martedì 26 febbraio 2013

l’Unità 26.2.13
Il Pd ora pensa a un governo capace di sparigliare le carte
Esclusa l’ipotesi di Grande Coalizione con Berlusconi Cautela anche sulle ipotesi di voto anticipato, l’onere della proposta spetta a chi ha vinto alla Camera
di Simone Collini


E adesso? Due cose sono chiare: al Senato c’è una situazione di ingovernabilità e la prima mossa per tentare di superare la situazione d’impasse spetterà al Pd, che ha preso il premio di maggioranza alla Camera. Fine. Per il resto, la confusione regna sovrana. Ed è difficile capire come si possa evitare quello che da più parti viene definito uno scenario in stile Grecia.
In campo ci sono sostanzialmente tre ipotesi. La prima: si torna a votare soltanto in un ramo del Parlamento, quello in cui è impossibile si determini una maggioranza, cioè il Senato. È un’ipotesi di scuola, ma non percorribile, tra le altre cose perché si metterebbero di traverso le forze (Pdl e Movimento 5 Stelle) che non hanno preso il premio a Montecitorio e che però hanno una nutrita pattuglia di senatori. La seconda ipotesi: la Grosse Koalition, o governo di unità nazionale, insomma un nuovo esecutivo sostenuto da Pd, Pdl e centristi. Anche questa ipotesi però non appare percorribile, stando a quanto dicono in queste ore i vertici democratici: perché è impossibile riaprire un canale di dialogo con Berlusconi dopo una campagna elettorale come questa e perché un nuovo governissimo rischierebbe di far aumentare ancora di più i consensi per Grillo, come del resto hanno dimostrato queste elezioni.
Resta una terza ipotesi, quella che in queste ore appare la più accreditata e che però arriva soltanto fino a un certo punto, quanto a chiarezza. E cioè che Bersani, leader della coalizione che ha preso il premio di maggioranza alla Camera, vada al Quirinale a fare una proposta di questo tipo: gli si dia l’incarico per formare un governo in grado di prendere la fiducia alla Camera e di tentare poi di ottenere lo stesso risultato anche al Senato. Ma il punto è: un governo per fare cosa? E qui le interpretazioni, anche all’interno dello stesso Pd, si diversificano. C’è chi sostiene che questo esecutivo dovrebbe rimanere in carica soltanto per il tempo necessario perché le forze parlamentari eleggano il nuovo Capo dello Stato (orientativamente a metà aprile) e approvino una nuova legge elettorale per poi tornare in tempi rapidi al voto (a fine giugno). E c’è chi sostiene che invece questo governo, seppur di minoranza, debba cercare di approvare le riforme necessarie al Paese cercando sui singoli punti di costruire la maggioranza anche al Senato, coinvolgendo nella discussione non soltanto il fronte moderato di Monti, ma anche i gruppi parlamentari del Movimento 5 Stelle. E questa è la linea che sembra intenzionato a seguire Bersani.
Non è casuale che il vicesegretario del Pd Letta, appena visto il dato che fotografava una situazione di ingovernabilità al Senato, a metà pomeriggio si fosse lasciato andare a questa battuta: «Se le cose stanno così, il prossimo Parlamento sarà ingovernabile. Si farà subito una nuova legge elettorale e si torna a votare». Salvo poi rettificare in serata: «Il ritorno al voto immediato non pare a oggi la prospettiva da perseguire e abbiamo fiducia che il Capo dello Stato possa aiutare a trovare le soluzioni migliori».
LA PROPOSTA SPETTA A CHI VINCE
Questa è la linea che sosterrà Bersani nelle prossime ore, convinto com’è che ritornare immediatamente alle urne non sia la prospettiva che può mettere l’Italia al riparo dai guai vissuti dalla Grecia. «Il centrosinistra ha vinto alla Camera e per numero di voti anche al Senato. È evidente a tutti che si apre una situazione delicatissima per il Paese», è la nota che il leader Pd fa diramare a notte fonda. «Gestiremo le responsabilità che queste elezioni ci hanno dato nell’interesse dell’Italia».
Al di là delle prospettive politiche e dell’ipotesi che si riesca a costruire delle convergenze al Senato che vadano oltre i gruppi del centrosinistra e di Scelta civica, c’è anche la Costituzione a impedire che si torni in tempi rapidi alle urne.
Tra gli elementi da tener presenti c’è che il mandato di Napolitano al Quirinale scade il 15 maggio, e che una volta insediate le Camere ed eletti i presidenti dei due rami del Parlamento, deputati e senatori dovranno procedere all’elezione del nuovo Capo dello Stato. Secondo il costituzionalista Stefano Ceccanti non si potrebbe però procedere allo scioglimento delle Camere e a nuove elezioni perché a quel punto saremmo nel semestre bianco. Non era questo il caso con questa legislatura, visto che l’articolo 88 della Costituzione recita: «Non può esercitare tale facoltà (di scioglimento, ndr) negli ultimi sei mesi del suo mandato, salvo che essi coincidano in tutto o in parte con gli ultimi sei mesi della legislatura». Con l’insediamento delle nuove Camere entreremmo però nella diciassettesima legislatura, e il caso sarebbe diverso. C’è allora l’ipotesi che il nuovo Capo dello Stato si insedi e proceda subito allo scioglimento? Sarebbe discutibile. E in ogni caso, prima che si vada al voto devono passare dallo scioglimento almeno 45 giorni. E a meno che il Parlamento non abbia proceduto speditamente, rischiano di non esserci i tempi per una finestra elettorale a fine giugno.
RENZI OSSERVA DA LONTANO
Nel Pd si guarda con attenzione all’eventualità di andare in tempi rapidi a nuove elezioni pensando agli interessi del Paese (in Grecia si è visto quanti danni ha provocato una situazione simile a quella che stiamo vivendo oggi) ma anche alle strategie di partito. Nel gruppo dirigente del Pd neanche si vuole discutere, in queste ore, dell’ipotesi che il risultato elettorale possa far prendere in considerazione a Bersani l’ipotesi di dimissioni anticipate (il leader del Pd aveva detto già in campagna elettorale che a prescindere dal risultato delle urne non sarebbe stato lui il segretario del partito col prossimo congresso). Però sono già in molti, dentro ma soprattutto fuori il Pd, a iniziare a dire che con Renzi vincitore alle primarie sarebbe andato in onda tutto un altro film. E anche nel fronte bersaniano si deve ammettere a denti stretti che in caso di nuove elezioni anche a breve non sarà l’attuale segretario a giocare il ruolo del candidato premier del centrosinistra.
Renzi in queste ore ha scelto di mantenere il basso profilo, rimanendo in silenzio (commenterà il risultato elettorale dopo che lo avrà fatto Bersani, hanno spiegato i suoi stretti collaboratori) e facendo filtrare soltanto un messaggio: la maggioranza, se non c’è, va ricercata e costruita. Insomma, il sindaco di Firenze ostenta calma e si guarda bene dal dare l’impressione di fremere per andare alla sfida elettorale. Ma anche questa, nelle prossime ore, è una questione che il gruppo dirigente del Pd dovrà affrontare.

l’Unità 26.2.13
Bersani: gestiremo il risultato nell’interesse dell’Italia
I Democratici presi alla sprovvista da un risultato incerto fino alla fine
Il segretario: «Prevaliamo alla Camera e anche al Senato, ma la crisi è delicatissima»
di Maria Zegarelli


Rompe il silenzio alle 23.55, dopo aver visto i dati definitivi. Lo fa attraverso un comunicato, niente telecamere, da solo nella sua casa romana a seguire l’altalenare dei risultati per tutto il pomeriggio. «Il centrosinistra ha vinto alla Camera e per numero di voti anche al Senato. È evidente a tutti che si apre una situazione delicatissima per il Paese. Gestiremo le responsabilità che queste elezioni ci hanno dato nell’interesse dell'Italia». Sono queste le uniche dichiarazioni di Pier Luigi Bersani, rilasciate dopo aver a lungo parlato con Maurizio Migliavacca, con i big del partito e con il suo alleato, Nichi Vendola.
L’incubo inizia alle 16.19, davanti ai dati delle proiezioni che ribaltano clamorosamente gli instant poll. Sembra un tempo sospeso quello che intercorre tra la lettura sui monitor di quei numeri e il suono della voce di un cronista che rompe il silenzio: «Al Senato è avanti il centrodestra». Casa dell’Architettura, a Roma: è qui che il Partito democratico vede andare in onda un’altra storia, quella che nessun osservatore, nessun sondaggista, nessun fine politico aveva previsto. Succede che Beppe Grillo vince e stravince, nelle Regioni rosse, in Sicilia, ovunque. Succede che il Paese crede ancora nel Caimano, alle sue promesse, l’Imu rimborsata, il condono tombale. E succede che Mario Monti indicato al momento della sua ascesa in politica come l’ago della bilancia, forza stimata al 20%, poi al 15%, è inchiodato poco sopra al 10%. Un flop per il professore che sperava di essere determinante. Ma il flop diventa l’incubo nero in cui finisce Pd, impossibile avere la maggioranza al Senato, anche se a fine serata il centrosinistra è primo a Palazzo Madama. Grazie al Porcellum non ottiene la maggioranza al Senato, neanche alleandosi con i centristi. Neanche il centrodestra riesce ad aggiudicarsi Palazzo Madama. È lo stallo.
Bersani resta lontano dalle tv, i dirigenti da Massimo D’Alema a Walter Veltroni a Dario Franceschini, sono nel quartier generale del Pd, blindati, esterrefatti. È l’inizio di un’altalena drammatica, dove gli unici a restare sempre in alto sono i grillini. Il tempo sospeso è quello che separa la dichiarazione del vicesegretario Enrico Letta pronunciata con il sorriso poco dopo le tre del pomeriggio da quel discorso che pronuncia davanti alle telecamere alle 10 di sera. «Cambia la configurazione della politica italiana dice quando gli instant poll raccontano un’altra storia. Credo ci saranno le condizioni per fare le riforme di cui il Paese ha bisogno». «Il risultato dà il Senato senza maggioranza, una situazione al limite, una situazione che il Paese non ha mai vissuto fino a oggi dice quando i dati rimandano un quadro più definito eppure caotico -. Rispetto a questa situazione la parola responsabilità che abbiamo sempre usato e applicato è quella che useremo anche oggi». Chi vincerà alla Camera aggiunge «comunque sia e chiunque sia, dovrà avere l'onere della responsabilità di fare le prime proposte al Capo dello Stato». È al centrosinistra, per un soffio, che toccherà questa impresa che sembra impossibile. Dialogare con Grillo, forse, perché il Professore non sarà l’ago della bilancia.
I primi dati raccontano anche di un’ emorragia di voti che si è portata via quattro milioni di elettori Pd, tanti verso Grillo, altri lontano dalle urne. Il cambiamento avviato non è bastato. Letta esclude un ritorno al voto, «è una crisi da vivere e da gestire e rispetto alla quale bisogna mettere un passo dopo l'altro». Difende la campagna elettorale, «abbiamo sempre detto la verità», ma ammette che forse non si è riusciti a dialogare con tutti coloro che non ne potevano più della profonda crisi che si è aperta nel sistema politico. Si è pagato un prezzo anche per la politica dell’austerità, altra ammissione. Nel pomeriggio aveva divulgato un comunicato ad uso e consumo dei dirigenti, invitando a non sbilanciarsi, ad aspettare i dati definitivi.
Qui, in quello che i romani conoscono come l’Acquario, ci sono 600 giornalisti accreditati, i corrispondenti francesi non riescono a capire come sia possibile che il centrosinistra avendo più voti al Senato prenda meno seggi. «Misteri del Porcellum», commenta un giornalista italiano mentre un corrispondente giapponese cerca di spiegare all’altra parte del mondo cosa succede in Italia. Paola Concia, candidata alla Camera in Abruzzo, ha gli occhi rossi. Le hanno comunicato i dati dell’Abruzzo, «se le cose stanno così non entrerò in Parlamento».
Lapo Pistelli davanti alle telecamere di mezzo mondo in inglese, in francese, in italiano, spiega per tutto il pomeriggio che se i dati sono questi «non ci sono le condizioni per formare un governo».
Non si vedono i big, ci sono i «giovani turchi», Matteo Orfini, Stefano Fassina, che arrivano e si caricano sulle spalle il peso di questa giornata funesta, «una grande preoccupazione per il destino del Paese», commenta il responsabile Lavoro del Nazareno. C’è chi chiede «e adesso che succede? Si torna al voto? Sarà Renzi il prossimo candidato?». Impossibile ipotizzare scenari mentre si sale e si scende dall’altalena. Alessandra Moretti lascia gli studi televisivi e arriva qui, dove fuori era ci sono i gazebo allestiti per una festa che non ci sarà. «Abbiamo fatto tutto il possibile».
Dalla Sicilia Rosario Crocetta invita al dialogo con il M5s, Ignazio Marino chiede che si torni al voto, Anna Finocchiaro invita ad andarci cauti e ricorda le condizione del Paese solo un anno e mezzo fa. È successo quello che nessuno aveva previsto e sul banco degli imputati ora tutti mettono la legge elettorale e con essa i partiti che non hanno voluto cambiarla -, il Porcellum. Eccolo qui il mostro che ha partorito.

