giovedì 21 febbraio 2013

l’Unità 21.2.13
D’Alema: l’alternativa è tra il Pd e il caos
intervista di Simone Collini


Berlusconi ha spedito una lettera in cui si parla di come riavere il rimborso dell’Imu: mossa insensata o da non sottovalutare, presidente D’Alema?
«Berlusconi sta conducendo una battaglia disperata, all’insegna della demagogia, della menzogna. Approfittando anche della disinformazione di un Paese che sembra avere rimosso quanto è accaduto. Quella lettera è un espediente da Sudamerica anni 50, ma la cosa più grave è che è stato consentito a Berlusconi di presentarsi facendo finta di non aver governato il Paese per dieci anni, di non essere il principale responsabile anche dei provvedimenti che condanna, che dice di voler cancellare».
Tipo l’Imu, appunto?
«L’Imu, che è stata istituita dal governo Berlusconi con il federalismo fiscale, ma non solo. Anche Equitalia l’ha creata il governo Berlusconi, con un decreto Tremonti. Non dimentichiamolo. Negli anni in cui Berlusconi ha governato non c’è stata la diminuzione delle tasse che aveva promesso, mentre è aumentato il debito pubblico. È incredibile che non venga chiamato a rispondere di tutto ciò, che oggi possa presentarsi facendo finta di essere stato all’opposizione».
Una forza di opposizione, al sistema tout court, è quella di Grillo: cosa direbbe a un elettore deluso dal centrosinistra tentato di votare M5S?
«Ho un grandissimo rispetto per le tante persone che scendono in piazza intorno a Grillo e per il sentimento di protesta, ben comprensibile, che li anima. Ma Grillo ha contribuito molto a fare di questa campagna elettorale un momento di rissa, in cui i problemi del Paese sono stati totalmente rimossi. Stiamo assistendo a un passaggio di testimone tra Berlusconi e Grillo, che appare un Berlusconi più giovane, più trasversale, ma con un’impronta simile. Lo vediamo del resto anche dalle promesse campate per aria, come quella di dare mille euro al mese a tutti i disoccupati. Ma dove si trovano i soldi per farlo? Non si sa... Tanto lui non è tenuto a rispondere. Il suo è un inquietante populismo autoritario».
A cui però nessuno ha saputo far fronte, vedendo i consensi che accumula: sono stati commessi degli errori in questa campagna elettorale?
«In queste settimane, al centro del dibattito sui giornali, in televisione e tra alcune forze politiche, si è passato molto tempo a chiacchierare sulle future alleanze del Partito democratico, senza vedere invece cosa sta emergendo, e cioè una profonda crisi della democrazia, senza riflettere sufficientemente sul pericolo di una rottura del rapporto tra cittadini e istituzioni, che può finire in uno sfacelo per il Paese. È stato sottovalutato da più parti il rischio che dal bipolarismo berlusconiano si può uscire con una crisi drammatica».
Da più parti in senso politico?
«Non solo. Una responsabilità per come si è sviluppata questa campagna elettorale la porta anche una parte della classe dirigente italiana, che pensa di fare dispetti ai politici senza rendersi conto che sta danzando sull’orlo del vulcano. Se martedì mattina il Paese non fosse governabile, ciò comporterebbe la reazione negativa dei mercati, il crollo della Borsa, l’aumento dello spread, uno scenario da Grecia... E a pagare il prezzo più alto sarebbero i cittadini più deboli».
Pensa che il Pd abbia fatto il possibile per far fronte a questa situazione?
«Il Pd si è trovato in una condizione difficile, essendo l’unica forza che mette in campo una proposta di governo per il Paese ed essendo aggredito da tutte le parti. A questo si è aggiunta l’improvvida campagna elettorale di Monti». Perché improvvida?
«Non ha minimamente compreso il quadro reale del Paese: da una parte il rischio di una caduta populista come effetto del degrado a cui Berlusconi ha portato l’Italia, dall’altra la possibilità di riscatto. Ed è evidente che l’alternativa alla caduta populista non può che essere imperniata sul Pd. Insomma, l’idea del centro candidato a governare il Paese a prescindere dalla sinistra rivela la profonda distanza di Monti dal Paese».
Era inevitabile, in campagna elettorale, che si desse un profilo moderato attaccando Vendola, non crede?
«Che, con questo populismo montante di Berlusconi e Grillo, Monti abbia passato la campagna elettorale a prendersela con Vendola è ridicolo. Se si vuole fare argine al rischio di disgregazione, la sinistra è un interlocutore indispensabile».
E dell’ipotesi grande coalizione evocata da Monti cosa ne pensa?
«Ma con chi si può fare una grande coalizione? Con Berlusconi? Una simile ipotesi urta contro qualsiasi considerazione di buon senso».
Monti sostiene che Merkel non voglia il Pd al governo: il suo giudizio?
«La smentita della Cancelleria dimostra che Monti è incappato in un doloroso infortunio».
Lavoro e crescita sono i due temi su cui ha puntato Bersani in questa campagna elettorale ma, a livello comunicativo e mediatico, non sembra aver pagato: conviene ora battere su altri tasti?
«Bersani ha presentato un’agenda di governo seria, fatta di proposte concrete su questioni fondamentali per uscire dalla crisi: occupazione, investimenti, fiscalità più equa, attenzione al Mezzogiorno, interventi a favore delle fasce più deboli... Naturalmente, è difficile che questa serietà possa bucare il muro dell’indifferenza in un’informazione drogata da chi promette soldi a tutti, in una campagna elettorale in cui vince chi la spara più grossa. Ma non dobbiamo inventarci nulla, adesso. Dobbiamo insistere sulla serietà delle nostre proposte e sul fatto che il Pd è la grande forza di cambiamento». Cambiamento è tema grillino, è tema berlusconiano...
«Figuriamoci. Non permetteremo un rovesciamento delle parti a chi ha governato in maniera disastrosa per quasi un decennio, non lasceremo fare a chi grida di voler bombardare il Parlamento, di voler sciogliere i sindacati. Siamo noi che possiamo garantire un cambiamento della politica, una riforma delle istituzioni, una lotta alla corruzione, una rinascita del Paese attraverso il lavoro e la crescita economica. Siamo noi garanzia di stabilità e governabilità. Per questo se il Pd non vincerà in modo chiaro sarà l’avventura. Magari qualcuno si diverte a votare Grillo, ma poi che succederebbe?».
Vuole spaventare gli elettori?
«È un’analisi oggettiva. In questo momento l’alternativa vera non è neanche più tra noi e Berlusconi. O c’è una netta affermazione del Pd, oppure il caos. Io ho il dovere di dire la verità, i cittadini hanno il diritto di votare come vogliono. Siamo in democrazia».
Può sorgere il dubbio che la verità sia un’altra: il Pd chiede il voto utile per avere la maggioranza anche al Senato. «Per il Paese è fondamentale una vittoria netta del Pd. Poi Bersani potrà lavorare per una maggioranza ampia, solida, il patto tra progressisti e moderati annunciato da tempo. Ma è importante che lo faccia da una posizione di forza, senza subire condizionamenti».
Il dialogo sarà soltanto con Monti?
«Siamo una forza responsabile, democratica, che vuole dialogare con tutti. Certo, anche con i parlamentari del Movimento 5 Stelle. Dialogare con Grillo non è facile perché è lui a non volerlo. Il Paese ha bisogno di uscire dalla rissa, dalla contrapposizione violenta, che non farebbe altro che aggravare le difficoltà che già l’Italia sta vivendo. E la vittoria del Pd può permettere di ricostruire».

Corriere 21.2.13
Bersani non teme veti dall’estero
«Resuscita paure inesistenti»
Il leader preoccupato: fin dove arriverà la sua propaganda?
di Maria Teresa Meli


Non è più la reazione delle ambasciate che fa paura al Pd, ma l'atteggiamento di Monti: fino a dove arriverà la sua propaganda elettorale? Fino a che punto dipingerà il Pd come il luogo del vecchio?

ROMA — «Ancora», Pier Luigi Bersani non sa quasi più che rispondere a Mario Monti. «Resuscita paure che non ci sono ormai da tempo: è in campagna elettorale».
Direbbe di più, il segretario del Partito democratico, ma si è ripromesso di non superare mai la soglia della civiltà con l'attuale premier, di non prenderlo di petto, di non attaccarlo, se non per difendersi.
Il leader del Pd ricorda bene quando il Partito popolare europeo fece l'endorsement per Mario Monti, lo ricorda perché gli arrivò una telefonata dallo staff di Angela Merkel per dirgli: «Per noi non c'è nessun problema se il Pd vince le elezioni». Certo, la postilla era la stessa di quella di adesso: «Ci piacerebbe se il Pd dopo la vittoria coinvolgesse Monti». È un ritornello che ripetono anche dagli Stati Uniti.
E di queste affermazioni Bersani fa tesoro, perché mondate dagli amori-umori italiani vogliono dire solo una cosa: siamo pronti a vedervi governare il Paese.
Il codicillo successivo — preferiremmo lo faceste con l'attuale premier e non con Nichi Vendola — è un auspicio che il segretario del Partito democratico tiene da conto, ma che non limita il suo raggio d'azione. Perché, come spiega Massimo D'Alema all'Unità, sono «gli italiani che votano alle elezioni, e non la signora Merkel». E dopo la precisazione della cancelliera aggiunge: «Ha fatto tutto Monti, il suo alla fine si è rivelato un doloroso infortunio».
Pier Luigi Bersani ha fatto una grande fatica per presentare se stesso e il suo partito all'Europa. Quando è andato dal ministro delle Finanze tedesco Schäuble sapeva già di avere il viatico di Merkel: «Sappiamo quale sarà l'esito delle elezioni in Italia, e non lo osteggeremo». E da allora è stato tutto uno scambio di email e messaggi, con un unico obiettivo: far comprendere all'estero che il Partito democratico non è la cinghia di trasmissione del fu Pci. Lavoro difficile, e lungo.
Lavoro che rischia di essere vanificato — solo in Italia — dalle parole pronunciate ieri da Mario Monti. Per questa ragione D'Alema si inalbera e dice: «Senza di noi Monti non sarebbe». Per questa ragione il segretario del Pd Bersani tiene il freno a mano tirato finché può, ma a un certo punto ammette: «Mi sono arrivati tanti messaggi dall'estero, dove, al contrario dell'Italia, hanno già metabolizzato la nostra vittoria».
Anche dagli Stati Uniti è arrivato il via libera. Tramite Giorgio Napolitano. O almeno così hanno interpretato a largo del Nazareno l'esito dell'incontro tra il presidente della Repubblica e il leader degli Usa.
Non è più la reazione delle ambasciate che fa paura al Pd, piuttosto sono la resistenza di Monti, lo scetticismo di Pier Ferdinando Casini e le incognite di un voto di cui nessuno ha chiari i contorni che preoccupano lo stato maggiore del Partito democratico. A preoccupare il Pd è l'atteggiamento dell'attuale premier: fino a dove arriverà la sua propaganda elettorale? Fino a che punto metterà in mezzo il Pd, dipingendolo come il luogo del vecchio?
Perché Bersani non vuole la guerra, non è nel suo stile, non è nelle sue corde. Ma di una cosa il leader del Partito democratico è certo: «Se è la guerra che si vuole, la guerra ci sarà». E ancora: «Io penso che potremmo tutti insieme disegnare un Paese diverso, ma se alla fine di diverso ci sarà solo il Partito democratico, perché tutti faranno finta di non avere niente a che fare con questa esperienza del centrosinistra, allora vorrà dire che saremo in pochi, sempre gli stessi, a segnare la differenza».

Repubblica 21.2.13
Michael Stuermer, ex consigliere di Kohl e intellettuale di centrodestra
Il rischio è quello di vedere l’euro sul lastrico
"Il centrosinistra non mette paura il disastro sarebbe Berlusconi"
intervista di Andrea Tarquini


L’alternativa moderata a Bersani non è un centrodestra come il nostro, è il Cavaliere. Cioè il peggio Se l’Italia va nella direzione sbagliata, ci sarà una crisi di fiducia dell’Europa

BERLINO - «C´è un conflitto tra gli interessi di politica interna di Angela Merkel e l´interesse suo (e nazionale) tedesco in Europa: per il quale il disastro sarebbe non Bersani, bensì Berlusconi». Ecco il commento a caldo del professor Michael Stuermer, intellettuale di punta del centrodestra ed ex consigliere di Helmut Kohl.
Professore, che dice delle affermazioni di Monti?
«Intanto vediamo che ormai pensiamo europeo e non più solo nazionale. Quanto accade in Italia importa per noi quasi quanto eventi e sviluppi da noi. Questo sviluppo è positivo: l´Italia per la moneta comune e non solo è un fattore di prima importanza. Se va nella direzione sbagliata, affronteremo una crisi di fiducia dell´euro ma anche di tutta l´Europa stessa».
Bersani sarebbe contrario agli interessi tedeschi?
«No, la vittoria probabile di Bersani è percepita dall´establishment e da molti in Germania, anche da me, come fatto positivo: in tal caso verrà una coalizione di centrosinistra. Ma l´alternativa moderata non è un centrodestra come il nostro, è Berlusconi. Cioè il peggio. Merkel potrebbe cooperare bene con un centrosinistra italiano, ma in politica interna non amerebbe il prestigio che una vittoria di Bersani darebbe alla Spd. Il suo ego europeo e il suo ego tedesco sono in contraddizione».
Crede allora a quel che Monti ha detto?
«Monti è molto esperto, probabilmente non sarà il prossimo premier, a meno che una situazione bloccata non imponga un governo dei tecnici. Bersani sembra avere molte più chances. Frau Merkel è troppo accorta, saggia e di grande abilità tattica per non guastarsi prima i rapporti col probabile futuro premier italiano. Di lei non si può criticare la mancanza di saggezza e abilità tattica. Per questo se Monti ha parlato così vedo alcuni punti interrogativi su quel suo giudizio».
E i recenti colloqui Bersani-Schaeuble a Berlino?
«Appunto, Schaeuble è il numero due nella politica tedesca e l´uomo chiave nella gestione degli affari internazionali e dell´eurocrisi. Giustamente Bersani ha voluto parlare con lui, e Schaeuble ha voluto verificare che Bersani nell´essenziale condurrebbe una politica conforme all´Europa e all´euro».
Insomma, diverso dal gelo con Hollande prima del voto?
«Totalmente diverso. Il sistema francese è bipolare, quello italiano punta a coalizioni, come da noi, lo capiamo di più. Nella geometria della politica Bersani sembra avere un ruolo interno vicino a quello di Merkel: contro di lui come contro di lei non si può governare. Merkel a settembre sarà la vincitrice magari relativa, forse con una grosse Koalition, prematuro dirlo, ma la vincitrice. È in Italia che si sta per votare».
E una vittoria di Berlusconi come sarebbe per gli interessi tedeschi?
«Per gli interessi tedeschi e per tutta l´architettura dell´euro e dell´Europa sarebbe un duro colpo. Affrontiamo una seria crisi finanziaria, dell´euro, del debito sovrano e una crisi di fiducia. Se Berlusconi vincesse, in pochi giorni porterebbe l´euro sul lastrico».

il Fatto 21.2.13
Bersani dichiari B. ineleggibile
di Paolo Flores d'Arcais


Sostiene Bersani che l’unico voto utile per chiudere definitivamente con Berlusconi è quello al Pd. Sostiene Monti che Berlusconi i voti li compra, come dire che è un delinquente in senso tecnico. Sostiene Bersani che la prima legge che il suo governo farà approvare sarà sul conflitto di interessi. E Berlusconi confessa coram populo di essere un truffatore, mandando milioni di falsi rimborsi Imu, sperando in qualche pensionato analfabeta.
Bersani e Monti hanno un modo molto semplice per convincere gli italiani che le loro parole non sono emissioni di borborigmi propagandistici: si impegnino solennemente ad applicare, come loro primo gesto parlamentare, la legge sul conflitto di interessi che esiste già dal lontano 1957, e in base alla quale Berlusconi non è eleggibile.
Sostiene la legge 461 del 1957 all’articolo 10 comma 1, infatti, che non sono eleggibili “coloro che in proprio o in qualità di rappresentanti legali di società o di imprese private risultino vincolati con lo Stato per contratti di opere o di somministrazioni, oppure per concessioni o autorizzazioni amministrative di notevole entità economica”. In sede di discussione fu precisato che per “notevole entità economica” si intendeva qualunque concessione che eccedesse in valore quella di una tabaccheria. Anche a un immaginifico (s) mentitore professionale come il Cavaliere putiniano di Arcore risulterà difficile contestare che Canale 5, Rete 4, Italia 1 valgano un po’ di più, nel loro complesso, di un “sale e tabacchi”.
L’applicazione della legge 461/1957 è affidata in entrambi i rami del Parlamento alla rispettiva “Giunta per le elezioni”, che delibera a maggioranza. Anziché applicarla, la legge l’ha violata nel 1994 la maggioranza Berlusconi-Bossi-Fini-Casini, ed era un’indecenza prevedibile. Ma l’ha poi violata per due legislature anche la maggioranza dei Prodi, D’Alema, Bertinotti e altri Veltroni, immemore della protesta già avanzata da un comitato promosso da Vittorio Cimiotta (“Giustizia e Libertà”) e formato da Alessandro Galante Garrone, Paolo Sylos Labini, Ettore Gallo, Vito Laterza, Alessandro Pizzorusso, Aldo Visalberghi, Antonio Giolitti e il sottoscritto.
Poiché “perseverare diabolicum”, Bersani scandisca da qui al 24, in ogni discorso e dichiarazione, che se il Pd avrà la maggioranza la legge del ’57 non sarà più violata, e Berlusconi sarà perciò dichiarato “non eletto”. Se non ha nemmeno questo elementare coraggio (in realtà elementare decenza) non parli più di voto utile, visto che il voto al Pd sarebbe invece un voto complice.

