mercoledì 20 febbraio 2013

l’Unità 20.2.13
Bersani sfida i grillini e boccia le larghe intese
Il segretario del Pd: «Vedremo se i 5 stelle in Parlamento decideranno senza essere eterodiretti»
A Monti: «Grande coalizione ipotesi lunare»
Al Cav: «Imbroglione sull’Imu»
di Maria Zegarelli


ROMA Al professor Mario Monti che ipotizza (spera?) una grande coalizione Pier Luigi Bersani replica che questa non è altro che un’«ipotesi lunare», mai il Pd di nuovo in una maggioranza con Berlusconi. E sarebbe singolare se a una manciata di giorni dal voto il centrosinistra paventasse l’ipotesi di un nuovo ibrido a Palazzo Chigi tenuto insieme dal Professore che super partes non è più. E se Monti torna ad attaccare l’alleanza con Sel, Bersani rimette i paletti attorno alla sua coalizione pronta a discutere «con la testa aperta con tutti quelli che hanno buona volontà» ma non a perdere pezzi. «Che il problema diventi Vendola replica il segretario , caro Professore, mi fa un po’ ridere».
Meno lunare un’altra ipotesi, quella che sembra prendere corpo con l’avvicinarsi del voto: una presenza importante del M5s di Beppe Grillo, dato come possibile secondo partito del Paese. Tanto che il candidato premier del centrosinistra non può che farci i conti.
«Intese con i grillini?», gli chiedono durante una videochat con il Corriere. it. «Faremo scouting, per capire se intendono essere eterodiretti o partecipare senza vincoli di mandato», risponde sapendo che l’opposizione del movimento del comico potrebbe a seconda di quanti scranni conquisteranno condizionare pesantemente i lavori parlamentari. Non a caso gli appelli al voto utile, rivolti soprattutto agli indecisi saranno loro a determinare il risultato di queste elezioni parlano a chi guarda a Grillo con curiosità ma non è convinto, a chi è tentato dal voto di protesta ingroiano ma potrebbe cambiare idea.
Al Nazareno hanno dato il via alla volata finale con mobilitazioni porta a porta nelle regioni cruciali, come la Lombardia, la Sicilia, la Campania, ma anche il Veneto, dove le distanze dal centrodestra iniziano ad accorciarsi. «Domenica e lunedì saranno in gioco la governabilità, il cambiamento, il futuro dell’Italia», scrive il leader Pd agli elettori delle primarie chiamandoli a uno sforzo finale. E se soltanto qualche giorno fa Berlusconi avrebbe tirato un sospiro di sollievo alla notizia di un possibile passo indietro di Oscar Giannino che tanto lo penalizza al Nord, adesso il sollievo potrebbe essere a metà perché il Cavaliere, come il centrosinistra, sa che è con i grillini (ieri hanno riempito piazza Duomo a Milano) che bisognerà misurarsi. Tutto dipenderà da dove pescherà di più il comico genovese, se dal centrodestra o dal centrosinistra.
Certo per Bersani il giaguaro da smacchiare è Berlusconi, un giaguaro con tanto «di coda lunga», tanto quanto i vent’anni che è durata l’epoca azzurra, che «non si smacchia in un colpo solo», come dice durante un comizio a Cantù. «In questi venti anni ha seminato tante cose che dobbiamo correggere», e se solo il Pdl applicasse il codice etico del Pd, «dovrebbe buttarne fuori  una vagonata, compreso Berlusconi». Quando vede la lettera imbroglio spedita dal Cavaliere agli elettori, con la quale promette la restituzione dell’Imu, Bersani lo definisce «un imbroglione», è un «modo di fare campagna elettorale continua che non digerisco». Ma non è soltanto il giaguaro l’insidia di questa tornata elettorale. È il populismo di cui si nutre il comico, «Grillo vuole portare il Paese fuori dalla democrazia e dall’Europa, ci porta in Grecia e di più». Che cancella differenze culturali e politiche, «dice che non c’è più né destra né sinistra, via dall’euro e non paghiamo i debiti». Eppure raccoglie consenso, tra persone che il segretario definisce «disamorate e disilluse. Un sentimento, la disillusione, che senza dubbio si può capire ma attenzione a dove ci porta». Spetta al Pd, allora, riuscire a intercettare in quelle piazze che Grillo riempie chi ancora darebbe una chance al centrosinistra e questa è la grande mission di questi ultimi giorni di campagna elettorale.
Alla sua destra Bersani ha un centrodestra apparentemente unito ma dalle forti tensioni interne, dopo Finmeccanica, Albertini, le uscite di Berlusconi sui possibili divorzi territoriali con la Lega. «Ieri dice ho visto la prima foto di Berlusconi e Maroni insieme, ma che faccia lunga aveva Maroni... Certo, perché mi viene da dirgli “siete ancora col miliardario. Per tenere la poltrona ancora una volta date via l’anima”». Molto dipenderà dalla Lombardia (dove molti montiani e ingroiani opteranno per il voto disgiunto al Senato) e dalla Sicilia (con Grillo che punta al sacco pieno) dove proprio oggi il segretario Pd tornerà con Matteo Renzi a Palermo, in piazza Verdi, di fronte al Teatro Massimo, con una manifestazione che sarà aperta dal presidente della Regione Rosario Crocetta.
Domani sarà a Napoli, alle 17 in piazza del Plebiscito, nella città del sindaco Luigi De Magistris, bacino tra i più fruttuosi per la Rivoluzione Civile di Ingroia. E da qui ripeterà che «tutti i voti sono utili, quelli che si danno per protestare, oppure per fedeltà a una persona, ma poi un pezzo di responsabilità è anche tua». Il titolo che gli piacerebbe leggere martedì sui giornali, confessa, è «Vittoria del centrosinistra, e ora si metta a governare». Ma bisogna smacchiare il giaguaro.

Corriere 20.2.13
Bersani: non voglio solo vincere Una legge per cambiare i partiti
«I grillini? In Parlamento bisognerà fare scouting»
di Angela Frenda


MILANO — Cravatta rossa, come da copione, Pier Luigi Bersani ieri mattina è arrivato in via Solferino puntuale per l'appuntamento con la chat di Corriere.it, il faccia a faccia in diretta web con i lettori condotto da Giovanni Floris e dal direttore del Corriere della Sera Ferruccio de Bortoli. E subito il leader del Pd, rompendo il ghiaccio, ha sgombrato il campo sul tema del «vecchio» e del «nuovo»: «La disaffezione verso la politica c'è, è inutile nasconderlo. Ma io sono partito dall'esigenza di mettersi in gioco. La strada è questa: attivare meccanismi di partecipazione».
Perché la sua, ha rivendicato Bersani, è una campagna fatta «di proposte concrete». Replicando a un lettore che contestava invece una strategia sul filo dell'antiberlusconismo e non dei temi concreti, ha chiarito: «Io non ho fatto altro, in queste settimane, che parlare di proposte. Non ho inseguito Berlusconi, ma sono pur sempre alternativo a lui. Vince chi arriva primo, no?». E su chi però la spunterà davvero, il leader del Pd si lascia andare a una scaramantica previsione: «Io, quando Berlusconi parla di rimonta, non gli credo. No, non penso proprio che ci sarà un sorpasso. Anche perché c'è una parte di elettorato del centrodestra che sta valutando seriamente come esprimersi». Alla fine scherza: «Berlusconi dice che se perde Monti si ubriaca? Non sono così cattivo, ma se vedo lui e la Lega bassi bassi, diciamo che una birretta me la faccio».
Di scarso effetto, dunque, a suo dire, gli annunci di riduzione delle tasse e abolizione dell'Ici fatti dal leader del centrodestra: «Per le persone il vero nodo oramai è il lavoro. Poi, certo, anche noi siamo per abbassare l'Irpef ai ceti più deboli, ridurre l'Irap e aiutare chi investe per dare lavoro. E siamo per dire no a qualunque tipo di condono fiscale. Però quando uno mi annuncia, come fa Berlusconi, "voglio abbassare le tasse", ma poi mi aggredisce quando spiego che deve girare meno contante... Non capisco più». Sullo sfondo, il caso del Monte dei Paschi. E l'ipotesi che ci sia stato un accordo spartitorio tra Pd e Pdl su Mps? Bersani scuote il capo e con voce pacata replica: «È un'ipotesi lunare. Ma non è una storia a orologeria... La magistratura sta facendo il suo corso. Se c'è qualcosa, riguarderà alla fine dei manager infedeli. Ma arrivati fino in fondo si individueranno le responsabilità sistemiche di questa vicenda: falsificazione dei bilanci, derivati regolati, soldi girati con scudo fiscale. Quanto ai poteri forti... In Italia sono deboli. Un sistema capitalistico talmente debole che non riesce a trovare capitali per l'avvio di iniziative industriali».
Ma a suscitare particolare preoccupazione, in Pier Luigi Bersani, è il «fenomeno Grillo», che sempre ieri, in serata, ha parlato in piazza Duomo a Milano. Il leader pd ammette: «Capisco che Grillo abbia successo con chi è scontento... Però lui dove vuole portare, alla fine, questa gente? Se uno non risponde mai a una domanda, e fa una cosa sconosciuta alla democrazia, allora sceglierlo significa che abbiamo deciso di uscire dalla democrazia? L'idea che questo movimento di protesta possa tradursi in un tanto peggio è un'idea che mi turba. Poi, certo, con i grillini in Parlamento ci sarà da fare scouting, capire come interpretano il loro ruolo. Se vogliono essere eterodiretti da uno che non risponde alle domande o vogliono partecipare liberamente a una discussione parlamentare. Ma senza preclusioni, non è tempo di essere faziosi».
E in caso di vittoria, cosa farà il Bersani premier? «Sicuramente non un'altra manovra economica: finiremmo contro un muro. Sto cercando di convincere anche l'Europa che è ora di smetterla con questo sistema, altrimenti andremo tutti a segno meno». Taglierà poi le spese militari, a favore «di scuole e ospedali nuovi». E sul tema di smacchiare il giaguaro aggiunge: «Penso non solo a vincere, ma a rimettere ordine nel sistema politico, magari con una bella legge sui partiti: serve la garanzia che chi si presenta abbia alle spalle un collettivo. Perché se mi comanda uno dal tabernacolo della Rete e non risponde a nessuno, ci va di mezzo il paese». Meglio, molto meglio, dice, presentarsi con una coalizione chiara: «Come noi. Io tra Monti e Vendola non devo scegliere, ho già scelto: Tabacci...Vendola... La foto di gruppo con loro l'ho fatta vedere. Questa è la nostra coalizione. Punto. Se non saremo sufficienti per governare, si discuterà con questa coalizione». Infine, una stoccata a Monti: «Non vedrete mai una sua foto di gruppo con Casini e Fini. Perché mentre la nostra coalizione durerà, la loro forse al massimo una settimana».

Repubblica 20.2.13
Bersani apre ai grillini: discutiamo dopo il voto
“Vediamoli alla prova dei fatti”. Renzi: meglio cento di loro che cento leghisti
di Giovanna Casadio


ROMA — E Bersani usa la carota. Non solo bastonate a Grillo («Porta il paese fuori dal contesto democratico, gioca alla rovina del-l’Italia »), ma a “- 5 “ giorni dal voto, l’apertura a un confronto parlamentare con i grillini. Il candidato premier del centrosinistra ha i sondaggi sul tavolo, e vede quello che è sotto gli occhi di tutti, cioè che il MoVimento 5Stelle è in ascesa e che le piazze dello tsunami- tour sono gremite: dopo Torino, ieri piazza Duomo a Milano in vista di piazza San Giovanni venerdì a Roma. Perciò - dice Bersani - se in Parlamento ci sarà una presenza massiccia di “5Stelle”, ebbene «ci sarà da fare scouting». Il vocabolo è insolito. Vuol dire che bisognerà andarli ad “esplorare” questi grillini. Vedere cosa vorranno fare, se sceglieranno di essere «eterodiretti», dal guru Grillo, «uno che non risponde alle domande, che rischia di portarci verso la Grecia», oppure se i parlamentari “5Stelle” saranno pronti a discutere sui provvedimenti esercitando la loro funzione, come la Costituzione prevede, senza vincolo di mandato. È l’annuncio di una campagna acquisti?
«No, è per discutere, li testeremo sui fatti». Ha già avvertito Grillo di non prendere in giro la gente, la sua rabbia e delusione con promesse impossibili da mantenere come quella di mille euro per tre anni ai disoccupati.
Anche Renzi - che oggi terrà un comizio a Palermo con Bersani valorizza i “5Stelle”: «È sempre meglio avere 100 grillini in Parlamento che 100 leghisti. Il Pd faccia propri i temi dei costi della politica e dell’innovazione digitale e ambientale». Grillo per la verità attacca Bersani-Gargamella; annuncia che «aprirà il Parlamento come una scatoletta di tonno». Ma il segretario democratico all’allarme sul populismo grillino, accompagna un ragionamento: «Il M5S è nato in Emilia Romagna, li conosciamo bene, capisco la richiesta di sobrietà della politica e anche la rabbia...». «A un leader, a Bersani, tocca essere duttile, flessibile, non rigido e comprendere le cose», spiega Miguel Gotor, storico», capogruppo democratico al Senato in Umbria, “spin doctor” bersaniano alle primarie. Da comprendere c’è il flusso dei consensi, il travaso da Berlusconi a Grillo che lucrerà ora anche sull’implosione di Oscar Giannino. C’è da capire «come il berlusconismo ha modificato il corpo dei moderati italiani, radicalizzandoli », riflette sempre Gotor. «Proprio perché l’elettorato di Grillo è di destra populista - ritiene invece Beppe Fioroni, leader dei Popolari, alla guida del Pd a Lazio 2 - non credo sarà possibile il dialogo, il confronto futuro sarà difficile». La prova di governo a Parma dei grillini ha mostrato tutta la contraddizione tra le promesse e la difficoltà di mantenerle. «Il famoso inceneritore, la madre di tutte le battaglie del Movimento a Parma, ad aprile si farà; l’Imu che doveva essere abbassata è rimasta una delle più alte d’Italia - elenca Stefano Bonaccini, segretario democratico emiliano - Dopo di che, una cosa è Grillo altra i militanti “5Stelle”, e su molti temi dalla sobrietà della politica all’ambiente la discussione è in corso». L’obiettivo dei Progressisti è tuttavia la vittoria netta contro Berlusconi. «La partita continua ad essere tra Bersani e Berlusconi - afferma D’Alema - non è a Monti che competerà di guidare il paese». Dal Pd ancora appelli al voto responsabile. Li fa Enrico Letta, il vice segretario. Rilancia Renzi: «Bersani è in vantaggio, altri studiano il pareggio». E Bersani, ieri di nuovo nella Lombardia in bilico, invita: «I voti sono tutti utili, ma siate responsabili».

Corriere 20.2.13
Nencini: «Alleanza con Monti e articolo 18 bis per i precari»


ROMA — Una modifica dello statuto dei lavoratori, che pure ebbe come padre il socialista Gino Giugni. Ma anche la forte convinzione che per governare con una salda maggioranza si debba dare credito a un'alleanza con Mario Monti. Riccardo Nencini spiega in una videochat al Corriere.it il programma e le future scelte politiche del suo Psi, fondatore del centrosinistra di questa campagna elettorale insieme al Pd e a Sel. Secondo il segretario socialista alla fine Nichi Vendola si dovrà convincerà a introdurre nello statuto «un articolo 18 bis» dedicato «a quei 4 milioni di precari che hanno un contratto a termine e sono senza garanzie per maternità, ferie e pensioni», senza fare quadrato «solo nella difesa di chi ha un impiego fisso». Mentre per le strategie postelettorali Nencini ha ricordato che già «nella carta di intenti» siglata dai tre fondatori del centrosinistra si prevede «un allargamento della coalizione alle forze liberaldemocratiche» che saranno presenti in Parlamento, vale a dire i centristi di Mario Monti: «Un'alleanza con loro non solo non è da escludere ma è la strada da percorrere per continuare a tenere l'Italia nel cuore dell'Europa».

l’Unità 20.2.13
Se gli elettori di Ingroia
L’appello degli intellettuali una sfida per Rivoluzione civile
di Mario Tronti


Vorrei tornare un momento sull’appello che personalità della cultura hanno rivolto agli elettori per un voto alla coalizione di centrosinistra. Uno dei pochi veri eventi di questa campagna elettorale, che nel testo viene definita confusa, rissosa, menzognera, e non certo per colpa della suddetta coalizione, l’unica che abbia mantenuto il tono di un discorso ragionato.
Ma le cose vanno così. Se non strilli, ti dicono che non stai dicendo niente. Se non fai una proposta folle, ti dicono che non hai proposte da fare. E poi. Dovremmo esserci abituati, tuttavia ogni volta è una sorpresa: vedere come i grandi organi di informazione non informano, come i grandi mezzi di comunicazione non comunicano. Certe cose è bene che non si sappiano troppo in giro. Per esempio questa: che una parte consistente dell’alta cultura di questo Paese, nei momenti decisivi, si schiera a sinistra. È accaduto ieri: e se ne fa una colpa. Accade ancora oggi: e questa è una notizia da non diffondere, vista l’obbligazione di questa campagna elettorale, che vede un vincitore destinato e tutti gli altri a fare in modo che non vinca bene, che vinca poco, che vinca appena. Solo così potranno avere una funzione nella prossima legislatura, oltre a quell’opposizione cui non vogliono rassegnarsi.
Si parla molto di società civile. Ebbene, c’è una cultura civile, un civismo culturale, che vuole accompagnarsi alla partecipazione popolare, in un progetto comune di riscossa etico-politica, di ricostruzione dei fondamenti del vivere in comune, di responsabilità collettiva nella soluzione dei problemi che la questione sociale, la questione istituzionale, la questione morale, impongono dentro la crisi, guardando alle sue cause, facendosi carico dei rimedi. Raccomanderei di ripercorrere uno ad uno i nomi, tutti, dei firmatari dell’appello per verificare la profondità e l’ampiezza di questa presa di posizione. Inviterei soprattutto a soffermarsi su alcuni passaggi del discorso. La necessità di assicurare un’autosufficienza parlamentare alla coalizione di centro-sinistra, per un governo stabile, autorevole, rispettabile a livello europeo, produttore di trasparenza politica, soggetto di giustizia sociale: «in grado di restituire dignità alle istituzioni, rispetto per la politica, fiducia nei partiti, strategie di sviluppo e insieme un colossale mutamento di rotta nei confronti delle classi lavoratrici e dei ceti disagiati». Non voglio essere malizioso, ma temo che più dei nomi, sono le parole che hanno consigliato di occultare il messaggio.
Soprattutto quelle ultime, sul necessario colossale mutamento di rotta nei confronti delle persone che, col lavoro o senza lavoro, soffrono del disagio sociale. La grande cultura del Paese Italia, non sta genericamente a sinistra, ci sta sulle sue idee-forza, sulle sue radici storiche, sui suoi progetti di trasformazione delle forme di vita. È a partire da qui che voglio aggiungere un altro tipo di appello, più specificamente orientato. Penso di avere un minimo di titolo per farlo.
Vorrei chiedere ai compagni e alle compagne che esprimono un’intenzione di voto per Rivoluzione civile, un supplemento di riflessione politica, per queste ore di qui a domenica. È più che legittimo, e anzi utile, che ci sia una rappresentanza parlamentare per queste posizioni. Ma come non prendere atto che questo è realisticamente possibile solo per la Camera dei deputati? I voti per il Senato sono voti gettati nel cestino dell’ingovernabilità: esattamente quello, come si diceva sopra, a cui puntano tutti gli oppositori del centro-sinistra: da Berlusconi a Maroni, da Grillo a Monti. Prendiamo il caso Lombardia. Rivoluzione civile ha ben capito l’importanza del voto regionale. Impedire che si saldi la macro-regione del Nord, in mano leghista, in funzione anti-Mezzogiorno e anti-Paese, è un obiettivo essenziale per il futuro di tutti. Ma altrettanto grave è il pericolo che possa scattare, magari per un punto, un punto e mezzo percentuale, il premio di maggioranza al Senato per la destra. Passare dalla Milano di Pisapia alla Lombardia di Ambrosoli segnerebbe un salto in avanti di tutta la situazione politica. Ma tanto più se il percorso continuasse dalla Lombardia all’Italia, con una doppia vittoria. Scusate, volete impedire l’asse parlamentare del centro-sinistra con il montismo. Ma questo diventerebbe un’assoluta necessità, con la mancanza di una maggioranza autosufficiente al Senato. Che vantaggio ne avrebbe la sinistra, che ne guadagnerebbero «le classi lavoratrici e i ceti disagiati»? Insomma, senza drammatizzare più di tanto, però un consiglio di voto disgiunto ai suoi militanti tra Camera e Senato sarebbe più che opportuno da parte di Rivoluzione civile. Se non si vuole arrivare al Pd, ci sono sempre i comunisti per Vendola, ci sono persino i marxisti per Tabacci... Coraggio, compagni, un ultimo sforzo!

il Fatto 20.2.13
Regione Lazio, la battaglia sulle macerie di Batman
Zingaretti in testa, Storace insegue, Barillari più indietro
di Enrico Fierro


Altro che “nuovo inizio”, il Lazio ha bisogno di essere rivoltato come un calzino. Dalle dune di Sabaudia ai monti della Ciociaria, dalle terre dei “burini” alle sterminate e multietniche periferie del capoluogo-capitale, la regione è dentro il vortice di una crisi mai vista prima. Economia a picco, credibilità della sua classe politica sotto zero. Hanno voglia a presentarsi con i loro sorrisi ringiovaniti dal Photoshop i dodici aspiranti alla poltrona più importante della Pisana, sbirciando i manifesti elettorali i romani e i laziali in genere (due categorie a parte) vedranno sempre una faccia sola, quella di Francone “er Batman” Fiorito. Il suo volto barbuto, i modi spicci, le cene alla Trimalcione, l’accento romanesco esibito come orgoglioso tratto identitario, saranno ancora per anni la maschera impressa sulla faccia della politica e dei politici laziali. Perché è vero che Fiorito faceva la bella vita con i soldi dei consiglieri regionali del Pdl, ma erano fondi pubblici, tanti, tantissimi, che generosamente tutti i partiti si sono assegnati e allegramente spartiti alla Pisana. Senza mai dividersi, senza discussioni, evitando litigi.
IN POCHI, i Radicali, denunciarono, in tanti fecero finta di non vedere, tutti incassarono punto e basta. E allora “il nuovo inizio” di Nicola Zingaretti, ex golden boy della sinistra, da giovanissimo segretario della Fgci, da adulto eurodeputato e supervotato presidente della Provincia di Roma, rischia di non bastare. Il messaggio – lui, il fratello del Commissario Montalbano, che abbraccia i vecchietti alla Asl, incoraggia i disoccupa-ti, consola gli ammalati – all’inizio aveva anche fatto breccia, i sondaggi, anche gli ultimi pubblicabili, lo portano avanti, vincitore, ma qualcosa si è appannato. Sempre i sondaggi, gli ultimissimi che non possono essere pubblicati, ora mostrano uno scenario diverso: Zingaretti è sempre in testa ma cala, Francesco Storace, l’ex governatore scelto da un Pdl alla frutta come candidato-Kamikaze, invece, sale. E pure velocemente. Colpa di una clamorosa denuncia del radicale Giuseppe Rossodivita, candidato anche lui alla Presidenza. Zingaretti, si legge nell’esposto, il giorno prima di essere candidato alla Presidenza della Provincia, sarebbe stato assunto dal Pd con uno stipendio da 8 mila euro lordi mensili. Un’assunzione poi scaricata sull’ente che per legge deve versare contributi e tfr alla fine del mandato, a conti fatti qualcosa come 100 mila euro di soldi pubblici spesi. Una brutta storia, un colpo basso per Zingaretti precipitato nell’abisso degli odiosi privilegi della casta alla amatriciana. “È una vergognosa macchina del fango”, è la risposta sdegnata del candidato del centrosinistra. Intanto in procura è stato aperto un fascicolo e Ciccio Storace gongola e rispolvera i toni di quando era “Epurator”. “È una storia triste, a me fecero il culo, a lui nessuno lo tocca sulla spalla e gli dice ahò ma che hai fatto? L’ho detto a Gianni (Alemanno, ndr), se io conquisto la Regione e tu ti riprendi il Comune, risorge la destra in Italia”. “Ora credici”, è lo slogan scelto dall’ex colonnello di Fini (anche se ora Gianfranco, che si è alleato con l’Udc candidando Giulia Bongiorno, lo definisce “una minestra riscaldata” che in Lazio ha già perso una volta), e lui davvero ci crede.
QUATTRO MILIONI di elettori e il voto per la Regione che, grazie all’election day, si trascina quello per le politiche. Il Senato, soprattutto. È a Palazzo Madama che si faranno i giochi per il futuro governo e di senatori il Lazio ne elegge 28, 16 vanno alla coalizione che vince, 12 all’opposizione. Per questo i giorni che ancora ci separano dal voto saranno giorni di fuoco. Con il Pdl e Storace che premeranno l’acceleratore sul voto utile appellandosi ai militanti di CasaPound (candidato Simone Di Stefano), della Fiamma Tricolore (Luca Romagnoli) e di Forza Nuova (Roberto Fiore). Identici appelli arriveranno dal Pd alle altre formazioni della sinistra come “Rivoluzione civile” di Antonio Ingroia che corre da sola e candida come presidente il giornalista Sandro Ruotolo. Battaglia tutta aperta in una regione sull’orlo del baratro. Le cifre della crisi sono impietose. Nel Lazio l’Irap e l’Irpef sono tra le più alte d’Italia, la sanità, deficit ereditato dalla gestione Storace di 10 miliardi, è commissariata. A Roma, dati Confcommercio, chiudono 60 imprese commerciali al giorno, 90 nell’intera regione, un salasso per un territorio che dal 2009 a oggi ha perso 100 mila posti di lavoro e ha visto la cassa integrazione arrivare a 90 milioni di ore. Che fare? “Mandare tutti a casa”, è la ricetta di Davide Barillari, aspirante governatore del M5S. Nessuna alleanza preelettorale, la certezza anche qui di un boom elettorale, nonostante i dati dei sondaggi, che sono buoni ma non utili per conquistare il vertice della Pisana. “I sondaggi ci sottostimano”, replicano sicuri i “grillini”, che hanno già raccolto 320 curricula di aspiranti assessori e aspettano venerdì. Grillo a Piazza San Giovanni, un milione di persone, lo tsunami che travolge Montecitorio, la Pisana e il Campidoglio. Sì, perché nel Lazio le elezioni non finiscono mai. A maggio si vota e Gianni Alemanno si gioca la poltrona di sindaco.

