venerdì 22 febbraio 2013

l’Unità 22.2.13
Bersani: i progressisti europei «votano» per noi
«Vinceremo, altro che grande coalizione»
Il leader Pd a Napoli in piazza del Plebiscito: «Se il Sud non riparte non riparte l’Italia, in Europa un fronte per rilanciare il lavoro»
di M. Ze.


L’ultimo comizio in piazza del Plebiscito a Napoli, piena zeppa, tantissimi giovani, le parole più dure contro Silvio Berlusconi e Beppe Grillo, l’appello più sentito proprio ai loro elettori, berlusconiani delusi e grillini arrabbiati, la chiamata più decisa al popolo di centrosinistra, «l’arma atomica».
«Noi nun scassamm, accungiamm», noi non rompiamo, aggiustiamo, recita uno dei tanti striscioni che sventolano sotto una pioggerellina lieve ma insistente. Pier Luigi Bersani sceglie il Sud prima a Salerno e poi a Napoli perché «se il Mezzogiorno non si muove anche l’Italia non si muove e Napoli deve fare la sua parte» per chiudere la campagna elettorale in piazza, per percorrere l’ultimo miglio, le ultime ore in cui si gioca tutto. I sondaggi invitano all’ottimismo, certo, ma quante volte hanno raccontato umori diversi da quelli usciti dalle urne?
«Voglio rivolgermi anche agli elettori che hanno creduto alle favole del centrodestra e rimasti delusi, noi possiamo garantire la governabilità e lo faremo senza settarismi. Noi dice tra gli applausi a differenza di Berlusconi non abbiamo bisogno di nemici, abbiamo avversari. Non abbiamo bisogno di rendere il Paese cattivo e astioso, ci rivolgiamo alla parte migliore che abbiamo dentro di noi». E ai grillini: «Non ho niente da dire ai disillusi e agli arrabbiati, a chi non va a votare o vota Grillo. Noi la capiamo bene quella rabbia. Capiamo quello che è uno stato d’animo prima ancora che una scelta politica. Ma io ho qualcosa da dire a Grillo: questo disagio dove viene portato? Dove porta dire che l’Euro non serve? Ci porta fuori dall’Europa. E dove porta uno che non risponde alle domande e comanda solo lui? Ci porta fuori dalla democrazia. Non si può dar fiato e corda a chi vuol vincere sulle macerie, sulle macerie non si vive, solo un miliardario può farlo».
Bersani dunque lancia un appello agli indecisi, ai delusi e agli arrabbiati, quella fetta di elettorato cioè che può decidere il risultato delle elezioni al Nord come al Sud, nelle cinque Regioni ancora in bilico e dove il centrodestra sta perdendo colpi mentre Mario Monti non riesce ad avanzare, «non ci saranno sorprese, non diciamo fandonie, faremo quello che diciamo». Torna su quella frase di Monti, sulla preoccupazione di Angela Merkel se vincesse Bersani (smentita prontamente dalla diretta interessata e ridimensionata dallo stesso premier). «Mi è dispiaciuto replica il leader Pd parlando da Radio 2 mi è sembrata più una gaffe del Professore che un’iniziativa della Merkel. I governi europei si rispettano reciprocamente, e Monti lo sa. E questa è stata anche la mia impressione dopo il viaggio in Germania».
Rapporti freddini con il possibile futuro alleato, soltanto contatti legati alla normale attività di governo in queste ultime settimane, «ognuno sta pensando alla sua campagna elettorale», ma il clima non è sereno e Bersani non nasconde il fastidio per i continui attacchi al suo partito. «La nostra coalizione assicura vincerà, le loro si squaglieranno come neve al sole. Dove sono i loro patti? Voglio vederli». Si dice certo della vittoria «anche in Lombardia», come è certo che non sarà una passeggiata il dopo: «Sarà difficile fare qualsiasi cosa, se non riprendiamo il meccanismo di fiducia tra cittadini e politica», se non si colma «quel baratro» che si è creato in questi anni. Promette «guerra» contro la criminalità e la corruzione, problema «che non è solo del Sud: in Lombardia si vota perché le ronde padane non hanno fermato la ‘ndrangheta». Assicura nei primi cento giorni di governo una legge contro il femminicidio, una legge sui partiti e le posizioni dominanti, contro il conflitto di interessi, «e non venga a dire Berlusconi che gli mando le minacce mafiose... Quando sente parlare di regole gli viene la scarlattina».
Riccardo Nencini, Enrico Letta e Guglielmo Epifani si guardano intorno e sorridono davanti a quel fiume di persone e bandiere e a quegli applausi più forti quando il leader Pd dal palco parla di guerra alla criminalità e all’evasione fiscale. E poi il lavoro, quello che cercano e non trovano i giovani e le donne, quello che si perde a tutte le età e ti spezza il futuro. Come è accaduto a Giuseppe Burgarella, l’operaio che si è impiccato lasciando un biglietto nella Costituzione italiana. Bersani lo ricorda e la piazza gli dedica un lunghissimo applauso: «Il lavoro è anche dignità e non ti possono togliere la dignità».
Ai napoletani promette: «Dobbiamo vincere domenica e lunedì perché l’Europa si aspetta che noi vinciamo, l’Europa dei progressisti. Adesso tocca a noi dare una spinta per cambiare. Andiamo a vincere».

l’Unità 22.2.13
Schulz: la posta è altissima il pericolo è Berlusconi
Il presidente del Parlamento europeo: se vince Bersani riforme e lotta alla disoccupazione
di Marco Mongiello


I voti a Berlusconi rischiano di riportare l'Italia nel baratro. L'osservazione del presidente del Parlamento europeo Martin Schulz, riportata ieri dal quotidiano tedesco Bild ma risalente a diversi giorni prima, è oramai un'ovvietà a Bruxelles, condivisa da progressisti e conservatori, dalla Commissione europea come dalle cancellerie nazionali. Gli esponenti del Pdl però hanno parlato di «ingerenza» nella campagna elettorale italiana e ieri hanno perfino chiamato in causa il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, affinché intervenga per salvaguardare la sovranità nazionale.
Schulz, in questi giorni a letto con la febbre, qualche giorno addietro aveva spiegato alla Bild che «Silvio Berlusconi ha già fatto precipitare l'Italia in fondo al baratro con la sua irresponsabile guida di governo e con le sue scappatelle personali» e che «alle prossime elezioni la posta in gioco è importante». Quindi il socialdemocratico tedesco, probabile futuro candidato progressista alla Commissione europea, ha detto di avere «molta fiducia nelle elettrici e negli elettori italiani, che faranno la scelta giusta per il proprio Paese».
Secondo il presidente del Parlamento europeo il leader del Pd Pier Luigi Bersani è «un buon candidato» per proseguire le riforme, stimolare la crescita e lottare contro la disoccupazione. Del resto sia Schulz, ex leader dei Socialisti e Democratici al Parlamento europeo, che Bersani hanno sempre criticato la politica di austerità della Cancelliera tedesca Angela Merkel.
Al Pdl invece le dichiarazioni del presidente dell'Assemblea di Strasburgo non sono andate giù. «Mai si era vista un'intromissione politica così evidente dalla più alta carica istituzionale del Parlamento europeo», ha commentato Giovanni La Via, che dopo il passaggio di Mario Mauro alla lista Monti è il nuovo capogruppo degli europarlamentari Pdl. Per La Via «le dichiarazioni di Schulz sono l'ennesima intromissione partigiana di chi, invece, dovrebbe attenersi all'imparzialità che il ruolo richiede».
Sullo stesso tono gli eurodeputati Pdl Roberta Angelilli e Carlo Fidanza e diversi deputati Pdl al Parlamento italiano, tra cui Alessandra Mussolini. Licia Ronzulli, l'eurodeputata ex infermiera che fu indicata da una delle «papi girl» come l'organizzatrice della logistica dei viaggi delle ragazze a Villa Certosa, quella che negò di esserci stata e poi ammise di esserci stata ma solo col marito, ha ricordato che «solo un anno fa Schulz non disdegnava il sostegno degli eurodeputati del Popolo Della Libertà che servivano ad eleggerlo presidente dell'Europarlamento, promettendo in cambio la garanzia del ruolo super partes, che sta però clamorosamente tradendo».
In effetti l'elezione di Schulz alla presidenza del Parlamento europeo è avvenuta anche con i voti dei popolari del Ppe, il che rafforza l'idea che a Strasburgo le considerazioni su Berlusconi siano oramai «super partes».

l’Unità 22.2.13
Alfredo P. Rubalcaba: «Dopo Hollande, Bersani. La sinistra salverà l’Europa»
Il segretario generale del partito socialista spagnolo: «Dobbiamo puntare alla crescita e a un’Unione solidale, più attenta ai giovani che ai banchieri»
«La destra ha puntato tutto sull’austerità, con loro il sogno europeo sta morendo»
di Umberto De Giovannangeli


«Abbiamo bisogno di più Europa, certo, ma anche di un’altra Europa. Una Europa più solidale al proprio interno e nelle relazioni con il resto del mondo. Questa sfida passa per un ritorno al governo nei Paesi-chiave delle forze socialiste e progressiste. La strada del cambiamento è stata aperta dalla vittoria di Hollande in Francia, ed ora è la nostra speranza è che sia la volta di Pier Luigi Bersani. Una vittoria del centrosinistra in Italia, con l’europeismo sociale e solidale che lo connota, sarebbe un segnale di speranza anche per la Spagna e per gli altri Paesi del Sud Europa». A sostenerlo è Alfredo Peréz Rubalcaba, segretario generale del Psoe. «La destra – rimarca il leader dei socialisti spagnoli – è una macchina capace solo di produrre un distacco delle opinioni pubbliche dall’Europa, percepita come qualcosa di punitivo, antisociale. La vittoria dei progressisti è il miglior antidoto contro il diffondersi di un sentimento ostile all’Europa». Quanto ai presunti «desiderata», peraltro smentiti da Berlino, della cancelliera tedesca Angela Merkel, Rubalcaba annota: «Bersani come gli altri leader progressisti e socialisti europei non hanno bisogno di “sponsor”, esaminatori o di “tutele” tecnocratiche. Quanto alla signora Merkel, posso dire questo, da spagnolo: averla innalzata, come ha fatto Rajoy (il premier spagnolo, ndr) a immagine e sostanza dell’Europa ha contribuito ad alimentare tra gli spagnoli il distacco e la diffidenza verso l’Europa stessa».
Qual è oggi la «mission» fondamentale dei progressisti europei?
«Invertire la tendenza, determinata dalla destra, del tramonto dell’Europa. La sinistra, i progressisti devono battersi per una rinascita dell’Europa. Di una Europa più solidale, più forte politicamente. Abbiamo bisogno di più Europa e di un’altra Europa. Fuori da questo, l’Europa non ha futuro. Ciò che sta maturando nel campo progressista è una forte condivisione di un nuovo europeismo, che ha come premessa la presa d’atto che si vince o si perse insieme, e che per uscire dalla crisi non bastano risposte nazionali. In questo, il caso spagnolo è emblematico».
In quale senso?
«Nel senso del fallimento delle politiche conservatrici e di quella iper austerità imposta dall’Europa a trazione tedesca. Il dato della disoccupazione nel mio Paese ha superato i livelli di guardia: i senza lavoro sono quasi 6 milioni, quasi tutti i giovani sono disoccupati. Il mio è un Paese che sta attraversando una profonda crisi economica, sociale, territoriale e da una crisi politica che è figlia di tutte le crisi. La Spagna è stata un Paese fortemente europeista, che ha creduto nell’Europa durante la transizione e il nostro cammino verso la libertà. Ma oggi questo sentimento è fortemente intaccato. E questo perché la Spagna è un Paese che dall’Europa riceve tagli, regolazioni sociali, austerity, austerity e ancora austerity. L’Europa viene percepita come una entità punitiva, ostile, una Europa che non ci vuole, che ci rimprovera solamente, e ciò non fa che crescere lo scetticismo e il distacco verso l’Europa stessa. Il messaggio che l’Europa della destra ha mandato agli spagnoli è riassumibile così: avete sbagliato, vi siete comportati male e ora dovete pagare... questo messaggio è devastante e allontana i cittadini dall’Europa. Con Bersani, come con Hollande e gli altri leader progressisti europei, siamo uniti dall’idea che per uscire dalla crisi c’è bisogno di un’altra Europa. E’ quella per cui intendiamo batterci. Perché l’Europa della destra ha fallito, le sue ricette hanno favorito la speculazione finanziaria e incrementato le divisioni sociali. Il nostro compito è quello di contrastare una destra europea che sta imponendo una uscita dalla crisi che presuppone solo sofferenza e austerità. E questo non riguarda solo gli spagnoli. L’altra Europa è quella che si ribella ai 40 miliardi di euro che sono stati prestati alle banche, a fronte dei soli 6 miliardi destinati alla disoccupazione giovanile dal budget europeo. Questa Europa che dà 6, 7 volte di più ai banchieri che ai giovani, è una Europa indifendibile, è una Europa che emargina invece di includere. L’altra Europa, quella che condividiamo con Hollande, Bersani, Gabriel (il leader della Spd, ndr) non è succube dei mercati finanziari. L’altra Europa si preoccupa più dei cittadini che delle banche, che pone al suo centro il futuro dei milioni di cittadini che hanno perso il lavoro. I parametri vanno ribaltati, le priorità vanno riscritte. L’altra Europa non può fare a meno della Germania, ma al tempo stesso non può accettare che l’immagine e la sostanza dell’Europa siano rappresentate da Angela Merkel. Alla destra dobbiamo ricordare che le politiche di rigore, l’austerità assolutizzata minano le basi stesse dell’unità europea. Qualche tempo fa autorevoli intellettuali affermarono in un loro scritto che l’Europa stava morendo. Non come territorio, ma come sogno, come progetto. Sta a noi far rivivere quel sogno, quel progetto: il progetto di una Europa più sociale, più democratica, più solidale. La vittoria in Italia di Pier Luigi Bersani rafforzerà questo progetto e lancerà un messaggio di speranza soprattutto ai Paesi del Sud dell’Europa. Con la vittoria di Hollande in Francia abbiamo cominciato a parlare di crescita, di occupazione. Ma Hollande ha bisogno di sostegno, ha bisogno della forza di altri grandi Paesi europeisti. Hollande ha bisogno della forza di altri grandi Paesi europeisti. Ed è anche per questo che Pier Luigi Bersani deve vincere. E nel vincere, dovete pensare non solo all’Italia, ma agli spagnoli, ai greci, ai portoghesi, agli irlandesi...Perché l’altra Europa oggi passa per l’Italia».

Corriere 22.2.13
I sondaggi fanno tremare i partiti. Lo scenario di una valanga grillina
Il Pd teme il calo di Monti: in Senato potrebbe essere ininfluente

di Maria Teresa Meli

ROMA — Si fanno ma non si dicono. E si sfornano in continuazione. Tre alla settimana, almeno per quanto riguarda il centrosinistra. E raccontano tutti — punto in percentuale in più, punto in percentuale in meno — la stessa storia. Grillo è in salita, costante e, apparentemente, inarrestabile. Il Movimento 5 Stelle si è piazzato al secondo posto, giusto dietro il Partito democratico. La forbice tra le due forze politiche è ampia. E non colmabile, ma i dati rivelano che mentre il trend del Pd tende al ribasso, quello dei grillini, al contrario, è in rialzo.
Però non è solo questa la ragione del cruccio del centrosinistra. Non è solo questo il motivo dei pensieri bui dei dirigenti del Partito democratico. A preoccupare i vertici del Pd sono anche i sondaggi che riguardano Monti. Che aprono una prospettiva inquietante. Non è affatto detto, dati alla mano, che il listone del premier riesca a guadagnare al Senato un numero adeguato di seggi. Già, perché se Bersani non riuscirà a ottenere una vittoria piena pure a Palazzo Madama, avrà bisogno come il pane di un gruppo di sostegno montiano. Tradotto in cifre: Scelta civica dovrà ottenere almeno 15, 20 senatori. Tanti ne serviranno, in caso di pareggio, per consentire al Partito democratico di mettere in piedi un governo di centrosinistra.
Peccato che questi numeri non siano, almeno al momento, una sicurezza. I sondaggi infatti raccontano che nelle regioni chiave i montiani arrancano e non riescono a sottrarre voti consistenti al centrodestra. I dirigenti del Pd si sono guardati in faccia con un certo sconcerto, l'altro giorno, quando hanno esaminato i dati segretissimi forniti loro dai sondaggisti. Per forza. Quelle cifre hanno confermato tutti i loro timori: lì dove il Partito democratico va bene, il listone del premier è in affanno. Ergo: non è al centrodestra che il premier toglie i voti. Perciò, detto in parole povere, un Monti che non riesce a fare argine nei confronti delle truppe berlusconiane rischia di servire poco o niente al centrosinistra.
Di più, e di peggio: nelle regioni chiave, quelle in cui centrosinistra e centrodestra combattono la battaglia campale per il Senato, i montiani rischiano di essere ininfluenti. In Lombardia è testa a testa. In Sicilia pure. In Veneto Bersani e i suoi alleati perdono senza possibilità di sorprese dell'ultima ora, mentre in Campania la vittoria è saldamente nelle loro mani e di lì non si sposterà. Ebbene, in queste regioni Monti rischia di non fare comunque la differenza. Il che significa che tutti i calcoli che sono stati fatti finora al Partito democratico vanno rivisti.
«Non avremo mai il mito dell'autosufficienza: i problemi del Paese sono gravi e non si può pensare di risolverli governando con il 51 per cento»: erano queste, fino a qualche settimana fa, le parole che Bersani amava ripetere in tutti i suoi conversari con amici, collaboratori e compagni di partito. Il segretario pensava al Professore, ovviamente. E al suo movimento. E nel Pd si ragionava sulle poltrone da affidare ai cosiddetti centristi. Quella della presidenza del Senato in primis, che un giorno spettava a Monti e quello dopo a Casini. Ma soprattutto quella del Quirinale. Ora è «tutto da rifare», come avrebbe detto Gino Bartali. Per questo Bersani ha lanciato l'occhio sui grillini. «Nessuna apertura — spiega il segretario, pragmatico come sempre — ma, comunque andranno le elezioni, loro saranno in Parlamento. Perciò, come sta già accadendo in altre regioni dove governiamo, ci rivolgeremo a tutti, e quindi anche a loro. Porteremo i nostri provvedimenti in Parlamento e in quella sede ci confronteremo con le altre forze politiche, grillini inclusi». È un ragionamento, quello di Bersani, che non fa una piega, stando alle dichiarazioni di D'Alema e Renzi. Solo gli ex ppi frenano. Rosy Bindi continua a sparare a palle incatenate contro il comico genovese e Beppe Fioroni spiega: «Grillo è di destra, quella è la sua cultura, quella è la sua deriva e noi con lui non c'entriamo proprio nulla». Un segnale all'indirizzo di Bersani? Già, ma anche di quel Romano Prodi che, stando alle voci dei palazzi della politica, punterebbe sull'apporto dei grillini per arrivare al Quirinale.