Repubblica 21.2.13
Bersani promette: "Via il ticket sulle visite"
Il segretario Pd: "È una tassa odiosa, basta tagliare i 790 milioni per consulenze inutili"
di Silvio Buzzanca


ROMA - Abolire il ticket sulle visite mediche specialistiche. Pier Luigi Bersani, a pochi giorni dal voto, lancia la sua proposta sulla sanità. E indica anche cifre, costi e coperture. Il candidato premier del centrosinistra spiega, infatti, che «i cittadini spendono di tasca propria 834 milioni l´anno per pagare i ticket sulle visite specialistiche». Nello stesso tempo, continua, «la sanità pubblica spende ogni anno 790 milioni di euro in consulenze». La maggior parte di questa spese, ragiona il segretario del Pd, «sono inutili, come ha denunciato la Commissione parlamentare di inchiesta sul Servizio Sanitario Nazionale presieduta da Ignazio Marino».
Dunque, fatti due conti, l´operazione si potrebbe fare quasi a costo zero. Perché, continua Bersani, «il ticket è una delle tasse più odiose e ingiuste; perché è una tassa che ricade su chi è più malato». Motivazione politica e sociale che porta il candidato a Palazzo Chigi a volere «eliminare tutte quelle consulenze che non servono per tutelare la salute per abolire il ticket e sollevare da una spesa aggiuntiva quei cittadini che si devono curare». La promessa rientra in una idea ben precisa del ruolo della sanità. «Noi - spiega infatti il leader democratico - siamo per il mantenimento di un servizio sanitario nazionale pubblico e per tutti. Di fronte alla malattia non c è per noi nè povero né ricco».
La proposta però non piace al Pdl. Per Angelino Alfano la «proposta è generica, con poche possibilità di attuazione. Ciò che serve è dare, anche in ambito sanitario, maggiori detrazioni». Secca la replica del democratico Ignazio Marino: «Sorprende ricevere critiche da un partito che non ha nemmeno inserito la sanità nel suo programma. Alfano avanzi le sue proposte oppure si astenga dai commenti».
L´altro argomento che agita la campagna elettorale è il Quirinale. Perché Mario Monti ammette che dopo la sua "salita" in campo ha davvero poche possibilità di occupare il Colle. Ma il presidente del Consiglio a Radio Anch´io prima lancia la candidatura di Emma Bonino . «Sarebbe una candidata molto, molto buona al Quirinale - , dice il Professore. - E´ una di quelle persone di cui ce ne vorrebbero di più». Passano pochi minuti e il Professore però si spiega meglio a Repubblica Tv. «No, assolutamente no, la Bonino non è la mia candidata. Tempo fa avevo detto di avere un candidato, non è donna e conosce bene quel palazzo, si chiama Giorgio Napolitano». Lo stesso uomo che avrebbe in mente Silvio Berlusconi. Ma il Cavaliere in pubblico nega. Si trincera dietro il no di Napolitano alla rielezione. «Noi - spiega Berlusconi - abbiamo un nostro candidato, ma non è Napolitano perché lui ebbe a dire a me non tanto tempo fa che non pensa a una continuazione del suo lavoro pubblico».
Ma accanto all´ipotesi del Napolitano bis cresce l´ipotesi di un Quirinale in "rosa". Accanto a quello della Bonino circolano nomi di altre donne: Anna Finocchiaro e Rosy Bindi, Anna Maria Cancellieri e Paola Severino. Mentre tra gli uomini "corrono" sempre Romano Prodi e Giuliano Amato. E sullo sfondo restano le candidature di Massimo D´Alema e Franco Marini.

il Fatto 21.2.13
L’intellettuale Pd. Miguel Gotor
Dialogo obbligato con i grillini, ma i 5 Stelle dovranno staccarsi dal loro guru
di Wanda Marra


Sono più curioso dei 5 stelle che dei grillini”. Usa una battuta Miguel Gotor, capolista del Pd in Senato in Umbria, ma soprattutto storico e intellettuale di riferimento di Bersani, per spiegare l’atteggiamento con cui i Democratici si aprono al dialogo con lo stesso movimento il cui leader attaccano continuamente.
Professor Gotor, cosa vuol dire fare scouting tra i grillini?
Dopo le elezioni, “esplorare” la qualità e il senso di responsabilità della loro rappresentanza parlamentare, verificando nel merito le posizioni.
Voi sperate - come Bersani ha fatto capire - che ci sarà una distinzione tra loro e il loro leader?
Lo capiremo nei primi mesi di attività parlamentare. Grillo è un guru che gioca allo sfascio e il suo protagonismo è una delle manifestazioni della crisi del berlusconismo. Ma i deputati del Movimento 5 stelle hanno il diritto e il dovere di essere valutati per i loro comportamenti. Dovranno eleggere i loro capogruppo, fare dichiarazioni di voto, assumersi responsabilità e questo sarà un bene: inizia una nuova fase di quel movimento. Peraltro Grillo ha già dimostrato di voler controllare in modo autoritario e intollerante la sua parte e credo che questo potrà produrre degli effetti con i rappresentanti parlamentari del movimento. Fideismo e democrazia di solito non vanno d'accordo. In una battuta: sono più curioso dei 5 stelle, meno dei grillini.
Voi pensate che i 5 Stelle terranno oppure che una volta arrivati in Parlamento si sgretoleranno?
Credo che manterranno le loro posizioni e raggruppamenti. Ma penso anche che emergeranno diversità di posizioni quando saranno costretti finalmente a metterci ciascuno la faccia senza usare quella di Grillo.
Questa improvvisa apertura dopo mesi di attacchi frontali non sarà paura di perdere?
Noi non abbiamo paura di perdere, né quella di vincere. Come dice San Paolo: giusta è la battaglia e andiamo avanti con il nostro passo. Il fenomeno Grillo non ci sorprende affatto, anzi è dentro la nostra analisi della crisi italiana. Berlusconi nel corso di vent'anni ha cambiato il volto dei moderati del nostro Paese radicalizzandoli ed estremizzandoli.
Il risultato di Monti che ogni giorno si prefigura peggiore non vi porterà per forza a dover allargare ulteriormente la coalizione?
Non vedo l'automatismo. In ogni caso non ci soprende che tanti di quei voti moderati oggi non vadano a Monti, ma siano intercettati da Grillo. La base ideologica e culturale del grillismo è stata formata ogni sera da "Striscia la notizia", il cui autore è quell'Antonio Ricci che ha creato un transfert popolare e populista tra il pupazzo Gabibbo (vendicatore, moralizzatore, protestatario, dissacrante) e il suo amico Grillo, la maschera del comico che finalmente le canta alla politica.
Un’analisi del genere non è proprio un presupposto di stima....
So che la mia è un’analisi parziale. Nei 5 stelle ci sono anche istanze libertarie, piattaforme etiche condivisibili, desiderio sincero di rinnovare la politica. Provare a capire è il presupposto per capirsi e stimarsi.
Meglio pensare a una collaborazione con grillini o pidiellini?
A me piace giudicare le persone senza etichette precostituite. A pelle, preferirei un grillino, o per meglio dire, un esponente del Movimento 5 stelle.
Il boom di Grillo non è di per sè una sconfitta della sinistra. le cui istanze in parte l’M5S assume?
Ho una lettura diversa del fenomeno. La crisi italiana dipende dall'esistenza di partiti o movimenti di carattere personale, proprietario e personalistico di cui anche Grillo è espressione e da una degenerazione del ruolo dei partiti che tendono a occupare le istituzioni.
Monti ha dichiarato che la Merkel non vorrebbe Bersani premier, cosa ne pensa?
Ho difficoltà a commentare una battuta infelice, che peraltro è stata smentita dall'entourage della Merkel. L'Italia sceglie in autonomia i suoi governanti. Ho la sensazione che il senatore Monti non dia il meglio di sè in campagna elettorale.

Corriere 21.2.13
Nico Stumpo, Pd, sui grillini
«Convergenze su temi sociali, corruzione e costi della politica»
intervista di Daria Gorodisky


ROMA — «Scouting? La parola usata da Bersani in riferimento ai futuri eletti del Movimento 5 Stelle è un modo per dire che molti loro argomenti sono cose che noi vorremmo fare». Dice così Nico Stumpo, uomo macchina del Pd e personaggio chiave della campagna di Pier Luigi Bersani durante le primarie per la guida del centrosinistra.
Significa che avete punti di convergenza con Beppe Grillo?
«Non è questo. Però non conosco i candidati del M5S, e penso che con loro su diversi temi ci potrà essere convergenza».
Vi accusano di voler fare campagna acquisti. Quando Bersani dice «vediamo se intenderanno partecipare a una discussione parlamentare senza vincolo di mandato» sembra ipotizzare possibili cambi di casacca.
«Noi non abbiamo mai fatto campagna acquisti. Ben altri hanno avuto questi comportamenti».
Però alla fine i numeri sono numeri, e, anche se il centrosinistra vincerà le elezioni, potrebbe aver bisogno di sostegni. Oltre che a Monti, mano tesa al M5S?
«Diciamo agli italiani che al Paese serve un governo stabile e, per averlo, devono votare per noi. Siamo fiduciosi. Però, come ripete Bersani, la nostra maggioranza non sarà un recinto chiuso: servirà un consenso forte e quindi siamo pronti a confrontarci con tutte le forze europeiste...»
Non è che Grillo possa essere definito proprio un europeista.
«Infatti non prevediamo una discussione con il Movimento 5 Stelle, ma con i singoli futuri eletti in Parlamento. Il M5S rappresenta il termometro del malcontento italiano. Segna febbre, indignazione diffusa. Serve una cura, che in politica significa proposta. Chi decide di votare M5S è attratto da argomenti di pancia: manca una proposta, c'è solo una protesta».
Su quali temi ritenete di convergere con i parlamentari del M5S?
«Proposte di giustizia sociale, di attenzione ai deboli. E la reintroduzione del falso in bilancio, le norme anticorruzione, la diminuzione del numero dei parlamentari e dei costi della politica, il conflitto di interessi...»
Non lo avete fatto finora. E la «febbre» che citava prima non si è manifestata oggi: non vi siete accorti che covavano malessere e indignazione verso la politica? Anche verso la vostra politica?
«Non abbiamo governato noi nell'ultima legislatura, ma abbiamo comunque cercato di ridurre i costi della politica: la maggioranza di centrodestra ha bloccato tutto. Rispetto al conflitto di interessi, nei due anni di governo Prodi dal 2006 al 2008 non ci siamo arrivati, siamo caduti troppo presto».
Secondo lei, chi vota Grillo a chi toglie consensi?
«Grillo, anche proprio per quel suo metodo diciamo non pacato, sta andando a pescare a destra. Quelle modalità non piacciono al nostro elettorato».

il Fatto 21.2.13
Lombardia, grillini al bivio del voto utile. E Ambrosoli spera
Attesa per l’endorsement di Celentano in favore del candidato del centrosinistra, mentre molti montiani lo sceglieranno in chiave anti-Maroni
di Silvia Truzzi


Milano Disgiunto o utile, che dir si voglia: mai come questa volta più che sul voto in sé si ragiona sugli effetti che le scelte elettorali avranno sugli scenari politici. Vuoi per le complicate conseguenze della peggior legge elettorale della storia, vuoi perché nell’incertezza del trapasso della Seconda Repubblica, si fanno i conti con fantasmi di varia natura: il redivivo B. e, alle celtiche latitudini, la Lega 2.0 di Bobo Maroni. Adriano Celentano ha pubblicato sul suo blog un brano che invita i cittadini a votare. E anche qualcosa di più: “Ci stanno rubando il mondo però si dice in giro che fra i partiti c’è un’onda nuova che è partita dal niente, una valanga che sta avanzando come un ciclone per abbattere il marcio della nazione. Se non voti ritornano ancora”. Della sua vicinanza con Grillo si è scritto molto, tanto che si dà per certa (anche se per ora non lo è) la sua partecipazione all’evento del Movimento Cinque Stelle in piazza San Giovanni, domani a Roma. Grillino ma non a tutti i costi, se come scrive l’Unità, sembra intenzionato a scegliere il figlio dell’Eroe borghese per la corsa al Pirellone,
Il giuslavorista Pietro Ichino senatore Pd folgorato sulla via della Scelta civica da Mario Monti – ha fatto sapere che alle regionali anche lui voterà Umberto Ambrosoli. Come lui altri montiani, in funzione anti-Lega, hanno deciso di fare la croce sulla lista Ambrosoli piuttosto che sul candidato di bandiera, l’ex sindaco Gabriele Albertini. E qui sta in parte la chiave della rimonta del candidato del centrosinistra. Ma il rebus vero sono i grillini lombardi. Il dilemma è importante: sostenere il loro candidato governatore Silvana Carcano o scegliere Umberto Ambrosoli? Non ci sarà nessuna defezione, è la tesi di molti militanti a Cinque Stelle. E naturalmente di Silvana Carcano: “Abbiamo già detto più volte che la scelta è tra continuare o no sulla strada del degrado politico cui abbiamo assistito fino ad oggi. Chi ha abbracciato il Movimento 5 Stelle ha colto la proposta di fare un salto in direzione contraria. E personalmente non ho avuto la percezione di ‘diserzioni’ in favore di un presunto voto utile”. Di avviso contrario il beneficiario del suddetto voto utile, Umberto Ambrosoli: “Sui social network ho ricevuto messaggi di elettori grillini che alla Regione voteranno per me. Non so quanto sia un campione rappresentativo, ma il senso dei loro discorsi è scegliere un cambiamento e non la continuità con la giunta precedente. Del resto ci sono affinità con il movimento di Grillo: abbiamo scelto anche noi di fare le primarie, abbiamo preso impegni seri sui tagli ai costi della politica e costruito un programma di governo con un sistema, liquid-Feedback, usato anche da loro”.
Se i sondaggi sono attendibili (e non è affatto scontato che lo siano: ci hanno detto quasi tutto il contrario di tutto), i numeri del Pirellone non danno speranze di governo al M5S: secondo Swg (il sondaggio è datato 5 febbraio) Maroni si attesterebbe tra il 37 e il 40%, Ambrosoli tra il 34 e il 37%, Carcano tra il 12 e il 15% e Albertini tra l’ 8 e l’11%. Un’indagine sulle intenzioni di voto, pubblicata il giorno dopo da Tecnè dà numeri leggermente diversi, ma nella stessa direzione: Maroni al 39,6%, Ambrosoli al 38,2%, Albertini al 10,2%, Carcano al 10,1%. In Lombardia si presenta come candidato governatore (Fare per fermare il declino) anche Carlo Maria Pinardi, classe 1957, commercialista e docente di finanza aziendale in Bocconi. I sondaggi lo davano di poco sopra all’1 per cento, ma le dimissioni di Oscar Gianni-no e la bufera sul leader del movimento rischiano di disperdere il piccolo capitale di preferenze di Pinardi. E dove, però? Il ragionamento che molti fanno è votare per non rischiare. E allora arrivano mail che fanno più o meno così: “Assieme al voto disgiunto per la presidenza della Regione Lombardia da parte degli elettori della lista Monti per il Parlamento, c’è necessità di un voto utile anche da parte di chi non è in particolare sintonia con Umberto Ambrosoli e la sua coalizione, ma non sta a destra. L’alternativa, infatti, è Maroni e non altro”. Spiega l’autore, Sergio Vicario, imprenditore della comunicazione: “Ho scritto questa mail perché parlando con diverse persone, ho avuto la sensazione che il voto disgiunto sia una possibilità realistica. Anche se il meccanismo, con tre schede per Camera, Senato e Regione è tutt’altro che semplice”.

La Stampa 21.2.13
Sicilia, il geometra 5 stelle spaventa Bersani
Cancelleri: ora si meravigliano, ma andremo oltre le regionali
di Federico Geremicca


«Ora si meravigliano, ah, ah, ah... Ma di che si meravigliano? ». L’auto del giovane geometra prova a uscire da Palermo - cercando un varco dentro un ingorgo che sembra Il Cairo - proprio mentre Bersani e Renzi fanno capolino sul grande palco montato affianco al Teatro Massimo. «Si meravigliano - ripete -. Ma di che si meravigliano? ». Il geometra - poi diremo chi è - insiste a chiedere: sapendo che una risposta onesta alla sua domanda purtroppo non c’è. Infatti, che senso ha - oggi - sorprendersi se è proprio nel luogo della peggior politica che Beppe Grillo sembra a un passo da un trionfo senza pari in Italia?
Eccola, dunque, la Sicilia: l’Isola, la regione che per il Movimento Cinque Stelle sta diventando quello che fu l’«Emilia rossa» per il Pci e il «Veneto bianco» per la Dc. Gli ultimi e impubblicabili sondaggi danno Grillo a un passo dalla vittoria sia alla Camera che al Senato. Gli istituti di ricerca dicono: il M5S certamente primo partito dell’Isola e forse - da solo più forte delle più forti coalizioni, quelle faticosamente costruite intorno a Pd e Pdl. La sfida per il primo posto - e per il decisivo premio in seggi al Senato - si gioca dunque sul filo: e se alla fine vincesse Grillo - questo vuol dire il geometra «cos’hanno da meravigliarsi? ».
Giancarlo Cancelleri ha 38 anni, faceva il geometra, appunto, ma da tre mesi veste i gradi di capo dei grillini siciliani: o, almeno, quelli di presidente dei 15 consiglieri eletti in Regione col voto dell’ottobre scorso. «Non mi chieda quanto - dice - ma andremo certamente oltre quel risultato: molto oltre, credo». La folta pattuglia che guida all’Assemblea regionale siciliana si sta infatti muovendo con accortezza: non avendo imbarazzi, per di più, a farlo seguendo le regole della politica più tradizionale...
Per dirne una: Rosario Crocetta - il governatore dell’Isola - ha bisogno di voti per far passare questo o quel provvedimento? Bene: i grillini ci sono, e sono pronti a votarlo. Ma non in cambio di niente. E così, un voto oggi e un altro domani, si sono accaparrati la poltrona di vicepresidente dell’Assemblea regionale e quella di presidente della Commissione Ambiente. «Questa ci serve - dice Cancelleri - per fare la nostra battaglia sull’acqua pubblica e sul verde». E l’altra? «L’altra è per far capire che non siamo entrati nelle istituzioni per girarci i pollici... ».
Dal palco, intanto, Bersani e Renzi ci danno dentro, magari entrambi un poco stufi: il primo di mostrarsi in giro col giovane sindaco, il secondo di replicare quasi il ruolo di «bravo presentatore». Ma la Sicilia è in bilico, la campagna quasi finita e un ultimo sforzo si deve fare. In piazza, tra i tanti altri, anche Carlo Vizzini, ex segretario del vecchio Psdi e habitué delle sfide elettorali sull’Isola. In mattinata, nel suo studio di piazzetta Bagnasco, confidava: «Siamo tutti lì, centrosinistra, centrodestra e Grillo. Ma l’istituto di sondaggi di cui mi servo qui a Palermo giura che i grillini sono avanti, e che cresceranno ancora».
L’avanzata sembra inarrestabile, e non solo in Sicilia. Il Movimento cresce e sgretola luoghi comuni che sembravano solidissimi: che Grillo si sarebbe «sgonfiato» alle prime elezioni vere (quelle politiche, cioè), che in Sicilia vince sempre il voto di chi comanda e ha clientela... «Stiamo scoprendo che non è così», ammette Giuseppe Lupo, segretario regionale del Pd. Che alza il velo su un altro fenomeno inquietante come mai...
Beppe Grillo comincia a far breccia in mondi che non erano suoi. «La buona borghesia, l’alta borghesia - dice Lupo -. L’altra sera ero ad una cena e sono rimasto impressionato. Un importante imprenditore mi dice che voterà Grillo, la figlia - che gestisce una boutique - idem, ed anche il notaio di cui si servono darà il suo voto a Grillo. Non sono più solo gli arrabbiati dei quartieri popolari, i disoccupati e i giovani senza lavoro a protestare votando M5S. Ora ci si mette anche gente benestante, che pure dovrebbe esser in grado di capire che con Grillo non si va da nessuna parte».
Va invece lontano l’auto del geometra Cancelleri: «Comizio in provincia», dice. Conferma che il Movimento allarga la sua influenza e che cresce ancora. Nomi di siciliani importanti che voteranno Grillo, però, non ne fa o non ne sa. Ma ad un tratto gli si illumina lo sguardo: «Ecco, per noi voterà Claudio Gioè, l’attore. Ci aiutò molto anche alle regionali... ». Gioè, l’attore. Ha recitato nella fiction «Il capo dei capi». Interpretava Totò Riina. Ma non è aria che in Sicilia Beppe Grillo possa perdere dei voti solo per questo...

