domenica 24 febbraio 2013

l’Unità 24.2.13
INTERVISTA AL SEGRETARIO DEL PD:
«SIAMO L’UNICA ALTERNATIVA ALLE MACERIE
POSSIAMO VOLTARE FINALMENTE PAGINA
RISPETTO A BERLUSCONI, AL LEGHISMO E AL POPULISMO»
Pier Luigi Bersani: «Solo il Pd può governare e cambiare»
«Il nostro successo potrà rendere più forte la battaglia in Europa per la crescita e l’equità»
di Simone Collini


È partito tre anni e mezzo fa, provando a «dare un senso a questa storia». Poi ha guidato l’opposizione al governo Berlusconi, e quando le dimissioni sono arrivate ha rinunciato a «vincere sulle macerie», lavorando invece perché si insediasse in fretta un esecutivo che allontanasse il Paese dall’«orlo del baratro». Oggi Pier Luigi Bersani rivendica le scelte fatte, convinto com’è che con queste elezioni per la prima volta il Pd può andare al governo e cambiare veramente l’Italia.
Lei ha scelto come slogan di questa campagna elettorale “l’Italia giusta”, ma cosa direbbe a chi vuole soprattutto che ci sia un cambiamento radicale nel Paese, a chi è orientato verso il cosiddetto voto di protesta?
«Noi possiamo uscire dalla crisi soltanto se non concediamo tutto alla protesta e alla sfiducia e, al tempo stesso, se comprendiamo che non si può governare senza cambiare. Governo e cambiamento vanno tenuti insieme, e il Pd è l’unico partito che può farlo».
Perché?
«Il Pd ha saputo leggere per tempo la situazione italiana, l’incrocio tra la crisi democratica e la crisi sociale, ha saputo rispondere all’esigenza di allontanare il Paese dall’orlo del baratro su cui era finito per colpa della destra, si è dimostrato un partito nazionale e non ha mai smesso di lavorare concretamente perché venisse colmata la distanza abissale che si è venuta a creare tra i cittadini e la politica. Facendo le primarie ci siamo assunti anche dei rischi, ma era la cosa giusta da fare. Non so cosa sarebbe l’Italia, ora, se il Pd non avesse compiuto quella che è stata sia una scelta di responsabilità che una sfida verso il cambiamento. È per questo che noi possiamo davvero metterci all’incrocio delle due esigenze che ha questo Paese, essere governato e cambiare».
Che bilancio dà di questa campagna elettorale?
«Sicuramente non è riuscita a svolgere il tema, che è come usciamo dalla crisi. Abbiamo ascoltato tante favole, visto tanti conigli uscire dal cilindro. Noi abbiamo resistito a chi ci sollecitava a spararle grosse e fatto una campagna elettorale che ci consentirà dopo le elezioni di dire le stesse cose che abbiamo detto prima del voto. I nostri due punti cardine sono moralità e lavoro. E come abbiamo mantenuto in queste settimane il nostro tratto, che è fatto di partecipazione, sobrietà, consapevolezza della vita comune e volontà di ricostruire e di riscossa, anche in futuro metteremo al centro i cittadini, la moralità pubblica, il necessario cambiamento».
A giudicare dalla chiusura di questa campagna elettorale il vostro principale avversario sembra più Grillo, che non Berlusconi: è così?
«Noi siamo alternativi alla destra, a Berlusconi, al leghismo. Ed è rispetto a questo che vogliamo voltare pagina. Dopodiché, sappiamo bene che la semina di questi governi berlusconiani e leghisti ha portato a uno stato enorme di insofferenza nel Paese. Gran parte di quello che definiamo Grillo è uno stato d’animo che raccoglie tanti affluenti, la voglia di cambiamento ma anche la sfiducia, la rabbia, il rancore, e pure l’egoismo di qualche settore che è responsabile della situazione che viviamo oggi. C’è tutto questo mescolato. Il problema serio, vero, è che questo stato d’animo che contiene anche spinte verso il cambiamento viene portato da Grillo, Casaleggio e compagnia su una strada che ci porta alle macerie, sia sul piano economico e sociale che sul piano democratico. Le parole d’ordine e le proposte di Grillo sono totalmente destabilizzanti e irrealistiche, propagandistiche e oniriche. Dice che non ci sono né destra né sinistra perché si muove in un orizzonte populista nel quale comunque, seppure in salse nuove, c’è la ricetta dell’uomo solo al comando, che abbiamo visto quali e quanti danni può provocare al sistema politico e al nostro Paese».
Ne ha incontrate di persone che votano Grillo, in queste settimane?
«Certo, molte anche giovani».
E cos’è che gli ha detto?
«Che con loro sono pronto a discutere di tutto, che io sono il primo a pensare che in questo Paese ci sia molto da cambiare, e che però sul tema della democrazia io non concedo un millimetro perché c’è gente che ci ha lasciato la vita per la democrazia». Dirà lo stesso ai parlamentari del Movimento 5 Stelle.
«Ma certo. Sul resto si discute di tutto, ma sul tema della democrazia avremo un confronto molto aspro perché non si può costruire il consenso sulle macerie».
Con queste elezioni si può dire che si compie un percorso che ha iniziato nel 2009, quando si è candidato alla segreteria del Pd: l’ha trovato, le chiedo ripensando al suo slogan di allora, «un senso a questa storia»?
«Il senso non è da trovare ma da dare. E sì, in parte ci sono riuscito, ora manca l’ultima tappa. La prima era l’idea che ci potesse essere un partito popolare che non fosse il partito di una volta, un partito che fosse il contrario del populismo, aperto, plurale ma unito, a disposizione della riscossa civica. E su questo abbiamo fatto veramente dei passi rilevanti». L’ultima tappa sono queste elezioni? «Non c’è solo il voto. È chiaro che il Pd è un partito riformista, che cioè non può vivere senza una prospettiva di governo, senza l’idea che i nostri valori debbano diventare dei fatti concreti. Per noi è una prospettiva ineludibile quella di essere un partito di governo. Ora siamo alla prova e può succedere che per la prima volta il Pd vada al governo del Paese. Ma poi c’è una terza tappa, che comincia».
Sarebbe?
«Noi abbiamo voluto fare del Pd l’alternativa vivente a un sistema politico ventennale imperniato sul populismo e sul personalismo. È un assetto politico pericoloso, disastroso, sconosciuto alle altre democrazie, che tende a riprodursi per analogia. Noi siamo l’alternativa a questo sistema e i democratici devono essere non solo orgogliosi di questa diversità, ma devono sapere che vinte le elezioni dovremo sì dar vita a un governo di combattimento, per le riforme, per il cambiamento, ma dovremo anche continuare la battaglia per riformare il sistema politico, aprendo un orizzonte che vada oltre la prossima legislatura».
Parlava di sistema imperniato sul personalismo che tende a riprodursi per analogia: un riferimento a Monti, che dopo aver dato vita a una sua lista ha a fasi alterne evocato la centralità delle forze moderate e l’ipotesi della grande coalizione?
«Quello che a me sorprende è che ancora qualcuno ricada nell’idea che possa esserci una riconversione moderata e liberale della destra, quando la realtà storica di questo Paese dice il contrario, e cioè che la pulsione di destra da noi è prevalentemente di tipo populista. Evidentemente, o si persevera nell’illusione, o si vuole impedire ai riformisti, alla sinistra, di raggiungere l’obiettivo. Ora basta, ci si rassegni all’idea che l’unico soggetto in grado di reggere governabilità e cambiamento è quello che sappia essere sociale e liberale, e che abbia le sue radici popolari in un’area di centrosinistra».
Sta rivedendo la sua strategia circa il rapporto tra progressisti e moderati? «Ma no, io ho sempre detto che intendo governare cercando il confronto più ampio possibile, né escludo il rapporto con una soggettività centrale, moderata. Ma l’idea che questa posizione sia quella che può dettare il compito è infondata, nella realtà di questo Paese. Ribadisco la massima attenzione e disponibilità a discutere con queste posizioni, purché si prenda atto del dato di fondo, e cioè che queste soggettività devono concorrere, non possono pretendere».
Teme la reazione dei mercati nel caso martedì mattina non ci sia un quadro di governabilità?
«I famosi mercati hanno solo l’esigenza che ci sia qualcuno che riesca a orientare, a mettere il Paese su una strada sicura. Ma non ci sono soltanto loro, tutti, anche i nostri partner europei, sono preoccupati che dalle urne esca un esito chiaro e che il tema del rigore possa accompagnarsi a una prospettiva per l’occupazione. Come solo il centrosinistra può garantire. Noi senza l’Europa andiamo poco lontano, e se dalle urne dovesse uscire un messaggio di incertezza e antieuropeismo sarebbe una situazione piuttosto seria, per noi ma non solo. Per questo chi vota deve sapere che il risultato delle elezioni in Italia sarà importante anche per evitare di ritrovarci completamente isolati sul piano internazionale, per dire la nostra in Europa, per contribuire a far voltare pagina e affiancare anche a livello comunitario alle politiche del puro rigore misure per gli investimenti, l’occupazione e una maggiore giustizia sociale».

Repubblica 24.2.13
Il leader Pd: “Per come è messa l’Italia non si può sbagliare”
Bersani tra gli amici di Piacenza “Calmi, andrà bene: non è il 2006”
di Marco Marozzi


PIACENZA — «Ragazzi, stavolta ce la facciamo. Ma che fatica». Pierluigi Bersani arriva in via Giovanni Campesio che Piacenza ormai è tutta bianca. I dirigenti del Pd gli dicono che i sindaci soprattutto dei paesi della montagna sono preoccupati che la gente non vada a votare. «C’è chi sta a Milano, fino a Genova…». Lui sospira: «Calmi, andrà bene». E a chi gli ricorda il Prodi 2006 lui risponde: «Allora non c’era il Pd. Vendola non è Bertinotti, non ci sono dodici partiti. Per come è messa l’Italia non si può sbagliare. Abbiamo il senso della responsabilità di quel che ci aspetta. Ce la faremo. Ragazzi, qui il problema primo è il lavoro e solo noi abbiamo un’idea chiara in testa».
Stessa linea del Professore bolognese appena tornato da Mosca, dalle feste putiniane per Gazprom. Stessa di Vasco Errani, il presidente dell’Emilia- Romagna che voterà nella sua Ravenna, il collaboratore numero uno da decenni che sarà sottosegretario alla presidenza del Consiglio (se il centrosinistra vince…) e dovrebbe rimanere commissario per il terremoto. Il Pd stringe la file. «Nove mesi a girare l’Italia. — raccontano i
collaboratori di Bersani — E lui quando decideva una linea, una scelta, ha sempre tirato diritto. Senza impaurirsi per le critiche, nemmeno per le preoccupazioni degli amici. Una tensione continua».
A Piacenza Bersani si chiude nella villetta bianca di via Campesio con Daniela, la dottoressa Ferrari appena andata in pensione dalla farmacia comunale di Bettola in cui lavorava, con Elisa e Margherita, la prima arrivata da Milano dove lavora, la seconda da Parma dove studia. Hanno 28 e 20 anni, le figlie già donne; la signora Ferrari in Bersani dovrà (se il centrosinistra vince…) rivedere forse qualcosa nella sua appuntita autonomia che l’ha fatta sempre rimanere volutamente — lei iscritta e militante Pd — nella retrovia politica del marito. Fra Bettola e Piacenza. Già anni fa aveva annunciato che sarebbe andata a Roma «accanto a Pier Luigi, tanto le figlie sono già grandi» e invece non ha mai rinunciato al posto in farmacia nel paese piacentino dove lei e il marito sono nati.
Questo sabato sera si è rimasti tutti in casa, niente mitica «pizza sacchio » dagli amici della Pizzeria Boomerang. Causa neve e stanchezza. Alla pizzeria, in via Lanza, contano di fargli feste da premier. Oggi alle 11 i Bersani votano in gruppo alla Scuola elementare Renzo Pezzani in via Emmanueli 30, sezione numero 37. Tutte le domeniche poi la famiglia va a pranzo dai nonni, da Carla e Gino Ferrari, su a Bettola, alle pendici della Valnure. Ma oggi probabilmente si salta l’appuntamento e già nel pomeriggio parte per Roma. Ad attendere.
C’è tempo per la polenta e merluzzo preparati nel giorno delle primarie. Questa domenica, questo lunedì si pensa a Berlusconi e soprattutto a Grillo. «Capisco chi va in piazza per Grillo, io ce l’ho con Grillo. Ho parlato con ragazzi in birreria che votano Grillo. Ma sulla democrazia non si scherza, c’è gente che c’è morta e l’uomo solo al comando non lo accetto e su questo il Pd sarà inflessibile ».

l’Unità 24.2.13
Roger Liddle
Presidente di Policy Network, è stato consigliere speciale di Blair per gli affari europei, oggi è advisor del presidente della Commissione europea
«Il Pd è l’antidoto ai populismi»
di Umberto De Giovannangeli


«Impedire col voto che Silvio Berlusconi torni alla guida dell’Italia, non è solo nell’interesse degli italiani, è nell’interesse dell’Europa». Parola di lord Roger Liddle, presidente di Policy Network, il più autorevole tink thank del Regno Unito. «Berlusconi rimarca Liddle, storico consulente speciale di Tony Blair sugli affari europei, advisor del presidente della Commissione Europea Josè Manuel Barroso ora prova a cavalcare la diffidenza e l’ostilità verso una Europa che ha saputo solo praticare e imporre l’austerità collettiva. Ma il Cavaliere d questa sciagurata politica è stato partecipe, un corresponsabile “smemorato”». In questo scenario, rimarca il presidente di Policy Network, «il sostegno al Pd e al suo leader Pier Luigi Bersani è l’unico, vero “antidoto” ai populismi che fanno leva sul malessere sociale indirizzandolo contro non l’Europa dei conservatori, ma contro l’Europa in sé».
Le elezioni in Italia, come quelle dello scorso anno in Francia e le elezioni del settembre prossimo in Germania, avvengono all’interno di un quadro di crisi. Obiettivo delle forze di sinistra e progressiste europee è quello di determinare una svolta rispetto al ciclo conservatore che ha segnato L’Europa di questo inizio secolo. Qual è stato il segno del ciclo conservatore?
«Il segno di una austerità collettiva. Qualche settimana fa David Cameron, primo ministro britannico, ha sbandierato ai quattro venti di voler negoziare un nuovo “set” di regole tra il Regno Unito e l’Unione Europea. Personalmente, non riesco davvero a capire da che cosa il conservatore Cameron intenda fuggire, visto che è la stessa austerità collettiva che lui sta imponendo in tutta Europa».
Cameron fa questo da solo?
«No, assieme a lui ci sono altri personaggi inquietanti che ora cercano di vestire altri panni...».
A chi si riferisce?
«Uno per tutti: Silvio Berlusconi. L’uomo che ora sta cercando di convincere il popolo italiano che lui non c’entra niente, ma proprio niente con quelle politiche conservatrici che hanno messo in ginocchio l’Europa. Di quelle politiche fallimentari, che hanno contribuito a determinare una spirale recessiva, che hanno incrementato ed esteso le disuguaglianze sociali, di quelle politiche che hanno contribuito a far crescere l’ostilità e la diffidenza verso l’Europa e le sue istituzioni, Berlusconi è stato corresponsabile».
Da ciò cosa ne fa discendere?
«Una vittoria di Silvio Berlusconi sarebbe un disastro non solo per l’Italia ma per l’Europa. Impedirlo sarebbe già di per sé una ottima ragione per sostenere Pier Luigi Bersani. Ma il voto al Pd non è, visto dall’Europa, un voto “contro”, ma un voto “per”. Come lo è stato quello per Hollande in Francia e lo sarà per la Spd in Germania».
Un voto «per» cosa?
«L’Europa ha bisogno di nuove regole, di un nuovo profilo, soprattutto, ha bisogno di un nuovo paradigma di crescita. Ed è proprio questa la sfida per le forze progressiste e socialdemocratiche europee. La sfida per il cambiamento».
È la sfida della crescita. Ma come condurla?
«Puntando decisamente sulla ricerca e l’innovazione, investendo nell’istruzione e nelle politiche sociali, valorizzando il capitale umano, quello femminile in particolare. Non siamo alla semplice enunciazione di buone intenzioni. In questi mesi si è sviluppato un lavoro di
ricerca che ha visto protagoniste le fondazioni e i tink thank progressisti, una elaborazione che ha ispirato i programmi delle grandi forze socialiste e progressiste europee. Il progetto-Europa è ricco, articolato, e definisce con puntualità i caratteri di una Europa aperta, solidale. Il messaggio lanciato è chiaro: abbiamo bisogno di una nuova Europa, l’Europa dei diritti sociali. Essere pro o contro l’Europa, le sue istituzioni, la sua agenda, credo che è il vero spartiacque nel pensare future coalizioni nei singoli Paesi».
Restando all’Italia?
«Non mi permetto di indicare ipotesi di coalizione, dico solo che, visto dall’Europa, se il primo obiettivo è quello di impedire un ritorno al potere di Silvio Berlusconi, l’altro è quello che a vincere sia Bersani e che l’Italia possa avere un governo forte, autorevole, su cui convergano tutti i leader sinceramente europeisti. Bersani lo è certamente, così come lo è Mario Monti. Il Professore non ha quel profilo egalitario che è più vicino alle mie corde, cosa che possiede Bersani, ma ricordo che da Commissario europeo alla concorrenza ha fatto un ottimo lavoro, battendosi contro posizioni di monopolio».
Lei parla di una visione che si fa programma, proposta. Nel merito, qual è un terreno cruciale sul quale, a suo avviso, questa Europa progressista deve insistere con maggior forza?
«Un terreno cruciale è quello dell’unione fiscale. L’Europa per crescere non può accontentarsi della sola unione monetaria ma deve andare oltre. Occorre determinare un cambiamento sostanziale delle politiche fiscali, con l’obiettivo strategico di creare uno spazio comune fiscale che sostenga il Welfare. Ciò a cui tendere è una forma di federalismo fiscale che comporti di conseguenza l’adozione degli Eurobond, così come l’istituzione di un ministro delle Finanze. In questi anni i conservatori hanno bloccato il processo di consolidamento dell’Unione politica; sta alle forze di sinistra e progressiste rilanciarlo».
Cosa pensano in Gran Bretagna di Beppe Grillo?
«Di lui fino si sa poco, solo in questi giorni si comincia a parlare e scrivere di lui. Sull’Europa spara a zero, parla come Cameron. Di certo sa usare abilmente uno spirito anti-europeo che sta crescendo, diventando un argomento molto potente. Quanto a Cameron, invece di minacciare la rinegoziazione dovrebbe lavorare per una politica di riforme. Perché questo è nell’interesse della Gran Bretagna, pena una nostra marginalizzazione in un mondo globale».
Sul futuro dell’Europa che peso potranno avere le elezioni italiane?
«Un peso rilevante. Perché l’Italia è uno dei soci fondatori dell’Unione Europea, e perché l’Italia è ancor oggi una grande potenza industriale. La fiducia nell’Europa è oggi anche nelle mani dell’Italia. La mia speranza è che l’Italia scelga un futuro progressista».

l’Unità 24.2.13
Rigore e crescita, i progressisti segnano un punto in Europa
di Roberto Gualtieri

Europarlamentare Pd

L’ITALIA NON HA FUTURO FUORI DALL’EURO E LA DISCIPLINA DI BILANCIO COSTITUISCE UNA REQUISITO ESSENZIALE PER LA TENUTA DELLA MONETA UNICA. Al tempo stesso, come anche le recenti previsioni economiche della Commissione hanno certificato, la linea dell’austerità è fallita determinando un avvitamento recessivo e un crollo degli investimenti che non ha solo pesanti conseguenze economiche e sociali, ma che non consente neanche di conseguire l’obiettivo della riduzione del debito pubblico. La difficile quadratura del cerchio tra disciplina di bilancio e crescita, tra risanamento e investimenti, costituisce insomma il cuore del problema politico ed economico dell’Europa e dell’Italia, e la capacità di offrire credibili soluzioni a questo dilemma dovrebbe costituire il metro per giudicare i programmi dei partiti. Differenziandosi sia dalla acritica difesa del rigore che dai populismi irresponsabili, il Partito democratico e Bersani hanno puntato le loro carte sulla possibilità di correggere la linea di politica economica dell’Ue in senso più favorevole alla crescita e agli investimenti nel quadro del rafforzamento dei meccanismi di disciplina di bilancio dell’eurozona. Pieno rispetto delle regole e dei vincoli europei a Roma, ma correzione a Bruxelles della ricetta macroeconomica indicata agli stati membri. Il compromesso tra Parlamento e Consiglio raggiunto questa settimana sul cosiddetto «two pack» (due regolamenti sui nuovi meccanismi di controllo della disciplina di bilancio), al quale i membri del Partito democratico nel gruppo S&D hanno dato un contributo fondamentale, costituisce da questo punto di vista un successo decisivo, che dimostra la credibilità dell’impostazione di Bersani. Dopo un lungo braccio di ferro infatti il Parlamento ha accettato di dare il via libera alle nuove norme, che consentiranno tra l’altro alla Commissione di intervenire direttamente nel processo di formazione delle leggi nazionali di bilancio, ottenendo però due fondamentali contropartite.
La prima riguarda l’istituzione di un gruppo di esperti con il compito di analizzare la fattibilità dell’istituzione di un Fondo di riscatto del debito, che sostituisca parte del debito pubblico degli Stati membri con eurobond garantiti collettivamente, e quindi in grado di ridurre sostanzialmente la spesa per interessi e rendere più credibile il percorso di abbattimento del debito.
La seconda contropartita riguarda una parziale ma significativa correzione di rotta nell’applicazione del Patto di stabilità (e quindi anche del fiscal compact, che a quelle norme rimanda). All’articolo 11 di uno dei due regolamenti del «two pack» infatti è stato inserito un paragrafo che impegna la Commissione a presentare entro il mese di luglio di quest’anno una comunicazione sul modo di sfruttare le possibilità offerte dal Patto di stabilità per conciliare la disciplina di bilancio con gli investimenti pubblici produttivi. Inoltre, la possibilità di «deviazioni temporanee» dagli obiettivi di medio termine di finanza pubblica (formalmente previste dal Patto di stabilità) è esplicitamente richiamata in un nuovo paragrafo dell’articolo 4 dello stesso regolamento, dedicato ai compiti delle nuove autorità indipendenti per il monitoraggio delle politiche nazionali di bilancio istituite dal fiscal compact. Infine, un paragrafo sulla necessità di un monitoraggio specifico delle spese per istruzione, sanità e occupazione da un lato, e per quelle di investimento dall’altro, che consenta di vigilare sulla coerenza delle manovre di bilancio con gli obiettivi europei in materia di crescita e occupazione, offre ulteriori strumenti per una correzione della linea dell’austerità nella direzione della crescita e della coesione sociale.
Si tratta di novità di grande rilievo, perché fino ad ora gli spazi offerti dalla normativa europea per realizzare politiche «anticicliche» facendo leva sugli investimenti pubblici nei momenti di recessione non sono mai stati utilizzati e la Commissione ha sempre seguito una interpretazione «prociclica» che si è tradotta nella famigerata linea dei «tagli lineari». Con il compromesso sul «two pack», che diventerà legge dell’Unione dopo la ratifica nell’aula di Strasburgo a marzo, la strategia del Pd di realizzare un grande «scambio» politico tra una più stretta unione fiscale e un rilancio della crescita a livello europeo segna un primo punto, che ora attende di essere sviluppato sulla base dei nuovi equilibri politici che la vittoria dei progressisti in Italia determinerebbe a Bruxelles.

