell'Università. «Serve una forte discontinuità con il passato — spiega Mancini —, la politica ci ha messo fra parentesi e parla di futuro? Per noi, sia chiaro, l'università è un aspetto fondamentale del futuro».
I rettori stavolta sono decisi, non si tireranno indietro. Che non si dica poi che sono rimasti a guardare o che si sono limitati a lamentarsi. «Fino ad oggi — prosegue il presidente della Crui — ci siamo molto lamentati, ma questo non ha prodotto alcun effetto, abbiamo offerto un quadro apocalittico senza riuscire a smuovere i governi. Ora suggeriamo una terapia, alcune misure essenziali: si dovrebbe fare molto di più, ma vogliamo almeno evitare il collasso». Terapia d'urto, risposte all'emergenza. Ma quali sono le emergenze? Il calo costante delle immatricolazioni, per esempio, che è il tema di più stretta attualità. Meno della metà (47 per cento) dei diplomati sono attratti oggi dall'università, mentre 8 anni fa erano il 54 per cento. «Aiutiamo le famiglie a pagare le tasse e i contributi — dice Mancini —. Diamo ai giovani qualche chance in più nel percorso dell'istruzione superiore. Altrimenti saremo sempre più lontani dall'Europa, dove invece aumentano immatricolati, iscritti, laureati e "cervelli" arruolati nei loro Paesi e non costretti a fuggire».
Gli studenti meritevoli, chi cerca la migliore università per puntare all'eccellenza, devono essere sostenuti. Ovunque è ancora così, eppure la crisi economica non ha colpito solo l'Italia. Chissà perché questo però non vale, o vale poco, per lo studente italiano. Le borse di studio negli ultimi tre anni sono diminuite, i fondi nazionali nel 2009 coprivano l'84 per cento degli aventi diritto, nel 2011 solo il 75. In sostanza accade che a migliaia di studenti (ai quali pure spetterebbe) non viene erogata la borsa di studio. «Questa è una cosa che grida vendetta — s'infiamma Mancini —. Quando invece dobbiamo garantire la formazione e incoraggiare gli studenti a scegliere le migliori università».
Altra nota dolente, l'età dei docenti universitari che cresce mentre il loro numero diminuisce. Non c'è una sola situazione uguale in tutta Europa. Oltre il 22 per cento dei docenti ha più di 60 anni, contro il 5,2 per cento di Gran Bretagna, il 6,9 di Spagna, l'8,2 della Francia e il 10,2 della Germania. Solo il 4,7 dei professori universitari italiani ha meno di 34 anni, contro il 31,6 per cento in Germania, il 27 in Gran Bretagna, il 22 in Francia e il 19 in Spagna. Cervelli in fuga? È una emorragia: i giovani dottori che abbandonano l'Italia erano l'11,9 per cento nel 2002 e sono stati il 27,6 nel 2011: più del doppio in appena dieci anni.
Le Università vogliono anche vedersi restituita maggiore autonomia. Perché? «Non per fare quello che ci pare, rispondo all'obiezione più comune. Ma per valorizzare gli atenei in relazione al tessuto produttivo su cui lavorano». I soldi? Inutile nascondersi dietro un dito, dai finanziamenti non si può prescindere e non basta fermare l'emorragia, bisogna recuperare un po' del terreno perduto. Le cifre parlano chiaro: in soli 4 anni l'Università ha perso il 13 per cento dei fondi. Oggi più del 95 per cento della spesa complessiva serve soltanto a pagare gli stipendi. «Noi chiediamo che ci venga restituito almeno il livello di fondi del 2009 — sottolinea Mancini —. Da allora ogni anno c'è stato un taglio e per il 2013, con la spending review, ci sono stati sottratti altri 300 milioni di euro».

il Fatto 18.2.13
Roma e dintorni
Malagrotta, un “Capitale” d’immondizia
di Nello Trocchia


Malagrotta, nomen omen. Nel nome il destino di un’area, a nord di Roma, che ospita la discarica tra le più grandi d’Europa. Quando percorri la strada, tra camion e cave di tufo, per trovare l’invaso basta seguire i gabbiani. Le colonie di uccelli svolazzano e cercano cibo tra quei rifiuti che ogni giorno vengono smaltiti senza subire alcun trattamento: e parliamo di 1.200 tonnellate.
PER QUESTO c’è una procedura di infrazione della commissione europea contro l’Italia: il rischio è una multa da mezzo milione di euro al giorno. In una superficie di 160 ettari di terreno, la montagna di pattume è venuta su raccogliendo i rifiuti dei romani, oltre 50 milioni di tonnellate, oltre un milione all’anno. La discarica ha visto transitare in Campidoglio giunte di ogni colore, democristiani, socialisti, post-comunisti fino a quella, a tratto nero, di Gianni Alemanno. Ma è sempre lì. I sindaci passano, come le promesse di chiusura del sito. Il Pdl romano, nell’estate 2011, aveva coperto la città di manifesti: “Dopo 35 anni chiude Mala-grotta, grazie ad Alemanno e Polverini”. L’ennesima ecoballa. “Non ha idea di quante ne ho sentite di queste promesse – racconta Sergio Apollonio, presidente del comitato Malagrotta – alla fine sono rimaste solo parole”. Malagrotta supplisce alle carenze degli amministratori. Roma è poco sotto il 30 per cento di differenziata, la legge prevedeva il 65 entro il dicembre dello scorso anno. A fine dicembre il commissario Goffredo Sottile ha prorogato la vita di Malagrotta per altri 6 mesi. Roma è in stato emergenza, nella gestione rifiuti, dal luglio 2011. Uno stato di emergenza, bocciato, nei giorni scorsi, dalla commissione petizioni del Parlamento europeo. Malagrotta non è solo pattume. Oltre la discarica c’è anche un gassificatore, al momento spento, e i Tmb, impianti di trattamento meccanico biologico, nella cittadella “ambientale” di Manlio Cerroni. Poco distante altri insediamenti come una raffineria e l’inceneritore di rifiuti ospedalieri. L’istituto di ricerca Eurispes, in un suo rapporto, l’ha definita: “una delle aree più a rischio d’Italia per la complessa situazione ambientale” evidenziando l’urgenza di un risanamento. A fine 2011, la Procura della Repubblica di Roma ha aperto un’inchiesta per omicidio colposo, per capire se la morte fulminea per tumore di quattro persone, tra il 2008 e il 2010, sia stata provocata dalle esalazioni della discarica.
L’ISPRA, NELL’ULTIMO studio del settembre 2011 sull’area, aveva denunciato: “Una contaminazione diffusa delle acque sotterranee, esterne e interne al sito, da parte di metalli e inquinanti”. Cerroni, dal canto suo, ha sempre ribadito che la discarica non inquina perché isolata dal terreno con un polder di protezione e non rilascia alcuna esalazione nociva. Ora gli esperti del Politecnico di Torino stanno realizzando uno studio sullo stato delle acque di Malagrotta.
Per uscire dall’emergenza il governo Monti ha confermato commissario Goffredo Sottile per altri sei mesi. Nel decreto di nomina veniva anche disposto, per un parte dei rifiuti di Roma, il trattamento in impianti fuori provincia. Il decreto è stata bocciato dal Tar. “ Al momento – racconta Sottile al Fatto – sono un commissario sospeso, un libero cittadino”. Tra gli ultimi atti di Sottile c’è l’individuazione di Monti dell’Ortaccio come discarica provvisoria, un sito a poche centinaia di metri dall’invaso di Mala-grotta e con lo stesso proprietario. I cittadini sono pronti alle barricate, la Procura di Roma, intanto, indaga proprio su Cerroni e sul suo sistema di gestione dei rifiuti. “Ci opporremo in ogni modo ad una nuova discarica. Vogliamo tornare a vivere. Spero ci salvi l'Europa – conclude Sergio Apollonio – dall'incapacità e dall'indolenza di questa politica”.

il Fatto 18.2.13
Lazio
Nel fiume i residui nucleari
di Caterina Perniconi


Il confine è quello tra Lazio e Campania. È lì che negli anni i residui radioattivi della centrale nucleare di Sessa Aurunca, spenta nel 1982, si sono infiltrati nella terra e nell'acqua, inquinando il fiume che scorre nella zona verso il mare: oggi il Garigliano è radioattivo. La conferma è arrivata questa settimana dai militari del Cisam, il Centro interforze di studi e applicazioni militari di Pisa, sui prelievi effettuati tra novembre e dicembre dai sommozzatori della Guardia di Finanza. Le battaglie dei cittadini, che da anni chiedevano cosa stesse succedendo alle acque del loro territorio hanno avuto ascolto da parte del sostituto procuratore di Santa Ma-ria Capua Vetere, Giuliana Giuliano, che tre mesi fa ha aperto un procedimento penale per irregolarità in materia di sicurezza nucleare. Sul registro degli indagati c'era finito solo Marco Iorio, responsabile per conto della Sogin (la società nata nel 1999 con il compito di smantellare le centrali chiuse dopo il referendum del 1987) della bonifica del reattore.
LA STESSA azienda si starebbe già muovendo per una bonifica d'urgenza, e la procura ha cercato di rassicurare la popolazione. Ma il rischio resta costante, a causa dei rifiuti attivi depositati nel sottosuolo a contatto con la falda acquifera, comprese le tute dei dipendenti della centrale. In più, ogni volta che il Garigliano esonda, la centrale viene sommersa dall'acqua.
Cesio 137 ma anche Cesio 134 e Cobalto 60, come ha ricordato il quotidiano Latina Oggi, erano già presenti nel 1984, due anni dopo la chiusura del sito, nel fiume e nel golfo di Gaeta, rilevati dagli specialisti dell'Istituto Superiore di Sanità. "I risultati di queste analisi hanno dimostrato quanto temevamo - denuncia Giovanni Mallozzi del direttivo di Sel Minturno - dopo anni di assoluta mancanza di trasparenza e di silenzio da parte delle istituzioni, comincia a emergere una verità drammatica. Ora devono venire alla luce anche le responsabilità politiche. Siamo stati esposti - continua Mallozzi - per un periodo di tempo difficile da quantificare a fonti di inquinamento radioattivo di cui solo ora veniamo informati, con conseguenze incalcolabili sulla nostra salute e su quella delle future generazioni".

l’Unità 18.2.13
Israele, Netanyahu alle prese col giallo del «Prigioniero X»
Il caso di un ex agente del Mossad morto tre anni fa in un carcere di massima sicurezza
Troppi i lati oscuri
di U. D. G.