La Stampa 21.2.13
Toscana, la trincea del Pd assediata dai grillini
Lo scandalo del Mps ha creato molti delusi in tutta la regione. E c’è chi guarda già alle comunali di Firenze
di Giovanni Cerruti


Il sindaco di Firenze non si dice preoccupato per il probabile successo di Grillo ed è convinto che in Parlamento si potrà dialogare con molti eletti del Movimento

E’ tardi, è troppo «È tardi... ». Non è colpa della sveglia, che ha suonato e non l’ha sentita. E nemmeno dell’affanno di questi ultimi giorni, di queste ultime ore, del primo cappuccino della giornata che si fa portare dal bar, con questa brioche appena scartocciata che a momenti gli va di traverso. Nello studio legale di Alfonso Bonafede, 36 anni, avvocato civilista, capolista alla Camera del «Movimento 5 Stelle», si va di fretta: «Mi spiace per Matteo Renzi e la Toscana Rossa che fu, ma ormai è tardi per venirci a prendere». Prepararsi al Granducato dei Grillini? «Di sicuro -dice lui-, avremo pure i voti di parecchi renziani».
Arriva un sms, nel telefonino di Bonafede. E’ un cliente: «Grazie ragazzi per quello che state facendo. Le generazioni future vi ringrazieranno intanto lo faccio io». Siciliano di Mazara del Vallo, salito a Firenze per l’Università, si è fermato dopo la tesi sul «Danno esistenziale». Ora, tra sondaggi noti e previsioni facili, sta calcolando i danni che procurerà. «Nel 2009 mi sono presentato alle elezioni amministrative senza soldi, quasi senza campagna elettorale, e ho sfiorato il 2%: 4 mila voti. Lunedì la percentuale potrebbe fermarsi attorno al 18%, con più di 35 mila voti solo tra i fiorentini». In Toscana, obiettivo 15%.
A Palazzo Vecchio anche il sindaco Matteo Renzi va di fretta. Passa in ufficio all’alba, poi va Genova, poi Palermo, forse è rientrato nella notte, questa mattina Lombardia e la sera di nuovo qui, con i candidati fiorentini del Pd. Forse è tardi anche per lui. «In ogni caso meglio cento parlamentare grillini che cento leghisti», ha detto martedì sera all’Auditorium della Camera di Commercio di Prato, gran pienone, mezz’ora di comizio, camicia bianca e cravatta nera, mano sinistra in tasca, Grillo e i suoi che entrano al minuto 12 ed escono al minuto 21. «Toccano temi su cui spesso non ci facciamo sentire, facciamolo adesso».
Nei comizi Pd il Monte dei Paschi di Siena latita, e si può capire. In quelli dei «grillini» non manca mai. «Certo che inciderà sulla scelta del voto -dice l’avvocato candidato- E’ la sintesi perfetta del fallimento dell’abbraccio tra politica e finanza. Ci dicono " che botta di fortuna con lo scandalo Mps, chissà quanti voti prenderete! ", ma non è così, non ce n’era bisogno, il sistema stava già collassando». Proprio adesso arriva un altro sms, sul telefonino di Bonafede. Un indignato per il Monte dei Paschi di Siena: «Dopo quel che è successo non ci tradite almeno voi. Questa è l’ultima occasione! ».
Mps aiuterà non più di tanto il «Movimento 5 Stelle», come dice Bonafede. Ma danneggerà il Pd, specie in Toscana. Alle quattro del pomeriggio di martedì, mentre sta per cominciare la riunione di giunta, Matteo Renzi spiega che «anche qui Grillo farà un grande risultato, magari inferiore alle nostre attese e superiore alle nostre paure». Nessun angoscia, però. Piuttosto «bisogna pensare al dopo». Alle «tante persone perbene che lo seguono e andranno in Parlamento». Quel «meglio 100 grillini che 100 leghisti» vuol dire «che con buone proposte li si può convincere, non credo che Grillo o Gianroberto Casaleggio riusciranno a controllarli tutti».
Eppure, proprio a Firenze e proprio Renzi, il segnale del 2009 e quel quasi 2% allo sconosciuto avvocato Bonafede non l’avevano trascurato. Giunta dimezzata, da 16 a 8 assessori. Vendute tutte le auto blu. «Non c’è città che abbia l’Irpef più bassa di Firenze», dice a Prato. Dove ammette «un grande rispetto per chi lo vota, io non parlo male di Grillo, anche se mi sembra un coniglio che scappa dalle domande». Rosicchierà voti al Pd, «ma ne porterà via di più al centro-destra». E poi, suvvia, Grillo sa cambiare idea: «Me lo ricordo qui a Firenze, spaccava il computer sul palco e dopo due anni era già un blogger di successo... ».
Nello studio legale Bonafede il telefonino continua a ricevere sms. E il candidato capolista è lì che insiste a far di conto. «Ci fermiamo al 15%? Benissimo: avremo tre senatori e sei deputati! ». E spiega che non c’è da stupirsi, non c’era bisogno del Monte dei Paschi di Siena. «Due anni fa, tra Lucca, Carrara e Pistoia, eravamo al 5%. Un anno fa siamo entrati a Grosseto e Arezzo. Si va a ondate, e questa sarà la più grossa». Ne ha anche per Matteo Renzi: «Avesse vinto le primarie del Pd allora sì che ci avrebbero messo in difficoltà. Invece la sua sconfitta dimostra la staticità di un partito che non sa rinnovarsi».
Anche Alfonso Bonafede domani va a Roma, sarà sul palco di piazza San Giovanni con Beppe Grillo e gli altri candidati. «L’ho conosciuto un mese dopo quei 4 mila voti delle amministrative del 2009, ogni tanto lo sento. Casaleggio no, mai visto». Non ha un passato da ultrà di sinistra, mai frequentato centri sociali o black-block, come vorrebbe Silvio Berlusconi: al massimo una vaga somiglianza con Gad Lerner. E a Roma si porta un sogno: «Firenze avrebbe bisogno di un sindaco che vuole fare il sindaco e basta, non di uno che usa la città come trampolino... ». Attenzione. A Firenze, tra un anno, si vota per il sindaco...

La Stampa 21.2.13
Benni: Grillo? altro che fascista lui odia il militarismo
Il vecchio amico: e pensare che gli dissi “sei disimpegnato...”
di Andrea Malaguti


«Lui ha voluto entrare nel mondo del consenso politico Solo lì non l’ho seguito»

Stefano Benni, chi è Beppe Grillo per lei?
«Un amico un po’ ingombrante».
Quando vi siete conosciuti?
«Tanti anni fa, tramite Cencio Marangoni il suo impresario, ci trovammo a un ristorante e mi chiese se volevo collaborare con lui».
Come è cambiato da allora?
«Ha trent’anni e trenta chili di più».
Con che criterio scriveva i testi per lui?
«Non ho mai scritto testi per lui nel senso tecnico del termine. Parlavamo, ci scambiavamo qualche idea, oppure lui leggeva un mio pezzo su qualche giornale e prendeva la battute. Non sembrava quasi lavoro, ci divertivamo. Infatti per lo più non mi pagava... ».
Che cosa ha pensato quando è entrato in politica?
«Quando ho visto che da comico un po’ qualunquista stava diventando un comico di contenuti, che aveva voglia di parlare del mondo, sono stato contento, abbiamo fatto un pezzo di strada insieme. Ad esempio Beppe è stato uno dei primi a parlare in scena della catastrofe climatica, dello strapotere delle banche e della finanza, del problema delle carceri. Allora era controinformazione, non ricerca di voti. Poi un po’ alla volta ha scoperto il web e ha voluto entrare nel mondo del consenso politico. Ho rispettato la sua scelta, ma lì le nostre strade si sono allontanate».
Qual è stato il ruolo della televisione nella sua carriera?
«Penso gli abbia dato molto in fretta un’immensa notorietà. Ma la sua vocazione è teatrale, a contatto col pubblico, lì diventa un animale, gode».
Perché adesso rifiuta la tv?
«E’ l’unica cosa in cui mi ha dato retta in tanti anni ».
Con Sky prima ha accettato l’intervista, poi ha detto no.
«Non ho capito bene cos’è successo, certose aveva detto di sì doveva andarci. Penso che abbia deciso che, a questo punto, era meglio la piazza. Mi sembra che tutti i politici improvvisamente abbiano capito che la televisione non è più il centro di tutto».
Grillo è un dittatore, un rivoluzionario o un uomo qualunque molto arrabbiato?
«Non sta in nessuna di queste definizioni. E’ molto sicuro e aggressivo col pubblico, in privato è pieno di dubbi e ha bisogno di amici, come tutti. Non vive solo di politica, anche se sembra».
Non è un fascista?
«No. In tanti anni lo ho sentito parlare con orrore della militarismo, della propaganda, della violenza contro i deboli. Non può essere cambiato in pochi mesi. Si ripresenta Berlusconi e abbiamo il coraggio di dire che il pericolo per la democrazia è Grillo? ».
Fascista no, sfascista?
«Beppe ha capito che se spara cannonate prende voti. Non ha inventato lui questo metodo, lui lo sfrutta a volte con abilità, a volte meccanicamente e con superficialità. E’ un difetto che accomuna satira e politica: pensiamo che più gridiamo, più diciamo la verità. Non è così: la vera indignazione è calma e dolorosa, non esibita. Dopo le elezioni, Beppe dovrà avere il coraggio di cambiare, di lasciare da parte gli effetti speciali. Il difficile per lui e per il suo Movimento comincia adesso. Ma credo che se ne rendano benissimo conto.
Grillo è di destra o di sinistra? E la distinzione ha ancora senso?
«Per me sì, per lui molto meno, e su questo abbiamo litigato spesso».
A chi porterà via voti?
«Non capisco la parola “portare via”, in un paese dove la gente cambia idea e dimentica ogni dieci minuti. L’ elettorato di Beppe è molto vario. Chiedete lumi ai diecimila sondaggisti italiani».
Come se lo immagina tra cinque anni?
«Sarà L’imperatore di Tutte le Galassie. naturalmente. E io avrò il granducato di Sardegna e la presidenza della Finmeccanica, me lo ha promesso».
C’è qualcosa che unisce Grillo e Berlusconi?
«Non vedo affinità. Come modello di oratoria Silvio si ispira a Mussolini, Beppe a Jack Nicholson in Shining. E Beppe ha una moglie dolcissima che non gli fa pagare dei miliardi di alimenti».
Il MoVimento 5 Stelle esisterebbe senza di lui?
«Credo di sì. Anzi, dovrà esistere anche senza di lui».
La rete è democratica?
«Schizodemocratica. Ha dentro la democrazia e il potere, l’accesso alle informazioni e lo sfruttamento commerciale, la critica e l’esibizionismo. Ci vorrà tempo per capire dove andrà. Sarà una battaglia tra libertà e controllo. Ho molta paura delle multinazionali dei dati. Mi piace come lavorano certi hacker, è un nuovo tipo di intelligenza critica che io non ho».
Che battuta scriverebbe oggi per Grillo?
«Accidenti al giorno che ti ho detto: sei un comico troppo disimpegnato».
Ultima cosa. Lei lo vota ?
«Non dico mai per chi voto. L’unica volta che l’ho fatto, con Cofferati, ho preso una gran fregatura».

La Stampa 21.2.13
Da Mina a Silvestri. La musica che vota Beppe
Ligabue s’è allontanato, Caparezza e Gazzè no. E Celentano fa proseliti
di Mattia Feltri


Silvestri Mandò una clip entusiasta
Celentano Potrebbe essere a Roma sul palco
Mina Esposta pubblicamente pro Grillo
Villaggio «Beppe sarebbe medicina buona»

Non sono solo canzonette, come senz’altro sa Edoardo Bennato che duettò con Beppe Grillo cinque anni fa al Monnezza Day. Nell’occasione, per dire, Grillo incitò i napoletani alla secessione. La più attesa e più popolare e quindi più remunerativa delle adesioni è venuta martedì, quando Adriano Celentano ha diffuso il suo ultimo brano, forse di frettolosa cura, ma esplicito: «Fra i partiti c’è un’onda nuova / che è partita dal niente / e come una valanga sta avanzando / come un ciclone / per abbattere il marcio della nazione». Ora ci si aspetta che il predicatore di un tempo salga sul palco del predicatore attuale, domani a San Giovanni. Sarà difficile ma pure ci si aspetta, già più facile, che altri prendano coraggio e si dichiarino come si dichiarò (tessera numero uno del Movimento) la leggendaria Mina. Il suo sostegno non è mai mancato e divenne esplicito lo scorso ottobre con una lettera al Corriere della Sera: «Tu va’, dritto come un fuso. Corri Forrest, corri…». Chi ha la memoria più salda ricorda la prefazione a un libro di Grillo ( La Settimana, Casaleggio associati editore, maggio 2008): «Ce ne sono tanti [come lui]. E aumentano a vista d’occhio. Basta non girare la faccia. Basta guardare. E basta ascoltare». O, persino, una lettera al neonato blog nel maggio del 2005: «Unico valoroso paladino della nostra stracciatissima dignità di uomini confusi da troppe letali, chimeriche menzogne».
Ora è una bella truppa. Più o meno solida, ma bella numerosa, e canterina come Loredana Bertè che offrì al pubblico delle Invasioni Barbariche un inedito incentrato su «voglio Beppe Grillo come presidente / del villaggio globale». O come Caparezza, cantautore di Molfetta, che con Grillo ha un certo rapporto - furono insieme sul palco del V2 Day a Torino - sebbene mai evoluto in endorsement, semmai in una estrosa creazione lessicale: «E i grilli, lucidi cantanti d’idilli, ammutoliti da insetticidi epuranti di bruchi benestanti». Poi Caparezza fece l’autoesegesi e grilli stava per Grillo, vabbè, e bruchi benestanti per Berlusconi. Ecco, una bella truppa, con Daniele Silvestri che mandò una clip entusiasta per le comunali di Napoli, come aveva fatto in precedenza Ligabue, poi non più tanto convinto. A proposito di poco convinti: proprio pochi giorni fa è uscito un brano di Bennato all’apparenza inequivocabile - una specie di inno anti-Celentano - che dice così: «Al diavolo il predicatore / che predica senza morale / al diavolo il grillo parlante / che parla a tutta la gente... ». Ma intanto la natalità supera la mortalità. Ecco Max Gazzè: «Lo trattano come un comico che non ne capisce, in realtà di politica ne mastica da anni e per questo bisogna dargli fiducia». Ecco Fabri Fibra (un rapper, per chi non è aggiornato): «Controcultura è ciò che ha contenuto ma non ha immagine: Beppe Grillo è un esempio forte». Ecco i Two Fingerz (altri rapper) che cantano: «Una volta faceva il comico / e lo faceva per ridere / ora invece fa il politico / perché i politici fanno ridere». Ivano Fossati, oggi chissà, una volta ammise che gli sarebbe piaciuto scrivere l’inno grillesco, se non altro in omaggio alla senile intraprendenza.
L’intera famiglia De André gli vuol bene, Cristiano lo adora, e però pochi mesi fa Dori Ghezzi disse che se Fabrizio non fosse morto, Grillo non sarebbe capopopolo. Comunque Grillo poi si intasca un monumento come Paolo Villaggio («ho la sensazione che sarebbe una medicina buona per il nostro paese»), un altro monumento evergreen come Dario Fo, affine da anni («il giullare di cui c’è bisogno», 2007, il giorno del primo VDay), e pure di Aldo e Giovanni (senza Giacomo, inorridito alla sola idea) che hanno speso concetti affettuosi in una conversazione su Sorrisi e Canzoni. Come si vede, il popolo si ingrossa. Comprende gli eroi per caso del primo Grande Fratello (Cristina Plevani e Rocco Casalino), artisti non più di primissima fila come Francesca Rettondini e Francesco Baccini, un virtuoso multitasking come Flavio Oreglio e infine, giusto per riempire la casella mancante, c’è anche la starlette messa virtualmente alla porta: è Flavia Vento, che dichiarò la sua epifania grillina twitter, e Beppe Grillo la bannò. Per i non naviganti: fuori dai piedi, bella. Un piccolo mistero.

il Fatto 21.2.13
Vaticanisti e Opus Dei
Ora Repubblica copia il Foglio e il Giornale


Ieri qualche lettore di Repubblica ha temuto di averla confusa col Foglio o col Giornale, trovando in prima pagina due strani commenti sul Vaticano. Il primo era firmato da Paolo Rodari, fino all’altroieri vaticanista del gruppo Berlusconi, noto per le posizioni filo-cielline e le feroci campagne contro gli esponenti più illuminati della Chiesa come il priore Enzo Bianchi. Il secondo era dell’opusdeino Navarro-Valls, già portavoce di Wojtyla. Navarro scrive spesso su Repubblica, mentre Rodari è una new entry e il suo esordio è un’appassionata difesa del card. Mahony, che i cattolici Usa e Famiglia Cristiana vorrebbero escludere dal Conclave per aver coperto i preti pedofili della sua diocesi. Direbbe Ratzinger: “la dittatura del relativismo”.

Repubblica 21.2.13
Sesso e carriera i ricatti in Vaticano dietro la rinuncia di Benedetto XVI
"Non fornicare, non rubare" i due comandamenti violati nel dossier che sconvolge il Papa
Lotte di potere e denaro. E l’ipotesi di una lobby gay
di Concita De Gregorio


"In questi 50 anni abbiamo imparato ed esperito che il peccato originale esiste, si traduce sempre in peccati personali che possono divenire strutture del peccato. Abbiamo visto che nel campo del Signore c´è sempre la zizzania. Che nella rete di Pietro si trovano i pesci cattivi".

La zizzania. I pesci cattivi. Le "strutture del peccato". È giovedì 11 ottobre, Santa Maria Desolata. È il giorno in cui la Chiesa fa memoria di papa Giovanni XXIII, cinquant´anni dal principio del Concilio. Benedetto XVI si affaccia al balcone e ai ragazzi dell´Azione cattolica raccolti in piazza dice così: «Cinquant´anni fa ero come voi in questa piazza, con gli occhi rivolti verso l´alto a guardare e ascoltare le parole piene di poesia e di bontà del Papa. Eravamo, allora, felici. Pieni di entusiasmo, eravamo sicuri che doveva venire una nuova primavera della Chiesa». Breve pausa. Eravamo felici, al passato. «Oggi la gioia è più sobria, è umile. In cinquant´anni abbiamo imparato che la fragilità umana è presente anche nella Chiesa». Che c´è la zizzania, ci sono i pesci cattivi.