Repubblica 24.2.13
L’agenda dei cittadini
di Stefano Rodotà


In una campagna elettorale quasi completamente appaltata alla “scienza triste” (l’economia, così definita da Thomas Carlyle), e percorsa da agende talora improponibili, si è in questi giorni concretamente manifestata un’altra proposta programmatica, segno tangibile di una società vitale, capace di indicare con precisione e rigore i modi per affrontare questioni che altrimenti rischiano di rimanere sullo sfondo. Quel che va segnalato, tuttavia, non è soltanto l’esistenza di molte proposte, ma il modo in cui sono state elaborate. Migliaia di persone, centinaia di associazioni si sono impegnate nella preparazione di specifiche proposte di legge, intorno alle quali sono state poi sollecitate l’attenzione e la partecipazione dei cittadini. Più di cinquantamila firme accompagnano una proposta di legge d’iniziativa popolare sul reddito minimo garantito, più di un milione di firme sono state già raccolte in Europa perché l’accesso all’acqua sia riconosciuto come diritto fondamentale della persona.
Non siamo di fronte all’improvvisa emersione di una “cittadinanza attiva”. Scopriamo piuttosto che non è scomparso quel risveglio della società suscitato, tra la fine del 2010 e la prima parte del 2011, da grandi manifestazioni pubbliche che hanno creato le condizioni propizie ai successi della sinistra nelle elezioni amministrative della primavera del 2011 e al risultato strepitoso del referendum del giugno di quell’anno, quando ventisette milioni di persone dissero no al profitto nella gestione dei servizi idrici. Quello spirito è ancora vitale. Ignorato dalle forze politiche ufficiali, produce nuovi frutti e si rivolge fiduciosamente al nuovo Parlamento, mettendo a sua disposizione disegni di legge definiti in ogni dettaglio, che possono essere immediatamente presentati e che possono alimentare discussioni diverse da quelle monocordi e approssimative che ci hanno afflitto negli ultimi anni.
Lo spettro delle proposte è largo, come lo è il mondo dal quale provengono. Non hanno la pretesa della completezza, ma identificano temi ineludibili quando si vogliono affrontare le grandi questioni che abbiamo di fronte. Non nascono da un lavoro coordinato, ma dall’operosa iniziativa di molte reti informali che hanno via via trovato punti di convergenza. Presentate in una conferenza stampa, hanno rivelato un grado sorprendente di coerenza, che nasce dalla consapevolezza che stiamo vivendo un mutamento strutturale profondo, che esige un rinnovamento altrettanto profondo delle categorie politiche e giuridiche. Ed è importante sottolineare che questo lavoro è stato possibile grazie ad una collaborazione stretta tra studiosi e movimenti, che hanno riaperto l’indispensabile canale di comunicazione tra politica e cultura.
Si manifestano così i nessi nuovi tra lavoro e vita, tra diritti delle persone e beni che li rendono effettivi. Si scopre la dimensione del “comune”, che obbliga a ripensare il rapporto tra pubblico e privato. Si guarda a Internet non solo come a una opportunità tecnologica.
Non è un caso che il tema ormai drammatico del lavoro sia affrontato dal punto di vista del reddito minimo garantito. Di questo si parla in modo assai fumoso in alcune tra le “agende” in circolazione. Ora è disponibile una proposta di legge realistica, attenta ai dettagli, frutto di un lavoro che ha coinvolto 170 associazioni e che è stato coordinato dal Bin Italia (Basic economic network).
Vale la pena di aggiungere che l’Italia, in questa come in troppe altre materie, è inadempiente rispetto ad una direttiva europea del 1992, che prevedeva appunto che i paesi dell’Unione si dotassero di meccanismi idonei ad offrire garanzie a chi si trovi in situazioni di disoccupazione o di estrema precarietà. Un principio, questo, ribadito dall’articolo 34 della Carta europea dei diritti fondamentali, dove si parla della necessità di garantire una “esistenza dignitosa”. “Ce lo chiede l’Europa”, dunque. Una espressione, questa, che assume forza normativa quando si tratta di vincoli economici, ma che viene del tutto ignorata quando si tratta di diritti. Si sta consolidando una vera schizofrenia istituzionale, che fa crescere uno “spread” di civiltà che ormai affligge il nostro paese.
Sono proprio i diritti il cuore delle proposte appena illustrate. E dalla loro considerazione si muove per individuare i beni necessari perché l’esistenza, nel suo complesso, sia davvero dignitosa. L’esistenza materiale ci porta all’acqua, all’uso non predatorio del territorio, alla tutela del paesaggio; la costruzione libera della personalità evoca la conoscenza. Si stabilisce così una connessione profonda tra la condizione umana e i diritti fondamentali, che è poi un tratto essenziale della stessa democrazia. Il diritto all’esistenza libera e dignitosa è tutto questo. Reddito, certamente. Ma, insieme e talora soprattutto, condizioni del vivere, dove l’immateriale dà il tono a tutto il resto, determina la qualità stessa della vita.
Si dà così la giusta prospettiva ad una elaborazione che deve uscire dalle strettoie del breve periodo, dalle grettezze culturali. Ma non si perde la concretezza. Per la ricostruzione complessiva del sistema della proprietà – articolato intorno a pubblico, privato, comune – è disponibile un disegno di legge preparato da una Commissione ministeriale, già presentato senza fortuna al Senato nella passata legislatura, ma che ha dato l’avvio a nuove pratiche sociali nell’uso dei beni. E sempre al Senato era presente la proposta di affrontare la questione del rapporto tra diritti e nuove tecnologie, integrando l’articolo 21 della Costituzione con le parole “tutti hanno eguale diritto di accedere alla rete Internet, in condizioni di parità, con modalità tecnologicamente adeguate e che rimuovano ogni ostacolo di ordine economico e sociale”, ponendo così la premessa per regolare la conoscenza in rete come bene comune. Una linea, questa, già seguita da molti Paesi e adottata in diversi documenti internazionali. A queste si aggiunge un’altra proposta analitica sul testamento biologico, che consentirebbe di affrontare un tema “eticamente sensibile” al riparo da furori ideologici e sgrammaticature giuridiche. Inoltre, subito dopo il voto verrà diffusa una ipotesi di nuova disciplina dell’iniziativa legislativa popolare, che prevede l’obbligo delle Camere di prendere in considerazione le proposte dei cittadini, consentendo a rappresentanti dei firmatari di essere presenti ai lavori nelle commissioni parlamentari.
Volendo azzardare una battuta, o dare un suggerimento, si potrebbe dire che i futuri parlamentari dispongono già di una dote programmatica, o di un pacchetto di proposte “chiavi in mano”, da sfruttare immediatamente. E infatti i promotori dell’iniziativa, simbolicamente riuniti nel Teatro Valle occupato, hanno deciso di inviare per posta elettronica ai nuovi eletti tutti i documenti disponibili.
Ma è avvenuto qualcosa di più. Non vi è stato solo il sommarsi di iniziative diverse. Si sono poste le premesse per continuare un lavoro comune di elaborazione che possa colmare molti vuoti aperti dalla crisi della rappresentanza e dalla perdita di legittimazione derivante dal fatto che stiamo andando a votare con una legge la cui incostituzionalità era stata segnalata dai giudici della Consulta senza che i parlamentari seguissero una indicazione così importante. Sta nascendo una “rete delle reti”, una struttura sociale capace non solo di produrre proposte, ma di scoprire le strade che possono renderle effettive.

Repubblica 24.2.13
Tramonta un sistema di patacche e bugie
di Eugenio Scalfari


DA QUESTA mattina fino a domani alle ore 15 finalmente si vota e sapremo fino a che punto i sondaggi hanno previsto giusto. Per quel poco che se ne sa Grillo viene dato in forte crescita e la grande manifestazione di venerdì sera in piazza San Giovanni potrebbe farlo rafforzare ulteriormente portandolo a superare il Pdl (ma non la coalizione di centrodestra, Lega compresa). È un pericolo?
Certo non infonde allegria sapere che un elettore su cinque o addirittura su quattro dia il suo suffragio a chi ipotizza l’uscita dell’Italia dall’euro, la cancellazione di tutti i debiti, lavoro e tutela per tutti senza indicare nessuna copertura finanziaria. Se queste ipotesi dovessero realizzarsi la speculazione internazionale giocherebbe a palla con la lira, col tasso di interesse, col sistema bancario, con gli investimenti, con l’occupazione e l’Unione europea ci imporrebbe un commissariamento che ci obblighi al rispetto del pareggio fiscale, pena l’intervento della Corte europea che commina in questi casi elevatissime sanzioni.
Ma non credo che andrà così, per due ragioni: la prima è che Grillo non avrà la maggioranza dei seggi anzi ne sarà molto lontano; la seconda che un conto è quello che le sue concioni esaltate e demagogiche declamano e un conto saranno i parlamentari eletti nelle sue liste. Di politica quei deputati e senatori ne sanno poco o niente del tutto. Nel Sessantotto lo slogan era “l’immaginazione al potere”, oggi si potrebbe dire l’inesperienza al potere.
È molto peggio perché l’inesperienza politica non è un pregio. Governare un paese non è certo facile ma è facilissimo sgovernarlo. Berlusconi l’ha sgovernato (non solo per inesperienza); il grillismo lo sgovernerebbe se avesse il potere.
Il grillismo in Parlamento può essere una remora utile se la rabbia approderà ad una ragionevole proposta. È possibile che questo accada almeno per una parte degli eletti.
Certo se sommiamo i voti previsti per Grillo e quelli per il centrodestra berlusconiano-leghista, potremmo avere quasi la metà degli elettori che rappresentano una zavorra molta pesante. Governare bene in un Parlamento con quel sacco di pietre addosso sarà un’impresa.
Va tuttavia ricordato che, nonostante le sue molteplici nefandezze, la legge elettorale detta “porcata” nelle condizioni date offre un vantaggio: alla Camera chi vincerà avrà il 55 per cento dei seggi; il sacco di pietre sarà, in queste condizioni, più facile da sopportare.
Ci sarà comunque un uso e un abuso del “filibustering”, cioè dell’ostruzionismo con l’obiettivo di tornare a votare al più presto. Ma non credo che possa durare a lungo. Molti parlamentari del centrodestra non hanno alcun interesse ad un “filibustering” sistematico e ad una legislatura breve e molti grillini-brava gente (cioè la maggioranza di quel movimento) si domanderanno dove li sta conducendo il loro inamovibile leader. Perciò non credo che il peggio accadrà.
Quel peggio – cioè nuove elezioni a breve scadenza – è una previsione di alcuni sondaggisti che fanno capo a centri finanziari internazionali: Jp Morgan, Mediobanca, Standard & Poor's, Deutsche Bank, Goldman Sachs. Si capisce perché quelle previsioni pessimistiche sulla nostra tenuta politica e sociale incontrino il favore della finanza americana e delle sue derivazioni europee: hanno interesse a disarticolare l’Eurozona trasformando l’Europa in una grande area di libero scambio e impedendo che possa diventare uno Stato federale.
Noi crediamo e speriamo invece che la grande maggioranza degli italiani comprenda la sostanza di quanto sta avvenendo e confidiamo che da queste elezioni esca un Parlamento responsabile e un governo stabile se, come sembra, sarà il centrosinistra a vincere alla Camera e a stipulare un accordo con Monti che metta in sicurezza anche il Senato.
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Alcuni osservatori ed economisti hanno osservato che l’espressione “spending review”, fino a pochi giorni fa usata ripetutamente nel lessico della campagna elettorale, è improvvisamente caduta in desuetudine. E se ne sono domandati il
perché senza tuttavia trovare una convincente risposta. Eppure sembrava un termine molto chiaro per indicare la strada maestra da seguire nel prossimo futuro: per diminuire la pressione fiscale venendo incontro al desiderio, anzi alla rabbia d’un popolo tormentato dai sacrifici non c’è altra via che tagliare la spesa. Si taglino dunque gli sprechi, si tagli il superfluo e si avranno le risorse per diminuire le tasse rilanciando i consumi e l’occupazione. A dirla così sembra l’uovo di Colombo, lo predica anche Draghi, lo fece una decina di anni fa la Germania socialdemocratica e poi conservatrice da Schroeder a Kohl. Non lo deve fare anche l’Italia?
Certo, la logica porterebbe a questo programma, lapalissiano per eccellenza. Ma c’è qualcosa di sbagliato, come spesso accadeva a Monsieur de La Palice: tagliare il grasso è semplice e quasi sempre salutare, ma quando si interviene su un corpo scheletrico, su un organismo logorato da una lunga anoressia, allora l’operazione diventa estremamente difficile e probabilmente dannosa all’organismo che con quei tagli dovrebbe riconquistare la salute, perché non si taglia più il grasso che non c’è ma l’osso, si disarticola lo scheletro ed è difficilissimo ed estremamente rischioso procedere in questo modo.
Tagliare l’osso significa nel caso nostro che ogni taglio di spesa, anche quando si tratta di sprechi, comporta ulteriori perdite di occupazione, licenziamenti, rescissioni contrattuali, liquidazione di aziende e di enti: ospedali, tribunali, scuole, università, Province. Se sono inutili è certamente una modernizzazione eliminarli, ma chi ci lavorava fino a quel momento finisce sulla strada. Esistono le necessarie tutele? Oggi no ma si potrebbe crearle poiché i tagli creano comunque economie e quindi risorse aggiuntive. Forse con quelle risorse (che tuttavia non saranno disponibili subito) le necessarie tutele potrebbero essere create ma in tal caso resterà poco o nulla per alleggerire le tasse e dunque: tagli di spesa, adeguamento (futuribile) delle tutele sociali per chi è rimasto senza lavoro, ma tasse come prima. Non mi sembra un gran risultato.
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Diverso è il caso di una modifica delle priorità nella spesa corrente. Per esempio il taglio di aerei ed elicotteri destinati alle Forze armate, quelle sì, sono risorse che si ottengono senza costo. Un altro intervento possibile sarebbe la cartolarizzazione di beni patrimoniali di proprietà pubblica che garantisca un’emissione di titoli pubblici “di scopo”, da destinare al pagamento dei debiti della pubblica amministrazione alle imprese.
Bersani ha proposto questa operazione ma limitandola ad una prova di 15 miliardi. È troppo poco, si può tranquillamente arrivare a 50 miliardi su un debito totale stimato 170. Un’operazione di questa dimensione che abbia come garanzia beni fondatamente vendibili sul mercato darebbe luogo ad una iniezione di denaro alle imprese creditrici con un salto di qualità molto notevole.
C’è un’altra operazione che il centrosinistra ha previsto e che sarebbe un altro contributo importante ai fini della crescita economica fin qui trascurata: la rimodulazione dell’Imu abolendo quell’imposta per tutti coloro che hanno pagato meno di 500 euro sulla prima casa. Si tratta di molte decine di migliaia di persone il cui piccolo contributo ha rappresentato il 20 per cento del gettito complessivo di quella imposta; l’altro 80 per cento di quei 4 miliardi complessivi l’hanno pagato contribuenti ovviamente più agiati. Ricordo ancora una volta che l’Imu è un’imposta immobiliare progressiva; la sua abolizione promessa da Berlusconi produrrebbe dunque un beneficio “regressivo” a favore dei più agiati e non dei più poveri.
Infine sarebbe di grande sollievo sociale e un notevole contributo alla crescita e all’occupazione un taglio del cuneo fiscale (lo fece nel suo governo Romano Prodi) che avvicini il costo del lavoro alla retribuzione netta in busta paga. Non si tratta di un taglio di imposta ma di contributi sociali pagati in gran parte dalle aziende ma anche dai lavoratori. L’Inps può manovrare sulle varie voci di contributi che compongono il suo bilancio per assorbire il taglio del cuneo fiscale che riguarda il lavoro dipendente. Tutte queste misure che figurano nel programma del centrosinistra dovrebbero essere accompagnate per coerenza ed efficacia economica da un aumento della produttività, realizzabile dalla revisione dei contratti che privilegino quelli aziendali purché i relativi accordi siano discussi e approvati con la partecipazione dei lavoratori dipendenti.
Questi ed altri analoghi sono i modi appropriati per evitare che con tagli di spesa indifferenziati l’anoressia del sistema aumenti anziché diminuire.
Si tenga infine presente che sgravi di imposta per rilanciare i consumi possono riservare sorprese negative: secondo recenti indagini la massa dei consumatori è molto più propensa ad utilizzare eventuali sgravi per ripagare debiti o per accantonare risparmi anziché rilanciare i consumi. Perciò attenzione.
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Qualcuno si è chiesto: fa ridere di più Berlusconi o Grillo? Rispondo: nessuno dei due.
Qualcun altro si è chiesto: chi di quei due può fare più danno all’Italia? Rispondo: Berlusconi.
Altri infine hanno posto la domanda: di chi è la colpa? Ha risposto Claudio Bisio, l’attor comico per eccellenza. Ha detto: la colpa è degli italiani che li votano.
Ora aggiungo anch’io una domanda: ma perché tanti italiani li votano? Ho risposto già molte volte ma lo faccio ancora, “repetita iuvant”: gli italiani non hanno mai avuto uno Stato fino a 150 anni fa. Prima di allora e per molti secoli furono dominati da Goti, Longobardi, Franchi, imperatori tedeschi, Papi e poi Normanni, Svevi, Spagna, Francia, Austria. Infine, quando tutto sembrava bene avviato, il Piemonte invase il Sud che Garibaldi aveva liberato, così lo visse il Mezzogiorno durante la terribile guerra del brigantaggio alla quale però parteciparono borbonici e sanfedisti.
Conclusione: gli italiani non hanno mai amato lo Stato, lo considerano un corpo estraneo se non addirittura un nemico. Perciò non vogliono regole. Sono furbi o gonzi come capita dovunque e a ciascuno, ma più furbi e più gonzi degli altri. L’asino che vola affascina i gonzi anche se non l’hanno mai visto volare. Per i furbi vale soprattutto il voto di scambio e lo praticano su larghissima scala, non tanto contro danari ma contro favori. Mafia e camorra hanno vissuto e vivono sul voto di scambio, ma anche le clientele, le confraternite, le corporazioni prosperano e crescono sul voto di scambio. Perciò ci vuole un cambiamento. La rabbia da sola porta inevitabilmente alla dittatura, dopo i sanculotti c’è sempre un Robespierre e dopo ancora un Napoleone.
Cambiamento non è rivoluzione ma riformismo radicale. Prodi ci provò e Veltroni anche; adesso ci proveranno Bersani e Vendola.
Napolitano ci mancherà ma nominare il nuovo governo spetterà ancora a lui e questo ci dà sicurezza per la lucidità e l’imparzialità delle sue scelte e la fermezza della loro esecuzione.

il Fatto 24.2.13
Urne aperte, finale incerto
Gli elettori che scelgono all’ultimo momento determineranno il risultato
di Caterina Perniconi


Nella prima elezione invernale della Repubblica italiana, dai risultati quanto mai in bilico, chi deciderà oggi per quale partito votare può essere decisivo.
La forbice degli incerti è stimata tra il 7 e il 12 per cento degli aventi diritto. Una media di cinque milioni di persone. Alcuni di loro non andranno a votare, altri decideranno solo di fronte alla scheda dove tracciare un segno con la matita. Pioggia e neve non aiuteranno a prendere una decisione in favore della partecipazione, ma nessuno studioso stima una crescita molto alta dell’astensione. “Verrà confermato qualche punto in più del classico 20% – spiega la presidente dell’Istituto Cattaneo di Bologna Elisabetta Gualmini – mentre gli indecisi possiamo stimarli tra il 10 e il 12%”. Il sondaggista Nando Pagnoncelli è più ottimista rispetto alla volontà degli italiani di andare al voto, calcolando la cifra tra il 7 e l’8%. Ovvero come successe alle elezioni politiche del 2008, secondo uno studio realizzato da Re-nato Mannheimer, che dimostra come circa il 35% degli elettori abbia deciso nel-l’ultimo mese di campagna elettorale cosa votare, ma solo il 7,8% l’abbia fatto il giorno del voto.
CHE TIPO di scelta potrebbero fare gli indecisi? Sicuramente dipende da loro la vittoria del Partito democratico (anche) al Senato e il superamento del quorum delle due formazioni in bilico, la Lista civica di Mario Monti e Rivoluzione civile di Antonio Ingroia. “Possiamo individuare quattro fasce di indecisi – spiega il costituzionalista Stefano Ceccanti – quelli incerti tra l’astensione e il voto a Silvio Berlusconi, quelli ancora non convinti se votare Pdl o Beppe Grillo, una fascia in dubbio tra Ingroia e Bersani e ancora un gruppo tra Monti e il Pd”. Secondo Ceccanti, “verso la fine della campagna la scelta tende a ripolarizzarsi sul voto utile, quindi su Pd e Pdl. Anche se questa volta chi può uscirne rafforzato è Grillo, considerato un terzo polo”. Insomma, Ingroia e Monti è difficile che scaldino gli animi degli indecisi, chi li voterà dovrebbe già avere le idee chiare. Anche se queste due formazioni sono quelle che necessitano dei consensi in bilico per garantirsi l’ingresso in Parlamento.
Da una ricerca del Centro italiano di studi elettorali della Luiss si scopre che la fetta maggiore di indecisi è quella degli ex elettori del Pdl che si attestano da soli oltre il 6 per cento. Una fetta di elettori che può determinare il recupero di Berlusconi (in questi ultimi due giorni da via dell’Umiltà hanno fatto trapelare di avere in mano numeri positivi) ma che potrebbe disperdersi tra Grillo e l’astensione. Secondo il Pdl la restituzione dell’Imu (con tanto di invio di false lettere propagandistiche) vale almeno un recupero del 4 per cento. Da non sottovalutare infine l’influenza del maltempo, che nell’isola di Gorgona ha addirittura impedito l’insediamento del seggio elettorale. Su nord e centro Italia sono attese forti nevicate che potrebbero rendere difficoltoso l’accesso ai seggi e inibire chi non aveva ancora deciso se andarci. A Milano sono stati organizzati interventi antineve ma anche gli elettori delle Marche troveranno ad aspettarli scrutatori con doposci e giacche a vento. Come stimato dal metereologo Mario Giuliacci, “dieci centimetri di neve possono fermare anche mezzo milione di persone”. Di sicuro fermeranno i più anziani, per i quali i partiti radicati sul territorio stanno organizzando appositi “voto-taxi”, nella speranza di non veder crescere l’astensione. Gli indecisi restano le prede più ambite, ma alla fine chi ha maggiore interesse a conquistarli è il Partito democratico, che punta alla maggioranza al Senato per garantirsi il governo. Matteo Renzi ha lanciato un appello: “Telefonate a tutti gli indecisi che conoscete”. Basterà?

Repubblica 24.2.13
Per uno su dieci il voto è last-minute
di Ilvo Diamanti


FINALMENTE domenica!
Finalmente si vota. Dopo una campagna elettorale lunghissima, che, tuttavia non ha suscitato indifferenza. Tutt’altro. Il 46% sostiene, infatti, di averla seguita con interesse (sondaggio LaPolis-Università di Urbino). Solo il 16% di averla, invece, ignorata.
GLI italiani, di fronte al voto, si dimostrano, dunque, coinvolti ma anche indecisi. D’altronde, con la Prima Repubblica, è finito anche il tempo in cui si votava sempre allo stesso modo. Per “atto di fede”. Nella Seconda Repubblica — e dunque, da vent’anni — si è continuato a dividere il mondo in due. A votare “contro”: Berlusconi oppure la Sinistra. Ma le fedeltà si sono stemperate. I dubbi sono cresciuti. E i tempi della decisione si sono allungati. Alle ultime consultazioni politiche, nel 2006 e nel 2008, circa il 15% dei votanti (intervistati dopo le elezioni, indagine La-Polis-Università di Urbino) afferma di aver deciso — “di” e “per chi” votare — nel corso dell’ultima settimana. Una componente del 6-7%, in particolare, solo nel giorno del voto. Se così avvenisse anche in questa occasione, dunque, vi sarebbe ancora una quota di elettori indecisi, che si apprestano a votare, in grado di spostare gli equilibri tra forze politiche e schieramenti. Ma io credo che quanti decideranno solo oggi e domani — “se” e “per chi” votare — siano più numerosi rispetto alle ultime consultazioni: forse uno su dieci.
I “votanti dell’ultimo giorno”, infatti, si distinguono dagli altri per due aspetti specifici (LaPolis 2008). Per una maggiore propensione astensionista e, di conseguenza, per un elevato distacco verso i partiti e le istituzioni. Inoltre: per la preferenza verso liste esterne ai due maggiori schieramenti.
Da ciò derivano le ragioni che, oggi, alimentano l’indecisione.
In primo luogo, per la prima volta nella Seconda Repubblica, la competizione elettorale è multi-polare. Non mette di fronte due soli schieramenti e leader in grado di intercettare la quasi totalità dei voti, come nel 2006. O, comunque, molto più dell’80%, com’è sempre avvenuto nelle precedenti elezioni politiche (dopo il 1994). In questa occasione le due coalizioni maggiori, insieme, sembrano in grado di superare il 60%, ma non di molto. Mentre altri due soggetti politici — Monti e il M5S — sembrano destinati a condizionare gli assetti successivi al voto. Ciò ridimensiona la logica del “voto utile”. In quanto rende “utili” — e influenti — scelte diverse, non riassumibili nelle fratture bipolari del passato.
In secondo luogo, il distacco verso i partiti e le istituzioni ha raggiunto un livello molto più elevato rispetto al passato. E la tentazione astensionista, per questo, si è allargata ulteriormente. Non per indifferenza, ma per ostilità.
Un terzo “incentivo” all’incertezza è offerto dal M5S guidato da Beppe Grillo. Il quale mette in rete diverse istanze sociali e diverse rivendicazioni. Ma riflette e amplifica anche il deficit di fiducia verso la politica e i politici. Costituisce, dunque, un’alternativa all’astensione.
Così, è probabile che, in questa fase, l’indecisione di voto sia cresciuta e, di conseguenza, l’elettore “last minute” si sia diffuso ulteriormente. Perché si sono indeboliti i fattori che garantivano la stabilità — se non la fedeltà e la coerenza — degli orientamenti politici. I riferimenti di valore — se non le ideologie — e i legami con i partiti.
Ma anche la fiducia nei principali leader e la credibilità dei principali canali di comunicazione politica. In primo luogo, la tivù. Che risulta ancora il “mezzo” più “usato”, attraverso cui si informa gran parte della popolazione (l’80%). Ma è, al tempo stesso, “ab-usato” e considerato poco affidabile. Per questo non riesce a garantire un legame stabile con gli elettori. Ridotti a “consumatori” di un prodotto — i candidati e i partiti — che, anche per questo, tende a “consumarsi” in fretta.
Non è un caso che, come ha mostrato Luigi Ceccarini (in un articolo pubblicato sull’ultimo numero della rivista “Paradoxa”), l’influenza della tivù sulla scelta degli elettori si riduca rapidamente via via che ci si avvicina al voto. In particolare, fra gli “elettori dell’ultimo minuto”. I quali attribuiscono valore ai consigli e ai suggerimenti espressi e raccolti da familiari, amici, colleghi. In altri termini, gli “indecisi estremi” si “affidano” alle figure di cui hanno maggior “fiducia”. Così, fra gli elettori last minute, l’importanza riconosciuta al mondo delle relazioni dirette e personali sale: dal 13% al 25%. Un “indeciso” su quattro — tra coloro che alla fine, tra dubbi e incertezze, si “rassegnano” a votare — lo fa perché indotto e convinto da chi gli sta vicino. Da chi incontra e frequenta nel suo mondo di vita. Dove un tempo, non tanto tempo fa, erano presenti la politica e i partiti. Oggi non avviene più. Sono personaggi di un serial tivù. Scomparsi dal territorio e dalla società. I volontari, i militanti impegnati sul territorio, porta-a-porta: chi li ha visti? Così, “non ci resta che la famiglia”. Gli amici. I compagni di lavoro. A soccorrere gli indecisi, a orientare gli incerti. Fino all’ultimo minuto.
Finché resterà qualcuno, tra loro, a credere che votare serva, sia utile, c’è speranza. Che la democrazia rappresentativa abbia ancora senso.