Quella morte agita la politica israeliana. Lasciate lavorare in pace i servizi segreti. Con questo messaggio il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, ha cercato di mettere a tacere il polverone suscitato in Israele dalle rivelazione sul «Prigioniero X», il detenuto più segreto delle carceri israeliane: un australiano con passaporto israeliano, legato al Mossad e morto in un carcere di massima sicurezza nel dicembre 2010. Sul caso, su cui per mesi il governo israeliano aveva steso la pesante cortina della censura, sta facendo luce proprio in questi giorni la stampa internazionale e di riflesso quella israeliana. Ma Netanyahu ha messo in guardia.
OMBRE SOSPETTE
«Chiedo a tutti voi di lasciare che le forze di sicurezza continuino a lavorare in pace in modo che possiamo continuare a vivere in pace e in sicurezza in Israele». Il premier, che non aveva mai parlato finora dell’arresto e della morte del detenuto, ha voluto sottolineare che Israele è «uno Stato democratico esemplare che protegge i diritti delle persone sotto inchiesta»; ma ha aggiunto che l’esposizione in pubblico delle attività di intelligence può «danneggiare gravemente» la sicurezza del Paese. «Una sovraesposizione delle attività di sicurezza e intelligence può danneggiare, e danneggiare malamente, la sicurezza; e questo è il motivo per cui in ogni dibattito non dobbiamo sottovalutare l’interesse della sicurezza: nella realtà in cui vive Israele, questo deve essere un interesse centrale».
LA STORIA
Era un’ex spia australiana del Mossad infiltratasi in Iran e Siria il misterioso «Prigioniero X» detenuto in un carcere israeliano di alta sicurezza, ritrovato impiccato nella sua cella alla fine del 2010. A rivelarlo è l’emittente australiana Abc, squarciando almeno in parte il segreto di Stato che per due anni aveva coperto la notizia. Ora si apprende che neppure il governo di Canberra era al corrente di questa misteriosa detenzione, dietro cui sembra nascondersi un’autentica «spy story». L’uomo, secondo l’emittente, era detenuto per reati ignoti e confinato in isolamento totale, tenuto d’occhio da telecamere di sicurezza, controllato regolarmente, in una cella a prova di suicidio, all’interno di un’ala del carcere di Ayalon, il più sicuro del Paese. Neanche i secondini sapevano chi fosse o cosa avesse fatto, tranne che la cella era stata costruita per un precedente inquilino: Yigal Amir, l’assassino dell’ex premier, Yitzhak Rabin. Un livello di sicurezza che fa pensare a reati gravissimi, forse un doppio gioco con una potenza ostile.
La storia del cosiddetto «Prigioniero X» era apparsa per la prima volta nel maggio 2010, sul sito web di Ynet in un articolo dal titolo: «Chi sei, prigioniero X?»; ma poi era rapidamente scomparsa e, sull’intera vicenda, era piombata la censura del governo israeliano. L’uomo è stato identificato dalla Abc come Ben Zygier, morto a 34 anni, alla fine del 2010. Zygier, che in Israele si faceva chiamare Ben Alon, era un avvocato ebreo, rampollo di una famiglia molto nota a Melbourne che si era trasferito in Israele all’età di 24 anni. Aveva sposato una donna israeliana e i due avevano due figli piccoli. L’uomo era diventato una spia del Mossad e, secondo la stampa australiana, aveva ottenuto un passaporto australiano con il nome Ben Allen (un altro dei nomi da lui utilizzati) con cui era riuscito a viaggiare in Iran, Libano e Siria, Paesi che non riconoscono Israele e in cui è vietato l’ingresso a cittadini israeliani. Secondo altre fonti Zygier avrebbe preso parte tre anni fa in un hotel di Dubai all’assassinio di un leader militare di Hamas, Mahmud al Mabhuh. Fermato dalla polizia degli Emirati avrebbe vuotato il sacco, facendo i nomi di altri agenti del Mossad che operano con passaporti di Paesi occidentali. In quel modo si sarebbe garantito l’immunità e il servizio segreto israeliano fu costretto a rapirlo per riportarlo nello Stato ebraico. Il mistero continua.

Repubblica 18.2.13
Nella Tunisia in bilico sulla primavera smarrita
di Bernardo Valli


La Tunisia è stato il detonatore delle rivolte arabe. Oggi è un Paese in bilico, segnato dalle lacerazioni. Viaggio dentro una rivoluzione rimasta a metà
La Primavera è partita da qui, con una rivolta ai soprusi degli sgherri del raìs. Ora è in mezzo al guado.
Ma c’è un movimento che non si rassegna all’assorbimento del potere nella fede.
L’impronta repressiva imposta dai musulmani radicali è una minaccia forte e costante.
E che dopo l’assassinio del leader dell’opposizione laica Chokri Belaid è tornato in piazza per la libertà

TUNISI È ancora primo mattino e l’uomo al tavolo accanto beve già una birra. Più dell’ora, che è quella del caffè, colpisce la barba folta del cliente dell’Univers, il bar quasi incollato alla cattedrale, sull’avenue Bourghiba. Un intellettuale tunisino, mio vecchio amico, la giudica una barba islamista. Lui se ne intende. È la prima, banale ma non tanto insignificante, contraddizione in cui mi imbatto arrivando in questa città che mi è familiare, e che temevo di ritrovare ferita, in preda al dramma, insanguinata dall’assassinio di Chokri Belaid, il capo di un partito di sinistra, incollerita dalla rivoluzione nata laica e poi scippata da chi sogna di imporre i principi coranici dettati dall’arcangelo Gabriele mille quattrocento anni fa. E invece la barba islamista del bar Univers mi sembra un segnale modesto ma rassicurante. Se nel cuore della capitale un militante islamico, tra le cui aspirazioni dovrebbe esserci anche quella elementare di proibire l’alcol, si esibisce in pubblico davanti a un bicchiere di birra, significa che i giochi non sono ancora fatti. La rivoluzione è in mezzo al guado.
Non pochi tunisini angosciati vedono gli islamisti dappertutto, non solo nei posti chiave dello Stato ma anche sotto il letto, perché pensano che col tempo cercheranno di trasformare i privati cittadini in fedeli. Eppure la rivoluzione rubata non ha una netta impronta repressiva. È una minaccia rampante. L’espressione ritorna spesso nelle conversazioni. Per il momento la libertà di espressione si manifesta con vivacità. I teleschermi pubblici ospitano dibattiti in cui si critica il governo. I giornalisti sfidano le autorità e non si trincerano dietro l’autocensura, denunciano i soprusi del potere e sfidano la giustizia, che gli avvocati dicono addomesticata. Si discute sulle piazze e nei caffè apertamente, ad alta voce. Le manifestazioni e le contro manifestazioni sono frequenti. A quelle alimentate dall’opposizione rispondono quelle islamiste, da un po’ di tempo meno imponenti, indette per affermare la legittimità del governo. Ritrovo insomma una Tunisia traumatizzata ma spavalda. Né rassegnata né trionfante. Divisa. «Non ancora islamizzata, ma sul punto di esserlo», dicono i pessimisti. I quali denunciano l’impunità concessa ai salafiti, gli estremisti religiosi; e che soprattutto dubitano dell’autenticità democratica di chi oggi governa.