il Fatto 20.2.13
Roma
Il concorso dei “figli di” Ultima grana per il Pd
di Eduardo Di Blasi


L’interrogazione che il senatore Alberto Filippi, leghista passato con La Destra di Francesco Storace negli ultimi tornanti della legislatura, ha presentato a Palazzo Madama il 18 dicembre scorso, per adesso non ha avuto risposta. Vicentino di Arcugnano, classe 1966, il senatore chiedeva al ministero della Pubblica amministrazione dell’incredibile coincidenza di parenti e “figli di” che comparivano in calce alle graduatorie di due concorsi banditi dalla Provincia di Roma nel 2008. Il primo, 15 posti per “istruttore amministrativo categoria C” (stipendio di 1.100 euro al mese circa) ha tenuto le proprie graduatorie aperte sino al giugno 2012, consentendo un contratto a tempo indeterminato a 147 persone. Il secondo, 20 posti per “operatore di centro di formazione, categoria B3” (8-900 euro mensili), ha invece scalato la graduatoria fino alla casella 77. “Tra gli istruttori amministrativi – leggiamo nell’interrogazione – figurerebbero Maria Teresa Giuliano, figlia di un sindacalista della Uil, Sara Fra-toni, figlia della dottoressa Maria Budoni, a sua volta segretaria del presidente della Provincia Nicola Zingaretti, Eleonora Formaggi, figlia di un rappresentante sindacale unitario (Rsu) della Cgil eletto nella Provincia di Roma, Valerio Vanzo, figlio del proprietario del ristorante tavola calda “Bibo Bar”, luogo frequentato da dirigenti e politici della Provincia, Marta Loche, figlia del segretario dello scomparso ex presidente della Provincia, Fregosi, Carlo Carrino, figlio di un dirigente della Provincia, Raffaello Toppi, figlio di un dirigente della Provincia, Eleonora Socci, figlia di un altro sindacalista della Provincia, Francesco Zacco, figlio del direttore della Deas, società specializzata nelle selezioni concorsuali pubbliche di cui si è avvalsa in passato la Provincia (in realtà Zacco non è il figlio, ma proprio il consulente dei precedenti concorsi ndr.), Andrea La Spina della Cimarra, figlio del capo del cerimoniale del Campidoglio al tempo del sindaco Walter Veltroni”. E ancora: “Diana Toscano, figlia di un sindacalista della Cgil, Simona Cavallaro, figlia di un dipendente della Provincia, Federica Piccini, figlia di un dipendente della Provincia, Chiara Grimaccia, figlia di un ex dipendente della Provincia, ed infine Chiara Capitani, figlia di un dipendente della Provincia”.
TRA GLI “OPERATORI dei centri di formazione risulterebbe di nuovo Marta Lo-che, ma anche Andrea Alfarone, figlio di un componente della segreteria del consigliere regionale Bruno Astorre” nonché “numerosi congiunti di semplici dipendenti della Provincia, come Valeria Pompi, moglie di un dipendente, Monica Miriello, sorella di un dipendente, Alessio Ilari, figlio di un dipendente, Manuela Pisciarelli, figlia di un dipendente e sindacalista della Uil, Giorgia Sanetti, figlia di un dipendente, Olimpia Prosperini, cognata di un dipendente sindacalista della Cisl”.
A essere chiamato in causa è Nicola Zingaretti, all’epoca presidente della Provincia (il concorso fu in verità bandito un paio di mesi prima del suo arrivo a Palazzo Valentini). La risposta dei suoi, oggi impegnati nella campagna del Lazio anche contro Storace, è la seguente: “Al primo concorso parteciparono 11 mila persone, al secondo 2.528: dopo i quiz, la prova scritta e l’orale svolto in forma pubblica, furono selezionati rispettivamente 372 e 326 idonei. La graduatoria è poi scalata negli anni perchè abbiamo aperto tre centri per l’impiego nelle università e il progetto di Porta Futuro. Poi ci sono stati i pensionamenti. Il risparmio di questa operazione – affermano – è stato di 6 milioni di euro”.

il Fatto 20.2.13
La bomba del debito Ds esploderà dopo le elezioni
Le banche vogliono 200 milioni di euro mai pagati su cui c’è la garanzia dello Stato
Palazzo Chigi pronto al contenzioso
di Stefano Feltri


Tra i primi compiti del nuovo governo ci sarà quello di gestire la bomba dei 200 milioni di debiti lasciati dagli ex Ds che potrebbero essere pagati dallo Stato. E chissà se Pier Luigi Bersani, nel caso diventasse premier, si spenderà per evitare il salasso ai contribuenti o invece favorirà la soluzione tombale del peccato originale del Partito democratico, cioè l'aver lasciato alle sue spalle una montagna di debiti verso le banche dovuti alla componente Ds di cui il segretario faceva parte.
Breve riepilogo di quanto rivelato dal Fatto domenica scorsa. Quando è nato il Pd, il tesoriere dei Ds, Ugo Sposetti, ha trasferito lo sterminato patrimonio immobiliare del partito a “fondazioni” locali, lontano dal Pd e dai creditori. A garanzia dei debiti non c'erano quindi più case e palazzi, ma solo una fideiussione dello Stato sui finanziamenti che, tra interessi e mora, sono arrivati quasi a 200 milioni. Se le banche non riusciranno a far annullare le donazioni degli immobili, come chiedono in tribunale a Roma, toccherà al contribuente ripianare la montagna debitoria lasciata dai Democratici di sinistra.
PER CAPIRE QUALE sia il cavillo che obbliga lo Stato ad accollarsi pure i debiti di un partito che, negli anni, ha già ricevuto decine di milioni di rimborsi elettorali, bisogna partire da un documento. Due paginette del dipartimento per l'informazione e l'editoria della Presidenza del Consiglio dei ministri, firmate dall'allora capo dipartimento, quel Mauro Masi che poi Silvio Berlusconi avrebbe messo alla guida della Rai. Le date sono importanti: il documento è del 25 febbraio 2000, a Palazzo Chigi c’è Massimo D'Alema, che dei Ds era il presidente e che in quegli anni ha seguito in prima persona la ristrutturazione dell'enorme debito ex-Pci con la Banca di Roma di Cesare Geronzi. Il documento della Presidenza del Consiglio riferisce che il 20 dicembre 1999 è stata accolta la richiesta degli istituti di credito “finanziatori dei mutui agevolati di cui all'oggetto, relativa al subentro del Pds-Ds nella corresponsione delle rate d'ammortamento dei medesimi finanziamenti in luogo de l'Unità spa”. E, quel che più conta, Palazzo Chigi “ha pertanto disposto il trasferimento della garanzia dello Stato ai finanziamenti definiti dalle norme di cui in oggetto”. Le banche coinvolte in quel momento sono San Paolo Imi, capofila, il Mediocredito di Roma (parte della Banca di Roma), la Bnl, Efibanca e il Banco di Napoli.
TREDICI ANNI dopo quella storia non è ancora finita. È in corso una causa civile tra le banche creditrici e i Ds, giudizio in cui si è costituito anche l'avvocato di Barletta Antonio Corvasce che, avendo dato continuità all'attività politica dei democratici di sinistra nel 2007, contesta la legittimità degli atti di Piero Fassino e Ugo Sposetti, rispettivamente segretario e tesoriere a vita dei Ds. Nelle carte di quella causa ci sono cose interessanti. L'avvocato Girolamo Bongiorno, per conto di Efibanca, scrive che grazie al provvedimento di Palazzo Chigi “il debito scaduto e a scadere relativo al richiamato finanziamento e pari a lire 19.020.789.129 (euro 9.823.417,77) veniva ristrutturato ed accollato in solido in capo ai partiti Partito democratici di Sinistra e Democratici di Sinistra con liberazione della originaria mutuataria società L'Unità spa, salvi e impregiudicati la garanzia primaria e solidale dello Stato”, parametri “appositamente confermati” da una legge del 1999 e dal provvedimento specifico di Palazzo Chigi. D'Alema, cercato ieri dal Fatto, non ha voluto commentare. É cronaca, non archeologia politica. È prevista per marzo, subito dopo le elezioni, la prossima riunione tra l'avvocato Bongiorno, in rappresentanza del pool delle banche creditrici, e Ferruccio Sepe, il capo del dipartimento Editoria di Palazzo Chigi, che non è per nulla rassegnato a sottoporre il contribuente al sacrificio in nome dell'eredità post comunista: “Le banche chiedono di poter escutere la garanzia sull'intero credito, ma non sarà così facile per loro. Noi la pensiamo diversamente sulle condizioni a cui scatta. È quasi certo che ci sarà un passaggio in contenzioso”, dice Sepe al Fatto. Tradotto: le banche dovranno rassegnarsi a non avere tutti i 200 milioni, si cercherà una mediazione. La garanzia pubblica sul credito agevolato legato ai giornali è stata abolita nel 2007, ma non sono mai stati stanziati fondi per risolvere le pendenze del passato. Anche perché c'è un solo caso: quello dei Ds, nato da un provvedimento del governo D'Alema. E che adesso potrebbe trovare il suo epilogo sotto il governo Bersani.

il Fatto 20.2.13
Nomine Mps, i pm credono al patto Pd-Pdl
Perquisizioni a casa deli ex vertici  Mussari e Vigni
Scontro tra il nuovo Ad Viola e Baldassarri
di Davide Vecchi


La politica ha il diritto di indicare chi ritiene consono a ricoprire alcuni incarichi non solo nella banca”. Angelo Pollina, capogruppo del Pdl al Comune di Siena fino al 2011, ha raccontato ai pm ciò di cui è stato testimone nella cittadina del Palio. E ha più volte sottolineato il forte rapporto di fiducia che da dieci anni lega Giuseppe Mussari e Franco Ceccuzzi, parlamentare del Pd oggi candidato sindaco a Siena. L’interrogatorio, avvenuto lunedì a Firenze, comincia a tratteggiare una parte ancora bianca dell’inchiesta sul Monte dei Paschi, ma che potrebbe prendere rapidamente forma: quello della spartizione politica della banca.
IN PARTICOLARE, l’ingresso del Pdl nella partita delle nomine attraverso la porta principale tenuta aperta da chi qui è considerato il padrone di casa: il Partito democratico. I pm titolari dell’inchiesta sembrano considerare veritiero il documento con in calce i nomi di Ceccuzzi e Denis Verdini cui i due partiti rivali siglano nel 2008 un patto di non belligeranza con l’obiettivo comune di spartirsi le poltrone e il controllo di Mps. Documento acquisito attraverso Alberto Monaci, attuale presidente del consiglio regionale. Perché, fanno notare fonti investigative, per quanto la lettera possa sembrare o addirittura essere falsa non è detto che lo sia anche il contenuto. Anzi. Così, mentre l’ex capo della finanza di Mps, Gianluca Baldassarri, viene trasferito da San Vittore al carcere di Siena, per cercare “prove, documenti e riscontri” ieri mattina sono scattate le perquisizioni nelle abitazioni dell’ex presidente Giuseppe Mussari e Antonio Vigni, ex direttore generale dell’istituto. E, per la prima volta, gli uomini del Nucleo valutario della Gdf si sono presentati nel-l’ufficio e nella casa di David Rossi, capo dell’area comunicazione della banca e dal 2001 vicino a Mussari. Rossi non è indagato.
Prove, documenti e riscontri. Che secondo uno dei difensori dell’ex presidente, l’avvocato Fabio Pisillo, non sono stati trovati “visto che a lui niente è stato sequestrato”. Ma nei primi due giorni di quella che doveva essere una settimana “di sedimentazione e studio” per i tre pm titolari dell’inchiesta, Giuseppe Grosso, Aldo Natalini e Antonio Nastasi, sono già stati raccolti buoni e “nuovi spunti”, dicono fonti investigative della procura toscana. I capi di imputazione per Mussari e Vigni sono sempre gli stessi: ostacolo alla vigilanza, anche in concorso con l’ex capo dell’area finanza Gianluca Baldassarri, manipolazione dei mercati e falsa informazione in prospetto.
IERI I PM HANNO avuto anche un vertice con gli ispettori di Bankitalia ed è attesa per oggi la pronuncia del Tar del Lazio sulla regolarità del via libera ai Monti-Bond per 3,9 miliardi in favore di banca Mps ora guidata dal nuovo ad, Fabrizio Viola. Proprio ieri Viola, chiamato in causa da Baldassarri che al gip di Milano ha detto di avergli descritto tutta l'operazione Alexandria, ha ribattuto con fermezza: “Queste cose brutte le abbiamo scoperte noi”. Va detto che le dichiarazioni di Baldassarri, che ha chiamato in causa anche Mussari e Vigni, non hanno convinto gli inquirenti, che ora lo sentiranno nel carcere senese.

l’Unità 20.2.13
Il caso Mahony, un macigno sul Conclave
Il cardinale che coprì i casi di pedofilia negli Stati Uniti fa sapere che parteciperà all’elezione del nuovo Pontefice
L’arcivescovo di Los Angeles: «Non vedo l’ora di essere a Roma»
La sua presenza può condizionare la nomina dei nord americani
di Roberto Monteforte


CITTÀ DEL VATICANO Lo aveva scritto sul suo blog l’arcivescovo emerito di Los Angeles, cardinale Roger Mahony: «Non vedo l’ora di recarmi presto a Roma per aiutare e ringraziare Papa Benedetto XVI per il suo servizio alla Chiesa e per partecipare al Conclave per leggere il suo successore». Malgrado le proteste esplose prima negli Stati Uniti, con la petizione lanciata dal movimento Catholics United che gli chiede di fare un passo indietro e rinunciare al Conclave, e poi rimbalzate anche in Italia, l’arcivescovo «emerito» ed anche dimissionato di Los Angeles, mantiene fermo il suo proposito. Sarà Oltretevere il prossimo 26 febbraio.
IL DOVERE DI VOTARE
Il motivo è semplice. Al di là dei suoi problemi personali, proprio perché «creato cardinale dal Papa» ritiene di essere vincolato al «diritto-dovere» di partecipare all’elezione del successore di Papa Ratzinger. D’altra parte le stesse autorità vaticane hanno l’obbligo di convocarlo regolarmente. Malgrado le responsabilità riconosciute dallo stesso cardinale Mahony in una lettera pubblica e le nuove prove d’accusa che gli sono costate l’esautoramento da ogni funzione pubblica nella diocesi di Los Angeles da parte del suo successore, l’arcivescovo Josè Gomez, il porporato ha tutti i requisiti per far parte degli «elettori» del futuro pontefice.
È presumibile che terrà un profilo basso una volta durante la sua permanenza in Vaticano. Ma la partecipazione non gli può essere impedita. «La prassi vuole che si ricorra alla persuasione, di più non si può fare spiega il cardinale Velasio De Paolis -. Il cardinale Mahony ha il diritto-dovere di entrare nel prossimo Conclave per partecipare con il voto all’elezione del nuovo Papa. Certo, è una situazione sconcertante, ma le regole vanno rispettate». Quello che fa testo è quanto prevede la Costituzione apostolica Universi Domini Gregis. Si può fare solo appello alla sua coscienza. Per essere efficace, il richiamo dovrebbe essere «autorevole». Ma potrebbe, in teoria, riguardare anche altri. Se si dovesse ritenere come discriminante per entrare nella Cappella Sistina, l’atteggiamento tenuto sulla pedofilia, allora occorrerebbe chiedere un passo indietro anche ad altri «elettori» coinvolti in inchieste sulla pedofilia nella Chiesa. Come Mahony hanno riconosciuto le proprie colpe anche il primate irlandese Sean Brady, e l’ex arcivescovo di Bruxelles, Godfried Dannells. Ma Oltretevere si fa notare come sia «assolutamente da evitare il rischio che campagne mediatiche mosse contro uno o l’altro cardinale elettore possano condizionare il Conclave».
È un fatto è che lo scandalo della pedofilia continua a pesare sulla vita della Chiesa americana. Anche in un momento in cui, affrontata l’opera di pulizia, l’episcopato americano ha visto aumentare il suo peso e riconosciuta la sua autorevolezza. Non sarebbe un azzardo ipotizzare quindi che al Papa tedesco possa succedere un nord americano. E non solo per il sostegno dei 14 «elettori» di quell’area. Potrebbero essere superate le resistenze per un Papa espressione della più grande potenza d’Occidente.
I NOMI IN PRIMO PIANO
Le figure di peso non mancano certo. A partire dal prefetto della Congregazione per i vescovi, il canadese Marc Ouellet. Poliglotta, 69 anni da compiere, è uno degli allievi del teologo, Hans Urs von Balthasar, citato spesso da Benedetto XVI. Membro della rivista Communio, è fra i cardinali più «ratzingeriani» sotto il profilo teologico, intellettuale e «politico». È anche presidente della pontificia Commissione per l’America Latina, dove è stato missionario. Ora è cardinale di Curia. Insomma, ha tutte le carte in regola per succedere a Jospeh Ratzinger. Forse manca un po’ di carisma che non difetta di certo al cardinale di Boston, Sean O’ Malley. È il padre cappuccino mandato da Ratzinger a sostituire il cardinale Law, coinvolto negli scandali dei preti pedofili. Con intransigenza, polemizzando pure con le incertezze e le coperture offerte dall’allora segretario di Stato, cardinale Sodano, ha combattuto contro questa piaga. Umiltà, rigore dottrinale e attenzione agli ultimi segnano la sua azione pastorale.
In corsa vi è anche il presidente dei vescovi statunitensi e voce del cattolicesimo americano, l’arcivescovo di New York, cardinale Timothy Dolan cui certo il carisma non difetta. Conservatore nei valori, sulla questione degli abusi ha assunto una posizione netta, anche a sostegno delle vittime e dei loro familiari. Ma in corsa potrebbero esserci anche l’arcivescovo di Washington, Donald Wuerl, che si è fatto apprezzare lo scorso anno come relatore al Sinodo sulla nuova evangelizzazione. Sono in corsa, malgrado la tegola rappresentata dal «caso» Mahony.

il Fatto 20.2.13
La via crucis delle vittime dei preti di Los Angeles
Testimonianze e accuse contro il cardinal Mahony
Negli Usa campagna per impedirgli di votare al Conclave
di Angela Vitaliano


New York Caro Cardinale Mahony, le tue ulteriori implicazioni nello scandalo per gli abusi sessuali e l’essere stato allontanato come ministro dall’arcidiocesi di Los Angeles, dovrebbero essere un’indicazione chiara, per te, per decidere di non partecipare al prossimo Conclave”. Inizia così la lettera/petizione scritta dal gruppo cattolico progressista, Catholics United, con l’obiettivo di dissuadere Roger Mahony a prendere parte al prossimo Conclave di Roma, per l’elezione del nuovo Papa. Mahony, infatti, sebbene privato, lo scorso mese, di tutti i suoi incarichi, dall’arcivescovo Jose Gomez, a seguito delle sue accertate responsabilità nella “copertura” dei reiterati episodi di violenza e abuso sessuale (viene ritenuto responsabile di aver insabbiato almeno 129 casi), all’interno del più grande scandalo di pedofilia che vede coinvolta la Chiesa cattolica, resta comunque un cardinale e non superando gli ottant’anni, potrebbe di diritto far parte del gruppo degli 11 americani che decideranno del futuro del Vaticano.
PER LA PRIMA VOLTA, infatti, gli Stati Uniti si trovano a essere il secondo blocco più numeroso, dopo quello italiano, nel Conclave che deciderà il successore di Benedetto XVI e molti cattolici non vogliono perdere “quest’occasione” per creare uno spartiacque con un passato molto torbido che, in questi mesi, è venuto alla luce in tutte le sue sfumature.
La petizione che, in pochi giorni, ha raggiunto già 5000 firme, ed è destinata a far discutere ancora molto, continua con un accorato appello in cui si chiede a padre Mahony di “non gettare ulteriore scandalo sulla nostra Chiesa che è stata già scossa dalla crisi dello scandalo degli abusi sessuali, partecipando al Conclave”.
La posizione di Mahony, infatti, già in pensione, era tornata al centro dell’attenzione dopo che il giudice aveva ordinato la pubblicazione di tutti i documenti relativi a circa vent’anni di denunce per molestie e abusi ai danni di decine di minori, messe in atto da una serie di preti appartenenti alla diocesi di Los Angeles.
Dai circa 3500 file, fra cui lettere, referti medici e carteggi con il Vaticano, era emerso che Mahony e il suo vice, Thomas Curry, avevano operato per “coprire” le azioni scellerate di molti religiosi. Evidenze che avevano spinto, necessariamente, e in un estremo tentativo di prendere le distanze da un periodo molto buio per la Chiesa, Gomez a mettere in atto azioni importanti come l’allontanamento dei due da ogni incarico pubblico. Non è sceso giù, dunque, a molti, l’annuncio dato da Mahony sul suo sito, della prossima “missione romana” che viene ritenuta, appunto, incompatibile con la sua condizione. “Non arrabbiarsi e restare in silenzio è difficile per un essere umano – risponde intanto il cardinale, sempre dal suo sito – e lo è certamente per me. Non aprire bocca per respingere le accuse va contro la nostra natura. Ma restare in silenzio, seguendo l’esempio di Gesù lascia ogni accusa nelle mani del del nostro Dio misericordioso, non in quelle di altri essere umani con varie agende”.
Intanto, a sostegno della posizione di Catholics United, secondo molti, arriva il sondaggio lanciato da Famiglia Cristiana che chiede ai suoi lettori di esprimersi sull’opportunità o meno del Cardinale di essere a Roma. La possibilità che l’elezione di un nuovo Papa possa essere utilizzata per cancellare vecchie responsabilità vaticane è fortemente temuta. Per questo viene ricordato, da più parti, Benedetto XVI continuerà a vivere in Vaticano: una necessità per garantirgli un’immunità che altrimenti perderebbe.