Corriere 26.2.13
Pd, i conteggi della delusione. Bersani: «Gestiremo il risultato»
Al quartier generale: forse con Renzi avremmo vinto bene
di Monica Guerzoni


ROMA — All'una del pomeriggio Pier Luigi Bersani sale su un volo Alitalia per Roma lasciandosi alle spalle Piacenza e la sua Bettola, dove i concittadini gli hanno preferito Berlusconi. Alle tre varca l'uscio della sua casa romana e lì si chiude fino a notte, asserragliato in un palazzo storico a due passi dal Senato. Sempre da solo, incollato al pc e alla tv, prima euforico e poi impietrito, in un'alternanza da infarto tra emozione e preoccupazione, successo pregustato e incubo di una sconfitta imprevista. E chissà quante volte, mentre i capicorrente lo aspettavano invano al Nazareno, gli sarà tornata in mente la promessa di «smacchiare il giaguaro», la sfortunata metafora che resterà il simbolo di un trionfo mancato. «Gonfiare troppo il petto è un errore...», aveva avvertito Arturo Parisi, ma nessuno lo ha ascoltato.
Venerdì all'Ambra Jovinelli Nanni Moretti aveva previsto «la liberazione di 60 milioni di italiani ostaggio, per 19 anni, da un uomo solo». Applausi. E invece Berlusconi è stato protagonista di una rimonta impensabile e, a mezzanotte, Bersani affida le sue speranze a una breve nota: «Il centrosinistra ha vinto alla Camera e, per numero di voti, anche al Senato. Si apre una situazione delicatissima. Gestiremo le responsabilità che queste elezioni ci hanno dato nell'interesse dell'Italia». È notte fonda. Scrutinio da batticuore, testa a testa da brivido con Berlusconi alla Camera. Ma all'una e un quarto Bersani agguanta il premio di maggioranza per 120 mila voti. E adesso, magra consolazione, Bersani punta a indicare il premier. «Tocca a noi», dichiara Nichi Vendola dopo averlo sentito al telefono.
La prima doccia fredda arriva al mattino con i dati dell'affluenza, ma poi, complice Piazza Affari che continua a salire, al Nazareno si diffonde una cauta euforia. «Voltiamo pagina», è il titolo dell'Unità. Alle 21.30 però Bersani è ancora rinchiuso nel bunker, incredulo. I giornalisti che lo aspettano nella sala stampa allestita all'Acquario romano apprendono che il candidato premier non verrà e che al suo posto parlerà il vice, Enrico Letta: «È una crisi complessa, da vivere e da gestire...». Lo stato d'animo generale lo esprime la portavoce Alessandra Moretti, mimando un taglio alle vene del polso sinistro: «Di più non potevamo fare, abbiamo dato il sangue». I ragazzi dello staff vagano nella penombra, smarriti. «È colpa nostra», si fustiga un giovane volontario. La Sicilia è di Grillo, la Lombardia è di Berlusconi, il Veneto è perso e così l'Abruzzo, la Calabria e anche la Puglia, già roccaforte di Vendola. Il Pd si ferma ben lontano dalle aspettative del segretario: quattro milioni di voti spariti rispetto al 2008, quando Veltroni, pur sconfitto, agguantò il 33,1 alla Camera. Ora invece il Pd di Bersani è inchiodato al 25,41, un numero che spazza via il vantaggio delle primarie e apre una dolorosa riflessione incentrata sul senno di poi. «Con Renzi avremmo vinto...», è il tormentone del quale Bersani sarà chiamato a rispondere. C'è chi prenota il congresso anticipato e chi spera in una candidatura del sindaco di Firenze. Voci, generate dallo sconforto dei bersaniani o dalla voglia di rivincita dei renziani.
Nel momento dello choc — quando gli instant poll lasciano il posto alle proiezioni che fanno balenare un trionfo di Grillo — sotto la volta dell'Acquario romano prende ad aleggiare lo spettro delle dimissioni. Bersani lascia e si va alle assise? Ma no, è soltanto una cattiva visione dovuta al brusco contraccolpo tra i dati che assegnano al centrosinistra una solida maggioranza e la realtà, che un minuto dopo l'altro rosicchia voti al Pd e li regala a Grillo. «Bersani non ci pensa proprio a mollare», assicura il capo ufficio stampa Roberto Seghetti, mentre sui volti dei giornalisti stranieri, 503 quelli accreditati, si legge incomprensione e sconcerto. La rete wi-fi non ce la fa a reggere l'onda d'urto dei reporter, ma non è questo. È che è difficile spiegare perché una coalizione che ha più voti al Senato non abbia i seggi per garantire stabilità. Misteri del Porcellum, la legge che Bersani non si è certo affannato a cambiare.
È ora del mea culpa. E dire che all'Acquario tutto era pronto per la festa... I camerieri in giacca bianca hanno aspettato a lungo al primo piano che qualcuno salisse ad aggredire il buffet e, giù nel salone ovale, il palco con le insegne dell'«Italia giusta» è rimasto vuoto per ore. Finché alle cinque Stefano Fassina, onore al coraggio, ci mette la faccia: «Abbiamo qualche preoccupazione per le prospettive di governo — ammette il responsabile economico, sfidando le ironie dei giornalisti sulla gioiosa macchina da guerra di Occhetto, 1994 — Per l'Italia sono guai seri». E adesso? A caldo il primo pensiero di Bersani è il ritorno alle urne ed è questo il leitmotiv che, sulle prime, i «giovani turchi» come Fassina ripetono in tv. Ma ecco che Letta smentisce. La seconda ipotesi che Bersani soppesa è rivotare solo al Senato, ma presto dallo staff negano anche questa, aprendo alla possibilità di un breve governo di larghe intese per cambiare la legge elettorale. «Siamo fiduciosi, un governo è possibile», azzarda Matteo Orfini. Oggi parla il leader. E nell'attesa Letta abbassa il sipario: «Ringraziamo i milioni di elettori che hanno votato Bersani...».

Corriere 26.2.13
Il leader Pd si candida a guidare un governo di «responsabilità»
L'appello a «chi ci vuole stare». Il passo indietro al congresso
di Maria Teresa Meli


ROMA — Adesso a "babbo morto" c'è chi dice, dopo averlo schifato, allontanato e demonizzato, che «se ci fosse stato lui» ora la situazione sarebbe diversa. Il "lui" in questione ha mandato il suo bravo sms a Pier Luigi Bersani: complimenti, solidarietà, stima e quant'altro. E ancora per qualche giorno Matteo Renzi reciterà questa parte. Fino in fondo e con grande impegno. Dopodiché è accaduto esattamente quello che il sindaco di Firenze pensava potesse succedere: una maggioranza che c'è, non c'è, ci sarebbe, non ci sarebbe, insomma una legislatura che al massimo può durare due anni — ma proprio al massimo — e che lascerà sul campo tanti leader sconfitti.
Il primo cittadino del capoluogo toscano ci riproverà. Con i tempi e i modi che si è dato. Anche se a un certo punto aveva creduto persino lui che il centrosinistra ce la facesse: «Gli altri sono delle seghe, non possiamo non vincere». Previsione errata. Previsione dannata. Al Partito democratico non se l'aspettavano. I leader rinchiusi a largo del Nazareno sono basiti. E anche un po' atterriti. «Abbiamo sbagliato la campagna elettorale», sibila Massimo D'Alema. «Adesso sarà durissima», sospira Dario Franceschini. «Comunque non si può rivotare», sentenzia Enrico Letta. E quasi tutti gli danno ragione.
Al di là delle frasi di rito, delle dichiarazioni a favore di telecamera, delle contumelie contro l'avversario Grillo, al di là di quello che si ostina a dire un attonito Stefano Fassina — «E' un disastro, ma non faremo mai la larga coalizione» — al di là delle paure e delle perplessità, al Partito democratico i dirigenti più responsabili (nonché più importanti) sanno bene che tornare alle urne è impossibile. «Sarebbe da irresponsabili», confida a mezza voce lo stesso Bersani che dalla clausura della sua casa romana comunica a spizzichi e bocconi con i big del Pd. E allora? Allora ci vuole un Monti bis per andare avanti in qualche modo. Un governo di larghe intese? Non esattamente. Sarebbe troppo per il Pd. Il maggior partito del centrosinistra non reggerebbe un governo organico con il Pdl. Bersani oggi alle dodici proporrà «un governo di responsabilità» con lui alla guida, aperto a «chi ci vuole stare», senza data di scadenza.
Quindi lo scenario su cui si stanno impegnando i vertici del Pd è accidentato e complicato, ma è l'unico che al momento appare percorribile, almeno per loro. Anche se è già pronto un piano B: la nascita di un governo di minoranza, destinato a morire entro un tempo dato, appoggiato dal centrosinistra e dai montiani, ma sostenuto in qualche modo dal Pdl, con pochi, selezionati, obiettivi. Mandare in porto una riforma elettorale che modifichi il Porcellum, azzerare le province, dimezzare (ma questa volta sul serio) i deputati e i senatori, rivedere le regole dei rimborsi elettorali e del finanziamento pubblico e, infine, fare in modo che dalla recessione non si passi alla depressione.
Chi potrebbe guidare un governo così? Fabrizio Barca, sussurrano dal centrodestra. Annamaria Cancellieri, dicono dal centrosinistra. Comunque un ministro che è stimato sia dal Pdl che dal Pd. Non può essere certamente Bersani il premier di una coalizione siffatta, perché il leader non può sottostare alle condizioni che Berlusconi gli porrà.
Il segretario, del resto, adesso è dinanzi a un altro dilemma: come affrontare il futuro che verrà. Che non è esattamente quello che si era prefigurato. Il ruolino di marcia doveva essere questo: Roberto Speranza reggente sino al congresso entro la fine di quest'anno. Poi due candidati ai blocchi di partenza: Andrea Orlando e Matteo Orfini. Infine un unico vero papabile alla successione a Bersani: Fabrizio Barca. «Vediamo che vorrà fare: è una risorsa sia per il partito che per il governo», amava ripetere il segretario. Ora che le urne sono chiuse Barca resta l'unico in campo. Bersani, invece, dovrà decidere quando uscire dal campo, presentandosi dimissionario alle assise che verranno.

La Stampa 26.2.13
Bersani frena i suoi “Tornare alle urne non è la soluzione”
Il leader deluso, il partito nel caos sul da farsi
di Federico Geremicca


Nemmeno Bettola, che nella sostanza nulla avrebbe cambiato: ma vuoi mettere esser primi almeno nel paesino della pompa di benzina di famiglia? Ha vinto il centrodestra, invece: che per altro lì governa da anni. Così come Grillo è andato prima vicino a espugnare alcuni storici quartieri “rossi” della “rossa” Torino, per poi diventare il secondo partito a Siena (Montepaschi...), dove il Pd ha perso qualcosa come 11 punti percentuali. E si potrebbe continuare con la caduta delle regioni che erano considerate “in bilico” - tutte: da nord a sud, indistintamente - o con il naufragio in storiche roccaforti. Ma sarebbe impietoso. E inutile, anche: perchè a Pier Luigi Bersani è bastato leggere la prima proiezione sui risultati del Senato per capire che nemmeno stavolta il giaguaro sarebbe stato smacchiato.
Lo shock è tremendo. Inatteso e forte fino al punto da convincere il leader del Pd a non rilasciare dichiarazioni per l’intera giornata e ad intervenire sui suoi solo per invitarli alla prudenza, e farla finita con commenti del tipo “se la situazione è questa qui”, si torna al voto: punto e basta. Poche parole al fido Migliavacca: «Che si fa, si torna a votare con la stessa legge elettorale per avere lo stesso risultato? Dì loro di stare un momento calmi... ». Di qui un paradossale avanti e indietro, con molte correzioni rispetto alle dichiarazione della primissima ora che dicevano “al voto, al voto”.
«Io invece resto avanti, non torno indietro - replica Matteo Orfini, cresciuto alla scuola di D’Alema e ora leader dei “giovani turci” -. Adesso nessuno pensi di infilarci in un altro accrocco insostenibile... Se i numeri non ci sono, non ci sono e basta».
Ma non è quella dell’immediato ritorno al voto la via maestra di un Pd ancor più provato che dopo la tanto evocata vittoria-sconfitta del 2006: l’ipotesi principale è un qualche governo (istituzionale? Di minoranza? D’emergenza nazionale?) che vari la legge elettorale e riporti il Paese al voto. Si naviga a vista, si scrivono cose sull’acqua, si cerca di mettere da un canto un appuntamento pure ineludibile come l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica (il mandato di Giorgio Napolitano scade a metà maggio) per la semplice ragione che, allo stato, non si sa affatto come affrontarlo.
Alle otto della sera, quando la mancata vittoria è diventata realtà e nelle orecchie di molti risuona il rabbioso avvertimento di D’Alema («Mentre noi pensiamo a dividerci i ministri Berlusconi ha guadagnato otto punti») Rosy Bindi appare perfino più spaesata che delusa: «Sono qui, a Largo del Nazareno, con gli altri. Ognuno nella sua stanza a fare i suoi conti. Di Bersani nessuna notizia, ma vedo che cominciano a dire che con Renzi avremmo vinto... non mi pare un buon modo per iniziare una riflessione». Si ferma un attimo e poi riprende: «Capisco che Pier Luigi voglia del tempo: non sarebbe facile per nessuno dire qualcosa in un momento così... ».
L’intervento di Bersani su Migliavacca sortisce, comunque, gli effetti sperati. Enrico Letta, che nelle prime ore del pomeriggio aveva parlato della possibilità di un immediato ritorno alle urne, frena: «Ipotesi di nuovi voti anticipati non sono la soluzione». E Anna Finocchiaro condivide: «In Grecia il ritorno alle urne non giovò... Ci andrei piano con l’ipotesi di mettere nel conto nuove elezioni, il Paese ha bisogno di un governo stabile».
Chiuso nella sua casa tra il Pantheon e largo Argentina, Pier Luigi Bersani ha avuto bisogno davvero di poco per capire che le cose volgevano al peggio e che le sue funeree sensazioni degli ultimi giorni («Grillo va forte, è sottostimato, soffia sul fuoco dell’esasperazione della gente e questo lo premierà») non erano sbagliate. Fiumi di pensieri gli hanno attraversato la mente fino a sera, da quelli tristi sull’occasione mancata a quelli preoccupati per quel che accadrà per il governo del Paese. E poi, naturalmente, la discussione che si aprirà nel Partito democratico: una discussione che, secondo alcuni, potrebbe trasformarsi in un sanguinoso regolamento dei conti.
Che dirà D’Alema, sacrificatosi per arginare l’offensiva di Renzi? Che dirà Veltroni, anche lui fuori dal Parlamento? E soprattutto, che linea sceglierà Matteo Renzi? Attaccherà o attenderà? Domande senza risposta, per ora. Il leader Pd riflette, ma conclude che alla fine - comunque - tocchi a lui. Un governo Bersani, dunque: chi ci sta ci sta... E questa, allora, potrebbe davvero essere l’ultima spiaggia del Pd e del suo leader.

La Stampa 26.2.13
Il Pd: pronti a gestire l’emergenza
Il centrosinistra ipotizza un esecutivo di minoranza, e non esclude di cercare il sostegno dei grillini
di Roberto Giovannini


Pier Luigi Bersani, che sicuramente ha ottenuto un risultato molto lontano da quello che personalmente si attendeva, parlerà in pubblico solo stamani. Ma ieri notte, quando il quadro dei risultati appariva praticamente definitivo, il leader del centrosinistra ha rilasciato una dichiarazione. «Il centrosinistra - ha detto - ha vinto alla Camera e per numero di voti anche al Senato. È evidente a tutti che si apre una situazione delicatissima per il paese. Gestiremo le responsabilità che queste elezioni ci hanno dato nell’interesse dell’Italia».
Che significa, in concreto? Una delle ipotesi allo studio dei vertici del Partito democratico, primo partito alla Camera e al Senato, sarà quella di tentare la formazione di un governo di minoranza. Una strada difficile, ma non necessariamente impraticabile: un esecutivo «monocoalizione», sostenuto dai voti del centrosinistra, che chiederà in Parlamento il sostegno (con il voto favorevole o l’astensione) di altre forze politiche o di singoli parlamentari.
Lui, Pier Luigi Bersani, in realtà accarezzerebbe proprio questo ambizioso obiettivo. È ragionevole che il leader del Pd, leader della coalizione che gode della maggioranza assoluta alla Camera e relativa al Senato, riceverà dal Capo dello Stato l’incarico per la formazione del governo. Bersani vorrebbe tentare di presentarsi in Parlamento - alla guida di un governo di minoranza di centrosinistra - con una precisa quanto lunga e dettagliata lista di misure e provvedimenti su cui chiedere il sì dei senatori di altri partiti. Potrebbe trattarsi del Movimento
5 Stelle, seguendo quello che è stato chiamato «metodo Crocetta»: e allora sì all’acqua pubblica, via gli F35, subito il reddito minimo di cittadinanza. Oppure, potrebbe tentare una operazione più sofisticata: rivolgersi oltre a M5S, anche a Monti, chiedendo consensi anche al Centro. Oppure ancora, come pure qualcuno nel Pd propone, farsi dare i voti del Pdl garantendo l’inviolabilità delle imprese e della persona di Berlusconi. Infine, ultima opzione su cui ragiona qualche renziano: governo aperto a «chi ci sta», ma non guidato da Bersani. Una specie di governo istituzionale a termine per la gestione degli affari correnti, il controllo dei conti pubblici, e la riscrittura della legge elettorale.
In precedenza, nella giornata della confusione e dell’incertezza, in sala stampa si era presentato il vicesegretario del Pd Enrico Letta. Qualche ora prima lo stesso Letta aveva detto che «con questi dati si torna a votare», in serata invece spiega che «un nuovo voto non è utile». E dunque, spiega Letta, «ci sembra di poter dire che questa sarà una crisi complessa da vivere e da gestire e rispetto alla quale bisogna mettere un passo dopo l’altro». Cautela e prudenza, perché «l’idea di risolvere la situazione saltando i gradini potrebbe portare a fare dei capitomboli. Di mezzo c’è l’Italia. Vogliamo fare le cose per bene, un gradino per volta». Il Pd si assumerà «le responsabilità che saranno necessarie», dice il numero due del Partito. E visto che in Europa c’è «incredulità» rispetto all’esito elettorale del Senato, i democratici hanno «intenzione come prima forza politica al Senato di assumerci le responsabilità necessarie». Tra i temi sui quali dovrà esserci una riflessione ci sono quelli di dare una «risposta alla fatica sociale» e ridare «credibilità alla politica» e su questo «serve responsabilità».
Il risultato, aggiunge Letta, che dà il Senato senza maggioranza «è una situazione al limite, e di fronte a questo la parola che serve è responsabilità ed è quella che useremo». «È evidente - prosegue - che chi vince alla Camera comunque sia dovrà avere l’onere e la responsabilità di fare le prime proposte a Napolitano», che dovrà gestire una situazione «complessa».