La Tunisia è stato il detonatore delle rivolte arabe contro la dittatura e quindi le tappe della sua rivoluzione hanno un’importanza particolare. Ce l’hanno anche per il grande Egitto, che due anni fa ne ha seguito l’esempio. L’islamismo si è impadronito della “primavera araba” con un forte appoggio popolare, legittimato da libere elezioni. I veri promotori della rivoluzione appartenevano alla generazione del Web (un tempo si sarebbe detto forza progressista della società civile) e sono stati relegati all’opposizione. All’inizio, è bene ricordarlo perché rivelatore, c’è stato il suicidio del giovane tunisino Mohamed Bouazizi, umiliato dai poliziotti che avevano rovesciato il suo carretto di frutta e verdura. Non è stato certo quell’episodio del 17 dicembre 2010, già diventato leggenda, a motivare le rivolte arabe. Ma quella è stata la scintilla. Ed era di natura sociale: un ragazzo povero che si toglie la vita perché maltrattato dagli sgherri del raìs ricco e corrotto. La religione non c’entrava. Gli islamisti sono arrivati dopo e hanno esercitato una forte attrazione in società in cui l’identità musulmana prevale su tutte le altre.
Gli islamisti erano senza macchia, uscivano di prigione o rientravano dall’esilio. Non si erano compromessi con i raìs. Erano vittime e oppositori. Ma c’entravano poco con la rivolta sociale e in favore della libertà. Avevano altri ideali e tuttavia nel clima insurrezionale incarnavano il nuovo e le annesse speranze, anche se erano ancorati a un passato remoto. L’equivoco permane. Si moltiplicano le contraddizioni, evidenti sintomi di instabilità e di incertezza. Progressi e regressi si alternano. Alle delusioni, alle frustrazioni, alle paure seguono improvvisi entusiasmi e mobilitazioni per impedire che la “primavera” si concluda con un naufragio. La rivoluzione continua, benché se ne dichiari con insistenza il fallimento; o sia addirittura negata, come se non fosse mai cominciata. In realtà non c’è nulla di più rivoluzionario del tentativo di realizzare nell’Islam (pre illuminista) una convivenza rispettosa di fede e ragione, e del simultaneo passaggio dalla dittatura o dall’autoritarismo a un’accettabile versione della democrazia. Dalla spontanea rivolta di piazza Tahrir e dell’avenue Bourghiba si è passati alla complessa trasformazione della società musulmana. Ed essa chiede tempo.
Ben più vistosa del barbuto che beve birra al bar Univers, sull’avenue Bourghiba, è la contraddizione implicita nel fatto che l’eroe nazionale, nel paese governato dagli islamisti, sia stato un uomo politico laico. Soltanto dopo essere stato assassinato, la mattina del 6 febbraio, da due giovani probabilmente espressione dell’estremismo religioso, Cohkri Belaid, leader di El Watad (Movimento dei patrioti democratici) è diventato il simbolo della resistenza all’islamismo politico, cioè all’assorbimento totale del potere nella fede, al prevalere di coloro che vedono nel Corano la fonte di tutta l’organizzazione sociale e della morale collettiva. Per questo è adesso sepolto tra i martiri della nazione. A consacrarlo è stata la folla che l’ha accompagnato al cimitero di Jellaz, a Tunisi, dove è arrivato avvolto nella bandiera nazionale e su un camion militare. Quel funerale e il simultaneo sciopero generale, il primo dal 1978, sono state le prove della crescente impopolarità del governo dominato da Ennahda (Movimento della rinascita), il partito islamista. L’islamismo nella sua versione attuale si è rivelato inadeguato a esercitare il potere. Impacciato nel gestire l’economia e i problemi sociali. I risultati sono infatti mediocri, o addirittura giudicati disastrosi secondo l’opposizione. Anche questa, l’inesperienza o l’incapacità a governare degli islamisti, è una rivelazione, che sfiora quella trascendentale perché invita a distinguere politica e religione. Non è con quest’ultima che si risolvono i problemi concreti di una società. È una lenta presa di coscienza neppure due anni dopo le trionfali elezioni dell’ottobre 2011, le prime in un paese arabo liberato dalla dittatura, nelle quali Ennahda conquistò 89 seggi sui 217 dell’Assemblea costituente, vale a dire tre volte più del partito arrivato in seconda posizione. Non avendo tuttavia la maggioranza assoluta, gli islamisti si sono alleati con due partiti minori, un tempo di sinistra, comunque laici, e hanno lasciato ai loro leader incarichi formalmente importanti: a Moncef Marzouki (un medico, capo del Congresso per la repubblica) la presidenza della Repubblica; e a Mustafa Ben Jaafar (un altro medico, capo di Ettakatol, Forum per il lavoro e le libertà) la presidenza dell’Assemblea costituente. Le due piccole ma rispettabili formazioni politiche dovevano essere una garanzia democratica, ma non si sono rivelati in grado di ridimensionare, tenere a bada, il potere di Ennahda.
L’assassinio di Chokry Belaid, un oppositore di sinistra, non ha certo favorito l’islamismo politico nella sua espressione radicale. Forse ne ha scandito l’annunciato declino. Il processo di islamizzazione è un’altra cosa. Non è stato frenato e resta galoppante in quanto operazione di aggiornamento in corso nella vasta, frastagliata area islamista. Tra polemiche, tensioni e scontri, sotto la pressione della realtà quotidiana, si tenta di adeguare la pratica alla società del Ventunesimo secolo. Si ha l’impressione che sia una ricerca condotta a tastoni. Più che un laboratorio di idee sembra una rincorsa affannosa di consensi popolari in fuga. Il paese lo sente e insegue a sua volta quel che assomiglia alla “primavera” smarrita.
La forte partecipazione al funerale di Chokry Belaid è stata un’aperta manifestazione contro il governo e Ennahda ha accusato il colpo. Ne sono seguite profonde lacerazioni all’interno del partito. Quasi un’implosione. Un’ala più modernista, rappresentata dal segretario generale (e primo ministro), Hamadi Jebali, è entrata in aperta polemica con lo storico leader del partito, Rachid Ghannouchi. Hamadi Jebali, un ingegnere e un militante islamico che ha passato almeno tre lustri in carcere, oggi è considerato un moderato. Oggetto della contesa, che l’oppone in questi giorni a Ghannouchi, è la proposta di formare un governo di tecnocrati. Vale a dire di passare da un esecutivo a maggioranza islamista a un esecutivo laico. L’evoluzione è evidente: il primo ministro Jebali, che ha preso l’iniziativa, un paio d’anni fa suggeriva di creare un califfato, vale a dire uno Stato teocratico.
Nessuno si è azzardato a definire laico il governo proposto dal primo ministro. Lui se ne è ben guardato. L’espressione è stata bandita dal linguaggio politico tunisino. Nessun partito di governo o d’opposizione osa rivendicare quella identità, perché laico è sinonimo di ateo. Neppure il laico Chokri Belaid, diventato l’eroe nazionale dopo la morte, si definiva tale, benché lo fosse. È come se essere ateo più che un peccato fosse un crimine. Nessun politico accenna a una separazione tra Stato e religione, anche se il problema è al centro della contesa. Nessuno rivendica la laicità, neppure nell’opposizione di sinistra. Tutti sono musulmani ed è nell’ambito musulmano che si svolge il dibattito. Sia pure da posizioni profondamente diverse. È questa l’islamizzazione galoppante, ritmata dall’affannoso tentativo di adeguarla ai problemi concreti della società tunisina, una delle più avanzate del mondo arabo.
Il presidente della Repubblica, Moncef Marzouki, eletto dall’Assemblea costituente, militante per anni dei diritti dell’uomo, e per questo finito in carcere, era considerato un laico. Ma il suo partito non ha esitato a partecipare al governo dominato da Ennahda; e lui, personalmente, si adegua al nuovo linguaggio. È uno dei tanti sintomi dell’islamizzazione simultanea a un confuso processo di modernizzazione, come dimostra l’iniziativa del primo ministro. Non c’è, ed è evidente, un islamismo ma tanti islamismi. Le tendenze sono numerose. Le correnti moderate e integraliste si delineano nei partiti che si definiscono islamici. La prova del potere li spinge al conservatorismo, alla tradizione, per quanto riguarda i costumi, e al liberismo in economia.
Lo chiamerò Mohammed. È il vice capo di una delle duecentosessantadue cellule di Ennahda e mi spiega che dieci dei quindici membri del mini ufficio politico della sua sezione si sono espressi in favore della formazione di un governo di tecnici, e quindi in favore del modernista Jebali, e contro il dogmatico (e mitico) Ghannouchi, che rifiuta l’idea. C’è quindi un dibattito tra gli islamisti moderati e gli intransigenti. Mohammed non sa se la sua cellula rispecchia i rapporti di forza nel partito. È comunque pronto a seguire la maggioranza che affiorerà, come esige la regola. Si può essere scettici sul livello di democrazia all’interno di Ennahda. Mohammed ammette soltanto che non mancano i moderati. E lui lo è. I continui riferimenti alla vita di Maometto rivelano un certo candore. E nel candore si scontrano fede e ragione: i richiami al Profeta e il voto per un governo di tecnici, senza un’impronta islamista, ma competente e neutrale. Tutt’altro è il discorso dei salafisti del quartiere popolare di Bab-al-Khadra, incondizionali della sharia. I salafisti non sono molti, ma sono attivi, provocatori, e le loro bandiere nere emergono indisturbate nelle manifestazioni di Ennahda. Questo inquieta l’opposizione. Tanti episodi giustificano i timori. Quando un tribunale condanna a sette anni e mezzo due giovani (Jabeur Mezri e Ghazi Béji) per avere diffuso caricature di
Maometto su Facebook, con la motivazione di attentato alla morale, diffamazione e minaccia all’ordine pubblico, viene spontaneo pensare che gli islamisti di Ennahda, la cui influenza sulla giustizia è forte, non si siano liberati dei vecchi demoni, oppure che si adeguino a quelli dei salafisti. La cronaca è ricca di episodi di intolleranza.
All’Assemblea costituente, impegnata a completare la legge in tempo per consentire le elezioni entro l’anno, si sarebbe creato un formale consenso: il preambolo della nuova Costituzione, in cui si proclama (come nella vecchia versione) la Tunisia «un paese arabo e musulmano» soddisferebbe tutti. La tentazione di inserire alcuni principi della sharia non si è tuttavia spenta. «Sono abili, si infiltrano dappertutto, prolungano le discussioni all’Assemblea costituente qualche loro principio, in favore della legge coranica». Questo dice un’alta funzionaria spiegandomi come gli islamisti cerchino di controllare l’amministrazione statale. Hanno nominato i governatori delle varie province, ossia i prefetti, ma i funzionari stentano ad accettare la loro autorità, resistono, a volte disubbidiscono. Anche la polizia non si sarebbe sottomessa del tutto. E l’esercito, cui è affidato il controllo delle frontiere, si tiene in disparte.
Le donne hanno un ruolo enorme. L’evoluzione dei costumi nelle strutture familiari, e quindi nella società in generale, dipende in larga parte dalla condizione femminile e dalle leggi che la determinano, ed anche dalla rivoluzione sessuale, segreta ma con un forte impatto. Su questo terreno (e non solo su questo) la Tunisia è stato un paese d’avanguardia. È stato un pioniere della modernità con scarso seguito nel mondo arabo. Il 13 agosto 1956, prima ancora dell’indipendenza ufficiale e prima del varo della Costituzione, Habib Bourghiba, presidente-fondatore della Repubblica tunisina, ha promulgato un Codice di statuto personale (Csp) in cui si dichiarava l’uguaglianza tra uomini e donne. E tre anni dopo ha riconosciuto il diritto al voto delle donne, e via via il libero accesso alla contraccezione e poi all’aborto. Prima ancora che quest’ultimo fosse autorizzato in tanti paesi europei (ad esempio in Italia e in Francia). Oggi il Codice di Bourghiba non è apertamente messo in discussione. È una frontiera che nessuno osa per ora sfondare. I salafiti lo condannano, ma il loro peso politico è marginale. Anche se con le intemperanze verbali e la azioni violente, accompagnate dalle dichiarazioni del Comitato per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio, alimentano l’incubo degli islamisti sotto il letto.