La Stampa 20.2.13
Sul Conclave l’ombra degli “impresentabili”
Oltre a Mahony sono altri due i cardinali accusati di aver coperto i preti pedofili
di Giacomo Galeazzi


In Conclave gli «impresentabili» e il fattore «V»(come Vatileaks). Sulle congregazioni generali che iniziano il 1° marzo grava come una mannaia l’incognita del dossier di Herranz, Tomko, De Giorgi. Ma per tre porporati che fanno luce sugli scandali, ce ne sono altri tre che parteciperanno all’elezione del Pontefice malgrado le accuse della magistratura di aver insabbiato in diocesi gli abusi dei preti pedofili. Ad imbarazzare il Sacro Collegio e a contraddire la linea giustizialista (cioè la «tolleranza zero» di Ratzinger) sarà la presenza nella Cappella Sistina di una terna di porporati travolti dalla bufera-abusi: Roger Mahony, Sean Brady e Godfried Danneels. In tutta Europa il loro approdo a Roma ha fatto insorgere i gruppi di vittime del clero e le associazioni antipedofilia come «La caramella buona» secondo cui «non dovrebbero partecipare al Conclave tutti i cardinali che in un senso o nell’altro sono stati al centro di inchieste legate agli scandali sugli abusi sessuali commessi da esponenti del clero».
Malgrado la protesta dei cattolici Usa, l’appello di «Famiglia Cristiana» e la rinuncia «per opportunità» reclamata da influenti presuli di Curia come Velasio De Paolis e Gianfranco Girotti, Mahony non molla. «Il conto alla rovescia verso il conclave è iniziato, le vostre preghiere sono necessarie affinché noi eleggiamo il miglior Papa per la Chiesa di oggi e di domani», scrive su Twitter. I suoi difensori sostengono che Mahony avesse denunciato gli abusi al dicastero vaticano del clero. All’epoca era guidato da Castrillon Hoyos di cui è stata resa nota una lettera di elogio a un vescovo francese che aveva coperto il clero pedofilo. Adesso che Benedetto XVI, campione della lotta alla pedofilia, ha scelto di «nascondersi al mondo e ritirarsi in preghiera», un passo indietro è proprio quello che ci si aspetta da porporati nell’occhio del ciclone, come Mahony, Sean Brady e l’ex arcivescovo di Bruxelles, Danneels. Siederà nella Sistina pure il primate irlandese al quale il Papa ha affiancato un coadiutore con pieni poteri perché riconosciuto responsabile di insabbiamento.
Col Conclave arriva al pettine il nodo degli abusi, combattuti da Ratzinger tra critiche più o meno velate di importanti esponenti del collegio cardinalizio: il decano Angelo Sodano parlò di «chiacchiericcio» per ridimensionare lo scandalo. Solo i cardinali Schoenborn di Vienna e O’Malley di Boston insorsero in difesa delle vittime e dell’azione purificatrice di Ratzinger. Nella Cappella affrescata da Michelangelo ci saranno anche fautori della lotta agli abusi: il cappuccino statunitense Sean O’Malley, che a Boston ha restituito credibilità alla Chiesa dopo la «fuga» a Roma del suo predecessore, Bernard Law, inseguito dalle cause per risarcimento (per indennizzare le vittime O’Malley ha venduto l’episcopio e si è trasferito a vivere in una stanzetta del seminario) e il domenicano Christopher Schoenborn, allievo prediletto di Ratzinger. Un paio d’anni fa soltanto O’Malley prese le sue difese quando diversi porporati lo criticarono come «troppo drastico», più o meno l’accusa che viene rivolta all’attuale arcivescovo di Los Angeles Gomez per le sanzioni al predecessore Mahony (e indirettamente al Papa). Nel 1994 Schoenborn divenne vescovo ausiliare di Vienna, quando il cardinale Groer, era ancora ben saldo in sella, nonostante le testimonianze di seminaristi. Ai gravi rilievi Groer si era sempre rifiutato di rispondere. Dapprima gli altri presuli lo difesero, respingendo le «calunnie»: un orientamento condiviso a Roma. Non da Ratzinger, però, che sul tema risultò in minoranza e per questo chiese a Wojtyla di lasciare l’incarico al Sant’Uffizio: una circostanza portata alla luce nel 2010 da Schoenborn che rinfacciò pubblicamente l’episodio a Sodano. Tra pochi giorni in conclave si ritroveranno tutti. È anche rispetto alla «purificazione» che si formeranno le cordate. Difficilmente il nuovo Papa avrà il voto degli «impresentabili». Indietro non si torna.

Repubblica 20.2.13
Scicluna, il monsignore che dava la caccia ai preti pedofili “Mahony a Roma? Se la veda con la sua coscienza”
Non mettetelo in croce per i suoi errori, la Chiesa è misericordiosa
di Paolo Rodari


Monsignor Charles Scicluna, per dieci anni è stato promotore di giustizia del Sant'Uffizio occupandosi a fondo della lotta ai preti pedofili

NESSUNO meglio di monsignor Charles Scicluna conosce i dossier segreti del Vaticano sui cosiddetti “delicta graviora”. Si tratta di crimini contro l’eucaristia, la santità del sacramento della penitenza, contro il sesto comandamento e cioè “gli atti impuri” commessi da un prete con un minore.

MONSIGNOR Charles Scicluna, negli ultimi dieci anni e fino a poche settimane fa, è stato pubblico ministero del tribunale della Dottrina della fede. Nessuno meglio di lui può dire se hanno ragione coloro che chiedono al cardinale arcivescovo emerito di Los Angeles Roger Mahony di non partecipare al Conclave per le accuse di non aver denunciato in passato diversi casi di pedofilia nel clero, oppure no. Nel suo studio all’interno del palazzo dell’ex Sant’Uffizio — scaffali antichi che trasudano carte e faldoni — per anni Scicluna ha vagliato plichi a più livelli esplosivi, non solo i casi di pedofilia nelle diocesi americane ma anche la doppia vita di Maciel Degollado, fondatore dei Legionari di Cristo, fino alle personalità borderline di padre Lawrence Murphy, mo-lestatore in un istituto di bambini sordi a Milwaukee, e tanti altri.
Monsignor Scicluna, chi è Mahony?
«Un cardinale molto umile che non è riuscito ad arginare i casi di pedofilia nella sua diocesi come sarebbe stato giusto».
L’ha mai incontrato?
«Diverse volte, in via riservata, nel mio ufficio, sia negli anni del prefetto Joseph Ratzinger che in quelle di William Joseph Levada. Veniva a chiedere aiuto, consigli su come agire».
Di cosa parlavate?
«Era dopo il 2002, l’anno in cui i vescovi americani riuniti a Dallas decisero per la prima volta di inaugurare la linea della “tolleranza zero” sulla pedofilia. Mahony, come tutti i vescovi, cercava di capire come comportarsi dopo anni in cui la Chiesa non aveva agito correttamente».
Sta dicendo che prima del 2002 i vescovi americani coprivano i pedofili?
«Non c’erano linee chiare, soprattutto a livello diocesano. Ognuno agiva come poteva, e purtroppo in alcuni casi Mahony ha sbagliato. Il suo errore non è stato soltanto quello di non aver saputo estirpare alla radice il problema della pedofilia. Ma anche che quando si è reso conto che in diocesi il fenomeno era deflagrato, ha pubblicato i nomi di tutti i preti accusati».
Non ha fatto bene?
«No, perché un conto è comunicare i nomi dei colpevoli, un altro quello di coloro che sono sospettati di esserlo. Fra gli accusati ha messo anche se stesso perché due monsignori del Vaticano avevano sospettato di lui. Mi è sembrato francamente troppo».
Entrerà in Conclave?
«Credo di sì, ma in ogni caso deciderà in coscienza cosa fare. Non è una situazione facile per lui. Nelle scorse settimane ha avuto un battibecco col suo predecessore, José Gomez, che ha spinto per destituirlo da ogni incarico, al quale Mahony ha ricordato di aver sempre accettato in passato il suo modo di agire. Non è stato un bell’esempio e credo che queste polemiche abbiano contribuito ad agitarlo».
Ratzinger è sempre stato informato su Mahony e i casi di pedofilia?
«Sempre, certo. E ha lottato per fare pulizia, per agire per il bene delle vittime. Non si tratta però soltanto dei delitti contro il sesto comandamento, ma anche dell’arroganza e della mancanza di umiltà e povertà che a volte caratterizza il modo di fare dei ministri di Dio».
Ratzinger sapeva anche di padre Maciel?
«Nel 2004 Maciel festeggiò nella basilica di San Paolo Fuori le Mura i sessant’anni di sacerdozio. Andò tutta la curia romana, vescovi e cardinali compresi. L’unico che rimase a casa fu Ratzinger, allora prefetto della Dottrina della fede. Sapeva bene, infatti, chi aveva davanti tanto che un mese dopo diede ufficialmente l’abbrivio all’investigazione vaticana nei suoi confronti. Fu una sofferenza enorme per lui perché era ben consapevole di quanta considerazione Maciel godesse nella curia romana. Eppure agì andando contro corrente per amore della verità. Però vorrei dire un’altra cosa».
Prego.
«La politica di Ratzinger è stata quella di pulire la Chiesa dalla sporcizia ma anche di usare misericordia. Ha sempre avuto la consapevolezza, come san Paolo, che gli uomini di Dio custodiscono un tesoro in vasi di argilla. L’immagine più forte alla quale ha cercato di riferirsi è la visione che ebbe santa Ildegarda di Bingen, la mistica e naturalista tedesca vissuta nel XII secolo. Vide una donna bellissima il cui vestito, però, era strappato, lacerato per colpa dei sacerdoti, dei loro peccati. Quella donna è la Chiesa cattolica, infangata dai peccati dei preti, eppure nonostante tutto bella, desiderabile, un luogo dove chiunque sbaglia può sempre ricominciare, un luogo di misericordia».
In molti in Vaticano ritengono che sulla pedofilia la Chiesa sia sotto attacco. Condivide?
«In Vaticano tutti vogliono fare pulizia. Ma il ripetersi degli scandali sui media fiacca energie ed entusiasmi. Secondo me l’attenzione verso la Chiesa è esagerata ma in fondo anche legittima perché significa che verso la figura del sacerdote, l’ideale di vita che egli incarna, c’è grande attesa e aspettativa».
Il Papa si è dimesso, oltre che per la vecchiaia, anche per gli scandali?
«Non credo. Anche il problema della pedofilia lo preoccupa e lo fa soffrire, certamente. Ma sa bene che nessuno deve permettersi di scagliare la prima pietra. Nel senso che nessuno è senza peccato».

La Stampa 20.2.13
Coppie di fatto. I paletti dell’Europa
di Vladimiro Zagrebelsky


La Corte europea dei diritti umani, decidendo un ricorso contro l’Austria, ha chiarito, con un’importante sentenza definitiva, alcuni aspetti dei problemi che sono discussi in materia di unioni omosessuali. La Corte, come d’abitudine, ha giudicato un caso concreto ma ha anche fatto il punto indicando alcuni principi tratti dalla Convenzione europea dei diritti umani.
Convenzione che lega tutti i Paesi del Consiglio d’Europa, Italia compresa. Nei principi affermati non si tratta di una sentenza innovativa, ma anzi essa conferma e sviluppa posizioni ormai stabilizzate nella sua giurisprudenza: giurisprudenza che, come ha più volte affermato la Corte costituzionale italiana, esprime il contenuto dei vari diritti considerati dalla Convenzione che l’Italia si è obbligata a rispettare.
Il caso riguardava una coppia omosessuale stabilmente unita. Una delle due donne aveva un figlio, nato da una precedente relazione non matrimoniale con un uomo. Il figlio viveva affidato in via esclusiva alla madre, ma teneva contatti con il padre. La compagna chiedeva di poter adottare quel bambino, così da sottolineare il suo inserimento nella vita familiare instauratasi tra le due donne. Il padre del bambino si opponeva. La legge austriaca permette l’adozione congiunta da parte di persone non sposate, conviventi eterosessuali. L’adozione, mentre crea un legame genitoriale con l’adottante, fa cessare quello con il genitore biologico dello stesso sesso dell’adottante. Nel caso sottoposto alla Corte europea dopo il rifiuto opposto dai giudici austriaci, l’adozione richiesta dalle due donne congiuntamente, secondo la legge austriaca, fermo rimanendo il rapporto con il padre, avrebbe fatto cessare il rapporto giuridico tra il bambino e sua madre: conseguenza evidentemente per tutti inaccettabile, perché in contrasto con l’interesse del bambino ed anche con lo scopo che muoveva le due donne ormai stabilmente unite.
La Corte ha ritenuto che il rifiuto dell’adozione richiesta sia stato motivato esclusivamente sulla base del fatto che si trattava di coppia omosessuale. Tale argomento preliminare aveva escluso la necessità di esaminare nel caso concreto se quell’adozione fosse o meno nell’interesse del bambino (criterio sempre prevalente nelle procedure di adozione), in un caso in cui il padre era comunque attento a mantenere un rapporto con il figlio e si opponeva alla richiesta adozione. La Corte ha ragionato sulla base del principio di non discriminazione, affermato dalla Convenzione anche a proposito delle differenze di orientamento sessuale e ha constatato che la domanda di adozione era stata respinta solo per il differente trattamento che la legge austriaca riserva alle coppie omosessuali rispetto alle coppie eterosessuali (entrambe non unite in matrimonio). Donde la violazione del diritto al rispetto delle scelte di ordine familiare, che la Convenzione assicura a tutti, senza alcuna distinzione.
La Corte non ha detto che quell’adozione doveva essere accettata dai giudici austriaci; ha soltanto constatato che il rifiuto era stato motivato esclusivamente sulla base di un argomento discriminatorio, astratto e generale, legato all’orientamento omosessuale della coppia che quell’adozione richiedeva. Nel caso concreto, tenendo conto di tutte le circostanze, i giudici, come avviene per le adozioni da parte di coppie eterosessuali, avrebbero dovuto esaminare se quell’adozione era o non era nell’interesse del bambino e conseguentemente se l’opposizione del padre era o non era da superare.
Il caso a questo punto può interessare solo marginalmente, perché alla fine su quella adozione decideranno i giudici austriaci valutando il preminente interesse del bambino nel contesto specifico in cui vive. Ma l’occasione ha offerto alla Corte la possibilità di mettere in chiaro alcuni principi di ordine generale. Innanzitutto la Corte ha ricordato quanto già in precedenza affermato, che le stabili convivenze di fatto, etero o omosessuali, costituiscono una situazione di vita familiare che richiede di essere rispettata dalle leggi e dai giudici dello Stato. La Corte costituzionale italiana ha in proposito parlato di formazione sociale che merita rispetto e tutela. Ciò però non vuol dire che gli Stati siano obbligati ad ammettere nella loro legislazione anche il matrimonio omosessuale. Altre forme di riconoscimento delle unioni di fatto, etero o omosessuali, sono possibili e idonee a tutelare le esigenze di carattere personale e familiare di coloro che le compongono. E quelle forme, comunque si chiamino nella legislazione degli Stati, possono offrire alle unioni di fatto una regolamentazione diversa e più ristretta di quella conseguente al matrimonio; lo Stato ha una certa discrezionalità nel scegliere il contenuto della regolamentazione (in particolare per quanto riguarda la possibilità di adottare), con il limite generale della ragionevolezza. Ma si tratta di soluzioni per riconoscere e tutelare la vita familiare delle coppie di fatto, che non possono essere diverse a seconda che si tratti di unioni etero o omosessuali. Una diversità di trattamento – come nel caso austriaco giudicato dalla Corte - sarebbe discriminatoria per ragioni di orientamento sessuale e contrario alla Convenzione. La Corte ha constatato che la maggior parte dei dieci Stati europei che ammettono le coppie di fatto all’adozione congiunta, non distingue tra coppie etero e coppie omosessuali e ne ha tratto argomento per negare che vi sia un significativo consenso europeo che giustifichi la discriminazione.
Ai principi enunciati dalla Corte europea possono naturalmente e in vario senso essere opposte ragioni di dissenso. Non può però negarsi che il quadro complessivo si presenta articolato ed equilibrato. Lascia spazio a scelte legislative diverse nei vari Stati, cui impone solo di riconoscere legislativamente la realtà delle coppie di fatto etero e omosessuali, ammettere che esse danno corpo a una vita di famiglia che va rispettata e non imporre un trattamento diverso (discriminatorio) alle coppie omosessuali rispetto a quelle eterosessuali.
Il Parlamento italiano, nella nuova composizione che attendiamo, avrà di fronte a sé diverse opzioni possibili per adeguarsi ai principi europei che è tenuto a rispettare. Ciò che non gli è permesso è perseverare nell’inerzia.

l’Unità 20.2.13
Gramsci: etica e partiti per battere l’anti politica
di Bruno Gravagnuolo


QUESTA VOLTA NIENTE INTRIGHI O QUADERNI RUBATI Parliamo di quel che pensava veramente Gramsci. Dell’etica, della politica, del pluralismo e dell’egemonia. Così come risulta dai Quaderni «salvati» (da Togliatti). Gramsci pensava per il suo tempo cose davvero eretiche. Che lo ponevano già fuori del comunismo novecentesco. E pensava cose attualissime, ancora oggi. Per esempio: «Ogni rapporto di egemonia è necessariamente un rapporto pedagogico e si verifica non solo nell’interno di una nazione, tra le diverse forze che la compongono, ma nell’intero campo internazionale e mondiale, tra complessi di civilità nazionali e continentali...» (Q. 10, 1932-35). Ohi ragazzi direbbe il segretario questo qui mica faceva gli areoplanini coi Quaderni in galera!
Come non pensare ai conflitti di civiltà di Huntington di 70 anni dopo? O come non pensare alla ferrea egemonia monetarista della Germania in Europa... tanto per fare esempi. Ma c’è dell’altro, sempre in quel Quaderno 10. Sentite qua: «In Croce l’etica si riferisce all’attività della società civile, la politica all’iniziativa e alla coercizione statale-governativa». E quando c’è contrasto tra etica e politica dice ancora Gramsci c’è «crisi» e «il vero stato, cioè la forza direttiva del processo storico, occorre cercarlo non là dove si crederebbe, nello stato giuridicamente inteso, ma nella forze “private”, e anche nei cosiddetti rivoluzionari...». Che vuol dire? Questo: che occorre rilanciare l’etica civile a partire dai partiti, intesi come associazioni private di massa. Portatrici di nuovo costume etico, nuova statualità, nuove classi dirigenti, «nuova egemonia», espressione dei ceti oppressi da stato ed economia (e contro i ceti dominanti, populistici o tecnici). Sì, per Gramsci la questione morale diventava politica, e la politica veicolava etica civile. A proposito, niente totalitarismo, avversato da Gramsci: «L’egemonia presuppone un regime liberal-democratico» (Q. 6, 1930). Ecco, c’ è proprio tutto. Anche come vincere domenica e lunedi.

Il Giornale 20.2.13
Massimo Cacciari
«Pensiero debole o realismo? Solo mode, io sto con Colli»
intervista di Bruno Giurato

qui

martedì 19 febbraio 2013

Una lettera al Direttore di Pier Luigi Bersani
Corriere 19.2.13
Bersani: investire in conoscenza o il Paese si «de-sviluppa»


Caro direttore,
ho letto con attenzione l'appello della Crui. Le proposte sono condivisibili e trovano ampio spazio nel programma del Pd (www.partitodemocratico.it/universita), che parte proprio dai dati drammatici messi in evidenza dal «Corriere della Sera». Se toccasse a noi governare, la nostra azione prenderà le mosse da un'attenta rilettura del Rapporto Giarda, secondo il quale istruzione e ricerca sono le uniche voci del bilancio pubblico calate drasticamente (-5,4 per cento) negli ultimi vent'anni. Investire in conoscenza non è una scelta come un'altra: è la base della crescita culturale, economica e sociale di un Paese. Le «infrastrutture del futuro» hanno bisogno delle risorse per una netta inversione di tendenza. Ferma restando la lotta agli sprechi, vi sono altre le voci di spesa che possono dare un contributo da utilizzare per questo fine. Il cuore del cambiamento dell'università sono le persone. Anzitutto, gli studenti. Un giovane che vuole studiare e deve rinunciare perché non può permetterselo subisce una ferita profonda e irrecuperabile nei suoi diritti e nella sua dignità. Il suo dramma riguarda tutti, ci segnala che l'ascensore sociale si è rotto. O lo ripariamo, oppure accettiamo un destino di «de-sviluppo», di ignoranza diffusa e di iniquità sociale. La Strategia Europa 2020 prevede il 40 per cento di laureati tra i 30 e 34 anni. La media Ue è vicina al 35 per cento. In Italia siamo intorno al 20 per cento — in molte regioni ben al di sotto — e nell'ultimo anno i diplomati che si iscrivono all'università sono calati del 10 per cento. Oggi solo il 10 per cento dei giovani italiani con il padre non diplomato riesce a laurearsi, contro il 40 per cento in Gran Bretagna e il 35 per cento in Francia. Noi non ci rassegniamo a una società dove le possibilità non sono conquistate con il lavoro e la competenza, ma ereditate soltanto dai genitori come un bene di famiglia. Per questo proponiamo un Programma nazionale per il merito e il diritto allo studio, che ci porti in Europa anche da questo punto di vista: ora soltanto il 7 per cento dei nostri studenti riceve una borsa di studio, contro il 25-30 per cento di Francia e Germania. Le tasse universitarie devono essere più progressive e riportate nella media Ue, il che significa ridurle nettamente (siamo al terzo posto in Europa nella classifica europea). Veniamo ai docenti: l'università è il luogo di una gigantesca questione generazionale, da affrontare con decisione. Superati i trent'anni non si è più «ragazzini» e si merita rispetto e concretezza, non un limbo di precarietà senza prospettive. Perciò bisogna superare la paralisi del sistema rimuovendo subito gli attuali vincoli al turnover e stabilendo modalità di accesso alla docenza trasparenti e rapidi. Diciamo forte e chiaro che garantiremo la massima rigidità sulle attività gratuite nell'università, perché il lavoro deve essere sempre retribuito e dignitoso per tutti. Infine, la «macchina»: il cammino dell'autonomia è stato abbandonato per un ipercentralismo burocratico e verticista, invece di essere corretto nella direzione di un'autonomia responsabile. Per questo modificheremo profondamente la legge 240, per portare semplicità e diritti: oltre a modificare le norme su diritto allo studio, reclutamento e governance, smantelleremo le norme antiautonomistiche per liberare gli atenei da una gabbia burocratica che ostacola anche il rapporto con imprese e territorio. Per il rilancio dell'università, il Partito democratico non ha da offrire illusioni e favole, ma proposte concrete. Le politiche degli altri Paesi europei mostrano che per uscire dalla crisi servono risorse e riforme. Nell'Italia giusta, ridare dignità e speranza alle istituzioni della conoscenza non è una politica settoriale, ma la consapevolezza che il lavoro e lo sviluppo si costruiscono con i mattoni dell'istruzione, della ricerca e dell'innovazione.
Pier Luigi Bersani
leader del Partito democratico

l’Unità 19.2.13
Bersani: «Con Grillo e Pdl si va alla deriva»
Il leader Pd contro le sparate dell’ex comico: «È antipolitica, come tutti i populismi è di destra»
Renzi contro Ingroia: «Tradisce i giudici perbene. In Guatemala hanno stappato champagne»
di Simone Collini