Il sondaggio è stato condotto nei giorni 19-21 febbraio 2013 da Demetra (metodo CATI). Il campione è tratto dall'elenco degli abbonati di telefonia fissa (N=1009 rifiuti/sostituzioni 5916), ed è rappresentativo della popolazione italiana di età superiore ai 18 anni (margine di errore 3.1%). Documentazione completa su www.agcom.it

Repubblica 24.2.13
La posta in gioco è la governabilità
Risiko del Senato e assalto di Grillo nelle urne il rischio ingovernabilità
Quota-sicurezza a 167 seggi. L’incognita è la tenuta dei centristi
di Claudio Tito


«IL MIO primo compito è dare stabilità. Nessuno può pensare che in una fase come questa si possa tornare a votare in tempi brevi. Non ripeteremo gli errori del passato». Pierluigi Bersani anche nelle ultime ore che precedono il voto è sicuro che la sua coalizione uscirà vittoriosa dalle urne.
MA SA anche di non potersi permettere di replicare le esperienze litigiose dell’Ulivo e dell’Unione.
Il vero nodo di queste elezioni, infatti, è tutto qui: assicurare al Paese un governo solido e duraturo. Una maggioranza in grado di affrontare uno dei momenti più difficili della storia repubblicana escludendo la soluzione di un’altra interruzione anticipata della legislatura. Il centrosinistra è sicuramente lo schieramento che più di tutti “corre” per vincere le elezioni. E’ quello più accreditato. Eppure questa campagna elettorale si è chiusa lasciando diversi punti interrogativi. Tutti gravidi di potenziali conseguenze drammatiche. A cominciare dal rischio che la frammentazione del voto consegni un Parlamento paralizzato, bloccato nella palude dei veti incrociati e delle scelte confuse. Per la prima volta dal 1994 – da quando cioè è stato introdotto un assetto sostanzialmente bipolare – il sistema politico si presenta alle elezioni con quattro poli. Un dato che può riflettere, soprattutto al Senato, una situazione di assoluta ingovernabilità.
Se, infatti, la legge elettorale garantisce alla Camera una maggioranza netta con un premio che assegna alla prima coalizione circa 340 seggi, a Palazzo Madama il gioco dei “bonus regionali” potrebbe costringere Bersani a trattare dopo le elezioni il sostegno di altri schieramenti. Se si trattasse – come previsto da quasi tutti – di discutere con Mario Monti un patto di governo, il problema sarebbe con ogni probabilità risolto rapidamente. Basti pensare a quello che venerdì sera ha detto proprio il presidente del consiglio: «Mai con Vendola? Vedremo… ». Una sorta di “mai dire mai” che ha di fatto aperto la strada al confronto.
Ma il punto è proprio questo: l’alleanza Bersani-Monti sarà la strada più ragionevole e quella più agevolmente praticabile. L’attuale legge elettorale - il Porcellum – lascia però aperto uno spazio amplio all’imponderabile: potrebbe determinare dei risultati
devastanti in virtù o a causa di un sistema politico diviso in quattro. Nella confusione di una Seconda Repubblica che ancora non si è incamminata verso la Terza, il patto tra centrosinistra e Scelta civica potrebbe insomma non essere sufficiente. Una prospettiva che non appare probabile. Ma sono emersi due elementi da questo punto di vista costituiscono delle vere e proprie incognite: il successo che sta riscuotendo il Movimento di Beppe Grillo e il calo di popolarità di tutti i centristi. Allora basta fare un po’ di conti per cogliere le possibili variabili: al netto dei senatori a vita, la maggioranza la Senato è fissata a quota 158. Secondo i tecnici parlamentari, però, la vera autosufficienza – anche nelle commissioni – si ottiene quando si supera soglia 167. La corsa alla pari tra centrodestra e centrosinistra (e ora anche Grillo) in tre grandi regioni – Lombardia, Sicilia e Veneto – mette in pericolo l’autonomia di Bersani: se non vince in quelle tre circoscrizioni potrà contare su 143 o 146 senatori.
Se prevale solo in Lombardia può arrivare a 159. In questo quadro il sostegno dei montiani è sicuramente determinante. La condizione, però, è che sia capaci di abbattere lo sbarramento dell’8% ovunque. Se, ad esempio, Scelta civica si ritrovasse al di sotto nelle cosiddette “regioni rosse”, tutto si complicherebbe.
Poi c’è un altro dato che va considerato: cinque anni fa il centrodestra guidato da Berlusconi ottenne il 46,8%. Il centrosinistra con Veltroni il 37,5%. Questa volta difficilmente la coalizione vincente andrà oltre il 35%. E’ l’esito di una frammentazione amplificata dal Porcellum e già rimarcata dal presidente della Repubblica. In Francia i risultati sono stati analoghi: il Partito socialista di Hollande ha vinto le elezioni con il 28,6% , ma lì la compensazione è data dall’elezione diretta del presidente con il doppio turno. E’ quello che il professore D’Alimonte chiama «sistema disproporzionale».
In Italia, invece, la “vittoria in discesa” rischia di spiattellare in Parlamento una questione di praticabilità parlamentare della maggioranza ed uno di rappresentanza politica. Il probabile tsunami dei grillini farà emergere questi nodi soprattutto se l’ex comico andrà oltre il 15% e ancor di più se sfonderà il 20%. Ritrovarsi nelle aule di Camera e Senato circa 200 parlamentari che agiscono al di fuori di ogni profilo istituzionale può trasformare questa legislatura in una battaglia campale senza fine. Il segretario democratico ha quasi profeticamente parlato di «governo da combattimento».
La situazione si acuirebbe se le formazioni “tradizionali” saranno penalizzate oltre previsto. Il Pd potrà opporre concretamente il suo risultato e legittimarsi come formazione-guida se riuscirà ad attestarsi decisamente sopra il 28-29%. Silvio Berlusconi se porterà tutto il suo polo ben oltre il 30%. Perderebbe circa un terzo degli elettori rispetto al 2008 ma manterrebbe la preferenza di un terzo degli italiani. In caso contrario la deflagrazione del Pdl e della Lega (in particolare se Maroni non conquisterà il Pirellone) sarà la prima conseguenza di questa consultazione. Stesso discorso per Monti. Il premier potrà vantare un successo se la sua Scelta civica infrangerà il muro del 14-15%, ma se scenderà sensibilmente sotto il 12% l’operazione politica si rivelerà una delusione. Considerando anche che per le coalizioni esiste a Montecitorio uno sbarramento del 10% al di sotto del quale non si elegge alcun deputato. Quella evenienza trasformerebbe la performance centrista in un disastro: scomparirebbe anche l’Udc di Casini. C’è poi chi come la Rivoluzione civile di Ingroia lotta per la sopravvivenza. Per loro la vittoria equivale a superare lo sbarramento del 4%.
Tutte incognite che verranno disvelate domani ad urne chiuse.

il Fatto 24.2.13
La stampa estera. Pericolo instabilità


Le elezioni italiane rimbalzano sui principali quotidiani mondiali che, dagli Usa alla Gran Bretagna, sembrano propendere per un’alleanza Bersani-Monti. Ma Grillo e Berlusconi, l’hanno notato pure loro, sono in agguato. “Ricostruendo Roma” è il titolo di une editoriale non firmato del Financial Times, che evidenzia come “i leader populisti non risolveranno i profondi problemi” dell’Italia, “peggiorando solo la crisi economica”. Il nuovo esecutivo, per il foglio della City, dovrà affrontare due “formidabili” sfide: “Portare fuori il Paese dalla più lunga recessione del dopoguerra e colmare l’abisso tra elettori e politici”. E per il Ft, questo “è il tempo di amministratori seri e competenti che facciano svoltare il Paese”. The Indipendent pubblica un’intervista al ministro del Lavoro Elsa Fornero e titola: “Cedere alle pressioni: perchè i tecnocrati di Mario Monti non sono riusciti a riparare l’Italia dopo il collasso del governo Berlusconi”. Sui 15 mesi di governo, la Fornero spiega: “Se qualcuno dicesse che il governo ha fallito nel mostrare la sua forza io sarei d’accordo. All’inizio Monti ha cercato di essere più inclusivo, ma il punto è che noi avremmo dovuto battere i piedi per terra, avremmo dovuto mostrare più determinazione”. In Francia Le Monde titola “L'Italia minacciata dall’instabilità politica” provocata soprattutto dal M5S. In Spagna El Pais titola “L’antipolitica tiene l’Italia in suspense”. Infine, oltreoceano il Wall Street Journal definisce il voto “il più importante evento politico dell’anno per l’eurozona” con “gli investitori che favoriscono una coalizione guidata da Bersani e che includa Monti”.

Corriere 24.2.13
Vecchi pregiudizi e nuove paure nello sguardo della stampa estera
di Danilo Taino

Il Financial Times di ieri parlava di «presentimenti di tragedia» che assalgono alcuni se pensano a un successo elettorale di Beppe Grillo. In un certo senso, è stato questo il sentimento che ha prevalso, in queste settimane, nei commenti internazionali sulle elezioni italiane, anche al di là del politico genovese: la possibilità che il caos, nel quale il Paese sembra entrato a chi lo guarda da fuori, finisca in dramma. Dramma per l'Italia. Ma dramma anche per l'Europa, la quale aveva creduto che Roma, con il cambio di marcia dell'ultimo anno, avesse salvato il continente dalla crisi del debito e ora teme di essersi illusa.
Nei commenti non sono mancati i soliti pregiudizi e le ironie. Queste ultime soprattutto riferite a Silvio Berlusconi, un po' ovunque. Ieri, per esempio, sul suo sito web, il quotidiano popolare tedesco Bild trasmetteva un video con le battute/gaffe dell'ex premier: dall'abbronzatura di Obama agli abbracci a Gheddafi. Una galleria fotografica sullo stesso tema la riportava l'edizione online del settimanale tedesco Der Spiegel. Affiancate al vento nelle vele di Grillo «il comico» — quasi sempre definito tale dai media internazionali, commedian in inglese, Komiker in tedesco, comique in francese, cómico in spagnolo, komik in polacco —, queste ricostruzioni hanno spesso dato l'idea di una campagna elettorale stralunata, improbabile. Il quotidiano di Varsavia Gazeta Wyborcza ha sentenziato che le elezioni italiane sono «uno scontro tra due clown». La tendenza a ridicolizzare la campagna elettorale italiana ha almeno in parte sostituito le messi di pregiudizi — mafia, poco lavoro, donne — che avevano contraddistinto i confronti elettorali del passato.
Non che per questo le critiche e gli allarmi siano stati meno duri. L'Economist, nel numero uscito venerdì parla del pericolo di un «cinismo» degli italiani verso la politica che pone «due minacce alla stabilità futura: e quindi all'euro». Una è la possibilità che una vittoria di Grillo renda ingovernabile il Senato. L'altra è che si crei una situazione di governo con una maggioranza minima «alla mercé di un pugno di senatori dalle fedeltà flessibili». D'altra parte, due settimane fa, lo stesso settimanale britannico aveva fatto una copertina allarmata con la Torre di Pisa che cade e la domanda su chi può salvare l'Italia. Questo è il senso di un po' tutti i grandi e più rispettati media internazionali: elezioni da prendere molto sul serio, a differenza che in passato, perché in gioco c'è il futuro di un Paese, dell'euro e di conseguenza dell'economia mondiale.
Il Financial Times l'ha ribadito in un editoriale ancora ieri. Lo spagnolo El País ha spiegato lo stesso concetto parlando della manifestazione di Roma del Movimento 5 Stelle. Due giorni fa, l'americano Wall Street Journal ha scritto che «le elezioni italiane di questo weekend sono forse il singolo evento politico più importante dell'anno per l'eurozona». Il quotidiano francese Le Monde dice che «il rischio d'ingovernabilità è sempre meno ipotetico a causa di una legge elettorale convoluta». Il quotidiano tedesco Frankfurter Allgemeine Zeitung sostiene che «l'effetto Berlusconi potrebbe rovesciare l'effetto Draghi» (cioè terminare la relativa calma dei mercati). Persino il China Post di Taiwan riporta un'analisi di Anatole Kaletsky dell'agenzia d'informazioni Reuters nella quale l'autore sottolinea che «con ulteriori riforme Monti-style ripudiate dagli lettori italiani, Merkel ha di fronte un dilemma terribile».
Tra pregiudizi frusti e paure nuove, il mondo guarda, aspetta, incrocia le dita.

La Stampa 24.2.13
L’Italia vota
Tra pifferai, giaguari e populisti, la campagna elettorale horror
una stagione folle in cui le parole della politica hanno perso ogni aderenza al buonsenso Cani, gatti, insulti, epiteti usati come sciabole: viaggio nella lunga cavalcata prima delle elezioni,
di Mattia Feltri


Il Monti che non ti aspetti Ha dato a Berlusconi del «pifferaio magico con i topini che annegano». Risposta: «Monti mi vuole tassare il piffero». Giannino, uno show da ex Aveva fatto una campagna show, anche in tv. Dandole e prendendole. Sallusti: «Il gatto di Giannino mi ha aggredito». I soprannomi di Grillo «Populista, fascista, comunista... più me lo dicono, più voliamo». Ma anche lui: Gargamella, il nano, padre Merrin Le metafore di Bersani Ha detto su Berlusconi: «Smacchieremo il giaguaro». Risposta in tema di Berlusconi: «Sotto le macchie troverà un leone». Berlusconi scintillante Oltre alla celebre replica sul «piffero», si è concesso la risposta scurrile in tv, l’accusa di «populista» ai rivali. E tanto altro Populista Accusa solo per Grillo? Macché: a tutti, da tutti Il pifferaio Il pifferaio di Hamelin è una fiaba tedesca che narra di un ambiguo incantatore di topi Le foto Da quella di Vasto, le foto sono diventate simboli di alleanze Cetto «Monti Laqualunque» è un epiteto coniato da un esponente di Fratelli d’Italia Sorpasso Pianetta del Pdl su Bersani: «Per lui Il Sorpasso non è più soltanto un film» «Empy» Il cagnolino di Monti dalla Bignardi: non è stato il solo cucciolo elettorale Da Vespa La scena del giaguaro di Bersani a Porta a porta Merkel È stata la convitata di pietra alla campagna elettorale
Non le riforme, e neanche tanto le tasse. Politica estera neanche a dirlo, scuola e famiglie e salute – come dice CrozzaIngroia – sono solite cose da soliti programmi. La campagna elettorale si è giocata su altre parole chiave: pifferaio, populista, giaguaro, sorpasso. E poi sulle foto, quelle con gli alleati e quelle coi cani. E sull’esercizio di una fantasia ai confini dell’orrore, così spesso varcati. E’ una ricostruzione reale dal sapore irreale di una sfida tutti contro tutti.
PIFFERO /PIFFERAIO
Mario Monti: «Berlusconi è un illusionista, un pifferaio magico con i topini che vanno ad annegare». Silvio Berlusconi: «Monti mi vuole tassare il piffero». Dario Franceschini a Monti: «Non si risponde al pifferaio suonando il piffero». Antonio Leone su Monti: «E’ evidente che oltre che del pifferaio, ha paura di dove fra poco finirà il piffero». Pierluigi Bersani su Berlusconi: «Lui risolve tutto con il piffero». Enrico Pianetta (Pdl) su Monti: «Se Berlusconi è un pifferaio, lui è un trombone». Gabriele Albertini: «Sono stato io il primo a definire Berlusconi pifferaio». Alfredo D’Attorre (Pd) su Beppe Grillo: «Non è affidandosi a un nuovo pifferaio magico che il Mezzogiorno affronta i suoi problemi». Anna Maria Berini su Monti: «Pifferaio bocconiano improvvisato». Beppe Grillo su se stesso: «Mi hanno dato del comunista, del fascista, del pifferaio magico. Ma più fanno così e più mi rinforzano».
GIAGUARI E ALTRE BESTIE
Bersani su Berlusconi: «Smacchieremo il giaguaro». Berlusconi: «Sotto le macchie troverà un leone». Bersani: «Ci toccherà spellare il leone». Daniele Capezzone a Bersani: «Per smacchiare il giaguaro bisogna che sia addormentato, e non è il caso di Berlusconi». Bersani: «Insieme a chi cerca lavoro si può smacchiare il giaguaro». Bersani: «La macchia più grossa la tiriamo via qui in Lombardia». Riccardo Nencini (Psi): «Prima ancora che smacchiare il giaguaro, dobbiamo celebrare la festa del Grillo». Bersani a Berlusconi: «Una smacchiatina? ». Bersani su tutti: «Ho parlato anche di tacchino sul tetto e di mucche nel corridoio... uno a uno lo zoo lo completo entro la legislatura». Monti su tutti: «Renderemo trasparenti i camaleonti».
FOTO
Bersani su Scelta Civica: «Voglio vedere la foto di Monti con Casini e Fini». Gianfranco Fini a Bersani: «Se Bersani le vuole di nostre foto gliene mandiamo dieci». Maurizio Gasparri su Bersani: «Dalla foto di Vasto alla foto della Residenza di Ripetta. Bersani molla Di Pietro e si tiene Vendola». Alessandra Mussolini su Bersani: «Si dice che nella foto di coalizione Bersani poserà anche con Mussari e Penati». Angelino Alfano su Bersani: «Foto di gruppo BersaniVendola? Ci vuole anche la Camusso». Nencini: «La foto vera del centrosinistra è quella del tre più uno, ci siamo anche Tabacci ed io! ». Pier Ferdinando Casini: «La foto non ce l’abbiamo, ma abbiamo la politica». Fini: «La foto con Monti e Casini? Bisogna avere pazienza. Ma sono convinto che la faremo prima noi». Fini: «Per fare una foto, quella con me, Monti e Casini ci vuole un secondo, per sentire un giudizio comune su Monti da parte di Vendola e Bersani penso che ci vorranno mesi». Casini: «Non facciamo la foto perché seguiamo una strategia elettorale». Monti su Bersani: «Ha l’ossessione delle foto». Di Pietro a Bersani: «Ecco la mia foto con Ingroia!».
SORPASSO
Enrico Pianetta (Pdl) su Bersani: «Per lui Il Sorpasso non è più soltanto un film». Maurizio Lupi: «Il sorpasso è ormai vicino». Franceschini: «Un elettore di sinistra che vota Ingroia, o un elettore arrabbiato che vota Grillo, aumenta le possibilità di sorpasso del Cavaliere». Berlusconi: «Siamo in area di sorpasso». Bersani: «Il sorpasso lo vedono col binocolo». Monti: «Non ho seguito recentemente le misurazioni di velocità di questi convogli». Berlusconi: «Abbiamo messo la freccia». Renato Schifani: «Con Berlusconi abbiamo messo la freccia». Corradino Mineo: «La destra ha finito la benzina». Capezzone: «Il Pdl, come ha affermato Berlusconi, è in corsia di sorpasso. E io aggiungo che il Pd è in corsia di emergenza». Matteo Renzi: «A destra c’è solo la corsia di emergenza, la corsia di sorpasso è a sinistra». Berlusconi: «Il Pd è sulla corsia di emergenza e noi in quella di sorpasso, e allora ha chiesto aiuto ai pm e giornali amici». Renzi: «In Veneto la possibilità di sorpasso è tutta nostra». Berlusconi: «Il sorpasso è avvenuto». Bersani su Berlusconi: «Sorpasso? È andato contromano».
POPULISTA
Nichi Vendola a Berlusconi: «Populista». Walter Veltroni a Berlusconi: «Populista». Franceschini a Berlusconi: «Populista». Bersani a Berlusconi: «Populista». Berlusconi a Grillo: «Populista». D’Alema a Grillo: «Populista». Edward Luttwak a Grillo: «Populista». Magdi Allam a Grillo: «Populista». Vannino Chiti a Grillo: «Populista». Vendola a Grillo: «Populista». Lucio Malan a Monti: «Populista». Massimo Donadi a Monti: «Populista». Cicchitto ai montiani: «Populisti». Flavia Perina a Francesco Storace: «Populista». Albertini a Roberto Maroni: «Populista». Albertini al Pdl: «Populista». Nicola Latorre al centrodestra: «Populista». Vendola al centrodestra: «Populista». Wall Street Journal al centrodestra: «Populista». Tabacci ad Antonio Ingroia: «Populista». Vendola a Berlusconi: «Populista velenoso». Buttiglione: «A destra populisti e fascisti». Ingroia: «Siamo una forza ostativa verso il revival populista».
MERKEL
Osvaldo Napoli su Berlusconi: «Il suo realismo non è inferiore a quello della signora Merkel». Monti: «La Merkel qualche volta si è lamentata della mia durezza». Jole Santelli (Pdl): «Per essere credibili a livello internazionale occorre chinare la schiena all’imperatrice Merkel». D’Alema: «La Merkel viene dalla Cdu e non dalla società civile». Berlusconi: «Non ho mai fatto battute sulla Merkel». Monti: «Sono un alleato scomodo della Merkel». Berlusconi: «La Merkel sa che se vinco io la musica cambia». Monti: «La Merkel ha avuto un’evoluzione positiva». Ignazio La Russa: «Monti è a Berlino per incontrare la Merkel. Gli italiani tremano». Sandro Bondi: «Il siparietto elettoralistico della coppia Merkel-Monti è ridicolmente patetico». Berlusconi: «Monti è andato a prendere ordini dalla Merkel». Casini: «Berlusconi alla Merkel faceva le corna, Monti con lei fa il bilancio». Micaela Biancofiore su Monti: «E’ lo scendiletto della Merkel». Daniela Santanché su Monti: «E’ succube della Merkel». Domenico Scilipoti su Monti: «Portaborse della Merkel». Berlusconi: «La Merkel ha adottato Monti». Paolo Ferrero (Rifondazione): «Basta fare i camerieri della Merkel». Monti: «Non ho passato una notte intera con la Merkel». Giorgia Meloni (F. lli d’Italia): «La Merkel non porta bene in campagna elettorale». Monti: «Io dubito che la signora Merkel voglia che un partito di sinistra vada al governo».
CANI (E UN GATTO)
Micaela Biancofiore con un cucciolo e Berlusconi: «Il mio cagnolino Puggy è la nostra matricola. Ha appena due mesi e crescerà assieme a noi e il nostro consenso». Monti su Empty: «E’ un cucciolo empatico». Antonio Di Pietro: «A casa ho tredici cani, ma non mi faccio fotografare con loro». Ingroia su Boh, cane trovato in un cassonetto: «Se voglio adottarlo? Senz’altro». Paolo Fedeli (Sel) con un cagnolino su twitter: «Il primo che dice che a Sel non c’è neanche un cane... sbaglia di grosso. Benvenuta Braciola! ». Alessandro Sallusti: «Il gatto di Oscar Giannino mi ha aggredito».
L’ANGOLO DELL’ORRORE
Francesco Boccia su Monti: «Dottor Jekyll e Mister Hyde». Alfano su Monti: «E’ un uomo capace di cattivi sentimenti». Grillo su Monti: «E’ un esorcista, è padre Merrin». Bondi su Monti: «E’ il dictator romano». Mussolini: «Monti è un pesce tropicale». Fabio Rampelli (F. lli d’Italia): «Monti Laqualunque». Giulio Tremonti su Monti: «E’ una cosa tipo Dan Brown, ma anche un po’ Alberto Sordi». Monti ai suoi: «Non vorrei che mi aveste preso per un politico». Berlusconi: «Avrei voluto io il colore di Obama, che fa salute». Berlusconi: «Se io avessi 30 mila euro a chi li darei tra Bersani, Ingroia, Monti e Berlusconi? Secondo i sondaggi il 99 per cento li darebbe a me». Bersani su Berlusconi: «Schettino». Ingroia: «Il mio sogno d’adolescenza? Fare il regista cinematografico». Santanché: «Mi fa schifo avere Ingroia in Parlamento, mi fa ribrezzo, mi sta sulle palle». Renato Brunetta su Bersani. «Vada in qualche circo a sbranare qualcuno». Grillo su Berlusconi: «E’ come la mucca Carolina». Stefano Fassina su Mps: «Non era il Pd locale che influenzava la banca, ma era la banca che influenzava il pd locale». D’Alema: «La campagna elettorale assomiglia a uno striptease».