La Stampa 18.2.13
La sanatoria per 11 milioni di immigrati illegali
Il piano di Obama Da clandestini a cittadini in 8 anni
La bozza della riforma svelata dai giornali Immediata la bocciatura dei repubblicani
di Paolo Mastrolilli


Otto anni di buona condotta, per intraprendere la strada che porta alla cittadinanza americana. Questo è il fulcro della riforma dell’immigrazione pensata dalla Casa Bianca, secondo il quotidiano Usa Today, che ha ottenuto e pubblicato un documento con i dettagli della proposta. L’opposizione repubblicana però l’ha subito bocciata, dicendo che questa idea arriverebbe in Congresso «già morta».
Il presidente Obama ha fatto dell’immigrazione la priorità iniziale del secondo mandato, nella speranza di approvare una legge entro l’estate. Lui deve farla per rispondere all’elettorato ispanico, che lo ha votato in massa a novembre, ma anche il Gop ha interesse a risolvere il problema degli undici milioni di illegali, se vuole recuperare consenso nel gruppo demografico dei latini che è in costante espansione. Quattro senatori democratici e quattro repubblicani, tra cui è decisivo il cubano Marco Rubio della Florida, stanno lavorando ad un compromesso, ma nel frattempo la Casa Bianca ha fatto circolare la sua proposta, che è stata consegnata a Usa Today da una fonte anonima dell’amministrazione.
Secondo questo testo, gli illegali interessati devono sottomettersi ad un controllo delle loro eventuali attività criminali, fornire informazioni biometriche, pagare le tasse e una multa per gli arretrati, imparare l’inglese e la storia degli Stati Uniti, e rimettersi in fila per fare i documenti. Una volta approvati, potranno fare domanda per un nuovo visto riservato ai «Lawful Prospective Immigrant». Questo permesso consentirà loro di risiedere e lavorare negli Stati Uniti per quattro anni, e se tutto andrà bene durante il periodo di prova potrà essere rinnovato per altri quattro. Al termine degli otto anni, gli illegali riceveranno la carta verde, e quindi cominceranno il percorso normale che in genere porta alla cittadinanza dopo cinque anni. Nello stesso tempo, le autorità americane rafforzeranno i controlli alle frontiere.
Appena letta la proposta, Rubio l’ha subito bocciata: «E’ morta in partenza al Congresso», dove il Gop ha la maggioranza alla Camera e quindi può bloccare qualunque iniziativa. Il senatore della Florida ha messo in guardia Obama dal «commettere l’errore di proporre leggi senza consultare i membri repubblicani del Parlamento». Il nuovo capo dello staff della Casa Bianca, Denis McDonough, gli ha risposto ieri dicendo che «non abbiamo ancora presentato nulla al Congresso, e speriamo che non serva, ma dobbiamo tenerci pronti».
Secondo Usa Today il documento non è uscito per caso, e quindi si tratta di un tentativo dell’amministrazione di fare pressione. L’iniziativa legislativa tocca al Parlamento, e Obama spera che il negoziato tra gli otto senatori produca un compromesso accettabile entro marzo, da votare poi prima dell’estate. Teme però che questo accordo non venga raggiunto, e quindi fa sapere di avere pronta la sua proposta. In caso di fallimento delle trattative la presenterebbe, e a quel punto i repubblicani si troverebbero davanti a due possibilità: accettare la riforma della Casa Bianca, magari con qualche ritocco, o prendersi la responsabilità davanti agli elettori ispanici di averla fatta saltare ancora una volta.

Repubblica 18.2.13
È il primo Paese a introdurre il divieto, dopo una consultazione nazionale
L’Islanda si scopre moralista messo al bando il porno online
di Enrico Franceschini


È IL paese dei geyser, dei vulcani, dei vichinghi. È anche il Paese più egualitario del mondo nei rapporti tra uomini e donne, uno dei più liberi sessualmente, l’unico del pianeta con un primo ministro apertamente lesbica. Ma ora l’Islanda sembra sul punto di diventare conosciuta anche per un’altra ragione.
L’Islanda contro il porno “Stop al sesso sul web per proteggere i bambini”
Il governo vuole il divieto d’accesso a tutti i siti

POTREBBE essere l’unico stato del globo “porn free”, senza pornografia su Internet. Dopo che una consultazione nazionale ha dato un responso largamente positivo, il governo di Reykjavik ha avviato un’indagine per decidere come si potrebbe imporre un divieto d’accesso ai siti porno su tutta l’isola. «Siamo una società liberale e progressista in materia di nudità e di rapporti sessuali», dice Halla Gunnarsdottir, consigliere del ministero degli Interni, che sta seguendo il progetto. «Il nostro approccio al problema non è anti-sesso, bensì anti-violenza. Non è questione di libertà di parola, bensì di danni all’infanzia. Le statistiche indicano che in media un bambino vede pornografia su Internet a 11 anni di età e questo ci preoccupa, così come ci preoccupa la natura sempre più degradante e brutale di quello a cui sono esposti. Non stiamo parlando di censurare l’informazione, ma qualcosa dobbiamo fare».
Un bando al porno online sarebbe in un certo senso l’evoluzione di leggi che l’Islanda ha già approvato, come quella sul divieto di stampare e distribuire pubblicazioni pornografiche, quella sulla chiusura di night-club e topless bar e come le norme sulla prostituzione che criminalizzano il cliente anziché la prostituta. Ma vietare l’accesso ai siti pornografici pone problemi tecnici ed etici non semplici da risolvere. Tra le proposte finora circolate c’è l’introduzione di filtri, il blocco di determinati indirizzi digitali e l’iscrizione a reato dei pagamenti con carta di credito per accedere a siti o canali porno. L’iniziativa mira a restringere la definizione di pornografia, in modo da non includere tutto il materiale esplicito ma solo quello che può essere descritto come attività sessuali violente o degradanti. Il punto è: chi decide cosa è porno e cosa non lo è, cosa è da vietare e cosa si può permettere? Gli oppositori di simili misure affermano che si finirebbe per creare automaticamente un censore e questo alla lunga diventerebbe una limitazione della libertà.
Non tutti gli esperti concordano che la pornografia è dannosa. Uno studio del 2009 dell’università di Montreal, per esempio, ha riscontrato che l’esposizione al porno non cambia la percezione delle donne da parte degli uomini. Altri, come il professor Tim Jones della Worcester University, osservano che il porno su Internet diffonde «fantasie estreme» e c’è il pericolo che spinga i consumatori a ricrearle nella vita reale. Ci sono rapporti che parlano di una crescente dipendenza dal porno, da quando dilaga sul web. E non c’è dubbio che sia uno dei temi più popolari fra gli internauti: il 25 per cento di tutte le ricerche fatte su Google hanno a che fare con la pornografia, “sesso” è la parola più cliccata online, il 20 per cento dei siti sono pornografici. «Non è che chi guarda il porno su Internet poi esce e commette uno stupro », commenta Gail Dines, docente di sociologia al Wheelock College e autrice di “Pornland: how porn has hijacked our sexuality” (Pornoland: come il porno ha dirottato la nostra sessualità). «Ma cambia il modo in cui la gente pensa all’intimità, al sesso, alle donne. E un sacco di gente non ha idea di che cosa sia veramente il porno sul web. Se un ragazzino 12nne clicca porno su Google, non trova immagini di donne nude dalla rivista Playboy, bensì filmati estremamente hard in grado di traumatizzarlo nell’età della pubertà».
I critici dell’iniziativa sostengono che un bando è comunque irrealizzabile. Alcuni, come Smari McCharthy, presidente dell’International Modern Media Initiative, dicono che è un’idea «fascista e folle». Ma il governo della piccola Islanda, in questo Paese di appena mezzo milione di abitanti, non desiste: «Siamo progressisti, siamo democratici, crediamo nell’eguaglianza tra i sessi e siamo pronti a essere più radicali di altri». Se comincerà Reykjavik, altri paesi potrebbero seguire il suo esempio, a cominciare, predice l’Observer di Londra, dalla Gran Bretagna. I vichinghi, come sempre nella loro storia, non hanno paura a cercare nuove rotte.

Repubblica 18.2.13
Martin Heidingsfelder, dal suo studio di Norimberga, ha già smascherato due membri del governo
Si candida con il partito dei Piraten, e ora ha un nuovo obiettivo: “Ho messo nel mirino la Merkel”
Il pirata cacciatore di tesi copiate “Svelo i segreti dei ministri bugiardi”
di Andrea Tarquini