Corriere 22.2.13
«La sinistra ci ha traditi» Al cancello D dell'Ilva gli operai tifano 5 Stelle
di Goffredo Buccini


TARANTO — Grillo. Grillo. Grillo. Grillo. Grillo. Grillo. «Eh no, scusa, io voto Ingroia: sai, sono compagno!». Sospirone, smorfia: «Però tanti, sì, tanti lo voteranno Grillo, accidenti a loro». Cancello D, turno delle due di pomeriggio. Ce ne vogliono sei, di operai grillini incavolati neri, prima di arrivare al compagno Emanuele, officina carpenteria, da diciassette anni qui all'Ilva. Altri cinque prima di imbattersi in Michele, produzione calcarea, che (addirittura) voterà Pd e però è comprensivo verso l'onda montante del grande guastafeste: «I partiti tradizionali ci hanno fregato, siamo stanchi».
Già. L'aria è mefitica per tutti, ma in particolare forse per la cara vecchia sinistra, davanti alla più grande acciaieria d'Europa ridotta a un gigante con i piedi d'argilla da troppi anni di intrallazzi trasversali e da un decisivo intervento della magistratura tarantina: il famigerato camino E312 continua a spandere miasmi e veleni, sia pure in misura ridotta; dal 3 marzo vanno in cassa integrazione 6.417 operai («eventuale picco», secondo il ministro Passera), pagando così una ristrutturazione aziendale che doveva già essere stata fatta e di cui nessun politico ha mai chiesto conto per troppo tempo. Il Corriere del Mezzogiorno ha tirato fuori numeri impressionanti: nei prossimi due anni a salario ridotto, entreranno nelle tasche di ciascun lavoratore 10.400 euro in meno, 67 milioni in meno nel reddito delle famiglie. Tra tumori diffusi e nuove povertà ce n'è abbastanza da essere imbestialiti, e a poco sembrano servire i volantini distribuiti dagli ingroiani guidati da Antonio Di Luca, uno dei diciannove attivisti Fiom messi sulla graticola dalla Fiat a Pomigliano che, beato lui, ancora scherza: «Quanto pesa Grillo? Nunn'u saccio, ma io peso 110 chili, guagliò!».
In giorni di magra, il peso conta. Così la Finocchiaro risponde con sobria modestia a chi accusa i leader storici di non essersi fatti vivi davanti ai cancelli dell'acciaieria o nella città dei Due Mari: «Che il partito abbia schierato me in Puglia è un segno inequivocabile di attenzione» (mai vista davanti all'Ilva nemmeno lei, in verità). E un peso massimo come D'Alema approda alla fine del suo tour pugliese al teatro Orfeo, in pieno centro. Ha appena attaccato i magistrati tarantini, accusandoli di non applicare la legge sull'Ilva.
Sul palco è ecumenico: conciliare salute e lavoro, come fosse facile. Cinque minuti prima che arrivi, all'Orfeo fanno partire l'Internazionale nella versione del coro dell'Armata Rossa, tra vecchi compagni in lacrime, ma è solo lo spot sulla campagna Pd di un circolo fantasioso, Roccaforzata. Preceduto dalle ben più rassicuranti note della Nannini, D'Alema promette la fabbrica risanata agli operai e la salute garantita ai cittadini del rione Tamburi che accanto alla fabbrica campano e muoiono intossicati, «sentiamo il peso di avere capito tardi il problema», ammette: «Ma sempre prima degli altri!», si riprende, in un sussulto di dalemismo doc. Il pubblico di militanti che stipa l'Orfeo applaude convinto.
Ma convincere quelli che stanno dall'altra parte dei cancelli, con le loro vite che evaporano agli altiforni della grande acciaieria, è tutta un'altra faccenda. Fabio Caucci, 38 anni di cui quindici alle colate continue, tira su il cappuccio della felpa a proteggersi dalla pioggerellina e ammette che ci ha pensato tanto: «Voto Grillo. Ero in dubbio con Ingroia, ma ho deciso che voglio dare un calcio a tutti. E ho fatto un sondaggio nel mio reparto. Cinque su sei votiamo Grillo». Fabio non è un cane sciolto, ha la tessera Uilm, la sigla più forte dell'Ilva. Il suo gran capo, Antonio Talò, uno che mastica politica sindacale da decenni, non si nasconde: «C'è disaffezione, non ti posso escludere una bella botta di Grillo. La nuova ondata di cassa integrazione può pesare, eccome, sul voto, ci sarà anche molta astensione». Pure Francesco Bardinella, giovane testa fina della Fiom, prevede la botta: «Purtroppo il voto a Grillo sarà altissimo. E del resto se vota per Grillo un Nobel, figurati un operaio». E se per Dario Fo dal palco di Milano è arrivato il «momento del ribaltone», Grillo qui a Taranto ha certamente fatto un rispettabile «ribaltino»: un mese fa venne in piazza Immacolata, e quella fu l'unica piazza che non riuscì a riempire nel suo viaggio al Sud. Un mese dopo, la situazione pare essersi rovesciata, almeno in fabbrica. Ha pesato, favorevolmente, la sua ammissione sincera — non ho formule magiche — a fronte dell'orgia di promesse elettorali che, tardivamente, venivano dai partiti. Hanno pesato negativamente sul Pd le intercettazioni con i gran capi Ilva incarcerati dai magistrati, le frasi pesantissime di Ludovico Vico contro il compagno di partito Della Seta al telefono con Archinà, boss aziendale delegato agli affari sporchi («ma non mi riferivo a Della Seta!», giura adesso il candidato pd dietro le quinte dell'Orfeo); forse ha pesato anche la vecchia storia dei 98 mila euro (regolarmente registrati) con cui i Riva finanziarono la campagna di Bersani nel 2006. In una città dove il citismo è finito e dove il Pdl ha perso i suoi punti di riferimento dopo la morte del grande collettore di voti Pietro Franzoso e il dissesto causato dalla vecchia giunta Di Bello, non resta molto altro. «Grillo sta dalla parte del popolo», dice Mirko, 36 anni: «Arrendetevi, siete circondati!», ridacchia, imitandolo. Egidio Solfrizzi lo guarda stranito; in un'altra era geologica, è stato segretario della gloriosa sezione Lenin del Pci: «No, nel Pd non sono entrato: sapevo che i dc ci avrebbero mangiato vivi. Per tre anni sono stato senza tessera. Poi sono andato con Rifondazione, perché ci sono i miei ragazzini della Fgci di quando ero segretario…». Nostalgia canaglia: «Ho conservato la bandiera della Lenin». Giorni bui: «Ho valutato l'opzione Grillo, confesso». Tenetevi forte, compagni. Dio è morto, Marx è morto e neanche il vecchio Egidio si sente troppo bene: «Ma resisto, mannagghia d'a miserie, giuro che resisto!».

La Stampa 22.2.13
Gelo e neve sulle urne Una minaccia per Pd e Pdl
Il maltempo potrebbe sfavorire il voto per i partiti preferiti dagli anziani
di Fabio Martini


A vederla avanzare da lontano sembra la nuvola di Fantozzi. Quella che, in un impeto di iella, scaricava pioggia sul malcapitato ragioniere, mentre il resto del cielo era sereno. In queste ore la perturbazione (vera) già presente su una porzione di Italia e che annuncia di incrudelirsi nei giorni delle elezioni assomiglia proprio alla nuvola di Fantozzi perché, sabato, a poche ore dall’apertura dei seggi, promette di scaricare neve copiosa su Emilia-Romagna, Toscana, Umbria e Marche, quindi soltanto sulle proverbiali regioni rosse. Certo, la domenica mattina la perturbazione si annuncia più equanime, perché dovrebbe innevare anche Piemonte e Lombardia, due regioni di orientamenti politici un po’ diversi da quelle collocate sulla dorsale appenninica.
Sono le prime elezioni politiche svolte d’inverno e qualche contrattempo si poteva preventivare, anche se - per capire se ci sarà per davvero un’effetto-inverno sulle elezioni - bisognerà attendere, perché non sarebbe la prima volta che il circuito meteo-mediatico crea un allarmismo ingiustificato od eccessivo. Ma se per davvero un terzo del Paese avrà le strade innevate o lastricate di ghiaccio, almeno due «categorie» di elettori potrebbero risultare falcidiate: gli anziani e i demotivati. E i partiti che intercettano in percentuale maggiore il voto degli «over 65» sono due: Pdl e Pd. Lo dimostra uno studio Itanes, che, all’indomani delle elezioni 2008, ha prodotto la ricerca più approfondita sulle caratteristiche sociodemografiche del voto ai principali partiti. Il Pdl (che aveva conquistato il 37,3% nazionale) nella fascia d’età sopra i 75 anni era addirittura al 54,2%: questo significa che un ultrasettentacinquenne su due aveva votato per Berlusconi. Stessa tendenza, ma attenuata nelle fascia 65-74: il 39,8% era per il Pdl, seguito dal Pd, che a fronte di una percentuale nazionale del 33,1% in questa fascia d’età risultava votato dal 38,2%. Tradotto in soldoni: nella fascia d’età tra i 65 e gli 85 anni, Pdl e Pd intercettavano alle ultime elezioni circa l’80% dei votanti.
E se davvero il freddo tenesse a casa tanti anziani, oltre a ridursi l’affluenza, aumenterebbe il peso specifico dei giovani e dei trenta-cinquantenni. Sempre secondo lo studio Itanes, nel 2008 erano due i partiti che andavano forte nella fascia 18-24: la Sinistra Arcobaleno e l’Italia dei Valori, due formazioni che oggi si sono federate in Rivoluzione civile e che hanno sicuramente ceduto una parte del loro elettorato al Movimento Cinque Stelle. Dunque anche il freddo aiuterebbe Grillo? Meno anziani e più spazio ai motivati alzeranno la percentuale del Cinque Stelle? Ne è convinto Nicola Piepoli, uno dei sondaggisti più esperti: «L’elettorato movimentista è più giovane, il più disposto ad affrontare il maltempo». Il gelo che rischia di bloccare le regioni rosse naturalmente non lascia insensibile l’unico partito dotato di una rete nazionale, il Pd. Dice il responsabile Organizzazione Nico Stumpo: «È la prima volta che si vota in febbraio, è la prima volta che si prevede neve su una parte del territorio nazionale, una situazione senza precedenti sulla quale ovviamente faremo il possibile per garantire il diritto di voto». Nessun allarmismo, nessuna intenzione di far sfoggio di una «struttura parallela», ma sicuramente il Pd metterà in moto operazioni locali per aiutare chi avesse difficoltà. A Padova il partito ha preparato una sorta di «servizio taxi» per persone anziane o disabili e analoghe iniziative potrebbero partire nelle prossime ore. Contando sul ricordo della formidabile catena umana che si faceva negli Anni Sessanta: «Ogni ora - racconta il reggiano Pier Luigi Castagnetti, allora giovane Dc i rappresentanti di lista informavano chi si era recato alle urne, un drappello di ragazzini correva nelle sezioni di partito ad aggiornare le liste e chi ritardava, veniva cercato a casa. C’era un vero e proprio servizio per portare alle urne anziani e ammalati».

La Stampa 22.2.13
Prima volta per un’elezione imbiancata
di Luca Mercalli


Vento, pioggia e neve condizioneranno l’affluenza alle urne delle elezioni d’inverno? Forse non molto, visto che già Calvino, in «La giornata di uno scrutatore», racconto riferito al voto del 7 giugno 1953 in una Torino sotto la pioggia, afferma che «ancora si credeva che con il cattivo tempo, molti elettori dei democristiani [... ] non avrebbero messo il naso fuori di casa, [ma] con tante elezioni che c’erano state, s’era visto che, pioggia o sole, l’organizzazione per far votare tutti funzionava sempre».
Sta di fatto che allora era giugno e anche se su alcune regioni italiane pioveva, la temperatura diurna era comunque attorno a venti gradi. Quest’anno invece, sotto gelidi venti balcanici, l’appuntamento elettorale sarà ambientato in un’inedita atmosfera invernale, soprattutto al CentroNord, perfino ammantato di neve al N o r d Ovest. Già domani pioverà estesamente sulle regioni tirreniche, con temporali tra Maremma, Lazio e Campania, mentre un po’ di sole farà capolino al Settentrione e lungo le Alpi, nonché all’estremo Sud. Ma la sera riprenderà a piovere in Liguria e sulle pianure venete, e a nevicare sul basso Piemonte, l’Emilia e le zone alpine e pedemontane del Nord-Est.
Domenica vedrà nevicate fino in pianura al Nord, più persistenti tra Piemonte, Emilia e Lombardia occidentale, sostituite dalla pioggia nel corso della giornata sul resto della Valpadana e sul Triveneto. Le quantità di neve attese a bassa quota non sono tuttavia importanti: sulla pianura piemontese, tra le più interessate da fenomeno, circa 5 centimetri di neve bagnata non dovrebbero intralciare granché il traffico stradale. Grigiori e rovesci, nevosi da quota 500-800 metri, toccheranno a Toscana e Umbria, mentre più a Sud sarà in parte soleggiato tra addensamenti irregolari, ma qualche scroscio potrà attivarsi su Salento, Stretto di Messina e Sardegna settentrionale. La previsione per lunedì è ancora incerta, tuttavia le nevicate potrebbero proseguire fino al mattino al Nord-Ovest, tendenti a trasformarsi in pioggia in pianura. Ancora piovoso in Liguria, soprattutto a Ponente, ma in attenuazione tra pomeriggio e sera, mentre al Nord-Est avanzeranno schiarite durante la giornata. Tempo ancora instabile sulle regioni tirreniche con piogge sparse in esaurimento, più soleggiato sul versante adriatico. Forti venti soffieranno soprattutto domenica, scirocco tra Ionio e Adriatico, maestrale sul Tirreno, tramontana in Liguria, bora su Trieste.

La Stampa 22.2.13
Nevica, ci vuole fede per andare a votare
di Ferdinando Camon


Ci si mette anche la neve, come se non ci fossero già abbastanza difficoltà ad andare a votare. Non si sa per chi, non si sa perché, per noi? per i figli? per il futuro? per l’Europa?
Quale interesse ho, io personalmente, ad andare a votare? Starò meglio? Aiuto a creare un posto per mio figlio? E tra chi posso scegliere? C’è un proverbio poco citato ma illuminante, che spiega come dobbiamo guardare le cose che ci premono da vicino: dobbiamo guardarle come se fossero lontane, come se noi fossimo stranieri, perché se le osserviamo da stranieri non sentiamo più la carica di passione e di strazio che ci disturbano. Il proverbio dice: «Occhio di straniero / vede meglio di sparviero». Per applicare questo proverbio c’è una via rapida e semplice: osservare come vedono i nostri problemi gli stranieri.
Ho davanti a me un sito, che riporta il giudizio di un editorialista straniero, Wolfgang Munchau, che di solito scrive sul «Financial Times» ma stavolta si esprime sullo «Spiegel» on-line, in intervista, e dice suppergiù così: «Tra quali candidati possono scegliere gli italiani? C’è un clown. Poi un miliardario condannato in primo grado per evasione fiscale. Poi un rappresentante dell’apparato politico della sinistra che non capisce di economia. Poi un professore di economia che non capisce di politica». Sul clown avevo dei dubbi, perché potrebb’essere più d’uno. Il fondatore di «Fare per evitare il declino» è stato chiamato, in Internet, per la mise che indossa, «domatore di pulci». Ma non è lui. Il nostro opinionista straniero lo chiarisce: è Grillo. E qui lo sparviero vede male, perché da lontano i contorni svaniscono. Se nevica, per recarsi a votare occorre una certa «passione», come quella, per intenderci, che muoveva i piciisti di un tempo. Oggi questa passione non batte da nessuna parte, tranne forse proprio tra i fanatici del «clown». La neve che scende nel giorno delle votazioni è un imprevisto che scompagina le previsioni e i sondaggi. Occorre «fede» per votare con questo tempaccio. Come quella che hanno i grillini. Che sono trascinati fuori casa, fuori dal tepore, nel freddo e gelo, dai gridi di battaglia: «Li mandiamo a casa! », «Sarà un bagno di sangue! », «Per tutti! ». Come metti il naso fuori dalla porta, il tuo corpo passa dai 21 gradi ai 3-4, va sotto sforzo, il fiato si gela davanti alla bocca, ogni passo spreca energie, non fai questa faticaccia per lo spread, per la Borsa, per la Magistratura, per il conflitto d’interessi, per Draghi, Monti, la Merkel, la Meloni e Crosetto… La neve è un problema tuo, e puoi affrontarlo se hai una passione tua che ti trascina. Le passioni qui sono due. Una: «Via tutti! », l’altra «Ridatemi l’Imu! ». Quelli che sono andati nelle piazze con questo tempaccio, a sentire il clown-vendicatore, hanno fatto una cosa a cui non eravamo abituati: hanno mostrato la prevalenza del palco sulla tv, della piazza sul salotto. Una vittoria del dopoguerra sul duemila. Sono allenati a uscire, per votare usciranno anche se c’è neve e tira vento. Quelli che sono andati ai sindacati di Genova e Milano eccetera, a chiedere di ritorno i soldi dell’Imu, sono andati invano, ma sperano che se vanno a votare e votano in un certo modo, forse potranno riaverli. Dunque andranno. La neve è la variante impazzita che cambia tutto. Non le abbiamo, le previsioni «in caso di neve». Credevamo che il voto fosse una questione di tecnica, elettronica, tv, Internet. Nient’altro. Eravamo pronti. Avevamo fretta. Ed ecco, imprevista, inattesa, inarrestabile, la neve fiocca lenta, lenta, lenta.
E al Nord farà freddo, con temperature massime attorno a zero gradi domenica, mentre all’estremo Sud, sotto lo scirocco, si potranno superare i 15. Al seggio, oltre ai documenti, ricordarsi dunque di portare anche sciarpa, ombrello e stivali.

La Stampa 22.2.13
L’Italia di sempre il vero timore che agita la vigilia elettorale
di Marcello Sorgi


La campagna elettorale che solo ufficialmente si chiude oggi, ma continuerà in pratica fino all’ultimo momento, ha determinato una speciale attenzione dei cosiddetti osservatori qualificati: ambasciatori, banchieri, gestori di fondi di investimento, corrispondenti dei maggiori giornali del mondo. Non è solo l’avanzata apparentemente implacabile di Grillo e del Movimento 5 Stelle a motivare e far salire la pressione sulla vigilia. Negli ultimi venti anni mai come adesso la curiosità di capire come potrebbe andare a finire, prima di conoscere i risultati, tradisce due timori e un desiderio inconfessabile, che si manifestano con varie sfumature ma con una inaspettabile condivisione.
Il primo timore, inutile dirlo, è che vinca Berlusconi e l’Italia si ritrovi in una situazione di isolamento internazionale come quella che accompagnò nel 2011 gli ultimi mesi del suo governo. La battuta di Monti sulla Merkel, mercoledì, sarà stata pure infelice, ha anche provocato una reazione risentita dell’ambasciatore tedesco, ma conteneva un fondo di verità. Inoltre la vittoria del centrodestra è una prospettiva improbabile, checché ne dica il Cavaliere, ma non si può escludere del tutto.
Il secondo timore, meno prevedibile, è che vinca Bersani. Vinca bene e da solo, s’intende, conquistando una piena maggioranza anche al Senato. È meno improbabile, e da quando s’è capito che le cose, elettoralmente parlando, non vanno tanto bene per Monti, soprattutto negli ambienti finanziari viene messa in conto e se ne parla molto: l’incubo di un programma economico vincolato all’appoggio di Camusso e Cgil è più presente. Vendola che entrerebbe al governo con un ruolo di primo piano basta e avanza a procurare notti insonni. Per non dire dei segnali di fumo lanciati negli ultimi giorni da vari esponenti del Pd ai grillini che stanno per approdare in Parlamento.
Quanto al desiderio inconfessabile, che ha preso corpo man mano grazie allo svolgimento nevrotico della campagna elettorale, è che l’Italia, per quanto possibile, resti com’è stata fino ad ora o addirittura torni ad essere più simile a com’era nel passato. La fine della rivoluzione. Un’Italia italiana, sempre in bilico, con i suoi governi che non governano, l’instabilità fisiologica legata al malfunzionamento del Parlamento, lo spread che magari scenda, ma non più di tanto, i titoli di Stato che mantengano interessi alti. Il che dà l’idea del livello di preoccupazione - e di confusione - che accompagna i nostri osservatori quando si accostano al pasticcio italiano.

Corriere 22.2.13
Vendola e la foto con il giudice che l'assolse
Secondo il settimanale l'immagine risale alla festa della cugina nel 2006
di R. R.