Corriere 24.2.13
Imu e giaguari, l'Abc delle promesse
Dal Web gratuito al tormentone degli enti inutili fino all'addio all'euro
di Gian Antonio Stella


«Prometto tutto a tutti». Per sbarcare a Palazzo Madama l'aspirante senatore bolzanino Oscar Ferrari si è scelto uno slogan assai versatile. Del resto, fa il fruttivendolo e lo sa: il cliente ha sempre ragione. Il guaio è che la sua è una beffarda provocazione ma gli altri, troppi, fanno sul serio. E tante ne hanno fatte, di promesse elettorali, da farci apparire come il collodiano paese di Acchiappacitrulli. C'è di tutto, nel calderone. Impegni futuristi stile «2.0» come la «Cittadinanza digitale per nascita» e «l'accesso alla rete gratuito per ogni cittadino italiano» voluti dal Movimento 5 Stelle. O antichi come l'aratro quale il solito tormentone riproposto dal Pdl: «l'abolizione degli enti inutili», che ha visto finora la bellezza di otto leggi varate da governi di ogni colore a partire dal lontano 1956. E tutti lì, a spiegare cosa farebbero «nel primo Consiglio dei ministri», appuntamento ormai entrato nelle leggende come il Prete Gianni o l'isola di Aeros creata da Jeanette Winterson dove i diamanti sono così abbondanti da essere usati come combustibile e gli abitanti vanno a dormire «su un letto di storie rimboccandosi una storia fin sotto il mento a mo' di coperta». Ed ecco Paolo Ferrero, di Rifondazione comunista, spiegare che lui si dedicherebbe ad «aumentare stipendi, pensioni e istituire un reddito sociale per i disoccupati prendendo i soldi ai ricchi» e Magdi Cristiano Allam, leader di «Io amo l'Italia», assicurare che se ci fosse lui, a Palazzo Chigi, per prima cosa farebbe un decreto per restituire al nostro Paese «la prerogativa di emettere direttamente moneta a credito affrancandosi dal signoraggio della Banca centrale europea e delle banche commerciali. La nuova valuta nazionale sarà emessa a parità di cambio con l'euro e suonerà valore legale immediatamente, salvaguardando il potere d'acquisto e il risparmio degli italiani». E se alle borse non garbasse? «Lo Stato provvederà attraverso gli organi di controllo a contrastare la speculazione dei mercati finanziari e a prevenire gli effetti inflazionistici. » Dopo di che «restituirà immediatamente i 100 miliardi di euro dovuti alle imprese e concorderà con le banche straniere e italiane il ripianamento del debito forzoso contratto attraverso l'emissione di titoli a debito... ». Sia chiaro, niente di nuovo in certi impegni di destra, di sinistra e di centro grondanti di ottimismo. Basti ricordare che nel 1928, alla vigilia della Grande Crisi del '29, Herbert Hoover conquistò la Casa Bianca annunciando, ahi ahi, «un pollo in ogni pentola, un'auto in ogni garage». O che il mitico Corrado Tedeschi, per venire a cose nostrane, tentò la presa di Montecitorio alla guida del «Partito della bistecca» con la seguente piattaforma programmatica: «Svaghi, divertimenti, poco lavoro e molto guadagno per tutti. Tre mesi di villeggiatura assicurati ad ogni cittadino, abolizione di tutte le tasse, grammi 450 di bistecca a testa assicurata giornalmente al popolo, frutta, dolce e caffè». Certo, il popolo oggi forse non ci cascherebbe. Forse. Tuttavia…
A rretrati: «Nel primo Consiglio dei ministri, in caso di vittoria del Pdl, verrà deliberata la moratoria di un anno dei pagamenti arretrati che gravano sulle piccole e medie imprese per debiti con il fisco» (Berlusconi a Mattino5 19 febbraio, vedi Ansa: «Inoltre Berlusconi ha promesso provvedimenti per l'impignorabilità dei macchinari utili al lavoro e della prima casa sempre in caso di debiti fiscali. Ha inoltre assicurato l'eliminazione degli interessi, delle multe e degli oneri aggiuntivi nelle cartelle esattoriali che dovranno pretendere "solo quanto dovuto a titolo di imposta"»).
B ambino: «Un bambino, figlio d'immigrati, nato e cresciuto in Italia, è un cittadino italiano. L'approvazione di questa norma sarà simbolicamente il primo atto che ci proponiamo di compiere nella prossima legislatura» (Bersani, intenti Pd).
C assa del Mezzogiorno: «Ridarò al Sud la Cassa. Nel mio programma firmato dalla Lega c'è un blocco intero che riguarda il Sud. L'istituzione di una nuova Cassa per il Mezzogiorno per canalizzare i fondi europei e fare in modo che siano spesi e quella della Banca del Mezzogiorno, operano già 250 sportelli sperimentali, l'istituzione di zone franche e il potenziamento di uno strumento fatto nell'ultimo anno del Governo Berlusconi» (Tremonti, Corriere del Mezzogiorno 9 febbraio).
D ue anni: «Cambieremo questo Paese in due anni» (Grillo in piazza Duomo a Milano, Adnkronos 19 febbraio). Donne: «Voglio applicare nella giunta lo stesso criterio delle liste. E cioè alternanza di genere. E visto che il presidente sarà uomo, ci dovrà essere maggioranza di donne in giunta. Non è demagogia ma esperienza: non hanno una ma due marce in più. La regola sarà questa: 50% uomini e 50% donne» (Maroni, videochat al Corriere, 13 febbraio).
E dilizio, condono: «Se gli italiani daranno la maggioranza solo a me e al Pdl farò un condono tombale e anche un condono edilizio, perché porta nelle casse dello Stato molti miliardi. Altrimenti cercheremo una maggioranza in Parlamento su quello edilizio» (Berlusconi da Annunziata, Leader, 8 febbraio).
F inanziamento pubblico: «Abbiamo inoltre già pronta una proposta per annullare il finanziamento pubblico ai partiti e dimezzare il numero degli eletti in Parlamento e nelle amministrazioni locali» (Berlusconi, Ansa, 25 gennaio).
G iaguaro: «L'impegno che prendo è che smacchieremo il giaguaro» (Bersani 14 febbraio. Risposta di Berlusconi: «Sappia che se si riferisce a me, sotto le macchie c'è un leone»).
H ospital: «La sanità pubblica spende ogni anno 790 milioni di euro in consulenze, la maggior parte delle quali inutili (…) mentre i cittadini spendono di tasca propria 834 milioni l'anno per pagare i ticket sulle visite specialistiche. Il ticket è una delle tasse più odiose e ingiuste perché è una tassa che ricade su chi è più malato. Per questo noi vogliamo eliminare tutte quelle consulenze che non servono per tutelare la salute e abolire il ticket per sollevare da una spesa aggiuntiva quei cittadini che si devono curare (Bersani, Ansa, 20 febbraio. Replica di Alfano: «Una proposta generica con poche possibilità di attuazione»).
I mu: «Credo di aver dato dimostrazione plurima di aver realizzato le cose con serietà. Non mi chiamerò più Silvio Berlusconi se, vincendo e avendo la maggioranza dagli italiani, nel primo consiglio dei ministri non sarà deliberata l'abolizione dell'Imu e la restituzione» (Berlusconi, Tg La7, 6 febbraio. Mentana: e come si chiamerà? «Giulio Cesare»). «Non sono un imbroglione come ha detto Bersani, ho scritto personalmente una lettera a 9 milioni di elettori. Con quella lettera uno potrà andare dai giudici e chiedere quanto ho promesso se sarò presidente del Consiglio. Con quella lettera inviata agli italiani ho dato un fantastico esempio di serietà. (…) Sono pronto a restituire i 4 miliardi dell'Imu utilizzando la mia fortuna. Per Forbes il mio patrimonio attuale è di 4,5 miliardi? Con mezzo miliardo io vivrò benissimo... » (Tribuna elettorale 22 febbraio).
L ibri scolastici: «Graduale abolizione dei libri di scuola stampati, e quindi la loro gratuità, con l'accessibilità via Internet in formato digitale» (programma del Movimento 5 Stelle). Liste d'attesa in ospedale: «Devono essere pubbliche e online» (programma del Movimento 5 Stelle).
M oneta padana: «È utile e può servire nelle crisi economiche a dare aiuto alle imprese e ci sono studi anche alla Bocconi per creare un circuito alternativo: ci stiamo ragionando e non escludo che anche noi decidiamo di farlo» (Maroni, Ansa 9/2/13. Commento di Bersani: «Potrebbero chiamarla il "marone": un marone, due maroni, tre maroni…»). Mai: «Monti? Come è possibile immaginare che io possa governare con la destra? Perché Monti è la destra, quella destra più compassata, la destra delle élite che pensano di avere il destino del comando. Insomma, io considero Monti, non un nemico, ma un avversario da battere» (Vendola, Ansa, 21/2/13) «Vendola? Allo stato degli atti mi sembra impossibile. Quasi impossibile... Impossibile. Del resto lo ha detto più volte anche lo stesso Vendola» (Monti, TmNews 22 febbraio).
N umero dei parlamentari: «Nella prima riunione del Consiglio dei ministri dimezzeremo il numero dei parlamentari» (Monti, Adnkronos 5 febbraio).
O mosessuali: «Proporrò una legge che garantisca i diritti delle coppie di fatto, anche dei gay» (Berlusconi a Leader di Lucia Annunziata, 8 febbraio).
P atrimoniale: «Vogliamo che la patrimoniale la paghi lo Stato» (Oscar Giannino, Ansa, 13 gennaio, spiegando la sua ricetta per rilanciare l'economia abbattendo il debito pubblico e la spesa: «Corro da solo. È una prova difficile, ma è solo l'inizio. Bisogna dirlo, in fondo il cristianesimo iniziò con dei martiri e dopo duemila anni è ancora tra noi»).
Q uadruplo: «Se gli italiani con il loro voto ci daranno la possibilità di governare già nel primo Consiglio dei ministri approveremo un decreto legge che consentirà ad un'impresa di assumere un nuovo collaboratore senza dover pagare né i contributi né le tasse per i primi anni. Converrà più di un'assunzione in nero. Se ogni impresa assumesse anche un solo giovane avremo 4 milioni di nuovi posti di lavoro (Berlusconi, Rai Web Radio, 7 febbraio. Risposta di Bersani: «Stiamo ancora aspettando la milionata dell'altra volta…»).
R eddito di cittadinanza: «La prima cosa che faremo, dopo essere entrati in Parlamento, è il reddito di cittadinanza per chi perde o non ha il lavoro. C'è in tutta Europa, non lo abbiamo solo noi e la Grecia. Così i giovani non saranno più costretti ad accettare qualsiasi lavoro. Non è giusto che chi si laurea, oppure ottiene per esempio un master all'estero, debba poi lavorare in un call center per 400 euro al mese. Vada la figlia della Fornero a fare quei lavori. Con il reddito di cittadinanza per tre anni daremo mille euro al mese, per dare tempo al disoccupato di cercare lavoro. Daremo noi le opportunità di lavoro negli uffici di collocamento dove, attraverso la rete, offriremo due o tre lavori. Se ti rifiuti perdi il sussidio» (Beppe Grillo, Ansa, 30 gennaio). S pread: «Lo spread si è dimezzato e adesso possiamo impegnarci in una riduzione puntuale e graduale delle tasse, bloccando la spesa. Mi sembra una cosa buona e liberale» (Monti, Ansa, 2 febbraio).
T asse: «Tratterremo il 75% delle imposte lombarde in Lombardia» (Maroni, slogan elettorale. Berlusconi: «Abbiamo chiesto a un comitato, costituito dai nostri governatori delle regioni del Sud, di esaminare questa proposta della Lega, prima di inserirla nel nostro programma. Ci hanno garantito che è realizzabile senza penalizzare in nessun modo il Sud. In caso contrario, d'altronde, non l'avremmo mai potuta accettare». (Berlusconi, La Sicilia, 23 febbraio). Tombale (condono): «Io sarei assolutamente d'accordo nel farlo. È sempre stato avversato dalla sinistra in maniera totale». (Berlusconi a La 7). «Assolutamente sì. Del condono c'è assolutamente bisogno. Se avrò la maggioranza verrà fatto» (a La7, 4/2/13). «Il condono tombale si impone in caso di riforma fiscale radicale» (conferenza stampa, 4-2-13, correggendo quello che aveva detto la mattina).
U briacatura: «Se Monti, Fini e Casini restano fuori dalla Camera mi ubriaco. Questa volta credo che dobbiamo mettere il prosecco in frigo. C'è la possibilità davvero che tra qualche giorno possa ubriacarmi per la prima volta» (Berlusconi, Ansa, 17 febbraio).
V ia dall'Italia: «Se Maroni vince ci stacchiamo dallo Stato centrale, quello che munge le mammelle del Nord. Basta, andiamo per conto nostro: senza più minacce o secessioni. (…) Vinciamo in Lombardia, prendiamo il Nord e lo agganciamo ad altre regioni della bassa Europa, i cantoni Svizzeri, la Francia meridionale. I soldi resteranno qui». (Bossi, Repubblica, 3 febbraio).
W eb: «Io propongo la diretta web del Consiglio dei ministri» (Oscar Giannino, Sole 24 Ore, 23/2/13 teorizzando la massima trasparenza: peccato che per vanità si fosse inventato un master e un paio di lauree e in un comizio avesse urlato: «Chi è contro il merito avrà una voce che gli dirà "Taci Miserabile"»).
Z anzara: «Se mi reintegrano torno a fare il direttore del Tg1 e non il senatore. Il sacro fuoco del mestiere mi tenta più che fare il deputato» (Augusto Minzolini, La Zanzara, Radio24, 19 febbraio).

La Stampa 24.2.13
La sfida con Storace per il dopo-Polverini
Lazio, il voto disgiunto arma per Zingaretti
di Francesca Schianchi


«Maga Magò». «Insulti le donne come Berlusconi». «Farfallone». Dopo 45 giorni low profile - appena qualche fuocherello di polemica, qualche attacco al candidato favorito Zingaretti a cui lui non ha mai risposto (se non con una denuncia per diffamazione) - ecco che tutte le tensioni della campagna elettorale per la presidenza della Regione Lazio si sono sfogate così, all’ultimo, in diretta tv, nel dibattito conclusivo sul Tg regionale.
Ieri giornata di silenzio elettorale e oggi, insieme alle politiche, 4,7 milioni di residenti nel Lazio dovranno anche scegliere chi mettere alla guida di una regione attraversata da problemi grandi come montagne – dalla sanità commissariata all’emergenza rifiuti – e scossa dagli scandali sull’uso dei fondi pubblici che hanno portato alla fine della legislatura Polverini e all’arresto di un paio di consiglieri.
«Siamo certi che Nicola farà un risultato eccezionale, puntiamo anche sul voto disgiunto», spiega un uomo vicino a Zingaretti, figura forte dei democratici nel Lazio, già candidato in pectore al Campidoglio dirottato verso la Pisana per Pd, Sel, Psi, Centro democratico di Tabacci. Contro di lui, in prima linea Francesco Storace, già governatore del Lazio tra il 2000 e il 2005, pugnace leader de La Destra, sostenuto anche dal Pdl e varie altre liste in cui spiccano nomi noti di candidati consiglieri, dall’ex presidente della Camera Irene Pivetti all’ex Grande Fratello Patrick Ray Pugliese. «Francesco ha fatto una bellissima campagna elettorale», commenta speranzoso l’amico e braccio destro Teodoro Buontempo. Ma, come nel quadro nazionale, i poli si sono moltiplicati e la partita non è a due: sono la bellezza di dodici, gli aspiranti governatori.
L’ avvocato Giulia Bongiorno è la candidata dei centristi, «il nuovo», come s’è definita lei; corre per i grillini il trentottenne consulente informatico Davide Barillari, mentre per Rivoluzione civile di Ingroia si presenta il volto televisivo Sandro Ruotolo, giornalista di «Servizio pubblico». Frammentazione nell’estrema destra (tre candidati diversi per Casapound, Forza nuova e Fiamma tricolore), mentre i Radicali ballano da soli, dopo il fallimento «per motivi tecnici» della trattativa di coalizione con Storace. Dodici candidati per un posto al sole: martedì, dopo quello delle politiche, lo spoglio.

Repubblica 24.2.13
Lazio
Altri nove candidati in lizza per la presidenza
Zingaretti contro Storace per dimenticare gli scandali
di Laura Serloni


ROMA — Doppio appuntamento elettorale nel Lazio. Si vota per le politiche ma anche per il rinnovo del consiglio regionale dopo lo scandalo sull’uso distorto dei fondi ai gruppi consiliari che ha travolto la giunta Polverini.
Se nel 2010 si presentarono soltanto tre candidati alla presidenza della Pisana, ora c’è un plotone di aspiranti governatori, sono 12 quelli in lizza e 26 le liste. Nicola Zingaretti, ex presidente della Provincia di Roma, si presenta per il Pd, sostenuto da Sel, Centro democratico, Psi e lista civica per Zingaretti. Il principale sfidante è un nome già conosciuto a via Cristoforo Colombo: Francesco Storace, ex governatore tra il 2000 e il 2005, torna a correre per la Regione Lazio con Pdl, Fratelli d’Italia, Mir, Movimento cittadini e lavoratori, Federazione dei cristiano popolari, Grande Sud, La Destra
e Civica per Storace presidente. Il centro ha calato l’asso dell’avvocato Giulia Bongiorno con la lista civica per Bongiorno presidente. I grillini hanno scelto Davide Barillari, ex sindacalista Cgil con la passione per l’informatica. Ancora il giornalista Sandro Ruotolo per Rivoluzione Civile dell’ex magistrato Antonio Ingroia. I radicali vanno da soli con l’avvocato Giuseppe Rossodivita per Amnistia, Giustizia e Libertà; Alessandro Baldassari per Fare per fermare il declino; Simone Di Stefano con Casapound, Roberto Fiore per Forza Nuova; Luca Romagnoli per Fiamma Tricolore e Luigi Sorge per il partito Comunista dei Lavoratori. La novità è che quest’anno si vota per eleggere 50 consiglieri, 20 in meno rispetto alla tornata elettorale del 2010, così almeno ha deciso il Consiglio di Stato che ha respinto la richiesta di sospensiva presentata da Radicali, Verdi e Socialisti riformisti.

Corriere 24.2.13
Domani dalle 15 il primo verdetto con gli «instant poll»


MILANO — Palinsesti rivoluzionati dal pomeriggio di lunedì per seguire l'esito del voto. Dalla chiusura dei seggi ci saranno maratone su tutte le reti e speciali in prima serata per commentare i risultati.
Instant poll e proiezioni Su Senato, Camera e Regioni ci saranno gli «instant poll» — i mini sondaggi composti da una domanda specifica e accompagnati da una breve serie di risposte chiuse su un campione di intervistati (diversi dagli «exit poll» effettuati tra i votanti all'uscita dei seggi) — a partire dalle 15 su Rai e Sky. Dalle 16, invece, ci saranno le proiezioni — le elaborazioni fatte sui primi gruppi di risultati effettivi dello spoglio — su Rai, Sky, Mediaset e La7.
Sulla Rai Rai1, Rai2 e Rai3 seguiranno l'esito del voto ed è prevista una copertura non stop anche su Rainews. Su Rai1 si parte alle 14.50 con lo speciale condotto da Francesco Giorgino fino alle 18.45, poi dalle 21.20 partirà Porta a Porta, in collaborazione con il Tg1. Due gli speciali in onda su Rai2: il primo dalle 14.50 alle 19.30, il secondo dalle 23.30 alle 24.20. Su Rai3 si parte sempre alle 14.50 con gli ospiti di Bianca Berlinguer, poi alle 19 la linea passerà al Tg3 e dalle 23.10 partirà lo speciale Linea Notte condotto da Maurizio Mannoni fino all'1. Dalle 15 i primi «instant poll» su Politiche e Regionali, dalle 16 le proiezioni, prima del Senato e poi della Camera, realizzate dall'Istituto Piepoli. Infine, dalle 15 di martedì le proiezioni per le Regionali.
Su Mediaset Dalla chiusura dei seggi, Tg5, Tg4 e Studio Aperto si alternano per tutta la giornata con edizioni straordinarie e finestre informative nei vari programmi. Dalle 21.10 su Canale 5 andrà in onda uno Speciale Tg5 fino all'1.30. Su TgCom24 lunga non stop dalle 16. Dalle 16 verranno trasmesse le proiezioni elettorali elaborate da Ipr Marketing e aggiornate ogni mezz'ora.
Su Sky Diretta fiume su SkyTg24 dalle 14.35 di domani alla mezzanotte del 26, con ospiti in studio e reazioni dei principali protagonisti. Prevista una postazione live dalla Galleria Alberto Sordi di Roma. A curare gli «instant poll» e le proiezioni, l'istituto Tecnè. Gli «instant poll», trasmessi a partire dalle 15, saranno realizzati attraverso 52.000 interviste. Le proiezioni invece attraverso 500 seggi campione e riguarderanno le stime nazionali per Camera e Senato.
Su La7 Il pomeriggio di domani sarà interamente dedicato al voto con uno speciale del Tg La7 fino a sera, condotto da Enrico Mentana. Poi Otto e mezzo con Lilli Gruber e, quindi, a Piazzapulita di Corrado Formigli. Tutto sarà in diretta streaming sul sito di La7 e sul canale YouTube dedicato alle elezioni.