C’è una cosa, dei sondaggi che continuano a ricevere, che li preoccupa. Non sono le intenzioni di voto degli elettori di Lombardia e Sicilia, anzi. Né è la possibile rimonta di Berlusconi, che nonostante i suoi annunci di «sorpasso» si è da tempo arrestata. Ciò a cui i vertici del Pd guardano con molta attenzione è il dato degli indecisi. E a come modificandosi questo, si modifichi la percentuale di possibili consensi per Beppe Grillo. Il timore è che una fetta consistente di elettori delusi dalla politica opti non per l’astensione ma per il voto di protesta. Non a caso, in questi ultimi giorni di campagna elettorale, la strategia comunicativa in parte avrà una correzione e si intensificherà l’offensiva nei confronti delle «sparate» del comico genovese.
Muovendosi tra Gioia Tauro, Vibo Valentia e Cosenza, Pier Luigi Bersani ne dà una prima dimostrazione, parlando sì del fallimento della destra alla prova del governo, dei danni provocati soprattutto nel Mezzogiorno da un ventennio di Berluscon-leghismo, della totale mancanza di credibilità dell’ex premier, ma mettendo in guardia anche dal pericolo rappresentato dalle tesi propinate di piazza in piazza da Grillo. «Io capisco le ragioni di tanta gente che è arrabbiata, ma questa gente non puoi prenderla in giro», dice il leader del Pd, accusando il leader del Movimento 5 Stelle di voler lucrare sulla sfiducia e anche disperazione che investe tanti per arrivare a una situazione di instabilità e ingovernabilità. «Grillo è uno che non ha mai risposto ad una domanda in vita sua e questo ci porterebbe fuori dalle democrazie, è uno che tranquillamente dice via dall’euro, non paghiamo i debiti, mille euro a tutti per tre anni, e questo ci porta verso la Grecia». E ancora: «Chi ha i soldi, chi è miliardario, può anche vincere sulle macerie, ma la gente normale non può essere presa in giro. Io dico che ci vuole un governo di cambiamento, ma un governo ci vuole. Non si possono invocare le macerie». E poi, visto che da diversi studi è emerso che una quota di elettori di M5S viene da sinistra, il leader del Pd dedica questo passaggio alla questione della collocazione politica di Grillo: «È antipolitica, che come tutti i populismi finisce sempre a destra».
Che non si tratti di un semplice sfogo di Bersani ma di una strategia precisa lo dice il fatto che anche il resto del gruppo dirigente del Pd va all’attacco del comico. Compreso Matteo Renzi, che ironizza sul nome e sull’annullamento dell’intervista a Sky dicendo: «Più che Grillo mi sembra un coniglio, per aver deciso di non andare in tv».
Il sindaco di Firenze, che domani parteciperà con Bersani e Rosario Crocetta a un’iniziativa elettorale a Palermo, non nega che su alcune questioni Grillo abbia «ragione», però sottolinea subito dopo che «il suo metodo non è democratico». Dice Renzi, che non risparmia bordate a Ingroia perché «tradisce il lavoro di tanti giudici perbene» («in Guatemala quando se n’è andato hanno stappato una bottiglia di quello buono») e ha dato vita a «una lista di collocamento dei leader falliti della sinistra»: «Non mi stupirei se Grillo fosse il terzo o addirittura il secondo partito alle prossime elezioni, ma il voto a Grillo mette a posto la coscienza non il Paese».
IL PATTO CON I CITTADINI
Per mettere a posto il Paese o, come dice Bersani, per «aggiustare l’Italia», servono quello che il leader del Pd definisce «un governo da combattimento», e anche «serietà e verità, non le favole che da più parti continuano a propinarci». Per questo, al di là degli aggiustamenti per alzare il tiro su Grillo, non modificherà né il messaggio fondamentale di questa campagna elettorale né la strategia delle alleanze.
Ecco perché a Monti, che dice di non avere niente in comune con la coalizione di centrosinistra, e a Casini, che dice che i progressisti di oggi sono uguali all’Unione di Prodi, replica in modo duro. «La coalizione che guido e di cui fa parte anche Vendola, ma non solo, ha stretto un patto davanti a 3 milioni e 200 mila persone. Siamo gente seria, non è pensabile che chi non ha preso nessun impegno paragonabile al nostro, parli tutti i giorni di Vendola». E poi: «L’Unione erano 12 partiti e non c’era il Pd, che è di gran lunga il primo partito del Paese. Noi abbiamo fatto le primarie di coalizione, abbiamo un documento che certifica l’accettazione di una cessione di sovranità, siamo in una situazione del tutto diversa. La nostra coalizione è solida e durerà, le altre no».
NO A BALLETTI SUL CONFRONTO TV
Ora Bersani va al rush finale continuando ad alternare le trasferte nelle regioni chiave per ottenere la maggioranza al Senato (oggi è in Lombardia, domani in Sicilia, dopodomani in Campania) con i passaggi televisivi (oggi su La7 in prima serata e a “Porta a Porta” in seconda serata). Non è invece intenzionato a cedere né alle pressioni di Berlusconi per fare un faccia a faccia televisivo a due né a quelle di Monti per fare un confronto a tre. «Sono disponibilissimo a un confronto con tutti. Cosa vuol dire confronto a due, a tre? Finiamola con il balletto. Ogni giorno qualcuno se ne inventa una», sbotta davanti ai giornalisti che a Gioia Tauro gli chiedono cosa risponda a ex e attuale premier. «Sono aperto al confronto con tutti. Se accettassi non saprei come rispondere agli altri candidati, come Giannino o Ingroia. Sono disponibilissimo al confronto, così come abbiamo fatto durante le primarie, ma con tutti. Questa è una posizione chiara e logica». E Monti che insiste sul confronto soltanto con i due dati dai sondaggi in testa? «Vorrei tranquillizzare Monti che io non ho problemi a fare il confronto tv. Però un conto sono i sondaggi, un conto sono le elezioni. Tutti devono avere pari condizioni, diamoci qualche regola civile».

l’Unità 19.2.13
Alberto Asor Rosa
«Con le elezioni è possibile un’inversione di rotta
Un ritorno alle urne in tempi brevi segnerebbe l’ingresso dell’Italia
nella fase più oscura della sua storia»
«Serve una vittoria piena. Il rischio è la crisi greca»
di Rachele Gonnelli


Riprendere la voce per evitare la catastrofe. Alberto Asor Rosa in realtà la sua voce e la sua penna non ha mai cessato di usarle, e oggi crede fermamente che si debba «fare di tutto, con tutte le forze, a tutti i costi, perché il centrosinistra esca dal voto con una maggioranza autosufficiente».
Quale scenario vede? Il centro studi di Mediobanca parla di un nuovo ritorno alle urne, stile Grecia. È questo?
«Quanto alle previsioni non so, faccio riferimento a impressioni che si possono avere in superficie da ciò che si legge sui giornali e si vede in televisione. È chiaro che un eventuale ritorno al voto sarebbe una catastrofe e non è da escludere ma bisogna fare di tutto per evitarlo. Questo è uno dei motivi del nostro appello che sono scritti esplicitamente nel testo. Il ritorno alle urne rappresenterebbe l’ingresso dell’Italia nella fase più oscura della sua storia».
Perciò gli intellettuali sono usciti dal silenzio? Lei ha lanciato la Piattaforma Toscana per la difesa del paesaggio e dell’ambiente e Rodotà la Commissione sui beni comuni, la giustizia e il reddito di cittadinanza.
«Le cose fatte da Stefano Rodotà e da me, insieme ad altri, con la costituzione di una rete di comitati per la difesa del territorio appartengono ad una medesima sfera, una sfera diciamo extra istituzionale cresciuta negli ultimi anni anche in considerazione del fatto che la sfera istituzionale, la sfera dei partiti, è risultata in gran parte impenetrabile da quest’altro mondo. In questa nuova sfera le divisioni partitiche e di voto contano poco e non a caso si è parlato di società civile che si autorganizza. Sono stato invitato venerdì scorso al Teatro Valle da Rodotà e ci sono molti punti di contatto tra ciò che stiamo facendo perciò ho preso l’impegno a rivederci presto. Ciò non impedisce ad alcuni di noi io e Rodotà ma anche Piero Bevilacqua e gli altri che hanno sottoscritto l’appello di pronunciarci anche sulla politica partitica e istituzionale invece di rimanere silenziosi su questo». Lei non ha mai rinunciato a essere molto critico verso il centrosinistra e verso il suo maggiore partito, che cosa è cambiato?
«Su questo devo rispondere per me anche se cerco di interpretare anche il pensiero degli altri che hanno aderito all’appello al voto per il centrosinistra. Sono persuaso che nessuno intenda sottoscrivere toto corde la politica e gli orientamenti delle formazioni che costituiscono il centrosinistra, per intenderci né il Pd né Sel. Il nostro ragionamento non è un’apertura di credito illimitata. È la sottolineatura dell’urgenza di una scelta che renda possibile aprire le porte a una discussione complessiva degli assetti del centrosinistra italiano nel suo complesso. È la scelta di una strada per riaprire una discussione che oltre al Pd e a Sel riguardi anche i tanti movimenti che agiscono nella realtà sociale del Paese».
Parla di «Cambiare Si Può»? A chi non vuole andare a votare? A chi vi rivolgete?
«Cambiare Si Può è uno dei movimenti, ce ne sono anche altri che si battono per la difesa dei territori, per cause di diritto, nella grande battaglia per l’acqua bene comune. C’è un universo complesso, che si vede ma che non è rappresentato, perché le forze politiche non lo hanno saputo cogliere. Vincere le elezioni per me, per noi, potrebbe significare riaprire un discorso strategico di più vasta portata. L’appello si rivolge alla cittadinanza nel suo complesso». Si rivolge anche agli elettori di Grillo? «I firmatari scartano come prodromica alla catastrofe di cui parlavo all’inizio una affermazione di Grillo. Distinguerei però la predica del populismo insurrezionale dalla massa dei consensi che in questo momento riceve perché i partiti “tradizionali” non hanno saputo raccogliere lo spirito che la anima o perché identificati con un debito istituzionale. Si può lavorare in questo senso e con l’appello ci siamo rivolti anche a coloro che tra demotivazione e protesta non vedono un’altra strada rispetto al catastrofismo grillino». Siamo tornati a declinare il concetto di catastrofe. Negli anni scorsi lei parlava soprattutto di «potere affaristico-delinquenziale». È ancora il protagonista di ciò che rischiamo?
«Ne è una delle componenti. La decadenza italiana ha prodotto effetti a grappolo. Uno che emerge di continuo dalle procure è rappresentato dalla rottura diffusa di ogni regola sia etica sia politico-istituzionale. Anche per questo c’è bisogno di reagire con una fase di buon governo».
Rischia ancora la dissolvenza il nostro sistema democratico?
«Queste elezioni sono un passaggio decisivo per questa parte della vicenda. Direi che queste votazioni tendono a determinare con esattezza se andremo ancor più verso la dissolvenza del sistema politico-istituzionale italiano e in buona sostanza della democrazia o se riusciremo a fare il giro di boa attorno all’ostacolo. Vorrei aggiungere una cosa».
Cosa?
«Sarei moderato sugli obiettivi da raggiungere. Quello che si può sperare di conseguire non è un grande successo ma un’inversione di rotta. Che può avviare, con forza di volontà e attenzione, un processo di mutamento della realtà politica e istituzionale. Il voto non è un punto d’arrivo ma di partenza».

Corriere 19.2.13
Elezioni, il peso degli incerti
Voto, 5 milioni scelgono all'ultimo minuto
Il 30% ancora non ha deciso se votare o per chi
di Renato Mannheimer


In questi giorni non si possono comunicare i risultati dei sondaggi in corso sulle intenzioni di voto. Ma vi è un dato, pure emerso dagli studi che vengono comunque effettuati anche in questo periodo, del quale si può (e vale la pena) parlare. Lo hanno peraltro anche evocato diversi leader politici nelle loro ultime dichiarazioni. Si tratta del permanere, a pochissimi giorni dal voto, di un numero relativamente elevato di persone che dichiarano tuttora di essere indecise o tentate dall'astensione. Nei mesi scorsi, costoro risultavano ancora di più: a novembre-dicembre raggiungevano — e in certi casi superavano — la metà dell'elettorato. Poi sono gradualmente diminuite. Ma, secondo le ultime rilevazioni, la numerosità di costoro si avvicina ancora al 30%. Vale a dire che, sino a questo momento, quasi un cittadino su tre non ha deciso se e chi votare. Si tratta in larga misura di donne, meno giovani di età, con titolo di studio relativamente basso, spesso residenti al Sud, di professione casalinghe o pensionate e, specialmente, molto poco interessate alla politica. Ne è prova anche il fatto che più di metà degli attuali indecisi o potenziali astenuti dichiara di sentirsi estraneo al posizionamento sul continuum destra-sinistra e si rifiuta (o non è in grado) di collocarsi in una posizione specifica su questa dimensione: insomma, non sa se è di destra, di centro o di sinistra.
Anche per questo, è ragionevole ipotizzare che molti cittadini che si dichiarano indecisi o potenzialmente astenuti sceglieranno alla fine di disertare per davvero le urne: una larga quota di costoro lo ha già fatto in passato e potrebbe confermare questa scelta. Ma una parte, invece, si deciderà a votare. Se si ipotizza che la partecipazione elettorale sarà grosso modo come quella registrata alle ultime consultazioni politiche nel 2008, vale a dire attorno all'80% (osservando i trend della partecipazione alle consultazioni degli ultimi anni, potrebbe però diminuire di un punto o due), si deduce che un altro 10% circa di elettori, cioè più o meno cinque milioni di persone, non ha ancora maturato la propria scelta di voto e che lo farà, probabilmente, negli ultimi giorni.
Peraltro, questa è una consuetudine per una larga parte di cittadini, che si ripete di elezione in elezione. Interrogati, subito dopo le ultime consultazioni, sul momento preciso in cui avevano assunto la loro decisione di voto, molti elettori hanno dichiarato di avere maturato una scelta finale solo all'ultimo momento. In particolare, in occasione delle politiche del 2008, il 12% ha affermato di avere individuato chi votare davvero solo nell'ultima settimana e un altro 8% addirittura il giorno stesso del voto. Nelle Europee del 2009 il numero di decisori «last minute» risulta ancora maggiore: rispettivamente il 14% nell'ultima settimana e il 13% il giorno del voto. Persino molti degli astenuti hanno dichiarato di avere assunto la scelta di disertare le urne negli ultimi giorni prima del voto: si tratta di più dell'11% nelle politiche del 2008 e di oltre il 13% nel 2009.
Insomma, una quota rilevante di cittadini — più di quanto non emerga dai sondaggi in corso e inclusa dunque una parte di quanti dichiarano di avere (forse) già deciso — arriva alla scelta definitiva solo all'ultimo momento, anche in base alle dichiarazioni (e alle promesse) di questo o quell'altro candidato.
Per questo, le battute finali della campagna elettorale saranno decisive per la scelta di molti. Proprio la frequente lontananza dal dibattito politico di buona parte degli indecisi (o potenziali astenuti) li rende sensibili — e per certi versi permeabili — alle proposte dell'ultim'ora, in una certa misura indipendentemente (o quasi) dallo schieramento o dal partito da cui provengono. Non a caso tutti i leader politici stanno cercando di persuadere, con le promesse più varie, questo importante residuo target di elettori. È evidente, al tempo stesso, che le scelte di costoro potranno modificare forse anche radicalmente il quadro che emerge dai sondaggi (inutilmente — e solo parzialmente — segreti) di questi giorni.
Il risultato elettorale di domenica prossima è ancora difficilmente prevedibile.

Corriere 19.2.13
Usare i numeri o «buttarsi» sulla Rete
L'ultima scommessa degli spin doctor
di Alessandro Trocino


ROMA — Si chiamano spin doctor, specialisti nel fare girare (spin) il vento dalla parte giusta, orientando (c'è chi dice manipolando) l'opinione pubblica. In molti Paesi sono la norma da anni. Da noi cominciano a far parte del panorama: se Klaus Davi è stato consigliere di Piero Fassino, Giorgio Gori lo è stato di Matteo Renzi. Il «contratto con gli italiani» fu suggerito a Berlusconi (che si avvalse anche di Karl Rove, consigliere di Bush) da Luigi Crespi, lo stesso che è stato appena congedato da Gianni Alemanno. Il sindaco aspirava a un'immagine più «renziana» ma Crespi lo ha gelato così: «D'accordo, ma tu non sei Renzi». E poi: «La comunicazione è un problema minore: se la metro B1 si ferma, non è colpa mia». Ma tra immagine e sostanza, retorica e propaganda, tutti i candidati affidano molte delle speranze residue per questo rush finale a esperti, che si guardano bene dall'indicare una soglia elettorale soddisfacente.
Il caso di Beppe Grillo è noto. Gianroberto Casaleggio è considerato da molti qualcosa di più di uno spin doctor, una figura a metà tra un guru e un visionario della rete. Nessuna presenza mediatica diretta, niente interviste, ma influenza decisiva per orientare il web e non solo.
Pier Luigi Bersani ha affidato la comunicazione del partito a Stefano Di Traglia. Cosa cambierà negli ultimi giorni? «Solo la tattica, non la strategia. La posta in gioco sono gli indecisi. Ma Bersani non insisterà troppo sul voto utile, perché sono tutti utili, piuttosto sul voto giusto. Il messaggio da far passare è che siamo a una svolta drammatica. Parleremo agli arrabbiati e spiegheremo che ci saranno giorni difficili e solo un governo stabile saprà affrontarli».
Punto debole di Bersani, ora, sono le alleanze. Tony Servillo (nella versione gemello «pazzo» che prende il posto del leader democratico in difficoltà) — nel film ora in sala, «Viva la libertà» — fa a meno dei consigli dello spin doctor (Mastandrea) e fa schizzare i sondaggi con una risposta un po' renziana: «L'unica alleanza che dobbiamo fare è con la coscienza della gente». E cita Brecht. Del resto, come diceva Mario Cuomo, «le campagne elettorali si fanno con la poesia, mentre si governa con la prosa».
Renato Brunetta, consigliere economico di Silvio Berlusconi (che è spin doctor di se stesso), di poesia non vuol sentir parlare: «Parliamo invece di cifre. E continueremo così. La politica estera è importante ma non è sexy. Del resto quasi ogni italiano ha un contenzioso con Equitalia». Obiettivo: portare a casa il voto degli indecisi. «E impedire a Bersani e Monti di avere la maggioranza al Senato».
Antonio Ingroia si è affidato a Stefano Epifani, docente della Sapienza: «Puntiamo tutto sull'online, visto l'ostracismo dei media». Tra gli obiettivi, spiegare agli italiani che intorno a Ingroia c'è un partito: «Per questo parliamo molto di programma e lanciamo campagne a tema, come quella contro l'F35. Usiamo molto i social network. Che molti politici purtroppo usano come il fast food del voto: martellano una settimana prima delle urne e poi li abbandonano il giorno dopo».
Oscar Giannino (che fu spin doctor di La Malfa e Spadolini) si è rivolto all'agenzia «Politiche pubbliche». Che ha dovuto fare i conti con la realtà, come spiega Paco Simone: «Non avendo risorse, abbiamo scelto armi non convenzionali». Come le pièce teatrali con Giannino protagonista. Cinquanta minuti con uno scopo preciso: «Superare l'accusa di avere un programma tutto economico, difficile: è uno spettacolo divertente e ironico». Mario Monti ha indicato come spin doctor, ironicamente ma non troppo, la moglie Elsa. Ma c'è una squadra di cento volontari che lavorano per lui. Tra loro, inviati dell'agenzia di Axelrod, il guru di Obama. Il campaign manager è Mario Sechi, ex direttore del Tempo. Molti hanno notato la svolta: dal rigore un po' penitenziale ai sorrisi tv, con cagnolini al seguito e alle risposte a muso duro. Ora si torna all'antico: «Senza rinunciare a essere pugnace — spiega Sechi — Monti si concentrerà sulle proposte concrete, cercando di convincere gli indecisi». Del resto, l'effetto sorpresa è stato già sfruttato: «Chi si aspettava da uno restìo come Monti una campagna così forte, tra la gente e in tv?». Merito (o colpa) anche degli spin doctor.

Corriere 19.2.13
Alle urne sotto la neve Il meteo diventa decisivo
L'ipotesi: più penalizzati i partiti «tradizionali»
di Dino Martirano


ROMA — Arriva l'«Orso siberiano» e l'Italia, spaccata a metà, andrà a votare con le scarpe da neve al Nord, con l'ombrello al Centro e, forse, in maniche di camicia al Sud. Nella storia repubblicana, è la prima volta che le urne si aprono in pieno inverno: per questo partiti e sondaggisti tengono d'occhio, con qualche punta d'ansia, le previsioni del tempo. Che sono bruttine a partire da giovedì 21, in peggioramento per venerdì 22 con «neve copiosa al Nord» e in Toscana, mentre domenica sono previste nevicate anche a quote basse a Nordovest e in Emilia. Insomma, il fattore meteo stavolta avrebbe una sua influenza sull'esito del voto anche perché se l'Italia invecchia diventa più anziano anche il corpo elettorale: gli ultrasessantenni sono circa 15 milioni e rappresentano il 30% degli aventi diritto. Quanti di loro non andranno al seggio se, domenica e lunedì mattina, le condizioni del tempo saranno proibitive?
Dipende dalla regione interessata dal maltempo e dall'efficienza dei sistemi di trasporto pubblico, spiega il sondaggista Nicola Piepoli, che racconta un aneddoto tutto milanese: «In vita mia, ho visto solo due volte il tram della linea 24 deragliare a causa della neve. Bene, in tutte e due le occasioni, io e gli altri passeggeri siamo scesi dalla vettura e abbiamo continuato a piedi...». Eppure, nonostante la spiccata attitudine dei settentrionali a cavarsela bene con pioggia, neve e ghiaccio, è vero che il maltempo potrebbe penalizzare di più i partiti di governo (Pdl, Pd, Lista Monti e centristi) rispetto alle forze politiche del cosiddetto polo dello «Stato nascente» (Movimento Cinque Stelle, Rivoluzione civile, Fare per Fermare il declino)? «È ovvio», spiega Piepoli, «perché l'elettorato movimentista è più giovane, più vivo, e quindi maggiormente disposto ad affrontare qualsiasi tipo di tempo». E i numeri non sono indifferenti, va avanti il sondaggista: «Su 15 milioni di anziani, con condizioni metereologiche normali, probabilmente andranno votare 12 milioni di ultra sessantenni... Ma se cade tanta neve, potrebbe succedere che i votanti con i capelli bianchi calino a 10 se non a 9 milioni...».
Se dovesse essere davvero questo il dato di un'affluenza in calo a causa del maltempo, tra Pdl e Pd chi perderà di più? «Esattamente nella stessa misura», ipotizza il vicepresidente dell'Swg di Trieste, Maurizio Pessato, che non prevede grandi scostamenti sulla percentuale dei votanti. Invece il professore Roberto D'Alimonte, che insegna Scienze del governo e della comunicazione pubblica alla Luiss, ritiene che il «cattivo tempo penalizzerebbe di più l'elettorato di Berlusconi» perché «si tratta di persone generalmente meno motivate rispetto a chi vota per il centrosinistra». E poi ci potrebbe essere un effetto maltempo più accentuato sulla Lega che ha il suo elettorato concentrato al Nord dove le previsioni meteo sono più critiche.
I grandi partiti, comunque, dicono di non aver paura del cattivo tempo anche se in casa Pdl si registra qualche apprensione in più. «Ormai la data del voto è fissata e ce la teniamo», osserva il responsabile della macchina elettorale Ignazio Abrignani che è in giro nelle Marche per la campagna elettorale: «Qui nelle Marche, per esempio, nei centri più in alto ci potrebbe essere qualche problema con la neve e il maltempo...». Per Maurizio Migliavacca, storico capo della macchina elettorale del Pd, il maltempo invece «non provocherà scostamenti significativi sui dati dell'affluenza» anche perché, «tra la domenica e lunedì mattina, ci si può organizzare per uscire di casa».

l’Unità 19.2.13
Rivolta nel Cie di Roma Arrestati otto immigrati
Sono gli «ospiti» del centro di identificazione di Ponte Galeria
Appiccato un rogo sul tetto bruciando materassi. Ferita una poliziotta
di Luciana Cimino


Ancora una rivolta al Cie di Ponte Galeria, periferia di Roma. Stavolta a scatenare la rabbia di un gruppo di detenuti nigeriani è stato il tentato rimpatrio di uno di loro. Victor, questo il nome del ragazzo, si è opposto al decreto di espulsione, «la sua resistenza alle forze dell’ordine riferisce il garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni ha causato la reazione degli agenti e gli altri ospiti nigeriani che hanno assistito alla scena e messo a ferro e fuoco il settore maschile, causando ingenti danni».
Il gruppo si è asserragliato in una parte della struttura impedendo l’accesso dall’esterno, alcuni hanno dato alle fiamme materassi e suppellettili, altri sono saliti sui tetti. Il rogo che ha sprigionato una lunga colonna di fumo nero, è stato domato dai vigili del fuoco. Otto 8 di loro sono stati arrestati e uno denunciato. Una poliziotta è rimasta ferita ad una mano ed è dovuta ricorrere alle cure mediche.
«I nigeriani sono gli immigrati più presenti al Cie: rappresentano il 40% della popolazione maschile, con 43 ospiti su 132», spiega Marroni che racconta anche come «per tutta la durata degli incidenti gli ospiti delle altre nazionalità sono rimasti alquanto indifferenti». «La situazione a Ponte Galeria è esplosiva, il Cie è una polveriera», dicono le associazioni di diritti umani.
La rivolta di ieri non è infatti che l’ultimo degli episodi di tensione nel centro capitolino: nel marzo 2012 i migranti hanno effettuato un lungo sciopero della fame per protestare contro il suicidio di un ex recluso, l’anno precedente ci fu invece una evasione di massa. Ma frequentissimi sono soprattutto gli atti di autolesionismo. «La settimana scorsa non siamo potuti entrare nel reparto maschile per questioni di sicurezza», dice Gabriella Guido, della campagna «LasciateCIEntrare». «C’è grossa frustrazione e i detenuti sono imbottiti di psicofarmaci per sopportare un tempo di negazione di se stessi infinito». Il Pd a gran voce chiede di rivedere la legge sull’immigraizone clandestina. Lo chiede David Sassoli, candidato alle primarie per sindaco di Roma, ma anche Jean Leonard Touadì che nota: «non si può tacere sul fatto che tragedie come questa siano solo il frutto di una legislazione miope, demagogica, disumana e irrazionale. Tutti sono vittime, dalle forze dell’ordine ai detenuti, di un sistema inaccettabile».
È stata, dice anche Khalid Chaouki, responsabile Nuovi Italiani del Pd «l’ultima disperata reazione da parte di persone stanche di essere recluse senza prospettive certe per diciotto lunghissimi mesi, conseguenza di un ’cattivismo’ targato Maroni-Berlusconi».Lo stesso Rivoluzione Civile e Sel che, con Luigi Nieri che cita Erri de Luca («centri di infamia estrema») e Gian Luca Peciola, chiede di chiudere al più presto queste strutture. E al sindaco Alemanno che parla di Cie «necessari per contrastare l’immigrazione abusiva e illegale degli extracomunitari», risponde Alberto Barbieri, coordinatore generale di Medici per i diritti umani (Medu), «non è vero che sono necessari, anzi sono inefficaci e lesivi della dignità della persona».
Nel 2012 sono stati trattenuti nei Cie 8mila stranieri, di questi ne sono stati rimpatriati 4 mila, «cioè uno su due dice Barbieri è un atto di inefficienza altissimo che dimostra come il prolungamento a 18 mesi sia sbagliato. Rispetto all’anno precedente c’è stato un aumento dello 0.3 di rimpatri a fronte di un peggioramento sostanziale delle condizioni di vita e un aumento delle tensioni». «Il peggioramento condizioni di vita ha creato un circolo vizioso: i migranti protestano e quindi le forze dell’ordine reprimono e le istituzioni rispondono con maggiori divieti, che soffocano ancora di più. A Ponte Galeria non si possono tenere libri, giornali, pettini, l’aggressività aumenta e la scaricano o verso la struttura o verso se stessi. Inerzia coatta genera tensione». Guido ricorda che «il tribunale di Crotone ha assolto 3 cittadini stranieri dopo la rivolta nel cie della cittadina calabrese perché ha riconosciuto lecito protestare rispetto a condizioni di vita degradanti e lesive della dignità umana» e rilancia l’appello “Mai più Cie” rivolto ai parlamentari della prossima legislatura, «devono prendere atto che questi centri non vengono rispettati diritti umani e gli standard minimi di dignità della persona, come ha anche stabilito la Corte Europea, è cambiare il sistema di leggi vigente». «Il Cie di Ponte Galeria spiegano i Medu è il paradigma della situazione perché è il più grande e porta con sè tutte le contraddizioni della detenzione amministrativa che è uno strumento inutile e un buco nero della civiltà»

l’Unità 19.2.13
Diritto di asilo negato, «in Italia mancano gli alloggi»
di Lu. Ci.