ROMA — Nella fotografia annunciata dal settimanale Panorama e dal Giornale, e poi messa in rete ieri da Panorama.it, si vede, nell'angolo in basso a destra del fotogramma, giusto un occhio, un sopracciglio, mezzo naso, un ciuffo di capelli sale e pepe. Ma il profilo di quel mezzo volto, a meno che non si tratti di un fotomontaggio confezionato da chi ha consegnato l'immagine ai giornalisti, è quello del governatore della Puglia Nichi Vendola. E lui, il leader di Sel, ha un'espressione seria, pensierosa, in mezzo ad altri commensali che, invece, sembrano molto allegri: tra loro, a due posti di distanza da Vendola, fa capolino il frangettone della dottoressa Susanna De Felice che poi è il giudice dell'udienza preliminare che lo scorso 31 ottobre ha assolto a Bari il governatore Vendola dall'accusa di abuso d'ufficio per l'inchiesta sui concorsi nella sanità pugliese. Intorno a quella tavolata — imbandita in occasione del compleanno della cugina di Vendola che Panorama colloca nel 2006 — ci sono poi altri magistrati, il pm barese Gianrico Carofiglio che diventerà senatore del Pd nel 2008, un funzionario di polizia e il compagno di Vendola. Ma loro non interessano perché il centro del problema è l'incontro ravvicinato tra un politico e un giudice che, sei anni dopo, dovrà decidere tra l'innocenza e la colpevolezza del medesimo politico.
Nell'edizione cartacea di Panorama (che non ha pubblicato la foto), il giornalista Giacomo Amadori racconta l'incontro, alle spalle della stazione di Bari, con una donna che tira fuori dalla borsa una chiavetta: la foto viene fatta visionare ma, specifica il cronista, non viene consegnata a Panorama. Poi alle 9.18 del 19 febbraio si fa vivo per telefono un uomo che offre la foto in due versioni: «10 mila euro per metà» fotogramma, «20 mila per averla tutta».
E ora Nichi Vendola — che ha sempre detto di non ricordare di avere avuto incontri pregressi con il suo giudice, annuncia azioni legali: «Panorama dovrà rispondere in tribunale e sarà una delle ragioni per cui avrò una vecchiaia ricca e serena».
Però sul governatore, nonché principale alleato di Bersani per la conquista di Palazzo Chigi, si abbatte il fuoco si sbarramento di mezzo Pdl che ricorda le richieste dei pm baresi sull'opportunità di astensione da parte della dottoressa Susanna De Felice. Attacca Maurizio Lupi: «Mentre a Bari si sono affrettati a condannare Fitto a pochi giorni delle elezioni, condizionando in modo palese il voto, Vendola mente in modo spudorato. Oscar Giannino per un peccato di vanagloria si è dimesso da leader del suo partito: Vendola che cosa pensa di fare? Il doppiopesismo dalla giustizia è ormai inaccettabile. Susanna De Felice è il giudice che ha assolto il presidente Vendola e tutti sanno che è amica della sorella del leader di Sel. Mentre Lorenzo Nicastro è uno dei pm che hanno indagato a lungo Raffale Fitto quando era presidente della Puglia, salvo poi diventare assessore della giunta di Vendola».
A Bari, insiste Maurizio Gasparri, «ci sono molte cose da chiarire» per cui «Vendola invece di annunciare querele dia spiegazioni sulle sue frequentazioni con i magistrati. Aveva negato contatti e conoscenze di questo genere ma le immagini lo smentiscono». La mancata astensione della dottoressa De Felice, forse, sarà oggetto dell'attenzione del Csm e dei titolari dell'azione disciplinare anche se, a Palazzo dei Marescialli, l'attività riprenderà dopo le elezioni. Il Pdl tuttavia non molla l'osso. Osserva, caustico, Enrico Costa: «Quando Vendola disse che in caso di condanna avrebbe lasciato la politica, pensammo che lo animasse la granitica certezza di non aver commesso reati. Oggi potremmo pensare che ben altro garantisse la sua serenità». Mentre Jole Santelli è più tranciante: «Vendola si dimetta».

sulla bomba mediatica che sta coinvolgento il Vaticano, con più pagine intere  di tutti i quotidiani nazionali, solo poche righe, in quindicesima, su l'Unità...
l’Unità 22.2.13
Usa
Preti pedofili, il cardinale Dolan depone davanti ai legali delle vittime


Timothy Dolan, il cardinale di New York che è uno dei nomi che circolano per la successione di Benedetto XVI, è stato ascoltato ieri per tre ore in una deposizione legale a porte chiuse sui presunti abusi sessuali commessi da sacerdoti nell’arcidiocesi di Milwaukee, avvenuti quando lui era alla guida. Il prelato è stato interrogato per tre ore a New York dagli avvocati che rappresentano circa 500 persone che hanno denunciato abusi. L’udienza si è concentrata in particolare «sulla sua decisione, all’inizio del mandato, di pubblicizzare i nomi degli autori degli abusi all'interno della Chiesa». Due anni fa l’arcidiocesi di Milwaukee ha chiesto la protezione dai creditori, citando come causa del dissesto finanziario proprio le ingenti spese per gli accordi extra-giudiziali nei casi di abusi sessuali e riconoscendo di aver fatto passi falsi. Lo scandalo dei preti pedofili, emerso nel 2002, è già costato oltre 2 miliardi di dollari alla Chiesa americana e sette altre diocesi americane, oltre a Milwaukee hanno già portato i loro libri in tribunale. Oltre a Dolan, anche il cardinale Roger Mahony, ex arcivescovo di Los Angeles, accusato di aver coperto lo scandalo, sarà interrogato domani. Entrambi i cardinali sono attesi a Roma per il Conclave che dovrà scegliere il nuovo Papa; e Dolan è nella rosa della dozzina di cardinali considerati possibili successori del Pontefice.

La Stampa 22.2.13
Sentito il cardinale
Abusi a Milwakee. Interrogato Dolan
di Paolo Mastrolilli


A pochi giorni dal Conclave uno dei suoi protagonisti, il cardinale di New York Timothy Dolan, è stato interrogato mercoledì scorso per tre ore in relazione agli abusi sessuali commessi dai sacerdoti di Milwaukee, la diocesi dove era stato arcivescovo prima di trasferirsi a Manhattan. Il suo portavoce, Joseph Zwilling, ha detto che Dolan «ha avuto l’occasione attesa da tempo per spiegare la decisione presa nove anni fa di pubblicizzare i nomi dei preti coinvolti, e come aveva risposto alla tragedia degli abusi sessuali contro i minori commessi dal clero».
A Milwaukee sono 575 le vittime che hanno fatto causa. Il successore di Dolan, Jerome Listecki, aveva dichiarato bancarotta per trovare un accordo con le vittime e compensarle. Il negoziato però è fallito, quando i difensori di Listecki hanno sostenuto che in molti casi i termini erano scaduti, parecchi querelanti avevano già ricevuto soldi, e diversi responsabili non lavoravano per la Chiesa. Jeff Anderson, uno degli avvocati delle vittime che ha interrogato il cardinale di New York, ha accusato l’arcidiocesi di Milwaukee di aver nascosto i casi nel tempo, proprio per fare in modo che scadessero i termini legali entro cui i colpevoli potevano essere processati. Quindi sta raccogliendo le deposizioni per dimostrare che c’era un piano di lungo termine per la segretezza. Dolan ha risposto di aver fatto tutto il possibile per fermare gli abusi e denunciare i responsabili.

Corriere 22.2.13
L’onda lunga degli scandali sul Conclave
Il peso sul Conclave dello scandalo pedofilia. I casi in Irlanda e Usa
Il papabile Dolan sentito come teste
di Massimo Gaggi


Non solo Mahony. L'ombra dello scandalo pedofilia pesa sul prossimo Conclave. Un gruppo di fedeli ha chiesto le dimissioni del cardinale irlandese Sean Brady, accusato di non aver bloccato negli anni Settanta molti sacerdoti pedofili. E il cardinale Timothy Dolan, vescovo di New York (tra i papabili), ha deposto su casi di abusi nella diocesi di Milwaukee, contestato dai parenti delle vittime.

DAL NOSTRO INVIATO
NEW YORK — Forte di 11 cardinali, la componente statunitense del prossimo Conclave è la più consistente dopo quella italiana. Anche per questo molti vaticanisti inseriscono Timothy Dolan, vescovo di New York e capo della chiesa cattolica nordamericana, tra i papabili. Ma sulla chiesa Usa pesa da anni l'ombra dello scandalo dei preti pedofili: una questione destinata a contare nella scelta del successore di Benedetto XVI e non solo per quanto successo al di là dell'Atlantico.
Ieri è tornato sotto i riflettori il caso del cardinale belga Godfired Danneels, messo sotto inchiesta tre anni fa per il sospetto di aver occultato centinaia di casi di abusi sui minori. E alcuni gruppi di fedeli hanno chiesto di nuovo le dimissioni del cardinale irlandese Sean Brady, accusato di non aver bloccato i molti sacerdoti pedofili di cui, pure, aveva saputo (la vicenda risale agli anni 70 e Brady si difende sostenendo che allora, quando partecipò alle indagini ecclesiastiche, non aveva i poteri per intervenire).
Ma la chiesa più scossa dalla tempesta della pedofilia è sicuramente quella americana, dove gli episodi denunciati sono ormai migliaia. Il caso più eclatante, del quale anche il Corriere si è occupato nei giorni scorsi, è quello del cardinale Roger Mahony: l'ex arcivescovo di Los Angeles invitato a gran voce da molti gruppi cattolici (ai quali ha fatto da megafono anche il settimanale Famiglia Cristiana) a restare a casa, rinunciando a partecipare alla votazione per il nuovo Pontefice.
Mahony, indagato dalla magistratura per le sue gravi omissioni, dovrà deporre in tribunale domani, prima di partire per Roma. Ma il cardinale californiano non è l'unico che in questi giorni è stato chiamato a testimoniare su casi di abusi sessuali. Ieri è toccato proprio a Dolan, ascoltato a porte chiuse sui casi di pedofilia verificatisi nella diocesi di Milwaukee, in Wisconsin, della quale l'autorevolissimo prelato, chiamato da Barack Obama e Mitt Romney a benedire tanto la «convention» democratica quanto quella repubblicana prima delle elezioni presidenziali del novembre scorso, è stato capo per sette anni, dal 2002 al 2009.
A differenza degli altri cardinali, Dolan non ha gestito la diocesi mentre si verificavano i casi di pedofilia. Anzi, venne mandato a Milwaukee per cercare di riparare i danni e ridare prestigio alla Chiesa dopo lo scandalo. Ma oggi il cardinale deve fronteggiare i rilievi degli avvocati di 350 delle 570 persone che subirono abusi a Milwaukee e che lo accusano di non aver fatto molto per individuare e punire i responsabili e, soprattutto, di aver occultato (anche in un fondo per la gestione dei cimiteri) una parte del patrimonio della diocesi (120 milioni di dollari) che andava, invece, messo a disposizione delle autorità che avevano deciso una serie di indennizzi a favore delle vittime.
Ieri non è trapelato nulla della testimonianza di Dolan, che è stata secretata. Ma di certo l'episodio non giova all'immagine del cardinale che del resto domenica, a fine omelia, nella cattedrale di San Patrizio, aveva risposto con un beffardo «dovete aver fumato marijuana» ai cronisti che gli chiedevano di una sua possibile elezione a Papa. Dolan è diventato arcivescovo di New York nel 2009 e due anni dopo il suo successore a Milwakee ha dichiarato la bancarotta della diocesi. Un espediente per evitare di pagare indennizzi alle vittime dei preti pedofili adottato anche da altre sette diocesi degli Stati Uniti.
Insomma, il «team Usa» non si presenta al Conclave nella luce migliore. Tra i suoi undici cardinali (quasi il 10 per cento del sacro collegio), ce n'è anche un terzo, l'ex arcivescovo di Filadelfia Justin Rigali, che arriva a Roma inseguito dall'ombra dello scandalo: formalmente ha lasciato l'incarico per motivi di età, ma secondo molti è stato «dimissionato» per aver ignorato le responsabilità di 37 preti pedofili. Né il suo caso, né, tantomeno, quello di Dolan, sono, comunque, lontanamente paragonabili allo scandalo Mahony il cui comportamento è stato pubblicamente condannato anche dal suo successore, l'attuale arcivescovo di Los Angeles Josè Gomez.

Repubblica 22.2.13
L’avvocato che difende le vittime Usa “Anche il papabile Dolan deve spiegare”
Ascoltato per tre ore aporte chiuse. L’accusa: pagò imolestatori per farli dimettere
di Arturo Zampaglione


NEW YORK — Sua Eminenza, risponda: quando e come è venuto a conoscenza che Lawrence Murphy, un sacerdote della sua ex arcidiocesi, aveva molestato sessualmente 70 bambini sordomuti di un collegio vicino a Milwaukee? E dopo quanto tempo ha denunciato quel caso alle autorità? Duro e implacabile, Jeff Anderson, l’avvocato che da 28 anni difende le vittime dei preti pedofili, non si è fatto scrupoli, né ha avuto timori reverenziali, nell’interrogare mercoledì sera Timothy Dolan.
Cardinale da un po’ meno di un anno e da quattro «arcivescovo della capitale del mondo», come una volta Giovanni Paolo II chiamò New York, Dolan, 63 anni, è, tra gli americani, quello che ha le maggiori possibilità di diventare Papa. È anche il presidente della conferenza episcopale americana. Ma poco prima di salire sull’aereo per Roma, dove saluterà Benedetto XVI e parteciperà al conclave, anche lui è stato sottoposto a un imbarazzante interrogatorio sullo scandalo che ferisce, sconvolge e dissangua la chiesa d’oltreoceano.
Di fronte ad Anderson e all’avvocato della chiesa di Milwaukee, Frank LoCoco, Dolan ha ricostruito per tre ore la storia passata e ha spiegato il suo comportamento quando, tra il 2002 e il 2009, era arcivescovo di Milwaukee. È probabile che il cardinale conoscesse già la domanda più difficile: perché aveva versato 20mila dollari a due sacerdoti sospettati di pedofilia in cambio delle loro dimissioni? Perché non li aveva fatti arrestare?
Certo, erano anni difficili per la diocesi: tant’è vero che ora ha 575 richieste di risarcimento di altrettante vittime degli abusi del clero (di cui un terzo rappresentati dall’avvocato Anderson). E, dopo aver pagato già 9 milioni di dollari di spese legali, il successore di Dolan in quella arcidiocesi del Wisconsin, Jerome Listecki, ha portato i libri in tribunale. Ha paura di rimanere senza un soldo: come del resto altre sette diocesi americane che hanno avviato le procedure fallimentari.
Andersen, qual è stato il risultato della deposizione del cardinale Dolan? Ha forse aperto nuovi scorci sui problemi della chiesa sulla pedofilia e sull’impegno per risolverli?
«È stato molto importante per capire come gli abusi contro i bambini siano stati gestiti, o malgestiti, dalla chiesa di Milwaukee. Non posso dire di più sui contenuti della deposizione, perché sono coperti dal segreto, come anche i documenti della diocesi: ma ho chiesto ufficialmente che vengono resi pubblici al più presto».
Come spiega tanti interrogatori di cardinali americani, proprio adesso, alla vigilia del Conclave? Le ricordiamo che questo sabato ci sarà quello dell’ex-arcivescovo di Los Angeles, cardinal Roger Mahony, che, pur essendo considerato un progressista, è stato esonerato da ogni compito dal suo successore, ed è accusato di aver protetto — o quanto meno, non liquidato — i preti pedofili.
«La giustizia sta facendo il suo corso: non c’è nulla di anomalo nella deposizione del cardinale Dolan. E quello di Milwaukee non è certo un caso isolato. Su 177 diocesi americane 177 sono state coinvolte dallo scandalo: come dire? Tutte».
Ci perdoni: non si tratta della solita “esagerazione” americana?
«Spesso all’estero non si capisce la portata del fenomeno: qui negli Stati Uniti siamo di fronte a una sistematica violazione dei diritti dei bambini, le cui cause vanno cercate nei rapporti gerarchici imposti dal Vaticano su tutta la chiesa. Invece di denunciare subito alle autorità locali i reati di pedofilia di un sacerdote, i vescovi e gli arcivescovi hanno insabbiato tutto aspettando istruzioni da Roma. Che hanno sempre tardato ad arrivare».
Certo i dati sono inquietanti. A dispetto della linea di “zero tolerance”
introdotta da tempo, la Chiesa cattolica americana ha già pagato dai 2 ai 3 miliardi dollari di risarcimento danni alle vittime delle molestie. Come dire: metà del valore della Fiat. Secondo uno studio commissionato proprio dalla conferenza episcopale, ci sono state 11mila denunce contro 4392 sacerdoti, cioè contro il 4 per cento del totale del clero.
Ma non era già cambiato qualcosa con l’arrivo di Benedetto XVI?
«No, è cambiato ben poco, siamo sempre alle prese con sotterfugi e insabbiamenti. Per secoli i Papi hanno imposto il loro potere su quello temporale. E fin quando la chiesa non ammetterà le sue colpe e riconoscerà che i vescovi devono rispettare, prima di tutto, le leggi delle nazioni, e poi le gerarchie ecclesiastiche, non ci sarà una soluzione duratura».

il Fatto 22.2.13
Opere e omissioni
Un perfetto inedito riciclato
Gli scoop ritardanti di Repubblica
di Marco Lillo

Un miliardo di cattolici si interroga sul mistero delle ragioni dell’abdicazione di Benedetto XVI. “Sesso e carriera i ricatti in Vaticano dietro la rinuncia di Benedetto XVI” è la risposta di Repubblica al grande quesito posto all’addio del Papa. Una simile tesi è argomentata dal primo quotidiano italiano con uno scoop mondiale: i contenuti della relazione della Commissione Cardinalizia che ha indagato sui documenti trafugati da Paolo Gabriele.
“NON FORNICARE, non rubare i due comandamenti violati nel dossier che sconvolge il Papa” è il titolo a tutta pagina, sottotitolato così: “Lotte di potere e denaro. E l’ipotesi di una lobby gay”. Boom. Il Fatto confessa di non conoscere i contenuti del dossier però annota un precedente. Nel caso Mps, dopo avere preso un buco dalla concorrenza sui bilanci truccati da Giuseppe Mussari, Repubblica ha reagito sparando una notizia a tutta pagina: “Mps, sospetto mazzette per 2 miliardi nell’acquisto di banca Antonveneta”. Al Fatto risulta che i pm di Siena indagano sulla storia svelata dal Fatto e non sulla pista della presunta e inesistente mazzetta per i politici. Il precedente induce a fare qualche verifica sullo scoop vaticano. “La relazione è esplicita”, sostiene Concita De Gregorio, “alcuni alti prelati subiscono l’influenza esterna – noi diremmo il ricatto – di laici a cui sono legati da vincoli di natura mondana. Sono quasi le stesse parole che aveva utilizzato monsignor Nicora, allora ai vertici dello Ior, nella lettera rubata dalle segrete stanze nel 2012: quella lettera poi pubblicata colma di omissis a coprire i nomi. Molti di quei nomi e di quelle circostanze riaffiorano nella Relazione…” e giù un elenco di scandali a sfondo sessuale che sarebbero stati in qualche modo annunciati dalla lettera piena di omissis di Nicora, l’architrave del dossier. Molte cose non tornano: 1) Il cardinale Attilio Nicora nel 2012 è il presidente dell’Aif, l’autorità antiriciclaggio istituita da Benedetto XVI, ed è stato fino a pochi giorni fa membro della commissione cardinalizia di vigilanza sullo Ior;
2) Nicora non ha mai scritto una lettera nella quale si sostengono i concetti riportati nel-l’articolo; ne ha scritta un’altra sullo Ior, svelata sempre dal Fatto;
3) Forse Repubblica si riferisce a monsignor Carlo Maria Viganò, che ha scritto una lettera l’8 maggio 2011, nella quale si fa riferimento alla corruzione e ai furti, all’omosessualità in Vaticano, pubblicata dal Fatto, in esclusiva il 27 gennaio 2012 e ripubblicata dal sito Chiesa del gruppo Repubblica prima senza citazione per una svista, poi con citazione su nostra richiesta. Quella lettera è stata ripubblicata mesi dopo da Gianluigi Nuzzi nel suo libro Sua Santità, senza citare il Fatto.
4) La lettera di Viganò è stata pubblicata dal Fatto con un solo omissis sul nome di Marco Simeon (già collaboratore del segretario di Stato Bertone) ‘accusato’ di omosessualità nella lettera da Viganò. La tutela della privacy è però svanita quando Nuzzi ha ripubblicato la medesima lettera riportando la parola omissata dal Fatto e omissando solo il nome.
NON SAPPIAMO se la relazione dei Cardinali entri nei dettagli delle attività ludiche nelle saune romane o si dilunghi sui coristi di Angelo Balducci o sulle passioni di monsignor Stenico come scrive Repubblica. Attendiamo fiduciosi, come nel caso Mps, di leggere le carte prima di esprimere giudizi. Una cosa però è certa: se leggerete altre puntate dell’inchiesta, se Repubblica farà riferimento a documenti pubblicati da un quotidiano anonimo, magari sullo Ior o sull’antiriciclaggio, sappiate che quel quotidiano è il Fatto. A Repubblica si usa così: se Mussari si dimette dall’Abi perché il Fatto pubblica carte che lo inchiodano, Repubblica riesce a pubblicare un pezzo di Andrea Greco che racconta delle dimissioni di Mussari e si elencano le sue malefatte finanziarie negli ultimi anni senza ricordare che talvolta – vedi Antonveneta - erano state decantate come capolavori dallo stesso giornale, quando Mussari era forte e il gruppo De Benedetti faceva affari con Mps. E senza spiegare le ragioni delle sue dimissioni. Allo stesso modo se l’ad di Finmeccanica, Alessandro Pansa, viene intervistato dal Fatto e per un attimo pensa a dimettersi davanti all’unico quotidiano che ha trovato il coraggio di chiedergli conto delle sue pressioni per aiutare la moglie del ministro Grilli, Repubblica che fa? Riporta dopo due giorni il tormento di Pansa senza dire a chi il manager ha detto: “Se lei scrive questa cosa dovrò trarne le conseguenze”. I lettori di Repubblica credono che in Italia ci sia un’epidemia che affligge i manager e li porta a lasciare la carica. Ora però i suoi lettori sanno perché si è dimesso il Papa: la relazione segreta anticipata da Nicora con una lettera pubblicata da un ignoto quotidiano.