1. I ricatti

Il nuovo pontefice, nelle cui mani passerà la "Relationem", dovrà essere abbastanza "forte, giovane e santo"
"La zizzania, i pesci cattivi" citati da Ratzinger sono nel rapporto segreto dei tre cardinali

Nessuno ha capito, in quel pomeriggio di ottobre. I ragazzi in piazza hanno applaudito e pianto il ricordo di papa Giovanni. Nessuno sapeva che due giorni prima Benedetto XVI aveva di nuovo incontrato il cardinale Julian Herranz, 83 anni, lo spagnolo dell´Opus Dei da lui incaricato di presiedere la commissione d´indagine su quello che i giornali chiamano Vatileaks. Il corvo, la fuga di notizie, le carte rubate dall´appartamento del Papa. Herranz ha aggiornato Ratzinger con regolarità. Ogni settimana, in colloquio riservato, da aprile a dicembre. Il Papa ha appreso con crescente apprensione gli sviluppi dell´inchiesta: decine e decine di interviste a prelati, porporati, laici. In Italia e all´estero. Decine e decine di verbali riletti e sottoscritti dagli intervistati. Le stesse domande per tutti, dapprima, poi interviste libere. Controlli incrociati. Verifiche. Un quadro da cui veniva emergendo una rete di lobby che i tre cardinali hanno diviso per provenienza di congregazione religiosa, per origine geografica. I salesiani, i gesuiti. I liguri, i lombardi. Infine, quel giorno di ottobre, il passaggio più scabroso. Una rete trasversale accomunata dall´orientamento sessuale. Per la prima volta la parola omosessualità è stata pronunciata, letta a voce alta da un testo scritto, nell’appartamento di Ratzinger. Per la prima volta è stata scandita, sebbene in latino, la parola ricatto: «influentiam», Sua Santità. Impropriam influentiam.
17 dicembre 2012, San Lazzaro. I tre cardinali consegnano nelle mani del Pontefice il risultato del loro lavoro. Sono due tomi di quasi 300 pagine. Due cartelle rigide rilegate in rosso, senza intestazione. Sotto "segreto pontificio", sono custodite nella cassaforte dell´appartamento di Ratzinger. Le conosce soltanto, oltre a Lui, chi le ha scritte. Contengono una mappa esatta della zizzania e dei pesci cattivi. Le «divisioni nel corpo ecclesiale che deturpano il volto della Chiesa», dirà il Papa quasi due mesi dopo nell´Omelia delle Ceneri. È quel giorno, con quelle carte sul tavolo, che Benedetto XVl prende la decisione tanto a lungo meditata. È in quella settimana che incontra il suo biografo, Peter Seewald, e poche ore dopo aver ricevuto i tre cardinali gli dice «sono anziano, basta ciò che ho fatto». Quasi le stesse parole, in quell´intervista poi pubblicata su Focus, che dirà a febbraio al concistoro per i martiri di Otranto: "»Ingravescente aetate». «Noi siamo un Papa anziano», aveva già allargato le braccia molte volte, negli ultimi mesi, in colloqui riservati.
Dunque nella settimana prima di Natale il Papa prende la sua decisione. Con queste parole la commenta il cardinale Salvatore De Giorgi, un altro dei tre inquisitori che redigono la "Relationem", presente al momento della rinuncia: «Ha fatto un gesto di fortezza, non di debolezza. Lo ha fatto per il bene della Chiesa. Ha dato un messaggio forte a tutti quanti nell´esercizio dell´autorità o del potere si ritengono insostituibili. La Chiesa è fatta di uomini. Il Pontefice ha visto i problemi e li ha affrontati con un´iniziativa tanto inedita quanto lungimirante». Ha assunto su di sé la croce, insomma. Non ne è sceso, al contrario. Ma chi sono «coloro che si ritengono insostituibili?». Riecheggiano le parole dell´Angelus di domenica scorsa: bisogna «smascherare le tentazioni del potere che strumentalizzano Dio per i propri interessi».
La "Relationem" ora è lì. Benedetto XVI la consegnerà nelle mani del prossimo Papa, che dovrà essere abbastanza forte, e giovane, e «santo» - ha auspicato - per affrontare l´immane lavoro che lo attende. È disegnata, in quelle pagine, una geografia di «improprie influenze» che un uomo molto vicino a chi le ha redatte descrive così: «Tutto ruota attorno alla non osservanza del sesto e del settimo comandamento». Non commettere atti impuri. Non rubare. La credibilità della Chiesa uscirebbe distrutta dall´evidenza che i suoi stessi membri violano il dettato originario. Questi due punti, in specie. Vediamo il sesto comandamento, atti impuri. La Relazione è esplicita. Alcuni alti prelati subiscono «l´influenza esterna» - noi diremmo il ricatto - di laici a cui sono legati da vincoli di "natura mondana". Sono quasi le stesse parole che aveva utilizzato monsignor Attilio Nicora, allora ai vertici dello Ior, nella lettera rubata dalle segrete stanze al principio del 2012: quella lettera poi pubblicata colma di omissis a coprire nomi. Molti di quei nomi e di quelle circostanze riaffiorano nella Relazione. Da vicende remote, come quella di monsignor Tommaso Stenico sospeso dopo un´intervista andata in onda su La 7 in cui raccontava di incontri sessuali avvenuti in Vaticano. Riemerge la vicenda dei coristi di cui amava circondarsi il Gentiluomo di sua Santità Angelo Balducci, agli atti di un´inchiesta giudiziaria. I luoghi degli incontri. Una villa fuori Roma. Una sauna al Quarto Miglio. Un centro estetico in centro. Le stanze vaticane stesse. Una residenza universitaria in via di Trasone data in affitto ad un ente privato e reclamata indietro dal Segretario di Stato Bertone, residenza abitualmente utilizzata come domicilio romano da un arcivescovo veronese. Si fa menzione del centro "Priscilla", che persino da ritagli di stampa risulta essere riconducibile a Marco Simeon, il giovane sanremese oggi ai vertici della Rai e già indicato da monsignor Viganò come l´autore delle note anonime a suo carico. Circostanze smentite dai protagonisti sui giornali, ma approfondite e riprese dalla Relazione con dovizia di dettagli.
I tre cardinali hanno continuato a lavorare anche oltre il 17 dicembre scorso. Sono arrivati fino alle ultime vicende che riguardano lo Ior - qui si passa al settimo comandamento - ascoltando gli uomini su cui confida Tarcisio Bertone a partire dal suo braccio destro, il potentissimo monsignor Ettore Balestrero, genovese, classe 1966. Sono arrivati fino alla nomina del giovane René Bruelhart alla direzione dell´Aif, l´autorità finanziaria dell´Istituto.
Il terzo dei cardinali inquirenti, Josef Tomko, è il più anziano e dunque il più influente della triade. Ratzinger lo ha richiamato in servizio a 88 anni. Slovacco, era stato con Woijtyla a capo del controspionaggio vaticano. Aveva seguito di persona la spinosa questione dei contributi anche economici alla causa polacca come delegato ai rapporti con l´Europa orientale. Dopo monsignor Luigi Poggi, scomparso nel 2010, è l´ultimo custode di quella che ancora oggi si chiama l´Entità, il "Sodalitium pianum" di antica memoria, il servizio segreto vaticano formalmente smantellato da Benedetto XV, nel nome predecessore di Ratzinger. Poiché i simboli e i gesti, a San Pietro, contano assai più delle parole chi è molto addentro alle liturgie vaticane fa notare questo. Nell´ultimo giorno del suo pontificato, Benedetto XVI riceverà i tre cardinali estensori della Relationem in udienza privata. Subito dopo, al fianco di Tomko, vedrà i vescovi e i fedeli slovacchi in Santa Maria Maggiore. La sua ultima udienza pubblica. 27 febbraio, San Procopio il Decapolita, confessore. Poi il conclave.
(1-continua)

Repubblica 21.2.13
Tra cowboy e pedofili l'incognita delle porpore yankee
di Giulio Anselmi


Qualcuno, tra gli eminentissimi colleghi cardinali, lo chiama John Wayne. Altri, con toni melliflui da prete di curia, sussurrano «bravo, bravo; ma un po´ troppo cow boy». Di certo Timothy Dolan, arcivescovo di New York, presidente della conferenza episcopale americana, un omone che ricorda un po´ Wojtyla, ha toni e modi spicci: «Io tra i favoriti?», ha replicato alle richieste di previsioni, «chi lo dice ha fumato marijuana».
A Benedetto XVI piace moltissimo: fu lui a parlare al collegio cardinalizio, un anno fa, e la sua relazione fu definita dal Papa «entusiasmante, gioiosa, profonda». La scorsa estate è andato a pregare alla convention repubblicana di Tampa, dove veniva incoronato Romney, ma anche a quella democratica di Charlotte, nonostante i molti scontri con Obama. Poi si è fatto fotografare tra i due candidati durante una cena a New York. È un alto prelato che si batte per un ruolo pubblico, politico, della Chiesa.
Più cauto appare Sean Patrick O´Malley, cardinale di Boston, la prima diocesi nordamericana, frate minore cappuccino, uomo dall´intensa spiritualità e fermo nei principi, tanto che non voleva celebrare il funerale di Ted Kennedy, patriarca della più importante famiglia cattolica d´America ma colpevole di essersi dichiarato favorevole all’aborto.
La squadra americana ha un ruolo da giocare in conclave: sono tanti, quattordici yankee più il canadese Marc Ouellet, prefetto della Congregazione dei vescovi. Sono ligi al ministero papale, il che li ha resi sempre graditi al Papa uscente. E quella Usa resta una Chiesa numerosa, forte e ricca, malgrado diocesi e parrocchie si siano dissanguate per le cause di risarcimento dovute a fatti di pedofilia. O´Malley si è addirittura dovuto vendere il palazzo dell´arcivescovado.
Alcuni di loro, per la verità, sono impresentabili. Come Bernard Law, cacciato dalla diocesi di Boston per aver protetto preti coinvolti in casi di violenze e molestie, e riparato in Vaticano con la nomina ad arciprete della basilica di Santa Maria Maggiore; ma ormai ha superato gli ottant´anni e resterà fuori dal Conclave. Roger Mahony, a sua volta travolto dal ciclone pedofilia che ha spazzato la Chiesa americana, è stato lasciato solo «con la sua coscienza». Nessuno può escluderlo dall´elezione: dovrebbe essere privato del titolo di cardinale in quanto condannato per un reato ma ancora non c´è stata alcuna sentenza.
Alcune dichiarazioni, anche di importanti prelati, fanno sospettare che si riproponga quella sorta di ottundimento morale che ha lasciato papa Ratzinger talvolta isolato nella sua determinazione di "tolleranza zero". Perfino il segretario di Stato Sodano pensò che si potesse mettere la sordina all´indignazione del mondo parlando di "chiacchiericcio". Massimo Franco, in un bel libro in cui racconta la Chiesa alle prese con la società postmoderna parla di «cultura del silenzio»: fatti gravissimi «insabbiati, nascosti, minimizzati e sacrificati sull´altare del buon nome della Chiesa». Certo non è un problema di facile soluzione. Dietro Mahony, si intravedono altri grandi elettori: l´ex arcivescovo di Filadelfia, Justin Rigali, e poi un belga, un irlandese, un australiano...
A fianco dei cardinali capi di diocesi in patria, nel gruppo americano c´è una pattuglia "romana", buona conoscitrice delle insidie del terreno di gioco: i curiali William Joseph Levada, ex prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, Raymond Leo Burke, a capo del Tribunale della Segnatura apostolica, e James Michel Harvey, arciprete di San Paolo fuori le mura, promosso in fretta e furia al concistoro dello scorso novembre, l´uomo che introdusse il maggiordomo infedele nella casa pontificia.
Non è americano, ma è molto stimato dai porporati Usa il nunzio apostolico a Washington Carlo Maria Viganò, arcivescovo, estromesso dall´incarico di segretario del Governatorato del Vaticano dopo la sua denuncia di malversazioni. Dolan lo ha definito «una persona che ha il coraggio di dire la verità». E Viganò, autore di denunce a valanga contro gli affari torbidi all´ombra di San Pietro, ha certamente ancora qualcosa da dire.

l’Unità 21.2.13
Grosseto
Picchiata perché nera da un «branco» di ragazze
di Vincenzo Ricciarelli


L’aggressione finisce su You Tube. Riccardi parla di «gravità inaudita».
«E la negra ce le busca» Video choc su Youtube
I due filmati sono stati girati a Grosseto, messi in rete e subito rimossi
Nelle immagini botte e insulti ad una ragazza di colore da alcune coetanee
Il ministro Riccardi: «Episodio di gravità inaudita». Aperta una inchiesta

GROSSETO Due video postati su Youtube, pare da un ragazzino quindicenne, e poi improvvisamente rimossi dopo un paio di giorni e alcune centinaia di visualizzazioni. Due video girati all’aperto in una zona centrale di Grosseto, le Mura, che ieri dopo la denuncia del quotidiano Il Tirreno hanno fatto il giro della rete e scatenato un vero putiferio. Al punto che la polizia postale avrebbe acquisito le immagini su richiesta della procura di Grosseto che avrebbe così aperto una inchiesta. Perché quei due filmati, in tutto poco meno di due minuti, immortalano una scena terribile che ha per «protagonista» una ragazza di colore insultata e picchiata da alcune coetanee mentre tutt’intorno altri ragazzi, maschi, ridono di gusto e incitano la folla. «E la negra ce le busca!», si sente nitidamente in mezzo ai rumori confusi. Chiarissime nelle immagini, invece, i calci e i pugni che la ragazza riceve assieme ai suoi tentativi di difendersi dall’aggressione. «Levati, devo filmare. Questo va su Youtube», ride un ragazzo, forse l’autore del video, mentre la rissa si scatena e sulla ragazza piovono i primi pesanti insulti. Specialmente quando lei prova a sottrarsi alla folla e sembra allontanarsi: «Dov’è la negra?», si chiede qualcuno. «La negra se ne va!», è la risposta, quasi trionfante. E qui si chiude il primo filmato. Il secondo, più confuso, ritrae invece altre scene del pestaggio, con la ragazza di colore ancora al centro del gruppo e dei tentativi di aggressione delle coetanee.
LA CONDANNA
Una bravata? Un gioco sopra le righe fra ragazzi? Non si direbbe, a giudicare dalle immagini. E non sembra crederci neanche il ministro per la Cooperazione e l'Integrazione Andrea Riccardi che giudica invece «di estrema gravità» la vicenda. «È un caso che afferma il ministro non può essere derubricato come una semplice ragazzata. Per questo ho dato mandato all’Unar (l’ufficio antirazzismo di Palazzo Chigi) di fare piena luce sulla vicenda. Alla ragazza aggredita e alla sua famiglia va la solidarietà e la vicinanza di tutto il governo. Ho avuto contatti con le autorità di polizia di Grosseto: mi hanno riferito che sono sconcertati, perché è la prima volta che succede una cosa di questo tipo. Occorre fare aggiunge Riccardi una riflessione più generale sulla condizione dei nostri giovani: il bullismo, in questo caso a sfondo razzista, amplifica le sofferenze e le umiliazioni inflitte alla vittima con l’esposizione alla gogna di Internet. Istituzioni, mondo della scuola e della società civile sono chiamate a un'azione preventiva ed educativa più accorta».
«Non possiamo permetterci di sottovalutare azioni come quella avvenuta a Grosseto ai danni di una ragazza minore di colore da parte di suoi coetanei che, come testimoniano le immagini poi caricate sulla rete presumibilmente dagli autori, l'hanno aggredita fisicamente e insultata», è il commento di Raffaela Milano, direttore dei programmi Italia-Europa di Save the Children. «Al di là della dinamica dei fatti, questo gravissimo episodio di discriminazione e bullismo spiega Milano testimonia come, in un Paese in cui c’è quasi un milione di minori di origine straniera la metà dei quali è nata qui, l’integrazione sia ancora un obiettivo lontano da raggiungere e ci si debba impegnare tutti a costruire una cultura diversa a partire proprio dai ragazzi più giovani». A testimoniare di quanto grave possa essere il binomio bullismo-razzismo anche una recente indagine condotta da Ipsos proprio per conto di Save the Children secondo la quale 4 minori su 10 sono testimoni di atti di bullismo online verso coetanei, percepiti «diversi» per aspetto fisico (67%), orientamento sessuale (56%) o perchè stranieri (43%).

Corriere 21.2.13
La psicologa Anna Costanza Baldry
«La prepotenza diventata normale»
di Elvira Serra


MILANO — Vero o falso che sia, resta grave. «Perché non bisogna minimizzare le cose, a partire dalle offese. La nostra società ha normalizzato certi comportamenti prepotenti e adesso c'è questa emulazione femminile di un atteggiamento considerato vincente».
Anna Costanza Baldry è professore associato in Psicologia Sociale alla seconda Università di Napoli. Partecipa con il suo Dipartimento al progetto europeo «Tabby» (www.tabby.eu/it), che insegna a valutare la minaccia del cyberbullismo nei giovani: l'ultima ricerca nella quale è stata coinvolta dimostra che negli ultimi sei mesi in Italia il 14,6 per cento degli studenti delle medie inferiori e superiori ne è stato vittima. Carnefici restano più i maschi delle femmine, ma le percentuali delle giovanissime protagoniste delle aggressioni sono comunque significativi (6,2% per le «bulle», 4,5% per le «cyberbulle»).
Spiega la docente: «Il caso di Grosseto, se come sembra è vero, rappresenta un esempio classico: un gruppo di ragazzini se la prende con un elemento "diverso" e lo rende oggetto di denigrazione, insulti e prevaricazione. L'aggravante è che alcuni compagni hanno girato un video, senza dunque intervenire, violando ulteriormente la vittima nel momento in cui hanno messo in Rete quel filmato».
Perché avrebbero agito così quegli adolescenti? «Il vero problema è che alla base c'è una grande superficialità, non è neppure mancanza di capacità cognitiva». Denunciare sembra inutile. «A quell'età i carnefici non sono imputabili. Però la denuncia resta l'unica strada per fronteggiare questi casi, in modo da produrre una presa di coscienza negli adulti, negli insegnanti, negli stessi ragazzini». Questi gesti andrebbero prevenuti. Come? «Sul nascere. Senza lasciar passare neppure una parola offensiva. Evitando in ogni modo che la vittima si senta isolata».

l’Unità 21.2.13
Nella Capitale i bambini rom non esistono
Sono circa quattromila ma hanno diritti limitati come per la salute e l’istruzione Molti di loro finiscono nelle liste di adozione
La denuncia di «21 luglio»
di Luciana Cimino