L’Huffington Post 26.2.13
Il Pd discute ma Bersani, i suoi e Sel hanno scelto: rotta M5s

qui

Repubblica 26.2.13
La solitudine amara del segretario “Non siamo stati all’altezza della crisi”
E pensa a un governo di minoranza
Il leader vuole chiedere in Parlamento i voti di Grillo
di Goffredo De Marchis


ROMA — Da solo ha provato a frenare la crisi del sistema politico mixando gli antichi strumenti dei partiti e quelli moderni come le primarie. Da solo accoglie, nella sua casa romana, la risposta degli italiani: l’impresa è fallita. Sopra la birreria dei giorni felici, delle bicchierate con i volontari, dell’iconografia della “lager” bevuta durante la stesura di un discorso, Pier Luigi Bersani ha vissuto il pomeriggio nel suo appartamento a pochi metri dal Teatro Valle e dal Senato ma-ledetto, attaccato al telefono ma in solitudine. Seduto sul divano, la televisione accesa, davanti agli lo scorrere della prova numerica che l’Italia non ha creduto alla sua parola, alla formula del centrosinistra. Ha scelto Grillo, piuttosto. «È un voto di rottura, la fine di un ciclo politico. E la nostra proposta non è stata all’altezza della crisi».
Oggi appare uno scherzo del destino l’ipotesi di una vittoria alla Camera che costringerà Bersani a fare comunque una mossa, a prendersi la responsabilità di una situazione ingovernabile. «Se arriviamo primi alla Camera, vedremo cosa farà Napolitano. Può chiamare noi? È possibile, porteremo una nostra proposta». L’idea è quella di un governo di programma, cioè di un governo di minoranza che cerca i voti in Parlamento rivolgendosi innanzitutto al Movimento 5stelle, certo non al Pdl. Nel cassetto il Pd ha già una riforma della Costituzione per dimezzare il numero dei parlamentari e per allineare lo stipendio a quello dei sindaci dei capoluoghi. Basterà? Sarebbe comunque un amaro ingresso a Palazzo Chigi, da premier azzoppato, in balia dello tsunami, che non è sicuramente un’onda comoda, ma travolgente e ingovernabile, appunto. È uno di quei giorni che la prima tentazione è mollare tutto. Non a caso circola la notizia di dimissioni
del segretario. Invece oggi l’imperativo è, responsabilmente, non mollare, gestire il risultato. «Dobbiamo riflettere, aspettare i dati definitivi», dice con la voce nervosa Vasco Errani a metà pomeriggio.
Alle 20,30, quando il dato è ormai chiaro, la scorta della Guardia di Finanza sotto la casa del Centro viene congedata. Lampeggiante spento, motore al minimo, sparisce nei vicoli di Roma. Bersani ha appena deciso di rimandare a oggi l’uscita di fronte alle telecamere. Quindi, liberi tutti. I militari tornano a casa e sotto l’appartamento del segretario non rimangono nemmeno gli uomini del servizio d’ordine del Pd, una “compagnia” alla quale Bersani ha rinunciato da tempo per mandare un segnale
di sobrietà. Piccoli gesti che non hanno prodotto il risultato sperato. A tenere i contatti con Largo del Nazareno, c’è il fedelissimo Maurizio Migliavacca. Lui sta attaccato al cellulare con il segretario. Spiega, rispiega, analizza i numeri. Alcune telefonate sono quasi mute, perché tutti e due sono senza parole. «Un esito inaspettato», dice Bersani. «Un tempo erano gli elettori della Dc o del Pdl a nascondere il proprio voto nei sondaggi o negli exit poll. Stavolta i nostri si sono vergognati di confessare che votavano Grillo». Bersani sapeva che la partita delle ultime ore si stava consumando contro il comico, che era diventato lui il giaguaro da smacchiare. Ma gli avevano detto che i 5Stelle avevano già fatto il pieno nel bacino del centrosinistra, che erano al 20 per cento (risultato mostruoso) ma senza altri smottanti nel campo del “Bene comune”. «Invece l’ultimo 5 per cento — è il succo dei colloqui con Migliavacca — lo hanno preso da noi». Centinaia di migliaia di voti che hanno deciso le elezioni.
L’amico di una vita, quello che lo ha accompagnato in treno il suo primo giorno da ministro dell’Industria, quando non era nemmeno deputato, a ogni squillo compie un gesto di riguardo nei confronti del segretario. Migliavacca abbandona la riunione permanente di Largo del Nazareno e cerca una stanza vuota, dove poter parlare con calma e senza altri interlocutori. Decine di telefonate, mentre nella sala riunioni aspettano i fedelissimi emiliani Errani e Miro Fiammenghi, Dario Franceschini, Massimo D’Alema, Alfredo D’Attorre, Miguel Gotor. Nella sede del Pd si affacciano Vincenzo Visco, Alfredo Reichlin, Livia Turco, vecchi dirigenti con le facce da funerale. Passa Francesco Boccia, c’è Enrico Letta. Alle 21, Migliavacca comunica al vicesegretario: «Pierluigi vuole che vada tu al comitato elettorale a commentare le percentuali. Lo facciamo quando è chiaro almeno il quadro della Camera».
Non è una diserzione, quella del segretario. Aveva deciso così dalla mattina: stare a casa da solo, lasciare a Piacenza anche la moglie e le figlie, compiere il solito rituale. Macchina all’una verso l’aeroporto di Linate, aereo fino a Roma, passaggio a casa.
Un percorso fatto tutte le settimane, senza mai sgarrare la domenica in Emilia. Doveva essere la liturgia della vittoria, in questo caso. Non è andata così. Nell’appartamento romano arriva anche la telefonata del Quirinale. Bersani e Napolitano commentano il voto. Il presidente della Repubblica fa capire che alcune dichiarazioni di esponenti del Pd non gli sono piaciute. «Questa storia che si rivota subito non sta in piedi». Il segretario condivide: «Ci prenderemo le nostre responsabi-lità, ma la situazione è delicatissima. Dobbiamo tutti capire che messaggio ci hanno mandato gli elettori». Parole che rimbalzano a Largo del Nazareno. Tocca a Enrico Letta aggiustare il tiro su nuove elezioni a breve. Bersani continua a rimanere chiuso nel suo “bunker” e solo quando smonta il “picchetto” dei giornalisti che lo aspettano da ore sul marciapiede, intorno a mezzanotte, arrivano Errani, Migliavacca, Fiammenghi.
È una notte lunghissima. «Siamo davanti a un esito del tutto insondabile, nessuno può pronosticare quello che succederà », dice Bersani. Con un’amarezza per non aver visto passare il messaggio della “democrazia”, contro i populismi, contro Berlusconi che resiste nonostante il disastro. «Oggi ci metto la faccia, non vi preoccupate», sorride il segretario mandando tutti a dormire. Sarà un altro di quei giorni che...

Repubblica 26.2.13
Il premio Nobel: non mi aspettavo un successo così
Dario Fo: Beppe vuole trattare con la sinistra il Pd deve ascoltarlo
Porteremo al potere tanti giovani preparati, che sapranno rinnovare l’Italia. Io li ho conosciuti da vicino
di Zita Dazzi


MILANO — «È una grande giornata, il segnale delle elezioni è straordinario ». Il premio Nobel Dario Fo all’ora di cena è nella sua casa milanese, incollato alla televisione e non nasconde l’entusiasmo davanti ai risultati. «Il movimento Cinque stelle è il primo partito. E ora finalmente conterà in Parlamento. Potrà fare le leggi che cambieranno l’Italia e che nemmeno il Pd ha avuto il coraggio di fare quando era al Governo».
È sicuro che Grillo saprà fare buon uso dei suoi voti?
«Ma certo, lo conosco bene, io. Da anni. Porterà al potere tanti giovani preparati, che sapranno rinnovare l’Italia. Io li ho conosciuti da vicino. Non ho dato il mio voto senza informarmi. E parlando con Grillo dei suoi programmi, ho capito che solo loro possono garantire una vera rivoluzione. Non è vero che sono populisti: Berlusconi è populista. Orrendo. E bugiardo, con quelle promesse sull’Imu».
Si aspettava che i “grillini” prendessero tutti questi voti?
«A dire il vero nemmeno io mi aspettavo un successo così. Gli italiani hanno deciso di mandarli tutti a casa, questi che hanno governato per anni. Grillo e i nuovi eletti — giovani, intelligenti, preparati — sapranno trasformare l’Italia in una nazione civile».
Berlusconi sembrava spacciato e invece è tornato sulla scena. Non la preoccupa nemmeno questo?
«Certo, è sorprendente. Ma aspetto di vedere i risultati definitivi. Sarebbe grave se il suo risultato fosse confermato».
E del centrosinistra che non sfonda nemmeno dopo tutti gli scandali che hanno travolto Berlusconi, che pensa?
«Il Pd s’è ben guardato dal fare le leggi sul conflitto di interesse. Ha lasciato che Berlusconi facesse i provvedimenti ad personam che gli hanno garantito l’impunità. E
questo gli elettori l’hanno capito».
Non pensa che il Paese diventerà ingovernabile?
«Affatto. Che cosa cambiava se il Pd prendeva più voti? Chi crede ancora in un partito che non ha fatto le leggi che potevano fermare Berlusconi?».
Che scenario politico vede adesso?
«Se il Pd pensa di allearsi con Monti si torna a votare. Se invece collabora con Grillo, le cose cambieranno. Cinque stelle è pronto a ragionare con la sinistra per fare le cose che gli italiani chiedono da anni».
Tipo?
«Per esempio, il taglio dell’esercito e della marina. Siamo l’unico Paese europeo che ancora spende per i cacciabombardieri, un’infamia».
E in Lombiardia? Il centrodestra è in vantaggio, rischia di diventare governatore Roberto Maroni.
«Speriamo di no. Io ho fatto il voto disgiunto per far passare Ambrosoli e sono convinto che tanti anche del movimento cinque stelle hanno fatto lo stesso ragionamento».

l’Unità 26.2.13
Stefano Fassina
«Si apre una fase incerta ma non si può tornare
al voto con questa legge elettorale. Le scelte impopolari del governo hanno pesato»
«Abbiamo pagato il sostegno a Monti Impraticabile un’intesa con la destra
intervista di Roberto Rossi


Si parla mentre voti e dati affluiscono ancora, mentre il Viminale continua a macinare schede, arricchendo un quadro a tinte più che fosche. Ma più si chiacchiera con Stefano Fassina, responsabile economico del Pd, più si ha la convinzione che proprio quei risultati, incompleti, siano ormai già roba vecchia. Mai l’Italia si era trovata in questa condizione. Riassunta in una parola: ingovernabilità. Un termine che ci proietta, con tutta probabilità, verso una nuova, prossima, tornata elettorale. Fassina, che Paese esce da questo voto? «Un Paese impaurito e senza un governo certo. Perché non c’è una maggioranza assoluta al Senato e questo vuol dire che è impossibile garantire la governabilità in entrambe le Camere». Per ora il centrosinistra è leggermente avanti alla Camera ma non al Senato. Comunque i voti reali sono lontani dai sondaggi di qualche giorno fa. Secondo lei perché il Pd non ha sfondato?
«Penso che una parte del nostro elettorato, anche potenziale, è stata catturata dal messaggio del partito di Grillo ed è evidente che le vicende delle ultime settimane non hanno aiutato».
Stiamo parlando del caso Mps?
«Anche. In una fase di così acute sofferenze economiche e sociali per giovani, pensionati, ha fatto breccia fra i nostri elettori il messaggio infondato che accumunava quello scandalo al Pd. E in un contesto così difficile ha trovato interlocutori».
L’exploit di Grillo lo si spiega solo con questo?
«No, naturalmente. C’è un’altra componente da non sottovalutare».
Quale?
«Le scelte di politica economica compiute in quest’ultimo anno, che il Pd ha responsabilmente sostenuto, hanno aggravato le sofferenze economiche e sociali degli italiani, ci hanno penalizzato».
Il Pd è stato visto come parte integrante di un governo che ha fatto dell’austerità la sua stella polare?
«Sì. Abbiamo pagato le scelte onerose del governo Monti. Anche se i nostri concittadini sembrano avere la memoria corta, dimenticando le responsabilità politiche del Pdl, di chi ha portato il Paese a pochi centimetri dal baratro». Lei fu, nel 2012, uno dei sostenitori di un voto anticipato. Andando alle urne subito dopo l’estate lo scenario sarebbe stato diverso?
«L’anno scorso avevo semplicemente fatto una valutazione di fronte alle contraddizioni del governo Monti e avevo proposto di approvare la legge di bilancio e votare in autunno. Sarebbe cambiato qualcosa? La storia non si fa con i se. Certo che il Paese ha sentito distante il governo Monti dai problemi quotidiani. Le sue scelte impopolari, come lui stesso le definì, in realtà hanno aggravato ancora di più la vita delle persone contribuendo ad allontanarle dalla politica».
Come se la spiega la rimonta di Berlusconi?
«Prima di parlare di rimonta faccio notare che solo il Pdl, nel 2008, aveva il 38%. Certo è una ripresa rispetto all’abisso di due mesi fa. Berlusconi che non vince, ma raccoglie abbastanza voti per impedire la vittoria del centrosinistra, è un fenomeno che ha a che fare con un’atteggiamento individualistico, un atteggiamento che guarda al breve periodo e che punta a tirare a campare con evasione e condono. Quell’Italietta là non può più tornare». Che cosa succede da oggi?
«Si apre una fase complicata nella quale si devono minimizzare i danni. L’Italia avrebbe avuto bisogno di un governo stabile e con una maggioranza larga per riforme incisive».
Possibile una grande coalizione?
«Con questa destra è una soluzione impraticabile».
Si torna alle urne?
«Non so. Aspettiamo. Ma è complicato immaginare una prospettiva di breve periodo. Serve una riforma della legge elettorale, poi si può tornare a votare». Queste elezioni non creano anche un problema di leadership all’interno del Pd?
«Noi abbiamo un leader che ha vinto le primarie alle quali hanno partecipato tre milioni di persone. Credo che la leadership di Bersani rimanga la più forte per affrontare la fase che abbiamo di fronte».
Anche con nuove elezioni?
«Ora stiamo andando molto lunghi. Per la fase che abbiamo di fronte Bersani non è in discussione».
Si aspettava un risultato così modesto di Monti?
«No, così modesto no. Credo che l’assenza di legittimazione elettorale del suo governo sia stata una delle cause del risultato».
Mentre parliamo nelle Marche Grillo è diventato primo partito. Questo movimento non incarna anche un elemento di novità che gli altri partiti non hanno avuto? «Noi abbiamo fatto le primarie per i nostri candidati. Porteremo in Parlamento 70% di nuovi volti e il 40% di donne. Noi abbiamo reagito a questo problema con soluzioni concrete».