Repubblica 22.2.13
Spunta l’ipotesi di togliere il segreto al rapporto prima del Conclave
“Lobby gay nella Curia” il Vaticano sotto shock
Gli scandali sessuali irrompono nel Conclave altri cardinali nel mirino
Dossier segreto e coperture ai preti pedofili, è polemica
di Marco Ansaldo


L’ombra del caso Vatileaks si allunga sul Conclave. La vicenda della carte trafugate dall’Appartamento papale continua a tenere banco in Vaticano, mentre petizioni e veti di cittadini abusati sessualmente da sacerdoti piovono sui cardinali accusati di non aver fermato la pedofilia nella Chiesa, e presto in viaggio verso Roma per eleggere il nuovo Papa.
Benedetto XVI, poco prima di lasciare il pontificato, potrebbe incontrare i 3 cardinali della commissione d’inchiesta sui documenti fuoriusciti dal Palazzo apostolico. Ieri è circolata l’ipotesi che Joseph Ratzinger potrebbe togliere il segreto pontificio alla loro relazione. Voce non confermata a livello ufficiale. Nel pomeriggio l’agenzia ufficiale Ansa parlava del possibile incontro «prima del 27 febbraio». Dal giorno dopo, il Vaticano sarà Sede vacante.
Secondo Dino Boffo, direttore di Tv2000, canale di riferimento della Conferenza episcopale italiana, «i tre cardinali anziani incaricati dal Papa (Julian Herranz Casado, Jozef Tomko e Salvatore De Giorgi, ndr) sono figure di primissima grandezza, stranamente sottovalutati dai giornalisti. La loro opera è stata importante e ha aiutato il Santo padre a capire che cosa è accaduto. Io penso che la Santa Sede debba liberarsi del vizio infame delle lettere anonime senza firme e senza mittenti».
Sul Conclave rischia ora di abbattersi la vicenda pedofilia. È ancora in forse l’arrivo o meno a Roma del cardinale americano Roger Mahony, accusato di aver coperto 129 casi di vittime di abusi sessuali nella diocesi di Los Angeles. «I processi non si fanno in piazza», ha commentato seccamente il cardinale Angelo Comastri, arciprete della Basilica di San Pietro e vicario del Papa per la Città del Vaticano. Altre eminenze sono dell’idea di lasciar libero Mahony di scegliere davanti alla sua coscienza se unirsi a loro o restare a casa. È già stato riconosciuto colpevole ed esautorato dai suoi incarichi — non della berretta rossa — dall’arcivescovo di Los Angeles. Domani sarà anche interrogato in un tribunale americano.
Ma mentre voli da ogni parte del mondo vengono prenotati per i cardinali in partenza verso Roma, il caso pedofilia si allarga. In Irlanda è sotto tiro il cardinale Sean Brady. Le vittime degli abusi compiuti da preti cattolici chiedono che il primate della Chiesa locale non vada in Vaticano. «Non dovrebbe osare presentarsi — spiega Christine Buckley, alla guida dell’Aislinn Centre, centro anti-abusi di Dublino — si tratta di una persona che ha forzato i bambini a mantenere il silenzio e permesso a un pedofilo di restare in una comunità conoscendo quanto era accaduto». «Non è l’unico che non dovrebbe andare — dice Patrick Walsh, che ha subito violenze dai 2 ai 16 anni — l’elenco di cardinali è lungo». Dal Belgio richieste simili riguardano sua eminenza Godfried Daneells, pure lui sottoposto a critiche per aver nascosto abusi.
La querelle sulla pedofilia ha anche colpito — forse affondato — la candidatura del cardinale ghanese Peter Turkson, da molti media presentato come il possibile Papa nero. L’attuale presidente del Pontificio consiglio Giustizia e Pace ha infatti collegato, in un’intervista alla Cnn, omosessualità con pedofilia. «Il sistema tradizionale africano — ha detto Turkson alla star della tv globale Christiane Amanpour — ha protetto e protegge la popolazione dalla tendenza della pedofilia, perché in molte comunità, in molte culture africane, l’omosessualità e qualsiasi relazione fra persone dello stesso sesso, non sono tollerate». È seguita un’ondata di proteste, soprattutto dalle associazioni gay e dalle vittime degli abusi dei preti pedofili. «Ci auguriamo che questo basti a squalificarlo dal pool dei papabili», ha commentato l’associazione Snap, acronimo per la Rete di sopravvissuti agli abusati dai preti.
«Il prossimo Papa — ha così spiegato dal Brasile il cardinale Geraldo Majella Agnelo, arcivescovo emerito di Salvador — non sarà scelto per l’età o per la provenienza geografica, ma per la sua capacità di affrontare le nuove sfide che la Chiesa di Roma ha di fronte, tra cui quella della pedofilia e delle sue coperture».
Persino la stella americana del momento fra i cardinali, l’arcivescovo di New York, Timothy Dolan, non sfugge al tritacarne dello scandalo pedofilia. Ieri ha deposto su alcuni casi avvenuti quando era arcivescovo a Milwaukee, rendendo pubblici i nomi dei preti che avevano molestato diversi bambini.
Su queste vicende, nuove dure critiche a Ratzinger quando era prefetto dell’ex Sant’Uffizio sono giunte dal teologo svizzero Hans Küng: «Non si è mai pronunciato, né ha biasimato i vescovi irlandesi. E non si è mai presentato dicendo di essere il principale responsabile per quella riduzione al silenzio». Küng ha quindi affondato il colpo su Benedetto XVI: «Ha preferito scrivere libri piuttosto che guidare la Chiesa».

Repubblica 22.2.13
L’inchiesta/2
Le mani sul tesoro dello Ior
di Concita De Gregorio


CITTÀ DEL VATICANO «TUTTO ruota attorno alla non osservanza del sesto e del settimo comandamento. Non commettere atti impuri. Non rubare». Questo il nucleo della Relationem che i tre cardinali incaricati dal Papa di indagare su Vatileaks hanno consegnato nelle mani del Pontefice il 17 dicembre 2012. L’incartamento, decine e decine di interviste, delinea una rete di rapporti cementati da interessi economici talvolta complicati dal ricatto a sfondo sessuale. Ieri Repubblica ha delineato i contorni delle «influenze esterne » e dei ricatti, oggi affronta il cuore della questione: i soldi.

I segreti della Banca di Dio così la guerra del denaro ha avvelenato il Vaticano
Manovre oscure e sospetti di riciclaggio, le mani di Bertone sullo Ior

“GLI evangelisti Matteo e Luca presentano tre tentazioni di Gesù. Il loro nucleo centrale consiste sempre nello strumentalizzare Dio per i propri interessi dando più importanza ai beni materiali. Il tentatore è subdolo. Spinge verso un falso bene facendo credere che le vere realtà sono il potere e ciò che soddisfa i bisogni primari. (…) Non abbiamo paura di combattere.
Benedetto XVI, 17 febbraio 2013, Angelus
CIÒ che soddisfa i bisogni primari. Il denaro. La tentazione del potere.
Settimo: non rubare. «Nelle tentazioni è in gioco la Fede. Vogliamo seguire l’io o Dio?», domanda Benedetto XVI dal suo balcone alla folla ammutolita di San Pietro. Angelus, 17 Febbraio, San Teodoro di Amasea soldato e martire. Anche il Pontefice è un soldato. «Non abbiamo paura di combattere», dice. Indicativo presente. Stiamo combattendo adesso. Noi, Papa.
«All’Angelus di domenica mancavano solo i nomi e i cognomi. L’atto di accusa verso la struttura di Potere che corrompe la Chiesa era nitido», dice un cardinale che per molti anni ha lavorato nelle finanze vaticane, ormai troppo anziano per partecipare al Conclave. Ricorda che già ad ottobre il Pontefice aveva detto che «i peccati personali diventano strutture del peccato ». La «struttura del peccato» di cui la Relationem consegnata a Benedetto svela gli snodi è, naturalmente, lo Ior. L’Istituto. La banca. A sorpresa l’anziano cardinale illumina, come in una parabola evangelica, un dettaglio. «Lei ha presente i bancomat vaticani? Ha sentito che per due mesi sono stati fuori uso? Ecco, può sembrare una minuzia ma tra le ragioni per cui i bancomat hanno smesso di funzionare ce ne sono alcune che hanno determinato il Papa al suo gesto». Partiamo dai bancomat, allora.
Il 1 gennaio 2013 i bancomat vaticani hanno smesso di funzionare. Le transazioni, operate da Deutsche Bank, sono state bloccate dalla Banca d’Italia. Il Vaticano, stato extracomunitario, ha un «assetto di vigilanza e scambio informazioni inadeguato », si legge nel provvedimento. Non rispetta le norme antiriciclaggio. La commissione
incaricata nel 2011 di fare pulizia allo Ior dopo se mesi dall’insediamento è stata esautorata. Da chi? Dal Segretario di Stato Tarcisio Bertone che ha voluto bloccare lo scambio di informazioni e le libertà di ispezione. Nessuno è autorizzato a guardare dentro le casse dello Ior. Salvo Bertone stesso, si capisce, il suo plenipotenziario monsignor Balestrero, il direttore generale Cipriani, uomo chiave di tutta la vicenda. Ed eccoci nel pieno di Vatileaks. Eccoci alle lettere scritte dal cardinale Attilio Nicora, capo dell’Autorità di informazione finanziari (Aif), a Bertone e per conoscenza a Sua Santità. Le lettere trafugate dalle stanze di Benedetto XVI. «Ma non hanno una cassaforte in Vaticano?», ha chiesto al ministro Riccardi il Patriarca di Mosca in un recente incontro. Non sapeva, il Patriarca, che chi ha fatto uscire le lettere stava in realtà facendo una cortesia a papa Benedetto. Lo stava mettendo in condizione di combattere. Vediamo la guerra qual è.
Inizio 2012. Nicora scrive a Bertone che l’idea di restringere le norme antiriciclaggio è una pessima idea. In quel momento lavorano con lui al risanamento dell’istituto, a vario titolo e livello, un gruppo di banchieri e giuristi cattolici tra cui Gotti Tedeschi, presidente, De Pasquale e Pallini ai vertici dell’Aif. Sei mesi dopo la squadra è smantellata. Nicora non riconfermato. Pallini rientrato nel sistema bancario italiano. De Pasquale ad altro incarico. Al posto di Gotti Tedeschi assume l’incarico di presidenza ad interim il tedesco Hermann Schmitz, tedesco nato in Brasile, ex ad di Deutsche Bank.
Le finanze vaticane sono controllate dal Segretario di Stato. Il delegato ai rapporti con lo Ior monsignor Balestrero è suo pupillo. Suoi uomini sono il cardinale Giuseppe Versaldi, a capo della Prefettura affari economici (ora anche commissario dell’Idi di Roma, sull’orlo della bancarotta) e il savonese Domenico Calcagno, amministratore del patrimonio della sede apostolica, l’Apsa, in eccellenti rapporti con Cipriani. Tutti liguri, Versaldi appena vercellese. Si insedia il lussemburghese Renè Bruelhart. L’argomento che un banchiere di un paradiso fiscale non sia adatto all’antiriciclaggio è respinto. Ascende all’Aif l’astro del genero di Antonio Fazio, il giovane Di Ruzza. Brilla su tutti la stella del direttore generale dell’Istituto Paolo Cipriani, uomo di Geronzi, ex direttore della filiale del banco di Roma di Via della Conciliazione. Anche la geografia ha il suo perché, in questa storia. Cipriani è l’unico a conoscere cosa ci sia nel ventre nero dello Ior. Gotti tedeschi dirà alla magistratura di non conoscere i bilanci. I banchieri laici non hanno mai avuto accesso alle carte. «Per quanto ne sappiamo — dice uno di loro — nelle casse dello Ior potrebbero esserci anche i soldi di Bin Laden e di Riina. Abbiamo chiesto i dati, non ce li hanno mai forniti».
Il meccanismo è questo. Allo Ior possono aprire conti correnti, che si chiamano “fondi”, solo religiosi, istituti religiosi e cittadini vaticani. Sono circa 25 mila. Ciascuno di loro però può delegare ad operare sui conti chi vuole, senza limiti nel numero di deleghe e senza che ci sia registro dei delegati. Cioè: il parroco di Santa Severa, titolare del conto, può in ipotesi delegare un uomo di Provenzano a muovere i capitali. Solo Cipriani lo sa, a richiesta di riscontro non risulta: la risposta, a chi ha chiesto di vedere l’elenco dei delegati, è sempre stata «stiamo informatizzando il sistema». Dunque è chiaro che chiunque può «lavare» i suoi soldi nello Ior. Dalla politica alla criminalità, alla finanza. Restiamo alle carte della Relationem.
Parliamo dei “ladri di polli”.
In una riunione del 13 marzo 2012, San Rodrigo di Cordova, si vedono da Bertone Nicora, capo dell’autorità di controllo, i suoi collaboratori laici De Pasquale e Pallini, il direttore generale Cipriani e altri dirigenti. Controllori e controllati insieme. Cipriani e il suo vice massimo Tulli sono indagati per un movimento di 23 milioni operato da Credito Artigiano e banca del Fucino su JP Morgan: soldi all’estero che non si sa da chi partano e a chi vadano. Uno dei presenti suggerisce che «sarebbe bere autorizzare la magistratura ad indagare su quattro casi minori, daremmo così l’impressione di cominciare a collaborare». Bertone e Balestrero ne convengono. I casi minori sono don Salvatore Palumbo della parrocchia di San Gaetano, Emilio Messina dell’arcidiocesi di Camerino, il catanese Orazio Bonaccorsi, don Evaldo Biasini detto “don Bancomat” e indagato nell’inchiesta di Perugia sui “Grandi eventi della Protezione civile». Prendiamone uno, il caso di don Palumbo. Vengono versati allo Ior da una filiale Barclays 151 mila euro con la causale “Obolo per restauro convento”. Versa tale Giulia Timarco, con precedenti per truffe ai danni delle assicurazioni. L’inchiesta appura che alla Timarco i soldi arrivano da Simone Fazzari, faccendiere in collegamento con Ernesto Diotallevi, ex uomo di fiducia di Pippo Calò ai tempi della banda della Magliana, processato e assolto per l’omicidio Calvi. Fazzari ottiene i 151 mila euro truffando l’Ina Assitalia: simula un falso incidente ai danni di una Ferrari da corsa. Questi i ladri di polli, all’ombra di Pippo Calò.
Non risulta che al momento alcuna collaborazione alla magistratura sia mai stata fornita. L’inchiesta su Cipriani e Tulli, coinvolto anche Gotti Tedeschi, procede stancamente. Nel frattempo la fabbrica dei veleni vaticana mette in circolo le carte relative al “buco” di Don Paglia. Balestrero, si sa, è uomo assai stimato dall’ex premier Berlusconi. Paglia invece è un esponente della “sinistra ecclesiastica”. Nella
Relationem si parla dei 18 milioni di debiti che il monsignore ha accumulato nella diocesi di Terni: 15 di debiti bancari per ristrutturazione di patrimonio immobiliare, 3 di prestiti alle parrocchie.
La struttura di comando di Bertone fa filtrare informazioni che mettono alla stessa stregua destra e sinistra vaticana: tutti colpevoli nessun colpevole. Intanto, però, il sistema bancario fa terra bruciata attorno allo Ior. Le nuove norme antiriciclaggio del
2011, quelle che l’Istituto si è ben guardato dall’assumere, impediscono di lavorare col Vaticano. È in difficoltà persino Unicredit (ex Capitalia, ex Banca di Roma, per tornare a Geronzi) che ha sempre avuto la delega ad emettere assegni per lo Ior. In queste condizioni di opacità diventa difficile. «Anche Bin Laden potrebbe avere i soldi all’Istituto ». Anche le mafie, anche la politica delle tangenti, anche Finmeccanica e Mps. Una grande lavatrice, il ventre oscuro degli interessi temporali. I soldi, il Potere. La «tentazione da combattere», diceva il Papa all’Angelus. Senza fare nomi e cognomi, ma quasi. Un Papa anziano. Che non ha le forze per fronteggiare da solo una struttura di potere interna ed esterna al Vaticano. Che ha solo uno strumento per combattere la battaglia in nome di Dio, contro l’io. Quella descritta nel’Angelus. Ha solo, come munizione in questa guerra, se stesso.
(2 - continua)

il Fatto 22.2.13
Pillola del giorno dopo, il mezzo sì dei vescovi tedeschi
di Mattia Eccheli


LA CONFERENZA EPISCOPALE ALLE CLINICHE CATTOLICHE: “SI PUÒ SOMMINISTRARE A CHI È VITTIMA DI VIOLENZA”. MA CI SONO DELLE RESTRIZIONI SUL TIPO DI FARMACO

Berlino Sofferto, tardivo e limitato, ma alla fine è arrivato anche il sì dei vescovi cattolici tedeschi alla cosiddetta “pillola del giorno dopo”. Sofferto perché la Conferenza episcopale, riunita in questi giorni a Trier, antica città oggi sede di una importante università, in questa sessione di inizio anno è stata costretta ad inseguire l’attualità, cioè il caso di una donna che aveva subito violenza e alla quale erano state rifiutate le cure presso due cliniche cattoliche di Colonia.
I medici si erano visti costretti a “respingerla” non essendo autorizzati a somministrare il preparato chimico.
Tardivo perché la vicenda aveva suscitato scalpore (a tratti perfino indignazione nell’opinione pubblica) ed aveva sostanzialmente obbligato il cardinale di Colonia, Joachim Meisner, ad esporsi personal-mente, anticipando il via libera nelle strutture affidate alla sua responsabilità. Prima dell’inizio dei lavori della Conferenza, lo stesso presidente, arcivescovo Robert Zollitsch, aveva sollecitato una revisione della valutazione della pillola che evita la fecondazione. E limitato perché il farmaco potrà venire somministrata solo a donne vittime di violenze sessuali.
L’unica pillola consentita è quella che impedisce la fecondazione. Resta al bando quella che provoca l’aborto, anche in caso di violenza.
La “foglia di fico” filosofica e teologica che ha permesso ai vescovi tedeschi di arrivare a questo verdetto è il progresso scientifico, grazie al quale sono arrivati sul mercato dei preparati che si limitano ad evitare la fecondazione. La decisione della Conferenza episcopale arriva proprio nei giorni in cui, anche la Germania si interroga sui rischi di alcune pillole anticoncenzionali, che aumenterebbero il rischio di infarto. Sono in corso valutazioni (come in Francia) se vietare l’uso di alcune di esse.
I VESCOVI hanno tuttavia messo in chiaro che la pillola non può venire considerata uno strumento di “pianificazione familiare” né, tanto meno, un contraccettivo. Però hanno aperto un varco sanitario che concede ai medici la decisione, direttamente negli ospedali e nelle cliniche, se prescrivere il farmaco o meno. In Germania sono in vendita due tipi di pillole “autorizzate” dalla Conferenza episcopale. Una si chiama Pidana il cui principio attivo è il Levonorgestrel e si trova in farmacia, dove si può acquistare anche senza prescrizione medica. Questo farmaco evita l’ovulazione, ma non ha alcun effetto nel caso la fecondazione sia già avvenuta: per questo andrebbe assunta non oltre le 72 dal rapporto completo e non protetto. L’altra pillola è l’Ellaone, che in Germania è disponibile dal 2009: il suo principio attivo, l'Ulipristal, agisce fino a quando non muoiono gli spermatozoi.
La vicenda che ha scatenato tanto clamore e forzato i vescovi ad una sostanziale revisione dei propri indirizzi risale allo scorso dicembre, quando una 25enne si era rivolta prima ad una e poi a una seconda clinica cattolica per venire curata in seguito ad un abuso sessuale. C’era poi voluto quasi un mese perché la “storia” finisse sui giornali e aprisse il dibattito che ha poi portato alla decisione di ieri.
IL PASSO indietro (o avanti, a seconda delle interpretazioni) è tanto più importante perché la sanità cattolica in Germania è fondamentale: vale un quarto del totale, concentrata in particolare nella parte occidentale del paese. La KKVD (associazione degli ospedali cattolici tedeschi) amministra quasi 440 strutture a livello nazionale con circa 98.000 posti letto e attorno ai 165.000 dipendenti. Ogni anno vengono ricoverati 3,5 milioni di pazienti, mentre 5 ottengono cure ambulatoriali.