Ci sono bambini nella Capitale che subiscono una costante discriminazione e soppressione dei diritti basilari. Ma di loro non si parla in campagna elettorale. Difficile che la politica si interessi dei Rom e Sinti, se lo fa è per declinarlo nella categoria «sicurezza». Eppure il quadro che emerge dal «Rom(a) Underground. Libro bianco sulla condizione dell’infanzia rom a Roma», redatto dall’associazione per i diritti umani «21 Luglio» è drammatico. «Violazioni sistematiche dei diritti dell’infanzia all’interno di un Piano Nomadi aggressivo e violento» conclude la ricerca condotta nell'arco negli ultimi tre anni nei campi romani e basata su 60 testimonianze dirette.
Tre anni in cui l’amministrazione capitolina ha promosso sgomberi forzati (quasi 500 negli ultimi 36 mesi) stigmatizzati dalle istituzioni europee che si occupano di diritti umani. «Le azioni di sgombero e sospensione del diritto all’alloggio hanno avuto notevoli conseguenze sulla fruizione del diritto all’istruzione e del diritto alla salute», scrive 21 Luglio annotando che tutti gli insediamenti, sia formali che informali «si configurano come spazi degradati, isolati e sovraffollati».
I 3.900 minori rom presenti a Roma hanno subito «politiche abitative – scrivono i ricercatori dell’Associazione 21 luglio – differenti rispetto a quelle adottate per il resto della popolazione», frutto di istituzioni che li continuano a percepire «come “nomadi”, come un popolo omogeneo inadatto alla vita stanziale, culturalmente disposto a vivere al di sotto degli standard minimi di vivibilità e in una condizione di perenne sospensione dei diritti fondamentali». L’Italia, ricorda Carlo Stasolla, presidente dell’associazione «è obbligata a rispettare i principi sanciti nella Dichiarazione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza» (ratificata nel 1991) ma le indicazioni europee vengono disattese perché «le politiche del Piano Nomadi di Alemanno non solo non salvaguardano i diritti dei minori rom, ma creano spesso le condizioni materiali affinché questi vengano violati». Un piano che è costato ai contribuenti 60 milioni di euro in 3 anni, secondo i calcoli di 21 luglio, per creare «ancor più discriminazione».
I bambini vengono sgomberati e quindi allontanati dalle scuole che frequentano, il che pregiudica «il percorso scolastico e il processo di apprendimento e determina un clima di forte tensione psicologica». Vengono sistemati in campi attrezzati lontani dal tessuto urbano tanto da limitare «fortemente le possibilità di inclusione sociale dei minori». Anche perché «vivono in un’area chiusa e video sorvegliata, in uno spazio rigido, in cui si amplificano le problematiche che caratterizzano gli ambienti degradati e marginali». Si chiamano infatti “patologie da ghetto” quelle che presentano i minori rom che vivono nella Capitale, ovvero «problemi respiratori dovuti alle abitazioni molto calde nei mesi estivi e fredde in quelli invernali, dermatiti, pediculosi, verruche, scabbia» e forti disagi psicologici. Preoccupa la mortalità infantile nei campi. Bambini, anche di pochissimi mesi, «morti per il freddo, bruciati a causa di incendi, investiti nelle strade ad alto scorrimento a ridosso dei campi, annegati nei fiumi, malati o che i medici si sono rifiutati di curare».
Difficile la sopravvivenza anche per i disabili, abbandonati in alcuni casi alla «selezione naturale». Numerosi sono i minori rom affetti da disabilità psico-fisica che vivono una quotidianità difficile, in condizioni abitative e igienico sanitarie precarie, acuita dalla mancanza di terapie adeguate. «Hai bisogno di una carrozzina, di qualcuno che ti imbocchi, di una bacinella per essere lavato», spiega un medico della Caritas. Emblematico il caso di un ragazzo down deceduto nel 2010, a 16 anni, per una infezione ai reni. «Se mio figlio fosse cresciuto in una casa normale – racconta la madre con le pareti in muratura, senza il fango intorno, non sarebbe morto». Inoltre «contrariamente alle Linee guida del 17 luglio 2008, minori rom sono stati condotti in questura per rilievi fotografici e dattiloscopici».
«Per un bambino rom – dice 21 Luglio nascere oggi a Roma significa avere una vita segnata all’origine e avere molte più probabilità rispetto a un bambino non rom di nascere sottopeso, di ammalarsi, di avere una speranza di vita più bassa, di essere escluso da scuola, di non poter frequentare l’Università, di essere allontanato dalla propria famiglia, di vivere, in assenza o a parità di reato, l’esperienza carceraria». Per Vincenzo Spadafora, garante per l’infanzia e l’adolescenza, quella dei rom è «una storia contrassegnata da violenza, esclusione ed emarginazione dovute, soprattutto, a pregiudizi consolidati nel tempo».

il Fatto 21.2.13
Risponde Furio Colombo
La galera di Ponte Galeria


CARO COLOMBO, è successo di nuovo. Decine di detenuti si sono ribellati nel cosiddetto “Centro di Identificazione ed Espulsione” di Ponte Galeria (vicino a Roma). Non so spiegarmi come il governo di Mario Monti e il suo ministro dell'Interno Cancellieri non abbiano subito abolito questa nefandezza della Lega e di Maroni.
Edda

PONTE GALERIA, come tutti i centri in cui sono detenuti gli immigrati, sono ancora più indecenti e immorali delle prigioni. Le prigioni italiane, infatti, come non si stancano di dire e di dimostrare i Radicali, offrono lo spettacolo spaventoso di un affollamento nel quale è impossibile vivere, una situazione disumana che ha fatto condannare l'Italia ben quattro volte negli ultimi anni. Ma nei centri detti di “Identificazione e di espulsione” al sovraffollamento e alle ignobili condizioni di vita si aggiunge la palese illegalità della detenzione. Non c'è colpa, non c'è reato, non c'è giudice, non c'è condanna. In questi centri voi trovate una piccola parte di ex detenuti che, dopo essere stati processati e condannati (dunque perfettamente identificati) hanno scontato la pena e avrebbero dovuto essere liberi. Ma poiché sono immigrati, passano da una detenzione all'altra, con una clamorosa violazione della legge e della Costituzione. Tutti gli altri sono senza accusa, senza reati e senza violazioni di legge. Solo alcuni sono “clandestini”, che pure non è un reato ma la mancanza di un documento, condizione per la quale non si può essere detenuti. Gli altri sono legali. Lo dico perché, in varie visite da parlamentare a Ponte Galeria, ho verificato, con la presenza e la verifica di avvocati volontari. “Legali” vuol dire che hanno documentazione completa, e sono stati arrestati con due espedienti: o sequestrare il passaporto o impedire che la persona fermata potesse andare a casa a prendere e presentare le carte in regola. I più, subito dopo l’arresto, vengono spostati nel C.I.E. di altre città (per esempio donne rom fermate nei supermercati di Napoli, separate dai bambini e portate a Roma-Ponte Galeria). In questi centri non ci sono regole, non c'è personale adatto e specializzato nel difficile lavoro di sorveglianza, non ci sono né sentenza né appelli, non ci sono giudici o medici. Solo poliziotti e soldati infelici e fuori posto quanto i loro detenuti, e del tutto all'oscuro del senso di ciò che viene loro ordinato di fare. In più la detenzione, totalmente priva di verifica e di revisione, ha una durata che il detenuto non conosce, fino a un anno e mezzo, ma senza comunicazioni o spiegazioni, sul tipo della detenzione preventiva della Russia di Putin. Questa era l'Italia della Lega Nord, fuori legge non solo quando il tesoriere Belsito e la famiglia Bossi disponevano dei fondi dello Stato, ma anche nell'imprigionare per tempo indeterminato persone innocenti. C'è qualcuno che pensa di votare per Maroni o per Berlusconi o per persone che potevano denunciare e non l'hanno fatto o potevano dichiarare questo inferno finito e lo lasciano continuare?

Corriere 21.2.13
«Bonino al Colle». I centristi si dividono
Per il premier «candidatura molto buona». Casini: ci sono problemi più urgenti
di P. D. C.


ROMA — A sentire Massimo D'Alema, chi entra nel toto-Quirinale «alla fine non viene mai eletto capo dello Stato», dunque i nominati degli ultimi giorni dovrebbero fare gli scongiuri. Ma la tentazione del lanciare la candidatura del nome eccellente — reale o di bandiera — è forte in questa ultima settimana di campagna elettorale, e non vi sfugge neanche Mario Monti. Finendo, come era prevedibile, nel bel mezzo di una polemica che agita primo fra tutti proprio il suo schieramento.
Succede perché il premier, interrogato sulla candidatura eventuale di una donna per il Colle, in mattinata a «Radio Anch'io» concede una sorta di endorsement a Emma Bonino: «Sarebbe una candidata molto, molto buona al Quirinale. In Commissione Ue insieme abbiamo fatto un ottimo lavoro. È una di quelle persone di cui ce ne vorrebbero di più».
Parole di stima che piacciono a Marco Pannella: «È molto interessante che Monti si sia esposto per questa candidatura che certamente non è la più gradita dai partitocrati», ma che vengono accolte con estrema sobrietà dalla Bonino — «Gli sono molto grata» —, forse conscia del monito di D'Alema, che infatti interrogato su un gradimento si rifiuta di darlo perché «Emma è mia amica e non voglio farle un dispetto...».
Ma l'uscita del leader di Scelta civica provoca molto malumore nel suo schieramento. Perché la Bonino non è certo il candidato ideale per l'area cattolica, come non mancano di fargli notare anche a voce alta alcuni esponenti dell'Udc come Marco Calgaro («Mi dissocio completamente e trovo inopportune le dichiarazioni del presidente Monti»), ma anche Roberto Formigoni — «Ultimo avviso agli elettori cattolici. Monti vuole la Bonino al Quirinale...» — o il Movimento per la vita, che esprime «sconcerto e preoccupazione».
Seccamente, pure Pier Ferdinando Casini prende le distanze: «È un dibattito stucchevole quello sulla presidenza della Repubblica quando abbiamo un capo dello Stato in carica e problemi più urgenti da affrontare, come i provvedimenti da prendere per il bene del Paese. Propongo davvero una moratoria sul Quirinale: almeno questa istituzione non facciamola diventare parte di un gioco, quello del toto-nomine nel quale a volte tutti cadiamo. È una cosa seria, trattiamola seriamente».
Umori e malumori che sono subito giunti all'orecchio di Monti, che tempo un'ora — dopo aver ribadito che per candidarsi premier ha rinunciato al Quirinale — ha subito precisato la sua posizione: «La Bonino non è assolutamente la mia candidata. Tempo fa avevo detto di avere un candidato, non è donna, conosce bene quel Palazzo e si chiama Giorgio Napolitano. Può sembrare una persona anziana, ma non lo è». Insomma, una marcia indietro in qualche modo obbligata dall'opportunità, e una trincea che è quella della rielezione di Napolitano, che vede cautissimo il Pdl (per Alfano non bisogna «tirare per la giacca» il presidente) ma che piace a Fini: «Sarei felicissimo se Napolitano continuasse nel suo mandato. Ma poiché lui stesso ha detto di non essere disponibile, confermo che darebbe credibilità al sistema politico italiano che fosse eletta la prima donna presidente della Repubblica. Ovviamente senza fare nomi».
E però, il nome al femminile continua a far discutere il mondo politico, con due personalità sopra tutte: Anna Finocchiaro e la stessa Bonino. Sempre per i centristi, Giulia Bongiorno non ha dubbi: «È assolutamente importante dare una svolta alla politica, per questo dico che voterei con piacere entrambe, delle quali ho la massima stima». E Roberto Maroni continua a dirsi favorevole a un'eventuale elezione dell'esponente del Pd. Ma è chiaro che i giochi sono ancora in corso, e le candidature forti che si contrappongono parecchie. In pole position resta Romano Prodi, ma anche Giuliano Amato sarebbe gradito a molti mentre c'è chi giura che il candidato a sorpresa di Berlusconi potrebbe essere Franco Marini, per non parlare degli outsider (Mario Mauro candida Riccardi). La lunga strada che porta al Colle, insomma, è tutta ancora da percorrere.

Corriere 21.2.13
Riccardi: grande stima ma lei non va
Serve un presidente super partes
di Paola Di Caro


ROMA — No, non è la sua candidata. Per carità, «grande stima» per Emma Bonino ma Andrea Riccardi — ministro per la Cooperazione e l'Integrazione e co-fondatore con Mario Monti di Scelta civica — prende le distanze dall'indicazione da parte del premier dell'esponente radicale come possibile e «molto buona» candidata per il Quirinale.
Impegnato in una campagna elettorale difficile e in salita, in uno schieramento in cui convivono componenti laiche e una vasta area cattolica della quale lui, fondatore della Comunità di Sant'Egidio, è rappresentante massimo, Riccardi non nasconde il suo disagio per come si sta sviluppando il dibattito attorno al Quirinale, e non solo: «Si corre il grande rischio di cadere nelle logiche della vecchia politica prefigurando alleanze e collocazione di persone in questa o quella carica».
Dunque ha sbagliato Monti a esprimere il suo endorsement alla Bonino?
«Ma io penso che in realtà Monti volesse solo ribadire la sua stima alla Bonino per le grandi battaglie civili come quella contro la fame nel mondo, o la lotta per la cruciale questione delle carceri, uno dei problemi irrisolti del Paese. Ma non credo che la sua fosse un'indicazione di voto...».
La sua indicazione di voto qual è?
«Napolitano ha escluso che possa continuare nel suo mandato, mentre io sarei stato felice della sua rielezione. La prossima legislatura dovrà essere costituente, iniziando con la doverosa e indispensabile riforma della legge elettorale. Per questo ci serve un presidente super partes, un arbitro e una guida politica capace».
E la Bonino — della quale non a caso lei evidenzia solo le battaglie comuni al mondo cattolico, non quelle per la laicità — non ha le caratteristiche giuste per fare il capo dello Stato?
«È uno dei tanti nomi di prestigio che ricorrono. Ma dobbiamo riflettere con calma, a bocce ferme. Prendere decisioni così importanti sotto l'influsso della campagna elettorale sarebbe una scelta vecchia e sbagliata. A ogni modo, serve una persona super partes, che sappia conciliare cultura e politica, radicarsi nella società civile e servire il Paese. Bisogna uscire dagli schemi, per l'elezione del Quirinale come per il governo».
Dunque anche sul governo niente schemi prestabiliti ma massimo coinvolgimento?
«Questa legislatura dovrà essere quella delle riforme. Nel Paese c'è tanto malessere e tanta sfiducia nelle istituzioni. Noi vogliamo dare attenzione a questo malessere facendo una scelta filo-politica, di buona politica, non di antipolitica come fa Grillo. Per questo partiamo dall'agenda proposta da Scelta civica e dalla premiership di Monti, una personalità così importante per l'Italia che deve rappresentare un valore internazionale da preservare e non sprecare».
Ma lei come immagina la composizione del prossimo governo?
«Decideranno gli elettori. Si può anche ipotizzare un governo di larghe intese. Un governo ad ampia partecipazione con la discriminante dell'europeismo e delle riforme è una ipotesi da tenere in seria considerazione».

Repubblica 21.2.13
Bertinotti. La legge di Tina
di Alessandra Longo


A pochi giorni dalle elezioni, Fausto Bertinotti presenta l´ultimo numero di «Alternative per il socialismo» riuscendo a non dire una parola su partiti e alleanze («Ma non è civetteria» giura l´ex leader di Rc). L´intera rivista è dedicata al sindacato con una tesi che si sia arrivati alla «fine della storia del movimento sindacale organizzato, almeno come l´abbiamo conosciuto noi». Sconfitto il movimento operaio, le sue organizzazioni politiche sarebbero state «risucchiate» dal pensiero unico egemone, «dal primato del mercato e dell´impresa», e dalla Legge di Tina, che sta per "There is not alternative", non c´è alternativa. Cupezza mitigata dal titolo dell´editoriale che lascia qualche speranza: «Finisce una storia. Ne comincia un´altra?».

Repubblica 21.2.13
L’appello
I ricercatori a Napolitano: "Più fondi per la scienza"
di Elena Dusi


ROMA - «Il tema della ricerca scientifica è assente dalla campagna elettorale, se non in termini rituali e generici». Con questo incipit il Gruppo 2003 (il Gotha degli scienziati italiani), ha presentato ieri il suo programma in 10 punti al presidente Giorgio Napolitano, chiedendo «risposte precise» ai partiti. Se una settimana fa Barack Obama, nel discorso sullo stato dell´unione, aveva ricordato che «ogni dollaro investito nel progetto genoma ha portato a un ritorno di 140 dollari», i ricercatori del Gruppo 2003 lamentano il ruolo di Cenerentola che la scienza gioca in Italia dal punto di vista dei fondi. I finanziamenti sono pari all´1,26% del Pil. La media europea è dell´1,91, con la Germania al 2,82. Quella dell´Ocse è del 2,40, con Usa e Giappone al 2,9 e 3,36. Il gruppo 2003 raccoglie una cinquantina di scienziati italiani delle discipline più varie le cui pubblicazioni scientifiche hanno un altissimo numero di citazioni.
Fra le proposte (su www.lascienzainrete.it) c´è un aumento dei finanziamenti del 20% all´anno per 3 anni, lo smantellamento di «un sistema scarsamente meritocratico» e l´istituzione di una «cabina di regia» per erogare i fondi in modo trasparente. «Insieme a due economisti della Bocconi abbiamo tentato di ricostruire i mille rivoli del finanziamento per la ricerca. Cercando tra i vari ministeri, non siamo riusciti a sbrogliare la matassa» racconta Alberto Mantovani, immunologo dell´università di Milano e direttore scientifico dell´Istituto Humanitas. La richiesta di adeguare gli investimenti e di istituire un´Agenzia per la ricerca italiana che coordini l´erogazione dei fondi in base al merito - e sia dunque garanzia di libertà - è stata avanzata anche dalla "Petizione per la ricerca in Italia" lanciata da membri dell´Accademia dei Lincei e dell´Accademia dei XL. L´appello è stato firmato da 1.030 scienziati. «Mi sono sempre impegnato - ha detto Napolitano - a sostenere scienza e cultura. Il mio è stato un messaggio affidato a una bottiglia nel mare. Spero che qualcuno lo raccoglierà».

l’Unità 21.2.13
L’emergenza Nord Africa è chiusa ma non certo finita
di Luigi Manconi e altri


Il provvedimento Emergenza Nord Africa, entrato in vigore nel mese di aprile del 2011 terminerà il 28 febbraio 2013, come ha annunciato due giorni fa il Dipartimento libertà civili e immigrazione del ministero dell’Interno, con la circolare numero 1424. Il termine era già stato posticipato di due mesi rispetto alla data prevista inizialmente (31 dicembre 2012). Il periodo di proroga doveva servire per concludere la fase dell’emergenza in maniera dignitosa. In quei due mesi, infatti, le persone accolte nei centri di accoglienza dovevano essere avviate a percorsi di integrazione e di «autonomia» attraverso una stabilizzazione della loro condizione di presenza in Italia e attraverso un minimo di sostegno al loro inserimento sociale. Entrambi questi obiettivi si sarebbero dovuti raggiungere già nella primissima fase (e, in effetti, in alcune situazioni è stato fatto, per esempio in Sardegna grazie alla Caritas). Lo si cerca di fare ora precipitosamente e, di conseguenza, con modalità approssimative, se non controproducenti. Prendiamo la misura che prevede un contributo di 500 euro come «buonuscita» dalle strutture di accoglienza. Un’idea in sé positiva, ma che rischia di risolversi in un beneficio di qualche giorno, o di qualche settimana, per persone letteralmente prive di tutto (comprese strutture, servizi, orientamento, conoscenza della lingua, delle norme e dei diritti). Tanto più che l’accordo tra le strutture di accoglienza e la Protezione Civile prevedeva una diaria di 46 euro a persona, comprensiva di vitto, alloggio, avvio alla formazione lavorativa, corsi di lingua e assistenza legale. Tutto ciò si è verificato assai raramente e, come ha detto qualche giorno fa Flavio Zanonato sindaco di Padova e responsabile immigrazione per l’Anci, «l’emergenza si conclude sulla carta ma rimane sul territorio».
Ora, quale sarà la sorte degli oltre ventimila profughi formalmente accolti? Se volessero utilizzare quei 500 euro per spostarsi in un altro Paese europeo, incontrerebbero subito una difficoltà: la mancanza del titolo di viaggio (documento equipollente al passaporto). La Questura non nega la concessione di tale documento ma, per chi si trova al riparo della protezione umanitaria (la maggior parte), chiede l’autorizzazione al rilascio da parte del Consolato o dell’Ambasciata. Cosa non facile. A tale difficoltà se ne aggiunga un’altra: il Regolamento di Dublino II. Ciò significa che, anche se una persona fosse in regola con permesso di soggiorno e titolo di viaggio, non avrebbe la certezza di potersi recare, anche solo per una visita ai propri familiari, in un Paese diverso da quello in cui è approdato, in questo caso l’Italia. Ha, quindi, proprio ragione Zanonato: l’emergenza viene proclamata come conclusa, ma i suoi effetti sono ben lontani dall’essere sotto controllo. E si rischia di determinare, per alcune decine di migliaia di persone, una situazione in cui l’emergenza non segnala una fase eccezionale della loro esistenza, bensì il connotato distintivo e incancellabile dell’esistenza stessa.