La Stampa 26.2.13
Fassina
“Un esito che consegna il Paese a gravi problemi Non risaliamo la china”
di R. Gi.


Stefano Fassina, responsabile economico del Pd, come commenta il voto?
«È un voto che consegna il paese a gravi problemi. Così non risaliamo la china».
Per il Pd un risultato deludente. Cosa avete sbagliato?
«La riflessione la faremo con i dati definitivi. Credo si sia sottovalutata la sofferenza sociale delle persone. È scattato un meccanismo che ha portato una parte dell’elettorato a credere al messaggio infondato “sono tutti uguali”. Non si è capito l’effetto delle politiche attuate dal governo Monti, politiche nate dal disastro del governo Berlusconi, che tuttavia sono poi ricadute su chi più lealmente ha sostenuto il governo Monti in questi mesi».
Quindi forse sarebbe stato meglio votare allora, senza passare per il governo tecnico...
«La storia non si fa con i se e con i ma. Certamente si è sottovalutata la condizione di sofferenza sociale del paese, che si è rivolta contro chi responsabilmente si è fatto carico di queste scelte».
Come ha fatto il Pdl a prendere tanti voti?
«Veramente ne ha persi tantissimi: nel 2008 il Pdl da solo aveva oltre il 38%, adesso tutto il centrodestra sta intorno ai 30. Il Pdl perde, ma prende abbastanza voti da impedire al centrosinistra di vincere».
Il dato, comunque, è il successo del M5S, che ha eroso molti consensi al Pd.
«Questo risultato mi pare abbia radici profonde. C’è un’onda di malessere nei confronti della politica, ampiamente giustificata, che Grillo cavalca bene. Ma cavalcare il malessere non dà soluzioni. E purtroppo il voto del Senato ci consegna un quadro in cui le soluzioni sono inesistenti o molto problematiche».
E adesso, appunto?
«Siamo in uno scenario in cui si può solo cercare di ridurre i danni. C’è un Presidente della Repubblica saggio e autorevole che sarà determinante nella scelta della strada giusta per limitare i danni. Cioè per formare un governo che faccia le riforme di cui l’Italia ha bisogno, che dia all’Italia la credibilità di cui ha bisogno in Europa, che riformi la legge elettorale».
Un governissimo con il Pdl?
«Imbarcarsi in un governo con una destra che è stata scacciata anche dal Partito Popolare Europeo, e che non consentirebbe di fare le riforme necessarie vorrebbe dire allontanare ancora di più il paese reale dalle sue istituzioni. Vorrebbe dire rendere davvero travolgente l’onda che è uscita da queste elezioni».

La Stampa 26.2.13
Il crepuscolo degli dei minori
Annientati i Radicali
di Mattia Feltri

(...) Infine, anche se non interesserà a nessuno, o a pochi, chiudono le elezioni con uno 0,2 anche i Radicali. Si chiamavano, stavolta, Giustizia, Amnistia e Libertà. Avevano candidati tutti, Emma Bonino, Rita Bernardini, Mario Staderini. E Marco Pannella. Un posto per loro non c’è. Era già successo che il Parlamento restasse senza Radicali. Ma allora sembrava un’eclissi, oggi un tramonto che riguarda un po’ tutti.

l’Unità 26.2.13
Jean-Paul Fotoussi
«Risultati simili in Europa ma qui pesa la legge elettorale»
di Bianca Di Giovanni


«Allo stato delle cose non si può dire nulla». Jean-Paul Fotoussi non riesce a dare un giudizio definito, né a fare previsioni, visto lo scenario che nel tardo pomeriggio di ieri si era delineato. Il centrosinistra, pur avendo ottenuto più voti a livello nazionale, al Senato non ha la maggioranza dei seggi. A questo si aggiunge l’exploit di Beppe Grillo, incognita assoluta per il parlamento italiano. Due cose sono certe: l’ingovernabilità e la sconfitta di Mario Monti. C’è qualcuno che parla, machiavellicamente, del tempo delle volpi. Il professore di economia alla Luiss di Roma e all'Institut d'Etudes Politiques de Paris sorride, ma si sente spiazzato. «Se non c’è una maggioranza non si può fare un programma concreto, che si tiene insieme. Non serve un piano contro l’austerità solo demagogico, servono scelte serie. Fino a quando non si vedrà questo, non si potranno fare valutazioni». In questa situazione si profila un governo di unità nazionale, ipotizza il professore.
Che effetto avrà sull’Europa questo risultato?
«L’Europa giudica i programmi: bisogna aspettare le proposte concrete. Ma la domanda è: ci sarà un programma?».
Infatti: la prospettiva è l’ingovernabilità del Paese.
«In questo l’Italia somiglia a molti altri Paesi europei. In Italia è più grave perché c’è una legge elettorale assurda. Ma non è certo una novità quella di una situazione di equilibrio tra le varie forze».
E la Borsa? Ieri è stata sulle montagne russe: quando si pensava che il centrosinistra avrebbe conquistato tutte e due le Camere è schizzata in rialzo, con lo spread in calo. Poi è sprofondata, e lo spread è aumentato. Alla fine ha recuperato chiudendo in lieve rialzo, a + 0,73%. Ora cosa accadrà?
«Posso dirle la verità? Della Borsa  non mi interessa nulla. I mercati vanno su e giù per motivi inspiegabili: perché piove o nevica, o perché esce il sole. Ma il problema non sta lì».
Sì, ma se per esempio si sceglierà la strada di nuove elezioni, come qualcuno già ipotizza?
«Beh, certo in quel caso l’incertezza aumenterà e durerà molto». Come giudica il buon risultato di Berlusconi?
«Berlusconi è un uomo politico vero, sa fare la politica. Per questo è credibile agli occhi degli italiani».
Sarà un problema per Merkel?
«Mah, se è credibile per gli italiani avrebbe il dovere di esserlo anche in Europa. Ma lì davvero dipenderà dalle azioni concrete che si mettono sul tavolo: non bastano gli assegni in regalo come ha fatto in campagna elettorale».
Come valuta la sconfitta di Monti, l’uomo indicato da molti come il salvatore del paese dal baratro?
«Quella si aspettava: non è una sorpresa. Il fatto è che si è presentato con una coalizione che gli ha fatto perdere credibilità. Mi pare che Corrado Passera lo abbia capito subito».
Paul Krugman sul Financial Times lo descrive come il proconsole di Merkel in Italia. Lei è d’accordo?
«No, non direi così».
Non crede che abbia perso per come ha governato più che per come ha fatto le elezioni? Tanto più che gli obiettivi raggiunti sullo spread e sui tassi sui mercati sono ascrivibili più alla politica della Bce, che a quella del governo italiano.
«Non credo. Penso che nel momento in cui è entrato nell’arena, ha perso credibilità. Quando si sceglie un tecnico per fare un governo, bisogna comunque sceglierne uno esperto di politica».
E l’exploit di Grillo? La preoccupa?
«Anche quello non è una novità, né una specificità italiana. È il populismo che viene alimentato dall’austerità imposta a tutti i Paesi europei».

l’Unità 26.2.13
Harlem Désir
Segretario del Ps francese, europarlamentare, è stato il fondatore di «S.O.S Racisme»
È fortemente impegnato sui diritti sociali e di cittadinanza
«Un Paese ingovernabile problema per l’Europa»
intervista di Umberto De Giovannangeli


Il nostro colloquio avviene in un quadro elettorale ancora in via di definizione. E dunque le considerazioni sono precedute da una comprensibile cautela che si rafforza con il passare delle ore. E col passare delle ore cresce la preoccupazione per un dato che potrebbe consegnare all’Europa una Italia ingovernabile. «Sarebbe un dato allarmante riflette Harlem Désir, segretario generale del Ps francese . Il Pd e il suo leader Pier Luigi Bersani hanno condotto una campagna elettorale guardando all’Europa. Ad un’altra Europa: solidale, sociale, non punitiva verso i ceti più deboli e i Paesi più deboli. Un buon risultato del Pd sarebbe una speranza per l’Europa, mentre un successo di quelle forze che hanno cavalcato il malessere e la disaffezione verso una Europa percepita come la fonte di tutti i mali, rappresenterebbe un campanello d’allarme per tutti». «Quel che è certo aggiunge Désir e che una Italia ingovernabile rappresenterebbe un problema molto grave per l’Europa».
I primi exit poll davano il centrosinistra in vantaggio, ma col passare delle ore si configura una situazione in cui il Movimento di Grillo e la coalizione guidata da Silvio Berlusconi sono in crescita. Visto da Parigi, qual è un commento a caldo?
«Mai come in questo momento occorre prudenza. Posso dirle ciò che avevo sostenuto nel recente meeting di Torino: un successo del centrosinistra rappresenterebbe un forte segnale di speranza, un investimento sul futuro. Ma se i dati parziali verranno confermati, ciò significherebbe che l’Italia non si è messa alle spalle il ciclo berlusconiano, parte integrante, e con peculiarità aggravanti, di quel nefasto ciclo conservatore che tanti guasti ha provocato in Europa e per l’Europa: l’Europa punitiva, tutta austerità e niente crescita, l’Europa subalterna alla speculazione finanziaria che ha portato ad un deficit democratico, ad un distacco dei cittadini da una entità, l’Europa, percepita come ostile, punitiva. I populismi che hanno fatto presa anche nell’elettorato italiano sono il frutto avvelenato del ciclo conservatore. Il successo del Partito democratico e del centrosinistra sarebbe un bene per l’Europa. Perché l’Europa ha bisogno di una Italia fortemente impegnata sui valori europei: i valori della solidarietà, della giustizia sociale, del rinnovamento politico».
Silvio Berlusconi ha condotto una campagna elettorale segnata da una rivalsa verso l’Europa «dominata» dalla Germania di Angela Merkel; Grillo, a sua volta, ha parlato di una uscita dall’Euro...». «Ma Berlusconi è colui che ha portato l’Italia a dover farsi carico di politiche di rientro dal deficit pubblico durissime. Ma in questa campagna elettorale sembra essere riuscito ad oscurare questa verità storica. Indubbiamente è stato molto abile, spregiudicato, dimostrando di avere “sette vite” in politica. Mentre Grillo ha cavalcato con successo un malessere diffuso indirizzandolo contro l’Europa. Il loro risultato deve far riflettere molto seriamente. D’altro canto, in campagna elettorale e negli incontri europei, Bersani ha sempre insistito sulla lotta alle disuglianze, sulla centralità del lavoro, sulla crescita che orienta anche la necessaria politica del rigore dei bilanci nazionali. Bersani è stato molto chiaro nel proporre un “patto agli italiani”. Spero davvero che non sia stato rigettato. La vittoria di ogni progressista nei singoli Paesi dell’Unione è una vittoria per tutti i progressisti europei. Una vittoria che guarda al futuro recuperando il meglio del passato...».
Vale a dire?
«I grandi padri fondatori della Comunità europea volevano che l’Europa non fosse solo portatrice di pace e di democrazia, ma che fosse anche vettore di progresso, di emancipazione sociale, di uguaglianza delle opportunità. Oggi occorre adeguare questi principi ad una realtà profondamente cambiata rispetto a quei tempi. Ma quei principi, quei valori fanno parte del dna dei progressisti, e danno corpo ad una Europa più solidale, più giusta. I conservatori stanno disfacendo l’Europa. L’Europa è il nostro bene comune, e solo la famiglia progressista può determinare la rinascita dell’Europa. Una rinascita che la vittoria del Pd in Italia renderebbe più concreta».
C’è chi in questi anni ha ritenuto che l’uscita dalla crisi potesse avvenire in chiave nazionale.
«Niente di più sbagliato. La risposta alla crisi può essere solo europea».
Su quale priorità far leva per determinare la discontinuità col ciclo conservatore?
«Ritrovare la via della crescita e dell’occupazione anche attraverso investimenti mirati in settori strategici, quali la green economy, l’istruzione, le grandi infrastrutture, l’innovazione tecnologica. E in questa ottica, gestire in modo serio i bilanci nazionali. E in modo serio significa anzitutto combattere contrastare le grandi rendite finanziarie, battersi contro la speculazione e dare regole a un mercato che le destre hanno voluto, o subito, senza regole. Ma perché questa impronta progressiva possa rafforzarsi, l’Europa ha bisogno dell’Italia».
Ma il quadro che si sta materializzando sembra configurare un altro scenario: quello di un Paese ingovernabile. «L’Europa ha oggi bisogno di tutto meno dell’ingovernabilità, soprattutto in Paesi-chiave come è l’Italia, tra i fondatori dell’Unione Europea, una potenza industriale. Il rispetto per il risultato di libere elezioni è fuori discussione, e chiunque sarà chiamato a governare l’Italia riceverà da ogni cancelleria europea l’ascolto dovuto all’importanza del vostro Paese. Ma non sottovaluterei il “termometro” delle Borse...». C’è chi, a destra, sembra coltivare una volontà di rivalsa verso l’Europa «francotedesca».
«Spero che non sia così. Lo spero per tutti. Perché una Italia animata da questa volontà sarebbe un problema, indipendentemente dall’appartenenza alla famiglia progressista o a quella popolare europee».