ROMA L’Europa non può dirsi solidale con chi scappa da guerre e persecuzioni. A 10 anni dall’entrata in vigore del Regolamento Dublino, che identifica lo Stato europeo competente per la decisione sulla domanda d’asilo, le istituzioni e le associazioni che si occupano di rifugiati dicono «ha fallito e va cambiato». Già la Commissione per i diritti umani del Consiglio d’Europa si era espressa negativamente ora è il Consiglio Italiano per i Rifugiati (Cir), con Forum Réfugiés-Cosi, ECRE, Hungarian Helsinki Committee, e altri partner, a pubblicare un rapporto su come il regolamento viene applicato dai diversi stati. Lo studio dimostra come permangano problemi e incongruenze nella gestione del sistema e come queste costituiscano un danno sia per la persona che richiede aiuto che per i Paesi membri.
La ricerca analizza la situazione in 11 stati della Ue e conclude elencando le conseguenze del sistema Dublino sui richiedenti asilo: le famiglie sono separate, le persone vengono lasciate senza mezzi di sostentamento o detenute e, nonostante le norme, l’accesso alla procedura d’asilo non è sempre garantito. Il risultato è che chi chiede la protezione dell’Europa si ritrova una sorta di “vita sospesa”, senza diritti ma colma di ansia. Spesso non si tiene conto nell’accoglimento della domanda, della presenza di altri familiari sul territorio europeo e se lo si fa è con una interpretazione restrittiva, in violazione della Convenzione europea sui diritti umani. In Italia il problema più evidente è la mancanza di alloggi che costringe gran parte dei richiedenti asilo a dormire all’addiaccio. Solo nella capitale le sono senza un tetto 1500 persone in attesa dello status di rifugiato. Nel 2011 il nostro Paese ha ricevuto 37.350 richieste di asilo, a fronte di un sistema che è in grado di alloggiare solo tremila persone. I richiedenti asilo spesso non vengono neppure sottoposti a visite mediche e non sempre vengono informati correttamente sulle procedure. Meno della metà dei trasferimenti concordati sotto Dublino sono realmente portati a termine e nessun dato sul costo finanziario dell’ applicazione del Regolamento è stato mai pubblicato. Inoltre le disparità di trattamento nei diversi paesi sono vistose ma in generale i richiedenti asilo sono trattati come persone di serie B, con pochi diritti. Nove paesi su undici ricorrono anche alla detenzione durante la procedura. «La futura adozione del Regolamento Dublino III contiene dei miglioramenti, come il diritto ad un colloquio personale, ma mantiene i principi di base e non affronterà tutte queste carenze», commenta il Cir che chiede di rivedere «in maniera strutturale» il regolamento per «disegnare un sistema più equo e umano che consideri il caso individuale dei richiedenti asilo e favorisca la loro integrazione in Europa».

Corriere 19.2.13
«Numero chiuso» anche in carcere se la cella è affollata
Il Tribunale solleva il caso alla Consulta
di Luigi Ferrarella


MILANO — Carceri a numero chiuso come «unico strumento per ricondurre nell'alveo della legalità costituzionale l'esecuzione della pena» se le condizioni detentive sono «contrarie al principio di umanità»: mentre sui 66 mila detenuti in 47 mila posti il legislatore latita e i partiti tacciono a dispetto dei richiami del capo dello Stato e delle inascoltate denunce dei radicali, con una ordinanza senza precedenti un Tribunale di Sorveglianza italiano, quello di Padova, solleva d'ufficio una questione di incostituzionalità. E chiede alla Consulta una sentenza «additiva», che cioè dia ai giudici la facoltà di sospendere e rinviare l'esecuzione in carcere della pena di un detenuto non soltanto quand'essa potrebbe determinare «grave infermità fisica» (unico evento oggi contemplato dalla legge), ma anche nei casi in cui verrebbe scontata in condizioni intollerabili di sovraffollamento e dunque si risolverebbe in «trattamenti disumani e degradanti», secondo la definizione della Corte europea dei Diritti dell'uomo di Strasburgo nelle sentenze che hanno condannato già due volte l'Italia per aver lasciato ai carcerati meno di 3 metri quadrati a testa.
L'espressione «numero chiuso» naturalmente non compare mai nella dotta ordinanza redatta dal giudice Marcello Bortolato nel collegio presieduto da Giovanni Maria Pavarin. Ma sarebbe la conseguenza pratica se la Consulta accogliesse la questione: come negli Stati Uniti, dove la Corte Suprema nel 2011 ha confermato l'ordine che nel 2009 una Corte federale aveva intimato al governatore della California di ridurre di un terzo la popolazione carceraria in base all'ottavo emendamento della Costituzione americana che vieta le pene crudeli; o a come in Germania, dove sempre nel 2011 la Corte costituzionale ha richiamato il dovere di interrompere reclusioni «disumane» se le soluzioni alternative sono improponibili.
Il dilemma postosi al Tribunale padovano riguardava una richiesta di sospensione e differimento della pena avanzata da un detenuto che, dopo 33 giorni con a disposizione 3,03 metri quadrati nella casa di reclusione di Padova (889 presenze contro 369 posti regolamentari), era stato trasferito nella casa circondariale (226 detenuti contro una capienza di 104) per 9 giorni con 2,43 mq a disposizione, e per 122 giorni con 2,58 mq di spazio, peraltro in concreto ridotti dal mobilio. Comunque sempre meno dei 3 mq a testa che Strasburgo (nelle sentenze Sulejmanovic e Torreggiani di condanna dell'Italia nel 2009 e 2013) ha ritenuto parametro vitale minimo al di sotto del quale c'è violazione flagrante dell'articolo 3 della Convenzione dei Diritti dell'uomo e dunque, per ciò solo, «trattamento disumano e degradante».
Il Tribunale muove dalla propria impotenza: deve eseguire una pena che sa disumana e degradante, ma non può evitarlo perché l'articolo 147 (invocato dall'avvocato Diego Bonavina) consente di rinviare l'esecuzione della pena solo in caso di grave malattia. Eppure, ragionano i giudici, mentre la pena resta legale anche se la rieducazione verso la quale deve obbligatoriamente tendere non viene raggiunta, il fatto che essa non possa consistere in un trattamento contrario al senso di umanità significa che «la pena inumana non è legale, cioè è "non pena", e dunque andrebbe sospesa o differita in tutti i casi in cui si svolge in condizioni talmente degradanti da non garantire il rispetto della dignità del condannato». Da qui la richiesta alla Consulta di estendere anche a questi casi la facoltà del giudice di rinviare la pena dopo aver operato, volta per volta nella vicenda singola, un «congruo bilanciamento degli interessi da un lato di non disumanità della pena, e dall'altro di difesa sociale».

il Fatto 19.2.13
Telepolitica
L’ex segretario del Caimano vince la partita contro Sposito
Nessun rinvio per Della Valle
Telecom regala La7 a Cairo Ora Berlusconi ha quattro tv
di Giorgio Meletti


Nel Cda del gruppo telefonico prevale la fretta di chiudere le porte a eventuali offerte indipendenti. Sfuma così il sogno di un’informazione televisiva svincolata dalla politica. Il presidente del Toro, nonché concessionario pubblicitario della rete, se ne aggiudica il controllo. Aveva detto al Fatto: “Nessuno toccherà Mentana e Santoro” Ora si vedrà

Alla fine, un po’ a sorpresa, Urbano Cairo ce l’ha fatta. Sarà lui a chiudere la trattativa con Telecom Italia per l'acquisto di La7. La decisione è stata presa ieri sera a Milano dal consiglio d'amministrazione del gruppo telefonico, dopo due ore di discussione molto tesa nella quale sono confluite le tensioni delle ultime settimane. Un comunicato emesso a tarda sera dice che il cda Telecom, presieduto da Franco Bernabè “ha approvato l’avvio di una fase di negoziazione in esclusiva con Cairo Communication per la cessione dell’intera partecipazione in La7 Srl con l'esclusione della quota di MTV Italia (51%) detenuta dalla stessa La7”. La Cairo Communication, da alcuni anni concessionaria di La7 per la raccolta pubblicitaria, definirà dunque i dettagli per acquisire al prezzo simbolico di un euro il settimo canale televisivo nazionale, che le verrà consegnato con una congrua dote finanziaria, pur di liberare Telecom Italia da una incessante fonte di perdita. Cairo ha già promesso ai volti dell’informazione di La7, a cominciare dal direttore del Tg Enrico Mentana e Michele Santoro, la conferma.
SI CHIUDE COSÌ, in modo sorprendente e beffardo, una vicenda che per più di un anno è andata avanti in modo strisciante, nella totale indifferenza di partiti politici e sindacati. La Telecom consegna all'ex assistente personale di Berlusconi la tv che negli ultimi due o tre anni era diventata una spina nel fianco di Mediaset. È la stessa Telecom Italia Media a denunciare nei verbali del suo consiglio d'amministrazione che il cattivo andamento dei conti di La7 è da attribuirsi principalmente a due cause: i comportamenti asseritamente scorretti di Cairo nella raccolta della pubblicità, per i quali la stessa società è ricorsa in Tribunale chiedendo la rescissione del contratto; le denunciate manipolazioni dei dati Auditel, che hanno attribuito a La7 un sospetto crollo degli ascolti nel 2012 rispetto al 2011. Proprio il crollo che ha influito decisivamente - assieme alla volontà di Mediobanca di azzoppare La7 per far contento B. - sulla determinazione di Tele-com Italia di vendere.
E dunque niente da fare per Diego Della Valle: la sua manifestazione d'interesse è stata giudicata tardiva per una procedura di vendita della tv che andava avanti, formalmente, dall'aprile dello scorso anno. Niente da fare neppure per il Fondo Clessidra, guidato dall'ex manager Fininvest Claudio Sposito. La sua offerta era per rilevare tutto il 77 per cento del capitale di Tele-com Italia Media, la scatola quotata che contiene, oltre a La7, anche Mtv e TI Media Broadcasting, la società che si occupa dei sistemi di trasmissione. Per Clessidra l'ostacolo più insidioso si è rivelato il necessario giudizio di congruità sul prezzo offerto per le azioni di una società quotata in Borsa, di cui è quindi noto il valore di mercato. I consiglieri d'amministrazione si sono dimostrati poco desiderosi di assumersi la precisa responsabilità di vendere sotto costo (cioè svendere) un pezzo del patrimonio aziendale. Per La7 da sola, visto che non ha mai chiuso un bilancio in utile negli ultimi vent'anni, e visto che non è quotata, si è rivelato più agevole attribuirle un valore negativo.
PER BERNABÈ la soluzione Cairo è dunque un compromesso: ritratto fino a ieri sera come strenuo difensore degli interessi della società contro gli appetiti di Mediaset - assecondati dal più influente azionista di Telecom, Mediobanca, di cui a sua volta è importante azionista Silvio Berlusconi, - il presidente del gruppo telefonico se la cava mollando solo l'emittente televisiva, ma trattenendo nel perimetro societario antenne, tralicci e soprattutto le frequenze digitali (i cosiddetti mux) alle quali da sole è attribuito un valore di almeno 350 milioni. Alla vigilia del consiglio sembrava ci fosse un’intesa sul rinvio tra Bernabè e il numero uno di Mediobanca, Alberto Nagel. Ma una volta riunito il cda si è visto che i margini per prendere ulteriormente tempo si erano ristretti. Paradossalmente, quella parte del consiglio pronta a compattarsi con Bernabè contro l'ipotesi di regalare tutto il pacchetto televisivo a un acquirente in odor di amicizia con Berlusconi, si è rivelata anche quella più ostile a un ulteriore rinvio per andare a verificare l'offerta di Della Valle, che pure, stando alle voci delle ultime ore, prometteva di essere più vantaggiosa di quella di Cairo. Il fatto è che anche Della Valle voleva solo La7, come Cairo, e quindi non poteva essere un’alternativa, a prezzo congruo, all'offerta di Clessidra. In nome delle regole il Cda Telecom ha dunque respinto il regalo a Clessidra ma anche il rinvio per aspettare Della Valle. E ha vinto così Cairo, che figurava in fondo alla classifica dei bookmaker. Ma soprattutto ha vinto B.

Corriere 19.2.13
Mps, verifiche su un patto Pd-Pdl
Ceccuzzi e Verdini: «Bufala totale»
di Fiorenza Sarzanini


ROMA — Un accordo segreto tra Pd e Pdl per spartirsi nomine e condividere il controllo sul Monte dei Paschi di Siena. È l'ultimo, inquietante capitolo aperto dai pubblici ministeri che indagano sull'operazione Antonveneta e sulla voragine nei bilanci provocata proprio da quell'acquisizione. Agli atti dell'indagine condotta dai pubblici ministeri Antonio Nastasi, Aldo Natalini e Giuseppe Grosso c'è la bozza di un patto, datata 12 novembre 2008, che impegnava Franco Ceccuzzi, parlamentare del Partito democratico e futuro sindaco di Siena, e Denis Verdini, coordinatore di Forza Italia, a concordare ogni mossa, ma soprattutto confermava per Andrea Pisaneschi la presidenza di Antonveneta. In calce ci sono i nomi dei due politici, ma non le firme, e dunque i magistrati — in accordo con i colleghi di Firenze Luca Turco e Giuseppina Mione — stanno sentendo come testimoni gli esponenti dei due schieramenti per poter verificare l'attendibilità del documento che sarebbe stato acquisito attraverso l'attuale presidente del consiglio regionale Alberto Monaci, del Pd. Sia Ceccuzzi sia Verdini smentiscono: «È palesemente un falso, una bufala». Mentre l'ordinanza del giudice di Milano che tiene in carcere l'ex capo dell'area Finanza Gianluca Baldassari ricostruisce i passaggi salienti dell'indagine affidata al Nucleo valutario della Guardia di Finanza, in Toscana ci si concentra sulle spartizioni politiche che potrebbero portare a nuovi e inquietanti scenari anche sul ruolo di alcuni consiglieri del consiglio di amministrazione.
Pressioni e accordi
Da settimane i pubblici ministeri hanno concentrato le verifiche sul ruolo di Pisaneschi e soprattutto sulla decisione di affidargli la presidenza di Antonveneta subito dopo l'acquisizione dal Banco Santander guidato da Emilio Botin. L'istituto di credito fu pagato nove miliardi e trecento milioni di euro, oltre un miliardo di oneri e altri nove di accollo debiti. Appena due mesi prima gli spagnoli l'avevano pagata sei miliardi e trecento milioni di euro. L'ipotesi investigativa è che quella plusvalenza sia stata spartita tra acquirente e venditore, ma non è escluso che possa esserci stato un tornaconto anche per la politica. Per questo ci si concentra sugli accordi preventivi che furono fatti tra gli schieramenti di centrosinistra e centrodestra.
La bozza di accordo acquisita nel fascicolo riguarda una serie di questioni legate alle Toscana, ma si concentra soprattutto sulle «società e banche controllate dal Gruppo con l'impegno di concordare i vertici dei collegi sindacali e anche quelli della Fondazione». La scorsa settimana erano stati interrogati il senatore Paolo Amato, eletto con il Pdl e poi andato via in polemica con Verdini e Monaci, accusato da Ceccuzzi di aver guidato la fronda contro di lui. Ieri in Procura sono arrivati invece Andrea Manciulli, segretario regionale del Pd della Toscana, e Angelo Pollina, ex consigliere regionale toscano senese del Pdl che, dal 2006 al 2011, è stato capogruppo del Pdl in Comune a Siena.
«Equilibrio economico precario»
Nelle prossime ore sarà trasferito nel carcere di Siena Gianluca Baldassari, l'ex capo dell'area Finanza fermato giovedì scorso e accusato di associazione a delinquere, truffa e ostacolo agli organi di vigilanza. Il provvedimento del giudice di Milano Alfonsa Maria Ferraro, che convalida il provvedimento e lo lascia in carcere, è un durissimo atto d'accusa per tutti gli ex vertici della banca senese. L'ordinanza ricostruisce i passaggi chiave dell'inchiesta condotta dalla magistratura toscana. I verbali di interrogatorio di testimoni e indagati mettono a fuoco i passaggi cruciali, ma evidenziano anche la guerra tra vecchio e nuovo con l'accusa, pesantissima, che proprio Baldassarri lancia all'attuale amministratore delegato Fabrizio Viola: «Sapeva sin dal febbraio 2012 dell'esistenza del contratto con Nomura sul "derivato" Alexandria».
Scrive il giudice: «I manager di Monte dei Paschi e i soggetti posti a capo delle articolazioni interne hanno elaborato e condiviso scelte gestionali dagli esiti quantomeno incerti e i cui profili negativi erano loro ben presenti, con la conseguenza che alcune di dette operazioni risultavano non estensibili non solo all'organo di vigilanza. Dall'esame degli atti si può affermare che fino a primavera scorsa la gestione realizzata dal management e dai soggetti che hanno ricoperto ruoli apicali, ha posto l'Istituto in una condizione di precario equilibrio economico-finanziario ben percepito dall'Autorità di Vigilanza che ha eseguito frequenti e specifiche ispezioni».
«Tre riunioni con Viola»
A Baldassarri e agli altri ex responsabili di Mps viene contestato di aver nascosto al mercato e alla Vigilanza l'accordo con Nomura del 31 luglio 2009 siglato per tentare di ripianare il «buco» nel bilancio provocato dall'acquisizione di Antonveneta che aveva portato a un esborso complessivo di 19 miliardi di euro. L'accordo fu trovato il 10 ottobre scorso da Viola che venti giorni dopo davanti ai pm dichiara: «Preciso che ho rinvenuto l'originale dell'accordo nella cassaforte dell'ex direttore generale Antonio Vigni. Mi sembra di ricordare che nella bozza consegnata da Contena (uno dei funzionari Mps, ndr) ci fosse scritto "depositata in cassaforte". Mi sono così messo alla ricerca della cassaforte, che ho trovato nell'ufficio già occupato da Vigni. Oltre all'accordo c'era altra documentazione che ho messo in un pacco sigillato, fatto firmare al capo dell'Audit e consegnato alla Guardia di Finanza».
Baldassarri, che è difeso dall'avvocato Filippo Dinacci, smentisce la ricostruzione e in carcere davanti al giudice afferma: «Il collegamento economico tra le due operazioni è stato da me illustrato al dottor Viola nel gennaio/febbraio 2012, prima della mia uscita da Mps avvenuta a fine febbraio 2012. Ho avuto tre riunioni con Viola e in una di queste lui mi chiese perché erano stati acquistati tre miliardi di Btp. Gli spiegai che rispetto alla ristrutturazione di Alexandria con il contratto di pronto/termini noi abbiamo ricompensato Nomura per l'operazione Alexandria e quindi lui a distanza di pochi giorni dal suo insediamento aveva colto il collegamento economico e mi chiese spiegazioni. Ritengo anche che il dottor Conti, capo dell'area risk-management prima o dopo di me gli abbia spiegato il collegamento tra i due contratti».
«Il contratto non esiste»
Il giudice evidenzia come Baldassarri «mantiene all'attualità contatti con suoi ex collaboratori ancora presenti all'interno dell'area Finanza di Mps e che potrebbero pertanto essere contattati per emendare i propri contributi istruttori». Molti di loro sono stati interrogati come testimoni, ma alcuni hanno ribadito la segretezza di quell'accordo con Nomura che sarebbe imposta proprio da Baldassarri. Il 3 gennaio scorso Gianni Contena dichiara a verbale: «Baldassarri nel luglio 2009 mi diede una bozza del contratto tra Nomura e Mps dicendomi "questo contratto non esiste". Mi disse che erano coinvolti direttamente i vertici della banca che avevano seguito quell'operazione in prima persona. Intesi ovviamente che faceva riferimento a Vigni. Quando nel corso del 2010 Kpmg ci chiese di avere eventuali informazioni sui collegamenti tra le operazioni del 2009, Baldassarri mi ribadì che il contratto non esisteva e mi ordinò di rispondere negativamente».

La Stampa 19.2.13
Montepaschi nella bufera
Spunta un documento del 2008 per la spartizione delle poltrone
Mps, i rapporti tra Pd e Pdl nel mirino dei pm senesi
di Gianluca Paolucci


Verdini: clamoroso falso, non c’è nessun patto segreto È una fandonia
L’ex sindaco di Siena Ceccuzzi: smentisco categoricamente ogni accordo

Un accordo scritto tra Pd e Pdl per spartirsi le nomine di Monte dei Paschi e le rispettive «sfere d’influenza» nella politica senese. Il documento pubblicato il Corriere della Sera nel suo sito internet riporta i nomi, ma non le firme, di Denis Verdini e Franco Ceccuzzi, ex segretario provinciale di Siena del Pd ed ex sindaco della città toscana. I pm di Firenze e Siena, che insieme stanno ascoltando come persone informate sui fatti esponenti politici toscani ex Pdl e Pd, starebbero ponendo loro domande anche sull’autenticità di questo documento, che riporta la data del ma finora i pm non avrebbero trovato conferme alla sua autenticità.
In realtà, l’accordo politico tra maggioranza e opposizione per «aprire» a quest’ultima la rappresentanza in Mps risale al 1999/2000. A concordarlo furono l’allora sindaco di Siena, Piccini, e l’allora segretario provinciale di Forza Italia, Fabrizio Felici. Secondo quanto ricostruito, fu proprio grazie a quell’accordo che lo stesso Felici divenne membro della deputazione amministratrice della Fondazione Mps, nel 2001. Mentre nel 2003, al successivo rinnovo del consiglio di Mps, entrò in cda l’avvocato senese Andrea Pisaneschi in «quota» Forza Italia. Pisaneschi che poi nel 2008 diventerà presidente di Antonveneta, appena acquisita da Mps. L’accordo di spartizione, sempre secondo quanto ricostruito, riguardava anche le nomine delle partecipate. Secondo il racconto di un testimone all’epoca impegnato in Forza Italia, «quando arrivava la stagione delle nomine scoppiava il putiferio». Grazie a questo accordo entreranno nei cda delle partecipate, ad esempio, Pier Ettore Olivetti Rason, anche lui indagato nelle inchieste fiorentine sul caso Verdini, che diventa consigliere di Paschi Gestione Immobiliare. O ancora Pietro Pecorini, avvocato anche lui, che nel 2008 entra nel consiglio della piemontese Biverbanca da poco entrata nel perimetro di Mps. Ancora, Girolamo Strozzi, consigliere di Banca Toscana e di Consum.it. Alberto Tirelli, viceccordinare del Pdl di Firenze e consigliere di Mps Belgio. Secondo Verdini, il documento «è un falso clamoroso, non esiste nessun patto segreto, è una fandonia. Ci siamo sempre attaccatti pubblicamente». Smentisce «categoricamente» anche l’altro presunto firmatorio, Ceccuzzi.
Proprio sul filone dei legami tra politica e banca e sugli intrecci tra la vicenda Mps e quella del Credito Fiorentino, ieri in procura a Firenze sono stati ascoltati il segretario regionale del Pd, Andrea Manciulli, e Angelo Pollina, coordinatore regionale di Fli uscito qualche anno fa dal Pdl. Entrambi sono candidati alle politiche. Già l’8 febbraio erano stati ascoltati, sempre a Firenze, il presidente del consiglio regionale Alberto Monaci (Pd) e il senatore ex Pdl Paolo Amato.