BERLINO È un giovane simpatico e sportivo, ha cominciato per caso la sua nuova attività. Se lo incontri non t’immagini che sia uno dei personaggi più temuti dai potenti nella democrazia tedesca. È stato lui ad aiutare a cogliere in flagrante il barone Karl Theodor zu Guttenberg allora ministro dell’Economia, e ora l’ex titolare dell’Istruzione Annette Schavan. Si chiama Martin Heidingsfelder, laureato, ex giocatore di football americano, vive nella bella Norimberga, è l’Indiana Jones della caccia ai ministri copioni. Spesso la sua compagna lo aiuta scannerizzando documenti fino a notte fonda.
Come le è venuta l’idea di diventare cacciatore di plagi?
«Ho cominciato per caso, adesso ormai lo faccio per lavoro: bisogna anche guadagnare qualcosa per lavorare bene e vivere. Con me lavora un piccolo team, in parte dipendenti, in parte volontari. Compresi professori d’università che in alcuni casi collaborano gratis, stanchi degli inganni».
Qual è stato il suo primo successo?
«Ricordo ancora, fu il 20 febbraio del 2011. Cominciai ad aiutare la piattaforma Guttenplag Wiki (ndr: era sorta per il sospetto che Guttenberg avesse copiato): ho offerto il mio aiuto, e mi sono bastati 45 secondi: ho scoperto un plagio nella tesi di dottorato di Guttenberg, a pagina 38. Le università stesse erano sorprese, non se lo immaginavano. Ecco, così sono diventato cacciatore di copioni».
E com’è andata avanti?
«Ho cominciato con il sito VroniPlag. Solo tra i politici all’inizio scoprivamo un caso di sospetto plagio ogni settimana. Quando abbiamo cominciato a denunciare i casi agli atenei di Tubinga, Heidelberg, Bonn, VroniPlag è diventato un sito quasi istituzionale. A Heidelberg ho scoperto il caso dell’eurodeputata liberale Silvana Koch-Mehrin».
E con il caso Schavan, l’ultimo, com’è andata?
«Da quando se ne è cominciato a parlare, ai primi sospetti, Bild mi ha chiamato subito. Ho ricercato su Schavan, sono arrivato rapidamente alla conclusione che il suo plagio era chiaro, e sistematico. Ho scoperto che non solo nella tesi di dottorato ma anche in libri venduti sul mercato editoriale fino al 2002 aveva copiato. Era chiara la sua violazione delle regole per la promozione al dottorato. Sono stato il primo a chiedere la revoca del suo dottorato e le sue dimissioni».
Come lavora, con quali metodi e strumenti di ricerca scova i copioni?
«È un lavoro difficile, devi saperlo dare. Esistono speciali software che sono preziosi per aiutarci, ma col software si svolge il 10% circa del lavoro. Il resto devi svolgerlo quasi come un amanuense, confrontando le tesi di dottorato “sospette” con testi sul tema usciti prima».
Che cosa rischiano i politici colti in flagrante?
«Non rischiano cause penali, solo la perdita del dottorato universitario. Che però colpisce la loro immagine, almeno in questo paese un dottorato è preso sul serio e si esige un lavoro serio, non scopiazzato. Se hai il titolo di dottore devi averlo conseguito onestamente. Poi ci sono, certo, le conseguenze politiche, le dimissioni, che un’idea di etica formalmente rigorosa impone. Non rischiano molto di più, le multe non sono così salate».
E i suoi prossimi obiettivi?
«Adesso, con l’aiuto di un esperto, sto cercando di studiare il lavoro di dottorato della cancelliera Angela Merkel, ma ci vorrà un lavoro lungo prima di dire se troveremo qualcosa o no».
Ma se lavora a pagamento, su commissione, da chi riceve commissioni, chi paga per le sue indagini?
«Dipende. Professori universitari che sospettano plagi di studenti, oppure, non posso escluderlo, prestanome che agiscono chiedendo per conto d’altri un’indagine su un politico. Certe volte dietro di loro ci sono rivali politici, altre volte magari rivali interni nello stesso partito del presunto plagiatore».
Il suo lavoro è imparziale o di parte?
«Non lavoro mai a senso unico. In politica, personalmente, sono nella lista dei Pirati alle politiche di settembre, ma è una scelta separata dalla mia caccia ai plagi. Riportare una morale severa nella vita politica è difficile ovunque. Eppure con la nostra iniziativa e l’appoggio di Twitter e Facebook abbiamo raggiunto un grande consenso. Mi sento solo un attivista in campo per difendere la democrazia e darle nuovi strumenti, nuova forza, nuovi contenuti».

l’Unità 18.2.13
«Cie inutili e dannosi»
Parla Erri De Luca, che denuncia: «Li ho ribattezzati Centri di infamia estrema»
Lo scrittore: «La detenzione è abusiva, gli stranieri hanno come unica colpa il viaggio
Tollerare sul nostro suolo campi di concentramento è degradare la vita civile
La nostra salute mentale è a rischio, facciamo finta di non accorgerci della loro nocività»
intervista di Flore Murard-Yovanovitch


I CENTRI DI DETENZIONE ED ESPULSIONE (CIE) LO SCRITTORE ERRI DE LUCA LI HA RINOMINATI «CENTRI DI INFAMIA ESTREMA». Perché dietro quelle sbarre migranti vengono reclusi per la sola colpa di aver viaggiato. Le rari voci che ci raggiungono sono censurate, soffocate, cancellate. Per questo la serata di pochi giorni fa al Teatro Ambra alla Garbatella («Illegal camps - Mai più Cie – organizzata dalla campagna LasciateCIEntrare insieme a ZaLab e all’Archivio delle memorie migranti) era così speciale, commovente. Nel buio, come all’interno delle celle, il pubblico ha oltrepassato per un istante le grate, ha udito il suono degli abusi, il rumore dei lucchetti e delle violenze. Nel buio, con la regia di Andrea Segre, hanno echeggiato le voci nude delle testimonianze dirette: Mahamed Aman, mediatore culturale eritreo, Zakaria Mohamed Ali, giornalista somalo, Giusi Nicolini, sindaco di Lampedusa che ha letto la sua lettera all’Unione Europa, ma anche Anita Caprioli trasformata in un’emozionante badante, Roberto Nitran, magistrato, Barbara Bobulova e Giuseppe Cederna immedesimati nelle vite di Winny e Nizar spezzate dalla frontiera. Cercatele sulla rete, queste storie sono vere. E soprattutto, il primo ad aprire la serata, Erri De Luca, che prima di salire sul palco, ci ha gentilmente rilasciato un’intervista, denunciando con la sua voce di scrittore schivo e autorevole, il disumano in corso.
Per quali ragioni ha aderito alla campagna «LasciateCIEntrare» e ha firmato l’appello «Mai più Cie»?
«I Cie fanno parte di un insieme, di un tentativo di respingimenti, di espulsioni, di rigetto di un flusso migratorio che non può essere arrestato. Tutte le misure che hanno preso, persino se ci fosse anche la pena di morte, non sarebbero sufficienti a fermare quel flusso. Questi Cie sono centri inutili allo scopo che si prefiggono, quello di contenere il flusso migratorio. Ma sono molto dannosi per la nostra salute pubblica. La detenzione è abusiva, gli stranieri hanno come unica colpa il viaggio». Perché i Cie sono dannosi per la nostra «salute pubblica»?
Intende dire che diffondono i virus del razzismo e della xenofobia? Potrebbero causare una regressione dello Stato di diritto?
«Tollerare sul nostro suolo campi di concentramento è degradare la nostra vita civile. Quei Cie sono un marchio di infamia su tutti noi. Molte forme di detenzione carceraria andrebbero comunque chiuse, liquidate, ma questi campi sono il peggio che si è potuto costruire. La nostra salute mentale è a rischio, fingendo di non accorgerci della loro nocività estrema».
Come mai la nostra coscienza si è spenta oggi? Fa parte della nostra malattia in quanto Occidente?
«Siamo alla riduzione della nostra libertà e a maggiore ragione di quella degli altri, dei nostri concittadini. Sono semplicemente campi di concentramento che vanno demoliti, cancellati. Sono stato a Ellis Island, dove i migranti di allora venivano filtrati e selezionati. Oggi è un museo. Dobbiamo trasformare questi posti dell’infamia in musei di un tempo scaduto».
Secondo lei, potrebbero essere i prodromi di qualche eliminazione futura?
«No, l’eliminazione no. Sono solo posti senza diritti per persone che non hanno commesso nessun reato».
Che cos’è la memoria per lei?
«Mi occupo della mia, di memoria, che è molto scarsa. Comunque non è una cosa obbligatoria la memoria, nessuno si fa imbeccare la memoria dagli altri. Anche perché la memoria ha a che vedere con i propri sentimenti».
Si lotta con e attraverso la lingua? Si dedica da anni alla traduzione da lingue rare e difficili, come mai?
«La traduzione dall’ebraico antico per me è un esercizio di appiattimento di massima fedeltà nei confronti del libro originale. Semplicemente perché le traduzioni correnti sono lontane. Produco esempi di traduzioni letterali. Dipende da chi sto traducendo, se traduco dai poeti cerco di andare dietro la musica delle loro sillabe. Di cavalcare quell’onda delle loro sillabe e di rispettare le modulazioni. In italiano il trasporto è minore; tradurre è come trasferire un liquido da un posto all’altro con un contenitore che perde. Il traduttore è un facchino».
Perché questa passione – da autodidatta – proprio per la lingua ebraica?
«Perché è la lingua in cui si è fissata per la prima volta la civiltà monoteista e da cui dipende la nostra civiltà religiosa. Dopo che mi hanno fatto sudare a scuola con l’insegnamento così complicato del greco e del latino, potevo solo diventare un autodidatta delle altre lingue».
Le sue storie sono legate all’esperienza della vita vera, manuale, la scrittura nasce da un’esperienza quasi fisica?
«Io scrivo quello che ho imparato fisicamente, solo quello che è passato attraverso il mio corpo è diventato una “notizia”, non elaboro notizie astratte. Ho poca fantasia, approfitto della vita come si presenta, delle esperienze casuali che mi sono capitate. Le mie storie raccontano quella vita vissuta. Per me, sì, la scrittura nasce dal corpo. Dormo troppo pesantemente per fare nascere qualcosa dai sogni e sogno poco».
Ha la speranza di un cambiamento possibile in Italia?
«La speranza è una noia, è un sentimento petulante che mi dà fastidio. Quello che conta è fare qualcosa giorno per giorno, misurarsi col poco tempo assegnato, senza aspettarsi regali dal futuro».
Ma la lotta politica è possibile nell’odierna società dello Spettacolo, dove tutto è diventato rete e mondo virtuale?
«Se siete presi da un rete virtuale dovete pure mangiare, innamorarvi e andare al cinema. Io vengo da Napoli, dove eravamo tutti spettatori, dentro un teatro. Lo spettacolo ha bisogno di spettatori se tutti sono attori non c’è più società dello spettacolo».
A cosa sta lavorando questi giorni?
«Traduco il libro di Ester».

il Fatto 18.2.13
Non è più il tempo di piccoli e medi librai
Internet abbatte costi di spedizione e cancella il trasporto su gomma e interi cardini della filiera fino a ieri considerati indispensabili
Alla crisi si inchinano anche le librerie indipendenti
Ciccaglioni della Arion: “ Per anni con una politica selvaggia si è deciso di mercificare il settore”
di Malcom Pagani