il Fatto 22.2.13
Questione carceri
Amnistia, la cura peggiore del male
di Mario Garavelli


È vero che le carceri sono sovraffollate, ed è vero che i detenuti (ed anche gli agenti di polizia penitenziaria) vivono in condizioni penose. Ma il rimedio dell’amnistia, che periodicamente si ripropone malgrado gli insuccessi del passato, è peggiore del male.
Questa cosiddetta forma di clemenza è profondamente sbagliata, perché: 1) è iniqua ed eticamente negativa; 2) è pericolosa; 3) è inutile. Sul primo punto, quando si afferma che lo Stato di diritto è violato dalla condizione carceraria, si finge di dimenticare che ancora più lo Stato di diritto viene leso da una legge che annulla una gran quantità di reati gravi in modo casuale, solo per quelli che li hanno commessi in un certo periodo, beffando le vittime che chiedono giustizia e creando una situazione di forte disuguaglianza rispetto a coloro che, commettendo gli stessi reati a partire dal giorno successivo al periodo in cui l’amnistia non è più in vigore, saranno duramente condannati, senza contare il discredito verso un ordinamento che da un lato minaccia pene severe e dall’altro cancella ogni conseguenza per i fatti ai quali esse si dovrebbero applicare. Non per nulla il diritto penale dei Paesi più evoluti non conosce praticamente un simile istituto, per l’abuso del quale l’Italia ha dovuto aumentare i vincoli parlamentari in tempi recenti; e non per nulla l’opinione pubblica, non solo perché preoccupata da ben altri problemi ma perché evidentemente non condivide questo buonismo ingiustificato, resta inerte di fronte a simili proposte.
Ma l’amnistia è anche fonte di gravi pericoli: l’uscita dal carcere di un gran numero di detenuti (un piccolo numero non servirebbe), in un periodo di crisi del lavoro e di ogni tipo di assistenza sociale, non può che favorire la commissione di nuovi reati, come si può arguire con il semplice buon senso, e come è stato ampiamente dimostrato con l’esperienza dell’ultimo condono, che ha visto l’impennata degli indici di illegalità subito dopo la sua concessione.
L’ARGOMENTO secondo cui solo una percentuale ridotta (il 40 per cento?) dei detenuti liberati ritorna a delinquere è del tutto falso, in quanto dell’infinità di reati dei quali non si scopre l’autore (per i furti circa il 90 per cento) nessuno può dire che non siano stati commessi proprio da costoro. Ma se anche quelle percentuali fossero vere, non si pensa alle vittime di quelle migliaia di delitti che si aggiungerebbero a quelli che ogni giorno ci affliggono, aumentando l’insicurezza di una società che ha già il triste primato di una criminalità, organizzata e non, sempre più aggressiva.
Infine, e forse soprattutto, l’amnistia è inutile. Certo, la storia si dimentica facilmente, ma come fingere di non sapere che le continue misure di clemenza che si sono succedute, a distanza spesso di pochi anni, dal dopoguerra in poi, hanno prodotto un illusorio sollievo, dato che dopo breve tempo le carceri sono tornate alla situazione precedente? È evidente che, fermo restando il sistema che ha prodotto il sovraffollamento, esso sarà ripristinato in un termine breve, per cui di una simile abrogazione temporanea della legge si potrebbe parlare solo al termine di una radicale riforma della giustizia penale, e non come pseudo rimedio isolato e irrazionale.
Le cure sono ben altre: un significativo rafforzamento delle misure alternative, una corretta depenalizzazione, che colpevolmente il Parlamento ha lasciato cadere malgrado gli sforzi del ministro, l’ipotesi di espellere dall’Italia i detenuti stranieri sospendendo la loro pena, la costruzione di nuove carceri già avviata dal governo, in una parola la destinazione di maggiori attenzioni e risorse al mondo carcerario, che unisca le esigenze di sicurezza a quelle umanitarie e in particolar modo tenda effettivamente a quella rieducazione del condannato alla quale si richiama l’art. 27 della Costituzione, ed a cui il “liberi tutti” dell’amnistia non darebbe certo un contributo.

Nel film, controcanto a Ingrao è la sorella Giulia, un’altra giovane novantenne.
l’Unità 22.2.13
Su Unita.it in diretta film e concerto per Ingrao


SARÀ UNA FESTA DEDICATA AD UN RAGAZZO DI 97 ANNI, PIETRO INGRAO, quella che stasera verrà trasmessa in diretta streaming sul sito on line del nostro quotidiano www.unita.it.
Dall’Aula Pacis dell’Università degli Studi di Cassino, dove è in corso la seconda edizione di «CassinoOff» (rassegna di teatro civile organizzata dall’associazione CittàCultura e diretta dalla giornalista dell’Unità Francesca De Sanctis), verrà proiettato il film documentario di Filippo Vendemmiati, Non mi avete convinto. Pietro Ingrao un eretico presentato all’ultima Mostra Internazionale del Cinema di Venezia. Subito dopo partirà il concerto live dei Têtes de Bois, la band romana che ha composto la bellissima colonna sonora del film. Basterà collegarsi al nostro sito www.unita.it per seguire in diretta l’evento da casa.
In questo documentario Pietro Ingrao si racconta dialogando a distanza con uno studente anni ‘80, distratto durante lo studio dalla radio che trasmette l’intervento di Ingrao al XVI congresso del Pci (marzo 1983). Racconta Filippo Vendemmiati: «Per la mia generazione Ingrao ha rappresentato l’idea della politica, intesa come passione e non come mestiere, la spinta utopistica alla ricerca costante di un mondo migliore». Questo ragazzo del 1915 racconta poche cose importanti di sé, soffermandosi sull’aspetto che più di ogni altro lo ha differenziato da tutti i suoi compagni, quella pratica del dubbio che lo ha reso riconoscibile dai suoi elettori, ma lo ha anche isolato agli occhi di colleghi assidui frequentatori del teatrino della politica. Nel film, controcanto a Ingrao è la sorella Giulia, un’altra giovane novantenne.
Subito dopo la proiezione del documentario, risuoneranno dal vivo le musiche dei Têtes de Bois che un giorno hanno chiesto a Vendemmiati di conoscere Pietro. Così, un pomeriggio sono andati a casa Ingrao, a Lenola, per un caffè. C’era Chiara, la figlia, c’era Pietro. C’erano gli strumenti e improvvisarono un concertino fra il divano e le poltrone semplici del salotto... Così sono nate le musiche di Non mi avete convinto.
La rassegna (che ha come media partner anche Rai Radio 3) proseguirà poi fino a giugno con un appuntamento al mese: 16 marzo prima nazionale del nuovo spettacolo di Ulderico Pesce dedicato ad Aldo Moro, 23 aprile Laura Curino in Scintille, 10 maggio Mario Perrotta con Italiani Cìncali e a giugno festa finale al Teatro Romano di Cassino.

il Fatto 22.2.13
Sequestro Abu Omar
Se Napolitano grazia gli 007 della Cia
All’ultimo vertice alla Casa Bianca, dopo le condanne degli agenti
E Obama chiese a Napolitano la grazia per gli 007 della Cia
di Marco Lillo


Gli Usa hanno fretta e cercano garanzie anche in vista del cambio al Quirinale. Il rebus sul segreto di Stato. Quel cablo alla Farnesina dell’ambasciatore a Washington: “Qui si aspettano un segnale”
Obama ha chiesto a Napolitano la grazia per i 23 agenti americani condannati in via definitiva per il sequestro Abu Omar. E il presidente della Repubblica, stretto tra la richiesta americana, la scadenza del suo mandato, le problematiche politiche di un simile gesto e le azioni legali pendenti, sta meditando sul da farsi entro aprile.
Obama ha chiesto la grazia per i 23 agenti americani condannati in via definitiva per il sequestro Abu Omar. E Giorgio Napolitano, stretto tra la richiesta americana, la scadenza del suo mandato, le problematiche politiche di un simile gesto e le azioni legali pendenti davanti alla Cassazione e alla Consulta, sta meditando sul da farsi. I tempi sono stretti: a fine aprile Giorgio Napolitano lascerà il posto a un nuovo presidente eletto da un Parlamento imprevedibile e del quale gli americani non si fidano. L’eccezione italiana deve essere sanata dall’amico Giorgio. Di tutti i sequestri orditi dalla Cia e scoperti nel mondo, dalla Germania alla Svezia, il nostro Paese è l’unico che può vantarsi di avere condannato in via definitiva 23 americani e in appello altri tre agenti segreti, compreso Jeffrey Castelli, ex capo della Cia in Italia, perché erano a vario titolo coinvolti nelle cosiddette rendition .
GLI AMERICANI ovviamente non la mandano giù e, fidando in un patto scritto o tacito esistente tra i due Paesi che legittimava il sequestro, ritengono che il tradimento dei giudici italiani debba essere sanato. Dopo la condanna della Cassazione nei confronti del capo stazione della Cia di Milano, Robert Seldon Lady, di 22 agenti e del colonnello dell’esercito Joseph Romano, difeso dall’avvocato Cesare Bulgheroni, come scritto anche dall’ambasciatore a Washington Claudio Bisogniero in un cablo del 21 settembre 2012, alla Farnesina, svelato da Sigfrido Ranucci di Report, si aspettano un “segnale”. Scrive l’ambasciatore: “Si tratta di dare a Washington un segnale che l’Italia pur nell’assoluto rispetto delle sentenze, intende operare insieme agli Stati Uniti per gli sviluppi futuri”. Stufi delle promesse. Sbigottiti dal balletto di sentenze, quelle della Corte Costituzionale favorevoli al segreto di Stato e quelle di appello e Cassazione che ne riducono la portata, gli americani guardano al sodo. Ci sono 23 uomini, compreso l’ex capo della Cia a Milano, inseguiti da un mandato di arresto che rischiano la galera se entrano in Europa. Obama non può più aspettare. A Napolitano lo ha detto chiaramente: gli Usa vogliono la grazia. E la vogliono subito. Il prossimo capo di Stato potrebbe essere Romano Prodi che già una volta oppose il segreto di Stato ai magistrati italiani ma potrebbe essere anche un personaggio ostile, magari eletto con i voti di Sel e di Grillo. Il Corriere della Sera con Maurizio Caprara ha scritto il vero: “Non era scontato che un presidente italiano verso fine mandato ricevesse la considerazione che Napolitano, ospite di Obama, ha avuto a Washington”. E non era scontato nemmeno che il segretario di Stato della prima potenza mondiale organizzasse il transatlantic dinner della prossima settimana proprio a Roma. Tutto si tiene perché non è scontato nemmeno che Giorgio Napolitano conceda la grazia a 23 statunitensi condannati in via definitiva per avere sequestrato in pieno giorno a Milano il religioso egiziano, Hassan Mustafa Osama Nasr, conosciuto con l’appellativo di Abu Omar, il 17 febbraio 2003.
Abu Omar era indagato per presunti rapporti con il terrorismo islamico nel clima di terrore succesivo all’attentato dell’undici settembre 2011. Ma fino a prova contraria, a differenza dei 23 americani condannati dalla Cassazione, resta una vittima innocente. Il religioso egiziano fu portato via con la forza dal territorio italiano con la complicità – secondo i magistrati – dei nostri servizi di sicurezza, capeggiati allora dal generale Niccolò Pollari. Poi fu imbarcato su un aereo e condotto infine in un carcere in Egitto, dove venne torturato e poi riarrestato perché aveva osato raccontare tutto alla moglie in una telefonata intercettata. Durante i colloqui di venerdì scorso a Washington il presidente degli Stati Uniti ha chiesto a Giorgio Napolitano di valutare l’ipotesi di concedere la grazia ai 23 condannati condannati definitivi, per poi aprire la strada alla medesima soluzione per gli altri tre funzionari compreso l’ex capo della Cia in Italia Jeff Castelli, per i quali è stata appena depositata venerdì scorso la motivazione della condanna di appello.
AL DI LÀ del coinvolgimento dell’Italia nello scacchiere mediorientale, è questa la vera molla dell’improvvisa passione americana che restringe le due sponde dell’Atlantico alla vigilia della fine del mandato di Napolitano. Gli Stati Uniti hanno scoperto le doti dell’ex comunista a cui nel 1975 negarono il visto, perché sanno che l’ultimo scampolo del settennato potrebbe essere l’ultima occasione per i loro sequestratori di Stato. Il Fatto ha posto, mediante il portavoce del presidente della Repubblica, Pasquale Cascella, la seguente domanda: “Gli americani hanno parlato al presidente Napolitano dell’eventualità a loro gradita di concedere la grazia? E qual è l’orientamento del Quirinale al riguardo? ”. Cascella ha risposto via sms: “Una domanda sostanzialmente analoga è stata rivolta al presidente nel corso della conferenza stampa a conclusione della visita (...). La registrazione dell’intero incontro con i giornalisti è su un blog”. La risposta alla domanda dell’Ansa sul possibile atto di Napolitano per “eliminare l’unico neo alle relazioni Italia-Usa”, cioè la condanna degli agenti americani, è stata né negare né confermare l’ipotesi della grazia. Il presidente ha premesso che “la questione è all’attenzione dei collaboratori dei ministeri della giustizia”.
Poi ha aggiunto: “La cosa più importante, e questo io ho ritenuto di doverlo segnalare (a Obama, ndr), che è stato sollevato un conflitto di attribuzione contro l’interpretazione che la Corte di Cassazione ha dato della sentenza della Corte Costituzionale sul segreto di Stato. Quindi è materia ancora aperta in Italia perché dall’esito di questo conflitto davanti alla Corte Costituzionale potranno discendere delle conseguenze”. Insomma alla richiesta di grazia di Obama, Napolitano ha risposto chiedendo agli Usa di aspettare la decisione della Corte Costituzionale che potrebbe annullare la sentenza di condanna risolvendo il conflitto di attribuzione in senso favorevole al presidente del Consiglio Mario Monti e dando torto ai giudici. L’annullamento permetterebbe alla Cassazione di emettere una nuova sentenza di annullamento della condanna e il “neo” sarebbe eliminato. L’avvocato Matilde Sansalone che difende due dei tre imputati americani condannati in appello nella sentenza depositata venerdì e sei degli imputati condannati in Cassazione nel 2012 spiega: “Non so nulla di una richiesta di grazia che potrebbe peraltro essere presentata solo dopo che la sentenza è divenuta definitiva, cosa che per ora riguarda solo i miei sei assistiti del processo chiuso in Cassazione. Non ho ricevuto una sola telefonata dall’ambasciata americana né dai miei assistiti. Anche se va detto che non necessariamente la richiesta di grazia deve passare dal legale”.
SUL PERCORSO alternativo suggerito a Obama da Napolitano, cioè attendere la soluzione del conflitto di attribuzione davanti alla Consulta, l’avvocato Sansalone è scettica: “Avrebbe effetti diversi per le diverse posizioni dei condannati e degli imputati. La grazia invece chiuderebbe il discorso”. La grazia avrebbe effetti anche per gli italiani coinvolti, a partire dal generale Pollari. Il suo difensore, Titta Madia spiega: “La Cassazione dovrà annullare la sentenza di appello contro Niccolò Pollari perché la Corte Costituzionale in ben due occasioni si è espressa chiaramente sulla questione del conflitto di attribuzione; e presto si esprimerà ancora nel senso invocato dall’Avvocatura di Stato e cioè che quanto attiene ai rapporti tra servizi Usa e Italia nel caso Abu Omar deve essere ricompreso nel segreto di Stato”.

il Fatto 22.2.13
L’agonia dei supplenti da 3 mesi senza stipendio
Povera scuola: in 25mila aspettano i primi soldi
di Chiara Daina


Non ricevono lo stipendio da tre mesi e chissà quanto dovranno ancora aspettare per la prima busta paga del 2013. I supplenti delle scuole sono stremati. C’è chi non ha più i soldi per la benzina. Chi ha intaccato i propri risparmi per iniziare il mese. L’anno scorso è stato mobilitato un esercito di 75mila supplenti per sostituire gli insegnanti di ruolo. Di questi, circa 25mila hanno firmato un contratto annuale, gli altri hanno lavorato per molte meno ore, anche solo per un giorno. E quasi diecimila di loro non percepiscono lo stipendio da dicembre o addirittura novembre. Sull’altare sacrificale dei tagli, oltre i docenti precari c’è anche il personale Ata, segretari e bidelli. La denuncia arriva dalla Fcl Cgil, che per il 27 febbraio ha organizzato un incontro con il Miur.
La colpa è dei ministri dell’Istruzione e del Tesoro: “Indifferenti e incapaci di difendere la scuola - commenta Annamaria Santoro, segretaria nazionale Fcl Cgil. Con la spending review dello scorso luglio il governo Monti ha previsto che dal primo gennaio del 2013 il pagamento dei supplenti saltuari diventasse di competenza del Ministero dell’Economia allo scopo di sgravare le scuole da oneri amministrativi. È la formula del “Cedolino unico”.
ALTRO CHE alleggerimento, però: a sei mesi di distanza regna il caos organizzativo e le scuole fanno la fame. “Hanno sottostimato la spesa per le supplenze – spiega Santoro -: sono già stati esauriti i 196 milioni di euro stanziati nel 2013 e i 37 milioni di euro come saldo di dicembre 2012. Così alcuni istituti hanno anticipato con la cassa il pagamento del mese di dicembre”. Oltre al danno, la beffa. Il Miur aveva promesso che il 12 febbraio ci sarebbe stata un’emissione speciale dei rimborsi. Poi è saltata ed è stata rimandata a lunedì 18. Entro le ore 18 di quel giorno le scuole avrebbero dovuto caricare online i dati del singolo supplente. Ma il sistema informatico va subito in tilt: interruzioni, malfunzionamenti, tempi stretti per diecimila istituti che nelle stesse ore accedono allo stesso server. Un copione già visto tante volte, l’ultima per l’iscrizione telematica degli studenti. La Santoro fa il punto: “Si sono ridotti all’ultimo momento per distribuire le risorse e l’obiettivo di contenimento della spesa è stato tradotto in una riduzione delle previsioni di spesa e in una continua integrazione del fabbisogno che viene calcolato con cadenze ravvicinate e dando pochi soldi per volta”. Prendere contatti con il Miur è un’impresa, ottenere risposte altrettanto. E se lo fa non si espone. Lo racconta una maestra, ovviamente temporanea, di Milano, sul piede di guerra: “Ho chiamato il ministero, mi hanno detto di inviargli una mail, l’ho fatto e come me tanti altri ma nessuno ha ricevuto risposte”. Poi, l’ennesimo ritardo. Alle ore 15 del 18 febbraio arriva una mail collettiva a tutte scuole italiane in cui si avvisa di inserire anche i rimborsi di novembre, dicembre e la tredicesima. Non tutte le scuole però si accorgono per tempo e perdono il turno. “I miei risparmi sono all’osso - conclude l’insegnante -. Ho aspettato, ora non ce la faccio più”.
DOVREBBE AVERE un salario di 1290 euro mensili, non sa ancora se la sua richiesta di rimborso sia andata a buon fine e tantomeno sa quando vedrà arrivare il prossimo stipendio. La testimonianza arriva anche da due direttori scolastici, uno di Fiorenzuola, nel piacentino, l’altro di Rozzano, alle porte di Milano: “Nessuno ci ha aggiornato sul nuovo sistema, abbiamo mille difficoltà”. Millantare l’innovazione per la scuola e non garantirla è la conclusione.