La Stampa 24.2.13
“Influenzano i cardinali” La guerra interna dietro le accuse ai media
La Segreteria di Stato contro le notizie “false o non verificate”
di Giacomo Galeazzi Andrea Tornielli


Non si è piegata nei secoli a monarchi e tiranni, ha resistito agli affondi di Federico II e Napoleone e ora non intende abbassare la testa di fronte a Vatileaks. Nel momento in cui si appresta a entrare nell’interregno inedito del passaggio di consegne tra due papi viventi, la Chiesa si appella al passato per alzare la voce: «Giù le mani dal Conclave». Intanto, però, riaffiorano scandali: la pedofilia nel clero, esemplificata dalle polemiche attorno al cardinale statunitense Roger Mahony, i problemi dello Ior, la fuga di documenti riservati. Potrebbero avere un ruolo nel presente e nell’elezione del successore di Ratzinger. E il Vaticano reagisce.
Una mossa che la Santa Sede compie con una nota durissima nelle accuse, ma generica sui destinatari.
Un’iniziativa con la quale la Segreteria di Stato tenta di blindare l’elezione pontificia dalle polemiche sullo scandalo pedofilia (in particolare in Belgio, Usa e Irlanda), a cui si sono aggiunti in Italia i miasmi per le fughe di documenti e i fantasmi del dossier segreto dei cardinali inquirenti Herranz, Tomko e De Giorgi. L’irritazione vaticana è affidata a una rara presa di posizione scritta proveniente dagli uffici guidati dal cardinale Tarcisio Bertone. Una nota che si scaglia contro le notizie «non verificate, o non verificabili, o addirittura false anche con grave danno di persone e istituzioni» con le quali si cerca di condizionare i cardinali in vista del conclave.
«Nel corso dei secoli i cardinali - ricorda il testo - hanno dovuto far fronte a molteplici forme di pressione, esercitate sui singoli elettori e sullo stesso Collegio, che avevano come fine quello di condizionare le decisioni, piegandole a logiche di tipo politico o mondano». Se in passato, continua la nota, sono state le cosiddette potenze, cioè gli Stati, a cercare di far valere il proprio condizionamento nell’elezione del Papa, oggi si tenta di mettere in gioco il peso dell’opinione pubblica, spesso sulla base di valutazioni che non colgono l’aspetto tipicamente spirituale del momento che la Chiesa sta vivendo». Perciò «è deplorevole che, con l’approssimarsi del tempo in cui avrà inizio il conclave e i cardinali elettori saranno tenuti, in coscienza e davanti a Dio, ad esprimere in piena libertà la propria scelta, si moltiplichi la diffusione di notizie spesso non verificate, o non verificabili, o addirittura false, anche con grave danno di persone e istituzioni».
«Mai come in questi momenti - conclude la nota - i cattolici si concentrano su ciò che è essenziale: pregano per Benedetto XVI, pregano affinché lo Spirito Santo illumini» i cardinali, «pregano per il futuro Pontefice».
L’intervento si è aggiunto ad un altro altrettanto forte del portavoce della Santa Sede, padre Federico Lombardi, secondo il quale «non manca chi cerca di approfittare del momento di sorpresa e di disorientamento degli spiriti deboli per seminare confusione e gettare discredito sulla Chiesa e sul suo governo, ricorrendo a strumenti antichi come la maldicenza, la disinformazione, talvolta la stessa calunnia, o esercitando pressioni inaccettabili per condizionare l’esercizio del dovere di voto da parte dell’uno o dell’altro membro del Collegio dei cardinali, ritenuto sgradito per una ragione o per l’altra». Toni irritualmente gravi e l’ardito paragone tra le critiche dei mass media alle gerarchie ecclesiastiche e l’epoca remota delle interferenze di re e imperatori sulla scelta del successore di Pietro.
La nota vaticana era stata informalmente preannunciata come una difesa del viceministro degli Esteri, Ettore Balestrero, la cui promozione a nunzio in Colombia è stata interpretata dai media come una rimozione. In realtà la Curia sembra voler reagire agli attacchi mentre i porporati stanno per entrare nelle congregazioni generali. In particolare si avverte il riferimento alle campagne contro l’ingresso in Conclave di alcuni di loro, come l’arcivescovo emerito di Los Angeles Roger Mahony: persino un settimanale cattolico come «Famiglia Cristiana» ha promosso un sondaggio sull’opportunità della sua presenza tra gli elettori. Ma anche agli articoli che descrivono il Vaticano come la sentina di tutti i mali. Il comunicato ha però anche l’effetto-boomerang di far apparire i porporati in arrivo a Roma come influenzabili da ciò che leggono sui mass media. Dall’annuncio delle dimissioni del Papa in poi sui giornali è stato un crescendo di analisi e retroscena sulle motivazioni delle dimissioni di Benedetto XVI e sugli scenari futuri del conclave. Dal passato sono riaffiorate vicende opache. Commentando la presa di posizione della Segreteria di Stato, padre Lombardi ha precisato che ci sono giornalisti corretti e altri che non lo sono, differenziandosi quindi dai rilievi «erga omnes» della cabina di regia vaticana. «È un periodo delicato e ci sono tipi di informazione diversa - evidenzia padre Lombardi -. Ci sono anche rapporti che parlano della Chiesa in modo molto negativo, calcolato». Non si tratta, quindi, di una condanna generalizzata dei media, che svolgono una «funzione importante». La nota della Segreteria di Stato (negli ultimi tempi se ne ricorda soltanto una analoga sempre sul caso Vatileaks a luglio scorso) spiega che «la libertà del Collegio cardinalizio, al quale spetta di provvedere, a norma del diritto, all’elezione del Romano Pontefice, è sempre stata strenuamente difesa dalla Santa Sede, quale garanzia di una scelta che fosse basata su valutazioni rivolte unicamente al bene della Chiesa».

La Stampa 24.2.13
Mahony non si piega “Sto partendo per Roma”
di Gia. Gal.


CITTÀ DEL VATICANO Il cardinale sentito per la prima volta sugli abusi del clero sui minorenni
Si è difeso senza scomporsi, ma senza concedere margini di dubbio. Il porporato più discusso d’America ha ribadito che lui no, non ci sta a fare da «capro espiatorio». E ribatte di aver subito un’umiliazione enorme quando, in seguito al corposo dossier che ha svelato al mondo lo scandalo dei preti pedofili che ha travolto la diocesi di Los Angeles, è stato allontanato dal suo incarico. Sostituito dall’attuale arcivescovo José Gomez, che si rese protagonista di una durissima reprimenda nei suoi confronti, definendo le vicende emerse dai documenti «brutali e dolorose». Dunque il cardinale Roger Mahony resiste e annuncia su Twitter: «Sto partendo per Roma». Ma prima di volare in conclave l’arcivescovo emerito di Los Angeles ha fornito una deposizione giurata. Faccia a faccia con i legali delle vittime dei preti pedofili, poche ore prima di imbarcarsi sull’aereo che lo porterà in Italia. Poche ore, ma estremamente difficili. Le più travagliate per il porporato che è stato per la prima volta ascoltato su quelle vicende che hanno scatenato una bufera planetaria. L’accusa è di aver coperto almeno 129 casi di abusi su minori compiuti nella sua diocesi negli anni ’80, nascondendo i responsabili alle autorità e aiutando i sacerdoti coinvolti. Spesso incoraggiandoli a rimanere fuori dai confini della California o degli Stati Uniti per sfuggire ad azioni penali nei loro confronti. Mahony, davanti a un giudice e sotto giuramento, è stato chiamato a difendersi dalle domande «senza limiti di temi» degli avvocati di alcune delle vittime degli abusi, rispondendo su almeno una ventina di casi nel corso di una deposizione della durata di circa quattro ore. Il cardinale nell’occhio del ciclone appare comunque tranquillo, nonostante tutto. Sempre su Twitter Mahony promette «cinguettii» anche da Roma ma, spiega, «chiaramente non durante il conclave». Intanto, davanti alla parrocchia di Los Angeles dove risiede, proseguono le proteste, con gli attivisti di Catholic United che intendono consegnargli ben novemila firme di fedeli che hanno aderito all’appello perché non parta per il Vaticano. E «un senso di rabbia, di tradimento e di confusione», scrive il New York Times, pervade anche molti dei vecchi fedelissimi sostenitori di Mahony che si sono ritrovati al Religious Education Congress, il più grande raduno annuale della Chiesa Cattolica americana che si svolge in California. Congresso di cui Mahony è sempre stata una star, mentre quest’anno il workshop a cui doveva partecipare è stato cancellato. «Poche, brevi ore prima della mia partenza per Roma». Parole che confermano che al conclave per l’elezione del Papa ci sarà. Con buona pace delle proteste di chi gli ha chiesto a gran voce di «restare a casa», di fare un passo indietro dopo il coinvolgimento in alcuni dei casi di pedofilia che hanno sconvolto la Chiesa cattolica Usa. Roma non può attendere.

Corriere 24.2.13
«Il mio cuore è umiliato ma sereno» Mahony interrogato per quattro ore
di Francesco Battistini


LOS ANGELES — Mister Mahony, gli dicono. Neanche Eminenza. Nemmeno Vescovo Emerito. Si alzi, mister Roger Mahony. E giuri. Magari non di dire tutta la verità, perché «in questa storia ci vorrà ancora del tempo per chiarire tutte le responsabilità», sospira l'avvocato delle vittime, Anthony De Marco. Dica almeno un po' di verità, mister cardinal Mahony: l'arcivescovo un tempo orgoglioso d'essere il primo «angeleno» nella storia cattolica di Los Angeles, quattro volte prefetto pontificio, nato a Hollywood e finito in questo sudicio copione di angeli violentati e nascosti, già pensionato sotto Ratzinger e messo sotto interrogatorio mentre sta per partire, contestatissimo, verso il Conclave che deciderà il dopo Ratzinger.
Testimone, per ora. Arcivescovo senza più diocesi. «Fortunato a non essere in prigione», ha scritto il Washington Post. In un'insolita udienza a porte chiuse, di sabato, per quattro ore Mahony risponde agli avvocati di quel che avrebbe fatto e, soprattutto, non fatto: l'aver saputo e sottovalutato, il non aver aiutato la giustizia, l'aver lasciato scappare in Messico padre Nicholas Aguilar Rivera, prete pedofilo, ben conosciuto alle gerarchie ecclesiastiche per i «gravi problemi d'equilibrio mentale» e per le torbide risse «a sfondo omosessuale» con giovani che vivevano nella sua chiesetta messicana di Tehuacan, eppure da Mahony sistemato in due parrocchie di Los Angeles, Nostra Signora di Guadalupe e St. Agatha, «perché risolvesse i suoi problemi familiari e di salute» (formula che ogni prete sa che cosa significhi) e qui lasciato libero di maneggiare i chierichetti, di portarseli a casa, di praticare «toccamenti e masturbazione perfino il giorno di Natale, sfruttando la fiducia delle famiglie...».
The Sleepers sono tornati dal passato. In ventisei: erano bambini fra i nove e i tredici anni, allora, e andavano all'oratorio senza immaginare. Quella strage delle innocenze, datata 1988, ha finito per scoperchiare una Californication impensabile, estesa e protratta, con una gigantesca indagine su 508 casi di stupro, 122 sacerdoti, 400 vittime, 660 milioni di dollari già risarciti in accordi extragiudiziali, un dossier di 12 mila pagine che risale fino agli anni Quaranta e che ha sconvolto il successore di Mahony, Josè Gomez, spingendolo a informarne direttamente Benedetto XVI e finalmente a collaborare con la giustizia. «Un comportamento terribilmente triste e maligno», dice monsignor Gomez: il cardinale, e con lui l'ausiliare di Santa Barbara, Thomas Curry, deve spiegare perché l'investigatore Lyon della polizia di Los Angeles, nel suo rapporto, l'accusi d'aver «dato molto meno d'una normale collaborazione» alle indagini. A Mahony, vengono mostrate le carte sul caso messicano e su altri venti abusi. Domande senza limiti. Nei fascicoli c'è una deposizione giurata del cardinale messicano Norberto Rivera Carrera, che in anticipo aveva avvertito la diocesi di Los Angeles dei suoi sospetti su padre Aguilar, consigliando di tenerlo alla larga dalle parrocchie e d'affidarlo a uno psicologo. E poi ci sono le informative di monsignor Curry a Mahony, quand'erano già partite le prime denunce delle famiglie e la direttrice d'una scuola parrocchiale s'era rivolta pure lei alla polizia: lettere riservate che l'Arcidiocesi s'è decisa a pubblicare e nelle quali si spiegherebbe la necessità di non consegnare alla giustizia l'elenco delle vittime, «non c'erano le prove di questi abusi», con comprensibile irritazione dei poliziotti (uno di loro, il capitano Clayton Mayes della Police juvenile division di Los Angeles, dovette minacciare pedinamenti per sapere chi fossero i chierichetti). Secondo gli investigatori, alla fine Curry tentò d'allontanare padre Aguilar, offrendogli un alloggio provvisorio, ma si sentì rispondere dal prete che non ce n'era bisogno: tempo due giorni, sarebbe tornato in Messico (dov'è tutt'ora latitante e sospeso a divinis). Né il cardinale, né il suo vescovo avrebbero fatto nulla per impedirne la fuga.
«Il mio cuore è umiliato ma sereno», dice Mahony. Le valigie per Roma sono pronte, stavolta non ci sarà il tempo e forse non sarà il caso di passare dalla solita pizzeria di via (nomen omen) del Seminario. Il cardinale promette che «twitterà spesso», prima del Conclave. La linea difensiva è ribadita: tutte queste accuse sono false, non potevo immaginare un epilogo del genere. E perché troncò, sopì? C'era l'urgenza di non sconvolgere parrocchie problematiche con vicende ancora da dimostrare, ha spiegato monsignor Curry, lì c'erano già tensioni nella comunità ispanica. Mahony porta una croce sul petto e una molto più pesante, ha scritto a un fedele, sulle spalle. Perché sente le sue «umiliazioni» simili a quelle che patì Nostro Signore: «Sono stato chiamato a qualcosa di più profondo: l'essere umiliato, caduto in disgrazia, rifiutato da molti». Davanti alla sua casa di Hollywood, gli stand up si dividono fra la notte degli Oscar e quella della Chiesa. Alla parrocchia di San Carlo Borromeo, dove il cardinale celebra ancora i sacramenti, hanno appeso le novemila firme dei cattolici che non lo vogliono a Roma. Su uno c'è un disegno, Mahony che tiene sulle gambe un bebè: vestito da prete.

Repubblica 24.2.13
Los Angeles, interrogato dai giudici sulla “copertura” della fuga di un sacerdote. È ancora polemica
Pedofilia, Mahony quattro ore sotto torchio “Pronto comunque a partire per Roma”
di Federico Rampini


NEW YORK — Quattro ore inchiodato davanti al giudice. A rispondere “ under oath”, sotto giuramento e quindi a rischio d’incriminazione per falsa testimonianza, in caso di omissione o di menzogna. A interrogarlo: i legali di una ventina di vittime di un prete pedofilo. È il viatico che la giustizia americana ha riservato al 77enne Roger Mahony, cardinale di Los Angeles, poco prima della sua partenza per il conclave di Roma. Lui non si smuove dalla sua decisione: parteciperà all’elezione del nuovo papa. Lo conferma su Twitter dove il suo ultimo messaggio trasuda emozione ed eccitazione per il grande evento. E nessun accenno allo scandalo, né all’interrogatorio davanti al giudice. Mancano «poche, brevi ore prima della mia partenza per Roma », così il cardinale “parzialmente” castigato dalla sua stessa diocesi conferma che nulla è cambiato nei suoi programmi. Promette pure che continuerà a twittare, «spesso ma non durante»: il conclave s’intende.
Zero “cinguettii” sulla sua vicenda giudiziaria, invece. Lo nota, indignato e sarcastico, il telecronista di Abc NewsDavid Wright: «Forse i 140 caratteri di Twitter non bastano? ». Certo, 140 caratteri sono pochi per riassumere quattro ore di deposizione. Al centro dell’interrogatorio di ieri, c’è uno solo dei preti accusati di pedofilia. Tutte le vittime chiamano in causa Mahony per avere protetto i sacerdoti e perfino collaborato alla loro fuga. In questo caso si tratta di padre Nicolas Aguilar-Rivera, accusato di avere molestato sessualmente 26 bambini nel 1987. Mahony, che era il suo superiore, deve rispondere sulla fuga: il prete riuscì a scappare in Messico, sottraendosi alla polizia degli Stati Uniti, grazie alla soffiata di un collaboratore del cardinale. Le vittime di pedofilia che hanno chiamato in causa il cardinale sono molte di più: almeno 129, secondo le 12mila pagine di documenti che la diocesi ha dovuto consegnare ai magistrati. Il “caso Mahony al conclave” è stato rilanciato da una settimana, grazie alla petizione della Catholics United (associazione di fedeli progressisti) che gli hanno chiesto di non recarsi a Roma. Lo scandalo ha turbato il più grande raduno annuo dei cattolici americani, Religious Education Congress, che si è aperto giovedì ad Anaheim in California. Un congresso del quale per molti anni fu proprio Mahony il principale animatore. La vicenda conquista la prima pagina del New York Times, che ricostruisce il conflitto senza precedenti esploso ai vertici della diocesi di Los Angeles. Il successore di Mahony, l’arcivescovo José Gomez, ha usato parole dure: definendo «brutali e dolorose» le rivelazioni contenute in quei 12mila documenti consegnati alla magistratura.
Mahony non si è rassegnato a subire la rampogna, tantomeno le sanzioni (modeste) che Gomez gli ha inflitto sospendendolo da «responsabilità operative». Il cardinale indagato ha affermato che il suo successore era al corrente delle procedure usate dalla diocesi per gestire le denunce contro i preti per abusi sessuali. Sarà un caso, ma dopo quella chiamata di correo, Gomez ha smesso di attaccare il predecessore. Il New York Times dà spazio anche a dettagli “politici”: Gomez, rivela il quotidiano, è stato formato nei ranghi dell’Opus Dei ed è considerato un conservatore. Mahony era un riformista che fece scelte audaci promuovendo donne, immigrati e laici in posizioni di potere. Ma lo scandalo pedofilia diventa l’eredità più pesante, anche per il costo enorme: 660 milioni di dollari di risarcimenti già patteggiati verso 500 vittime.

Repubblica 24.2.13
Il partito ligure della Curia
Case, chiese, scuole e cliniche l’Opa della “cordata ligure” sul tesoro della Vaticano Spa
“Bertoniani” contro tutti, per il controllo del patrimonio da 2mila miliardi
di Concita De Gregorio


LE DIVISIONI nel corpo ecclesiale deturpano il volto della Chiesa. La chiave della «rinuncia» è tutta nelle parole del Papa. Nei suoi discorsi pubblici degli ultimi mesi. Non c’è bisogno delle «falsità maldicenze e calunnie» evocate da padre Lombardi.
“Penso a come il volto della chiesa venga a volte deturpato. Penso in particolare alle divisioni nel corpo ecclesiale”.
Benedetto XVI, Mercoledì delle Ceneri, 13 febbraio 2013.

Basta riascoltare Benedetto XVI, da ottobre a oggi. La zizzania nel campo del Signore. I pesci cattivi nella rete di Pietro. I peccati personali che diventano «strutture del peccato». La tentazione del potere, strumentalizzare Dio per i propri interessi, i beni materiali. Infine, interrompendo il silenzio degli esercizi spirituali di questa settimana: «Il bello della creazione sporcato dalla corruzione ». Come un sospiro, dieci giorni fa, un’altra parola logorata dalla politica e potentissima se riferita alla chiesa, alla Curia: divisioni.
«Quante divisioni ha il Papa?», si racconta che Stalin abbia domandato a Yalta, sarcastico. Divisioni nell’altro senso del termine: soldati, truppe, battaglioni. Nessuna. Il Papa non aveva e non ha uomini dalla sua, né allora né oggi. Quante lacerazioni ha davanti e attorno a sé il Papa, quante divisioni nella Curia? Moltissime, certifica la relazione che gli hanno consegnato il 17 dicembre i tre cardinali inquirenti. «Divisioni, dissidi, carrierismi, gelosie », ha detto ieri il cardinale Ravasi. Nessuna divisione, tutte le divisioni. Per congregazione di provenienza, geografia — i liguri, i liguri — per attitudine alla meditazione o alle relazioni mondane. In quest’ultimo caso, per qualità delle relazioni mondane e per genere, con relativa ricattabilità. «Sono in gioco le violazioni del sesto e del settimo comandamento», ha riferito chi ha contribuito all’indagine disposta dal Papa. Non commettere atti impuri, non rubare. Alla categoria del “non rubare” si ascrive l’ampia documentazione della Relationem relativa alle principali fonti di reddito della Chiesa: lo sterminato patrimonio immobiliare, la sanità cattolica con le sue 125mila strutture private nel mondo. Edifici, ospedali. Gli abusi (le tangenti, per esempio: intermediazione immobiliare nei contratti di affitto e compravendita) hanno radice qui, e potentissimi sono coloro che governano la sanità e l’amministrazione del patrimonio (Apsa), la Prefettura degli affari economici che dovrebbe controllare le transazioni. Ne parleremo fra un momento.
Prima, ancora un cenno alle ragioni del gesto del Papa. La rinuncia. Un gesto che da ora e per sempre segna la differenza fra “essere Papa” e fare il Papa. «Perché se da oggi fare il Papa diventa un mestiere, se da oggi un padre può non “essere padre” dei suoi figli ma farlo per un tempo dato e se del caso rinunciare allora tutto cambia, nel destino della Chiesa e in quello di chiunque», dice un alto prelato a lungo braccio destro del cardinale Martini, del quale ricorda le ultime parole: «La Chiesa è in ritardo di 200 anni». Quale ritardo? In che senso? «Nel senso della collegialità, in primo luogo. Bisogna riprendere il lavoro del Concilio. La collegialità della chiesa oggi è bloccata. La
governance della Chiesa indebolita. Il Sinodo dei vescovi è consultivo e non serve a nulla. Il Papa è rimasto isolato, un uomo solo col peso dei suoi 86 anni». Un cardinale nordamericano, risanatore della Chiesa Usa, ha detto che fin dall’ultimo pontificato di Giovanni Paolo II «la scelta dei porporati è caduta sum nyes and grey men». Accondiscendenti e grigi. Alla domanda se il Papa sia stato indotto alla rinuncia da qualche forma di pressione, la domanda che il mondo intero si pone, risponde così un alto esponente della congregazione dei Vescovi, collaboratore del cardinale canadese Ouellet: «Noi non sapevamo nulla. Il Cardinale Ouellet, responsabile della selezione della classe dirigente della Curia, non sapeva nulla. Per farle un esempio molto distante dalla realtà è come se il direttore del suo giornale si dimettesse senza che i suoi vicedirettori ne fossero informati. Come se lo facesse solo parlandone con suo fratello. E col suo editore, certo, che però in questo caso è il Signore. Ciascuno potrebbe concludere che non si fidava degli uomini. Che era solo. E che lo ha fatto per reagire a una situazione divenuta per lui, per varie ragioni anche personali, insostenibile ».
Un gesto di forza, di denuncia, non di debolezza. Questo ha detto a caldo il cardinale De Giorgi, uno dei tre inquisitori («Un gesto di fortezza»). Questo dice uno dei papabili, il giovane filippino Luis Tagle: «Il gesto di coraggio e di sincerità del Papa». Coraggio. La stessa parola di Walter Kasper, per dieci anni a capo dei rapporti con le altre congregazioni, teologo: «Ho la stima più alta per questo gesto di coraggio e di umiltà». Ha preso su di sé la croce, non né è sceso, per usare la metafora di monsignor Stanislao. E qui, un’altra coincidenza. Si dice in queste ore che per completare il lavoro che Ratzinger sta portando avanti ancora in questi giorni con le nomine e le designazioni post rinuncia (Calcagno allo Ior, Versaldi all’Idi, Balestrero in Colombia) occorrerebbe una persona «informata dei fatti». Non un Papa lontano dalla rete oscura delle “divisioni” vaticane, ma qualcuno che le conosca e sappia domarle. Lo spagnolo dell’Opus Dei, Herranz, per esempio, presidente della commissione inquirente ed estensore della Relationem.
Il 17 dicembre del 2004, scrive Herranz nel suo libro “Nei dintorni di Gerico”, proprio con padre Stanislao Dzswisz, allora segretario di Wojtyla, discusse della possibilità della rinuncia del Papa. E del «pericoloso precedente » che avrebbe costituito per i successori, poiché sarebbero potuti «rimanere esposti a manovre e sottili pressioni da parte di chi desiderasse deporre il pontefice ». Lo stesso giorno di otto anni dopo, 17 dicembre 2012, Herranz ha consegnato la sua voluminosa relazione a Ratzinger. Da lì alla rinuncia meno di due mesi. Manovre e sottili pressioni.
«È nella Relationem la chiave di tutto», dice un banchiere cattolico molto informato delle cose Ior: «Un Papa deve assicurare Magistero e Governo della Chiesa. Benedetto XVI ha delegato la governance, si è occupato prevalentemente del Magistero. Bisognerebbe rileggere “Le cinque piaghe della chiesa” di Rosmini: l’ignoranza dei preti, l’influenza dei laici. Il potere economico, la ricattabilità. Al governo dei potentati ecclesiastici sono insediati, oggi, i nemici del Papa». I potentati ecclesiastici, sotto il profilo economico — la «tentazione» di cui parla Benedetto — sono i vertici della banca vaticana, lo Ior, ma prima ancora e insieme i luoghi da cui il denaro si moltiplica. I beni della Chiesa. Proviamo a illuminare uno dei centri di potere vaticani più rilevanti. La linea di comando che gestisce le due principali fonti di reddito. Immobili, enti sanitari. Ecco la lobby ligure. A capo del patrimonio immobiliare, Aspa, c’è il cardinale Domenico Calcagno, bertoniano, ligure, da pochi giorni promosso alla commissione cardinalizia dello Ior con i buoni uffici del direttore generale Cipriani, uomo di Geronzi. Il patrimonio della Chiesa è insondabile, non censibile. Ammonta a circa duemila miliardi, dicono, mille dei quali — secondo una stima del Sole 24 Ore — in Italia. Quasi un milione di immobili nel mondo, in costante crescita per via delle circa 10mila donazioni tramite testamento all’anno. Un quarto della città di Roma, quanto a fabbricati, sarebbe di proprietà vaticana. Il gruppo Re, consulente delle Santa Sede, stima che un quinto del patrimonio immobiliare italiano sia della Santa Sede. Quanti Stati al mondo possiedono tanto?
E torna in mente il ruolo di Marco Simeon, sanremese, giovane uomo (laico) di Bertone, nelle intermediazioni immobiliari. La parcella da lui incassata (un milione e 300mila euro) per la vendita del convento di viale Romania, a Roma, o dell’edificio di via Carducci 2 per il quale il ministro Tremonti e il suo assistente dell’epoca, Milanese, si adoperarono per far ottenere l’extraterritorialità. Dettagli illuminanti. Sono liguri Balestrero, uomo di fiducia di Bertone (che è piemontese, ma genovese d’adozione), appena “promosso” nunzio in Colombia e fino a ieri interfaccia della Segreteria di Stato con lo Ior; Mauro Piacenza, di Bertone antagonista ma intimo di Balestrero; Domenico Calcagno, capo dell’Apsa e ora allo Ior. E poi c’è Giuseppe Versaldi, cardinale comandato al risanamento dell’Idi e capo della Prefettura degli affari economici: dal 15 febbraio ha l’incarico di occuparsi dei problemi economici dei Concezionisti. E l’Idi, da loro controllato, avrebbe dovuto essere, nel disegno di Bertone, uno degli snodi dei sistema sanitario cattolico italiano insieme a Gemelli, San Raffaele, Casa del sollievo di San Giovanni Rotondo e Bambin Gesù. Le strutture sanitarie cattoliche nel mondo, dice il presidente del consiglio pontificio pastorale per gli operatori sanitari Zygmund Zimoski, sono 125 mila. In Italia, quasi 5mila e convenzionate con le Regioni. Ma l’operazione San Raffaele è fallita, ne sa qualcosa Giovanni Maria Flick chiamato all’epoca nel consiglio di amministrazione della fondazione Monte Tabor. Ne sa molto anche Giuseppe Profiti, ex Gaslini, ex Galliera, ex direttore della Gdf e poi delle Risorse finanziare della Liguria, condannato a sei mesi per concorso in turbativa d’asta per l’affare delle mense di Savona e messo da Bertone a capo dell’ospedale pediatrico romano. La lobby ligure, «influenzata dall’esterno », dai ricatti dei laici che hanno fatto carriere in Vaticano grazie al loro potere d’influenza, come ben sa il cerimoniere pontificio monsignor Francesco Camaldo. Tutto si tiene, dentro le mura Vaticane. Tutto si sa. Chi esce e chi entra.
Ed è molto rilevante il lavoro della società di bonifica chiamata a rendere sicuri i locali della residenza di Santa Marta, il convitto dove dal 1 marzo saranno ospitati i 117 cardinali del conclave, camere estratte a sorte per sorteggio per evitare favori. Letti a una piazza e mezza, bagno in camera, wi-fi per tutti. Ma Twitter proibito, pena la scomunica. Pericolo cimici, orecchie in ascolto. Il Papa della rinuncia, il monaco che come Celestino V ha deposto le armi di una battaglia impossibile, aleggerà come un’ombra sul Conclave. Essere Papa. Fare il Papa. Riportare la Chiesa, nonostante gli scandali, alla guida morale del mondo. Fare reset, direbbe il giovane nordamericano dell’Opus Dei che ha portato Ratzinger su Twitter. Ricominciare senza perdere i due millenni trascorsi. Questa la posta in palio. Resistere, trasformarsi, o soccombere.
(3 - fine)