La Stampa 26.2.13
“Il Pd paga il sostegno ai tecnici Grillo si è preso i voti di sinistra”
Valentino Parlato: “Io fedele a Sel, ma molti amici sono passati a M5S”
di Riccardo Barenghi


Decano Valentino Parlato, 82 anni, storico esponente della sinistra italiana, ha fondato ed è stato più volte direttore del Manifesto
Fondatore del Manifesto, una vita spesa prima nel Pci e poi alla sua sinistra, Valentino Parlato ha vissuto decine e decine di giornate elettorali, risultati, vittorie e soprattutto sconfitte. Ma una giornata come quella di ieri gli mancava. E così la sintetizza parafrasando una vecchia massima di Mao Tse Tung: «La confusione è grande ma la situazione non è eccellente». Fuor di metafora, aggiunge che si tratta di un risultato che «rappresenta un altro passo nel baratro della crisi italiana».
Non ha vinto nessuno, Parlato?
«Al momento mi pare che il vero vincitore della partita sia Beppe Grillo. Il suo Movimento arriva primo in molte regioni e se la batte alla Camera. La novità di queste elezioni è proprio lui».
E come te lo spieghi questo risultato?
«Grillo vince perché gli altri lo hanno aiutato a vincere, si sono rinchiusi nel Palazzo, hanno mostrato il volto peggiore della cosiddetta Casta. Non hanno fatto nulla per depurare la società italiana dalla diffusa corruzione che l’ha invasa. E non sto parlando di mazzette ma del fatto che non è possibile fare nulla in Italia, da un concorso a un appalto, se non hai qualche protezione politica. Io, che pure sono rimasto fedele alla sinistra e ho votato per Sel, ho molti amici che hanno votato Grillo e lo hanno votato perché non ne possono più non solo di Berlusconi ma neanche di questa sinistra. E allora si sono detti: proviamo un’altra strada».
Secondo te Grillo si è portato via anche voti della sinistra?
«Certo. Per due ragioni. La prima è che ha parlato un linguaggio semplice dicendo cose che la sinistra non dice più. E la seconda perché non ha sostenuto il governo Monti, nel quale io individuo la causa di questa mancata vittoria del Pd. Se tu sostieni un governo del genere, che certo non ha favorito quelle che una volta chiamavamo le masse popolari, e lo sostieni insieme a Berlusconi, è evidente che alla fine paghi un prezzo. Un prezzo salato direi».
Però anche Berlusconi lo ha sostenuto eppure è riuscito a rimontare...
«Era considerato finito, politicamente morto, invece rieccolo qui. La sua rimonta ci dice in che stato è ridotta la società italiana. In questa crisi economica devastante, la gente si attacca a qualsiasi cosa. Anche alle promesse più irragionevoli. Si è persa razionalità, molti crederebbero a Berlusconi anche se gli promettesse la luna. Ovviamente dobbiamo partire dal fatto che nel nostro Paese c’è una destra, culturale ancor prima che politica, molto radicata. E che riemerge al momento opportuno».
E del risultato di Monti che ne pensi?
«Penso che a questo punto il suo Loden lo può rimettere nell’armadio. Ha perso, anzi direi che ha proprio fallito la sua sfida. Un fallimento dovuto alla sua politica, che ha scontentato gli italiani. Sotto tutti i punti di vista. Si è dimostrato poco credibile».
E adesso Parlato, senza una maggioranza che garantisca governabilità che succederà?
«Nuove elezioni in tempi brevi mi sembrano poco probabili. Temo invece che faranno un nuovo governo di larghe intese che peggiorerà lo scollamento tra la politica e la società, che si sposterà ancora più a destra e soprattutto verso Grillo».
E dunque che fare?
«L’unica possibilità che vedo sarebbe un governo di salute pubblica che faccia due o tre cose e che riporti il Paese alle urne in pochi mesi. La prima cosa ovviamente è una nuova legge elettorale. La seconda è affrontare la crisi economica con un serio intervento pubblico, penso alla Programmazione dei primi Anni Sessanta».
Ma l’Europa non ce lo permetterebbe...
«L’Europa deve rendersi conto che il nostro problema più grave è la disoccupazione giovanile, se non l’affrontiamo rischia di esplodere in rivolte pesanti perché i ragazzi sono al limite della disperazione e della sopportazione. E allora bisogna ottenere dall’Europa di poter andare in deficit prima che sia troppo tardi».

Corriere 26.2.13
Record delle astensioni Il Pd è il vero sconfitto
La partecipazione alle urne è la più bassa dal 1946
di Renato Mannheimer


Malgrado, nel momento in cui scriviamo, molti dati siano ancora provvisori, sono relativamente chiari alcuni aspetti caratterizzanti questa elezione.
1)La sensibile diminuzione della partecipazione. Che risulta essere stata la più bassa di tutta la storia repubblicana, dal 1946 ad oggi. Come si è già accennato, ciò è dovuto in parte al progressivo invecchiamento della popolazione, ma, soprattutto, alla disaffezione dell'elettorato. Nel 2006 il 57% dichiarava di essersi interessato alla campagna elettorale. Nel 2008 era il 55%. Oggi siamo sotto il 52%. Malgrado tutte le novità dello scenario politico, sempre meno gente lo segue. Un segnale importante di cui, nei primi commenti, non si è sembrato tenere sufficientemente conto.
2)Il grande successo del M5S di Grillo, che in diverse regioni, e forse in Italia, risulta essere il primo partito in assoluto. Anche questo fenomeno dipende in larga misura dal distacco — ma più spesso dal disprezzo — verso i partiti tradizionali e l'azione che essi hanno condotto sin qui. Ancora nell'ultimo anno, l'incapacità delle forze politiche di realizzare alcuni obiettivi minimi (tra quelli più attesi dalla popolazione, vi erano soprattutto il taglio del numero dei parlamentari e dei costi della politica, ma anche riforme come quella elettorale) che pure avevano promesso di effettuare ha certo contato. Ma ha avuto un ruolo importante anche il succedersi degli scandali e l'evidenziarsi di vere e proprie malversazioni operate da questo o quel personaggio politico. Di qui la decisione di circa un italiano su quattro di scegliere la strada più semplice: quella della protesta sintetizzata dal «vaffa». Non sempre propositiva, ma efficace. È anche stato importante il fatto che Grillo abbia utilizzato, meglio di tutti gli altri, la comunicazione in rete. Più di un italiano su tre, infatti, dichiara di avere attinto dal web dati utili alla decisione di voto. L'elettorato di Grillo è costituito in larga misura da giovani, ma si estende in misura significativa anche nelle altri classi di età, con l'esclusione degli ultra65. Si tratta in buona misura di persone con titolo di studio medio-alto e provenienti da tutto l'arco politico, con una accentuazione però tra chi rifiuta del tutto di collocarsi sul continuum sinistra-destra e chi, in precedenza, ha votato per il centrosinistra.
3)Quest'ultimo, in particolare il Pd, sembrerebbe, sulla base dei primi dati, subire un arretramento rispetto alle aspettative maturate in questi mesi. Ciò potrebbe essere dovuto anche ad una campagna elettorale condotta manifestando sempre la certezza della vittoria (e per questo talvolta poco propositiva), ma, specialmente, a causa dell'erosione nei confronti di Grillo, anche da parte di una quota dei votanti per Renzi alle primarie. Il partito di Bersani potrebbe cioè essere in una certa misura stato assimilato agli altri partiti («sono tutti uguali» ci ha detto un intervistato ex-pd) anche un segmento del suo elettorato tradizionale. Che, spinto dall'esasperazione e dalla protesta, ha finito con l'optare per Grillo. Col risultato che il Pd è, assieme a Monti, il vero sconfitto politico di queste elezioni.
4)Il Pdl pare avere ottenuto più voti (ma, per quel che riguarda il Senato, specialmente più regioni decisive) di quanto non fosse previsto. Da questo punto di vista la campagna elettorale e, in particolare, la promessa di rimborso dell'Imu è stata certo efficace. Ma occorre ricordare al tempo stesso che i consensi per il partito di Berlusconi sono comunque assai meno di quanti ottenne alle ultime politiche nel 2008. Segno, in ogni caso, di una crisi di consenso che, in parte, si estende anche alla Lega.
Le difficoltà di sondaggi e proiezioni. Occorre dire che i metodi seguiti in Italia sono, nella maggior parte dei casi, altrettanto rigorosi di quelli adottati nel resto d'Europa e negli USA. Il problema si pone quando (era già successo nel 1994 con la discesa in campo di Berlusconi) cambia completamente il quadro politico. Non a caso, alla richiesta «quando ha deciso cosa votare?» la percentuale di chi dice «da sempre», segno della stabilità del voto, è crollata dal 53% del 2008 al 35% di oggi. E si è accresciuta moltissimo la percentuale dei voti «last minute», decisi l'ultima settimana, passata dal 20% al 35%. Questo radicale mutamento potrebbe avere reso, ad esempio, più problematica la formazione dei campioni delle proiezioni, che si basano sul voto passato e gli algoritmi utilizzati per pesare le risposte che pure utilizzano quest'ultimo. Per la verità, alcune ricerche effettuate gli ultimi giorni si sono molto avvicinate al risultato. Ma resta il fatto che, sulla base anche di questa esperienza, molte metodologie vadano seriamente riesaminate.

Repubblica 26.2.13
L’ultimo scempio del Porcellum
di Gianluigi Pellegrino


Che scempio quei premi di maggioranza assegnati a chi non arriva nemmeno ad un terzo dei voti. E che furto di democrazia in danno degli altri partiti a cominciare da Grillo che si vedrà scippare decine di parlamentari a Montecitorio ed altrettanti anche al Senato. Pure la lista Monti ne farà le spese, a Palazzo Madama ed anche alla Camera se riuscirà ad entrarvi.
Proprio un furto di democrazia come la Corte costituzionale aveva già avvertito in ben tre sentenze. E il Capo dello Stato aveva ammonito quando si sgolava implorando che almeno quest’aberrazione venisse corretta. Ma non c’è stato niente da fare. Un premio di maggioranza senza una soglia minima per ottenerlo è qualcosa che fa a pugni con principi elementari di democrazia rappresentativa. Il Pd dovrebbe dirlo subito, a partire dalla Camera dove pure dovrebbe essere in vantaggio. Ma deve dirlo e dimostrarsi pronto a rimettere la questione alla Consulta perché possa questa volta intervenire consentendo una costituzionale attribuzione dei seggi e allo stesso tempo rendendo così ineludibile la riforma elettorale. Lo strumento c’è ed è quello della giunta delle elezioni che è il giudice che può sollevare la questione alla Corte. È vero che è composta dai medesimi parlamentari che dovrebbero in tal modo mettere in discussione il proprio seggio. Ma proprio per questo è qui uno dei banchi di prova di una politica che voglia dimostrare di aver inteso il chiaro messaggio dell’elettorato italiano. Se c’è un’aberrazione che incide sulla rappresentanza democratica, un partito che si chiama democratico non può non sollevarlo anche se non giova alla sua bottega.
L’obbrobrio incostituzionale di cui parliamo è quello di premi di maggioranza assegnati a forze che non raggiungono nemmeno un terzo degli elettori. Due elettori su tre non le hanno votate, ma ciononostante una legge assurda e senza precedenti nelle democrazie occidentali assegna loro il 55 per cento dei seggi, ora su base regionale (al Senato), ora su base nazionale (alla Camera). Non succede in nessuna democrazia che voglia definirsi tale. E non fatevi ingannare da chi dice che in Francia sarebbe così perché in realtà il sistema a doppio turno e di elezione diretta del Presidente lì garantisce un’investitura realmente democratica al vincitore così giustificando il premio di maggioranza alla sua coalizione.
Solo da noi invece una legge inguardabile prevede che persino in un quadro frammentato e senza nessun meccanismo a doppio turno il premio di maggioranza dei seggi vada comunque al primo partito a prescindere dalla percentuale di voti ottenuta. Questa non è governabilità ma scempio della democrazia. Partiti responsabili avrebbero dovuto evitarlo componendo coalizioni capaci di raggiungere una soglia minima di voti idonea a giustificare il premio. Ma questo non è avvenuto perché hanno prevalso calcoli opportunistici o di suicida protagonismo.
Un premio di maggioranza che possa definirsi tale è accettabile quale correttivo del riparto proporzionale in ossequio alla governabilità, solo se ancorato ad una soglia minima di voti raggiunti che sia almeno prossima al cinquanta per cento. Per questo nelle due precedenti occasioni di applicazione del porcellum la questione non ha assunto rilievo, in quanto in un quadro bipolare il premio andava a chi comunque si attestava su numeri superiori o molto vicini al 50 più uno dei votanti.
Ma questa volta in un sistema frammentato in tre poli e molte liste minori l’obbrobrio si realizza e il grave furto di democrazia si consuma in tutta la sua gravità. La legge truffa fu chiamata tale per il solo fatto che si permetteva di assegnare un premio di maggioranza a chi però superava il 50 per cento dei voti. Se quella era truffa, la nostra è rapina a mano armata. L’esempio più calzante è purtroppo quello della legge Acerbo voluta dal regime fascista e che dava il premio anche in caso di consensi limitati al 25 per cento. Peraltro Mussolini arrivò al 60 e quindi nemmeno fu necessario applicare quella norma che si sperava destinata a restare l’unico precedente sul tema. Ed invece siamo riusciti a fare di peggio. Il premio senza nessuna soglia.
Quali saranno gli scenari del prossimo caotico parlamento, passa da qui un esame significativo per il Pd. Dire subito di non voler in alcun modo approfittare per parte sua di una legge così antidemocratica e di essere pronto a rimettere ogni decisione al riguardo alla Consulta che annullando il premio potrà anche consentire un più corretto riparto proporzionale dei seggi. Lo stesso dovrà farsi al Senato nei collegi regionali dove il premio viene attribuito con le stesse inaccettabili modalità con l’aggravante di funzionare contro la governabilità e non a suo favore, con ulteriore elemento di evidente assurdità.
Tutti i non eletti hanno titolo per insorgere e chiedere al Parlamento di sollevare la questione alla Consulta. Partiti responsabili dovrebbero farlo senza chiedersi a chi giovi, perché ciò che giova alla democrazia giova a tutti. E comunque negarlo ad altro non varrebbe che a gonfiare ulteriormente l’antipolitica. Meglio dare a Cinque Stelle ciò di cui ha diritto in Parlamento che alimentare il grillismo nelle piazze. Come tutti, almeno ora, dovrebbero aver capito.