l’Unità 21.2.13
Tunisia, mani islamiste sulla rivoluzione jasmine
Dietro le dimissioni del premier Jebali la resa dei conti nel partito islamico Ennahda, vincitore delle elezioni
Il fronte laico cerca la sua unità in nome di Chokri Belaid, «martire della libertà»
di Umberto De Giovannangeli


Lo spettro di una resa dei conti fra le due «Tunisie» aleggia sul Paese da cui partì la stagione delle «Primavere arabe». Il Presidente Moncef Marzouki ha avviato le consultazioni con i leader politici per trovare un successore al premier Hamadi Jebali, dimessosi l’altro ieri per non essere riuscito a dare vita a un governo tecnico. Marzouki ha ricevuto in mattinata il leader del partito islamico Ennahda, Rached Ghannouchi, principale opposistore dell’iniziativa di Jebali, e Maya Jribi, leader del partito repubblicano di opposizione. La crisi è stata innescata dall’omicidio, il 6 febbraio scorso, del leader dell’opposizione Chokri Belaid, ucciso a colpi di arma da fuoco davanti alla sua abitazione. L’omicidio, che la famiglia di Belaid ha addossato ad Ennahda, ha subito innescato violente proteste di piazza nel Paese, spingendo il premier uscente a proporre di dar vita a un governo senza connotazioni politiche.
ALTA TENSIONE
Con Ennahda maggioranza in Parlamento, sarà Ghannouchi a indicare il nuovo premier. Diversi i nomi in circolazione, come quello del ministro della Sanità, Abdelatif Mekki, e quello della Giustizia, Noureddine Bhiri. Da parte sua, il partito di Jribi si è detto pronto, nei giorni scorsi, a sostenere un governo composto sia da tecnici che da politici. Secondo alcuni analisti, potrebbe essere chiesto di nuovo a Jebali di formare il governo, ma il premier uscente ha già fatto sapere che non accetterà alcuna «iniziativa che non preveda una data per nuove elezioni». Jebali, peraltro, pur lasciando aperta la porta alla possibilità di riottenere l’incarico, ha annunciato che non si ricandiderà alle prossime elezioni politiche. Ma non lascerà la vita politica. Cosa che potrebbe preludere ad uno scontro interno ad Ennahda, visto che, nelle ultime settimane, è stato bersaglio di moltissime e dure critiche, ma anche ricevuto delle attestazioni di stima e solidarietà.
A fianco di Jebali si schiera il vice presidente di Ennahda, Abdelfattah Morou che in un’intervista alla rivista francese Marianne ha ammonito Rachid Gannouchi e l’intero partito. «Chiedo che sia convocato un congresso straordinario di Ennahda per cambiarne la direzione. Quest’ultima sta conducendo il partito e la Tunisia al disastro. Rachid Gannouchi ne sta facendo una cosa di famiglia, in più non si rende conto della realtà che sta vivendo il Paese. Per questo è necessario un governo tecnico», ha accusato lo sceicco Morou.
«L’iniziativa di Jebali potrà non soltanto dividere o far implodere Ennahda, ma anche chiarire una volta per tutte chi è che intende portare avanti la democrazia e chi al contrario cerca di prendere tempo per instaurare una dittatura teocratica», dice a l’Unità Zohara Abid, direttrice del sito francofono Kapitalis (www.kapitalis.com), che si caratterizza per uno sguardo «poco compiacente» sulla vita politica tunisina.
Nei giorni scorsi, Jebali aveva incassato il sostegno di Mustapha Ben Jaafar, terza carico dello Stato e capo del partito laico Ettakatol, alleato di quello islamico, Ennhada, alla guida del governo. «Sostengo con convinzione la posizione del capo del governo, poiché essa è utile all’interesse nazionale», aveva dichiarato Ben Jafaar. Di conseguenza, il presidente dell’Assemblea costituente aveva annunciato di «mettere a disposizione del capo del governo» tutti i posti ministeriali controllati dal suo partito, vale a dire i ministeri delle Finanze, del Turismo, dell’Educazione, della Lotta contro la corruzione e degli Affari sociali. «Un governo di tecnocrati sarebbe molto debole e potrebbe essere sciolto in qualsiasi momento. La situazione attuale necessita di un governo politico e dei ministri indipendenti non potrebbero prendere le decisioni necessarie, non essendo sostenuti dai dirigenti politici», replica Oussama Ben Salem, componente del Consiglio della shura, il massimo organismo collegiale di Ennahda.
Messi alle spalle i giorni gloriosi della fuga di Ben Ali e quelli della maratona elettorale, la Tunisia deve ora fare i conti con una profonda crisi economica e con l’incapacità del governo di varare misure concrete a sostegno della crescita. «Oggi c’è una grande rabbia tra la gente – ha detto lo stesso Jebali congedandosi – e tocca a noi riconquistare la fiducia. Le mie dimissioni sono un primo passo». Un passo nel buio.
(ha collaborato Anna Tito)


Corriere 21.2.13
Dopo la foto choc postata da un soldato dello Stato ebraico su Internet
spuntano nuove immagini oscene e violente di un altro militare
Bimbo palestinese nel mirino. L'imbarazzo d'Israele
Il dibattito: chiunque indossi la divisa può fare un danno d'immagine enorme con un telefonino
di Davide Frattini


GERUSALEMME — A quattordici anni si è presentato a scuola con una pistola ad aria compressa («pericolosa» secondo il verbale della polizia) e ha minacciato due compagne di scuola. Da maggiorenne ha lasciato la Florida per tornare in Israele, dov'è nato, e imbracciare le armi dei «grandi». Come scrive in una foto pubblicata su Instagram, a petto nudo, il fucile mitragliatore puntato: «Entra nelle forze armate e ti sentirai un boss».
Osher Maman è il secondo soldato in pochi giorni a imbarazzare i portavoce di Tsahal e a costringerli a intervenire per limitare i danni d'immagine causati dagli scatti rilanciati via Internet. Come quello postato sempre su Instagram da Mor Ostrovski, 20 anni: un bambino palestinese è inquadrato di spalle nel mirino di un'arma. Per l'attivista Ali Abunima, cofondatore del sito Electronic Intifada, la foto «è di cattivo gusto e inumana: sottintende che i piccoli palestinesi siano bersagli».
Il militare ha spiegato di non essere l'autore, di aver trovato l'immagine in rete e di averla solo diffusa: non è bastato a evitargli un rimprovero e le due pagine di pubblicità non voluta dedicate dal quotidiano locale Maariv alla vicenda. Che scrive: «Le nuove tecnologie sono a portata di ogni soldato con un telefonino, chiunque indossi l'uniforme diventa un portavoce delle forze armate con il potere di influenzare il credito internazionale di Israele». Eppure — continua il giornale — «quando si parla di questo conflitto il mondo e la rete virtuale perdono la misura. Un palestinese nel mirino di un israeliano vale più di mille arabi o abitanti del Darfur uccisi il mese scorso da altri musulmani».
Breaking the silence, l'associazione di veterani e riservisti israeliani impegnata a raccontare quello che succede nei territori palestinesi, ricorda una foto di dieci anni fa, ancora una volta un ragazzino visto attraverso il canocchiale montato sull'arma. «Gli strumenti sono cambiati, il modo in cui le immagini vengono condivise è cambiato. Restano uguali l'arroganza che nasce dalla troppa forza e la mancanza di rispetto per la dignità umana».
Il caso di Osher Maman è considerato più grave dall'esercito, che sta investigando. Sulla pagina Facebook il ventenne arruolato in una unità d'élite posa nudo con il fucile mitragliatore o mentre fuma uno spinello in divisa. Sulla mappa della Striscia di Gaza è sovrimpressa la scritta in ebraico: «Presto diventerà un gigantesco parco dei divertimenti».
Altri messaggi esprimono odio e disprezzo per i palestinesi: «Continuerete ad andare in galera, le vostre case verranno perquisite e avrete una vita schifosa fino a quando morirete».

Corriere 21.2.13
E in Cina i «venditori pigri» li rieducano così
Dieci chilometri di corsa sotto l'acqua dietro una limousine con a bordo un dirigente che «detta il passo»
di Guido Santevecchi


PECHINO — Tirava un bel vento e pioveva lunedì a Chengdu, capoluogo della provincia sudoccidentale del Sichuan cinese. Non proprio le condizioni ideali per una bella corsa all'aperto, in calzoncini e a torso nudo. Eppure un gruppo di giovanotti correvano lungo uno dei vialoni della megalopoli, allineati dietro una vettura nera ben lucidata. La foto ha meritato attenzione da parte del Quotidiano del Popolo, che nel suo sito online ieri ha spiegato: erano una ventina di impiegati del marketing di un'azienda di alimentari di Chengdu puniti per non aver raggiunto gli obiettivi di vendita nel 2012.
La sanzione era stata concordata con il management della società e prevedeva dieci chilometri di corsa per i maschi, in tenuta da spiaggia, e cinque per le femmine, alle quali è stato concesso di indossare una tenuta più castigata ma «leggera», perché potessero sentire il freddo e rigenerarsi. La limousine nera in testa al gruppo trasportava un manager aziendale incaricato di dettare il passo.
Un cronista del quotidiano locale, il Chengdu Business Daily, ha raccolto i commenti del plotone dei puniti. «All'inizio era così freddo che avevo la pelle d'oca, ma la corsa mi ha riscaldato», ha detto uno con spirito sportivo. «L'unica cosa che mi ha fatto sentire a disagio sono stati gli sguardi dei passanti», ha confidato un altro anonimo venditore poco produttivo. Tutti, secondo il giornale, hanno confermato l'accordo stretto a inizio 2012 e non si sono lamentati, sostenendo (almeno con il giornalista) che la prova di resistenza li avrebbe motivati a fare meglio quest'anno, centrando gli obiettivi di produttività.
Una voce sola si è apertamente levata contro, quella dell'avvocato Liao Hua, che ha spiegato come la policy aziendale in materia di premi o sanzioni dovrebbe essere basata sul rispetto dei diritti delle persone. Finora però, ha ammesso il legale, non si sono registrate azioni da parte di dipendenti.
È possibile che i risultati deludenti dei venditori del gruppo alimentare di Chengdu abbiano risentito anche della nuova campagna moralizzatrice lanciata dal governo per contrastare la corruzione e «la stravaganza dei costumi». Il segretario generale del partito comunista, Xi Jinping, ha ordinato un ritorno alla frugalità e la cancellazione di banchetti ufficiali e regali costosi ai dipendenti pubblici. L'austerità ha causato un crollo delle vendite di cibi e liquori di lusso durante le feste del Capodanno: il ministero del Commercio ha comunicato proprio ieri che il giro di affari nel settore è calato del 35 per cento da novembre. Il brodo di pinna di pescecane, ricercatissimo, ha venduto per il 70 per cento in meno.
Circola una barzelletta su Weibo, il Twitter cinese: «All'inizio volevamo liberare l'umanità intera e costruire la società comunista; poi ci siamo proposti di edificare la società socialista benestante; poi ci hanno spiegato che anche arricchirsi, tutti insieme, è glorioso; ora ci dicono di accontentarci di mantenere la stabilità».

Corriere 21.2.13
Petrolio
La Cina produce quanto il Kuwait (all'estero)
di Gabriele Dossena


Una produzione degna dei big mondiali del petrolio. E in grado di tenere testa ai Paesi membri dell'Opec, il cartello che raggruppa i 12 maggiori esportatori di greggio. Dopo aver speso 92 miliardi di dollari negli ultimi quattro anni per acquisire asset energetici in ogni angolo del mondo, la Cina si appresta a produrre fuori dai suoi confini un quantitativo di petrolio sufficiente per competere con Paesi come il Kuwait e gli Emirati Arabi Uniti. Solo l'anno scorso le compagnie petrolifere di Stato hanno speso in acquisizioni la cifra record di 35 miliardi di dollari, riferisce il «Financial Times». Ed entro il 2015, secondo le stime dell'Aie, l'Agenzia internazionale per l'energia, le major cinesi produrranno all'estero tre milioni di barili di greggio al giorno, il doppio rispetto al 2011. L'intensificarsi delle acquisizioni e degli investimenti cinesi nelle tecnologie di trivellazione non convenzionali stanno cambiando il panorama del settore. Le società energetiche a controllo pubblico sono tenute a rispettare un obiettivo annuale di produzione e si rivolgono all'estero per conseguire il risultato. Per l'Aie, l'espansione non serve solo a soddisfare i crescenti bisogni energetici del Paese (per inciso, la Cina è il secondo importatore di greggio del mondo). Pechino generalmente colloca sul mercato internazionale la sua produzione petrolifera estera. Inoltre, spiega Fatih Birol, capo economista dell'Aie, molte compagnie cinesi puntano sul petrolio come fattore trainante per altri interessi commerciali. Acquisire tecnologie chiave è un altro obiettivo collegato alle acquisizioni.

l’Unità 21.2.13
Lotte civili e culturali
Quando la bellezza diventa rivoluzionaria
Tutelare il Paese come patrimonio artistico L’impegno di Bersani per il Manifesto
di storici e urbanisti
di Valeria Trigo


«SENTO COME PRECISO DOVERE QUELLO DI ASSUMERE LA VOSTRA BATTAGLIA POLITICA, CIVILE E CULTURALE PER LA BELLEZZA COME BENE PER TUTTI, COME DIRITTO SOCIALE. È infatti un tema che contiene in sé un’idea di Paese: l’Italia del patrimonio storico-artistico, della tutela senza deroghe del paesaggio e del territorio, della riqualificazione dei centri storici, della conservazione delle biblioteche e degli archivi». Inizia così la risposta del candidato-premier Pier Luigi Bersani al Manifesto del Comitato per la Bellezza per 10 impegni senza ambiguità sulla Bellezza pilastro di «una nuova politica per la società italiana»: «no» ai condoni, «sì» al restauro del territorio e dell’edilizia esistente, alla pianificazione rigorosa delle rinnovabili, all’urgenza dei piani paesaggistici, all’alt al consumo di suolo, alla “ricostruzione” del Ministero per i Beni culturali e così via.
«Occorre per prima cosa», continua Bersani, «rovesciare la logica imperante nell’ultimo decennio a trazione populista che ci ha fatto subire condoni, crolli, emergenze, sfruttamento indiscriminato del suolo». Formazione, ricerca, innovazione, culture da battezzare «come la buona economia del noi», conclude.
Al Manifesto firmato da numerosi intellettuali aderiscono con forza i candidati Pd Anna Finocchiaro e Luigi Zanda, già capogruppo e vice al Senato, Stefano Fassina, responsabile Economia, Luigi Manconi, Walter Tocci, il grande giornalista Sergio Zavoli, Emilia De Biase, Marco Causi, economista, Ivana della Portella. Ma arrivano dei «sì» significativi da altre liste. Ilaria Borletti Buitoni, già presidente Fai, Lista Monti, auspica azioni comuni alle Camere: per rivedere le norme «per la tutela del paesaggio», ridare al MiBac «un ruolo primario e vincolante», riprendere «il disegno di legge del ministro Catania sul consumo di suolo».
«Stiamo dilapidando una fortuna», attacca Nicola Zingaretti candidato Pd alla presidenza della Regione Lazio. «Daremo al Lazio e a tutte le sue amministrazioni nuovi strumenti di pianificazione, a partire dal Piano Paesaggistico Regionale e al Testo Unico dell’Urbanistica, fissando regole certe e precisi vincoli per garantire l’integrità del paesaggio, delle città e delle architetture». Il patrimonio naturale del Lazio «merita cure completamente nuove senza aver paura di intervenire dove la cieca corsa al mattone ha lasciato le ferite più gravi». Zingaretti rimarca: «C’è un dovere etico nella difesa della Bellezza, ma anche una convenienza sociale ed economica», con la mappatura digitale dei «tantissimi siti archeologici, artistici e naturali del Lazio, compreso il grande patrimonio di archivi e biblioteche», usando talenti e professionalità. «Una rivoluzione: il Lazio regione viva, aperta e accogliente. In una parola, bella».
Evitiamo che la nostra patria diventi «bella e perduta», esorta Vannino Chiti, vice-presidente del Senato, candidato Pd in Piemonte. Siti archeologici, poli museali, teatro, musica, danza, industria cinematografica «devono essere la nostra priorità». Inoltre «non possiamo di fronte a frane, alluvioni e terremoti accusare la natura di essere malvagia». S’impone «un piano pluriennale di interventi». Adesione motivata, punto per punto, dal responsabile Cultura e candidato Pd, Matteo Orfini. «A partire dalla cultura si può ricostruire un’Italia più aperta e più giusta (...) Prioritario ridefinire un più chiaro equilibrio tra livelli di governo. Manca la necessaria condivisione tra Stato e Regioni» su tutela paesistica e governo territoriale, alle Regioni si sono trasferite «materie e funzioni senza dare piena attuazione al federalismo fiscale». Bisogna coniugare le fonti rinnovabili «con l’altrettanto fondamentale esigenza di tutelare il paesaggio». Il Pd proporrà una sua legge sul consumo di suolo, si impegnerà per ridare incisività, fondi, operatività al MiBac. E ai Parchi Nazionali oggi a «rischio di sopravvivenza».
Ermete Realacci, candidato Pd alla Camera, aderisce con una citazione senese del 1309: «Chi governa deve avere a cuore massimamente la bellezza della città, per cagione di diletto e allegrezza ai forestieri, per onore, prosperità e accrescimento della città e dei cittadini». Bellezza e cultura sono oggi «parte determinante della sfida per il futuro del Paese». «Sembra un’utopia, ma è l’unica scelta possibile per il centrosinistra: non può tradire attese ormai larghe», sostiene Roberto Natale, ex presidente Fnsi e candidato Sel al Senato. Altre adesioni: il verde Angelo Bonelli (Rivoluzione civile), che propone poteri pubblici anche più incisivi, i candidati alle regionali del Lazio, Fabio Bellini (Pd), Adriano Labbucci (Sel), Pietro Calabrese (M5S) e Carmine Fotia, capolista di Rivoluzione Civile. Insomma, tanti, forti impegni per la Bellezza. Una vera svolta.