Quell’anno, prima di Natale, ci toccarono soltanto giorni plumbei e ammantati di brina. Erano pochi coloro che si fermavano a guardare la vetrina e ancora meno quelli che si avventuravano a entrare per chiedere di quel libro sperduto che li aveva aspettati per tutta la vita, e la cui vendita, poesie a parte, avrebbe contribuito a rappezzare le precarie finanze della libreria”. Sotto l’avaro cielo della crisi, con l’orizzonte limitato dai numeri e dalla concorrenza, i librai indipendenti d’Italia somigliano ai personaggi di Carlos Ruiz Zafòn. Con il làpis in mano, la testa tra le mani, i conti in rosso e la sensazione che indietro non si tornerà. Chiudono i marchi storici fiorentini (Le Monnier, Edison), in pochi si ricordano del poeta antiquario Roberto Roversi che a Bologna serrò l’attività nel 2007 e anche la nostalgia per il tramonto della più amata libreria di Livorno, “La gaia scienza” di Franco Ferrucci e dell’ultimo volume venduto: “Livornesi al barre”, quasi uno sberleffo, stinge nel-l’ineluttabile. Costi, ricavi, pragmatismo, addio definitivo.
TREMANO CONOSCENDO per la prima volta la cassa integrazione in attesa di notizie peggiori i 60 dipendenti dell’arcadica Hoepli di Milano (20 serrate in città negli ultimi due anni), hanno già salutato la Croce di Roma, Amore e Psiche e la Herder, la “biblioteca” del Parlamento in Piazza Montecitorio. Pezzi di storia che si consegnano a una cronaca quotidiana con poche sorprese. Con la spietata concorrenza della grande distribuzione e di un E-commerce che con i giganti del settore (Ibs, Amazon) conquista nuovi lettori, abbatte costi di spedizione e cancella insieme al trasporto su gomma interi cardini della filiera fino a ieri considerati indispensabili. Alla stella polare della crisi economica si inchina anche il libro. Protetto fuori tempo massimo da una legge (la Levi) che di fronte all’assalto dell’offerta selvaggia (sul web, al supermercato o in Autogrill) ha fissato lo sconto massimo al 15% per le novità e al 25% per le promozioni. In Germania non esiste. In Francia è al 5%. Franco Levi del Pd, il primo firmatario di un disegno capace di non rendere davvero entusiasta nessuna delle controparti (la strozzata categoria dei librai indipendenti ne sottolinea limiti e debolezze, la controparte l’ha accolta come l’ennesima boa assistenzialista) aveva tentato di distinguersi dallo Stato ipocrita immaginato da De Andrè. Quello che “si costerna, si indigna, si impegna e poi getta la spugna con gran dignità”. È stato inutile perché a un ritmo che stupisce per progressione, con assoluto disprezzo del valore sacrale dei luoghi che avevano “scortato” generazioni di lettori, il processo pare irreversibile. Per chi vende un oggetto anomalo, i guadagni sono comunque relativi. E l’abbattimento dei prezzi, reazione degli editori a un mercato in contrazione, è la classica coperta troppo corta. Si resiste a una flessione generalizzata (7 punti nel solo 2012), ma smaltite spese, trucchi e fuochi d’artificio, ci si scopre poveri come sempre. Quando incontri i 66 anni di Marcello Ciccaglioni, proprietario con sua moglie Elisabetta della catena indipendente Arion (18 librerie romane in cui lavorano anche i figli Fabio e Daniele, curate come tabernacoli in cui si respira competenza e passione per il mestiere) è difficile non cedere alla tentazione di vedere dietro il velo di un’educazione britannica e di un dinamismo che non si arrende alle ombre, la rabbia chi rifiuta una sconfitta già scritta. Non per i riconoscimenti recenti (due settimane fa la Fondazione Cini e la Scuola dei librai di Venezia hanno premiato il suo gruppo ed è la prima volta che il riconoscimento per la migliore libreria d’Italia non va a un singolo esercizio), ma perché da mezzo secolo Ciccaglioni si identifica nel ritratto del libraio che Achille Mauri aveva dipinto durante la cerimonia: “Per me è come un buon farmacista capace di alimentare l’intelligenza del lettore nutrendola di quella altrui”. Iniziò con il destino in mezzo ai denti nel 1961, in un banco all’addiaccio con vista su Piazza Esedra. Aprì la prima libreria, l’Eritrea grazie all’interesse discreto del giudice martire Vittorio Occorsio: “Aldo, il poliziotto della sua scorta, gli fece sapere che praticavo prezzi convenienti. Vittorio era un grande lettore, ma non amava scialacquare e in breve, abbandonò la Rizzoli per il mio banchetto. Portava una lista di titoli e tornava dopo qualche giorno per ritirarli. Divenne mio affezionato cliente. Un giorno mi accompagna a prendere un caffè. “Chi vuoi diventare davvero da grande, ragazzo? ”. Avevo 21 anni, lavoravo dall’età di 15 e nutrivo un sogno più nitido degli altri: “Vendere libri con un tetto sulla testa”. Mi disse che a due passi da dove poi lo uccise Concutelli nel 1976, nel quartiere ‘africano’ di Roma, aveva visto alcuni locali in affitto. Mi fidai. non mi sono più fermato”.
CICCAGLIONI È UN IDEALISTA. Ma è anche un mercante. Ha mantenuto affittandolo ad altri il banco numero 5 di Piazza Esedra: “Non lo venderò mai”, ma non ignora che recintare la rivoluzione tecnologica più o meno equivalga a impedire la libera circolazione di merci e persone. Al cambio di rotta, giura, si è già adeguato. Nei suoi locali tablet, byte e pixel sono affiancati alle pagine in attesa che il boia faccia il suo mestiere. Nel frattempo, non mette spontaneamente la testa sulla ghigliottina. Si industria. Inventa percorsi letterari e baratti ossimorici, moderni e antichissimi. “Entro un mese inaugureremo Freesbee. Un’iniziativa che a tutti i lettori che ci portano volumi del 2011 o del 2012 consentirà di ottenere buoni per quelli del 2013 e la riammissione in circolo alla metà del prezzo dei loro vecchi libri”. Movimento, ingegno, ricerca di sinergie e accordi quadro: “Se lei chiama nella sede di Piazza Fiume può ottenere sconti per i teatri romani fino al 60%. Mi piacerebbe trovare un punto d’incontro con i cinema. Dal lunedì al venerdì le sale sono vuote, intersecare i percorsi delle arti e contaminare può essere la soluzione utile a contrastare soluzioni come quelle di Parma. La libreria delle Coop immaginata da Romano Montroni, costata milioni di euro che regge il 50% del suo fatturato sulla ristorazione. Una competizione drogata. Alterata. Davanti alla quale la libreria indipendente può reagire con la sola intelligenza. Con una rete. Con un sistema di contatti”. Sostiene senza enfasi, Ciccaglioni, che il libro gli abbia cambiato la vita e che quando torna a trovare i parenti in periferia dove è nato in un appartamento: “In cui non esisteva neanche un libro”, nei vecchi amici d’adolescenza con i 60 pollici in salone e il Corriere dello Sport spalancato sulla gagliarda senescenza di Totti, riveda se stesso. Un autodidatta che da allora, abbandonate le aspirazioni obbligate della condizione precaria: “Giocavo negli allievi della Lazio, ero molto bravo”, della lettura è rimasto schiavo. Dalla divisa indossata su un volto da attore (cravatta e giacca, ogni giorno, da sempre): “Per distinguermi dallo sciattume dei vicini di banchetto che poi sono diventati miliardari vendendo antichi papiri”, non si separerebbe mai. L’abito non fa il monaco, ma tradire l’apparenza significherebbe condannare la liturgia un po’ scaramantica che ora sembra aver smarrito il suo stellone nel formicaio impazzito di una recessione che non risparmia nessuno. Ciccaglioni non crede che il mestiere che dopo averlo portato in volo ovunque (dai primi Oscar Mondadori in edicola: “Steinbeck, Hemingway, Sartre, Buzzati” alla pubblicazione di libri erotici) e ora vorrebbe costringerlo al prosaico controllo delle risorse, sia davvero in via di estinzione. Con lui si battono e si sbattono 110 persone. Lotteranno insieme “Non mi arrendo all’idea che il libro sia equiparabile a profumi, smart box e gadget di ogni natura che vorrebbero occuparne lo spazio vitale per sopprimerlo. Per anni con una politica selvaggia si è deciso di mercificare il settore senza tener conto che a ogni promozione antieconomica si inflazionava il mercato e che nell’impersonalità di un commercio da tastiera, si smarriva la passione di chi ha per decenni indirizzato sensibilità e inclinazioni dei clienti. Ma la soluzione non è trasformare la libreria in Bistrot o vendere mortadella in allegato. L’80 per cento delle librerie italiane non è più grande di 100 metri quadri e con l’enorme quantità di titoli a basso prezzo messi in circolo, anche alcuni editori illuminati hanno dimostrato di non saper dominare la paura”. Ciccaglioni non pretende di fermare il progresso: “Le innovazioni non si bloccano”, ma è convinto della complementarità almeno a medio termine dei due medium in nome dei quali si è dato il via a una guerra santa dagli esiti imprevedibili. “L’amministrazione Veltroni 8 anni fa contribuì con 50 mila euro all’apertura di 20 librerie in periferia. Hanno chiuso già in 18 perché aprire è facile, ma non chiudere, difficilissimo. Serve formazione, mentre oggi il mestiere del libraio si limita a impilare libri e a custodire la merce. Senza contatto umano o scambio, i luoghi muoiono”.
NELLA STAGNAZIONE MONDIALE del mercato letterario, all’estero si è intervenuti con coesione popolare e istituzionale. Forse con la cultura non si mangia, ma sfamarsi con il bello allevia le angustie: “La Hune a Saint Germain è stata salvata” dice Ciccaglioni “Ovviando al caro degli affitti con il reperimento di un’altra sede nei pressi della precedente ubicazione”. Oltre Chiasso, il sottinteso, si osserva la tempesta senza paratìe adeguate a reggere l’urto di un conflitto nuovo che in America copre il 25% del mercato e anche da noi, pur con le spalle ancora strette, crescerà: “Non mi arrendo all’idea che colossi telematici in grado di perdere denaro per anni possano uccidere decenni di ricerca, sentimento e lavoro pesantissimo sui volumi”. Mostra antiche edizioni facendo correre le dita tra le pagine, prepara iniziative e incontri per il 24 febbraio con Sinibaldi, Laterza, De Mauro e la ‘banda’ del Forum del libro: “Nel giorno delle elezioni le librerie indipendenti italiane rimarranno aperte”, divide l’assegno concesso da Mauri e Ottieri a Venezia (5.000 euro) con i dipendenti, dardeggia gesti e simbolismi con la stessa forza dei vent’anni. Intorno è cambiato tutto. Ma non cedere, circondati dai demoni, somiglia a un coerente manifesto dostojevskiano: “Bisogna essere davvero un grand'uomo per saper resistere anche contro il buon senso”.