Repubblica 26.2.12
Dopo lo tsunami
di Massimo Giannini


Ha vinto il populismo di Grillo, che è un impasto identitario complesso e contraddittorio, post-ideologico e post-materialista, al tempo stesso arcaico e ultramoderno. Lo «strano animale» irrompe nelle Camere, con 150 eletti che spazzano via specie ormai quasi giurassiche, da Fli di Fini all’Idv di Di Pietro, e che cambiano i connotati del «bipartitismo egemonico» di questi ultimi due decenni. I due partiti di massa si livellano, e il Nuovo Centro di Monti (a dispetto dell’incomprensibile soddisfazione del Professore) dimostra tutta la sua insostenibile leggerezza.
La vera «Terza Forza» è in realtà Grillo. Come dice il suo guru Casaleggio, il Movimento 5 Stelle trionfa perché svolge al meglio il compito del «bidone aspira-tutto ». Fa piazza pulita delle odiate, vecchie «cariatidi» del Palazzo, e succhia consensi ovunque. Destra e sinistra, centro e non voto. Questo era noto già dalle ammini-strative del maggio scorso. M5S nasce in effetti come «costola della sinistra», visto che il 46% dei suoi elettori proviene dalla sinistra radicale e libertaria. Ma ora fa il pieno anche a destra, da dove arrivavano già il 38,9% dei suoi voti, e dove adesso prosciuga non solo il Pdl, ma soprattutto la Lega.
Parlare di «anti-politica», a questo punto, diventa davvero riduttivo. Come già scrivemmo dopo il successo della tornata locale del maggio 2012, nello tsunami grillino c’è anche una forte domanda di «altrapolitica », non solo qualunquista e non solo protestataria, alla quale i partiti tradizionali non hanno saputo dare risposta in questi mesi. Eppure c’era tempo, per un’autoriforma della politica che avrebbe riavvicinato i cittadini alle istituzioni. C’era tempo per tagliare il numero dei parlamentari, eliminare le province, abbattere gli stipendi d’oro e le prebende degli eletti, mentre gli elettori sacrificavano fino all’ultimo centesimo sull’altare del «rigore necessario». Non è successo niente. Molti italiani hanno gridato, quasi nessuno li ha ascoltati. Grillo è diventato la risposta.
Per il capo carismatico comincia un’altra storia. Insulti e anatemi non bastano più. La protesta è legittima, ma non serve se non hai una proposta. E di fronte alla crisi italiana la proposta non può essere né l’allucinazione dell’uscita dall’euro o del rifiuto di pagare il debito pubblico, né l’illusione della «decrescita felice» o dell’«energia sostenibile». Ora che ha sfondato le mura dell’esecrato Palazzo d’Inverno, tocca a Grillo decidere se vuole crogiolarsi ancora nella dimensione esagitata del Web-populista, o vuole fare davvero Politica.
La sinistra è premiata dal calcolo aritmetico, ma ora ha a sua volta un enorme problema politico. Il Pd (insieme a Sel) ha avuto la meglio alla Camera, per poche centinaia di migliaia di voti. Nella forma, Costituzione alla mano, può dunque rivendicare il diritto di costituire un governo. Ma nella sostanza la vittoria del Pd è puramente virtuale. Per una sinistra riformista, consapevole del suo ruolo e convinta dei suoi mezzi, non poteva esserci occasione migliore di questa. Un ciclo declinante delle destre europee, una politica di austerità neo-liberista rimessa in discussione ovunque, un Pdl ridotto a ectoplasma dalle sue lacerazioni interne, una possibile saldatura con il centro moderato, all’insegna della crescita, dell’equità, dell’adesione ai valori dell’Europa e ai canoni dell’Occidente. Ebbene, questa occasione è stata persa. Il Paese non ha capito, e non ha seguito. Il Pd «a vocazione maggioritaria» è rimasto ben al di sotto della quota massima raggiunta nel 2008 da Veltroni, e non ha sfruttato in alcun modo il suo potenziale espansivo. Bersani ha commesso un errore fatale. Ha gestito al meglio le primarie, mettendosi in gioco e vincendo. Ha completato l’opera di legittimazione dei gruppi dirigenti con le «parlamentarie». Ma da allora, colpevolmente, ha considerato compiuta la sua missione.
Ha smesso di fare campagna elettorale, convinto che il suo unico compito sarebbe stato quello di amministrare il vantaggio registrato dai sondaggi. Ha pronunciato parole di buon senso. Si è rifiutato di inseguire Berlusconi nella folle rincorsa alle promesse fiscali, e di fare concessioni a Ingroia a sua volta impegnato a sabotare l’alleanza e punito dall’irrilevanza di un voto inutile. Ma non ha saputo riempire di contenuti visibili e di obiettivi comprensibili il suo «messaggio di responsabilità ». Si può dire agli elettori qualcosa di molto concreto su quanto e quando si vogliono ridurre le tasse, o su come e dove si vuole creare lavoro per i giovani, senza bisogno di spararla più grossa del Cavaliere. Bersani non l’ha fatto. Ha scommesso tutte le sue carte sul pragmatismo del buon amministratore emiliano, e sul realismo del bravo ministro dello Sviluppo che è stato. Non ha indicato una vera direzione di marcia. Ha coinvolto Matteo Renzi troppo tardi, in una campagna elettorale dove avrebbe dovuto farsi inseguire, e invece alla fine è stato costretto a rincorrere. Ha tentato l’esorcismo del «giaguaro da smacchiare». E lì si è fermato. È stato un tragico abbaglio, che oggi rende purtroppo la coalizione di Bersani ancora più fragile dell’Unione di Prodi.
Resta infine la destra. Se quello dell’ormai ex comico di Genova ha trionfato, il populismo del Cavaliere di Arcore ha resistito. Sembra assurdo anche dirlo, dopo i disastri dell’ultimo governo che ha guidato: ma Berlusconi ha letteralmente resuscitato un cadavere. Il suo Pdl era morto, dopo il crollo del dicembre 2011. Ha iniziato la campagna elettorale con i sondaggi che lo accreditavano di un 15-18%. Non poteva vincere queste elezioni. Ma in due mesi ha recuperato oltre 10 punti: un’enormità. Aver impedito la vittoria piena del centrosinistra, ed aver ottenuto il maggior numero di seggi al Senato, per lui vale quanto il trionfo del 2008. Per quanto logoro e bugiardo, l’uomo simbolo dell’anomala destra italiana si conferma un «campaigner» formidabile, capace di combattere come nessun altro, contro i suoi avversari e contro i suoi stessi fantasmi. Certo, vince scommettendo sul peggio. Il condono tombale parla alla zona grigia dell’illegalità fiscale, dove convivono gli imprenditori arrabbiati del lombardo- veneto e gli impiegati pubblici che arrotondano in nero. La promessa della restituzione dell’Imu parla ai poveri cristi, pensionati e dipendenti, che hanno appena pagato la stangata e si sono messi in fila per ottenere il rimborso dopo aver ricevuto la lettera dell’ex premier. Ma tutte queste vergogne, e tutte queste menzogne, non bastano a scongelare un blocco sociale tenuto insieme dagli interessi più che dai valori, che non solo resiste dopo 17 anni di fallimenti, ma in parte si ricompone intorno a una destra anomala, plebiscitaria e altrove impresentabile, e intorno alle sparate irresponsabili del suo mentore. Nonostante i suoi processi pubblici e i suoi scandali privati, il Cavaliere ha ancora un suo «popolo». E con il Cavaliere bisogna ancora fare i conti, anche nella nuova legislatura.
Si è infine materializzato quello che perfino gli osservatori e i mercati internazionali consideravano il peggiore degli incubi. Fare un governo, in queste condizioni, è impossibile. Un governo di sinistra, forte del solo premio di maggioranza alla Camera, sarebbe un azzardo pericolosissimo. Lo scioglimento del solo Senato, e un nuovo voto solo a Palazzo Madama, sarebbe un rischio anche peggiore. Restano due ipotesi. Un governo di larghe intese, sul modello dell’ultimo Monti, per fare almeno la riforma della legge elettorale. Oppure un ritorno immediato alle urne, che significherebbe consegnare definitivamente l’Italia a Grillo. Tutto è nelle mani di Giorgio Napolitano, che sperava in tutt’altro finale. Come lo speravamo tutti noi, sprofondati nell’infinita transizione di questa democrazia italiana che non sa, non può o non vuole diventare normale.

La Stampa 26.2.13
L’identikit di un Movimento che spiazza l’Italia
Pancia e sentimento La rivolta contro le élite di una nuova comunità
Così un comico diventato leader ha riunito malesseri, speranze, solitudini
di Massimo Gramellini


Di sicuro, in queste elezioni, c’è solo che Grillo ha vinto. E dire vinto è poco. Le urne hanno ospitato una sollevazione di massa contro le élite. Almeno un elettore su quattro ha votato per la lista del Gabibbo Barbuto, spesso senza nemmeno avere la cortesia di anticiparlo ai sondaggisti, considerati elite anche loro. E non si può ridurre sempre tutto alla pancia, per quanto la pancia brontoli, se è vuota anche di più. Qui c’è del sentimento, non soltanto del risentimento. C’è la disperata speranza che i parlamentari a Cinque stelle siano diversi, che non rubino, ma soprattutto che ascoltino: gli altri non lo facevano più.
E’ come se da mille stanze si fosse levato l’urlo di mille solitudini connesse fra loro attraverso i cavi dei computer. Un’emozione virtuale che nel tempo si è fatta piazza. Radunando individui che si ritengono incompresi e sovrastati dall’ombra sorda di troppe congreghe: la Casta dei politici, dei giornalisti, dei banchieri, dei raccomandati. Ogni membro della comunità ha una storia e una sconfitta diverse: chi ha perso o mai trovato il lavoro, chi la fiducia nel domani, nello Stato e nei corpi intermedi come partiti e sindacati. Non odiano la politica, ma chi la fa di mestiere da troppo tempo, senza averne né la competenza né l’autorità morale. Intorno a queste desolate solitudini esisteva un vuoto di attenzione e Grillo lo ha riempito. Dapprima con un vaffa, poi con una serie di proposte concrete e una buona dose di utopia. Ha disegnato panorami che ciascuno ha poi colorato come voleva. Dal punto di vista della composizione sociale il suo movimento è un franchising: a Torino ci trovi (anche) i centri sociali che vogliono abbattere il capitalismo, a Bergamo i padroncini in lotta con Equitalia, a Palermo i disperati e gli allergici a qualsiasi forma di oppressione pubblica e privata. Ovunque c’era un malessere, Grillo gli ha messo a disposizione un format e una faccia, la sua.
I politici professionisti non hanno saputo o forse potuto offrire un’alternativa. Sarebbe bastata un’autoriforma dignitosa, qualche taglio nei costi e nel numero dei parlamentari, una campagna elettorale che parlasse non solo di cifre ma di ambiente, di vita, di futuro. Invece hanno snocciolato cifre fredde, discusso della Merkel e borbottato metafore inconsistenti, persi nel loro altrove. A combattere qui sulla Terra sono rimasti un vecchio impresario con le tasche piene di biglietti omaggio per il paese dei balocchi e un guitto che ha talmente studiato il meccanismo seduttivo di Berlusconi da essere riuscito a sublimarlo. Grillo ha scelto il linguaggio dello spettacolo, l’unico che gli italiani mostrino di comprendere dopo un ventennio di vuoto, ma ha deciso di usarlo per dire cose serie. Lo hanno aiutato la sua popolarità, la sua energia e persino i suoi difetti. Anche la selezione di candidati sconosciuti e scarsamente rappresentativi si è rivelata un punto di forza. Se fra le tante nuove offerte politiche l’unica ad avere sfondato è la sua, è anche perché - a differenza di Monti e Ingroia non l’aveva infarcita di pseudo vip, algidi tecnocrati e notabili polverosi.
Fra i suoi seguaci storici si può trovare di tutto: il sognatore pragmatico come il vittimista cronico. Ma fra i tanti elettori dell’ultima ora prevale, credo, la fusione di due umori in apparenza contrapposti. Da un lato il desiderio passionale di collassare il sistema, nella speranza che dalle macerie delle varie Caste possa sorgere una classe dirigente nuova. Dall’altro il calcolo razionale di mandare in Parlamento un manipolo di alieni dalla vista acutissima che illumineranno i maneggi del potere. Un amico che ha scelto i Cinque Stelle dopo avere invano votato Renzi alle primarie del Pd mi ha detto: «Non so se metterei mai un grillino ad amministrare il mio condominio, ma se si tratta di fare le pulci all’amministratore, nessuno è più affidabile».
E adesso? Il movimento degli spulciatori affidabili è talmente nuovo da restare misterioso persino a molti di coloro che lo hanno votato. Grillo è il padre-padrone della squadra o è solo l’arbitro che vigila sul rispetto delle regole e fischia le espulsioni? I parlamentari riceveranno ordini da lui o, come assicurano in coro, solo dal popolo della Rete a cui sottoporranno ogni proposta, da quella di un improbabile accordo di governo al nome del prossimo Capo dello Stato? L’unica domanda che è davvero sciocco porsi è se i Cinque Stelle siano di destra o di sinistra. Grillo non ha tolto voti agli altri partiti. Si è limitato a raccogliere quelli che hanno lasciato cadere. E la prossima volta potrebbero essere ancora di più.

Corriere 26.2.13
La lunga metamorfosi di Grillo dalle battute contro Craxi e Martelli alla nascita del suo non-partito
Così il comico si è trasformato in politico
di Sebastiano Messina