il Fatto 21.2.13
Il grande sonno
Una politica senza cultura
di Oliviero Ponte di Pino


La campagna elettorale è al rush finale e la cultura resta ai margini del dibattito, anche se diverse forze politiche dichiarano di considerare strategico l’investimento in istruzione, cultura e ricerca. Per esempio, Antonio Ingroia (Rivoluzione Civile) nel suo decalogo proclama: “Vogliamo che la cultura sia il motore della rinascita del Paese”. Sel prova addirittura a dare alcune indicazioni più specifiche. C’è chi azzarda svolte epocali: il Pdl chiede la “separazione tra cultura e spettacolo nell’assegnazione di risorse pubbliche”. Ma la cultura non è davvero entrata nel dibattito sul futuro del paese: come ha notato Gian Antonio Stella sul Corriere, “in totale i sei leader in corsa hanno avuto 5.284 titoli di cui solo 3 (tre!) che in qualche modo facevano riferimento alla cosa per la quale l'Italia è conosciuta e amata nel mondo”. A questo disinteresse, corrisponde una prassi politica chiara. La spesa pubblica per la cultura è drammaticamente calata: era lo 0,39% del Pil prima del 2008, siamo allo 0,11%, mentre la Germania ci investe l´1,35% del Pil.
CONTINUANO a mancare leggi per il teatro e per il libro; il Fondo Unico dello Spettacolo ha perso dal 1985 a oggi il 65% del proprio valore, fino al recente taglio operato dal governo Monti in piena campagna elettorale. Poi l’eterno pasticcio della Siae, legislazioni e regolamenti regionali in contrasto con le direttive del Mibac, la scure della spending review. Così i teatri chiudono, Pompei si sbriciola, i musei tengono i capolavori nelle cantine, l’università perde iscritti, i cervelli scappano... Da noi la cultura viene considerata un lusso, una spesa voluttuaria, attività di piantagrane da rendere inoffensivi. Ma nel mondo globalizzato, senza istruzione, ricerca e cultura non c’è sviluppo. La cultura è un settore chiave per l’economia: vale il 5,4% del pil italiano, gli occupati nel settore artistico-culturale sono 585.000, che salgono a oltre 1,4 milioni considerando l´intero comparto della “industria culturale e creativa”. Ci vantiamo di avere in Italia “il 70% del patrimonio culturale mondiale”, per un totale di 4.340 musei, 46.025 beni architettonici vin-colati, 12.375 biblioteche, 34.000 luoghi di spettacolo, 47 siti Unesco.
PURTROPPO non lo sappiamo valorizzare: il Rac (un indice che analizza il ritorno economico degli asset culturali sui siti Unesco), negli Stati Uniti, con la metà dei siti rispetto all'Italia, è 16 volte quello italiano; il ritorno degli asset culturali della Francia e del Regno Unito è tra 4 e 7 volte quello italiano. La società civile s’è accorta del disastro, e reagisce: - il Manifesto per la cultura del Sole 24 Ore se si muove il quotidiano della Confindustria, allora anche gli imprenditori italiano hanno capito il valore della cultura per economia e sviluppo; - il Manifesto per la sostenibilità culturale, promosso da Monica Amari, per un allineamento a livello europeo dei finanziamenti ai processi culturali, da portare all’1% del Pil, sulla scorta del modello del patto di stabilità e crescita; - la proposta di legge sul libro e sulla lettura lanciata dall’Associazione Forum del Libro; - il ministero della Creatività “per uscire dalla trappola della sola conservazione dei beni culturali ai fini della promozione turistica e introdurre l’idea d´industria creativa” (Nichi Vendola, Sel) ; - le Primarie della Cultura lanciate dal Fai: 15 proposte votate dai cittadini via Internet per farle inserire nei programmi elettorali: ha vinto la proposta di destinare almeno l'1% dei soldi pubblici alla cultura; - Ripartire dalla cultura, il manifesto di Federculture, Aib, Icom, Fai, Legambiente, Italia Nostra, Mab, Anai, e Anci, Upi, Conferenza delle Regioni, Touring Club, Federturismo, con “Cinque punti” da far sottoscrivere ai candidati; - la proposta di un vero ministero della Cultura, lanciata da Ernesto Galli della Loggia e Roberto Esposito sul Corriere della Sera: “La crisi in cui è entrata l’Italia non è (o non è solo) una crisi economica, politica, istituzionale e quindi sociale. È prima di tutto una crisi d'identità e cioè in definitiva una crisi culturale”; - la Lettera aperta sul futuro della cultura, pubblicata sull’Huffington Post, per “attirare l’attenzione della politica sulla necessità di un ministero che si occupi anche del sostegno del contemporaneo in tutte le sue espressioni creative”; - la Lettera aperta ai candidati alle elezioni politiche 2013 che chiede “Un voto per promuovere la lettura”; - la riflessione sulla cultura come bene comune, condotta al Teatro Valle Occupato, con la consulenza di Stefano Rodotà e altri; - le dieci Riforme a costo zero del Centro studi Silvia Santagata-Ebla.
CI SONO certamente altre proposte, a testimonianza di una esigenza condivisa: rilanciare la centralità alla cultura, indispensabile motore di sviluppo civile (in accordo con l’art. 9 della Costituzione) ed economico. Rispondono a un bisogno diffuso, come dimostrano l’alta affluenza a mostre e festival letterari e filosofici. Al di là del “collo di bottiglia” della sostenibilità economica, bisogna però notare che sono proposte assai diverse nelle intenzioni, negli ambiti di intervento e negli obiettivi. E non necessariamente compatibili tra loro. Alcune hanno suscitato un abbozzo di discussione, ma l’eco nel dibattito politico è stato pressoché nullo. Di fronte a un panorama così frastagliato, la politica può lanciare parole d’ordine nobili, generiche e condivisibili da tutti. E poi il Palazzo può continuare a gestire il settore così come ha fatto finora: tagli dettati da “necessità inderogabili”; finanziamenti gestiti in maniera spesso clientelare, attraverso meccanismi corporativi; diritti acquisiti; nessuna progettualità, se non quella dettata dalle emergenze.

La Stampa 21.2.13
Come è difficile essere figli di rivoluzionari
In un romanzo di Claudia Pozzo la storia di un giovane milanese “esiliato” a Parigi i cui genitori erano vicini al terrorismo
Quel decennio vide molti «rivoluzionari» scegliere prima la lotta armata e poi il rifugio in Francia
di Maurizio Cucchi


Come può trovare equilibrio, e pace interiore, un giovane che era stato educato alla guerra al tempo dei gruppi armati, che era stato un bambino cresciuto dai «rivoluzionari» degli Anni 70, figlio di uno dei capi dei gruppi estremisti di allora? Quale eredità hanno ricevuto i figli incolpevoli della violenza programmata di quegli anni? Il protagonista del nuovo romanzo di Claudia Pozzo, L’esilio dei figli (Gremese, p. 254, € 15) riesce a farcela, e dunque a gestire la propria precaria esistenza grazie alla sua forza interiore e alla capacità che possiede di non rimuovere ciecamente il passato, ma di rivisitarlo con una lucidità quasi serena, senza farsi prendere dal risentimento o dalla disperazione.
Eppure avrebbe ben motivo di odio e rancore, visto che la propria realtà quotidiana è stata fin dall’infanzia turbata dagli eventi, dal fanatismo nel quale era cresciuto, e che lo ha costretto a vagare da una casa all’altra, e quindi a emigrare, a Parigi, dove, ormai adulto, conduce una vita tutt’altro che agiata, ma in ogni caso «normale», e soprattutto pacifica. Ha acquisito, insomma, una sua saggezza, una sua quieta maturità: «Ora non mi interrogo più sul bene e sul male. […] Ho trovato una soluzione per respingere l’avanzare dei pensieri: lavoro, mi riempio la giornata di cose e, dato che l’unica cosa che so fare è scrivere, sono diventato un mercenario della scrittura». Scrive infatti articoli, da modesto freelance, nella sua abitazione di Parigi e come secondo lavoro fa il lettore di libri ad alta voce, in casa di signore anziane. Ma è chiaro che il passato si riaffaccia in lui di continuo. E dunque gli torna alla mente il giorno orribile della bomba di piazza Fontana, quando aveva solo nove anni. E insieme le parole di tale Paolo Gallerani, appunto uno dei «rivoluzionari» che frequentavano la «sala comune» di casa sua: «Macché fascisti, è lo stato che vuole intimidirci e noi risponderemo, non chineremo la testa: alla violenza si risponde con la violenza». Poi scorrono altre immagini e parole: il rapimento del giudice Sossi, gli slogan orrendi come «Attento poliziotto, è arrivata la compagna P38», le stragi dell’Italicus, di Brescia, l’uccisione di Aldo Moro; si manifesta la presenza della scuola di lingue Hyperion, «base di incontro di tutto il terrorismo internazionale».
Tutto questo, e tanto altro, fa parte del bagaglio «culturale» e personale del protagonista, che ha anche un fratello minore, Nanni, meno saggio e ben più coinvolto in quelle vicende; una figura decisamente negativa e non fortunata, che appare e riappare nel racconto, dove invece si impone soprattutto una storia d’amore, non proprio sciolta e lineare, tra il protagonista e Clara, una ragazza di buona famiglia, di origine russa, ma a sua volta sradicata, costretta un po’ come lui, ma per ben diversi motivi, a vivere da esiliata, da emigrée. Ecco: nel rapporto tra il protagonista narrante e Clara, si sviluppa un interesse particolare dell’autrice: quello della condizione adolescenziale, specie in rapporto con quanto la storia familiare ha riservato loro come lascito, spesso ingombrante, con il quale regolarmente fare i conti.
Si tratta comunque, come si sarà capito, di un romanzo molto ricco di implicazioni varie, e, va detto subito, scritto con eleganza e precisione, frutto di gusto e di cultura, e che ha il pregio di coinvolgere realtà diverse e modi diversi di intendere il mondo. Dei «rivoluzionari» anni Settanta emergono impietosamente, nettamente, l’arroganza fredda, il desiderio evidente di autoaffermazione camuffato di ideali. Claudia Pozzo ha il merito di non esprimere giudizi morali sulle situazioni, riuscendo a fare in modo che i vari atteggiamenti e le scelte dei personaggi si commentino da sé, da sé acquistino il loro valore e spessore, negativo o assurdo che sia. Il protagonista è figura che cattura l’adesione del lettore, perché, senza nulla negare di ciò che è stato e che ha vissuto, anche se in prevalenza suo malgrado, ben altro è il suo orizzonte di vita. La sua è infatti un’esistenza modesta, anche se tutto sommato garantita da misteriosi privilegi dovuti proprio alla rete di relazioni internazionali della sua famiglia, la cui presenza è sempre stata aleatoria e comunque insufficiente o negativa. Un’esistenza modesta, quella di Pietro, ma sorretta dalla semplice, plausibilissima visione di una realtà che può dirsi davvero accettabile e autentica solo in quanto vissuta nella sua umile dimensione quotidiana di operosità o coinvolgimento con il mondo circostante, ma senza pretese di potere o autoaffermazione. Un romanzo, certo, che si gioca tra Parigi e Milano, ma che vive del costante risucchio in quel passato italiano che conosciamo, un passato che portava quasi ogni giorno in risalto eventi di violenza fanatica ormai impressi nella storia, oltre che nell’animo e nel cuore, come un peso di piombo, di chi è cresciuto allora, dei figli di una rivoluzione del tutto ottusa e velleitaria.

Corriere 21.2.13
La morte di Neruda, nuovi sospetti
di Andrea Nicastro


MADRID — Cosa sarebbe stato della dittatura cilena con Pablo Neruda vivo? Avrebbe retto alle sue denunce? O peggio, allo scandalo di tenere in cella una celebrità globale? Bastò il suo funerale, due giorni dopo la compilazione del certificato di morte, a far tremare la neonata giunta militare. La gente scese in piazza in massa, sfidando la paura. Con Neruda vivo, forse, la storia del Cile sarebbe stata diversa. Invece il grande poeta morì. Per il generale Pinochet una vera fortuna, tanto che da subito (come per il suicidio del presidente Salvador Allende) la scomparsa parve una casualità troppo favorevole per il regime.
Il «certificado de defuncion» del cittadino cileno Pablo Neruda (foto), poeta, senatore comunista, ex ambasciatore e amico personale di Allende, parla di «cancro alla prostata e metastasi». La data è quella del 23 settembre 1973. Neruda aveva 69 anni, dodici giorni prima il generale Augusto Pinochet aveva guidato vittorioso il colpo di Stato e Allende era morto nel palazzo de La Moneda.
Nelle prossime settimane, il giudice cileno Mario Carroza, ordinerà l'esumazione dei resti di Pablo Neruda per cercare di fare finalmente chiarezza su ciò che accadde. L'ha annunciato Fernando Saenz, direttore della Fondazione Neruda.
Sono molti gli scrittori o giornalisti che hanno indagato sul mistero di quella morte, ma il giudice si è basato soprattutto sulla testimonianza di Manuel Araya, ultimo autista di Neruda. Due anni di indagine per arrivare a dire che le accuse e i sospetti di Araya sono sensati.
Il giudice Carroza è lo stesso che aveva ordinato l'esumazione di Allende avvalorando, per quanto possibile, la tesi del suicidio. Difficile dopo quarant'anni individuare chi abbia premuto il grilletto. Nel caso di Neruda, invece, l'esame dei resti potrebbe essere più utile e convincente, soprattutto se dovessero trovarsi tracce di quell'overdose di calmante che l'amico ed autista Araya è convinto sia stata la causa della morte.

La Stampa 21.2.13
Modigliani, Soutine e Derain a Milano nella mostra sulla collezione Netter


Amedeo Modigliani con 15 opere e Chaim Soutine con 19 sono presenti assieme a André Derain, Maurice de Vlamink, Maurice Utrillo, Suzanne Valadon nella collezione Netter, esposta da oggi all’8 settembre a Palazzo Reale di Milano. Sono presentate complessivamente 122 opere, anche di numerosi altri artisti di diverse nazionalità, che nei primi decenni del Novecento lavorarono a Parigi affrontando molte difficoltà. La loro pittura era osteggiata dalla critica ufficiale dell’epoca, che non digeriva i nudi di Modigliani, o le pennellate folli di Soutine. Furono in pochi a interessarsi di questi artisti e fra loro Jonas Netter, che ne collezionò i quadri con continuità. Netter, ebreo di origine alsaziana, era rappresentante di alcune ditte e non aveva molte possibilità economiche, ma i prezzi irrisori di opere che nessuno voleva gli permettevano continui acquisti. Gli artisti sapevano che nei momenti di bisogno potevano sempre rivolgersi a lui. Netter si impegnava anche a farli conoscere, come avvenne quando inviò sette tele di Modigliani in Argentina, per esporle a Buenos Aires e in altri città sudamericane.

Corriere 21.2.13
Le amanti di Modigliani
Le due pittrici: la prima si suicidò dopo la morte del pittore, la seconda cavalcò la cerchia di Montmartre con spregiudicatezza
Jeanne la silenziosa, Suzanne la leonessa
Hébuterne e Valadon, nelle donne di Modì due modelli femminili agli antipodi
di Francesca Bonazzoli


Nel secolo intercorso fra Ottocento e Novecento, oltre alle guerre ci sono state anche le lotte per i diritti civili e il femminismo. Tuttavia, nell'epoca degli svenimenti tanto quanto oggi le donne potevano scegliere se giocare il ruolo della vittima immolata all'uomo o della combattente che decide del proprio destino. La mostra di Modigliani ci offre proprio questi due modelli femminili agli antipodi: da una parte Jeanne Hébuterne, l'amante di Modì, pittrice morta suicida e misconosciuta; dall'altra Suzanne Valadon, l'analfabeta che riuscì a imporre nel mercato la sua pittura e a crescere da sola un figlio pittore, Utrillo.
Entrambe, per entrare nel maschilissimo mondo dell'arte visiva, partirono dal ruolo di modelle-amanti ma la Hébuterne lì si fermò. Aveva conosciuto Modì all'Accadémie Colarossi quando ancora era determinata a fare l'artista. Lui era appena uscito da una storia d'amore con la poetessa Beatrice Hastings, ricca milady, poetessa e scrittrice indipendente, incline all'alcol e alle manifestazioni violente di gelosia. La diafana Hébuterne era tutto il contrario: timida, silenziosa, si teneva sempre in disparte, sotto lo sguardo di mal celato disprezzo degli amici di Modì che non vedevano in lei alcuna delle eccentricità delle femmine del loro giro di Montparnasse. Sopportava le notti che Modì passava ubriaco sulla panchina di fronte al Café de la Rotonde; i tradimenti e le persecuzioni delle ex amanti di lui, come Simone che insisteva per il riconoscimento del figlio partorito poco prima che nascesse anche la figlia di Jeanne. Poverissimi, Modì e Jeanne dipingevano uno di fronte all'altra e lei, poco per volta, cominciò ad assorbire lo stile di lui. Era una creatura tanto mite quanto passiva: quando Modì si ammalò, non riuscì a far altro che vegliarlo e mandare a chiamare l'amico Zborowski, che non poteva muoversi perché a sua volta malato. Alla fine lui morì e lei, prostrata, il giorno dopo si buttò dalla finestra all'ottavo mese della seconda gravidanza. La famiglia rifiutò il cadavere per la vergogna, il funerale fu celebrato di nascosto e solo dopo otto anni i suoi resti furono trasferiti accanto a quelli di Modigliani nel cimitero di Père Lachaise. Ma anche l'epitaffio della tomba la consegna per sempre alla parte della vedova: «Devota compagna fino all'estremo sacrificio».
Il funerale di Suzanne Valadon, invece, racconta tutta un'altra storia. Nata 33 anni prima di Jeanne, ma morta 18 anni dopo, Suzanne riuscì a radunare alle sue esequie tutta Montmartre, compresi Picasso, Max Jacob, Derain, Francis Carco, André Salmon. L'elogio funebre fu letto dall'amico Edouard Herriot, due volte ministro di Francia. Niente male per la figlia bastarda di una governante di Bessines, sedotta da un mugnaio. Ignorata dalla madre, troppo occupata a bere di sera e di giorno a guadagnare da vivere per entrambe fra i miasmi della Butte dove si era dovuta trasferire, Suzanne tentò la strada del circo, ma quella carriera fu stroncata a 15 anni con la caduta da un trapezio. Sapeva, però, che Dio l'aveva dotata di uno splendido corpicino e che a Montmartre era pieno di giovani pittori che ne cercavano uno come il suo. Così cominciò ad andare alla fontana di place Pigalle dove gli artisti sceglievano i loro modelli. Iniziò da allora una vita meravigliosa, fra brasserie, cabaret, passeggiate nei boulevard e visite ai caffè per «l'ora verde». Nelle mattinate libere, però, riprese a disegnare come faceva da bambina, mettendoci una serietà assoluta e dicendosi che doveva essere dura, severa, senza indulgenze. Intanto posava per Puvis de Chavannes: lui aveva 58 anni e lei 16. Ne diventò l'amante, così come di Renoir e di Toulouse-Lautrec che la mandò da Degas, il quale ne riconobbe subito il talento. A diciott'anni partorì l'adorato Maurice, cui non rivelò mai chi fosse il padre, come lei stessa non aveva mai conosciuto il nome del suo.
Molti anni dopo, un altro amante, il giornalista spagnolo Miguel Utrillo, gli diede il suo nome, nonostante all'epoca in cui era rimasta incinta Suzanne avesse avuto una liaison anche con il musicista Eric Satie, propostosi invano come marito. Si lasciò invece sedurre da Paul Mousis, un ricco uomo d'affari che le costruì una casa a Montmagny e la convinse a condurre un'agiata vita borghese finché un giorno, a riaccendere la fiamma, arrivò André, un ragazzo bellissimo, di 21 anni più giovane, forte, sicuro di sé, solare: era un amico di Utrillo, anche lui compagno di sbronze di Modigliani. Suzanne lasciò tutti gli agi e di nuovo l'amore si dimostrò la sua risorsa vitale e creativa. Si sposò e intanto sia lei che Utrillo cominciarono ad avere molti, moltissimi soldi. Ma attorno a lei Montmartre iniziava a morire: Degas, Toulouse, Van Gogh, Puvis de Chavannes, Gauguin, Seurat. E in Costa Azzurra dove si era trasferito, Renoir dipingeva con i pennelli legati alle mani rinsecchite dall'artrite. Utrillo veniva ricoverato sempre più spesso per l'alcol e André la tradiva. Anche per Suzanne stava arrivando il tramonto, ma convinta che «non bisognerebbe mai mettere la sofferenza nei disegni», si accomiatò con questo motto da leonessa: «Dare, amare, dipingere».