il Fatto 18.2.13
Un addio che parte da lontano


NELLA SECONDA PARTE del 2012, il mercato del libro ha continuato a segnare il segno meno per il 7,5 per cento. Con un paradosso. Sì, c’è la crisi, ma il segno meno indica comunque un leggero miglioramento se si considera che il mercato registrava un meno 11,7% a fine marzo e un meno 8,6% a inizio settembre.
Dati che devono essere inquadrati anche con l’andamento del 2011: meno 10% di acquirenti (15, 3 milioni di persone che hanno acquistato almeno un libro nel 2010, non hanno acquistato nemmeno quello, nell’anno successivo) e la spesa complessiva in libri è stata il 20% in meno dell’anno prima.
NEL 2011 poco meno di 26 milioni di Italiani di 6 anni e più dichiarano di aver letto almeno un libro nei 12 mesi precedenti. Lo rivela l’Istat. Rispetto al 2010 i lettori diminuiscono: dal 46,8% al 45,3% della popolazione.
LE DONNE confermano di essere lettrici più assidue degli uomini: leggono almeno un libro per il 51,6% rispetto al 38,5% degli uomini. Le differenze di genere sono massime tra i 15 ed i 44 anni .
SI LEGGE di più al Nord e nel Centro del Paese, dove la percentuale di lettori è superiore al 48% della popolazione. La propensione alla lettura è minore nel Sud e nelle Isole, dove la quota di lettori è sotto il 35

il Fatto 18.2.13
Libri rari
Gli Ossi apocrifi di Eugenio Montale
di Adele Marini 


Il primo libro di Montale, “Ossi di seppia”, fu pubblicato a Torino da Piero Gobetti in una edizione di circa 1000 esemplari nel 1925, giusto pochi giorni dopo il colpo di stato fascista. Quello stesso anno il regime costringerà Gobetti all’esilio di Parigi dove morirà l’anno dopo. Una seconda edizione degli “Ossi” venne alla luce sempre a Torino presso l’Editore Ribet nel 1928, in 450 esemplari numerati più 22 esemplari su carta a mano, contrassegnati con le lettere dell’alfabeto. Il libro presenta una introduzione di Alfredo Gargiulo e un’aggiunta di cinque nuove poesie di Montale. Nel 1931 gli “Ossi di seppia” approdarono a Lanciano, dove l’editore Carabba pubblicò la terza edizione con una bella copertina di Scipione e l’aggiunta di sei nuove liriche. Tutte le copie vennero siglate a matita (E.M.) dal Poeta. L’editore Carabba, particolarmente noto per le sue edizioni di testi scolastici, rivolse il suo impegno alla narrativa contemporanea attirando nella sua sfera scrittori quali Alvaro, Falqui, Vittorini, Cardarelli, Moravia e, appunto, Montale. Il successo dell’edizione montaliana spinse l’editore a progettare una nuova edizione degli “Ossi”. Montale, cui era stata sottoposta una prima bozza del libro con la bella copertina di Scipione riprodotta orribilmente in bianco e nero, non volle autorizzarne la pubblicazione. Nonostante il parere contrario del Poeta la quarta edizione, apocrifa secondo Montale, verrà alla luce nel giugno 1941 con la copertina riprodotta nei colori dell’edizione precedente e con all’interno una dichiarazione di proprietà letteraria ed artistica riservata, attestata dal notaio Carlo Mariani, con firma autografa e timbro.

Corriere 18.2.13
Etty Hillesum, ritrovare la vita nella voragine dell'Olocausto
Un forte messaggio di speranza da una vittima dello sterminio
di Giorgio Montefoschi


Giustamente, Alessandro Barban (priore dei Benedettini camaldolesi) e Antonio Carlo Dall'Acqua cominciano il loro libro su Etty Hillesum, intitolato Osare Dio (Cittadella Editrice, pp. 284, 17,80), con una fotografia scattata nel 1931. È il ritratto di una famiglia ebrea composta da padre, madre e tre figli, che vive in Olanda, ma potrebbe essere quello di centinaia di migliaia di altre famiglie ebree borghesi di tutta Europa. Sappiamo che il padre, Louis Hillesum, è un professore di latino e greco, schivo, interessato principalmente ai suoi studi; che la madre Riva (Rebecca) è di origine russa, è emigrata in Olanda a seguito di un pogrom, e ha un carattere difficile, venato di follia; che i due ragazzi, il quindicenne Jaap e l'undicenne Mischa (diventeranno: uno medico e l'altro raffinato pianista) hanno grossi problemi psichici; e che Etty, la ragazza bruna diciassettenne che con gli occhi intensi fissa l'obiettivo, ha un cattivo rapporto con entrambi i genitori e attraversa l'«età ingrata» in cui lottiamo con noi stessi. Tutto questo, però, ha una relativa importanza. Quello che conta, nel ritratto fotografico in cui gli Hillesum esibiscono con fiducia il loro decoro borghese, è la sua «normalità»: l'omogeneità a milioni — stavolta — di famiglie europee non ebree, più o meno agiate, più o meno felici. Dovevano passare 12 anni, infatti, e gli Hillesum, in quel momento ignari, insieme ad altri sei milioni di ebrei ignari e innocenti, sarebbero stati spazzati via dalla faccia della terra.
Il percorso spirituale di Etty Hillesum, da molti considerata una delle anime più alte del Novecento, non può prescindere dalla tragedia del popolo ebraico. Probabilmente non si sarebbe realizzato in quella forma, o addirittura sarebbe rimasto inespresso — un «facile idillio» con Dio coltivato dietro una scrivania, in una comoda stanza con tanti libri e sempre dei bei fiori, e fuori i quieti canali di Amsterdam — se la sua vita non fosse stata «scaraventata nel dolore». Lo conosciamo attraverso un esiguo numero di Lettere (pubblicate da Adelphi), scritte principalmente dal campo di smistamento di Westerbork nel corso di un anno (dal 14 agosto del '42 al 7 settembre del '43: data della partenza di Etty e dei suoi per Auschwitz), e da uno sterminato Diario di oltre 800 pagine fitte (pubblicato pure quello, integralmente adesso, da Adelphi), che va dall'8 marzo del 1941 al 12 ottobre del 1942: 17 mesi, un tempo brevissimo (come osservano Barban e Dall'Acqua), nel quale il bruco diventa farfalla e si compie una trasformazione incredibile.
L'8 marzo del '41 segna un momento fondamentale nell'esistenza di Etty Hillesum: l'incontro con Julius Spier. Spier, ebreo tedesco cinquantaquattrenne rifugiatosi in Olanda dopo aver lasciato la moglie e due figli, fidanzato con una giovane ragazza, Hertha (emigrata nel '38 in Inghilterra), è uno psicochirologo (uno psicanalista che muove, per la sua analisi, dallo studio della mano), seguito nella sua formazione e apprezzato da Jung. Non è un bell'uomo: è tozzo, corpulento, ma ha una bocca estremamente sensuale e due occhi che «trapassano il tempo». Fino a quel momento, prima di conoscerlo, Etty ha vissuto disordinatamente: si è laureata senza entusiasmo in giurisprudenza; ha avuto esperienze sessuali e sentimentali che l'hanno lasciata insoddisfatta (attualmente ha una relazione fissa con Han Wegerif, un signore di ben 62 anni); ha disperso i suoi talenti. Ora, in certi momenti, sente che le sue idee sono «troppo vaghe, pendono come vestiti troppo larghi» dal suo corpo; in altri, vorrebbe «sparire, dissolversi, fondersi armoniosamente con terra e cielo»; soffre per il caos che regna in se stessa; cerca un uomo da possedere per tutta la vita, e nel medesimo tempo sa che quel possesso assoluto non è il possesso dell'Assoluto; invoca Dio che intuisce essere dentro di sé, ma ha l'impressione che sia una sorgente coperta di pietra e sabbia.
Spier, che ad Amsterdam ha un certo successo, è l'uomo del destino. I suoi metodi terapeutici, a dir la verità, sono (come sottolineano Barban e Dall'Acqua) piuttosto strani e a dir poco discutibili. Si basano (oltre alla lettura della mano) sulla convinzione che corpo e anima sono strettamente congiunti e devono vivere in armonia. Perché i suoi pazienti la possano raggiungere, questa armonia, liberandosi delle regressioni e delle paure che li bloccano, Spier fa con loro la lotta. Una lotta vera e propria: fisica, anche violenta. È davvero un metodo strano e, se vogliamo, al limite della deontologia medica: perché quando la paziente è una donna, è inevitabile o quasi che dalla lotta, dal contatto convulso dei corpi, si passi ad altri gesti, magari a carezze spinte. È esattamente quello che accade a Etty, che molto presto è attratta da Spier («La sua bocca all'improvviso era così selvaggia e demoniaca, e sbocciava con sensualità… La carne, volevo solo la carne») e si innamora. Ma anche Julius — che è un uomo colto, religioso, sensibile, e onesto nel suo desiderio di far emergere in ogni individuo la parte più profonda e vera del suo essere — si innamora di Etty. Così fra i due si crea una situazione estremamente complessa e contraddittoria, fatta di pulsioni erotiche e inibizioni, slanci sentimentali e sensi di colpa (Spier non vuole lasciare la sua fidanzata, Etty continua a fare l'amore con Han, addirittura rimane incinta e abortisce), nella quale, sostanzialmente, quest'uomo e questa giovane donna che potrebbe essere sua figlia pongono loro stessi come un ostacolo (forse necessario) al raggiungimento di un amore diverso, al quale tuttavia tendono ciecamente come a qualcosa di misterioso, ancora oscuro, indefinito.
Intanto, la situazione degli ebrei precipita. Nel giugno del '42 vengono promulgate anche in Olanda le leggi di Norimberga: iniziano le persecuzioni, le deportazioni. Gli ebrei devono essere annientati, sparire. Ed ecco che Dio chiama. Scende nel cuore di Etty: dove già dimora. Un giorno, all'improvviso, Etty si trova (non decide di farlo) inginocchiata al centro della stanza. Un giorno legge il brano della Lettera di Paolo ai Corinzi sulla carità e sente che quelle parole sono «come verghe» sul duro del suo cuore. Di nuovo cade in ginocchio. Le minacce e il terrore crescono, le barbarie si accumulano. E, pian piano, le pietre e la sabbia si sollevano dal cuore di Etty, e quella sorgente nascosta zampilla con una potenza inaudita.
È l'amore di Dio: che Etty riconosce in ogni uomo, a cominciare dai suoi carnefici, e nella vita. Una vita che, pur in questo abisso di disperazione, non riesce a non considerare piena di significato e meravigliosamente bella. Una sera, è nel suo letto e, attraverso la finestra, guarda il cielo e gli alberi. E scrive: «La guerra, i campi di concentramento… tutto questo esiste, lo so, eppure, in un momento di abbandono, io mi ritrovo nel petto nudo della vita e le sue braccia mi circondano così dolci e protettive, e il battito del suo cuore non so ancora descriverlo: così lento e regolare e così dolce, quasi smorzato, mai così fedele, come se non dovesse arrestarsi mai, e anche così buono e misericordioso». In un'altra pagina scrive: «Trovo bella la vita e mi sento libera. I cieli si stendono dentro di me come sopra di me. Credo in Dio e negli uomini e oso dirlo senza falso pudore». Più avanti ancora scrive: «Una cosa è certa: si deve contribuire ad aumentare la scorta d'amore su questa terra. Ogni briciola di odio che si aggiunge all'odio esorbitante che già esiste, rende questo mondo inospitale e invivibile».
Adesso gli eventi incalzano. Etty potrebbe nascondersi, fuggire. Non lo fa. Prima come impiegata del Consiglio ebraico, poi come prigioniera destinata allo sterminio, entra nel campo di Westerbork. Quello che vede con i suoi occhi, quello che ascolta con le sue orecchie, è l'orrore: fame, miseria fisica e mentale, degradazione, umiliazioni di ogni genere, bambini strappati alle culle, mogli separate dai mariti per sempre. E, ogni lunedì, l'arrivo di quel treno composto da carri bestiame che bisogna riempire di esseri innocenti e il martedì parte verso la morte. Etty non si sottrae a nulla. Spier è morto di cancro e il suo amore è ormai tutto per gli altri: per il suo prossimo, sorretto da quella sorgente che continua a zampillare nel suo cuore. Ma Dio è nel cuore di tutti.
«Una cosa, però, diventa sempre più evidente in me», scrive Etty un giorno, ormai di fronte all'inevitabile suo destino, «e cioè che Tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare Te, e in questo modo aiutiamo noi stessi. L'unica cosa che possiamo salvare in questi tempi, e anche l'unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di Te in noi stessi, mio Dio. E forse possiamo anche contribuire a disseppellirti dai cuori devastati di altri uomini. Tocca a noi aiutare Te, difendere fino all'ultimo la Tua casa in noi». Siamo al culmine del cammino spirituale di questa giovane ebrea che leggeva i Salmi e i Vangeli: aiutare Dio. Un'idea pazza e rivoluzionaria, come sottolineano Barban e Dall'Acqua, che capovolge il rapporto dell'uomo col suo Creatore.
Etty Hillesum morì ad Auschwitz nel novembre del '43. Dal treno, riuscì a gettare una cartolina postale indirizzata alla sua amica Christine van Nooten. C'era scritto: «Abbiamo lasciato il campo cantando».