SONO passati ventisette anni, da quel giorno. Era un sabato sera, a Palazzo Chigi c’era Bettino Craxi e il comico che oggi entra da trionfatore nel Palazzo volle togliersi lo sfizio di fare uno sketch sulla politica. Anzi, proprio sul Psi, il partito del presidente del Consiglio. E allora fece l’imitazione di Martelli che durante il viaggio in Cina domandava a Craxi: «Senti, è vero che qua ce n’è un miliardo e sono tutti socialisti?». «Sì, perché?». «Ma allora, se sono tutti socialisti, a chi rubano?». Con quella battuta, a 38 anni, il ragionier Giuseppe Piero Grillo, detto Beppe, concluse alla Rai la sua brillante carriera di comico. Forse non immaginava neanche lui che chi lo metteva alla porta gli stava cambiando la vita. O forse era proprio quello che voleva, con quella rasoiata che il Palazzo non poteva tollerare (mancavano ancora sei anni alla scoperta di Tangentopoli). Fatto sta che c’è chi fa risalire a quella cacciata dalla tv pubblica l’inizio della spettacolare metamorfosi di Grillo, da attore a profeta e da profeta a capopopolo.
Sì, certo, continuò a fare il comico ancora a lungo. Riempiva i teatri, con i suoi monologhi caustici e trascinanti, e una volta si levò anche la soddisfazione di tornare un’ultima volta nella Rai decraxianizzata, con il suo «Beppe Grillo Show», ma a poco a poco nei suoi spettacoli il piatto forte diventò la politica. Amava partire dai dettagli, apparentemente minori, che lui però trasformava in scelte paradigmatiche, piccole mosse per cambiare la vita. La sua e quella di tutti.
E così, tra una barzelletta sugli eschimesi e una gag sui computer, comincia a inserire il numero sull’auto a idrogeno «che esiste davvero, l’ho vista, funziona e puoi respirare dal tubo di scappamento», la storia della «biowash ball», la pallina magica capace di fare un bucato perfetto in lavatrice senza consumare neanche un grammo di detersivo, la tirata contro i trasporti inquinanti, «per portare i maiali dal Belgio a Parma e riportarli in Belgio come prosciutti», e addirittura l’aneddoto sugli svedesi che fanno la differenziata anche nel bagno, «lì c’è un water che separa la cacca dalla pipì e gli inquilini guadagnano vendendo i propri escrementi ai contadini come concime: abbassano le spese condominiali cagando, sapete?».
Non sono battute buone per uno spettacolo, ma idee che lui trasforma, diremmo oggi, in
vere e proprie campagne politiche. Si innamora delle nanoparticelle. Si scaglia contro gli inceneritori. Invoca il passaggio immediato e totale alle energie rinnovabili. Si schiera contro l’invio dei soldati italiani in Iraq. Attacca il governatore di Bankitalia, Fazio. Aderisce alla guerriglia contro la Tav in Val di Susa, annunciando con una risata: «Sono un anarchico insurrezionalista!».
Giorno dopo giorno, comincia a mettere a fuoco i suoi bersagli. I bancarottieri come Tanzi, che hanno lasciato in mutande i poveri risparmiatori. Le compagnie telefoniche. Le case farmaceutiche. Qualche volta esagera, e si becca una condanna a 4000 euro per aver dato della “vecchia puttana” a Rita Levi Montalcini, accusandola di aver ottenuto il Nobel grazie all’aiuto di una ditta di medicinali, ma ormai sono in molti a considerarlo un tribuno del popolo, il difensore dei fregati.
La vera svolta arriva nel 2005, quando lui fonda il suo blog, parola che all’epoca è ignota ai più. Eppure, miracolo del passaparola, in pochi mesi diventa il primo blog del Paese, e centotrentamila italiani ogni mattina vanno a leggersi cosa scrive Grillo, e a scrivergli che sono d’accordo con lui. È un’impresa che molti gli invidiano, ma lui vuole comunicarla al mondo intero. Così, con 57 mila euro raccolti tra i suoi bloggers, il 22 novembre compra una pagina intera dell’Herald Tribune. Per dire cosa? Che in Italia c’è un Parlamento pieno di inquisiti, processati o condannati. Questo comico che sfida gli onorevoli, screditandoli nei salotti buoni del Continente, diventa subito un personaggio internazionale, e «Time» lo mette nell’elenco dei personaggi europei dell’anno.
A quel punto, lui aveva già le idee chiarissime. E rivelava a “Repubblica” cosa aveva in mente. «Sul web sta nascendo una nuova democrazia che i vecchi politici non riescono neanche a capire. Milioni di persone stanno a guardare questi comatosi che si aggirano promettendo questo e quello: vanno licenziati tutti. Indifferentemente tutti. Vedete, io ho messo su una piccola P2 sobria e trasparente. Sì, la piduina degli agrillati. È una rete di meetup già presente in 95 città. Sa cosa sono i meetup? Gruppi di persone che si incontrano per fare concretamente le cose di cui hanno parlato in un blog. Siamo già quasi seimila: il terzo meet-up del mondo, come numero. Vede, la gente, le persone, sono molto più avanti delle istituzioni». È il 2005, otto anni fa, e non sono in molti a prenderlo sul serio.
Le cose cambiano nel 2007, quando il fiume carsico dei meet-up, l’onda lunga dei blogger, invade all’improvviso le piazze italiane, con una manifestazione che per la prima volta viene organizzata solo via Internet, con il passaparola tra blogger. Il nome è sfacciato e impertinente, «Vaffanculo Day», e l’invito, diciamo così, è per i politici, tutti i politici (si salva, per il momento, solo Di Pietro). Lascia tutti a bocca aperta. A sera, Grillo conta 332 mila 225 firme sotto tre proposte di legge di iniziativa popolare, che affiderà senza alcuna speranza al Parlamento. Sono tre regolette neanche tanto eversive. Primo, nessun condannato può candidarsi. Secondo, nessuno può fare il parlamentare per più di dieci anni. Terzo, basta con le liste dei nominati. Naturalmente, l’effetto della loro caduta nel vuoto sarà il rafforzamento di Grillo: la prova inconfutabile che ha colpito nel segno.
I seguaci ci sono, le idee cominciano a esserci, ma manca ancora qualcosa: la bandiera. Grillo tenta prima la strada delle liste civiche, e le riunisce tutte a Firenze, l’8 marzo 2009. «Come ci chiamiamo? Non ci chiamiamo: esistiamo ». Non c’è un programma, ma una lista di obiettivi. Una lista sempre più lunga: l’acqua pubblica, il web gratuito per tutti, i depuratori di condominio, il fotovoltaico... L’ex comico è diventato un concorrente pericoloso, per i partiti. E lui decide di sfidare il più organizzato di tutti, il Pd: «Voglio partecipare alle primarie per il segretario», annuncia. E prende persino la tessera, alla sezione di Paternopoli, in Campania. Ma il partito gli dice no, grazie, la tua strada è diversa dalla nostra.
A quel punto, la nascita del suo non-partito (regolata da un “non-statuto”) è inevitabile. E il 4 ottobre 2009, al teatro Smeraldo di Milano, va in scena per la prima volta il Movimento 5 Stelle. Soggetto di Beppe Grillo, regia di Gianroberto Casaleggio. La metamorfosi è conclusa, il comico è diventato un politico. «È più attore oggi - disse una volta Dino Risi, che lo aveva diretto in un suo film - di quando tentava di fare l’attore. Ha intuito che dire le cose da bar è un’attività redditizia. Niente di meglio per gli italiani, che aspettano sempre il capopopolo di turno».

Corriere 26.2.13
Da sinistra quasi metà simpatizzanti Solo uno su dieci aveva votato Pdl
di Virginia Piccolillo


ROMA — Ma dove è stata più fruttuosa la pesca di Beppe Grillo? A destra o a sinistra? Tra i delusi o gli indecisi? Per rispondere al quesito che sgomenta i partiti può aiutare un'indagine svolta dal Censis in un campione rappresentativo di simpatizzanti del Movimento 5 Stelle: quelli che venerdì scorso hanno riempito piazza San Giovanni a Roma, alla chiusura dello Tsunami tour elettorale. In gran parte (l'85,5%) già decisi a votare M5S. Scelta però, c'è da dire, definita solo dal 38,4% di «protesta». Per la maggioranza, il 61,6%, descritta come di «speranza». Anzi di fiducia nella possibilità che il movimento possa «risolvere la crisi attuale».
Dai dati Censis l'ondata di piena grillina sembra arrivare da sinistra. Oltre un quarto, il 25,3%, dei partecipanti alla manifestazione, nelle ultime politiche del 2008, aveva votato Pd; il 14,5% Italia dei valori e il 5% Sinistra arcobaleno. Per un totale del 44,8% dei presenti che, occorre specificare, arrivavano per lo più da Roma e dintorni, dunque lontani dall'area di influenza della Lega.
Anche al centrodestra però il M5S ha dimostrato di poter sottrarre consensi. Uno su 10, degli intervistati, ha dichiarato di aver votato alle precedenti politiche per il Pdl di Silvio Berlusconi. Anche se la quota più alta, il 27,5%, affermava di non aver votato per alcun partito. Astenuti.
A voler giudicare dal risultato dei questionari diffusi alla manifestazione, risulta che quasi la metà del popolo grillino, il 48,6% non si sente né di destra né di sinistra né di centro. Però il 32,7% si definisce di sinistra; il 7,9% di centrosinistra; lo 0,8% di centro; ma l'8,4% di destra e l'1,6% di centrodestra.
Del resto le motivazioni fornite dagli interpellati sulla opzione Grillo (erano possibili più risposte) non hanno colore ideologico. Il 37,7% spiega il voto così: «La politica mi ha deluso»; il 36,6% con «condivido il programma»; il 30,2% con «bisogna dare uno scossone a un sistema marcio»; il 19,9% con «è un movimento che fa partecipare i cittadini». Così, se il 14,3% auspica una «significativa presenza del M5S in Parlamento»; il 7,2% annunciava di votare Grillo «perché è una persona pulita» e il 4,2% «perché vorrei che anche i politici si trovassero in difficoltà come me». Mentre il 3,2% motivava la scelta con la convinzione che «i candidati sono gente nuova e competente».
Nell'analisi campione, in sintesi, è risultata una «partecipazione impegnata» alla manifestazione e al movimento. Minoritaria, si legge nel rapporto, era «la presenza in piazza motivata da curiosità o da esclusivo interesse per la dialettica anche spettacolare del leader Grillo, ma senza adesione politica». Per il 90% dei trentenni e quarantenni la presenza «segnava invece un impegno di partecipazione». Un movimento, dunque, ben determinato e senza voglia di essere etichettato ideologicamente. Ma, conclude il Censis, con una «forte delusione per la politica tradizionale» e intenzionato a «dare uno scossone a un sistema "marcio"» mettendo «in difficoltà i politici giudicati inadeguati».

l’Unità 26.2.13
Lazio, Zingaretti in netto vantaggio
Dalle 14 lo spoglio delle schede delle regionali
A Roma, alla Camera e al Senato, il testa a testa di Pde grillini
La coalizione del centrodestra è circa dieci punti indietro rispetto al centrosinistra
di Jolanda Bufalini


«Stavo vedendo un altro film», scherza un volontario quando arriva la prima proiezione al Senato, l’euforia che aveva percorso le stanze del comitato per Nicola Zingaretti all’istant poll sulle regionali, si trasforma repentina e nelle facce si stampa un’espressione preoccupata. Non per il risultato di Zingaretti, che appare abbastanza blindato dai venti punti che lo distanziano da Francesco Storace, in base alle interviste all’uscita dei seggi. Ma per il capovolgimento delle aspettative sulle politiche, «stavamo guardando un altro film», i volontari stanno inchiodati davanti agli schermi, sperando che le proiezioni successive correggano le prime, le dita scorrono sui mouse, alla ricerca dei siti con i dati reali.
Arrivano le telefonate dai seggi, lo scenario che si disegna in diretta davanti agli occhi degli scrutatori mostra il testa a testa al Senato, nelle sezioni elettorali romane, fra Pd e la lista di Grillo, molto indietro il Pdl.
Nicola Zingaretti non è al comitato, ha scelto di seguire lo spoglio per le politiche a casa, con la moglie e le figlie. Non ha commentato l’istant poll che lo dà sopra il 50 per cento(52-54% contro il 28-30% di Storace). Il commento provvisorio è affidato al coordinatore della campagna elettorale, Massimiliano Smeriglio: «Una valutazione definitiva la faremo solo domani con i dati ufficiali e reali. Al momento, se il risultato dovesse essere confermato, possiamo dire che saremmo di fronte ad un successo storico con dimensioni davvero incredibili soprattutto perché nel Lazio si è sempre vinto di una incollatura con un sistema praticamente bipolare mentre ora addirittura c`erano ben 12 candidati a presidente». «Per adesso, se i dati saranno confermati, possiamo solo dire che gli elettori hanno votato in gran massa Zingaretti, anche al di là delle appartenenze espresse alla Camera ed al Senato». L’appuntamento per le valutazioni definitive è per oggi, quando nel pomeriggio inizierà lo spoglio delle schede regionali.
Francesco Storace spera ancora che dai dati reali possano ribaltare le previsioni e twitta: «Avvertenza agli scienziati. Aspettate domani sera per lo scrutinio delle regionali nel Lazio, Sorpresina in arrivo». Però i dati provvisori di Camera e Senato non sono di buon auspicio per il leader della Destra, il suo nome sulla scheda delle regionali non ha fatto da traino e la formazione concorrente nella coalizione di centro destra, «Fratelli d’Italia» di Giorgia Meloni e Crosetto è di qualche decimale più avanti, sopra il 2 per cento la lista dei due transfughi dal Pdl, un poco sotto quella di Storace.
L’esponente della Destra è andato al suo comitato elettorale ai Parioli in serata: «Se ho sentito Nicola Zingaretti oggi? Gli ho mandato un sms. Lui mi ha risposto. Ci siamo scambiati l'in bocca al lupo. A fine campagna elettorale capita tra persone educate. È stato l’unico confronto a due», ha risposto ai giornalisti.
Oggi il comitato elettorale di Nicola Zingaretti si trasferisce dalla sede di lavoro, in via Cristoforo Colombo, al tempio di Adriano, a piazza di Pietra, dove dalle 14 sarà possibile seguire lo spoglio in diretta.
Al Senato, quando sono scrutinate le schede di 3616 seggi su 5267, la distanza fra coalizione di centro sinistra e coalizione di centro destra è di sei punti (33,5 contro il 27,4) con il Pd al 29 per centoeilPdlal22mentreSelèal3,71e la Destra è al 2,43 contro il 2,74 di Fratelli d’Italia. L’exploit di Grillo nel Lazio, secondo il conteggio provvisorio del Viminale raggiunge il 26 %. Ma la prima proiezione di Piepoli sul Lazio dà praticamente alla pari Pd e Movimento cinque stelle, i democratici al 26,6, i grillini al 26 per cento. La coalizione di centro sinistra, sempre secondo la proiezione di Piepoli, è in vantaggio con il 31 per cento dei voti contro il 28 per cento della coalizione di centro destra.
Alla Camera, nella prima circoscrizione (i seggi scrutinati sono 1320 su 3670), Partito democratico e Movimento cinque stelle sono di nuovo alla pari, intorno al 28 per cento, mentre il Pdl è staccato di quasi 10 punti: si ferma al 18,7. Deludente in modo uniforme, e in modo più grave che altrove, la performance della Lista civica per Monti alla Camera e al Senato nella regione della capitale, dove non riesce a raggiungere l’otto per cento. Stesso discorso per la lista «Rivoluzione civicaIngroia» che è sotto il 3 per cento a Roma (2,9) e si attesta appena al 2 per cento nel Lazio. Sinistra ecologia e libertà va meglio a Roma e alla Camera, dove raggiunge il 4,75 per cento, che al Senato dove si attesta poco sotto il 4 per cento.
Nella capitale il partito democratico è il primo partito ma si ferma al 31,5 per cento quando le schede scrutinate del Senato sono al 93% del totale, il Pdl si attesta molto indietro al 19,2. A Roma il voto alla lista di Grillo al Senato si attesta poco sopra il 25 per cento. Alla Camera (2081 seggi su 2600) il Pd è al 28,7 per cento, il M5S al 27,4. Staccano di dieci punti il Pdl che si ferma al 18,6 e che, con gli alleati raggiunge a malapena il 23 per cento.

il Fatto 26.2.13
Perché il femminicidio è crimine di Stato
di Paolo Ojetti


Chi ancora pensa che la parola “femminicidio” sia solo un neologismo e chi ancora pensa che nel neologismo si nasconda molta esagerazione, è pregato di andare a rivedere Presadiretta di domenica sera su Rai 3. Con la collaborazione di Francesca Barzini, Giulia Bosetti e Sabina Carreras, questa volta Riccardo Iacona è entrato in un labirinto nel quale è chiarissimo l’ingresso, ma ancora invisibile una via d’uscita: la violenza sulle donne. La casistica è impressionante, 137 donne uccise nel 2011 e 124 nel 2012. Un rosario insanguinato: assassinate da mariti, fidanzati, ex, insomma – verrebbe da dire – tutte uccise sotto lo stesso tetto.
UN MASSACRO dove i nomi contano poco – Enza, Rosa, Sabrina, Gaetana, Stefania – i metodi anche, la latitudine non c’entra e nemmeno vale il livello culturale: uccide in maniera efferata un primario, trecento coltellate vengono inferte dall’impiegato, quattro colpi di pistola dal disoccupato con frustrazioni inespresse. Ben più grave il “contorno”: l’inchiesta (a proposito, Iacona è così “partecipativo”, che ricorda i grandi cronisti-narratori di un tempo) dimostra che forse queste donne potevano essere tutte – o quasi tutte – salvate, solo che polizia, carabinieri, magistrati avessero preso sul serio le loro disperate denunce. Invece no. E si tratta di un “contesto” culturale tutto italiano, difficile ma non impossibile da decifrare. Intanto, siamo il paese dove tutto si può “aggiustare”. Poi, soprattutto nel mezzogiorno e in conseguenza di una dominante morale cattolica, la famiglia non si tocca. Violenze? Insomma, vedrai che si calma, è solo un po’ stanco, sono i tempi difficili. Fino al giorno in cui, sotto gli occhi della gente paralizzata dal terrore e non dall’indifferenza, “lui” le spacca la testa a martellate finché le suppliche di “lei” non finiscono in un rantolo senza ritorno. Anche le statistiche parlano contro di noi, contro uno Stato assente, contro il disinteresse della mano pubblica: mancano le strutture dove le donne sottoposte a continue violenze (stalking compreso) possano rifugiarsi per sfuggire ai loro potenziali carnefici: siamo il fanalino di coda (in rapporto alla popolazione) d’Europa. Dato altrettanto avvilente per i centri di “recupero” di maschi autori delle violenze. In Austria, il “recupero” è obbligatorio. Da noi – come registrato da Presa-diretta – uno di questi assassini efferati è andato ai domiciliari a trenta giorni dall’omicidio: “Non so, non ricordo”. Prego, si accomodi.