Repubblica 24.2.13
Ma tra i cardinali ora cresce la fronda “Sul rapporto shock non si può più tacere”
Le accuse di Pell. Gli autori: resterà segreto, se ne parlerà in sintesi
di Paolo Rodari


CITTÀ DEL VATICANO — Anche se la “Relationem”, il dossier segreto dei tre cardinali incaricati di indagare su Vatileaks e la fuga di documenti riservati dall’appartamento papale, resterà nella cassaforte del Papa all’interno del suo appartamento e non sarà resa nota, è oramai evidente che i veleni interni alla curia romana entreranno gioco forza in conclave. Non a caso, è stato a sorpresa il papabile arcivescovo di Sydney George Pell — due anni fa il suo possibile arrivo a Roma alla guida della Congregazione dei Vescovi fu bloccato da voci fatte circolare in Vaticano riguardanti scandali di pedofilia verificatisi nel clero della sua diocesi — a dire: «Dopo aver letto i retroscena dei quotidiani italiani sul dossier segreto, il cui contenuto mi è ignoto, credo sia doveroso che il Vaticano dica qualcosa in merito». E ancora: «Se il dossier contiene ciò che i quotidiani italiani sostengono, allora occorre una profonda riforma di tutta la curia romana e del Vaticano stesso». Parole condivise da altre berrette rosse, su tutti i cardinali statunitensi che non sembrano disposti a passare per i soli “insabbiatori” sui casi di pedofilia del clero. Costretti a deporre dinanzi a tribunali laici e a scoprire scheletri vecchi magari di anni, chiedono che Roma mostri all’intero collegio cardinalizio la medesima volontà di trasparenza.
Molte cose sono cambiate da quando dieci mesi fa i tre cardinali avevano iniziato a lavorare nell’indifferenza di tutto il Vaticano. «Cosa mai potranno scoprire di nuovo tre porporati ultraottantenni? », si chiedevano non senza ironia alcuni monsignori di curia. E, invece, dal 24 aprile scorso a oggi, lo spagnolo Julian Herranz, lo slovacco Jozef Tomko e l’italiano Salvatore De Giorgi — sono loro a formare la commissione d’inchiesta — hanno dato fondo a tutta la propria esperienza di navigate talpe del mondo ecclesiale e hanno redatto un dossier che si dice voluminoso e che, stando anche soltanto ai tormenti che provoca fra porporati e vescovi, sembra essere esplosivo.
Oltre ai tre cardinali e al padre cappuccino Luigi Martignani, il segretario della commissione che già da tempo è in forza alla segreteria di stato vaticana, l’unico ad aver letto il dossier è Papa Benedetto XVI. Domani egli incontrerà Martignani e i tre cardinali in un’udienza che non sarà di routine. Nonostante, infatti, fosse in tabella da prima che Ratzinger annunciasse la volontà di dimettersi non è stata soppressa. Se si fosse trattato di un semplice congedo, di un saluto di ringraziamento, il Papa avrebbe soprasseduto, ma così non è stato.
Herranz, Tomko e De Giorgi offriranno una valutazione conclusiva riguardo a un lavoro che già dalla metà dello scorso dicembre si trova all’attenzione del Papa, si assicureranno che tutto il dossier resti nelle mani di Ratzinger, ed eventualmente del suo successore, ma che non arrivi ad altri. Insieme, offriranno la propria disponibilità a parlare durante le congregazioni generali che precedono il conclave qualora qualche cardinale presente chieda espressamente di conoscere il contenuto del loro lungo e minuzioso lavoro.
Beninteso, è «del tutto improbabile », dicono fonti vaticane, che i tre cardinali svelino i nomi delle personalità sulle quali hanno indagato, come anche i nomi dei tanti che sono stati chiamati a vario titolo a deporre durante i dieci mesi di lavoro. Ma un’idea di massima su quanto il dossier contiene «non è escluso» che non la possano dare. Herranz, in particolare, non avrebbe nessuna difficoltà, se richiesto, a offrire una sintesi di massima a beneficio di tutti gli elettori.

Repubblica 24.2.13
Ma il peccato è nella Chiesa
di Vito Mancuso


LA SEGRETERIA di Stato vaticana ha emesso un comunicato che nei toni e nei contenuti non fa un bel servizio alla causa del rinnovamento della Chiesa alla luce degli ideali evangelici. Il comunicato è riconducibile al cardinal Bertone.
Eha il chiaro obiettivo di attaccare la stampa per la diffusione di notizie “spesso non verificate, o non verificabili, o addirittura false”, mirate, sostiene il testo, a condizionare la libertà dei cardinali elettori. E per motivare la tesi l’autorevole comunicato vaticano si rifà alla storia, dicendo che come un tempo erano le potenze statali a fare pressioni sui cardinali per piegarne le decisioni a “logiche di tipo politico o mondano”, così ora è la stampa a pilotare a suo piacimento l’opinione pubblica per piegare i cardinali alle medesime logiche estranee al governo della Chiesa.
Ogni riferimento alla storia è prezioso e va salutato con gratitudine, inoltre la storia delpapatoèineffettitalechenessunopuòaveredubbisullepressionisubitelungo i secoli dai cardinali prima delle elezioni e, aggiungo io, dai papi una volta eletti. Non a caso a partire dal XIII secolo l’assemblea dei cardinali elettori dovette svolgersi a porte  chiuse proprio per evitare che gli alti prelati non giungessero mai al dunque a causa dei continui contatti con il mondo esterno, e da allora venne detta per l’appunto “conclave”, che, com’è noto, riproduce l’espressione latina cum clave, riferita alla sala dell’elezione chiusa “a chiave”. Ricordandosi bene di tutto ciò, il cardinal Bertone ha argomentato accostando i condizionamenti sui cardinali delle potenze statali del passato alle notizie diffuse in questi giorni dai giornali. Mutati i protagonisti e i metodi, l’obiettivo, dice Bertone, è il medesimo: minacciare la libertà del Collegio cardinalizio.
Io penso però che il riferimento ai secoli passati sia del tutto fuori luogo. Un tempo il papato aveva un ruolo decisamente cruciale per la politica degli Stati europei e per le vaste porzioni di mondo da essi controllati, sicché il destino di interi popoli e di intere economie poteva dipendere dall’elezione al soglio pontificio di quel cardinale filo-francese o di quello filo-austriaco o di quell’altro ancora filo-spagnolo. Oggi le cose (se in meglio o in peggio ognuno lo valuti da sé) sono profondamente mutate: tutte le principali istituzioni politiche ed economiche a livello mondiale ed europeo non solo funzionano del tutto a prescindere da condizionamenti ecclesiastici, ma rifiutano esplicitamente ogni possibile riferimento religioso, persino se semplicemente teso a rievocare la storia del passato, com’era nel caso del preambolo della progettata Costituzione europea a proposito delle radici cristiane. Ritengo che neppure per gli equilibri del Parlamento italiano l’elezione di questo o di quel cardinale possa avere un peso rilevante. Mentre, quindi, era evidente che nel passato la libertà dei cardinali elettori era minacciata da reali interessi esterni, ora essa può essere minacciata solo dalle logiche di potere “interne” alla Chiesa e dalle divisioni che ne conseguono. La libertà dei cardinali è minacciata dal peccato della Chiesa. Dalla “sporcizia” della Chiesa. Dalla lacerazione e dalle inimicizie di cui danno spettacolo i Principi della Chiesa. Tutte cose che non mi invento io, ma che sono state denunciate, anche in questi giorni, da Joseph Ratzinger. E delle quali il cardinale Segretario di Stato è uno dei principali responsabili, come si evince leggendo le carte segrete trafugate a Benedetto XVI dal maggiordomo che, per quanto illegalmente sottratte, sono tutte tremendamente vere.
Ma vorrei aggiungere un’ultima cosa. Se non fosse stato per il mondo dell’informazione, che a livello mondiale ha denunciato gli orrori della pedofilia ecclesiastica, papa Benedetto XVI non avrebbe mai intrapreso l’opera di rigore poi effettivamente messa in atto e che spero stia dando qualche frutto. La coscienza cattolica eticamente formata deve essere quindi grata alla stampa, come a ogni agenzia che fa emergere la verità. Lo dovrebbe essere anche il Vaticano, perché tramontando ormai irrimediabilmente ogni possibilità di influire sulla politica degli Stati, gli resta solo il peso dell’opinione pubblica per contare ancora qualcosa nel mondo – sempre ammesso che la Chiesa che annuncia il Vangelo debba ripromettersi di contare qualcosa nel mondo.

Repubblica 24.2.13
La Santa Sede
L’Osservatore: “Su Grillo giudizi troppo sommari”


ROMA — L’Osservatore romano, il giornale della Santa Sede, non sottovaluta il fenomeno Grillo. O meglio, i suoi elettori. «Su tutti incombe l’incognita di quali dimensioni avrà il successo del Movimento 5Stelle, un fenomeno trasversale che con ancora troppa superficialità viene liquidato come espressione di antipolitica, di populismo o di demagogia », scrive il quotidiano nell’edizione di ieri. Il comico lancia «slogan che non rappresentano adeguatamente un elettorato che persegue anzitutto
un rapporto diretto con i suoi rappresentanti ». Ma la politica tradizionale «è avvertita, spesso non a torto, desolatamente autoreferenziale».
Grillo dunque incassa anche l’attenzione del Vaticano. E ieri sul suo blog ha postato il video dell’intervento a Piazza San Giovanni con una nota: «Abbiamo trovata una via e ci porta verso il futuro, un futuro forse più povero, ma vero, concreto, solidale e felice. C’è una nuova Italia che ci aspetta. Sarà bellissimo farne parte».

Corriere 24.2.13
Un compagno del coro e altri tre testimoni sentiti sul caso Orlandi
di F. Pe.


ROMA — Trent'anni fa frequentava la scuola di musica di Sant'Apollinare, la stessa dove fu vista per l'ultima volta il 22 giugno 1983 Emanuela Orlandi, la figlia del messo pontificio di papa Wojtyla. E ieri mattina, «profondamente turbato», è stato ascoltato a Piazzale Clodio dal procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo. Il nuovo testimone, L.B.B., di poco più piccolo della ragazza scomparsa (che oggi avrebbe 45 anni), in occasione delle lezioni di coro avrebbe assistito a scene scabrose che sembrano rafforzare la pista sessuale. Uno scenario legato anche all'iscrizione (un anno fa) nel registro degli indagati di monsignor Piero Vergari, l'allora rettore della basilica. L'inchiesta su uno dei gialli più inquietanti del Dopoguerra (di cui si è occupato ieri Gianluigi Nuzzi su La7) registrano dunque un'accelerazione. Nei prossimi giorni si terrano nuove audizioni che potrebbero fornire altri dettagli sull'ambiente di Sant'Apollinare, comprese le voci su una stanza «con diversi letti a castello» a disposizione di seminaristi in contatto con don Vergari. Uno dei quali, intercettato, parlava con lui di giochi a luci rosse molto espliciti.
Pietro Orlandi, che di recente ha lanciato sul web una petizione al Vaticano (fino a ieri sera 122.736 adesioni) perché «venga istituita una commissione d'indagine cardinalizia sul sequestro di mia sorella», ha un ricordo preciso: «La direttrice, suor Dolores, preferiva far cantare gli allievi in altre chiese. Strano no? Sapeva di giri pericolosi?». Stamattina lo stesso Orlandi sarà in piazza San Pietro, «nella speranza che papa Ratzinger, nel suo ultimo Angelus, ricordi Emanuela e la necessità di arrivare alla verità».

Corriere 24.2.13
In Spagna migliaia in marcia sul Parlamento contro l'austerità


MADRID — Migliaia di persone ieri hanno marciato sul Parlamento spagnolo per protestare contro le misure di austerità, la privatizzazione dei servizi pubblici e la corruzione politica. I gruppi di protesta si sono uniti sotto lo slogan «Marea dei cittadini, 23F», in riferimento alla data del 23 febbraio del 1981, il giorno del fallito attacco delle forze armate al Parlamento per rovesciare il governo.
La Spagna è «sotto un colpo di Stato finanziario», hanno affermato gli organizzatori, invitando la gente a marciare contro quello che definiscono un trattamento di favore del governo nei confronti delle istituzioni finanziarie a spese dei cittadini comuni.
Dimostrazioni analoghe hanno fatto scendere in strada studenti, dottori, sindacalisti, giovani famiglie e pensionati anche in altre 80 città in tutta la penisola iberica.

Corriere 24.2.13
La famiglia di Kate e quei bimbi messicani sfruttati
di Maria Serena Natale


Sono grandi numeri di cartone cuciti e imbottiti di caramelle. Bisogna forarli con un bastoncino, così la pioggia di dolci ricade sui bambini. Un gioco molto popolare alle feste di compleanno della borghesia britannica. Dietro quei numeri colorati c'è il lavoro di altri bambini, altre famiglie che sopportano condizioni disumane per pochi centesimi all'ora. Secondo un'inchiesta del quotidiano Daily Mail tra le società coinvolte nel business c'è anche la «Party Pieces», solidissima azienda di Carole e Michael Middleton, i genitori della futura regina d'Inghilterra. Un brutto colpo per la perfetta Kate, a pochi giorni dall'attacco della scrittrice Hilary Mantel che l'ha definita «una bambola snodabile con il sorriso di plastica».
Il Mail ha ricostruito al contrario il viaggio dei gadget, scoprendo laboratori improvvisati tra scatoloni e brandelli di lamé nelle cucine di Tijuana, la città messicana feroce crocevia del traffico di uomini e di droga. Gli operai sono persone come Monica, 38 anni, e i suoi figli Jonathan di 18 e Stephanie di 5: 10 ore di lavoro al giorno, 7 giorni a settimana, per circa 11 centesimi di euro all'ora. Sul suo sito Web, «Party Pieces» propone oltre 40 modelli di gadget, numeri, animali, castelli al costo di 15 euro l'uno. Un contorto labirinto di appalti e subappalti separa il produttore dal venditore finale ed è probabile che i Middleton non fossero a conoscenza delle condizioni dei lavoratori di Tijuana e degli altri centri sparsi tra l'Asia e le Americhe.
L'azienda di famiglia che ha lanciato le due sorelle nei migliori ambienti del Regno era nata nel 1981 da un'idea dell'intraprendente Carole, «mamma ex machina» della favola di Kate (che in passato ha lavorato part-time per l'ufficio vendite). Oggi «Party Pieces» è una storia di successo che rientra nel mito del miracolo sociale targato Middleton, con la festaiola Pippa al timone della rivista online dall'ambizioso titolo The Party Times. «Lavoreremo insieme con i nostri fornitori per avviare un'inchiesta» ha dichiarato ieri il portavoce della società. A Tijuana, Stephanie e Monica che hanno sognato davanti alla tv il giorno delle nozze di William e Kate, ascoltano con stupore il reporter che collega la loro cucina a Buckingham Palace. «Ditelo alla principessa — si raccomanda Monica — lei forse può fare qualcosa per noi».

l’Unità 24.2.13
Obama ai giudici: «Via il divieto sulle nozze gay»
L’amministrazione chiede alla Corte Suprema di abrogare la norma che riconosce il matrimonio solo tra uomo e donna
La Casa Bianca: «Viola l’uguaglianza davanti alla legge, è incostituzionale»
di Marina Mastroluca


Non è stata esattamente una sorpresa, nonostante la levata di scudi in casa repubblicana. L’amministrazione Obama ha chiesto formalmente alla Corte suprema di abrogare una legge federale degli anni 90 che definisce il matrimonio come l’unione tra un uomo e una donna. Il Defense of Marriage Act, secondo la Casa Bianca, «viola la garanzia fondamentale dell’uguaglianza davanti alla legge» e quindi la stessa carta costituzionale.
È la prima volta che un presidente degli Stati Uniti si schiera apertamente a favore dei diritti degli omosessuali davanti alla Corte Suprema. Obama lo aveva già fatto pubblicamente nel discorso inaugurale del suo secondo insediamento, quando ha ricordato che il «viaggio» della democrazia americana potrà considerarsi compiuto solo quando «i fratelli e le sorelle gay saranno uguali a gli altri davanti la legge». E alle parole sono seguiti i fatti.
I nove giudici della Corte Suprema sono chiamati ad esprimersi il 26 e il 27 marzo prossimi in relazione al caso di un’anziana signora, Edith Windsor, che, perduta la compagna con la quale aveva diviso quarant’anni della propria esistenza, si è vista applicare delle tasse di successione elevatissime: sposate in Canada nel 2007, la loro unione non è stata riconosciuta come matrimonio a livello federale, nonostante lo fosse nello Stato di New York dove la coppia ha vissuto.
Il Dipartimento di giustizia che di norma rappresenta la controparte si è schierato dalla parte di Edith, definendo incostituzionale la norma che impedisce a «migliaia di coppie omosessuali, legalmente sposate nei loro Stati, di godere degli stessi vantaggi federali delle coppie eterosessuali». Vantaggi soprattutto di natura economica, trattamento fiscale o pensionistico, assicurazione sanitaria, benefit di varia natura riconosciuti al coniuge eterosessuale, ma non a quello dello stesso sesso.
La norma contestata risale al ‘96 e fu allora una sorta di contropartita concessa dall’allora presidente Bill Clinton, alla politica del «Don’t ask, don’t tell», la legge che consentiva la presenza dei gay nelle forze armate, purché il loro orientamento sessuale restasse privato: con tutti i suoi limiti, un passo avanti rispetto al divieto imperante fino ad allora. Il Defense of Marriage poneva una barriera, un confine invalicabile.
DICIASSETTE ANNI DOPO
A distanza di 17 anni, le cose sono molto cambiate. Le nozze tra persone dello stesso sesso sono legali in nove stati americani su 50 oltre che nella capitale Washington, mentre in sei Stati sono comunque consentite unioni civili o partnership riconosciute legalmente. Obama ha dato indicazione al procuratore generale di non difendere il Defense of Marriage, nei casi in cui questo fosse stato contestato in un aula di tribunale. Anche il «Don’t ask don’t tell» è ormai superato ed è possibile per i gay dichiarati restare membri delle forze armate, che di recente hanno riconosciuto lo stesso trattamento in termini di benefit ai partner omosessuali: un segnale di cambiamento che la Casa Bianca vorrebbe spingere anche nella società civile.
La linea scelta da Obama è contestata dai repubblicani alla Camera dei rappresentanti, che intendono difendere la legge sul matrimonio tradizionale davanti alla Corte Suprema. «Senza la nostra partecipazione è difficile riconoscere l’esistenza stessa di una controversia, visto che sia la signora Windsor e l’esecutivo concordano sull’incostituzionalità del Defense of Marriage», sostengono gli avvocati del partito conservatore.
Non la vede così il Dipartimento di Giustizia, che non riconosce al ramo del Congresso alcun titolo «per sostituirsi al ruolo esclusivo del governo nel rappresentare gli interessi degli Stati Uniti». Una disputa nella disputa, che si somma a quella all’interno dello schieramento repubblicano, diviso sui diritti dei gay. In un recente spot a favore del matrimonio per tutti, oltre al prevedibile Obama, sono apparsi come testimonial Laura Bush e l’ex vicepresidente Dick Cheney, Che l’ha spiegata così: «La libertà è libertà per tutti».

Repubblica 24.2.13
Il partito della Merkel apre alle unioni omosessuali
Pari diritti a tutte le famiglie è svolta anche in Germania
di Andrea Tarquini


BERLINO — Svolta del centrodestra tedesco al potere con Angela Merkel. La Cdu – cioè la Dc tedesca, il partito della Cancelliera – vuole abbandonare le sue antiche obiezioni contro la pari dignità delle unioni omosessuali con il matrimonio eterosessuale, e conferire alle unioni gay registrate gli stessi diritti riservati finora all’unione ufficiale tra donna e uomo. Quando la svolta, annunciata alla Sueddeutsche Zeitung dal responsabile amministrativo del gruppo parlamentare cdu, Michael Grosse-Bromer, si tradurrà in proposte di legge, la prima potenza europea e quindi con essa l’Europa intera compiranno un enorme passo avanti a favore dei diritti degli omosessuali.
«Dobbiamo muoverci, cambiare posizioni sul tema della parità di diritti, le chiare tendenze indicate dai verdetti della Corte costituzionale devono spingerci a tradurre in pratica, nella legislazione, la parità di diritti affermata dai giudici supremi », ha detto Grosse-Bromer al quotidiano liberal di Monaco. Una recente sentenza della Consulta tedesca ha definito incostituzionali gli svantaggi che le coppie gay, registrate o di fatto affrontano sul tema delle adozioni.
Immediata e positiva la reazione della ministro della Giustizia, la liberale Sabine Leutheusser-Schnarrenberger all’annuncio dell’apertura della Cdu: un progetto di legge che equipara totalmente matrimonio e “partnership registrata” (omosessuale o eterosessuale) sulle adozioni è già pronto. L’annuncio del partito della cancelliera apre forti speranze che Berlino si decida alla piena parità di diritti anche sul piano fiscale, un ambito molto importante. Le leggi tributarie tedesche infatti avvantaggiano sostanzialmente le coppie eterosessuali rispetto a single o a coppie di fatto gay o etero, in pratica con uno sconto sull’aliquota Irpef volto a favorire la costituzione delle famiglie.