Corriere 18.2.13
A lezione dal Gandhi italiano
L'eresia di Capitini fu scuola di antifascismo per Contini
di Cesare Segre


Non tutti lo sanno: la Marcia della pace tra Perugia e Assisi, che dal 1961 continua a svolgersi tutti gli anni, con grande risonanza e seguito, fu ideata dal filosofo Aldo Capitini (1899-1968), uno dei personaggi più interessanti dell'Italia postbellica. Il suo rifiuto della tessera fascista nel 1934 gli aveva fatto perdere il posto di segretario alla Scuola Normale di Pisa, ma Capitini continuò a non tacere, e anzi a frequentare i più autorevoli rappresentanti dell'antifascismo. Dopo la caduta del regime, progettò e in parte realizzò tentativi di democrazia diretta, legandosi ai fautori del liberalsocialismo, come il filosofo Guido Calogero. Capitini aveva una forte religiosità, sostanzialmente eterodossa, e i suoi Centri di orientamento sociale, e anche religioso, non incontrarono il favore dei politici né delle gerarchie ecclesiastiche. Venne infatti scomunicato, insieme ai suoi libri sulla «religione aperta»; in risposta si «autoscomunicò». La figura di Gandhi, e il suo assassinio nel 1948, ebbero per lui un forte significato simbolico, rafforzando ancor più il suo credo pacifista e non violento. Nel 1949, Capitini prese pubblicamente le difese del giovane Pietro Pinna, sotto processo al tribunale militare, sostenendone il diritto all'«obiezione di coscienza». Meno colpì l'immaginazione collettiva la sua adesione al vegetarianismo.
Il grande filologo Gianfranco Contini si accostò a Capitini nel 1935, attratto dalla sua forte personalità, dalla priorità che conferiva all'impegno etico, dalla religiosità non convenzionale. Per Contini, fu forse l'amicizia più importante, e durò sino alla morte di Capitini. Le lettere conservate dei due amici sono più di 250. Per quanto riguarda il giudizio di Contini su Capitini, basti questa affermazione, in una lettera del 1940: «La tua moralità, amicizia e forse santità sono da sempre fuor di dubbio quanto un a priori». Ma aggiungo l'incipit di un articolo dedicato all'amico: «Mi sarà difficile parlare di Aldo. Difficile, voglio dire, come scindere e trattare allo stato isolato un elemento essenzialissimo di me stesso».
Avere a disposizione il carteggio tra i due è una fortuna straordinaria: dobbiamo ora esserne grati alla Fondazione Ezio Franceschini (Un'amicizia in atto. Corrispondenza tra Gianfranco Contini e Aldo Capitini, 1935-1967, a cura di Adriana Chemello e Mauro Moretti, Edizioni del Galluzzo, pp. LXXIV-328, 52). Questa corrispondenza, agli inizi, rispecchia gli interessi e i modi di vita di due giovani (Contini era del 1912) che si avviano alle rispettive carriere. Si parla di viaggi per incontrarsi (l'uno abitando a Domodossola, l'altro a Perugia) o per far visita a studiosi interessanti; di letture e di lavori in corso. Non mancano tracce delle loro nevrosi, con scambi di ricette farmaceutiche (numerosi i sonniferi). Rilevante il tema della carriera universitaria: incarichi e cattedre disponibili, eventuali appoggi di persone autorevoli.
Colpisce anzi il fatto che una temporanea rottura tra Capitini e Contini (nel 1949) sia proprio dovuta a un'ingenuità o a un errore strategico del primo, che mandò in fumo, per il secondo, la possibilità di una cattedra alla Normale di Pisa, sede particolarmente ambita da Contini (ci arriverà, ma molti anni dopo). La rottura fu breve, però in tutte le lettere successive, tra l'altro molto più rare, il tono di Contini sembra ormai un po' distaccato.
La corrispondenza, all'inizio piuttosto routinière, si fa vivace dopo la nomina di Contini all'Università di Friburgo, in Svizzera (1938). Nella lettera 41, per esempio, si sente l'aria di felice libertà di chi sino allora era vissuto nel chiuso, anche culturale, dell'Italia fascista. La guerra irrompe poi nel carteggio con una lettera (80) sui bombardamenti di Milano dell'agosto 1943; le notizie apocalittiche, indirette, e perciò in parte inesatte, s'intrecciano con un quadro delle comunicazioni ferroviarie, evidentemente sconvolte.
Con l'avvicinarsi della Liberazione, le lettere ci presentano le iniziative e le persone che la prepararono. Si parla del Cln, dei rapporti fra i partiti antifascisti, delle loro possibili o deprecabili alleanze. Contini, che aveva partecipato al governo della repubblica libera dell'Ossola, e che rivelò in quegli anni una vera vocazione di politico, mostra spesso un maggiore senso della concretezza rispetto al «teorico» Capitini, che del resto, fedele all'ideale della nonviolenza, non partecipò alla lotta contro gli occupanti. Le lettere di questo periodo sono fondamentali, perché ci immergono nei dibattiti dell'Italia tornata alla democrazia; le pagine dei due amici sono punteggiate di sigle dei nuovi partiti, oggi in parte dimenticate; e sono frequenti le notizie sui rapporti del Partito d'Azione, cui Contini aderiva, con le altre nuove formazioni politiche; sulla dialettica con i comunisti; sul ripresentarsi della secolare vocazione conservatrice italiana. Ha ragione Capitini a ricordare che la vittoria sul fascismo fu «la vittoria della minoranza che per vent'anni è stata antifascista». Di essere minoranza si accorse presto, e dopo pochi anni anche Contini: deluso, abbandonò qualunque attività politica.
Ciò non toglie che questo carteggio sia un documento importante dell'impegno fervido degli intellettuali antifascisti nell'Italia appena liberata. La loro passione si scontrò presto con l'inerzia e il timore del nuovo, con i pregiudizi e le posizioni acquisite. La lotta fu sempre più dura, e contro avversari sempre più forti. Non si dimentichi che al referendum del 1946 la monarchia, responsabile della complicità con il fascismo e della guerra, ottenne quasi undici milioni di voti.

Corriere 18.2.13
I «Princìpi liberali» di Antiseri dopo la Russia arrivano in Cina


Dall'individualismo metodologico al politeismo dei valori; dai princìpi di competizione e sussidiarietà ai fondamenti dell'economia di mercato e all'idea dell'imprenditore come costruttore del pubblico benessere. E ancora: la sovranità del consumatore, il principio di uguaglianza, il riformismo e la definizione dell'«homo liberalis». Tutto questo i lettori italiani di Dario Antiseri hanno imparato nei Princìpi liberali editi da Rubbettino dieci anni fa; e dopo di loro è toccato ai tedeschi, romeni, russi, spagnoli, bielorussi e molti altri. Ora è la volta dell'edizione cinese: a completare lo straordinario percorso di questo piccolo «vangelo liberale», capace di trovare posto nel taschino della giacca, un po' come la costituzione americana, ma anche in grado di corrodere le ideologie ossificate dell'autoritarismo a tutte le latitudini. (d. fert.)