Corriere 19.2.13
Scoppia il caso Mahony «Coprì i preti pedofili sia escluso dal Conclave»
Sondaggio di Famiglia Cristiana tra i lettori
E lui: chiedo la grazia di sopportare l'umiliazione
di Gian Guido Vecchi


CITTÀ DEL VATICANO — «La tua opinione: Mahony sì o no al Conclave?» Dagli Stati Uniti la bufera è infine arrivata anche in Italia, con Famiglia Cristiana che lancia un sondaggio online sul cardinale e arcivescovo emerito di Los Angeles. La questione è tragicamente semplice: può un cardinale che è ritenuto responsabile di aver coperto dei preti pedofili entrare nella Sistina e contribuire all'elezione del Papa?
Dai commenti dei lettori, la risposta è pressoché unanime: no. Anche se la faccenda è un po' più complicata. Le norme, anzitutto: la Costituzione apostolica Universi Dominici Gregis, che regola la «sede vacante» dopo la «rinuncia» di Benedetto XVI e fino all'elezione del successore, all'articolo 35 è lapidaria: «Nessun cardinale elettore potrà essere escluso dall'elezione sia attiva che passiva per nessun motivo o pretesto». Gli elettori sono 117 e 117 restano. Il Papa dovrebbe arrivare a togliergli la porpora, ma l'ultima volta è accaduto il 13 settembre 1927 (Louis Billot, sostenitore della Action française protofascista e antisemita, uscì senza insegne dallo studio di Pio XI) e del resto non c'è tempo per «processi» interni. L'unica è che lui stesso (art. 40) rinunci.
Ora, il cardinale Roger Mahony è in pensione da due anni ma ne ha 77 ed è quindi un «elettore» (la scadenza è 80 anni). Il suo successore a Los Angeles, l'arcivescovo José Gomez, aveva deciso all'inizio del mese la rimozione del cardinale «da qualunque incarico amministrativo o pubblico», ricordando che lo stesso Mahony «ha espresso il proprio rincrescimento per non essere stato capace di garantire la giusta protezione ai giovani affidati alle sue cure». Una lettera pubblica e senza precedenti. Così l'associazione di fedeli «Catholics United», la settimana scorsa, ha annunciato una «petizione» con relativa raccolta di firme per chiedere a Mahony di non andare a Roma. E ora si aggiunge l'iniziativa di Famiglia Cristiana in Italia.
Del resto l'arcivescovo emerito di Los Angeles è ritenuto responsabile di aver insabbiato 129 casi di abusi su minori commessi da preti. L'inchiesta su circa 500 casi di molestie negli anni Ottanta ha costretto la diocesi più grande degli Usa a patteggiare 660 milioni di dollari di risarcimento alle vittime. La diocesi, su ordine del giudice, ha pubblicato a gennaio 12 mila pagine di 124 dossier giudiziari, 82 dei quali riguardanti denunce di molestie sessuali: nelle carte compaiono finalmente nomi e cognomi di 122 sacerdoti coinvolti. «Il comportamento descritto in quei documenti è terribilmente odioso e diabolico, non ci sono scuse né giustificazioni», aveva detto Gomez. Come se non bastasse, per il caso di un sacerdote messicano accusato di aver abusato di 26 bambini nella diocesi di Los Angeles nel 1987, Mahony dovrà deporre in tribunale a Los Angeles sabato, poco prima di partire per Roma.
Chiaro che la situazione crei imbarazzo, in Vaticano. Il paradosso è che Ratzinger — il Papa che rispetto ai predecessori ha reso più severe le norme, rimosso una quantità di vescovi e imposto la trasparenza denunciando l'omertà — ha subìto per questo le maggiori polemiche. Per dire il clima, agenzie internazionali raccolgono rumours che arrivano a collegare la sua scelta di vivere in Vaticano dopo la rinuncia al «timore» di perdere l'«immunità» diplomatica. Le polemiche ritornano. E intanto Mahony cerca di difendersi, «chiedo la grazia di sopportare l'umiliazione» ha scritto sul suo blog. «Posso capire la loro rabbia nei confronti miei e della Chiesa». Alla diocesi ha scritto che ai tempi «nessuno è mai intervenuto per dirci che le procedure non fossero adeguate». Ma il Los Angeles Times scrive che negli anni Ottanta in realtà tentò più volte e invano di ottenere dal Vaticano la rimozione di preti accusati di abusi ma «si trovò di fronte a un muro: la burocrazia romana».

l’Unità 19.2.13
Sondaggio choc di Famiglia Cristiana
Conclave, il caso Mahony esplode a Roma
Insabbiò la vicenda dei preti pedofili
Una petizione perché non venga a Roma
di Roberto Monteforte


L’accusa è di aver nascosto il dossier sui preti pedofili in America. La domanda è se, con questo sospetto, l’ex arcivescovo di Los Angeles Roger Mahony possa partecipare alla scelta del nuovo Papa. La polemica dagli Usa arriva in Italia, Famiglia Cristiana lancia un sondaggio.
Scoppia il caso del cardinale statunitense Roger Mahony al Conclave. L’arcivescovo emerito di Los Angeles è accusato di aver coperto ben 122 casi di pedofilia quando era a capo della sua diocesi. Ha ammesso alcune sue responsabilità ed è stato «rimosso» dai suoi incarichi dal suo successore, monsignor Gomez. L’autorità giudiziaria di Los Angeles ha riaperto l’inchiesta dopo la pubblicazione a fine gennaio, di ben 12mila pagine di documenti che lo chiamano in causa. Il prossimo 23 febbraio lo ha chiamato a deporre. Ma malgrado le proteste di gruppi sempre più numerosi di fedeli negli Stati Uniti il porporato ha deciso di essere in Vaticano per partecipare all’elezione del successore di Benedetto XVI. Non intende sottrarsi al «diritto-dovere» di ogni cardinale «elettore» convocato al Conclave. Sul suo Twitter ha annunciato «Sto preparando le valige» e ha chiesto «la grazia di sopportare le umiliazioni».
Non devono essere state poche. Ma molte sono anche le vittime dei preti pedofili sconcertati da questa sua determinazione. Il suo arrivo in Vaticano è previsto per il prossimo 26 febbraio. Mahony fa capire che non si lascerà condizionare dalle campagne mediatiche. Neppure da quelle lanciate dalle testate cattoliche. In Italia è, infatti, il sito on line del settimanale di Famiglia Cristiana a rilanciare la petizione partita dagli Stati Uniti che chiede all’arcivescovo «emerito» di Los Angeles di rinunciare al Conclave. E sottopone un quesito ai suoi lettori. Chiede «Mahony sì o no?» al Conclave. L’esito del sondaggio pare scontato. Sono, infatti, già molti gli interventi che esprimono sconcerto ed anche rabbia per il fatto che il porporato possa concorrere alla nomina del successore di Benedetto XVI.
Il Papa che come ha sottolineato dai microfoni di Radio Vaticana monsignor  Charles Scicluna, vescovo ausiliare di Malta e per dieci anni Promotore di giustizia presso la Congregazione per la dottrina della fede «nel campo della lotta agli abusi sessuali commessi da esponenti del clero lascia un’eredità irremovibile che segna il futuro della Chiesa».
C’è chi auspica un intervento di papa Ratzinger, che però è improbabile. Entro il 28 febbraio c’è da attendersi qualche altra sua decisione importante. Magari per chiarire alcune incertezze legate all’inedito di una «sede vacante» per  «rinuncia» del pontefice. È prevista dal comma 2 del canone 332 della Costituzione apostolica «Universi Dominici Gregis», ma non è regolamentata. Sul tavolo vi è da chiarire se è possibile anticipare la convocazione del Conclave previsto almeno 14 giorni dopo l’inizio della «sede vacante».
Il direttore della Sala Stampa, padre Federico Lombardi aveva avanzato l’ipotesi che fosse possibile prima del 14 marzo, a condizione però che fossero presenti in Vaticano tutti i 117 cardinali «elettori». Ma vi sono già porporati di peso come l’arcivescovo di New Work, cardinale Timothy Dolan e quello di Parigi, cardinale André Vingt-Trois che si sono detti contrari. Proprio per la situazione inedita determinatasi con il gesto di Papa Ratzinger, chiedono il rispetto delle regole già fissate.
LA NOMINA
È possibile che prima dell’apertura della «sede vacante» Papa Ratzinger fornisca indicazioni e chiarimenti al Camerlengo, cardinale Tarcisio Bertone, alla «Camera apostolica» che lo affianca, al Decano del Collegio cardinalizio, Angelo Sodano e alle stesse Congregazioni generali dei cardinali su come muoversi. È, infatti, una prerogativa esclusiva del pontefice modificare quanto previsto dalla Costituzione apostolica «Universi Dominici Gregis». Che Benedetto XVI intenda esercitare sino al 28 febbraio i suoi poteri lo ha dimostrato ieri, nominando il presidente della Prefettura degli Affari Economici della Santa Sede, cardinale Giuseppe Versaldi come delegato pontificio per la Congregazione dei padri Concezionisti, che è l’ordine religioso dal quale dipende l’ospedale romano Istituto Dermopatico dell’Immacolata. Gli ha affidato il compito di «indirizzare le strutture sanitarie da esso gestite verso un possibile risanamento economico, escludendo tuttavia una partecipazione della Santa Sede in tali opere».
Pare proprio che Benedetto XVI non intenda lasciare dossier scottanti sulla scrivania del suo successore.


l’Unità 19.2.13
Israele
Netanyahu ringrazia il Pontefice


Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha inviato una lettera a Benedetto XVI per ringraziarlo del suo lavoro nel rafforzamento dei legami interreligiosi. «Nel nome del popolo di Israele, vorrei ringraziarLa per tutto quello che ha fatto come papa per il rafforzamento dei legami tra cristiani ed ebrei e tra la Santa Sede e lo stato ebraico», ha scritto Netanyahu, che ha augurato al pontefice «lunga vita, salute e felicità».
Netanyahu e altri leader israeliani ed ebraici hanno avuto parole di elogio per Benedetto XVI dopo l’annuncio shock delle dimissioni, sostenendo che con il suo atteggiamento verso il popolo ebraico il papa ha aiutato a contrastare l’anti-semitismo nel mondo.

l’Unità 19.2.13
Mistero nelle carceri israeliane
Il giallo del Prigioniero X
L’uomo si sarebbe suicidato in una cella di massima sicurezza, sorvegliata 24 ore su 24
La spia del Mossad morì in cella: stava preparando una missione in Italia?
di Umberto De Giovannangeli


Il «Prigioniero X», la misteriosa spia del Mossad morta in carcere in Israele nel dicembre 2010, «preparava da anni» una missione in Italia. Una missione di «estrema rilevanza». È quanto ha rivelato l’australiana Abc, l’emittente che per prima ha portato alla luce il caso di Ben Zygier alias Ben Alon, su cui il governo israeliano aveva imposto il segreto di Stato, mentre in Israele è montata la polemica sulla vicenda. La Knesset, sfidando Benjamin Netanyahu, ha disposto una inchiesta esauriente sull’operato del Mossad, che sarà condotta da delegati delle commissioni Esteri e Difesa. Una decisione che però non ha soddisfatto a pieno l’opposizione laburista, che ha chiesto invece una inchiesta «indipendente» sull’accaduto. Anche il governo australiano ha deciso di aprire una propria inchiesta e il ministero degli Esteri ha chiesto a Israele di avere accesso a tutte le informazioni relative al periodo di detenzione dell’agente segreto di origine australiana nella prigione di Ayalon.
«Zigyer si legge sul sito di Abc venne arrestato perché il Mossad sospettava avesse passato informazioni al servizio segreto interno australiano (Asios)». E in effetti, continua l’emittente australiana che la scorsa settimana ha rivelato la vera identità del «Prigioniero X, «Zigyer si incontrò con responsabili dell’Asios e fornì informazioni sui dettagli di numerose operazioni del Mossad, inclusi i piani per una missione top-secret in Italia la cui preparazione aveva richiesto anni».
Abc non specifica di che missione si tratti, ma precisa che nel 2009 Zigyer, alias Ben Alon, presentò una richiesta di visto per l’Italia. L’emittente aggiunge che, a quanto affermano le fonti, il «Prigioniero X», «aveva messo in piedi per il Mossad in Europa una azienda di componenti elettroniche per telecomunicazioni che esportava nei Paesi arabi, Iran incluso».
Sempre secondo l’emittente australiana Zygier era uno dei tre ebrei australiani che lavorava per il Mossad e che aveva più volte cambiato la sua identità. Si era trasferito in Israele nel 2001, e fu arrestato dal Mossad nel febbraio 2010.
Il Mossad è già stato protagonista nel 1986 di una operazione segreta svolta sul territorio italiano, quella del rapimento del tecnico nucleare israeliano Mordecai Vanunu.
Secondo Haaretz l’uomo, imprigionato a febbraio del 2010 dopo che il tragico assassinio a Dubai del militante di Hamas Mahmoud al-Mabhouh aveva rivelato l’abuso da parte d’Israele dei passaporti emessi da governi «alleati» e posto Tel-Aviv in frizione con diversi di questi, compreso quello di Canberra, l’uomo fu messo a tacere per timore che rivelasse le sue attività per conto del Mossad, compresa la costituzione di una società che vendeva apparati di comunicazione a Paesi come Iran e Siria, costituita in Italia. Sotto gli occhi dei nostri servizi quindi tre australiani (due complici del suicida rimangono sconosciuti) legati ad Israele hanno costituito una società che operava con alcuni noti «Stati canaglia», solo il Mossad sa a quale scopo. Sempre secondo Haaretz sarebbe stato proprio per proteggere questa società italiana che Zygier sarebbe stato prima arrestato e poi chiuso in tutta segretezza in quella cella, fino a quello che le autorità israeliane definiscono il suo «suicidio».
Intanto un avvocato israeliano impegnato nella difesa dei diritti umani, Avigdor Feldman, ha avanzato dubbi sulla versione del suicidio sostenuta dal governo israeliano. In un’intervista alla radio dell’esercito, Feldman ha raccontato di aver offerto i suoi servizi al detenuto e di avergli dato consigli in vista del processo, per il quale erano in corso trattative per un patteggiamento: «Ha chiesto consiglio e io mi sono seduto e l’ho ascoltato è il ricordo del colloquio avuto nel carcere di massima sicurezza di Ayalon -. Non sono uno psicologo, ma mi è sembrato razionale, concentrato, parlava chiaramente della questione e non dava l’impressione di autocommiserarsi». Uno o due giorni più tardi, Feldman ricevette una telefonata dalla prigione in cui veniva avvertito che il «Prigioniero X» era morto. Il legale che conosceva il vero nome di Zygier ed ebbe accesso ai documenti che lo riguardavano ma non ne può parlare ha sottolineato la sua sorpresa alla notizia che «un uomo rinchiuso in una cella come quella, controllato e monitorato 24 ore su 24, potesse suicidarsi «impiccandosi».
Commentando per la prima volta il caso, l’altro ieri il premier israeliano Benjamin Netanhyahu ha difeso le forze di sicurezza, dicendo di avere totale fiducia nel loro operato. «Non siamo come gli altri Paesi ha detto siamo più minacciati, più oggetto di sfide, e quindi dobbiamo assicurare l’ottima attività delle forze di sicurezza». La conclusione è perentoria: «Permettiamo alle forze di sicurezza di lavorare tranquillamente, così potremo continuare a vivere al sicuro».

il Fatto 19.2.13
Israele La spia “suicida” e il Mossad in Italia


Il Prigioniero X incarcerato dagli israeliani nel timore che rivelasse una operazione top-secret del Mossad in Italia e in Europa, dove era attiva una azienda di copertura che “trafficava” anche con l’Iran: è l’ultima rivelazione, in ordine di tempo, sulla vicenda di Ben Zygier, la “Maschera di ferro” israeliana, la spia “suicidatasi” nel carcere di massima sicurezza di Ayalon nel dicembre del 2010.
Lo ‘scoop’ dell’australiana Abc arriva dopo giorni di tempesta mediatica che hanno costretto il premier israeliano Netanyahu a far marcia indietro sulla richiesta ai media nazionali di censurare il caso, e con il Parlamento - la Knesset - che ha aperto una vera e propria inchiesta. Non mancano le reazioni in Italia, con il Pd che per bocca di Ettore Rosato, componente del Copasir, ha chiesto al governo chiarimenti sulla vicenda.

La Stampa 19.2.13
Terre rare, gas, petrolio sono diventati un «tema strategico» per la politica estera
Gli imprenditori vedono l’inasprirsi della competizione e chiedono aiuto a Ue e Nato
“In guerra per le materie prime”
L’industria tedesca rompe un tabù: impegno militare per accedere ai giacimenti
di Alessandro Alviani


Il governo di Berlino dovrebbe aiutare l’industria tedesca a garantirsi libero accesso alle materie prime e alle terre rare sparse per il mondo, se necessario anche con l’appoggio delle forze armate. È la richiesta avanzata da Dierk Paskert, direttore della «Alleanza per le materie prime», una società che riunisce big come ThyssenKrupp, Bmw, Bosch, Volkswagen, Bayer e punta a lanciare progetti di cooperazione e sfruttamento di giacimenti di petrolio, gas o terre rare all’estero. Una richiesta molto delicata in un Paese in cui tre anni fa un capo dello Stato – Horst Köhler – si dimise dopo le critiche ricevute per aver dichiarato che un’operazione militare all’estero può rivelarsi indispensabile per difendere gli interessi economici nazionali.
Ora, intervistato dall’«Handelsblatt», Paskert lancia il suo appello: abbiamo bisogno di una politica di scambi con l’estero e di sicurezza orientata in modo strategico. «Insieme ai nostri partner nella Ue e nella Nato dovremo assumerci ancora più responsabilità sulle questioni del commercio estero e della sicurezza», nota. La competizione per le materie prime «è notevolmente aumentata, per questo faremmo bene a unire le forze e collaborare». L’approvvigionamento ha un’importanza geopolitica, ricorda Paskert: «La presenza dell’esercito Usa nel Golfo Persico o il massiccio potenziamento delle forze navali cinesi serve proprio a proteggere questi interessi».
L’industria tedesca, riassume l’«Handelsblatt», desidera un maggiore impegno statale e militare per assicurare l’accesso alle materie prime. E trova ascolto a Berlino: tale accesso è un «tema strategico» per la politica estera tedesca.
L’argomento delle materie prime è da tempo al centro dell’attenzione della politica e dell’economia tedesca. La Germania si muove su due binari: statale, con accordi di cooperazione per lo sfruttamento delle materie prime locali firmati con Mongolia, Kazakistan e da ultimo, a fine gennaio, col Cile; e privato, con la nascita, l’anno scorso, dell’Alleanza per le materie prime, fortemente sponsorizzata dalla Confindustria tedesca. La Repubblica federale, che negli ultimi dieci anni ha quasi triplicato le sue importazioni di materie prime, teme di trovarsi tagliata fuori in futuro dall’accesso a metalli chiave come il litio, essenziale per le batterie delle auto elettriche.
Il tema è talmente sentito a Berlino che in cancelleria starebbero pensando di creare un nuovo coordinatore per le questioni di sicurezza. Il suo compito: aiutare le industrie strategiche, garantire il futuro delle proprie tecnologie di difesa e contribuire all’accesso alle materie prime.
La discussa vendita di carri armati tedeschi al regime dell’Arabia Saudita, Paese ricco di petrolio, punterebbe proprio ad assicurare gli interessi nazionali: si tratta di appoggiare i partner strategici politicamente, ma anche con tecnologie militari, prima di essere eventualmente costretti a inviare propri soldati.

La Stampa 19.2.13
Sudafrica arcobaleno dove c’era l’apartheid ora c’è la paura
di Alessandra Iadicicco


Violenza, corruzione, disparità sociali: all’indomani del caso Pistorius parla Adrian Van Dis, che nel romanzo Tradimento denuncia la grande delusione del Paese
In Sudafrica, tra bianchi e neri, c’è tutta una gamma di etnie - zulu, xhosa, sotho, tswana che tendono a costituirsi in gruppi distinti ma disuniti. Poi c’è la minoranza dei Cape Coloured, figli meticci degli schiavi e dei coloni bianchi

Bianchi e neri vivono nel terrore, è normale trincerarsi dietro porte blindate e sistemi d’allarme, tenere armi da fuoco a portata di mano Ci sono 17 mila omicidi l’anno
Lo smantellamento del sistema di segregazione non ha migliorato il tenore di vita di tutti. Resta un gap abissale tra i ricchi e i poveri che vivono in condizione di stenti"
I governanti traditori. Non hanno saputo estendere i benefici della democrazia a tutta la popolazione»
La condizione delle donne. «È rimasta penosa. Gli uomini continuano a spendere i loro soldi bevendo e andando a puttane»

C’è una parola olandese di cui tutti in tutto il mondo conoscono il significato: «apartheid». Si scrive e pronuncia allo stesso modo anche in afrikaans, un idioma che del nederlandese è una variante contaminata di dialetti africani. Quel vocabolo, contrassegno ormai di un brutto ricordo, resta come suggello del legame profondo e oscuro tra due culture e civiltà diverse come l’estremo Nord europeo e il Sud del continente nero.
C’è un motivo per cui, sulla situazione del Sudafrica, tornato oggi sotto gli occhi sconcertati del mondo all’indomani del delitto del campione Oscar Pistorius, abbiamo interrogato lo scrittore olandese Adrian Van Dis. Figlio del mondo post-coloniale, nato da padre olandese e madre indonesiana, fratello di tre sorelle «brown», in Sudafrica ha studiato la letteratura afrikaans negli Anni Settanta: gli anni dei nazionalisti afrikaner al potere, della legalizzazione dei bantustan, della rivolta di Soweto, della morte di Biko. Ci è tornato nel ’94, all’indomani della vittoria di Mandela, per registrare i segni del grande cambiamento, descritti nel romanzo-reportage La terra promessa. E ha dedicato il suo ultimo romanzo Tradimento – uscito in questi giorni da Iperborea (pp. 275, € 16) – alle aspettative deluse dal nuovo Paese arcobaleno.
Come è possibile che dopo vent’anni di democrazia un campione di fama internazionale viva nella zona più protetta della capitale con un arsenale in casa, che dichiari di aspettarsi che un teppista gli sbuchi in camera da letto in piena notte e che uccida la sua fidanzata nella giornata mondiale contro la violenza sulle donne?
«Il caso di Oscar Pistorius è eccezionale, fitto di risvolti legati all’esperienza e all’indole dell’atleta: non so se il delitto in cui è coinvolto si possa considerare esemplare per il Sudafrica. Lo sfondo sul quale l’assassinio è stato commesso è però chiaro. Il Paese è dominato dalla paura, la gente – sia i bianchi sia i neri – vive nel terrore. È normale asserragliarsi in casa propria, erigere mura difensive, trincerarsi dietro porte blindate e sistemi di allarme, tenere armi da fuoco a portata di mano. Ci sono 17 mila omicidi l’anno. La percentuale di vittime di violenza è altissima: su una popolazione di 50 milioni di abitanti ne vengono uccisi 34 ogni centomila».
È un’eredità dell’apartheid?
«Senza dubbio. Lo smantellamento del sistema di segregazione ha creato una nuova classe privilegiata di neri ricchi, spaventati quanto i bianchi dalla criminalità diffusa tra le fasce più povere della popolazione. La conquista della libertà non ha migliorato il tenore di vita di tutti. Resta un gap abissale, una divergenza incolmabile tra i ricchi e i poveri che vivono in condizioni di miseria e di stenti. Il Paese che negli Anni Novanta aveva rappresentato la speranza di giustizia e di riscatto degli oppressi del mondo intero si è sempre più africanizzato negli ultimi vent’anni, e non ha saputo implementare i valori della civiltà europea».
È questo il «tradimento» di cui racconta il suo romanzo? Chi ha tradito e chi è stato tradito?
«Traditori sono stati i governanti che non hanno saputo estendere i benefici della libertà e della democrazia a tutta la popolazione. Tre secoli di dominazione europea pesano tantissimo sulla formazione politica di un Paese che, finalmente libero, si ritrova incapace di governarsi. Traditi sono i sudafricani che hanno smesso di essere i paria del mondo ma non hanno visto cambiare nulla del loro sistema di vita».
E qual è l’aspettativa tradita dal nuovo Sudafrica arcobaleno?
«È stato tradito il sogno di un Sudafrica liberato che puntava al modello delle più evolute città europee. Oggi a C a p e To w n e Johannesburg ci sono immensi stadi e ricchi uomini d’affari neri al volante di auto di lusso. I poveri nelle campagne sono però dimenticati e i potenti governano nel segno dell’iniquità e della corruzione. La denominazione di “Rainbow Nation” corrisponde a una effettiva realtà sociale, dove tra i bianchi e i neri c’è tutta una gamma di etnie – zulu, xhosa, sotho, tswana… – che tendono a costituirsi in gruppi distinti ma disuniti. C’è poi la minoranza dei cosiddetti Cape Coloured, i brown, figli meticci degli schiavi e dei coloni bianchi. Sono circa 4-5 milioni di persone, parlano afrikaans ma non riescono a trovare né espressione né riconoscimento nella democrazia sudafricana. “Non siamo abbastanza neri”, sostengono, di fatto sono politicamente e emozionalmente inesistenti».
E la politica dell’African National Congress?
«Dopo le sue conquiste l’Anc, che era un movimento rivoluzionario di liberazione, non aveva più ragione di essere: un conto era rovesciare il regime del National Party e scardinare il sistema di apartheid, un conto era governare un Paese distrutto. Oggi il partito di maggioranza in Sudafrica è quello dei non votanti».
Nelson Mandela resta però un emblema inossidabile.
«Mandela ha rappresentato la speranza. Si è fatto amare dai neri e ha saputo non farsi odiare dai bianchi cui diceva: “Abbiamo bisogno di voi”. È stato un uomo saggio, in grado di usare le parole come un poeta toccando la sensibilità della gente e di sostenere una squadra di rugby per far fronte a un’incipiente guerra civile. Dopo Mandela le cose hanno iniziato ad andare storte. L’attuale presidente Zuma è un nazionalista zulu, e un illetterato».
Vogliamo dire una parola sulla condizione femminile? La modella Reeva Steenkamp è stata uccisa nella giornata contro la violenza sulle donne in un Paese in cui ne muoiono di morte violenta circa 2500 l’anno.
«Anche la condizione femminile è un’eredità dell’apartheid. Per generazioni gli uomini in Sudafrica non hanno vissuto con le loro famiglie. La loro vita non era altro che lavoro, alcol e prostitute. Le mogli e i figli erano lontani dalle grandi città, relegati nei bantustan istituzionalizzati negli Anni Settanta. L’abitudine invalsa di spendere il denaro del sudato lavoro bevendo e andando a puttane si è conservata. E la condizione delle donne è rimasta penosa».