La Stampa TuttoScienze 21.2.13
Un software resuscita le lingue ancestrali
Nel Pacifico gli indizi delle proto­parole
di Gabriele Beccaria


Stella nel Borneo si dice biten, mentre nel­ le Fiji suona come kalokalo. E l’elenco va avanti inarrestabile per altre 635 lingue, finché un al­goritmo ideato apposta ha elaborato la «pro­to­parola» che dev’essere stata alla base dei suoni con cui i nostri progenitori indicavano, appunto, le stelle: bituqen.
Finora la ricerca dei mattoni ancestrali della comu­nicazione umana è stata un’impresa lunga e so­prattutto frustrante. Il metodo comparativo idea­ to da Franz Bopp nel XIX secolo, a partire da greco, latino e sanscrito, si è sempre arenato a un certo punto, a causa dell’immensità dell’indagine. Ecco perché uno statistico canadese, Alexandre Bouchard­ Coté della University of British Columbia, a Vancouver, ha deciso di ricorrere a tutta la potenza dei computer. «Penso che il nostro metodo rivolu­zionerà la linguistica storica», ha spiegato, pre­sentando il suo studio su «Pnas». Concentrandosi sulle lingue dell’Estremo Oriente e del Pacifico, ha «frullato» un archivio di 142 mila parole, scomponendole nelle loro unità fonetiche e poi riassem­blandole nei termini base da cui tutte dovrebbero aver avuto origine.
È emerso così un «albero filogenetico», dal quale è possibile delineare alcuni progenitori comuni a partire da un criterio enunciato già un cinquan­tennio fa: i suoni fondamentali per caratterizzare una parola sono anche quelli più allergici ai cam­biamenti. E proprio l’immersione nella massa del­ le 637 lingue ­ spiega lo studioso ­ conferma la vali­dità del principio. Nella sua esplorazione archeo­logica l’algoritmo ha portato alla luce modelli che erano rimasti sempre nell’ombra.
Da bravo statistico Bouchard­ Coté sostiene di aver raggiunto un successo senza precedenti, segnato da un’approssimazione dell’85%: la sua stele di Rosetta elettronica ha riavvolto il filo della storia a 7 mila anni fa, ma non solo. Ha anche delineato un metodo: dalle metamorfosi delle parole sarà pre­ sto possibile raccogliere indizi decisivi su come è avvenuta la colonizzazione del Pianeta.

Repubblica 21.2.13
Kant
La città del filosofo rivuole il suo nome
La località russa di Kaliningrad chiede un referendum per tornare alla denominazione originaria di Koenigsberg
In questo modo potrebbe sfruttare per turismo la fama legata all’intellettuale: ma le polemiche non mancano
I nazionalisti legati a Mosca dicono no: "È solo una manovra politica contro Putin"
di Nicola Lombardozzi


MOSCA Qualcuno si chiede già come l´avrebbe presa lui, il grande filosofo Immanuel Kant che riposa nel suo mausoleo a due passi dalle acque del Baltico. Di certo avrebbe partecipato al dibattito che sta animando tensioni e polemiche tra i suoi concittadini. Tutto nasce da una questione antica: restituire o meno alla città russa di Kaliningrad il nome originario di Koenigsberg perduto alla fine della Seconda Guerra mondiale, quando l´Armata Rossa sovietica strappò alla Germania nazista quel lembo di Prussia Orientale.
Kaliningrad adesso è un territorio ex clave della Russia, incastonato tra Polonia e Lituania. I suoi cittadini, quasi tutti di origine russa dopo il lento esodo della popolazione tedesca, vivono un rapporto conflittuale con la madre Patria. Chiedono maggiore autonomia e soprattutto sognano di aprirsi sempre di più verso l´Europa Occidentale. Non per niente a Kaliningrad tutte le componenti, anche clandestine, di opposizione al Cremlino trovano un terreno molto fertile: dagli attivisti anti- corruzione, ai difensori dei diritti umani fino agli ecologisti. Per questo la proposta viene vista con sospetto dai politici della capitale. Il movimento promotore, guidato dal deputato liberale Solomon Ginzburg ha già raccolto 5mila firme in pochi giorni e conta di arrivare al tetto di 25mila necessario per convocare un referendum. Le motivazioni sono due. La prima è quella di destalinizzare la città intitolata a uno dei padri dell´Urss, Mikhail Kalinin, protagonista delle sanguinose epurazioni degli anni Trenta. L´altra è quella di puntare sul turismo usando come testimonial il filosofo.
Difficile da far digerire a parte della popolazione che è parente diretta degli eroi sovietici che combatterono l´invasione nazista. Per questo, cautamente Solomon promette di far indire il referendum dopo il 2015 quando sarò celebrato il settantesimo della Vittoria e propone di ritornare a nome di Koenigsberg solo poco prima del 2024, trecentesimo anniversario della nascita del filosofo. Ma le polemiche sono durissime. Qualcuno ci vede la tentazione di "ri-germanizzare" il territorio «vanificando il sacrificio delle vittime della Guerra Patriottica». Altri una semplice azione di disturbo alla presidenza Putin. Capita così che molti compagni di partito di Ginzburg si dissocino: «Vogliamo onorare e sfruttare la memoria di Kant? Facciamolo alla russa. Chiamiamo la città Kantograd, o Kantsk, oppure Kantejevka».

Repubblica 21.2.13
Grandi speranze
L'utopia di Owen, quel socialismo che abbiamo smarrito
di Lucio Villari


"Per una concezione nuova della società" del pensatore e imprenditore inglese usciva duecento anni fa
Teorizzava e praticava il superamento del capitalismo. Ecco perché ancora oggi l´Europa lo ripudia
Fu anche un ricco industriale e immaginò l´azienda come servizio sociale. Lo scontro con la Chiesa fu la sua fine
Senza di lui non sarebbe nato il "Manifesto" di Marx ed Engels né le analisi della condizione operaia

Nel 1816, nel pieno della rivoluzione industriale inglese, Ugo Foscolo si trasferì in esilio volontario a Londra. Veniva da un agitato e povero soggiorno in Svizzera e non voleva ritornare nella Milano austriaca. E a Londra fu accolto con affetto e onore da politici e letterati cui era giunta la sua fama. Era fuggito dall´Italia lasciando incompiuto il poema Le Grazie dove avrebbe voluto raccontare in versi l´Armonia e «idoleggiare le idee metafisiche del Bello».
A Londra però l´attendevano altri impegni: la ricerca letteraria e critica, un´attività giornalistica come collaboratore di riviste inglesi e le inquietudini di osservatore della realtà sociale del paese che lo aveva accolto. Curioso delle macchine e dei progressi industriali in corso, visitò nel 1822 Manchester e Liverpool, fumanti di ciminiere, tra fragori di officine, soprattutto tessili, e rumorosi cantieri e fu una folgorazione: al poeta della bellezza si apriva lo scenario brutale dell´industrializzazione e del profitto capitalistico. Scrisse a una amica: «I vostri figli, o al più tardi i vostri nipoti si accorgeranno che la vera rivoluzione sarà qui tacitamente prodotta da un lato dalla disperata miseria della moltitudine, e dall´altro dalla potenza economica dei plebei arricchiti». E, alla fine, concludeva, si impianterà «la più terribile delle tirannidi, quella degli Oligarchi padroni delle manifatture che non hanno altra idea, altro sentimento che quello di fare fortuna».
Foscolo anticipava di vent´anni l´ansia di Leopardi per l´incalzare di «macchine al cielo emulatrici»; a cominciare dall´«Anglia tutta con le macchine sue» della Palinodia. I due poeti forse credevano di essere soli o tra pochissimi uomini di cultura a rimanere perplessi e sgomenti di fronte alle contraddizioni del progresso industriale, ma non era così perché proprio in quei vent´anni, anche in piena ideologia del libero mercato, stavano maturando, soprattutto in Inghilterra, riflessioni molto critiche sui limiti e i difetti di quella rivoluzione economica. E non era il lamento di aristocratici conservatori, di proprietari terrieri scalzati dal progresso (in un´inchiesta del 1811 risultava che i lavoratori dell´Inghilterra, della Scozia e del Galles occupati nell´industria e nel commercio superavano ormai di una volta e mezza quelli dell´agricoltura), ma di uomini d´affari e imprenditori intelligenti, non appartenenti ai «plebei arricchiti», e di studiosi attenti della società.
Saranno questi a gettare i primi semi di un mondo nuovo, diverso, progredito ma civile. In particolare uno di loro, Robert Owen, finito stranamente tra gli "utopisti" forse perché verrà accomunato nel Manifesto dei comunisti di Marx e Engels a quei singolari pensatori (ad esempio, Fourier e Saint-Simon) che «emergono nel primo periodo, non sviluppato, della lotta tra proletariato e borghesia». In verità, nella descrizione precisa e nella critica del capitalismo industriale, Marx ed Engels sono arrivati dopo di lui e comunque senza Owen non sarebbe nato il socialismo in Inghilterra e non sarebbero iniziate l´esplorazione e la diagnosi del modo di produzione industriale, delle condizioni di vita e di salute degli uomini, delle donne e dei bambini impegnati nelle officine e nelle miniere, né sarebbe apparsa, nella polemica politica di quegli anni, la possibilità che la società industriale potesse essere più vivibile di quella che si era venuta formando. Non risponde dunque a verità storica il fatto che l´avere Owen creduto in quella "possibilità" ne facesse l´esponente di un sogno utopistico, lontano dalla conoscenza dei rapporti effettivi di produzione e in assenza della lotta di classe dal cui esito vittorioso per il proletariato avrebbe potuto essere rovesciato quel mondo di povertà e di sfruttamento.
Anzi, pensando all´utopia "possibile" del tempo di Owen e del contemporaneo Henri de Saint-Simon (di cui è recente in Francia la riedizione degli scritti dove è limpidamente disegnato un futuro reale, non un sogno) si rimane sgomenti della contraddizione intellettuale e politica in cui si trova l´Europa attuale. Qui sembra perduta per sempre ogni ipotesi di riforma e di cambiamento che guardi oltre il presente, che osi immaginare, come fece Saint-Simon nel 1814 nel volume La riorganizzazione della società europea, un socialismo creativo in una «stretta eguaglianza di ordinamenti, di interessi e di istituzioni». Una Europa dunque senza riferimenti, attraversata e accomunata dalla paura, dal rifiuto per tutto ciò che non sia una razionalizzazione dell´esistente. Eppure nessun futuro sembra dispiegarsi davanti a noi se non riprendendo proprio l´intelligenza delle cose, quel filo che qualcuno aveva cominciato a svolgere proprio ai primi dell´Ottocento.
Infatti, duecento anni or sono, nel 1813, Owen aveva pubblicato un saggio che fece scalpore, Per una concezione nuova della società. Segnava l´inizio di una stagione di idee riformatrici che nel 1815, un anno prima della visita di Foscolo a Manchester, saranno più visibili nel saggio Osservazioni sugli effetti del sistema industriale. I titoli dicono molto perché Owen sapeva benissimo di cosa parlava. A vent´anni, nel 1791, aveva diretto una delle più grandi filande del Lancashire, dove lavoravano cinquecento operai e poco dopo, ormai ricco industriale e membro tra i più autorevoli della Società letteraria e filosofica di Manchester, era divenuto proprietario delle più moderne filande di New Lanarck, in Scozia. La sua azienda era fiorente e per venticinque anni Owen sperimentò un modello di società industriale dove il ruolo dell´imprenditore-capitalista fosse non solo quello di creare oggetti, ma di avere per collaboratori soggetti (i lavoratori e le loro famiglie) sani, ben retribuiti, felici del loro lavoro, partecipi delle sorti del tessuto civile e sociale della comunità. Insomma, l´industria come un servizio sociale e tramite di crescita culturale e morale senza bisogno della «lotta tra proletariato e borghesia» di cui parlerà il Manifesto.
Che il progetto, realizzato, fosse unico, inedito, sorprendente lo prova il fatto che a New Lanarck affluirono visitatori e osservatori da tutto il mondo per vedere come mai gli alti salari, le ore di lavoro ridotte, la protezione delle donne e dei minori impegnati nel lavoro, buone case, cibi e vestiti decenti, fabbriche areate e circondate dal verde, l´educazione scolastica dei bambini ispirata al laicismo, all´ateismo, alla conoscenza e alla solidarietà, producessero così grandi guadagni al proprietario. Tanto più che Owen aveva dato un limite al profitto del suo capitale e aveva deciso che i profitti eccedenti fossero tradotti in servizi sociali a favore dei lavoratori della fabbrica. Ebbene, il saggio Per una concezione nuova della società e lo scritto successivo destinato a correggere «le parti più dannose alla salute e alla morale» dei lavoratori del sistema industriale non erano altro che il risultato dei piani di Owen per le sue fabbriche "umanizzate". Se poteva apparire un´utopia essa era tale che, attuata nella vita sociale, avrebbe, come scrisse lo storico Maurice Dobb, «spazzato via in breve tempo il capitalismo e il sistema concorrenziale».
Il prestigio di cui godeva Owen impedì che la sua visione rivoluzionaria venisse subito spazzata via dai difensori dell´altro capitalismo. Si attese che egli, nella sua intensa attività pubblicistica e di divulgatore delle sue idee a tutti i livelli delle istituzioni politiche, si scontrasse finalmente con le chiusure conservatrici della Chiesa. Allora fu attaccato frontalmente e decise di recarsi negli Stati Uniti dove, nel 1825, fondò la comunità New Harmony (il nome sarebbe piaciuto a Foscolo) e poi organismi sindacali, cooperative, scuole dando un corpo concreto all´owenismo. Furono anni di speranze, di sconfitte, di illusioni perdute contro gli orrori della rivoluzione industriale e nel sogno di una società di persone felici del loro lavoro, non inchiodate dal bisogno e dallo sfruttamento. Ebbe fino all´ultimo (morirà nel 1858) l´intelligenza e la curiosità di forzare l´enigma di un progresso necessario, ma fonte di ingiustizie, di crisi, di inquinamento. Un enigma in attesa, duecento anni dopo, di essere risolto.

Cesare Veneziani
Corriere 21.2.13
Dati e server in Piazza Affari. La spinta della matricola MC-link
di Giuliana Ferraino

il pdf qui, il testo anche su spogli

MILANO — Arriva la prima matricola del 2013. Si chiama MC-link ed è stata tra i primi operatori a offrire, fin dal 1992, agli italiani connessi a Internet (allora pochissimi) una casella di posta elettronica. Oggi è un gruppo di telecomunicazioni che fornisce servizi, dati, telefonia (ma non quella mobile), Internet su banda larga e data center, con sedi a Trento, Roma e Milano, un fatturato di 35 milioni nel 2012, che alla fine dell'anno dovrebbe salire a 37 milioni e 22 mila clienti business. Venerdì le azioni MC-link cominceranno ad essere negoziate sul mercato Aim Italia, il mercato alternativo creato per favorire l'accesso a Piazza Affari delle Pmi.
Un segnale di ottimismo verso la Borsa dopo un 2012 che ha registrato soltanto una quotazione (Brunello Cucinelli) sul listino principale di Borsa Italiana, e 5 sull'Aim? «Abbiamo fiducia nella nostra azienda, che vogliamo continuare a far crescere in modo sano. Non vedo perché il mercato non ci debba premiare», sostiene Cesare Veneziani, 54 anni, amministratore delegato di MC-link dal settembre 2001, nel consiglio della società dal '98, l'anno in cui è stato fondata da Paolo Nuti, 66 anni, oggi presidente e azionista (post Ipo) con il 23,6% del capitale, e dal danese Bo Arnklit, 62 anni, vicepresidente e socio con il 22,8%.
La storia ha inizio da MC-microcomputer, allora una delle riviste di informatica più popolari, di cui Nuti a quel tempo è direttore, mentre Arnklit si occupa di tecnologia. Alla fine degli anni '80 i due creano una Bbs, cioè una comunità Internet chiusa, alla quale si accede con un codice. La comunità si apre nel '92 e diventa una Spa nel '98. La svolta arriva l'anno dopo, quando la neo nata società rileva dall'editore Technimedia il ramo d'azienda MC-link.
Nel 2000 MC-link inizia a offrire le prime soluzioni Adsl alla clientela business. Nel 2001 ottiene la licenza di operatore telefonico. Nel 2005 si dota di una propria infrastruttura di accesso alla rete. L'anno che segna ufficialmente il passaggio da MC-link da semplice Isp a operatore di telecomunicazioni è il 2009, con la fusione per incorporazione con Alpikom, società di tlc del Trentino Alto Adige.
L'Ipo consiste in un collocamento riservato a investitori qualificati per un importo di circa 2,6 milioni di euro con emissione di 360.000 nuove azioni (a un prezzo di sottoscrizione di 7,65 euro) provenienti da un aumento di capitale. Le risorse raccolte serviranno a finanziare (con una media di 5 milioni di investimenti all'anno), lo sviluppo, che punta soprattutto sui cosiddetti servizi gestiti, tra cui c'è la trasmissione dati attraverso Vpn aziendali). E' la parte più alta del mercato, ma anche quella più redditizia e mette MC-link in concorrenza 8nel segmento business) con Telecom Italia e Fastweb.