Repubblica 22.2.13
L’hacker venuto dalla Cina all’attacco di Washington
Dalle banche alle istituzioni, nel cuore politico degli Usa i cyber-nemici cinesi sono entrati ovunque
Così Pechino può frugare tra i segreti della Casa Bianca
Lo spionaggio informatico è il terreno sul quale si combatte e si vincerà la guerra del futuro
di Vittorio Zucconi


IL RAGNO cerca di avvolgere chiunque, e qualunque ente, che possa aiutarlo a ricostruire nel dettaglio la rete delle persone, i loro rapporti, la loro influenza. Sembra che, prima ancora di utilizzare i dati rubati, voglia frugare per capire come funzioni dal di dentro una macchina del potere tanto diversa da quella cinese. Una tela di ragno cinese sta avvolgendo Washington ed è lunga 2.500 anni. Se è vero, come denuncia il Post, che non ci sono server e banche dati nella capitale che il ragno di Pechino non abbia raggiunto e succhiato, sarebbe soltanto la versione tech di quello che Sun Tzu predicava 500 anni prima di Cristo nell’Arte della Guerra, capitolo 13: «Dalla conoscenza del nemico dipende il successo delle armi». Inutili le smentite e le proteste di innocenza. Il cyber-spionaggio, lo hackeraggio, cioè la penetrazione illegittima dei computer altrui per succhiare dati segreti o per paralizzarli, è il terreno sul quale si combatte e si vincerà la guerra del futuro, anche senza bombe e massacri. La praticano tutti, quelli che si atteggiano a preda e quelli che tessono la tela del ragno, come gli attacchi dell’intelligence israeliana e americana ai computer che controllano le centrali
nucleari iraniane con il supervirus Flame, fiamma, dimostrarono.

Il governo di Pechino nega indignato e nessuno gli crede. L’amministrazione di Washington protesta e minaccia, furiosa non soltanto per la violazione di segreti di stato, banche dati, archivi giornalistici, grandi studi legali, Camera e Senato, ma, forse ancor di più, per l’umiliazione di vedere l’America battuta in quel gioco dell’alta tecnologia nel quale si sentiva suprema. È possibile che ancora una volta, come già negli Anni ’30 quando gli esperti consideravano i giapponesi un popolo arretrato e incapace di minacciare la supremazia militare e tecnologica di Usa e Regno Unito nel Pacifico, sia scattata la sottovalutazione di altri popoli, soprattutto orientali.
Se si chiede agli specialisti di cybersicurezza, scrive il Washington Post che da anni subisce le infiltrazioni degli hacker cinesi che puntano soprattutto ad agende riservate, scoop in cottura, numeri di telefono segreti, vi risponderanno che nella capitale americana non ci sono istituzioni, agenzie, ministeri, uffici di lobbisti, che le zampe del ragno di Sun Tzu non abbiano raggiunto. «Mi chiedo come facciano a selezionare e utilizzare quella enormità di dati che rubano, misurabile in terabyte, mille miliardi di byte» dice Shawn Henry, ex responsabile del controspionaggio informatico allo Fbi. Probabilmente con un miliardo e 344 milioni di abitanti non mancano il tempo e il personale.
Lo spionaggio silenzioso, che lo stesso Henry paragona a un uomo invisibile che «frughi nei vostri armadi», è massiccio e indiscriminato. Lo studio di Mandiant, la società anti hacker ingaggiata dal Post, ha accertato che 141 istituzioni pubbliche e private e 20 società editoriali sono state violate dai cinesi, ma questo è soltanto il numero di quelle accertate. Il ragno cerca di avvolgere chiunque, e qualunque ente, che possa aiutarlo a ricostruire nel dettaglio la rete delle persone, i loro rapporti, la loro influenza. Sembra che, prima ancora di utilizzare i dati rubati, voglia frugare per capire come funzioni dal di dentro una macchina del potere politico, economico, finanziario, culturale tanto diverso da quello cinese. E magari colpire, via America, il dissenso politico e religioso interno. Chi scrive di Tibet ha la certezza di essere frugato. I tempi dello spionaggio industriale e militare in stile Kgb o Gru, l’intelligence militare sovietica, sono agli sgoccioli. Si possono ancora smascherare e smantellare false aziende commerciali, come la Arc Electronics di Houston, creata da un russo naturalizzato americano, Alekander Fishenko, che acquistava materiale elettronico sofisticatissimo e lo spediva a Mosca, nonostante il divieto assoluto di esportazione. Ma gli anni romanzeschi del Konkordski, il supersonico civile Tupolev Tu-144 mirabilmente simile al progetto Concorde franco-inglese, o dei piani dettagliati del cacciabombardiere Tornado arrivati prima al Cremlino che agli stabilimenti europei sono, più che lontani, superati. Le “trappole al miele” tese dalla bella Anna Chapman, che da New York faceva da spalla proprio a Fishenko, diventano teneramente obsolete quando i disegni dettagliati, le conversazioni private, il “chi è” e “che cosa fa”, il quanto “conta” di ognuno, sono distanti i pochi secondi necessari a scaricare byte da un server, spesso attraverso piccole uscite di sicurezza lasciate dai programmatori stessi. «Ogni serratura può essere aperta» spiegava Jeff Sitar, il campione mondiale degli scassinatori di cassaforti classiche. «Tutti dobbiamo renderci conto che la sicurezza assoluta non esiste in informatica e che nessun network è inattaccabile» avverte, con qualche ovvietà, lo specialista di sicurezza al Centro per gli studi strategici e internazionali (Csis) James Lewis, dopo avere sigillato il server del Centro soltanto per vederlo penetrato. Il duello fra la spada più affilata e lo scudo più robusto si riproduce secolo dopo secolo, lasciando sempre aperto il risultato. Le società private che si occupano di costruire gli scudi ingigantiscono la minaccia, perché nel panico dei dati rapiti sempre più aziende ed enti ricorrono ai loro servizi per proteggersi. Lo spionaggio ha sempre fatto la fortuna del controspionaggio, e viceversa, e le nuove forme di guerra segreta non fanno eccezione a questa dinamica di mercato. Coca-Cola, Apple, Lockheed Martin, McDonald’s sono state, fra dozzine di altre big, attaccate, probabilmente dai cinesi, ai quali oggi è facile attribuire ogni virus, ogni malware, ogni phishing, la pesca attraverso l’utente che cade innocentemente nella rete, oggi ribattezzato spearphishing, da pescespada.
E se qualcuno si chiedesse quali segreti possa mai nascondere la cassaforte di una società che produce gassose o frigge polpette, non vede il punto chiave della ragnatela cinese. Attraverso una super multinazionale come la Coca-Cola o la McDonald’s i cinesi ricostruiscono reti di influenze, meccanismi di finanziamento e di operazioni sui mercati delle valute per annullare gli sbalzi di valore, vedono come si costruisce un impero industriale e commerciale. Imparano. Ci sono, naturalmente, segreti militari e industriali, che i server di corporation come la Lockheed, la Boeing, la Raytheon possiedono e che i generali/ industriali cinesi ingordamente carpiscono, evitandosi anche la fatica dell’“ingegneria inversa”, fatta dai sovietici che dovevano smontare e poi tentare di rimontare copiandoli i pezzi e le parti rubate a Usa ed Europa. Ma l’intento è più vasto, meno ideologico dei Russi Anni ’60.
Sorprende, semmai, la sorpresa della dirigenza politica americana che ora si scompone proclamando, con il presidente della commissione intelligence del Senato, il repubblicano Mike Rogers, che «la minaccia sta crescendo in maniera esponenziale» e ne approfitta per criticare il presidente Obama: «Deve fare di più e spiegare ai cinesi che ci saranno gravi conseguenze per lo spionaggio informatico sponsorizzato dallo Stato».
Anche senza considerare che lo Stato, la Repubblica Popolare, nega ogni ruolo, dunque Obama parla a chi non ascolta. Era evidente che la esportazione massiccia di tecnologia, per inseguire costi di produzione disumani, avrebbe fatto rapidamente crescere le conoscenze. E con esse l’appetito, di cinesi che spesso vengono a specializzarsi in quelle università americane che insegnano loro il modo per scardinarle.
Dopo avere dato ai cinesi un pesce per sopravvivere, secondo la celebre massima di Mao Zedong, hanno imparato a pescare. E la capitale della più grande democrazia del mondo, quella che ha sempre fatto, o ha detto di fare, della propria trasparenza e apertura una virtù cardinale, oggi rivive l’ansia di essere impigliata in una rete dalle quale potrebbe difendersi soltanto precipitando in una nuova paranoia cyber-maccartista. Ma nell’ora della connettività istantanea e globale, dove le “cimici” negli uffici, i “coccodrillini” nei fili di rame telefonici, le microcamere e i microfilm sembrano antiquati come il vapore per aprire la posta altrui, non ci si può chiudere in cassaforte senza soffocare. Rimane, non per caso, ancora salvo il pianeta elettorale, dove il voto elettronico non è entrato. Nessun esperimento di elezione online ha soddisfatto la Commissione Federale per le Elezioni e si resta ai classici e pur imperfetti sistemi. L’incubo del “Manchurian Candidate”, del candidato alla Casa Bianca condizionato e programmato proprio dai cinesi, potrebbe realizzarsi. Non più con il lavaggio del cervello, ma con un semplice click da Pechino.

Repubblica 22.2.13
L’intervista
Raoul Chiesa, hacker pentito: “Con un pc e una connessione si entra ovunque”
“Nessun sito è inaccessibile basta trovare il punto debole”
di Silvia Bernasconi


«Non esistono sistemi inaccessibili. Un hacker entra ovunque, Casa Bianca compresa. Nessuno può garantire sicurezza totale contro gli attacchi informatici, si può solo abbassare il livello di rischio». Parola di Raoul “Nobody” Chiesa, uno dei primi hacker italiani, ora consulente per la sicurezza informatica e advisor di Unicri, agenzia Onu con base a Torino che si occupa di criminalità e giustizia. Raoul ha iniziato a 13 anni, nel 1986, per nove anni ha vissuto da pirata informatico fino a quando non è stato arrestato per la violazione, tra le altre cose, del sito della Banca d’Italia nel 1995. Da
allora è passato dalla parte di “buoni” e si definisce un
ethical hacker.
Si possono violare le Reti più protette del mondo?
«Si può entrare ovunque. Anzi, oggi è molto più facile rispetto agli anni Ottanta. Lo definisco il prêt-à-porter dell’hacking: vai online e trovi tutto».
Cosa serve per iniziare?
«Bastano un computer e una connessione a Internet. In Rete trovi ciò di cui hai bisogno. E sfruttando i social network puoi raccogliere informazioni sull’obiettivo, azienda o persona che sia, e utilizzarle per individuare una password o per spacciarti per qualcuno di cui si fida e mandargli un trojan, un troiano, o un malware, chiamiamoli virus per semplicità. Se il bersaglio abbocca, parte il contagio e l’hacker conquista un punto di accesso interno al sistema. Il bersaglio tipo è un dipendente tonto o poco accorto».
Come funziona?
«L’hacker individua una persona interna a un’azienda, o a un’istituzione governativa, raccoglie informazioni su Facebook o Twitter. Poi gli invia un file con un allegato o un link spacciandosi per collega o amico. Se il dipendente apre l’allegato, il gioco è fatto. Da qualche anno gli attacchi-tipo sono così, utilizzano la vulnerabilità delle persone. Ce ne fu uno clamoroso alla Rsa, società specializzata in chiavi usb: la mail con il virus inviata ai dipendenti si chiamava “stipendi”. E qualcuno la aprì».
Basta così poco?
«Con un accesso non autorizzato al sistema iniziano il contagio e il controllo da remoto del pc “vittima”. A quel punto l’hacker ha un piede in azienda e dall’esterno può operare a suo piacimento. Le difese interne sono solitamente più blande di quelle esterne».
Come si fa a entrare in possesso di un virus?
«I software più semplici si trovano gratis su Internet. Chi ha soldi può acquistare sul mercato nero uno “zero day” (“giorno zero”, il momento in cui viene scoperta una falla e inizia l’attacco), una sorta di passepartout per mettere a segno l’attacco».
Quanto costa uno “zero day”?
«Tra 5mila e 200mila dollari, dipende. Ce ne sono di pubblici, cioè in circolazione da molto, o di privati, i cosiddetti new and fresh, nuovi, i più temibili. Ci sono anche i broker di “zero day”. I cyber-criminali li comprano per attaccare. I governi, i principali acquirenti, come antidoto per creare un vaccino al virus. Oppure come arma elettronica per attaccare altri Paesi, quello che pare stia accadendo tra Cina e America».
Perché si diventa hacker?
«Negli anni Ottanta per sfida e curiosità, era un bel gioco, nei Novanta per gloria. Io ho iniziato a 13 anni, adesso si comincia a 9. Oggi ci sono il cyber-criminale che lo fa per frode e soldi, l’hacker etico che innalza il livello di sicurezza del sistema e l’hactivist, l’hacker attivista con fini ideologici, politici o religiosi. Il cyber-crime ha un fatturato annuo intorno ai 12 miliardi di dollari, un business che si autoalimenta».
Cosa si può fare per difendersi?
«Non aprire mai allegati o link, anche se sembra di conoscere chi li invia. Il buon senso è la prima difesa».

La Stampa 22.2.13
Camus, straniero per sempre. Cent’anni fa nasceva l’autore della Peste
Ha riflettuto sulla condizione umana nei momenti più bui del ’900: i totalitarismi, la guerra, i sussulti finali del colonialismo
Il suo antidogmatismo lo portò a essere considerato un «nemico» da Sartre & C.
Il tentativo di farne un monumento da parte della destra è fallito
di Domenico Quirico


Lo scrittore nacque a Mondovi in Algeria il 7 novembre del 1913. Morì in un incidente d’auto il 4 gennaio del 1960. Nel 1957 vinse il Nobel per la Letteratura

Assomigliava davvero a Humphrey Bogart, con il colletto del cappotto alzato, la sigaretta eternamente in bocca, lo sguardo grave e un mezzo sorriso alle labbra: avresti giurato di averlo già incontrato, sì, in qualche film in bianco e nero degli Anni 50, a fianco di Jeanne Moreau colla stanchezza dell’anima negli occhi. Ha fatto impersonare Caligola da Gérard Philippe, e mandato in scena Maria Casarés abbigliata da pasionaria del terrorismo rivoluzionario, ha fatto gridare al miracolo con Lo straniero, e afferrato la gloria con La peste. Eppure non era questo che voleva: «La volgarità delle intelligenze, le vigliaccherie compiacenti», il marchio di fabbrica della Parigi letteraria, gli davano «la nausea». Appunto.
Camus. Questo frutto spinoso nato cento anni fa nella terra arida, stenta, dura d’Algeria («il piccolo erg - la povertà estrema ed asciutta le tende nere dei nomadi, sulla terra secca e dura – ed io – che non posseggo nulla e non potrò mai possedere nulla, simile a loro…») nella Parigi del dopoguerra era il maschio avvolto di femmine e di successo: «Leccare la vita come zucchero d’orzo…». Sartre e la sua banda potevano ben pispolare la notte nelle cantine di Saint-Germain e imporre, di giorno, la polizia del loro pensiero unico allo sberrettante quartier generale del café Flore; neppure loro avevano potuto impedire a Camus di imporsi come un maestro.
E oggi? Già, già: Camus è «universale», tradotto e letto ovunque, persino Bush una volta lo ha citato. Ecco: è comodo, alla mano: pigiati dentro un solo Grande da Plèiade il sentimento tragico della vita, la necessità di forgiare la propria morale, la mistica del Mediterraneo e dell’Oriente, rivolta e accettazione, rovescio e diritto. Il giovane uomo nietzscheano che attraverso l’assurdo e la rivolta (merce sempre di buona domanda anche nei cataloghi editoriali) si arrampica fino a una filosofia della misura, apparentata alla antica nemesi greca. Scrittore perfetto per i garbi dei dettati, filosofo da liceali che non vogliono correre rischi al Bac, filosofo discount, moralista della Croce rossa. E ancora: nell’intimo democratico molle, sentimentale, perfino uno sgonnellatore di femmine. Nell’omaggio apparentemente universale quante spine acute, in Francia, mezzo secolo dopo quel 4 gennaio 1960 in cui morì in un incidente d’auto, da folgorante James Dean della letteratura.
Bisogna sveltamente aspirare l’ossigeno della saggezza di Finkielkraut per non dubitare: «Camus è consacrato da un’epoca che gli volta le spalle, il nostro tempo non ama che se stesso ed è se stesso che celebra quando crede di commemorare i grandi uomini». Meno male! C’è un antidoto a questa melassa che gli hanno steso sopra. Chi considera un merito non attirare rischi di attizzare l’ira e lo scandalo: su pena di morte, colonizzazione (lo accusarono essere traditore e colonialista, contemporaneamente!) stalinismo, Camus, sempre inclassificabile in famiglie ghenghe e parrocchie, un uomo in rivolta, eroismo che piace, ma anche ferito, umile, il che piace ancor di più perché innesca la compassione. Prendiamo, ad esempio, l ’a n t i c o l o n i a l i smo: il suo umanesimo stende un velo consensuale perfino sulla guerra di Algeria, un pied-noir che diventa figura di conciliazione, utilissimo. In quei deserti, dall’altra parte del mare, che nella sua penna si animava di colline odorose fiorite di tamerici e di assenzio, con le antiche colonne in rovina «colore dei pini», oggi infuriano profeti ben più spietati e letali che i nazionalisti di Ben Bella. Sì, gli anniversari sono sempre un guaio con Camus. Quest’anno una mostra a Aix, sotto il bel sole di Provenza che tanto amava, è già avvolta di polemiche tignose, dimissioni, licenziamenti. Nell’anniversario, tre anni fa, della morte fu Sarkozy, allora presidente, nel suo furore di assimilare epoche storie e grandi a suo uso e consumo, che cercò, con gran fracasso, di panteonizzarlo, sì, di tumularlo in questo santuario laico, labirinto oscuro e umido, da sempre teatro di inquietanti vai e vieni cimiteriali. Dove la Francia si dà battaglia, e si ricompone talvolta, a colpi di ossa cadaveri e tombe. Mossa forse definitiva per farne un edulcorato pascolo per citazioni, di marmorizzarlo: ah! il gusto insaziato e insaziabile della Francia per i funerali degli illustrissimi presi, in se stessi, come opere d’arte, da Napoleone a Hugo. Manovra fallita per il provvidenziale no di un figlio del marmorizzabile. E anche allora, nel fiume dei turiferari da anniversario gocciolarono rivoli di sodo veleno. A instillarlo è l’eterna Algeria, circonlocuzione complessa (dopo mezzo secolo!) di una Storia poco condivisa; e i rancori gauchistes, dei salottini apparecchiati per l’anatema. Non hanno ancora perdonato, allo scrittore, il rifiuto «di mettere tra la vita e l’uomo un volume del Capitale». Che eresia!
E se Camus fosse lì, appunto per ricordarci, instancabilmente e fastidiosamente, che più gli uomini cedono ai dogmatismi e più diventa loto necessario il distacco, il disinteresse di qualcuno? È ammirevole che abbia riflettuto sull’uomo e sulla sua condizione nei momenti più bui del secolo: i totalitarismi, la guerra, i sanguinosi sussulti finali del colonialismo. In fondo, come accadde a Montaigne, nelle guerre di religione. L’orrore e il sangue lo fortificavano nella sua missione di osservatore e di testimone. Era uno dei pochi attenti, in una Francia in preda al dubbio e alla follia. Senza pretendere niente altro che rappresentare e descrivere è proprio lui che ci forma, proponendoci una immagine esatta di noi. Anche grazie a lui siamo passati attraverso le maglie della rete che in tutte le epoche gettano su di noi i Piani, i Sistemi, le Rivoluzioni. A questi cacciatori pericolosi l’uomo qual è, l’uomo dello Straniero, l’uomo di Camus resterà sempre sconosciuto e straniero. «Ogni sforzo umano – disse - è relativo, noi crediamo appunto alle rivoluzioni relative». E può bastare questo per dar colore a un anniversario.