Corriere 19.2.13
Obama e la conquista del cervello umano
Mappare la mente come già il genoma. E così curare l'Alzheimer
di Massimo Gaggi


NEW YORK — Trovare finalmente una cura per malattie degenerative fin qui impossibili da battere come Alzheimer e Parkinson, ma anche individuare meccanismi del funzionamento della mente da trasferire nei computer per sviluppare una «intelligenza artificiale» sempre più simile a quella dell'uomo. È l'ambizioso obiettivo di Brain Activity Map, un progetto decennale di ricerca per venire a capo dei misteri del cervello che Barack Obama intende lanciare nei prossimi giorni, inserendolo nella proposta di bilancio che presenterà al Congresso all'inizio di marzo.
Un progetto che ha l'ambizione di essere per la medicina e le tecnologie digitali quello che l'Apollo Program voluto da John Kennedy fu per l'avventura dell'uomo nello spazio negli anni Sessanta: verrà finanziato con fondi federali e metterà insieme istituti di ricerca pubblici e privati, strutture sanitarie e aziende tecnologiche come Google, Microsoft e Qualcomm che, come ha rivelato ieri il New York Times, hanno già partecipato a una riunione preparatoria tenutasi a metà gennaio in California.
Ieri la Casa Bianca non ha voluto confermare ufficialmente le indiscrezioni di stampa, ma lo stesso Obama aveva accennato all'iniziativa una settimana fa: nel discorso sullo Stato dell'Unione si era soffermato sulla necessità di non far mancare fondi alla ricerca pur nella necessaria politica di risanamento del bilancio. E aveva citato esplicitamente il cervello umano come una delle aree di ricerca nelle quali vale la pena di scommettere: un filone promettente capace di produrre non solo idee innovative, ma anche di far crescere intere nuove aree di attività scientifica, dalla optogenetica al «fluorescent imaging». E quindi nuove speranze per la medicina, ma anche nuove aree di attività economica capaci di creare molti posti di lavoro.
Parole dirette al Congresso dove i repubblicani, che sono maggioranza alla Camera, non vogliono sentir parlare di nuovi, costosi piani d'investimento del presidente. Obama ha già messo le mani avanti notando come ogni dollaro speso per sostenere il progetto di mappatura del genoma ha prodotto 140 dollari di attività economiche. Col cervello la Casa Bianca vorrebbe seguire lo stesso schema, anche se, spiegano gli esperti, il funzionamento della mente umana è materia molto più complessa del dna. E ci sono già dubbi come quelli sollevati da Gary Marcus, un docente della New York University, secondo il quale la materia è troppo intricata e ha troppi aspetti diversi per essere affidata ad un unico piano di studio centralizzato: meglio creare diversi filoni di ricerca indipendenti per decifrare il linguaggio usato dal cervello nell'impartire i comandi, capire come i neuroni sono organizzati in circuiti cerebrali, individuare il modo in cui i geni contenuti nelle cellule influenzano il comportamento.
L'eventuale contestazione del piano del governo, se ci sarà, avrà a che fare con la sua genericità e coi timori relativi allo sviluppo di cervelli elettronici «troppo umani», più che con i costi: stando alle indiscrezioni, infatti, il contribuente Usa non dovrebbe sborsare più di 300 milioni di dollari l'anno, 3 miliardi spalmati in un decennio. Per fare un raffronto, la mappatura del genoma umano, iniziata nel 1990 e completata nel 2003, è costata allo Stato 3,8 miliardi e da quel progetto sono scaturite attività economiche per un valore complessivo di 800 miliardi (calcolo fermo a fine 2010).
Difficile, comunque, che il governo Usa possa tirarsi indietro. Anche perché, altrimenti, l'America rischierebbe una fuga dei suoi neuroscienziati verso l'Europa, che sta già investendo in quest'area. Lo Human Brain Project varato dalla Ue a fine gennaio con un stanziamento di oltre un miliardo di euro, segue un percorso diverso: l'obiettivo è costruire una vera e propria simulazione del cervello umano usando silicio e circuiti integrati. Secondo molti scienziati americani quella scelta dall'Europa è la strada sbagliata: meglio partire dai problemi concreti e da quel poco che gli esperti già sanno. Nel caso della memoria, ad esempio, sappiamo in che modo e in quali sue parti il cervello seleziona e archivia i ricordi, ma non il modo in cui vengono codificati. Ma, giusto o sbagliato che sia, il progetto della Ue è destinato ad attirare anche esperti da Oltreoceano, se gli Stati Uniti non si danno un programma altrettanto ambizioso. Il campanello d'allarme è già suonato quando uno scienziato di CalTech, l'università californiana che è il punto di riferimento accademico per le neuroscienze negli Usa, ha salutato tutti e se n'è andato a lavorare in Europa.

La Stampa 19.2.13
Dopo lo scandalo
Amazon licenzia la security dei “neonazi”
di M. Ver.


Lo scandalo dei vigilanti in uniforme neonazi che per conto di Amazon sorvegliavano gli interinali occupati nei magazzini di Bad Hersfeld, nell’Assia, vessandoli con rigidi controlli e molestie, ha avuto ieri un primo epilogo: la multinazionale Usa del commercio on line ha cancellato, con effetto immediato, l’appalto all’impresa di sicurezza Hess (Hensel european security services), i cui addetti indossavano gli abiti neri di Thor Steinar, un marchio molto apprezzato negli ambienti di estrema destra, e stivali militari. Il caso era stato sollevato in un servizio del primo canale tedesco, Ard, che aveva anche svelato trattamenti al limite della discriminazione verso i lavoratori a tempo determinato - quasi tutti stranieri, soprattutto spagnoli -, assunti per far fronte al picco di ordini del periodo natalizio e attirati da false promesse sui salari, che si erano invece rilevati inferiori alle promesse a fronte di un lavoro massacrante. La vicenda però non è conclusa: la ministra del Lavoro, Ursula von der Leyen, ha annunciato l’apertura di un’indagine sulla Hess, ipotizzando un eventuale ritiro della licenza. E sulla Rete è esplosa l’indignazione dei consumatori, che propongono il boicottaggio di Amazon.

Corriere 19.2.13
Gentile criticò in pubblico l'antisemitismo del regime
Aiutò gli ebrei più di quanto fecero molti antifascisti
di Paolo Mieli


Che Giovanni Gentile ai tempi delle leggi razziali del 1938 si sia prodigato per aiutare non pochi colleghi ebrei è un dato incontrovertibile già ben documentato nel libro di Rossella Faraone Giovanni Gentile e la «questione ebraica» (Rubbettino). Il filosofo, che nel 1944 fu poi ucciso dai Gap per la sua adesione alla Repubblica sociale italiana, si era mosso alla fine degli anni Trenta a favore di Paul Oskar Kristeller, per salvare il quale si era rivolto addirittura a Benito Mussolini. Si era poi dato da fare anche per Rodolfo Mondolfo, Giorgio Levi Della Vida, Arnaldo Momigliano, Richard Walzer, Isacco Sciaky, Gino Arias, Alberto Pincherle, Gina Gabrielli, moglie di un ebreo. Ma un saggio di Giovanni Rota, Il filosofo Gentile e le leggi razziali (uscito sulla «Rivista di storia della filosofia» edita da Franco Angeli) — che pure ha messo in evidenza la diversità tra l'atteggiamento risoluto del filosofo a favore degli israeliti e quello più equivoco di un Delio Cantimori e di moltissimi altri —, ha eccepito che gli interventi gentiliani furono limitati all'«oasi pisana» e come tali rischiano di metterci nelle condizioni di «far scivolare nell'ombra la produzione pubblica del personaggio, ciò che disse apertamente (e anche ciò su cui fu reticente)», inducendoci a perdere di vista «il Gentile che di mestiere scriveva libri e articoli, l'educatore che pronunciava discorsi, teneva conferenze e lezioni all'Università». Va messo in chiaro, scrive ancora Rota, che «la mancanza di pronunciamenti pubblici dopo il 1938 era stata preceduta da un analogo mutismo (in materia di ebrei, ndr) prima di questa data». Lo stesso attivismo a favore di Kristeller, secondo Rota, non può essere configurato come una forma di «protesta nei confronti della legislazione razziale». Talché, se va detto che «la persona Giovanni Gentile non era razzista» e che «il filosofo Gentile non si cimentò certo in una teoria della razza», non per questo si può presentare il «personaggio pubblico Gentile» come una persona che trovò il modo di pronunciarsi in pubblico contro le leggi antisemite.
Adesso un nuovo libro di Paolo Simoncelli, «Non credo neanch'io alla razza». Gentile e i colleghi ebrei, di imminente pubblicazione per Le Lettere, prova a rispondere a Giovanni Rota. Tanto per cominciare mettendo in evidenza le parole di cui al titolo del libro («Non credo neanch'io alla razza»), scritte da Giovanni Gentile in una lettera a Girolamo Palazzina, che sono seguite da «e l'ho detto ben forte a chi di ragione», laddove s'intende che quel «chi di ragione» altri non è se non Benito Mussolini. D'altra parte, quando si parla di Gentile, secondo Simoncelli, è un fatto che non ci siano tracce di «compromesso» con il razzismo nelle sue attività come docente all'Università di Roma o alla Normale di Pisa. E neanche in quelle di direttore dell'Enciclopedia italiana o del «Giornale critico della filosofia italiana». Anzi.
Nella prolusione alla seduta inaugurale (dunque «pubblica») dell'Istituto per il Medio ed Estremo Oriente, tenutasi a Roma al teatro Brancaccio il 21 dicembre del 1933 (quando, cioè, Adolf Hitler era al potere da quasi un anno), Gentile disse: «Roma non ebbe mai un'idea che fosse esclusiva e negatrice… Essa accolse sempre, e fuse nel suo seno, idee e forze, costumi e popoli. Così poté attuare il suo programma di fare dell'urbe, l'orbe. La prima e la seconda volta, la Roma antica e la Roma cristiana: volgendosi con accogliente simpatia e pronta e conciliatrice intelligenza a ogni nazione, a ogni forma di vivere civile, niente ritenendo alieno da sé che fosse umano. Sono i popoli piccoli e di scarse riserve quelli che si chiudono gelosamente in sé stessi, in un nazionalismo schivo e sterile». Parole che, scrive Simoncelli, stanno a testimoniare «la condanna di un nazionalismo gretto, incapace di aprirsi ad apporti culturali diversi». Condanna «espressa in pubblico e poi consegnata alle stampe, nel pieno montare delle persecuzioni antiebraiche nella Germania nazista». Poi, il 21 giugno del 1940, pochi giorni dopo l'entrata in guerra dell'Italia a fianco della Germania, in un articolo per la rivista «Civiltà», Gentile proponeva, nel nome della tradizione dell'antica Roma, «un processo di unificazioni di stirpi e religioni» che certo, insiste Simoncelli, era in contrasto con le tesi sulla purezza della razza. E quell'articolo era pubblico. Temi su cui tornava con un nuovo articolo, sempre su «Civiltà», il 6 gennaio del 1942, a ridosso dell'aggressione giapponese di Pearl Harbour, per perorare la causa di un nuovo ordine internazionale che riconoscesse «il vantaggio della mutua intelligenza e della collaborazione fraterna delle razze diverse, nessuna delle quali è nata a servire». Pubblico anche questo. Pochi giorni dopo, il 15 gennaio, scrive ancora Simoncelli, «in una circostanza pubblica e di particolare solennità», una conferenza al teatro Brancaccio di Roma di monsignor Celso Costantini, segretario della Congregazione di Propaganda Fide, il filosofo si spingeva a prevedere una «nuova collaborazione a cui tutte le razze saranno chiamate alla fine del presente conflitto».
Il 28 maggio del 1943, in occasione dell'affollata commemorazione alla Normale di Michele Barbi (un personaggio che incontreremo più avanti), aveva reso omaggio al comune maestro Alessandro D'Ancona: «Noi che avemmo la fortuna di essere stati alla scuola del D'Ancona, lo ricordiamo maestro di scienza e di vita, quello che più di tutti ci fece sentire ed amare nella perennità della storia e del calore della fede vivente la Patria immortale; e abbandonarlo oggi all'oblio ci parrebbe empietà vile, poiché anche nella furia della lotta più aspra si può e si deve serbare la misura e osservare la giustizia». Parole che non mancarono di trovare ampia eco negli ambienti antifascisti, dal momento che D'Ancona era ebreo. A questo punto è doveroso porci una domanda: quale altra personalità del regime ebbe il coraggio di dire in pubblico cose del genere? Nessuno. Anche chi avrebbe avuto obiezioni da muovere, se ne restò in silenzio. E il silenzio non fu solo quello degli uomini di Mussolini…
Nel bel libro Passaggi (Einaudi), Vittorio Foa, parlando di suoi amici «illustri antifascisti», ha messo il dito sulla piaga: a parte Croce e pochissimi altri, «nessuno aveva detto una sola parola contro la cacciata degli ebrei dalle scuole, dalle università, dal lavoro, contro quella che è stata un'immonda violenza… I nomi che mi vengono subito in mente sono quelli della mia parte politica, taciturni come tutti gli altri».
Per approfondire di cosa stava parlando Vittorio Foa, è interessante osservare quel che accadde verso la fine degli anni Trenta alla Sansoni, la casa editrice di Giovanni Gentile, guidata da suo figlio Federico. Se ne occupò già Gianfranco Pedullà in un libro, Il mercato delle idee. Giovanni Gentile e la casa editrice Sansoni (Il Mulino), che però non dava conto di alcuni scambi epistolari portati adesso alla luce da Simoncelli. Va detto subito che per la Sansoni lavoravano a vario titolo molti israeliti: Walzer, Mondolfo, Eugenio Colorni, Sciaky, Roberto Almagià, Pincherle, Paolo D'Ancona, Giorgio Falco. E soprattutto un giovane critico messosi in luce con una scintillante monografia su Vittorio Alfieri: Mario Fubini, all'epoca trentottenne, ma già in cattedra a Palermo. Nel 1938 troviamo Fubini al lavoro per curare un volume sui «settecentisti» nella collana dei Classici italiani diretta da Luigi Russo e un altro su Foscolo. A metà luglio il «Giornale d'Italia» pubblica il Manifesto della razza e il mondo gentiliano entra in fibrillazione. Da San Vigilio di Marebbe (dove è in vacanza) Luigi Russo scrive a Federico Gentile a informarlo che il suo «scolaro» Ettore Levi, onde evitare grane al maestro, si è detto disposto a rinunziare al volume su Francesco Petrarca e a «cedere» i risultati delle sue fatiche a un altro normalista, Antonio D'Andrea. Ma, aggiunge Russo, sarà meno facile trattare con Fubini, «il quale si abbatterà moltissimo… e rinunzierà malvolentieri alla nominalità del suo lavoro». Un tono «secco», osserva Simoncelli, «sorprendente perché privo di reazioni sdegnate» contro la legislazione sulla razza, «diretto a risolvere subito l'aspetto pratico del problema» nel sostituire gli studiosi ebrei con altri non ebrei, come se tutto fosse «ineluttabilmente normale». In effetti Fubini si mostra subito assai meno remissivo di Levi. Fubini è in vacanza a Cogne e di lì scrive a Federico Gentile: «Sono molto turbato e rattristato, per le notizie di questi giorni; Ella può pensare quel che significhino per me! Mi sarà dato ancora lavorare come vorrei?». Non tutti, in ogni caso, sono, come Luigi Russo, poco sensibili ai temi etici sollevati dalle leggi razziali. In merito alla «marea antisemita», il vicedirettore della Normale, Gaetano Chiavacci, scrive negli stessi giorni a Federico Gentile una lettera che gli fa onore: «Dovremo assistervi passivi? O è lecito in qualche modo mostrare le grossolane inesattezze di quelle sedicenti conclusioni scientifiche?».
Passa qualche giorno e Federico Gentile comunica a Russo di aver scritto a Fubini «con molta delicatezza e amicizia, esortandolo a continuare il lavoro che io in ogni modo pubblicherò». Anche se poi afferma di rendersi conto delle difficoltà. Difficoltà che sono ben presenti a Isacco Sciaky, in vacanza ad Alleghe, che scrive a Giovanni Gentile, da poco trasferitosi in Versilia, preannunciandogli una visita a Forte dei Marmi: «Porterò la pioggia? Responsabilità più, responsabilità meno…». Poco dopo Sciaky si trasferirà a Tel Aviv e all'estero ripareranno nel giro di qualche anno quasi tutti gli studiosi israeliti. Fubini invece resterà in Italia fino al 1943.
Torniamo, adesso, al 1938. A metà agosto, dopo una circolare ai provveditorati che vieta l'adozione di testi firmati da autori ebrei, Russo, in una lettera a Federico Gentile, torna sul caso Fubini: «Non trovo delicato che io o lei si scriva a Fubini; è Fubini che deve dirci da sé, come ha fatto Levi, che rinunzia al suo lavoro, o almeno alla nominalità del suo lavoro». In una seconda missiva Russo proponeva di sostituire Fubini con Emilio Bigi, «un altro normalista», ma, aggiungeva, bisogna preoccuparsi di trattare molto delicatamente il Fubini, «il quale è assai suscettibile e ombroso… La dissimulazione del nome l'offenderebbe e d'altra parte la sospensione della pubblicazione ne deprimerebbe l'amor proprio». Certo, si poteva tenere il suo nome in copertina rinunciando alla diffusione del libro nei licei e Russo si dice disposto in tal caso a «sacrificare, senza essere un eroe, quel po' di guadagno che mi può venire da tutta l'antologia». Gentile gli risponde che scriverà a Fubini «nel senso da lei indicatomi», cioè per indurlo a farsi da parte, ma lo farà «molto a malincuore e quasi con vergogna».
Luigi Russo, però, insiste. Ha saputo che l'editore Principato è costretto a ritirare dalle scuole un libro dell'ebreo Attilio Momigliano (La Letteratura italiana) e vorrebbe potergli subentrare con la sua antologia, anche se si sente in dovere di aggiungere: «È doloroso che bisogna approfittare delle disgrazie altrui per i nostri interessi». Ma l'occasione è ghiotta. Il ministero sta predisponendo un albo dei libri «contaminati» da autori ebrei, libri che per questa ragione non possono essere ammessi al mercato scolastico. Secondo Russo è «il momento giusto per uscire» e «sarebbe veramente un bel guaio se la nostra Antologia per colpa, diciamo così, del povero Fubini, dovesse venire inclusa in quell'elenco». Ma Fubini non risponde. Russo, preoccupato per quel silenzio, torna a scrivere al giovane Gentile: «Io ho apprezzato sempre molto l'ingegno del Fubini, ma non l'animo troppo rimesso. Anche quando le cose gli andavan bene, egli aveva l'abitudine di lamentarsi». Successivamente propone di compensarlo ugualmente e di sostituirlo con Francesco Flora: «Fubini dovrebbe essere contento perché gli si salva il reddito». Passano pochi giorni e il tutto sembra avviarsi a soluzione. Federico Gentile informa Russo di aver ricevuto un'«affettuosa lettera» di Fubini che gli chiede di trovare «la soluzione migliore». «Gli rispondo immediatamente», scrive Gentile, «che cercheremo un nome da sostituire al suo, lasciando a lui tutti i diritti d'autore».
Russo ha fretta. Proprio in quei giorni si lamenta con Benedetto Croce del fatto che, pur essendo il volume in questione «pronto in tipografia da un pezzo» e «nonostante le assicurazioni ufficiali che la raccolta va bene anche coi nuovi programmi», l'editore non si decida «a metterlo fuori». Parole scritte, osserva Simoncelli, «senza alcun cenno alla sostituzione, per la vigente ignominia razziale, del nome del Fubini». Giovanni Gentile, invece, si rende conto del problema e dice che vorrebbe far uscire il libro senza il nome di un curatore che non fosse quello vero: Fubini, appunto. Ma questi si rassegna: «Il mio amico professor Luigi Vigliani, insegnante di italiano e latino al Liceo D'Azeglio», scrive a Federico Gentile, «mi dice di essere disposto ad assumere l'incarico di cui abbiamo parlato. Io preferirei la soluzione accennata da suo padre: ma se non fosse possibile, la cosa si potrebbe accomodare in questo modo». E in quel modo si accomoda. Russo ne sarà compiaciuto, non tornerà mai su quella vicenda e nel dopoguerra — come bene raccontato da Pierluigi Battista in Cancellare le tracce (Rizzoli) e da Paola Frandini in Il teatro della memoria (Manni) — sarà un gran fustigatore di suoi colleghi accusati di qualche compromissione con il fascismo (Natalino Sapegno, Giacomo Debenedetti) e si presenterà, da indipendente, nelle liste del Partito comunista italiano (candidato «di testimonianza», in Sicilia, là dove sapeva che non sarebbe stato eletto) alle elezioni del 18 aprile del 1948.
Ma torniamo ai fatti di dieci anni prima. Il problema che riguarda Fubini si ripropone per l'altro volume, quello su Foscolo. La questione stavolta è sollevata dal presidente del Comitato scientifico per l'Edizione nazionale delle Opere foscoliane, Vittorio Cian. Il quale chiede lumi in merito al «caso Fubini» al direttore dell'edizione, Michele Barbi. Barbi si rivolge allora a Giovanni Gentile, che adesso, alla luce anche del fatto che non esiste alcun divieto per gli ebrei di firmare opere non destinate alla scuola, va a perorare la causa di Fubini con il ministro Giuseppe Bottai. Ma non la spunta. Vien fuori allora la proposta (accolta dal filosofo) di far firmare il libro, sulla base di «un'intesa onorevole», a Plinio Carli, segretario del Comitato foscoliano. Il quale Carli, in una nota «riparatrice», avrebbe trovato il modo di «rendere a ciascuno il suo», cioè di attribuire a Fubini i dovuti meriti per la curatela. Fubini reagisce a quella che considera un'«intimazione» e se ne dispiace con Barbi: «Ho ricevuto la sua lettera. Non mi pare che vi sia, per usare le sue parole, la possibilità di un'intesa onorevole tra il Carli e me: un'intesa come quella di cui ella mi parla, non sarebbe onorevole né per me né per il Carli, e nemmeno, mi permetta di dirlo, per la Commissione che l'ha suggerita e che la dovrebbe sanzionare con la sua autorità… Non vedo poi come il Carli potrebbe in una nota riparatrice "rendere a ciascuno il suo", dal momento che di "suo" non vi è se non il nome, e mio è tutto il resto».
Successivamente Fubini si spiega con Giovanni Gentile: «Se io accettassi la soluzione propostami, quali fossero i vantaggi personali che ne potrei avere», gli scrive, «io verrei ad aderire ad un atto di ingiustizia, dando il mio consenso alla soppressione del mio nome a un lavoro che mi appartiene». E ancora: «Forse ella mi dirà che io ho pur consentito a lasciar pubblicare sotto un altro nome l'antologia dei Classici italiani da me curata: ma, a parte il fatto che si trattava di un'opera destinata alle scuole e perciò direttamente colpita da una proibizione legale, io sono stato indotto ad accettare la soluzione propostami, unicamente per far un piacere a suo figlio e al Russo, che sarebbero stati danneggiati da un mio rifiuto… Non ho mai amato i sotterfugi e forse avrei fatto meglio a rifiutare, ma non voglio che il caso costituisca un precedente». Inoltre, prosegue, quello foscoliano «è lavoro di tutt'altra importanza, e, a rigore, nessuna legge ne proibisce la pubblicazione… perciò col mio consenso io stesso contribuirei, in certo qual modo, alla effettiva esclusione di noi ebrei dalla cultura della nazione, a cui sentiamo, ora più che mai, di appartenere». Se poi, concludeva Fubini, «la Commissione ritiene di dovere, in seguito al mio rifiuto, ritirarmi l'incarico affidatomi, lo può naturalmente, quali siano i suoi moventi; da parte mia non posso, anche se non mi è dato farle valere, che opporre validissime ragioni giuridiche e morali a una simile decisione». Infine una sfida: «Mi permette di aggiungere che sarebbe per me cagione di vivo dolore il sapere che tra coloro che mi hanno posto quell'alternativa e al mio rifiuto sono disposti a rinunciare all'opera mia, vi è lei a cui, come non pochi della mia generazione, sono debitore di tanta parte della mia cultura? Non posso però credere che ella voglia contribuire, andando al di là dei divieti legali, o, almeno percorrendoli, alla nostra esclusione dalla cultura nazionale ed accrescere in tal modo l'isolamento cui siamo costretti».
Il filosofo rimane toccato da questa lettera e risponde quasi scusandosi: «Né io, né certamente il Barbi, abbiamo pensato un momento a fare la minima pressione sopra la sua volontà e tantomeno a un'intimazione». Dopodiché torna alla carica con Bottai, sottoponendogli nuovamente il «quesito Fubini». Ma non ottiene il via libera. Si muove anche Vittorio Cian — il quale era stato relatore in Senato al momento della conversione in legge dei decreti sulla razza — che parla di «colpa grave» (curioso lapsus, nota Simoncelli: non danno, colpa) inflitta «alla nostra edizione foscoliana» dai «giusti provvedimenti antiebraici» e relaziona a Gentile dicendogli di aver chiesto a Bottai una «semi discriminazione» (cioè una liberatoria) a favore di Fubini. Ma senza risultato. Si trova così un ennesimo compromesso e Barbi scrive a Fubini: «Posso finalmente darti l'assicurazione che desideri dal Comitato, il volume sarà pubblicato anonimo, senza che altro nome figuri né sul frontespizio, né sulla prefazione, neppure quello del Comitato onde nessun equivoco è possibile». Fubini non si rassegna del tutto: «Le condizioni di cui tu mi parli rappresentano per me delle condizioni minime e, se si presentasse la possibilità di condizioni differenti, vale a dire fra l'altro se esistesse anche un solo precedente in questo senso, io avrei diritto di esigere un più aperto riconoscimento dell'opera mia». Nel settembre del 1941 Barbi muore e tutto torna in alto mare. Cian va nuovamente alla carica con Fubini, che non ha più dato notizia di sé. Ma, prima di muoversi, manifesta a Gentile la sua perplessità: «Forse a Fubini sarebbe ostico d'avere a trattare con me di questa faccenda delicata anche perché mi conosce tutt'altro che tenero verso la sua razza». Gentile spedisce Cian da Bottai, che lo riceve con «un'accoglienza cordiale», ma «di pochi minuti, in piedi». Cian continua a lamentarsi del fatto che Fubini non si faccia vivo con lui e sostiene che ciò sia a causa delle sue «idee razziali» talché, suggerisce a Gentile, forse «si arrenderebbe più volentieri — o meno malvolentieri — dinanzi a una tua lettera». Se, osserva Simoncelli, Cian «continuava a ostentare le proprie "idee razziali" che, note al Fubini, lo avrebbero comprensibilmente trattenuto dal volere rapporti con lui, e se quindi toccava a Gentile ristabilire i contatti, era evidente che questi avesse idee diverse e che tale diversità fosse ben nota agli altri protagonisti del caso».
Un contatto tra Fubini e Giovanni Gentile si ristabilisce nell'aprile del 1942, quando il giovane critico scrive all'anziano filosofo una lettera di condoglianze per la morte (il 30 marzo) del figlio Giovannino. Gentile risponde con affetto, riprendendo il discorso da dove si era interrotto: il volume sarebbe stato pubblicato anonimo e ovviamente i diritti sarebbero stati riconosciuti per intero a Fubini nella misura da lui stesso indicata. Ne informa Cian, che così si complimenta: «Hai risposto, come sempre, come non si poteva meglio, ed hai fatto bene, data la razza, a toccare il tasto dei compensi che, del resto, gli spettavano». Ma Fubini non raccoglie quel cenno ai soldi, anzi scrive a Gentile: «Nemmeno ho da fare alcuna proposta sul compenso per il lavoro fatto o per i danni patiti, di cui ella mi parla nell'ultima sua; non chiedo nulla perché mi ripugna fare questione di lucro quella che è per me — a parte il lavoro fatto e reso inutile — una questione morale».
Le cose, poi, si complicarono ancora. Tra l'autunno del '43 e l'inverno del '45 è l'ora dell'occupazione nazista e della lotta partigiana. Gentile viene ammazzato da un commando dei Gap. A guerra terminata, nell'agosto del 1945, Cian torna a farsi vivo con Fubini, ma con toni diversi, più melliflui: «Come vedi dall'intestazione di questo foglio ti scrivo in veste, anzitutto, di rappresentante superstite e caduco del Comitato foscoliano, ma anche del vecchio maestro ed amico che gode di darti il tuo ben tornato e di farti i suoi auguri più cordiali… Dopo tanti guai e in mezzo a tante tristezze mi è motivo di conforto il poterti rinnovare oggi, senza più timore di veti di natura extra-letteraria, l'invito a riprendere l'opera tua di collaboratore di prestigio all'edizione del Foscolo…». Poi, come incidentalmente, Cian cerca di nascondersi dietro il filosofo ucciso l'anno precedente: «Non ho bisogno di ricordarti gli sforzi fatti da me allora, con l'aiuto del povero Gentile, per indurre il ministro d'allora a rinunziare al suo veto irragionevole». Fubini evita di fare polemiche e l'anno seguente viene chiamato a subentrare a Cian alla presidenza del Comitato dell'Edizione nazionale delle Opere di Foscolo. Nel 1951 gli è finalmente possibile dare alle stampe il libro che aveva tanto atteso, con il suo nome sul frontespizio. «Quali ragioni abbiano ritardato sino ad oggi la pubblicazione di questo volume, da tempo annunciata, non importa qui ricordare; non ai pochi che bene le conoscono, non agli altri, ai quali potrebbe sembrare che rammentandole io indulgessi a recriminazioni, per tanti rispetti inopportune, o mirassi a cattivarmi la benevolenza del lettore, facendogli presente le difficoltà incontrate in un lavoro già di per sé non facile, che ho dovuto interrompere e riprendere non una sola volta durante un così lungo spazio di tempo», scrive nella prefazione. Ringrazia poi Luigi Vigliani, che gli aveva «prestato» il nome, l'amico Franco Antonicelli, che nel '42 gli aveva offerto di pubblicare il saggio per l'editrice De Silva, e il preside della facoltà torinese di Giurisprudenza Giuseppe Grosso, «al quale consegnai il manoscritto nell'ottobre del '43 quando fui costretto ad allontanarmi dal Paese dove mi trovavo e che me lo custodì fedelmente in quei tempi fortunosi». E qui aggiunge — assieme ad una dedica a Michele Barbi — un'esplicita, inaspettata, menzione di Giovanni Gentile che «si dedicò all'Edizione nazionale del Foscolo con quell'impegno e quello zelo che portava in ogni impresa culturale». Per l'epoca fu un fatto clamoroso. Ma nessuno lo notò o fece sapere che lo aveva notato.