La Stampa 24.2.13
Ville, tangenti e documenti falsi La Cina scopre i burocrati corrotti
Il nuovo leader comunista Xi Jinping ordina la pubblicazione dei casi di ruberie
Il pubblico cinese sta scoprendo la vastità del fenomeno della corruzione dai media ufficiali
I funzionari del Pc non possono essere indagati dalla polizia, di solito se la cavano con un ammonimento
di Ilaria Maria Sala


Xi Jinping, il prossimo Presidente cinese, lancia l’ennesima campagna «anti-corruzione», dichiarando solennemente che tutti, «mosche o tigri», se corrotti saranno indagati e puniti. Non è il primo: il Partito comunista stesso arrivò al potere dopo una guerra civile che doveva il suo sostegno popolare anche alla promessa di debellare la corruzione del Kuomintang, i nazionalisti al governo prima del 1949. Da allora queste campagne sono periodiche, ma la corruzione continua imperterrita a crescere.
Nelle settimane che precedono l’insediamento del nuovo governo, che assumerà pieni poteri il mese prossimo, la stampa nazionale ha ricevuto l’ordine di dare maggiori dettagli sui casi già smascherati. Una lettura appassionante. S’impara così di Zhao Haibin, capo della polizia di Lufeng, nel Guangdong, che avrebbe comprato 192 case grazie a carte d’identità false. Le autorità infatti, nel tentativo di sgonfiare la bolla immobiliare prima che scoppi, hanno introdotto limiti al numero di immobili acquistabili: di solito, non più di due, e spesso si deve essere residenti della località dove si desidera acquistare. Per ovviare a quest’ostacolo, Zhao ha forgiato diverse carte d’identità e permessi di residenza e utilizzato documenti aziendali del fratello. Interrogato, avrebbe detto che era solo l’amministratore degli immobili per conto del fratello, legittimamente arricchitosi tramite gli affari.
Come sempre, in assenza di metodi per vagliare l’opinione pubblica cinese, si ricorre a quanto detto online, dove Zhao è stato soprannominato «il funzionario più corrotto della Cina». Essendo però membro del Pc, non può essere indagato dalla polizia ma solo dal suo Comitato disciplinare. Le carte d’identità false sono state ritirate, Zhao è stato ammonito. Ma non è stato espulso dal partito, tantomeno incarcerato.
Chissà se è davvero lui il più corrotto del Paese: qualche settimana fa è venuto fuori il caso di Huang Sheng, vice-governatore della provincia dello Shandong, finito nelle maglie della campagna anticorruzione con 47 amanti (chi lo difende dice che sono 46, pari al numero dei suoi appartamenti e villette), che ha accettato nel corso degli anni bustarelle per 9 miliardi di dollari. Indagato dal partito per «violazione della disciplina», è stato rimosso da vice-governatore. Ed è finita lì.
E che dire di Gong Aiai, 49 anni, dello Shanxi (Cina centrale), soprannominata sul web «Signorina Appartamenti», che grazie a carte d’identità di fantasia ha potuto acquistare 40 immobili, per un valore di 159 milioni di dollari. Gong era la vice-presidente della Banca commerciale rurale di Shenmu, ma non trattandosi di un membro del Pc, è stata arrestata, insieme ad altri quattro, e rischia dai due ai sette anni di prigione. Lei si è difesa dicendo che voleva «scacciare la cattiva sorte» acquistando un totale di 9666.6 metri quadri (cifra considerata porta fortuna) con fondi provenienti dalle miniere di carbone dei suoi familiari.
A Guangzhou c’è anche «Zio appartamenti», funzionario del catasto che con finte carte d’identità di case se ne è acquistate 20. Una carta d’identità falsa costa intorno ai 10,000 euro, poca roba per funzionari corrotti a suon di milioni.
La campagna anti-corruzione e le sue ripercussioni sul mercato delle case fanno breccia anche nelle pubblicità degli agenti immobiliari: l’ultima moda è dire che le case in vendita sono di ufficiali corrotti ansiosi di disfarsene per non finire nella retata, ed hanno prezzi stracciati. Impossibile stabilire se sia vero, ma la dice lunga sul clima - e anche sullo scarso timore che l’ennesima campagna anticorruzione sta davvero suscitando.

Corriere La Lettura 24.2.13
Falun Gong, il tabù della Cina
di Marco Del Corona


Più della Tienanmen e del suo sangue. Più degli affondi che a Liu Xiaobo hanno procurato il carcere e il Nobel per la Pace. Più delle provocazioni di Ai Weiwei. Il vero tabù della Cina, sul terreno delle libertà civili e dei diritti umani, è il Falun Gong. Negli anni Novanta il «movimento spirituale» aveva conquistato milioni di aderenti, mentre adesso è impossibile ascoltare qualcuno anche solo pronunciarne il nome. Fuorilegge dal luglio 1999, il Falun Gong è uno dei più vistosi non detti della Cina seconda potenza mondiale, schiacciato fra il silenzio, le sporadiche tirate delle autorità contro i «culti superstiziosi» e le denunce lanciate dal quartier generale negli Usa: uccisioni in carcere, prelievi d'organi, persecuzioni efferate.
La nascita del Falun Gong risale al 13 maggio 1992, con la prima delle lezioni del suo fondatore, Li Hongzhi. Nell'auditorium della scuola media numero 5 di Changchun, in Manciuria, circa 180 persone ascoltarono insegnamenti che combinavano tecniche di meditazione, terminologia buddhista, esercizi fisici per un «benessere» totale. In un Paese uscito dal maoismo ma la cui ondata iniziale delle riforme si era infranta nel 1989, il Falun Gong prese slancio. Nel gennaio del '95 Li produsse il primo dei «testi sacri», Zhuan Falun. Il movimento allora era mainstream: affiliato all'associazione governativa della ginnastica tradizionale, persino in buoni rapporti con le forze armate, interessate alle tecniche di meditazione di Li.
Tutto finì il 25 aprile 1999. Il Falun Gong aveva mobilitato i suoi praticanti che affluirono a migliaia intorno a Zhongnanhai, il quartiere dei leader, per protestare contro un'escalation di intimidazioni. Da lì la messa al bando, gli arresti e l'avvio del confronto fra opposte propagande. Per Pechino il Falun Gong è una setta che plagia gli aderenti e mina la sicurezza dello Stato, il Falun Gong si descrive apolitico e pacifico.
Il contesto rende il contrasto fra le autorità cinesi e il movimento refrattario a indagini giornalistiche approfondite. E, nel disinteresse globale per la vicenda, non c'è posto per valutazioni terze sulla natura del Falun Gong. Che però, secondo Benjamin Penny dell'Australian National University, merita di essere esaminato come «religione», cosa che il sinologo fa in The Religion of Falun Gong (The University of Chicago Press). Antecedente è la storia di misticismi militanti che hanno attraversato la Cina. Nel mix sincretistico affiorano le contraddizioni di Li che — fra vite parallele, reincarnazioni, suggestioni fantascientifiche e parascientifiche — consentono a Pechino di considerarlo un guru pericoloso. I suoi praticanti non ameranno forse che il Falun Gong sia analizzato da un accademico come una fede fra le altre. Eppure, se il Falun Gong è (al netto delle bizzarrie) davvero una religione, ecco che oggi l'accanimento di Pechino nei suoi confronti meriterebbe a maggior ragione qualche perentoria domanda da parte della comunità internazionale (e, da parte della Cina, qualcosa di più di silenzi inframmezzati da minacce).

l’Unità 24.2.13
La rivoluzione della lingua
Ferdinand de Saussure: una lezione tra scacchi, codici e comunicazione
di Massimo Adinolfi


CHI ERA. Lo svizzero inventore del triangolo semiotico
Ferdinand de Saussure, (Ginevra, 26 novembre 1857 Vufflens-le-Château, 22 febbraio 1913) è onsiderato il fondatore della linguistica moderna, in particolare di quella branca conosciuta con il nome di strutturalismo. Nel corso della sua vita pubblicò un solo libro: «Dissertazione sul sistema originario delle vocali nelle lingue indoeuropee» (1878), opera in cui è definita nel suo complesso la teoria del vocalismo e dell’apofonia.
È invece postuma la raccolta delle lezioni tenute a Ginevra da Ferdinand de Saussure (1906-1911), «Corso di linguistica generale», dove è delineata la teoria linguistica strutturalista, basata sul rapporto di arbitrarietà tra segno linguistico e significato e sulla concezione della lingua come sistema di segni regolato da leggi di opposizioni e di associazioni dei termini linguistici.

LE PAROLE HANNO UN SIGNIFICATO. GIÀ, MA COME CE L’HANNO? NON È AFFATTO UNA DOMANDA PEREGRINA, ANCHE SE NORMALMENTE NON ABBIAMO DIFFICOLTÀ A DISTINGUERE LE PAROLE che hanno un significato da quelle che invece non ce l’hanno (e che perciò sospettiamo non esser nemmeno parole). Il punto è infatti in forza di cosa facciamo una simile distinzione, che cosa mai si trovi nei suoni che pronunciamo, per cui essi meritino un’attribuzione di significato.
Orbene, che cosa, se non un pensiero? Un pensiero è quel che ci vuole! Già, come stanno i pensieri nei suoni? Neanche questa è una domanda bislacca, visto che non sappiamo bene neanche che cosa diavolo sia un pensiero, un concetto, una rappresentazione mentale. La faccenda sembra che stia però a questo modo: da una parte ci sono i suoni che facciamo con la voce, dall’altra ci sono invece le cose che ci accadono «dentro», nell’anima o forse nel cervello (dicono oggi i più aggiornati), e per le quali appunto investiamo quei suoni di significati. Da un’altra parte ancora, a volerla dire tutta, ci sono pure i segni scritti, che significano i segni verbali, che a loro volta significano «le cose di dentro». Questo però non è Ferdinand de Saussure a dirlo, il linguista ginevrino di cui è caduto in questi giorni il centenario della nascita, bensì (con qualche minimo ammodernamento linguistico e più di una concessione alla vulgata), il grande Aristotele. Più precisamente, si tratta dell’incipit del trattato Perì ermeneias Dell’espressione, o Dell’interpretazione nel cui cerchio magico ancora si muove buona parte della nostra ordinaria, prescientifica comprensione del linguaggio. Quale sia il misterioso collante che consente ai pensieri di attaccarsi ai suoni Aristotele, però, non lo diceva. O per meglio dire: non pensava ci fosse bisogno di incollare per davvero gli uni agli altri: era per lui sufficiente una convenzione, un accordo, un’intesa in forza della quale gli uomini decidessero di fare che quel determinato suono significasse quel determinato pensiero. Naturalmente, capire come si stabilisca un simile accordo è un bel problema, visto che molto raramente osserviamo nascere nuove parole in forza di una stipulazione arbitraria di qualche genere, e visto soprattutto il fatto che mai s’è vista accadere una roba simile per un intero sistema linguistico. Ma questa, si dirà, è un’altra storia.
IL DISTACCO DA ARISTOTELE
Sta di fatto che, un paio di millenni dopo, il coltissimo professor Ferdinand de Saussure, che teneva all’Università di Ginevra i suoi corsi di linguistica generale, non era più sicuro dell’impianto aristotelico. Passi la faccenda della convenzione (katà synthéken, dice il greco di Aristotele): non è infatti vero che nelle diverse lingue parlate dagli uomini si dicono le stesse cose con suoni diversi? E cosa vuol dire questo, se non che i segni sono arbitrari? Ma che bisogno c’è di mantenere una nozione psicologica di significato, si chiese Saussure? La lingua (la langue) va considerata separatamente dall’atto o dalla facoltà di parola (la parole): la prima ha carattere sovraindividuale, e non è affatto nella disponibilità di un individuo o nella testa di un solo uomo; il secondo, invece, l’atto di parola, quello sì dipende dalla volontà del singolo. Occupiamoci pertanto della lingua come un sistema, come un fatto sociale, ragionava il linguista, e lasciamo perdere tanto la psicologia, che è confusa e con la quale in fondo rischiamo solo di metterci nei guai, quanto la storia. La storia era infatti l’altro ambito in cui si studiavano i problemi del linguaggio.
Lo stesso Saussure, prima di ritornare negli anni ’90 dell’800 nella sua Ginevra, si era occupato di sanscrito e indoeuropeo. Ma ormai lo studio del linguaggio non aveva più ragioni di principio per sentirsi in debito nei confronti della storia: la prospettiva diacronica, che guarda l’evolversi di un sistema linguistico nel tempo, poteva andare separata dalla prospettiva sincronica, che considera invece la lingua tutta dispiegata in un momento dato, e si occupa quindi di stabilire quali rapporti intercorrano fra i suoi segni.
Fu una vera rivoluzione: la lingua da allora in poi è una struttura, non fa capo a un soggetto (minuscolo o maiuscolo che sia) e può essere studiata iuxta propria principia. E fu una rivoluzione tanto vasta da investire nel giro di qualche decennio l’intero ambito delle scienze umane, che dalla linguistica strutturale di Saussure presero per dir così il metodo. L’antiumanesimo della morte dell’uomo (di una certa figura antropocentrica dell’uomo) era già pronto a spiccare il volo nel cielo fosco del Novecento europeo. Pensate però che bello: studiare l’uomo, le sue manifestazioni culturali e simboliche, senza dover passare per la via troppo stretta e così tortuosa della psicologia, e senza nemmeno dover annaspare nel mare magno della storia. Come ha spiegato Tullio De Mauro (a cui si deve l’introduzione del Cours di Saussure in Italia, nel ‘68), non importa quanti linguisti conoscano lo studioso ginevrino: quel che è certo, è che noi siamo in debito con la sua fondazione della linguistica generale, come lo siamo nei confronti di Girolamo Cardano. Di cui nemmeno conosciamo il nome, ma che tiriamo in ballo ogni volta che ci mettiamo in macchina e sterziamo, visto che il giunto cardanico che ci consente di girare le ruote l’ha inventato lui. E così «tutte le volte che qualche linguista lavora sulle parole come segni di un sistema, ogni volta che un linguista capisce che questo sistema non è un caciocavallo ‘mpiso sulla testa dei parlanti (...), ogni volta che riesce a distinguere il peso della tradizione dalla portata funzionale sincronica di una forma devo continuare? Ogni volta che un linguista studia seriamente una lingua (...), lo sappia o no, gli piaccia o no, adopera attrezzi concettuali e anche termini messi a punto da Saussure».
Le parole come «segni di un sistema», la lingua come sistema di differenze: questo il pensiero più profondo di Saussure. Che significa: morte del concetto, fine della parola piena, rotonda, dotata di un senso spirituale. Volete infatti sapere dove si trova il significato delle parole, visto che non c’è più a sostegno un’anima, uno spirito, una coscienza che le pensi? Ma nelle parole stesse, e precisamente nelle differenze che intercorrono tra di loro. Volete capire come? Fatevi una partita a scacchi (il paragone fra il gioco della lingua e quello degli scacchi è dello stesso Saussure). Anche a scacchi è questione di posizione dei pezzi sulla scacchiera, e per meglio dire della posizione di ciascun pezzo in relazione a ciascun altro: a nessuno che osservi la scacchiera in un dato momento, occorre perciò conoscere la sequenza delle mosse giocate (la storia), né cosa mai pensino i giocatori impegnati nel gioco (la psicologia), per capire la posizione (la lingua).
Ora però che l’onda strutturalista è calata e che una macchina, «Deep Blue», ha battuto persino il campione del mondo Garry Kasparov in una partita a scacchi, viene naturale domandare che gioco è, quello che possono giocare anche le macchine, e che lingua è, quella che anche le macchine possono parlare. Oppure giocare, così come parlare, sono attività propriamente umane, e quello che fanno le macchine è un’altra cosa: comunicazione, forse, ma linguaggio no? Se così fosse, il linguaggio avrà pure una sua infrastruttura linguistica nel senso della langue di Saussure, ma non sarà mai soltanto un sistema, un codice astratto, qualcosa che può essere implementato su un elaboratore, ma avrà bisogno di essere nuovamente immesso nella vita e nella storia degli uomini.
In effetti, l’ultima parola che dimostra (e insieme decide) se quella che parliamo è una lingua oppure solamente un codice comunicativo può essere solo quella di un altro uomo che la intenda e la consideri per tale. Ma quell’ultima parola, per definizione, non è ancora stata detta, e non sarà detta finché gli uomini avranno ancora una lingua, e una storia.

Corriere La Lettura 24.2.13
Ci salverà la dialettica
Lo spirito di contraddizione alimenta la storia come insegna l'hegelismo liberale di Kojève
di Corrado Ocone


Esiste una specificità del pensiero filosofico? Quali sono il metodo e la logica di questa disciplina sui generis, che non ha, al contrario delle altre scienze, un ambito di pertinenza ben definito, né è volta a utilità o fini pratici? Per rispondere è forse opportuno considerare un tema che tuttora divide gli storici (e non solo loro): il giudizio sul fascismo. Che la nostra immagine attuale dei vent'anni di regime sia molto più articolata di un tempo, lo si deve a vari studi, a cominciare da quelli di Renzo De Felice. La storiografia ritiene oggi che il fascismo sia stato senza dubbio un regime liberticida, ma certamente non monolitico. In più ha avuto una sua cultura, legata a quella che l'ha preceduta e a quella che l'ha seguita. Per arrivare a questa consapevolezza è stato però necessario passare per un periodo di revisionismo anche eccessivo: a un certo punto sembrava quasi che i fascisti fossero dei mezzi liberali. E ancora oggi c'è chi vorrebbe che il giudizio non fosse articolato, ma netto, in un senso o nell'altro.
Ora, la nuova consapevolezza storiografica non è forse maturata con un tipico movimento di affermazione di una tesi, di contraddizione della stessa e di «inveramento» o «superamento» finale al livello di una sintesi «superiore»? Ciò si chiama, in filosofia, dialettica. E significa considerare le azioni umane e gli eventi inseriti in una rete di relazioni, e quindi interdipendenti. Significa vedere anche quella unità del tutto che aveva portato Hegel a dire, in un celebre passo, che «il vero è l'intero». E anche ad aggiungere, opportunamente, che questo intero è da concepirsi come «processo» e «risultato», cioè come storia.
Ora, sia chiaro, per agire e anche solo per pensare bisogna giudicare, quindi servirsi in primo luogo del principio di non contraddizione. Ma bisogna tenere sempre ben chiaro che il giudizio indica separazione, divisione, distinzione. Questo senso del termine è del tutto evidente nel lemma tedesco Urteil-s-kraft, ove c'è l'idea della «forza che taglia». D'altronde, già gli scolastici esprimevano la stessa idea dicendo che «ogni determinazione è una negazione».
Perciò, se è vero che senza distinguere non si vive, è pur vero che irrigidire le definizioni, non adeguare il concetto al nuovo e imprevedibile che la storia e la vita ci presentano in ogni momento è pericoloso. Significa non solo precludersi una più profonda comprensione del reale, ma anche operare in esso con la volontà di imporre idee astratte e non contestualizzate.
Che la dialettica sia pensiero in movimento, perché storia e non stasi è la vita stessa, è evidente in molti teorici, ad esempio in quella straordinaria figura di filosofo, scienziato e mistico russo che è stato Pavel Florenskij (il suo Dialettica e stupore è appena stato ripubblicato in una nuova edizione da Quodlibet, pp. 112, € 10). Lo è soprattutto però in un autore che può essere considerato il più profondo interprete di Hegel del nostro tempo: Alexandre Kojève.
Anch'egli russo, di famiglia agiata, nipote del pittore Kandinskij, aveva cominciato a redigere sin dal 1916 un Diario di riflessioni filosofiche che vede ora la luce in italiano per Aragno, a cura di Marco Filoni, in anteprima mondiale (pp. 126, 15). Fuggito dall'Unione Sovietica poco dopo la rivoluzione, Kojève approda a Parigi nel 1926. Qui, prima di entrare nell'alta diplomazia francese, tiene, dal 1933 al 1939, un leggendario seminario sulla Fenomenologia dello spirito di Hegel, che vede la partecipazione di molti dei protagonisti della più recente filosofia francese (Aron, Bataille, Bréton, Caillois, Queneau, Lacan, Merleau Ponty, Leo Strauss).
La Fenomenologia è l'opera più «liberale» di Hegel, in cui teorizza la dialettica al di fuori della costruzione del «sistema». In quelle lezioni, ma anche in alcune pagine del Diario, Kojève mette in chiaro come per il pensare dialettico, il momento negativo, cioè della contraddizione, sia in qualche modo più importante di quello positivo. Esso svolge una doppia funzione: permette, da un lato, di far essere, per contrasto, ciò che si ritiene il vero (che non sarebbe tale se non si opponesse a un falso): ma, dall'altro, fa anche in modo che io possa convincermi, se del caso, che ciò che prima ritenevo falso era in tutto o in parte vero.
Ciò significa che le tesi che si affermano appaiono in un primo momento paradossi e provocazioni, ma è un rischio che Kojève amava correre. Come scrive Filoni in un volume che esce in contemporanea con il Diario sempre per Aragno, Kojève mon ami (pp. 88, 15), egli «era un dialettico, e alla maniera platonica si esprimeva e conduceva i suoi dialoghi». A cominciare dai lunghi negoziati condotti per conto della Francia. Qui Kojève amava spiazzare chi seguiva rigide e codificate regole di trattativa. «Una delle ragioni dell'irritazione degli americani nei suoi confronti — riferisce Grey, un suo amico diplomatico — era il loro doversi attenere a istruzioni dettagliate, che non lasciavano libertà di rispondere alla varietà, e soprattutto all'originalità, delle argomentazioni di Kojève. Egli esponeva le sue osservazioni in una maniera spesso imprevedibile, cosa che esasperava i rappresentanti stracarichi di istruzioni degli altri Paesi».
Kojève amava spiazzare perché era fedele a quello che è forse il più grande insegnamento della dialettica, cioè che la verità si afferma contraddicendosi, quindi l'anticonformismo e persino l'eccentricità sono la garanzia del suo progresso e in ultima analisi della stessa libertà umana.

Corriere La Lettura 24.2.13
Teorie mistiche e profane. Il comunismo allo stato gassoso
di Antonio Carioti


Con la crisi finanziaria globale, torna ad aleggiare il fantasma del comunismo. Slavoj Žižek, nel saggio Un anno sognato pericolosamente (Ponte alle Grazie), lo evoca nella forma del «dio nascosto» (sì, quello di Blaise Pascal), che si rivela attraverso «ambigui segni del futuro»: una sorta di «miracoli», riconoscibili come tali «solo da una impegnata posizione di classe». Invece le edizioni Alegre propongono un volume del filosofo marxista Daniel Bensaïd (scomparso nel 2010), il cui stesso titolo, Elogio della politica profana, indica la direzione opposta. Infatti «rovesciare la logica di secolarizzazione», per Bensaïd, significa «ricadere nelle brume del sacro», dove prospera «il variegato corteo di coloro che operano miracoli». Sono dunque ben lontani i tempi — certo da non rimpiangere — in cui il comunismo si presentava come una dottrina scolpita nella pietra. Oggi ciascuno lo intende come preferisce, mistico o profano. Un comunismo liquido, per dirla con Zygmunt Bauman. Forse addirittura gassoso.