Repubblica 22.2.13
Da Freud al Cavaliere il fantasma populista
di Massimo Recalcati


SIGMUND Freud scrisse Psicologia delle masse e analisi dell’Io nel 1921, quando l’Europa si stava avviando verso il baratro dei regimi totalitari. Il carattere straordinariamente preveggente di questo testo metteva in risalto la difficoltà dell’essere umano di sopportare il peso della propria libertà e della quota di incertezza e di instabilità che essa necessariamente implica.

Freud vedeva nella pulsione gregaria la tendenza degli uomini a ricercare rifugio, protezione riparo dalla solitudine della libertà e dalla responsabilità individuale che essa comporta. Nel grande corpo omogeneo della massa i soggetti regrediscono ad una relazione infantile di servitù che spegne ogni facoltà critica e consegna la libertà in cambio del conforto ipnotico del sentimento di confondersi in una identificazione cementificata ad un solo popolo. Con l’aggiunta decisiva che questa identificazione si struttura sotto il cono luminoso e inebriante dello sguardo invasato del Padre- Duce, del Padre-Führer, del Padre-padrone che promettendo “magnifiche sorti e progressive” in realtà divora spietatamente i suoi figli impauriti nel nome della Storia, della Razza o dell’Impero.
Freud ci fornisce il ritratto del fantasma inconscio che ha animato tutti i populismi totalitari del Novecento: l’Ideale della Causa, incarnato nel corpo sacro del leader e del suo carisma sulfureo, dà senso alla vita della massa altrimenti in balìa di una precarietà economica, sociale ed esistenziale fonte di angoscia insopportabile. Il populismo novecentesco rivela l’incidenza del carattere gregario della pulsione; amare chi ci toglie la libertà, idolatrare chi cancella tutti i nostri diritti, baciare la mano di chi ci colpisce a morte.
Se ora proviamo a volgere lo sguardo sulle forme più attuali del populismo, per esempio quelle che si manifestano in questa campagna elettorale, ci troviamo di fronte ad un deciso cambio di segno. Il fantasma inconscio che le anima non è più quello che invoca il bastone del padrone; non è più un fantasma masochistico che esige il sadismo feroce del padre primigenio. I populismi contemporanei appartengono ad un’epoca che è stata definita post-ideologica. Essi fanno piazza pulita della funzione Ideale della Causa che ha invece nutrito i vecchi populismi. Quella funzione ha lasciato il posto ad un cinismo disincantato e radicalmente anti-politico che vede con sospetto risentito tutto ciò che viene proposto in nome del bene comune. Il populismo ipermoderno non si nutre di Ideali –non è più, come diagnosticava la Arendt, una malattia dell’ideologia – , ma di pubblicità (berlusconismo) e di tecnologia (grillismo). Prendiamo, per esempio, un tema cruciale come quello della libertà. Si tratta di uno dei grandi cavalli di Troia dei populismi post-ideologici, in particolare di quello berlusconiano, ma non solo. La sua invocazione risponde ad una finalità semplicemente demagogica. Liberi dalle istituzioni, liberi dalla politica, liberi dall’Europa ... La libertà è ridotta ad un fantasma che riveste l’esigenza pulsionale di poter fare quello che si vuole senza dover tenere conto dell’Altro, dunque di qualunque limite istituzionale, procedura, Legge, condizione storica. Piuttosto è l’idea stessa della Legge che viene vista con sospetto, come se fosse un intralcio alla piena libertà del manovratore (Berlusconi), oppure viene invocata – ed è una variante rischiosa del populismo ipermoderno – come un principio assoluto in grado di garantire il Bene comune (Ingroia, Di Pietro). Se il populismo novecentesco nutriva un fantasma masochistico fondato sul sacrificio fanatico di sé, quello ipermoderno nutre un fantasma perverso e narcisistico, centrato sull’affermazione della Legge ad personam, su di una mentalità profondamente anti-istituzionale e anti-politica, che rigetta come un peso inutile la fatica del confronto e della mediazione, il calcolo e la strategia necessari alla politica. Il suo miraggio non è più sostenuto dall’appello infatuato agli Ideali collettivi, ma dalla difesa strenua e rancorosa dei propri interessi particolari. Questo modifica sensibilmente la rappresentazione immaginaria del Leader e modifica la stessa psicologia delle masse. Il leader dei nuovi populismi non agisce più in nome della Causa anche quando la sbandiera. Piuttosto si autocelebra come un reuccio senza storia, come un capo popolo solo televisivo, senza più proporsi come strumento al servizio della Storia, come l’incarnazione folle di una volontà impersonale. Piuttosto esso accentua, nell’autocelebrazione della sua persona, quel trionfo dell’Io che sembra aver preso il posto della Causa. Come dire che la sola Causa che conta è quella del proprio Io o quella del proprio territorio come accade per il populismo regressivo di tipo leghista. Non è più l’Io che si immola masochisticamente nel nome dell’Ideale, ma è l’Io che, dopo aver tolto la maschera ad ogni Ideale, si propone come il solo Ideale che vale la pena servire. In questo il populismo ipermoderno è schiavo del discorso del capitalista e della sua esaltazione dell’individualismo più cinico. Il nuovo leader aggrega le masse promettendo un accesso senza mediazioni – della politica – all’esercizio del potere. Non chiede il sacrificio per la patria, ma mostra piuttosto l’inutilità di ogni sacrificio. Anche il ricorso eventuale a tematiche ideologiche – siano esse legate ad antichi contrasti tra visioni del mondo contrapposte o a rivendicazioni etniche come accade per il populismo pseudo-mitologico della Lega – appare strumentalmente finalizzato a difendere il proprio orto. Nondimeno il nuovo leader resta un padrone che divora i suoi figli, che non può pensare al suo tramonto, alla propria successione, che non può lasciare eredi credibili perché assolutamente insostituibile, che, dunque, pur proclamando la democrazia diretta del popolo si ritiene esserne, paradossalmente, il garante assoluto non cogliendo il fatto elementare che la sua stessa esistenza di leader contraddice la possibilità di una autentica democrazia interna. È il caso del grillismo che invoca grazie al potere della Rete una forma di partecipazione diretta del cittadino che rifiuta ogni genere di mediazione e che, di conseguenza giudica, come un ferro vecchio della democrazia, la funzione sociale dei partiti. Ma i segni di discordie che attraversano questo movimento non annunciano niente di buono. È un film che abbiamo già visto. È una legge storica e psichica insieme: chi si pone al di fuori del sistema del confronto politico e della mediazione simbolica che la democrazia impone, finisce sempre per generare il mostro che giustamente combatte.
Come tutti i leader, che hanno animato forme populistiche di consenso, il leader dei nuovi populismi non può sottomettersi a nessuna Legge se non quella che egli pretende di incarnare. Di conseguenza non può accettare la logica democratica della permutazione, il ricambio generazionale, la trasmissione dell’eredità. Il suo Io è lo specchio che riflette un corpo frammentato perché privo del cemento armato dell’ideologia. Basti pensare alla seduzione sfacciata con la quale Berlusconi interpreta la sua rincorsa elettorale comportandosi come quel tiranno demagogo, descritto da Platone, che di fronte a dei bambini gravemente malati non veste i panni scomodi del medico, ma preferisce indossare quelli di un pasticcere che anziché proporre l’amaro sapore delle medicine seduce il suo giovane popolo con l’offerta di carrellate di dolci prelibati.

La Stampa 22.2.13
L’iniziativa de LaStampa.it con la scuola di Giornalismo della Luiss
“Voci di Roma”, il nuovo sito che racconta la capitale
di Francesca Sforza


Nei giorni in cui Roma è diventata il luogo simbolo delle grandi partite del Paese, dall’elezione di un nuovo governo fino a quella del nuovo Papa, «La Stampa» lancia un progetto per ampliare ancora di più la gamma dei luoghi e delle storie da raccontare. Con «Voci di Roma», realizzato con la Scuola di Giornalismo «Massimo Baldini» della Luiss, parte oggi un sito interamente costruito da giovani giornalisti, che all’indirizzo www.vocidiroma.it presenteranno il loro modo di guardare alle vicende della capitale.
Tendenze, impressioni, angoli poco esplorati saranno messi a fuoco con gli strumenti dell’era digitale, non solo per raccontare aspetti inediti della città, ma anche per mostrare come i video, gli audio, l’infografica e l’intreccio con i social network siano diventati la nuova dimensione dell’impugnare penna e taccuino.
«Credo molto alle scuole di giornalismo – dice a questo proposito il direttore della scuola di giornalismo della Luiss Roberto Cotroneo -. I ragazzi delle scuole di giornalismo si confrontano con la modernità e con il futuro di un mestiere che in 10 anni è cambiato in un modo radicale. C’è ancora molta strada da fare – continua Cotroneo e l’informazione ha davanti a sé dei nodi da risolvere, ma questi ragazzi interpretano il lavoro in modo serio, moderno, competente e soprattutto duttile. Saranno una risorsa per i giornali del futuro e per i lettori futuri. Che siano lettori cartacei o lettori di web poco importa».
L’idea della Stampa.it di intercettare energie nuove per la comunicazione del futuro, già sperimentata con successo in Voci di Milano (www.vocidimilano.it), nasce dalla voglia di diventare sempre di più una piattaforma aperta, capace di far convergere realtà locali nel melting pot della comunicazione digitale. I dati sembrano confermare la correttezza della strada intrapresa: nel solo mese di febbraio è stata superata la quota di 11 milioni di visitatori.
«Per i ragazzi della scuola di giornalismo l’opportunità di affacciare le loro proposte su LaStampa.it rappresenta un’occasione straordinaria – dice Emiliano Condò, coordinatore di Reporter Nuovo, la pubblicazione curata dai 30 ragazzi della scuola di giornalismo romana –. In questi giorni di preparazione del lancio il problema semmai è stato contenere il loro entusiasmo e vagliare cumuli di proposte».
Oltre a dare visibilità al lavoro della redazione della scuola, «La Stampa» metterà a disposizione borse di studio per contribuire alla formazione delle nuove generazioni di giornalisti. "L’entusiasmo dei giovani reporter si unisce alla potenza dei mezzi digitali"

La Stampa 22.2.13
La piramide di Khay, ministro di Ramesse II


Sono stati scoperti a Luxor, l’antica Tebe, i resti della piramide di uno dei ministri del faraone Ramesse II, che regnò dal 1279 al 1213 avanti Cristo. Lo ha annunciato il ministro per le antichità egiziane Mohamed Ibrahim, spiegando che la piramide appartiene a Khay, che per quindici anni fu ministro del sovrano ed era un personaggio conosciuto per essere stato il responsabile della manovalanza nella Valle dei Re e delle Regine. La piramide, ha spiegato Ibrahim, era alta quindici metri per una larghezza di dodici ed è stata rinvenuta da una missione belga.

Repubblica 22.2.13
Fra i delusi di piazza Tahrir “Così i Fratelli musulmani portano l’Egitto al disastro”
Le paure del Paese a due anni dalla fine di Mubarak
di Bernardo Valliu


IL CAIRO IL QUALE ha abbattuto la dittatura del raìs e ha aperto il Paese a libere elezioni: e nelle urne, con la legittimità del voto, i Fratelli musulmani si sono imposti. È stato uno scippo legale. Appropriatisi della rivoluzione, gli islamisti le hanno dato altri ritmi e altri obiettivi. L’hanno cambiata. Trascinata in ritardo in piazza Tahrir dai suoi affiliati più giovani, la conservatrice confraternita dei Fratelli musulmani è stata strappata dall’opposizione, e ha cominciato sulle piazze in rivolta un aggiornamento forzato, qualcosa di simile a una rivoluzione interna all’area islamista. A sdoganare i Fratelli musulmani hanno contribuito gli americani favorevoli a una svolta democratica e convinti, a ragione, che gli islamisti moderati sarebbero stati una forza inevitabile. Ma adeguare alla pratica di governo in un Paese con forti punte di modernità e altrettante di arretratezza, e in preda a fermenti democratici, un movimento ancorato a rivelazioni religiose di un millennio e mezzo fa, esige una transizione lunga e irta di incognite. È il caso egiziano.
In un primo pomeriggio, con un pallido sole invernale che si riflette sul Nilo, trascorro alcune ore al Ghezira club, nell’isola cairota di Zamalek, dove sopravvive un campo da golf lasciato in eredità dagli ufficiali britannici. Lì si riunisce da decenni la borghesia, in cui sono confusi figli o nipoti o pronipoti della classe aristocratica cancellata dagli «ufficiali liberi» che nel 1952 cacciarono re Faruk e proclamarono la repubblica. Rievoco quell’avvenimento storico perché 60 anni dopo al Ghezira club si confida nei discendenti di quegli ufficiali per contenere l’ondata islamista. A tratti ho l’impressione di essere capitato in un fortino dove la società laica borghese si riunisce nell’attesa che la cavalleria la tragga in salvo. La tazza di tè vibra nella sua mano tremante per l’emozione, quando una decana del club mi esalta gli ufficiali ai quali affida la propria sorte. Quegli stessi ufficiali che al tempo del socialismo nasseriano la spogliarono di quasi tutti i beni. Poi in parte restituitigli dai raìs più liberisti.
Più che un lamento è un grido d’allarme: i Fratelli musulmani stanno occupando quella vasta, inesplorabile foresta che è l’amministrazione egiziana; preparano leggi liberticide; non è nelle prigioni o nelle loro opere caritatevoli o nell’esilio, dove hanno sempre vissuto, che hanno imparato a governare: infatti stanno conducendo il Paese al disastro economico. Le accuse non sono rivolte tanto all’azione del governo quanto alle sue intenzioni, meglio ancora alla sua natura, a quel che i suoi principi religiosi lo condurranno a fare. Serve a poco sottolineare l’assenza, per ora, di nuove leggi repressive; la libertà di espressione non seriamente compromessa, se si pensa alle censure in vigore fino a due anni fa; la non intromissione nella vita quotidiana dei privati cittadini; le scuse per le violenze della polizia da parte del governo che per la verità non sempre le evita. La reazione a queste obiezioni è immediata: si preparano, non hanno fretta, devono inoltre tener conto del giudizio internazionale, poiché l’Egitto dipende economicamente dall’estero (per il turismo e gli investimenti) e la situazione è pessima. Ma non cambieranno. Ribatto che anche dei comunisti si diceva la stessa cosa. La risposta è decisa: i sovietici avevano 70 anni, qui parliamo di secoli. E poi gli islamisti «sono bugiardi», non scoprono mai le carte. Barano.
In realtà l’islam politico espresso nei nostri giorni è stato inventato negli anni Venti con l’intenzione iniziale di strappare l’islam dalla decadenza riportandolo alla sua identità religiosa e proteggerlo dai modelli (comunismo e democrazia) proposti dall’Occidente. Benché non violento, da quel movimento, via via clandestino, perseguitato, ufficioso, oppositore o complice del potere, si sono staccati individui tentati o coinvolti nel terrorismo, e si sono sprigionate frange jihadiste. Ma l’islamismo moderato di oggi non sembra sentire il richiamo del jihadismo, in declino anche se chiassoso. La via democratica scelta risulta tuttavia impervia. Il codice che ne regola il traffico non è fatto di dogmi religiosi, ma di principi elastici, di tolleranza, e il potere non è mai assoluto come quello proveniente dall’alto. Insomma, non si sente sempre a proprio agio chi pensa di interpretare verità rivelate. Non era certo a suo agio l’ala estrema dell’islamismo, quella salafita, e ha tuttavia rinunciato a molti principi e ha accettato il gioco democratico presentando candidati alle elezioni, e conquistando un quarto dei seggi nella Camera bassa. In quanto alla “sincerità” in termini politici non è pertinente, in particolare nelle convulse evoluzioni della storia quando è la realtà a dettare i comportamenti.
L’insurrezione di piazza Tahrir, prima di essere confiscata dagli islamici, ha dato il via a un processo democratico che ha ampliato abbastanza il formale pluralismo da vietare all’attuale governo di realizzare i progetti covati quando sognava una società sottomessa ai principi coranici. Forti e numerosi partiti laici d’opposizione lo incalzano, lo controllano e ne denunciano gli abusi. L’evidente esitazione con cui i ministri e lo stesso presidente agiscono può essere dovuta all’imperizia, all’incapacità, ma anche ai dubbi, ai ripensamenti paralizzanti. Rivela un travaglio, un dibattito nel partito Libertà e giustizia, espressione politica della Confraternita dei Fratelli musulmani. Insomma è più facile immaginare gli islamisti trasformati dall’esperienza al potere, che pensare a un paese islamizzato da loro, nell’epoca in cui viviamo. L’Egitto non ha la possibilità di chiudersi come le grandi nazioni petrolifere, quali l’Arabia Saudita, o il persiano Iran degli ayatollah. Dipende dall’esterno. Conta inoltre la sua storia e il fatto che vi viva l’importante collettività copta. Cavalcare una rivoluzione violata non sarà comunque facile. Per questo i miei conoscenti del Ghezira club contano sull’esercito, come estremo ricorso. Il precipitare degli avvenimenti, l’esplosione di violenze sociali, o le repressioni poliziesche, tutte possibili, possono vanificare i pronostici ottimisti. E la situazione è giudicata esplosiva da molti.
I militari restano sullo sfondo. Il governo islamico e il presidente Morsi, eletto al suffragio universale diretto, devono tenerne conto. Fanno parte del panorama politico e sociale. E’ una peculiarità dell’Egitto. Erano 438mila gli uomini in servizio e 479mila i riservisti nel 2011. E sono alla testa di un impero finanziario: controllano in larga parte la produzione dell’olio d’oliva e dell’acqua minerale, le pompe di benzina e il mercato immobiliare, l’industria della pesca e vaste aree turistiche… Si calcola che più di un terzo dell’economia (alcune valutazioni salgono al 40%) sia nelle loro mani. Ma il potere e il prestigio di cui usufruiscono provengono anche dal mai trascurato rapporto con la popolazione. Essere ammessi all’Accademia militare non è soltanto un onore, ma anche una delle rare occasioni di promozione sociale per i giovani delle classi meno favorite. Lo spirito dei bikbachis (i colonnelli) promosso da Nasser, che aveva quel grado quando tramò ed eseguì il colpo di Stato del ‘52, impone di non trascurare i mutamenti nel paese. Il fatto che in tutte le classi sociali ci siano famiglie con qualche membro nelle Forze armate ha creato un forte legame tra la gente e la società militare. Ed è proprio una vera società quella che si è formata in 60 anni, con i suoi club, i suoi quartieri, le sue scuole, i suoi ospedali; e che per 60 anni ha dato i capi di Stato, ed è stata la spina dorsale del regime. Ha dovuto anche reprimere per combattere il terrorismo, controllare i Fratelli musulmani o sedare le rivolte del pane (come nel 2008), ma in generale l’esercito ha cercato con abilità di non apparire, pur essendolo, un puro strumento di forza al servizio del potere. Nonostante le sfortunate guerre con Israele (1948-’49, 1956,1967,1973) i militari non hanno perduto il rispetto degli egiziani. E a questo ha contribuito, la grande abilità dei generali, più esperti in politica e in diplomazia che in strategia.
È raro imbattersi in un ufficiale per le strade del Cairo. Non si nascondono, sono riservati. Anche quello che incontro sul ponte di Zamalek vorrebbe esserlo, ma impettito com’è, inguainato nella divisa beige, con le scarpe nere e la cartella sotto il braccio, domina con la sola silenziosa presenza il quasi completo campionario della folla cairota sul punto di passare da una sponda all’altra del Nilo. Il giovanotto in divisa, con la sua espressione distesa, sembra essere il punto di sostegno del caos umano circostante: donne velate e guantate, ed altre in jeans aderenti, uomini incollati ai cellulari, facchini impolverati con carichi esagerati sulle spalle, burocrati altezzosi e ragazzi che urtano i passanti invocando un’elemosina. Tutti i passanti, tranne uno. L’ufficiale.
Il rispetto per l’esercito ha fatto sperare invano ai democratici, ai promotori della primavera, che i militari avrebbero finito per difendere la rivoluzione, anche ritardando le elezioni perché se indette in gran fretta sarebbero state vinte come è accaduto dagli islamici di gran lunga meglio organizzati. L’esercito ha esaudito alcune domande di piazza Tahrir, in particolare ha spinto alle dimissioni Mubarak, chiuso i suoi figli in prigione, proibito la sua formazione politica, il Partito nazional democratico, ha incontrato i manifestanti, e adottato un calendario costituzionale. Ma invece di intendersi con i liberali di piazza Tahrir e di accogliere le loro rivendicazioni sociali e politiche, la gerarchia militare ha gestito il dopo Mubarak difendendo i propri interessi, al fine di mantenersi al potere. In sostanza ha tenuto in piedi il vecchio ordine istituzionale, ha neutralizzato gli avversari laici e islamisti aizzando gli uni contro gli altri, è riuscita a mantenere segreto il proprio bilancio e a conservare il diritto dei tribunali militari di giudicare i civili per alcuni reati.
Dopo avere scaricato Mubarak la gerarchia ha rinnovato anche gli alti gradi: ai generali decrepiti sono succeduti generali meno anziani. Favorendo la gara elettorale, quindi rispettando la formale via democratica, ha finito con l’appoggiare per a prima volta l’ascesa non solo di un civile ma di un fratello musulmano alla massima carica dello Stato. Creando di fatto un’intesa, non gridata ma evidente, tra conservatori militari e conservatori islamisti. Destinati a controllarsi a vicenda. Gli americani non possono che essere rassicurati. Finanziano i militari egiziani (un miliardo e 300 milioni all’anno) in quanto garanti degli accordi di Camp David con Israele, e sanno di poter contare su di loro per evitare eccessi coranici al governo. Per il momento da piazza Tahrir è nata una democrazia di stampo militarislamica. Una democrazia provvisoria.