Corriere 19.2.13
Nella nobile rinuncia di Benedetto il grande turbamento della fede
di Emanuele Severino


Nel nobile modo in cui il 10 febbraio Benedetto XVI ha espresso la sua rinuncia è indicato esplicitamente il problema centrale del cristianesimo: si trova «nel mondo del nostro tempo, soggetto a rapide mutazioni e turbato da questioni di gran peso per la vita della fede» («In mundo nostri temporis rapidis mutationibus subiecto et quaestionibus magni ponderis pro vita fidei perturbato»). Rispetto a questo problema, che un Pontefice dichiari di non avere più le forze per affrontarlo è un tema che, nonostante la sua rilevanza e pertinenza, passa in secondo piano. Nel testo, la parola pondus («peso») compare tre volte: come peso delle questioni riguardanti la vita della fede, come peso del gesto di rinuncia e come peso del ministerium che viene lasciato per il venir meno delle forze. Ma solo il primo peso vien detto «grande»: la vita della fede è oggi gravata da «questioni di gran peso» ed è essa stessa turbata dal turbamento del mondo. Il mondo cristiano, tanto meno un Pontefice, possono riconoscere che il turbamento della fede è ben più profondo di quello visibile, dovuto alla corruzione all'interno della Chiesa.
Il turbamento del mondo, tuttavia, riguarda non solo la fede religiosa, ma anche quelle altre forme di fede ancora dominanti (e che non amano sentirsi dire che sono a loro volta «fedi»). Mi riferisco soprattutto al capitalismo, alla democrazia, al capitalismo-comunismo cinese o, in Iran, alla mescolanza di teocrazia e capitalismo; e il comunismo sovietico, come il nazismo, erano tra le più rilevanti di queste forze. Ognuna delle quali avverte la necessità di eliminare le proprie degenerazioni, ma si rifiuta di ammettere l'inevitabilità del proprio tramonto. Non è una metafora né un'iperbole fuori luogo affermare che ognuna di esse si sente un dio che deve distruggere gli infedeli. Ma, come la fede religiosa, anche la vita di queste altre forze è gravata da «questioni di gran peso» — da questioni che fanno intravvedere l'inevitabilità di tale tramonto.
Certo, un Pontefice deve credere che il cristianesimo durerà fino alla fine del mondo. Ma la gran questione è se quelle forze — dunque anche il cristianesimo — si rendano conto del loro vero avversario, che le scuote e le travolge. Il «relativismo» è stato l'avversario di Benedetto XVI. Lo sforzo di combatterlo ha avuto un carattere soprattutto pastorale. Il semplicismo concettuale e l'ingenuità del relativismo ne favoriscono infatti la diffusione presso le masse, e tale diffusione è tutt'altro che irrilevante per la vita della fede. Giovanni Paolo II si avvicinava maggiormente all'avversario autentico quando individuava negli inizi della filosofia moderna (Cartesio) la matrice di tutti i grandi «mali» del secolo XX, quali le dittature del comunismo e del nazionalsocialismo, o l'egoismo dell'economia capitalistica. In questa prospettiva, lo stesso relativismo può essere inteso come un parto di quella matrice.
Ma tutte queste interpretazioni non riescono ancora a guardare in faccia l'avversario autentico. Anche su queste colonne ho invitato le varie forme di fede ad alzare lo sguardo affinché, se vogliono vivere un po' più a lungo, non accada loro di combattere i nani, quando invece il gigante pesa già su di esse e toglie loro il respiro. Il gigante che possiamo chiamare «Prometeo». Anche qui, è ovvio, mi limiterò ad alcuni cenni; doppiamente insufficienti perché a chi sta per morire, e non vuole, è estremamente difficile far alzare lo sguardo sulla propria morte.
All'inizio dei tempi è invece un altro gigante a togliere all'uomo il respiro, impedendogli di vivere. L'uomo può incominciare a vivere solo se vuole trasformare se stesso e il mondo da cui è circondato. Se non fa questo non può nemmeno compiere quella trasformazione di sé che è il respirare in senso letterale. E muore. Vive solo se si fa largo nella Barriera che gli impedisce di trasformare sé e il mondo. La Barriera è l'Ordine immutabile della natura. Solo se la penetra, la sfonda, la squarta, e comunque la fa arretrare, può liberarsi un poco alla volta dal suo peso e ottenere ciò che egli vuole. La Barriera è l'altro gigante: il tremendum (per servirci, ma per altri scopi, dell'espressione di Rudolf Otto). Ma è anche il fascinans (ancora Otto), perché l'uomo può incominciare a vivere solo se domina le parti della Barriera frantumata, e se ne ciba — così come Adamo, cibandosi del frutto proibito, frantumando cioè l'icona stessa del divino, può diventare Dio («Eritis sicut dii», «sarete come dei», dice il serpente). E infatti il tremendum-fascinans è il tratto essenziale del sacro, del divino, del Dio.
La Barriera divina vive inviolata solo se uccide l'uomo; l'uomo vive soltanto se uccide Dio. Il fuoco è il simbolo essenziale della potenza divina; e Prometeo ruba il fuoco — uccide l'inviolabilità degli dei — per darlo all'uomo. Prometeo è l'uomo. Soprattutto da due secoli egli è l'avversario della tradizione. Mostra infatti che il divino merita di tramontare e che su questo meritarlo si fonda tutto ciò che più salta agli occhi, ossia l'allontanamento della modernità e soprattutto del nostro tempo dai valori della tradizione e dunque dalla «vita della fede» (in questo contesto, la corruzione della Chiesa è più grave di tutte le forme passate del suo degrado). Se Dio esistesse, non potrebbe esistere l'uomo, ossia ciò la cui esistenza è considerata innegabile anche da chi si è alleato con Dio. Giacché, dopo l'inizio dell'uomo, la Barriera si è ritirata, ha lasciato spazio al mondo, Dio è diventato trascendente, e l'uomo della tradizione lo ha trovato meno tremendum e più fascinans, e gli si è alleato, diventando uomo di fede, non solo cristiana ma anche quella degli dei — delle barriere — in cui consistono le forze (sopra menzionate) via via dominanti nel mondo. Prometeo, ora, ruba il fuoco dell'alleanza dell'uomo con Dio. È la potenza di questo furto a nascondersi, per lo più inesplorata, sotto le «rapide mutazioni» del nostro tempo, «turbato da questioni di gran peso per la vita della fede».

Repubblica 19.2.13
Quando i filosofi pensano in grande
Verso un pensiero sull’intera realtà. Oggi un convegno a Milano
di Maurizio Ferraris


Completata la critica del postmoderno si tratta, per la filosofia contemporanea, di passare a una fase costruttiva, di “ricostruire la decostruzione”. Il che però non significa ritornare all’ordine (e quale, poi?), ma elaborare una filosofia che si sforzi di rendere conto dell’intera realtà, dalla fisica al mondo sociale. Non stupisce che, in questo clima di ricostruzione e non di restaurazione, torni ad affacciarsi il progetto di una filosofia speculativa, di un “filosofare in grande” che, da almeno un secolo, sembrava abbandonato. Lo dimostrano i testi di nuovi filosofi che rilanciano l’idea di un realismo speculativo.
Così è nei saggi raccolti nel monumentale The Speculative Turn. Continental Materialism and Realism( a cura di Levi Bryant, Nick Srnicek e Graham Harman, re. press), o in Les nouveaux réalistes, curato da Alexander R. Galloway (Éditions Léo Scheer), in Dopo la finitudine di Quentin Meillassuoux, o nei lavori di Gabriel e di Hogrebe.
Gli autori sono di provenienza molto varia, si va dall’americano Graham Harman (nato nel 1968) all’inglese Ray Brassier (nato nel 1965), a francesi come appunto Quentin Meillassoux (nato anche lui nel 1968), o Catherine Malabou e Bernard Stiegler, che si sono formati con Derrida. Ma si tratta di una svolta che riguarda l’intero mondo filosofico, e che oggi, al San Raffaele di Milano, sarà uno dei temi del convegno Le molte facce del realismo. Storia e geografia di un problema filosofico, nel quadro di un programma di ricerca nazionale che coinvolge oltre cento studiosi (il convegno è visibile in streaming a questo indirizzo: http://www. ustream.tv/ channel/unisr).
Nella prospettiva dei “realisti speculativi”, lo speculativo viene associato al materialismo e al realismo, mentre tradizionalmente era associato allo spiritualismo e all’idealismo. La torsione spiritualista era caratteristica del neoidealismo italiano e anglosassone del secolo scorso, che muoveva cartesianamente dallo spirito.
Ma non c’è nulla del genere in Hegel, per il quale il concetto emerge dall’essere e lo spirito emerge dalla natura. Per Hegel gli elementi logici non sono prodotti dall’Io, ma emergono dalla natura, dalle cose stesse. Certo Hegel è costretto a pensare l’emergenza con gli strumenti di cui dispone, come sviluppo del concetto e dello spirito, e magari facendo riferimento a principi mitologici come l’anima del mondo. Noi, grazie a Darwin, possiamo pensarla come lo sviluppo dell’epistemologia (intelligente) sulla base di una ontologia non intelligente, d’accordo con la proposta di Dennett. Non è necessario concepire uno spirito o una teleologia che dall’alto in basso determini il passaggio dalla natura allo spirito o, in altri termini, dall’ontologia all’epistemologia. Si può benissimo proporre una prospettiva dal basso in alto: l’organico è il risultato dell’inorganico, la coscienza emerge da elementi che non sono coscienti, e l’epistemologia emerge dall’ontologia. Il senso si produce dal non senso, e le possibilità sorgono dall’urto della realtà, senza che per questo la filosofia debba ridursi a una visione frammentaria e rinunciare a fornire un senso complessivo del reale.
Un secondo elemento della svolta riguarda precisamente la possibilità di una filosofia sistematica. Che cosa organizza il sistema? Che cosa lo muove? Nei sistemi idealistici tradizionali l’organizzazione del sistema veniva dallo spirito o dal concetto. Ma, come abbiamo visto, noi oggi disponiamo di spiegazioni più efficaci e meno impegnative, di matrice neo-darwiniana. A questo punto, abbiamo tutto ciò che è necessario per un sistema pienamente articolato. C’è un primo livello, quello di una ontologia del mondo naturale, in cui si passa dall’inorganico all’organico e finalmente al cosciente. Senza che sia necessario presupporre in questo un qualsiasi “disegno intelligente”. A questo stadio, abbiamo la costituzione di una ontologia che costituisce la premessa per una epistemologia, ossia per un sapere su ciò che c’è. Questa epistemologia si sviluppa attraverso la coscienza, il linguaggio, la scrittura, il mondo delle leggi, della politica, della scienza e della cultura. Ed è a questo punto che diviene capace di due operazioni. La prima è quella di una ricostruzione del mondo naturale, che è l’oggetto della scienza della natura. La seconda è quella di una costruzione del mondo sociale, che è l’oggetto delle scienze sociali, e nella quale l’epistemologia ha per l’appunto un ruolo non semplicemente ricostruttivo, ma costruttivo, visto che spiega la legge di formazione degli oggetti sociali.
Un ultimo aspetto riguarda la nozione di “realismo positivo”. In definitiva, la doppia articolazione che ho descritto più sopra si presenta come il rovescio speculare dell’operazione di filosofia negativa di matrice cartesiana. Se per la filosofia negativa si trattava di revocare ogni consistenza ontologica al mondo per riportare tutto al pensiero e al sapere, e di lì procedere alla ricostituzione del mondo per via epistemologica, con il realismo positivo – recuperando la lezione dell’idealismo tedesco e coniugandola con l’evoluzionismo – è possibile partire dall’ontologia per fondare un’epistemologia. La quale, quando accede al mondo sociale, può e deve diventare costitutiva, mentre non può esserlo nel mondo naturale, come voleva la filosofia negativa che da Cartesio conduce ai postmoderni. Se tutti questi movimenti di cui si vedono segni da più parti dovessero trovare uno sviluppo credo che potremmo trovare un piccolo motivo di soddisfazione: la filosofia non è morta, e non si limita alla dimensione critica, ma si sforza di pensare in grande.

Repubblica Salute 19.2.13
Depressione
Alla ricerca di nuovi farmaci tra neurotrasmettitori e stress
di Francesco Bottaccioli


Nei laboratori di psiconeurofarmacologia c’è fermento: è stata avvistata una nuova pista per rimediare alla limitata efficacia degli antidepressivi ormai noti a tutti dopo il libro di Irving Kirsch, Harvard University, I farmaci antidepressivi, il crollo di un mito (Tecniche Nuove). La nuova pista si chiama glutammato, che i lettori più avvezzi alla cucina conosceranno come modificatore del gusto dei cibi, di cui fanno largo uso i dadi da brodo sintetici e i ristoranti cinesi poco raffinati creando così qualche problema alla salute degli avventori.
In realtà, il glutammato è il più importante neurotrasmettitore attivante (eccitatorio, in gergo), al punto che si ritrova nell’80% dei neuroni della corteccia cerebrale.
Dal glutammato deriva il suo antagonista, il GABA (acido gamma amino butirrico), il più importante neurotrasmettitore inibitorio: l’uno è lo yang e l’altro lo yin, direbbero i cinesi antichi. L’importanza dell’equilibrio del glutammato per la salute del cervello viene da diversi studi: l’ultimo è della fine di gennaio pubblicato online da JAMA Psychiatry dove si dimostra una presenza di anticorpi verso uno dei recettori del glutammato (NMDA) nel sangue di una percentuale significativa di persone con diagnosi iniziale di schizofrenia.
Ma sul legame glutammato-depressione si è molto più avanti: sono ormai diversi gli studi e i commenti sull’uso di un antagonista del recettore NMDA in persone in ricovero per gravi condizioni depressive e in persone con depressione cosiddetta resistente. L’antagonista recettoriale è la ketamina che è conosciuto e usato come anestetico. Al riguardo è curioso che quello che viene presentato come un nuovo giro di boa della ricerca neurofarmacologica si presenti nelle stesse vesti 60 anni dopo l’inizio dell’era degli psicofarmaci, che partì proprio da un anestetico, da un antistaminico, usato dai chirurghi come anestetico, che migliorava l’umore: da lì venne la clorpromazina, il primo antipsicotico, e poi l’imipramina il primo antidepressivo.
La ketamina, somministrata per endovena, sembra avere un effetto rapido sulla sintomatologia depressiva, che però svanisce nel giro di qualche ora fino a un massimo di 1-2 giorni. Uno studio che ha applicato ketamina per 3 volte a settimana ha riscontrato una più prolungata azione antidepressiva: fino a 18 giorni dalla sospensione dell’ultima endovena. Ma un 30% dei depressi non risponde e anche gli effetti collaterali non sembrano irrilevanti.
L’aspetto più interessante è però il retroterra di questa linea di ricerca: la ketamina infatti avrebbe effetti antidepressivi perché ridurrebbe l’azione del glutammato
che, nel cervello di molti depressi e della gran parte dei sofferenti d’ansia, è in eccesso. Da dove viene questo eccesso del neurotrasmettitore? Dallo stress. Un anno fa su Nature Review Neuroscience, Maurizio Popoli del Centro di neurofarmacologia dell’università di Milano ha redatto un’ampia rassegna sul glutammato evidenziando il ruolo centrale del cortisolo, il principale ormone dello stress, nell’attivare la rapida scarica di glutammato e nell’incrementare il numero dei suoi recettori, fenomeni che vengono regolati dal recettore per i cannabinoidi. Insomma riscopriamo la centralità dello stress nella genesi dei disturbi dell’umore e l’efficacia di comportamenti come le tecniche antistress che riducono il cortisolo e l’attività fisica che aumenta la produzione di cannabinoidi, i regolatori naturali del glutammato. Senza endovenose, dagli effetti incerti.
* Presidente onorario Società Italiana Psiconeuroendocrinoimmunologia