Corriere La Lettura 24.2.13
La sociologa Nilüfer Göle, allieva di Turaine, analizza l’incontro di europei e musulmani
Le donne cambiano l'Islam, non viceversa
È femminile il perno di una trasformazione nella quale convivono modernità e velo Purezza e identità sono una strada senza uscita, Francia e Turchia un laboratorio
di Marco Ventura


Un giorno, nella Parigi di fine anni Settanta, Nilüfer Göle fu invitata a ritrovarsi con un gruppo di femministe nel bagno turco della moschea della capitale francese. La giovane, allieva del sociologo Alain Touraine, scoprì che per quelle donne l'hammam era uno spazio privilegiato, in quanto esclusivamente femminile, per coltivare la «sorellanza» e costruire l'emancipazione. L'imbarazzata Nilüfer non aveva dimestichezza con un luogo che nella sua famiglia laica era sinonimo di una segregazione dalla quale le donne turche si erano emancipate da tempo.
Più di trent'anni dopo, nel 2005, Nilüfer Göle raccontò l'aneddoto in un libro francese sui rapporti tra Islam e Europa. Divenuta ormai una delle più note sociologhe dell'Islam, direttrice di ricerca nella prestigiosa École des hautes études en sciences sociales, l'autrice utilizzava la propria esperienza di turca francese per spiegare le «interpenetrazioni» che stavano sfidando, e cambiando, musulmani ed europei. Otto anni dopo, il volume, nel frattempo pubblicato negli Stati Uniti, esce anche in Italia (L'Islam e l'Europa. Interpenetrazioni, Armando Editore). Gli otto anni passati non pesano sul libro: il racconto resta prezioso, le idee hanno semmai acquistato autorità alla luce degli sviluppi più recenti. Globalizzazione e immigrazione hanno instaurato tra Occidente e Islam una «prossimità», in cui si riduce la distanza e si sovrappongono storie e culture. Il processo, sottolinea l'autrice, ha portato paura e scontro: sicché accade che «le fratture si allarghino e siano sentite più intensamente a mano a mano che aumenta la prossimità», e che la posta in gioco diventa «la divisione dello spazio».
È finito il tempo in cui la modernità occidentale era il modello indiscusso. Nessuno lo sa meglio dei turchi che a tale modernità si sono ispirati a più riprese, e in particolare al tempo delle riforme ottomane di metà Ottocento e negli anni Venti, con la rivoluzione kemalista. La modernità europea è oggi lo spazio in cui i musulmani reinventano la propria presenza, il magazzino degli attrezzi coi quali l'Islam si esprime. La sfera pubblica europea è per Nilüfer Göle «il palcoscenico in cui il dramma dell'incontro tra musulmani ed europei prende forma», in cui cambia la scenografia, via via che si succedono attori con «nuovi stili di vita», di comunicazione e di partecipazione.
Nel «repertorio d'azione» del nuovo Islam contano l'espressione, l'improvvisazione, le emozioni personali e le passioni collettive: i musulmani si muovono, impongono la loro visibilità. Lo sradicamento dalle terre d'Islam e la ri-territorializzazione nello spazio europeo producono una «performatività islamica» in cui l'Islam globale è esso stesso fattore potente di globalizzazione. Modernità e tradizione si confondono; l'islamismo fraintende le fonti e reinventa la tradizione. «L'interpretazione del testo coranico», scrive l'autrice, «subisce una erosione democratica» in forza della quale la guerra santa può essere dichiarata «da una persona priva di autorità religiosa, la cui legittimità si fonda solo sul suo attivismo».
Sotto la superficie di un elemento religioso amplificato, la modernità produce un sincretismo dal «carattere ibrido, meticcio e impuro», simboleggiato per la sociologa dai nuovi martiri, in particolare dagli ingegneri islamici radicali, e dalle parlamentari e studentesse turche che rivendicano il diritto di portare il velo in aula.
Il legame tra i martiri terroristi e le donne è decisivo. Nel suo testamento, l'attentatore delle Torri Gemelle Mohamed Atta si rivela ossessionato dalla sessualità e dal contatto con le donne: «L'uomo che laverà il mio corpo e i miei genitali», ha lasciato scritto l'attentatore delle Torri Gemelle, «deve indossare dei guanti cosicché le mie parti intime non siano toccate»; nessuna donna dovrà assistere ai funerali, «né, in seguito, venire a piangere sulla mia tomba». Dalla prima all'ultima pagina del libro, le donne risaltano come il perno della trasformazione. «La modernità islamica può essere scritta solo al femminile», scrive l'autrice, puntando l'attenzione sull'azione e sulla visibilità delle donne. La sfida femminile è scritta nel corpo e nello spazio. Prende direzioni diverse seguendo il vento della storia. È emancipazione dal passato nella Turchia che a partire dagli anni Venti fa della donna il vessillo della laicità e il pilastro del progresso. Tanto che nel 1938 lo scrittore Peyami Safa saluta con entusiasmo il Paese «dove le donne possono vestirsi come vogliono, dove la polizia, i fanatici religiosi e persino i conduttori dei mezzi di trasporto non possono più dire alcunché su quello che le donne indossano». Ma la donna è anche la protagonista del movimento islamista turco che si sviluppa negli anni Ottanta. Merve Kavakçi, la trentunenne che il 2 maggio 1999 sfida il Parlamento presentandosi velata, è l'icona di una generazione di donne «musulmane e moderne», come recita il titolo di un libro di Nilüfer Göle del 2003, purtroppo non tradotto in Italia.
Vissuta a lungo negli Stati Uniti, laureata in Ingegneria informatica all'Università del Texas e divorziata con figli, Merve Kavakçi è il simbolo di una donna islamica a suo agio nella modernità, che usa il corpo per disegnare strategie adatte al contesto. Portare il velo in Turchia, dov'è vietato nei luoghi istituzionali, è un atto di protesta dal basso contro l'ordine laico e repubblicano. Viceversa in Iran, dove la rivoluzione ha imposto il velo dall'alto, le donne protestano velandosi solo in parte.
La «femminilizzazione dell'Islam» descritta da Nilüfer Göle non riguarda solo i Paesi islamici, ma anche e soprattutto l'Europa, dove la battaglia sul velo è assurta a simbolo delle tensioni sulla cittadinanza femminile, tra uomini e donne, e soprattutto tra donne. Prende forma così la domanda essenziale: se le donne sono la chiave, «chi avrà in mano questa chiave?». Nessuno conosce la risposta. Di certo Francia e Turchia, proprio perché eccezioni laiche, saranno un laboratorio decisivo per l'Europa e per l'Islam. Non esiste più, né per gli uni né per gli altri, la possibilità di un dialogo basato su una «distanza rassicurante». Purezza e identità sono una strada senza uscita: «Rendere l'altro ancora più diverso per creare la propria identità» scrive l'autrice «è un modo per rendersi ciechi fissando l'immagine riflessa dell'altro», fino a «cadere in preda alle illusioni e distruggere ogni possibilità di trovare un terreno comune, di costruire un legame tra il sé e l'altro». Solo la fatica dell'elaborazione di un progetto, non la scorciatoia di finte identità, consente di guardarsi nello specchio dell'altro senza divenire ciechi.

Corriere La Lettura 24.2.13
Misteri della mente. Uno studio apre prospettive su un ambito che va dalle corti ai tribunali all’elaborazione della propria infanzia
I falsi ricordi sono veri
La memoria costruisce eventi inesistenti. La neurobiologia indaga
di Massimo Piattelli Palmarini


Osserviamo bene la seguente lista di parole, che ci viene richiesto di ben memorizzare: guanciale, sogno, lenzuoli, materasso, sonno. Tra una settimana, ci verrà chiesto se alcune parole apparivano o meno in questa lista. Materasso? Sì. Oro? No. Letto? La stragrande maggioranza di noi, in perfetta buona fede, dirà che era nella lista. Ma non c'era! Adesso immaginiamo di guardare un breve filmato di un uomo che borseggia una donna, estrae il portafoglio dalla borsetta e si dilegua. La donna non sembra nemmeno essersene accorta. Qualche istante dopo ci sediamo in una stanza attigua e un signore (in realtà uno psicologo che sta effettuando un esperimento) commenta con noi il filmato. «Ha visto? Il malandrino ha quasi slogato un polso alla poveretta, torcendole il braccio. Ma come, non ha visto questo? Era evidentissimo! ». Niente di tutto ciò era, in realtà, nel filmato. Una settimana dopo, ci viene chiesto di descrivere a parole cosa si vedeva nel filmato. Ebbene, in perfetta buona fede, forse ci ricorderemo che il ladro aveva forzato il braccio della signora.
Sul tema dei falsi ricordi, l'impatto dei quali può essere essenziale nelle indagini poliziesche, nei processi e nella vita, sono stati pubblicati nei giorni scorsi due importanti resoconti. Uno del celebre psichiatra Oliver Sachs, sulla «New York Review of Books», e uno di due insigni neuroscienziati cognitivi, Daniel Schacter (Harvard) ed Elisabeth Loftus (Università della California a Irvine) in un numero speciale di «Nature Neuroscience» interamente dedicato alle basi neuronali della memoria. Sachs racconta in un suo libro di aver avuto per tutta la vita due vivissimi e dettagliatissimi ricordi di due scene relative ai bombardamenti sull'Inghilterra, quando era ragazzino. Uno di questi, molto probabilmente, è genuino ma l'altro, come Sachs ha dovuto con sorpresa e sgomento ammettere recentemente, è certamente falso. Suo fratello, di lui più grande, assicura che il piccolo Oliver non era in quella cittadina, in quel momento. Elisabeth Loftus ha studiato a lungo le illusioni mnemoniche di testimoni oculari in sede processuale. È stata spesso chiamata dagli avvocati di difesa come testimone esperto e ha raccolto le sue preoccupanti esperienze in un noto saggio. In anni recenti, ha anche esaminato vividi e sinceri ricordi che alcune persone avevano di molestie sessuali subite in tenera età e ha potuto obiettivamente dimostrare che era impossibile fossero veri. Ne è seguito un pandemonio. È stata accusata (ma era un'accusa senza alcun fondamento) di condonare le molestie sessuali sui minori e di sostenere (di nuovo un'accusa senza alcun fondamento) che tutti i ricordi di molestie sessuali sono falsi. Una petizione con molte firme ha perfino tentato di farla licenziare dall'università nella quale insegna. Per fortuna, ora la tempesta si è placata. Schacter e Loftus, nel loro articolo su «Nature Neuroscience», riportano un caso di falsa identificazione di un presunto colpevole da parte di un testimone oculare, avvenuto in un processo nel New Jersey nel 2011. E sottolineano che, in oltre tre quarti dei 250 casi nei quali la prova del Dna ha scagionato un presunto colpevole, l'ingiusta condanna era dovuta a un errore di identificazione da parte di testimoni oculari. La memoria può ingannarci, senza che ce ne rendiamo conto. La Corte Suprema del New Jersey, che ci si augura sia imitata in altri Stati, ha recentemente decretato che i giudici devono esporre ai giurati la possibilità di errori di memoria e di identificazione, involontariamente commessi dai testimoni in un processo. Schacter e Loftus si soffermano anche in dettaglio sugli strumenti scientifici oggi disponibili per rivelare i falsi ricordi. Numerose pubblicazioni specializzate rivelano che la risonanza magnetica funzionale e raffinati tracciati di elettroencefalogrammi possono essere di aiuto. Ma si tratta di esperimenti di laboratorio, in condizioni di rigorosi controlli sperimentali, in soggetti perlopiù giovani e non emotivamente coinvolti. Quindi, pur sottolineando recenti progressi nella collaborazione tra neuroscienziati cognitivi, autorità inquirenti, giudici e pubblici ministeri, ammettono che una prova del nove dei falsi ricordi su basi neurobiologiche ancora non esiste. Solo progressi tecnologici futuri ce la potranno dare. La prudenza e la consapevolezza della falsità di alcuni (si noti bene, solo alcuni) ricordi è tutto quanto possiamo, per adesso, raccomandare. Allarghiamo ora brevemente il panorama sulla comprensione delle basi neurobiologiche della memoria riportate nel numero monografico di «Nature Neuroscience». Si spazia dall'epigenetica della memoria e dell'apprendimento, cioè i marcatori chimici che l'esperienza quotidiana deposita sul Dna, a come i neuroni dell'ippocampo regolano la percezione dello spazio e la memoria spaziale, al ruolo del sonno e del sogno nel consolidamento dei ricordi, e ben oltre. Chiedo all'insigne neurobiologo cognitivo Lynn Nadel dell'Università dell'Arizona, uno dei pionieri dello studio della memoria, di riassumere la tendenza generale di queste ricerche negli ultimi anni. «Innanzitutto si è passati dallo studio di singoli moduli allo studio di intere reti. Per esempio, l'integrazione tra ippocampo e corteccia entorinale (una struttura contigua all'ippocampo stesso, ndr) nel costruire la memoria spaziale rivela un sistema di immensa complessità che lentamente si comincia a capire. Sorprendentemente, ma sicuramente, questo stesso circuito è responsabile anche della memoria episodica.
Inoltre, l'epigenetica è adesso un argomento centrale, cioè come le esperienze più antiche modificano il funzionamento dei neuroni, trasformando l'antica opposizione tra natura e cultura. Tutto l'arco dello sviluppo del cervello, dalla nascita all'adulto, è sotto analisi. Le tecniche di imaging sono oggi immensamente più raffinate». Conclude sottolineando che le nuove aree ibride, talvolta un po' strane, ma interessantissime, come la neuro-economia, la neuro-etica, la neuro-giurisprudenza e la neuro-estetica, spalancano settori di ricerca sperimentale ancora ieri impensabili. Tra tanto comprensibile entusiasmo una parola di prudenza ci viene da Oliver Sachs. Ronald Reagan, nella sua campagna elettorale del 1980, raccontò quasi piangendo un episodio di eroismo di un pilota durante la Seconda guerra mondiale. Fu ricostruito che non era un episodio reale, ma una sequenza di un film di guerra del 1944. Anche i presidenti possono nutrire falsi ricordi.

Corriere Salute 24.2.13
Paleopatologia. La terapia per la sifilide, ma anche i cosmetici, erano spesso molto carichi di mercurio
La mortalità femminile fra i 20 e i 30 anni era alta soprattutto per complicazioni da parto
Rimedi peggiori delle malattie per le nobili rinascimentali
di Elena Meli


Di alcune non conosciamo neanche il nome. Di altre sappiamo moltissimo, perché erano le celebrità della loro epoca e le cronache ne hanno registrato fedelmente la vita e le circostanze della morte. Sono donne vissute secoli fa e i loro resti raccontano molto della condizione femminile nel Rinascimento e di come si vivesse in quei tempi, alle corti nobiliari e fra la gente comune. Analizzare gli scheletri o le mummie arrivati fino a noi è come alzare il velo su quel passato e osservare, ad esempio, Isabella d'Aragona mentre si guarda allo specchio e comincia a spazzolare furiosamente i denti con un bastoncino in pietra pomice (o forse in osso di seppia), per sbiancarli e togliere quell'orribile patina scura che non sopportava. I denti di Isabella si erano anneriti perché intossicata dal mercurio, somministratole per curare la sifilide: proprio attorno al '500, quando Isabella era duchessa di Milano, la malattia cominciò a diffondersi in Europa e i pazienti venivano trattati (inutilmente, ma lo si sarebbe scoperto solo dopo) con unguenti o «fumi» mercuriali che non di rado erano più tossici della lue o perfino letali. Isabella poi, come le donne aristocratiche dell'epoca, aveva scoperto i cosmetici e si dedicava a pratiche che la intossicavano ogni giorno di più: truccava le labbra con un «rossetto» derivato dal cinabro, il minerale rosso da cui si estrae mercurio, e per trattare dermatiti e impurità cutanee o sbiancare la pelle usava l'unguento saraceno, a base della stessa sostanza.
Le nobildonne, benché avessero tempo e denaro, non erano molto diverse dalle popolane di fronte a numerose malattie: «La tubercolosi e le altre patologie infettive colpivano allo stesso modo donne ricche e povere — spiega Gino Fornaciari, direttore della divisione di Paleopatologia, Storia della medicina e Bioetica dell'Università di Pisa —. Tutte, poi, erano esposte alla morte per parto: la mortalità femminile fra i 20 e i 30 anni era alta proprio per le complicazioni nel dare alla luce i figli, spesso molto numerosi». Accadde ad esempio a Giovanna d'Austria, prima moglie di Francesco I dei Medici: ebbe cinque figli, tutti con parti travagliati e difficili, ma alla fine della sesta gravidanza morì per la rottura dell'utero. «Anche le malattie respiratorie, come polmoniti o antracosi polmonare, erano diffuse allo stesso modo nei diversi ceti sociali: l'ambiente in cui vivevano e l'aria che respiravano nobildonne e popolane erano sostanzialmente uguali — interviene Luca Ventura, anatomopatologo dell'Ospedale San Salvatore dell'Aquila —. Va detto che per le donne di bassa estrazione sociale i dati sono molto più scarsi, perché sono più rari i corpi da esaminare, e le mummie, dove troviamo preziosi tessuti molli che possono darci molte informazioni, sono poche e di solito più recenti, dal '700 in avanti. Gli indizi ottenuti studiando gli scheletri ci permettono tuttavia di tracciare ipotesi verosimili». Le donne più umili, ad esempio, dovevano fare i conti con un maggior rischio di patologie da lavori usuranti come l'artrosi; le nobili, d'altro canto, più spesso andavano incontro a malattie dovute a eccesso di cibo anche se, come sottolinea Ventura, non è affatto detto che le popolane fossero per forza scheletriche, visto che alcuni reperti hanno mostrato segni della presenza di qualche chilo di troppo. Alla corte dei Medici e degli Aragonesi, peraltro, si seguiva un'alimentazione relativamente salutare perché ricca di pesce di mare: dai risultati delle analisi emerge che in Toscana il consumo si aggirava attorno al 14-30% della dieta, in Campania saliva fino al 40%. Merito, probabilmente, dalla frequente astinenza dalla carne suggerita dalla regola religiosa: durante il Rinascimento la carne era proibita al venerdì, al sabato, alla vigilia di importanti festività e durante l'Avvento e la Quaresima, per un totale che oscillava da un terzo a metà dei giorni dell'anno.
Le donne di allora inoltre soffrivano di malattie che a torto riteniamo esclusive della modernità: è il caso del virus Hpv, la cui prima evidenza molecolare si è ottenuta sui resti di Maria d'Aragona, vissuta alla corte di Napoli nel '500. Sulla sua mummia è stata notata una formazione cutanea che poi è risultata essere un condiloma acuminato da papillomavirus: Maria era stata contagiata da Hpv 18, uno dei sottotipi di Hpv ad alto potenziale oncogeno, e aver dimostrato la presenza del virus così tanto tempo fa può aiutare a capire come si sia evoluto e modificato nei secoli.
Pure i tumori esistono da sempre. «Lo testimoniano ad esempio le metastasi ossee da tumore al seno che sono state osservate su alcuni scheletri del periodo rinascimentale — riprende Ventura —. Anche in questo caso non ci sono differenze di ceto sociale: a Sermoneta, in provincia di Latina, abbiamo rinvenuto alcuni corpi mummificati nelle cripte di San Michele Arcangelo, una chiesa del vecchio villaggio medievale. Si trattava molto probabilmente di donne della borghesia locale e in un caso abbiamo potuto analizzare tessuto mammario in buone condizioni: sottoponendolo ai raggi X, come per una moderna mammografia, sono emerse microcalcificazioni compatibili con la presenza di cancro al seno. E probabilmente ha sofferto di un carcinoma simile anche Anna Maria Luisa de' Medici, l'elettrice palatina». Va detto però che in passato i tumori erano meno comuni: in parte perché la vita media era più breve, in parte perché non c'erano alcuni inquinanti, dagli idrocarburi alle sostanze radioattive (anche se si faceva largo uso di carni cotte alla brace dove si formano composti nitrosi organici cancerogeni, e infatti sono documentati casi di tumore all'intestino). Unica eccezione il mieloma multiplo, un tumore che pare fosse molto più diffuso qualche centinaio di anni fa: in questo caso è probabile che la continua stimolazione del sistema immunitario da parte di agenti infettivi provocasse più frequentemente di oggi il «deragliamento» in senso tumorale delle cellule immunitarie. «Le malattie delle donne e degli uomini del passato sono espressione dell'ambiente in cui sono vissuti e ci aiutano a tracciare un quadro più preciso della società di allora e della storia delle famiglie illustri, ricostruendo lo stile di vita con dati oggettivi da aggiungere alle ricostruzioni storiche — osserva Fornaciari —. Tuttavia questi dati possono essere utili anche ai medici: confrontare i ceppi di microrganismi antichi con quelli attuali ci insegna come si sono evoluti e potrebbe offrirci nuove armi per combatterli; capire come si comportavano i tumori nel passato può aiutarci a comprendere meglio i loro meccanismi di sviluppo e diffusione anche nei pazienti di oggi».

Corriere 24.2.13
Difficile superare i 40 anni


Dopo la nascita e nei primi anni di vita, nel Rinascimento, si rischiava grosso: la mortalità più elevata, in entrambi i sessi si registrava fra 0 e 5 anni, quando le malattie infettive spesso non lasciavano scampo, vista la scarsità di conoscenze e di cure possibili per patologie come vaiolo, malaria, tubercolosi o anche contro polmoniti batteriche o virali. Fra i 6 e i 12 anni la probabilità di morire diminuiva, soprattutto per i maschi, per poi arrivare a un nuovo picco fra i 20 e i 40 anni, quando le donne dovevano fare i conti con le complicazioni delle gravidanze e dei parti e gli uomini combattevano in battaglia: il 25% degli aristocratici non arrivava agli «anta», un altro 20% moriva prima dei 60 anni. Allora come oggi essere donna significava avere un'aspettativa di vita mediamente maggiore: diventava ufficialmente anziano, varcando il limite dei 60-65 anni, il 15% delle nobildonne contro poco più del 10% degli uomini.

La Stampa 24.2.13
Morto il cardinale Julien Ries fondò l’antropologia religiosa


È morto a Tournai, in Belgio, a 92 anni, il cardinale belga Julien Ries. Era considerato il fondatore dell’antropologia religiosa, su cui ha scritto 650 lavori, pubblicati in quindici lingue, tra cui l’opera di sintesi L’antropologia religiosa di fronte alle espressioni della cultura e dell’arte (Jaca Book). Sebbene all’inizio la categoria di «Homo religiosus» da lui introdotta avesse destato critiche sia presso gli storici della religione sia in ambito ecclesiastico, oggi la storia delle religioni può usufruire di una scienza cugina proprio grazie al suo lavoro di studioso. A lungo docente presso l’Università Cattolica di Lovanio, nel gennaio 2012 era stato creato cardinale da Benedetto XVI, proprio in riconoscimento della sua straordinaria attività scientifica divenuta un elemento di confronto fondamentale per paleoantropologi come Yves Coppens. Presso l’Università Cattolica di Milano, che gli ha dedicato un archivio, hanno sede la sua biblioteca, la totalità degli scritti e la corrispondenza. Membro del comitato redazionale del Dictionnaire des religions , ha diretto il Trattato di Antropologia del sacro e nel 1970 ha fondato, con Philippe Delhaye e Gustave Thils, la Revue théologique de Louvain . L’editore Jaca Book, oltre a continuare la pubblicazione dell’opera omnia, ha in cantiere diversi saggi ancora inediti.

Corriere 24.2.13
Addio a Julien Ries, esploratore dei miti sacri
di Dario Fertilio


A 92 anni, non avrebbe potuto partecipare al prossimo conclave, il cardinale belga Julien Ries. Ma la sua scomparsa, avvenuta ieri, apre molto più che un vuoto nella gerarchia ecclesiastica: priva la cultura e la teologia cattolica di un pensatore in grado di confrontarsi con i grandi interrogativi d'oggi.
Non quelli sociali e politici: scendendo molto più in profondità, la sua ricerca ha toccato il senso stesso dell'essere religiosi, e in particolare il rapporto fra la sfera sacra e quella profana dell'esistenza, e non soltanto di quella dei credenti. Il pensatore di riferimento era il grande storico delle religioni Mircea Eliade, del quale Ries poteva essere considerato un continuatore ideale: l'homo religiosus esiste da sempre, il senso del sacro fa parte del suo Dna spirituale e la stessa dimensione profana dell'esistenza si definisce soltanto in rapporto all'altra. Da qui il percorso dei libri più famosi di Ries, pubblicati in Italia dalla Jaca Book: L'origine delle religioni ricorda che la stessa idea di evoluzione, fin dai tempi preistorici, assume un senso attraverso la ricerca di simboli che esprimano le sue origini; Il senso del sacro ricorda che la realtà assoluta della divinità, trascendendo il mondo, lo santifica e lo rende reale; Il mito e il suo significato colloca la narrazione primordiale ed eroica al confine tra la zona del sacro e quella del profano, testimoniando ancora una volta la costante ricerca, in tutto il genere umano, di una dimensione superiore.

Repubblica 24.2.13
I “neomalinconici” della nostra epoca
di Luciana Sica


Stati depressivi diffusi, disordini alimentari, attacchi di panico, personalità scisse o anche normopatiche, cioè del tutto aderenti alle attese degli “altri”: se ne parla da anni, ma oggi le nuove patologie sembrano accentuate da una crisi non solo economica ma anche etica. A un impoverimento della mente sono legati “i sintomi della contemporaneità”, per dirla con il sottotitolo di questo saggio a più voci che impone una riflessione meno frettolosa sullo scambio continuo tra il “mondo” e lo “psichico”. Sono scritti che declinano in forme diverse la nozione di “vuoto”, firmati da alcuni bei nomi della psicoanalisi - da Conrotto a Balsamo, da Luchetti alla Pozzi, da Russo a Thanopulos. C’è anche un testo di Massimo Recalcati intitolato “Neomalinconie”: racconta esperienze prive di quel sentimento di colpa che nelle società della disciplina caratterizzava le nevrosi, accompagnate invece da una dolorosa mancanza di desiderio, di energie, di progettualità. Il neomalinconico sembrerebbe innanzitutto caratterizzato da un “corpo spento”, che non sprigiona nessun eros. Un corpo che diventa un peso morto, “dis-vitale”, secondo l’efficace espressione di una paziente dello stesso Recalcati.

LE FIGURE DEL VUOTO a cura di Luigi Rinaldi e Maria Stanzione Borla, pagg. 190, euro 25