Repubblica 22.2.13
Il capitalismo dal volto umano
di John Lloyd


Due libri usciti in Gran Bretagna offrono idee e proposte nuove per combattere lo strapotere delle grandi imprese e riformare l’economia

Trovare il modo di domare e umanizzare il capitalismo — la missione che si sono proposti per un secolo i socialdemocratici — non è impresa da poco. Il sistema capitalista nelle sue svariate forme si è rafforzato grazie alla “vittoria” sul comunismo e il socialismo statalista dopo il collasso dell’Unione Sovietica e dopo che anche la Cina ha adottato i principi e la pratica dell’economia di mercato. Sembrava proprio, come era convinta Margaret Thatcher, che non esistesse alternativa al capitalismo libero di espandersi senza limiti.
Sono stati il crollo del 2008 e la crisi di lungo periodo che ne è seguita in Europa e nel resto del mondo ad aprire nuovi orizzonti. Questo non significa che le forze di centrosinistra siano state facilitate nell’andare al potere: di tutti i paesi
europei solo la Francia ha un governo di sinistra e l’Italia potrebbe averne uno tra pochi giorni. Il significato del cambiamento è invece un altro: trovano molto maggiore ascolto che in passato le nuove idee e le proposte per la trasformazione del libero mercato in un fattore positivo — e non negativo — rispetto agli interessi degli individui.
Escono in questi giorni due libri, entrambi di autori britannici, che si collocano nel cuore di questo dibattito con approcci innovativi. L’autore del primo libro,
Firm Commitment, (Oxford University Press, il titolo è un gioco di parole tra “impegno convinto” e “l’impegno dell’azienda”, ndr) è il professor Colin Mayer dell’Università di Oxford — ha fondato e diretto la business school di quell’Ateneo — ed è uno dei teorici più rispettati nel mondo della finanza e degli affari. Il secondo autore, Geoff Mulgan, è stato il principale consulente politico di Tony Blair e guida adesso la più importante agenzia britannica per la promozione dell’innovazione tecnologica. Il suo libro s’intitola:
The Locust and the Bee.
Né l’uno né l’altro credono che il capitalismo sia in declino terminale: entrambi sono però convinti che, per usare le parole di Mayer, «la negligenza, l’incompetenza
le frodi delle quali si sono rese responsabili le “corporation” rappresentano un pericolo per la nostra sopravvivenza e quella del mondo in cui viviamo».
Si tratta di un giudizio pesante che riguarda le principali istituzioni economiche nella maggioranza delle economie mondiali, l’origine dei prodotti che compriamo e usiamo, la fonte dei servizi che ci sono necessari e delle occasioni di lavoro per tutti noi. Se davvero quelle istituzioni sono «un pericolo per il mondo in cui viviamo», allora è necessario fare qualcosa per cambiarle sostanzialmente.
Mayer è convinto che numerose società, specialmente quelle la cui proprietà è parcellizzata tra molti azionisti — come spesso negli Stati Uniti e anche di più in Gran Bretagna — operano in una pericolosa logica di breve periodo. Nel caso britannico, un azionista che nello spazio di pochi giorni acquista e vende azioni nella speranza di un profitto immediato, ha gli stessi diritti di un investitore di lungo periodo. È un po’ — scrive Mayer — come «se concedessimo il diritto di voto a quei cittadini che sono pronti a rinunciare alla cittadinanza il giorno dopo». Cercare di combattere questa tendenza alla estemporaneità non è possibile: le regole esistono per essere aggirate, mentre la responsabilità sociale dei grandi gruppi, industriali o finanziari, è efficace quanto un cerotto su una ferita purulenta. Mayer afferma che le società a proprietà
familiare — molto diffuse in Germania e in Italia — sono in genere più attente all’investimento di lungo periodo proprio perché la proprietà familiare ha interesse a preservare e reinvestire per garantire continuità.
Mayer crede anche nelle trust firm che si autoimpongono tre principi fondamentali: 1) valori proclamati pubblicamente dagli investitori, clienti, impiegati, azionisti e non dannosi per l’ambiente; 2) la garanzia del rispetto di questi valori da parte di un consiglio di amministratori fiduciari che non gestisce la società ma è garante degli interessi degli investitori; 3) il diniego del diritto di voto agli investitori di breve periodo e la garanzia agli azionisti di lungo periodo di ricevere un trattamento privilegiato, maggiore controllo, e la possibilità di trasmettere valori generazione dopo generazione.
Mayer vuole un capitalismo di lungo periodo e capace di proteggere gli interessi dei lavoratori, dei consumatori e dell’ambiente. Non si tratta di una proposta facile da realizzare e non risolverebbe un caso come quello dell’Ilva. Ma se l’Ilva fosse stata una
trust firm, uno dei suoi valori sarebbe stata la protezione dell’ambiente e della salute della comunità di Taranto. Sarebbe forse stato più probabile che i suoi investimenti garantissero l’acquisizione di tecnologia per eliminare o almeno ridurre il rischio ambientale.
La società, prevede nel suo libro Mulegan, richiederà cambiamenti radicali. Il capitalismo, «vasto sistema in moto perpetuo che spinge e tira» — un po’ come un treno a vapore della prima industrializzazione — è allo stesso tempo fuori e dentro di noi, producendo una sensazione di inevitabilità delle cose. Nello stesso tempo cresce il senso di astrattezza al vertice, nelle sale delle direzioni delle grandi corporazioni e delle banche — in un mondo ben lontano da quello degli scambi dei beni e dei servizi e dalla vita di tutti i giorni. Mulgan è convinto che, se lasciato a se stesso, il capitalismo si sarebbe già autodistrutto: per sua fortuna le crisi — specialmente i crolli e le depressioni degli anni Venti e Trenta — hanno messo in moto, prima e dopo la guerra, gli interventi dello Stato, a loro volta motore di nuovi corsi, dello stato sociale e del dialogo tra capitale, lavoro e governo che hanno assicurato il futuro post-bellico del capitalismo.
Il messaggio di Mulgan è che il capitalismo deve e può essere civilizzato perché gli obiettivi della società non si valutano solo in moneta ma per la loro capacità di sostenere vite piene, ricche di relazioni, di appagamento e di affetti. Secondo l’autore di
The Locust and the Been non è soltanto idealismo: «Assistiamo al nascere di un’economia fondata più sulle relazioni che sui beni di scambio, sul fare più che sull’avere, sul mantenere più che sul produrre». Mulgan, poi, aggiunge consistenza al
suo obiettivo di «premiare quelle parti del capitalismo che a loro volta premiano la dimensione della vita di relazione ». Questo potrà avvenire grazie all’intervento dello Stato e delle istituzioni della società civile per raggiungere quell’equilibrio a misura d’uomo che non può nascere spontaneamente e allo stesso tempo, salvare la dimensione libertaria della società e del capitalismo anche al costo di cambiargli i connotati.
Sono abbozzi, non progetti dettagliati, ma aprono nuove strade tutte da esplorare per chi si riconosce nel centrosinistra. I pilastri della socialdemocrazia del secondo dopoguerra erano sindacati forti e responsabili, lo stato sociale, le politiche economiche keynesiane e una società liberale. Tutti risultati che sono adesso in pericolo e certamente indeboliti come mai prima d’ora.
La sinistra ha bisogno di nuovi approcci. La maggioranza dei partiti di sinistra non vuole più la nazionalizzazione delle grandi imprese e delle banche: al contrario quando queste sono sull’orlo del tracollo — come molte banche sono state e potrebbero ancora esserlo negli Stati Uniti e in Europa — approvano l’uso di fondi di Stato per tenerle in piedi. Questo non basta, i partiti della sinistra devono divulgare e rendere accessibili le idee proposte da Mayer e Mulgan: il capitalismo in tutte le sue forme è il servo, non il padrone della società e gli eccessi e gli errori di cui è responsabile e che hanno ferito e potranno ancora ferire la società devono essere corretti.
Stabilire nuove regole non è sufficiente. Come scrive Mayer, lo sappiamo bene in Italia, ma non solo: fatta la legge, trovato l’inganno. È necessaria una trasformazione profonda del diritto d’impresa che si preoccupi di garantire presente e futuro degli investitori così come di coloro che si spartiscono i dividendi. E il ruolo dei cittadini è quello di pretendere che il capitalismo sia responsabile davanti a loro delle proprie scelte: se vuole continuare a esistere e produrre profitto deve essere il primo a servire gli interessi della società.

Repubblica 22.2.13
Un trono vacante è da sempre un pericolo da evitare o nascondere. E non solo dal Vaticano
I nostri esorcismi per nascondere il vuoto di potere
di Marino Niola


«I re dovrebbero essere immortali», dice il sovrano. E la regina gli risponde: «Hanno un’immortalità provvisoria». In questo scambio di battute tra Bérenger e Marguerite, i protagonisti de Il re muore, Eugène Ionesco fa lampeggiare il grande paradosso della sovranità. Sempre in bilico tra la perennità della carica e la possibilità della sua interruzione, tra l’immortalità del regno e la mortalità del re. Che resta la ferita inguaribile del potere, costitutivamente sospeso tra ordine e caos, come su una lama di coltello. Perché in ogni sistema politico, da quelli primitivi ai grandi stati moderni, il capo supremo è di fatto l’incarnazione della legge — lex est in pectore regis.
Per la stessa ragione la sua debolezza e ancor più la sua morte rappresentano il vuoto che minaccia la società dall’interno, il cuore di tenebra della politica.
Tutte le società temono l’interregno e cercano di farlo durare il meno possibile. E anche il Vaticano oggi cerca di accelerare — attraverso l’annunciato motu proprio — i tempi dell’inedito limbo tra le dimissioni di un Papa e l’elezione del successore. Il trono vuoto è sempre stato un pericolo, tanto che in passato si è tentato di occultarlo simbolicamente, con riti e cerimonie che costituiscono, di fatto, veri e propri esorcismi istituzionali contro l’assenza di potere, contro la sospensione delle regole che, di fatto, fa ammalare il corpo sociale di una malattia mortale. Un re assente (morto o malato che sia) rende, come scrive Eliot, la Terra desolata.
Un tempo con il monarca, moriva anche la giustizia. Negli antichi reami africani della costa di Guinea alla notizia della morte del re ciascuno si precipitava a derubare il vicino di casa senza che nessuno avesse diritto di punirlo. Solo con l’incoronazione del successore l’ordine tornava a regnare.
E l’Europa delle grandi monarchie non era da meno. Anche se l’esplosione di violenza non era sempre cieca e a volte prendeva di mira gruppi etnici particolari. Come gli Ebrei. In Inghilterra il periodo che andava dalla morte del sovrano all’incoronazione del nuovo re era spesso l’occasione di un pogrom antisemita. Nei giorni dell’ascesa al trono di Riccardo I, nel 1189, a Londra si scatenò un’autentica caccia all’ebreo, che le fonti dell’epoca chiamano già holocaustum.
Lo racconta lo storico Sergio Bertelli in un bellissimo libro intitolato Il corpo del re, che è ormai un classico in materia di rituali del potere.
Gli antichi giuristi chiamavano l’interregno justitium proprio perché comportava la sospensione di tutte le attività giudiziarie. Di fatto era il solstizio della sovranità, un’interruzione angosciosa delle regole.
Per evitare che il vuoto di potere facesse precipitare la società nel caos oppure per avere il tempo di preparare la successione, si cercava di prolungare artificiosamente il commiato del morto allungando i tempi della sua definitiva uscita di scena. L’idea era che fino a che non fosse avvenuta la decomposizione del cadavere regale si dovessero ancora fare i conti con il corpo del re, o del pontefice se si trattava di papi. E l’autorità non poteva essere trasmessa al suo successore. Come dire che la mano del defunto non ha più la forza di reggere lo scettro, ma non ha ancora lasciato la presa.
Addirittura in molte società si arrivava a costruire un simulacro del sovrano, di cera o di cuoio, che veniva messo nel suo letto e assistito come un ammalato grave. I medici visitavano continuamente il manichino e ne constatavano il peggioramento minuto per minuto. Fino a dichiararlo morto al momento opportuno. Nella Roma imperiale questo rito si chiamava funus imaginarium,
ovvero funerale dell’immagine. E si concludeva con una processione solenne, con tanto di senatori e matrone. E con il rogo finale del fantoccio che veniva arso su una pira riempita di aromi e incensi che lo trasportavano in cielo tra gli dèi. Solo allora il re era veramente morto.
Anche alla corte di Francia veniva apparecchiato un manichino somigliante al sovrano defunto ed esposto nella sala d’onore alla vista della corte. Che continuava ad offrigli i servizi dovuti alla sua maestà. Come la vestizione, il pranzo, l’abluzione delle mani. E solo al momento del compimento della successione l’effigie usciva di scena.
Nel caso di quei particolari sovrani che erano i pontefici, la morte invece non poteva essere tenuta nascosta perché non c’erano eredi al trono. La sospensione della legge era irrimediabilmente simboleggiata dalla rottura dell’anello piscatorio. E spesso — dal medioevo fino al 1600 — seguita da violenze e saccheggi che facevano di Roma una terra di nessuno. Nonostante i decreti pontifici cercassero di mettere un freno a rituali vandalici come l’assalto ai palazzi lateranensi, che seguiva ogni morte di papa, la dura legge dell’interregno non fece mai sconti al Vaticano.
Nel 1484, alla morte di Sisto IV il palazzo del nipote del papa fu distrutto dalla folla in tumulto. Spesso a dare inizio ai saccheggi erano addirittura parenti e vicini del papa defunto che, per così dire, se ne dividevano le spoglie con una certa animosità. E c’era anche il rituale della spoliazione violenta dei beni del nuovo eletto. Il caso più celebre è quello del raffinato umanista Enea Silvio Piccolomini, salito al soglio pontificio col nome di Pio II nel 1458. Non fece nemmeno in tempo a indossare la tiara che i cardinali suoi colleghi di conclave si precipitarono ad assaltare la sua cella per fare piazza pulita di ogni suo avere. In questi casi la violenza dilagava per le strade e arrivava alla distruzione del palazzo del neopapa. E quando nel 1559 morì Paolo IV, al secolo Gian Pietro Carafa, la plebe capitolina occupò il palazzo dell’Inquisizione e liberò tutti i prigionieri. Eretici compresi. A condizione però che giurassero fedeltà alla Chiesa.
Se l’interregno dunque fa entrare nel corpo sociale un virus dalla potenza incalcolabile, gli uomini si difendono da sempre ricorrendo all’arma del rituale. Che funziona come un anticorpo simbolico iniettato nelle vene della società. Per scongiurare la carica distruttiva del vuoto. Reincarnando la legge in un nuovo corpo. Come dire il re è morto, viva il re.

Repubblica 22.2.12
Herzog: “I miei due Foscari in una Venezia da glaciazione”
di Leonetta Bentivoglio


ROMA È il regista degli eccessi romantici, delle catastrofi ambientali o anche passionali, della ricerca inestinguibile d’infinitezza. Film come Aguirre, furore di Dio, L’enigma di Kaspar Hauser, Fitzcarraldo e Grido di pietra hanno eletto il tedesco Werner Herzog come un campione del cinema mondiale e un amante dei terrori estremi che conta su una cerchia agguerritissima di fan. In questi giorni il grande cineasta sta lavorando all’Opera di Roma per montarvi l’opera verdiana I due Foscari, con la direzione orchestrale di Riccardo Muti (debutto il 6 marzo, repliche fino al 16). Da tempo Herzog si dedica alla lirica “di sguincio”, tra un film e l’altro, come un outsider estraneo alle mode, e da fervente appassionato di musica che però diserta le case d’opera: «Ascoltare i dischi sollecita in me scenari mentali “disegnati” e profondi. Perciò odio assistere a visioni sceniche concepite da altri, diverse da ciò che immagino io, e quindi irritanti e invadenti. Credo di aver messo piede in un teatro, come spettatore, non più di due volte».
Il settantenne Herzog (è del ’42) ha portato con sé in Italia la giovane e diafana moglie siberiana Lena, fotografa, linguista e soprattutto «donna d’intelligenza superiore», sostiene l’innamoratissimo marito, che si presenta come un uomo pallido e terribilmente risoluto, capace di narrare le sue molte imprese con un tono d’invasamento freddo: «Vivo a Los Angeles e giro un film dopo l’altro. Ne ho appena realizzati quattro di un’ora ciascuno, tra il Texas e la Florida, sulla pena di pena di morte, che registrano l’attesa dei condannati. Sono documenti di un’intensità devastante». Si presta volentieri a recitare come attore, e di recente ha interpretato «la parte di una canaglia nel filmone hollywoodiano Jack Reacher accanto a Tom Cruise, ragazzo simpatico». Tra le sue avventure artistiche ci sono anche installazioni che riuniscono musica e immagini («ne ho montata una, intitolata “Hearsay of the Soul”, che è stata esposta con successo al Whitney Museum, e che ora è richiestissima da altre istituzioni») e una strana scuola di cinema a cui si applica col solito terrificante entusiasmo: «Riunisco gruppi di giovani registi dopo selezioni durissime. Su mille richieste non prendo più di trenta allievi. Si lavora in stile di guerriglia, con seminari di molte ore, per tre o quattro giorni, concentrati nei grandi hotel degli aeroporti, a Londra o a New York». Riguardo alla regia de I due Foscari, opera ambientata a Venezia a metà Quattrocento, spiega che nel suo spettacolo «la città si riconosce solo in modo molto filtrato. Vi appare in una specie di rinascimento reso quasi astratto dalla scenografia di Maurizio Balò, ma anche rivisitato con gli occhi del Novecento, con riferimenti alle architetture del dominio e delle dittature. Ci hanno ispirato pure certe fotografie della laguna ghiacciata.
La nostra, infatti, sarà una Venezia immersa in un’epoca di glaciazione, e quest’idea si riflette nei costumi con pellicce. È una scelta che vuol esprimere il rigido status quo di una società raffreddata internamente, cioè priva di mobilità di classe».
Un aspetto moderno della trama, sostiene, è l’indifferenza della gente alle trame del potere: «Nel terzo atto diventa chiaro che al popolo non importa nulla della politica. La folla è attratta solo dalla regata e dal Carnevale. A un certo punto, nella mia regia, il coro girerà le spalle alla platea, mettendosi a osservare quel che succede in laguna. Gli spettatori lo vedranno quindi di schiena, mentre qualche giocoliere si esibisce per intrattenere i veneziani. Insomma tutti se ne infischiano di quanto accade nel palazzo del Doge, in una prospettiva della realtà cinica e contemporanea». Un altro elemento inusuale di quest’opera, che in quanto tale lo affascina, «è il prevalere dei cattivi rispetto ai buoni, cioè ai due Foscari, destinati a morire. Di solito si premia il pubblico con finali edificanti, mentre qui la fortuna sta dalla parte dei mascalzoni. Forse è anche questo il motivo per cui è un’opera non popolare». Invece a lui, provocatore e bastian contrario, piacciono solo gli itinerari impervi: «Non potrei mai misurarmi con la milionesima Aida. A me piacciono le sfide e i grovigli di problemi».