l’Unità 26.2.13
Il governo mette per strada 13mila profughi
Finita la proroga di 60 giorni per l’emergenza umanitaria. Dal 28 febbraio niente assistenza
di Luciana Cimino


Tredicimila profughi per strada. Senza assistenza. Dopo una proroga di 60 giorni, il governo italiano ha decretato che l’emergenza umanitaria è finita. Dal 28 febbraio la Protezione Civile non assisterà più persone e famiglie da mesi in attesa del riconoscimento dello status di rifugiato. Sono circa 13 mila i richiedenti ospiti di strutture specifiche dopo essere sbarcati a Lampedusa. Provengono da Iraq e Nordafrica. La scorsa settimana il Dipartimento per l’immigrazione del Viminale ha inviato a tutte le Prefetture interessate un documento in cui spiega che entro fine mese dovranno essere pronti i documenti atti a consentire agli immigrati la libera circolazione in Italia e ad avviare le procedure per favorire i percorsi d’uscita. Cioè rimpatri volontari e assistiti con «l’incentivo» di 500 euro a testa. Per tentare di rifarsi una vita. Nella circolare è scritto anche che per l’accoglienza dei minori stranieri non accompagnati sono stati stanziati 2,5 milioni di euro per rimborsare, tramite le prefetture, gli enti locali.
Potranno coprire solo le spese dell’accoglienza «dalla formalizzazione della domanda di asilo e sino all’inserimento nelle strutture del Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati». Critici gli enti che si occupano di immigrazione e diritti umani. Il Consiglio Italiano per i Rifugiati (Cir), pur riconoscendo che l’ultima circolare del ministero dell’Interno del 18 febbraio fa chiarezza su alcuni aspetti, considera le mosse del Governo «insufficienti per una soluzione». «La prevista assistenza in denaro di 500 euro non sostituisce un programma di integrazione lavorativo e alloggiativi», dicono. Un programma che «avrebbe potuto essere finanziato un anno fa, al posto di spendere centinaia di milioni di euro solo per la fornitura di vitto e alloggio». Non ci sono state misure per la formazione professionale, ne’ borse lavoro «ha prevalso un approccio emergenziale». Tanto che il comportamento dell’Italia è stato schizofrenico. Rileva Filippo Miraglia, responsabile immigrazione dell’Arci, «sino ad ora i singoli progetti d’accoglienza hanno adottato le soluzioni più disparate, anche in base agli orientamenti diversi di prefetture e questure.
Ad esempio in Lombardia i profughi accolti a Como hanno usufruito di un contributo d’uscita pari a 1000 euro, niente a Varese. Nelle Marche 400 euro a coloro che sceglievano di restare nella regione, 500 per restare in Italia e 600 per andare all’estero. A Rieti e Frosinone 650 euro mentre niente a Latina, Belluno, Caserta, Cagliari, Nuoro. In Puglia le prefetture stanno chiedendo con forza agli enti di tutela di invitare i profughi a lasciare le strutture senza avanzare pretese». «È evidente che i danni sono stati già prodotti – dice Miragliaingiustizie, discriminazioni e spreco di denaro pubblico». Meltin Pot ha lanciato un appello, al quale hanno aderito diverse associazioni, perché proseguano gli interventi e i finanziamenti, ma sulla base dell’inserimento abitativo dei profughi e con il rilascio immediato di permessi di soggiorno, titoli di viaggio, documenti. «Il piano avrebbe dovuto garantire l’accoglienza e il sostegno per i migranti arrivati dalla Tunisia e successivamente dalla Libia, ma si è risolto in un fallimento», spiega Nicola Grigion di MP . Salvo qualche sparuta esperienza, «queste persone sono state abbandonate in strutture spesso fatiscenti, in alberghi o affidati a cooperative che non state in grado di costruire l’inserimento socio-economico di queste persone».
Per Cristopher Hein, del Cir, «la cosiddetta ‘Emergenza Nord Africa’ ha dimostrato ancora una volta l’incapacità del sistema di asilo italiano che a fronte di un investimento economico elevatissimo – di una media di circa 25mila euro a persona – non è riuscito a mettere in campo risposte qualificate. E’ lo specchio di un sistema ancora immaturo». «Abbiamo chiesto alle forze politiche che si preparano a governare questo Paese l’introduzione di un programma nazionale di integrazione per i rifugiati che possa permettere all’Italia di dare prima un’accoglienza dignitosa a quanti fuggono in cerca di protezione».
Intanto oggi «ci troviamo con migliaia di persone senza un futuro nel nostro Paese».

il Fatto 26.2.13
Si dimette il cardinale accusato di molestie
di Marco Politi


Cade la prima testa fra i cardinali elettori. Accusato di rapporti illeciti con quattro sacerdoti, il primate di Scozia Keith O’Brien si autoesclude dal conclave e il Papa ne accetta le dimissioni da arcivescovo di Edimburgo.
È un tonfo che in Vaticano risuona persino più forte dell’abdicazione di Benedetto XVI. “Comportamenti inappropriati” con persone di sesso maschile, è l’accusa rivolta a O’Brien: proprio a lui che dal pulpito riservava parole roventi ai gay. “I patti civili di convivenza – scandì un giorno – sono dan-no-si per il be-nes-se-re fisico, men-ta-le e spi-ri-tua-le di coloro che vi sono coin-vol-ti”. In Vaticano sono allarmati. Si teme l’effetto valanga. Sono troppi ormai i porporati imbarazzanti in conclave. Non colpevoli di abusi personalmente, ma accusati sia di avere coperto casi di pedofilia sia di non avere voluto indagare. Dagli Stati Uniti ne vengono due. Il cardinale Justin Francis Rigali, raggiunto nell’ultima fase del suo mandato come arcivescovo di Philadelphia dalle pesanti osservazioni di un rapporto del Grand Jury, che gli addebitò scarsa energia nel fare chiarezza sulle accuse rivolte a 37 sacerdoti della sua diocesi.
L’ALTRO AMERICANO, il cardinale Mahony, è stato interrogato ieri per tre ore e mezza di fila sulla sua gestione dei casi di abuso nella diocesi di Los Angeles. 122 episodi sono all’attenzione del tribunale. E il cardinale è accusato di avere lasciato che qualche prete colpevole sfuggisse alla polizia, rifugiandosi in Messico.
Messicano è il cardinale Norberto Rivera Carrera, accusato dalla Corte suprema di Los Angeles perché avrebbe coperto abusi su minori compiuti da un sacerdote diocesano. Calunnie anti-messicane, si è difeso il porporato. Belga è il cardinale Godfried Danneels. Nel 2010 un prete in pensione, Rik Devillé, lo ha accusato di non avere prestato ascolto a ripetute denunce e di non avere nemmeno indagato sugli episodi portati a sua conoscenza da una delegazione di vittime nel 2002.
Come un macigno incombe, infine, sul conclave il caso del primate d’Irlanda, Sean Brady, di cui è stata documentata l’inerzia nei confronti di un prete violentatore: padre Brendam Smyth. Benché invitato più volte a dimettersi, Brady ha sempre testardamente rifiutato, incurante del fatto che i rapporti tra Irlanda e Santa Sede sono diventati pessimi dopo la scoperta – testimoniata da successive indagini in grande stile – di un metodo sistematico e cinico di insabbiamenti in varie diocesi irlandesi.
Il caso O’Brien è dunque solo la punta di un iceberg. Dimostra quanto l’intento di spazzare via la “sporcizia nella Chiesa” (la parola d’ordine con cui Benedetto XVI ha iniziato la sua traiettoria di pontefice) abbia messo in moto un processo non più controllabile. Quando si proclama la necessità di mettere le vittime al primo posto – come ha fatto papa Ratzinger – e si afferma che non ha senso nascondere il marcio con il pretesto del “buon nome della Chiesa”, non ci si può fermare a mezzo cammino. Né ha senso denunciare la stampa “cattiva”. Né serve secretare dossier. Lunedì 25 febbraio 2013 la Chiesa cattolica ha vissuto un’altra giornata a suo modo storica.
LA CANCELLAZIONE di un cardinale elettore a pochi giorni dal conclave. In Vaticano, a ciel sereno, è stato comunicato che “in data 18 febbraio il Santo Padre ha accettato la rinuncia al governo pastorale dell’arcidiocesi di Saint Andrews e di Edimburgh, presentata da Sua Eminenza cardinale Keith O’Brien in conformità al canone 401, paragrafo 1, del Codice di Diritto canonico”.
Curioso assai. Un’accettazione retrodatata. E comunicata di corsa alla vigilia del conclave, quando è noto che vescovi e arcivescovi ricevono spesso una proroga piccola o lunga del loro mandato. Né si comprende la fretta di pensionare un arcivescovo, per di più cardinale, per di più in procinto di entrare in conclave per scegliere il nuovo sommo pontefice.
Il retroscena è semplice. Da giorni divampa in Scozia e sulla stampa britannica la polemica sulle accuse rivolte dai tre preti e dall’ex sacerdote al primate di Scozia. O’Brien contesta tutto. Ma intanto sul suo sito ha comunicato: “Chiedo la benedizione di Dio sui miei fratelli cardinali (che presto saranno a Roma per eleggere il nuovo Papa) … io non mi aggiungerò a loro di persona per questo conclave”. La motivazione, ha spiegato, è che “non voglio che l’attenzione dei media a Roma sia concentrata su di me”.
A CHI DIETRO le mura vaticane si è immaginato complotti per inquinare il conclave, la ricostruzione dei fatti toglie l’erba sotto i piedi. I quattro accusatore si sono presentati al nunzio vaticano a Londra, mons. Antonio Mennini, una settimana prima delle dimissioni di Benedetto XVI. Quindi nessuna cospirazione. Tre sacerdoti hanno indicato tempi e luoghi precisi delle “relazioni inappropriate”: una parrocchia, la residenza dell’arcivescovo, sessioni di preghiera notturne.
Tutti hanno dichiarato di avere taciuto perché il primate era il loro “capo”, un’autorità che aveva pieni poteri sulle loro esistenze e carriere.

Corriere 26.2.13
«I devoti non vogliono grane»
Una lettera «riservata» accusa il prelato americano Mahony
di Francesco Battistini


LOS ANGELES — Primo, minimizzare l'accaduto e zittire la coscienza: «I bambini non sono traumatizzati…». Secondo, convincere le pecorelle che si tratta d'un buon pastore che s'è smarrito: «Le famiglie dei chierichetti vogliono solo che quel sacerdote riceva aiuto e sia messo in condizione di non fare più queste cose».
Terzo, e più importante, evitare le indagini della polizia: «Le famiglie sono devote e non vogliono grane». È una lettera battuta ancora a macchina, su carta carbone. Con l'intestazione e la dicitura «riservata». È allegata al dossier che accusa il cardinale Roger Mahony d'avere ignorato, molte volte insabbiato qualunque denuncia giungesse sui preti pedofili. «È la dimostrazione — spiega Terry Mc Kiernan, "indignado" cattolico del gruppo Bishop Accountability — di quanto la mente e il braccio sapessero bene che cosa fare, non appena spuntava una denuncia di molestie».
La lettera è fra quelle che sono state mostrate a Mahony in quasi quattro ore d'interrogatorio, sabato, prima del Conclave. Una paginetta datata 21 gennaio 1988, firmata dal collaboratore padre Thomas Curry e indirizzata al cardinale per chiarire «un incidente» di cui si mormora in curia: due settimane prima, monsignor Curry ha ricevuto due famiglie ispaniche, «gente d'assoluta fiducia», che gli hanno raccontato le molestie sessuali d'un prete che avevano in casa. Il prete è il messicano Nicolas Aguilar Rivera, ospite della diocesi: «La sera di Natale, siccome aveva bevuto un po' troppo e non poteva guidare, abbiamo chiesto a padre Aguilar di restare. È il catechista dei nostri bambini, così l'abbiamo sistemato nella loro stanza. Durante la notte, lui s'è infilato nel loro letto…». Informato della vicenda, riferisce monsignor Curry nella lettera, la preoccupazione prima è che la famiglia non abbia informato la direttrice della scuola, la quale «sarà costretta a rivolgersi alla polizia».
Per questo, il vicario dell'arcidiocesi si precipita dal prete pedofilo, lo mette alle strette e ottiene la promessa: l'uomo se ne andrà oltreconfine, in Messico, entro 48 ore. Nessuna denuncia, per carità. E se qualcuno vuole dettagli — Curry rassicura il cardinale — nessun problema: «Le famiglie sono della parrocchia, non vogliono grane». In fondo, «non ci sono prove dei presunti abusi».
E i bambini, monsignore ne è certo, «non sono traumatizzati»… Così s'agiva, in pensieri opere e soprattutto omissioni, all'arcidiocesi di Los Angeles. Ciò che stupisce i giudici è che il cardinale e i suoi, forse convinti d'essere sciolti dalla legge terrena, non abbiano eliminato nemmeno le carte più imbarazzanti.
«La polizia sta facendo ogni sforzo per avere la lista dei bambini molestati — annota padre Curry in un'informativa del 26 gennaio 1988 — i parroci sono riluttanti. E io do loro ragione». Non possumus, concorda il cardinale in un'altra lettera: «Non possiamo dare informazioni del genere, qualunque sia il motivo per cui ce le chiedono». Del resto, come gli fa sapere anche monsignor Juan Arzube, collaboratore a sua volta coinvolto in vicende di molestie: «Quanti preti sono completamente senza peccato, se si valutano dieci anni della loro vita?».
A Los Angeles, pensa la polizia, per i religiosi «problematici» era facile farla franca. Non si spiegano sennò i tredici preti fuggiti in Messico e ancora ricercati, nonostante l'abbondanza di segnalazioni sul loro conto. Negli archivi diocesani non c'è traccia di denunce penali. Più spesso, si leggono missive che tendono ad annacquare le accuse. È il caso di padre Fidencio Silva Flores, per quindici anni missionario a Long Beach e responsabile per la pastorale dei giovani ispanici. Quando emergono le prove di 25 abusi su minori, padre Silva «lascia il servizio» (così è scritto nella scheda dell'Arcivescovado, senza dettagli) e sparisce: processato, ricercato, sette anni dopo si scopre che celebra ancora messa in una parrocchia messicana. Anche la storia di padre Willebaldo Castro fa pensare: denunciato per atti di libidine su un sedicenne, già negli anni 70 inibito dalla Congregazione per la dottrina della fede, è a Los Angeles che il prete trova la benevolenza delle gerarchie, le quali ne sottolineano il ravvedimento, «certamente farà molto bene alle anime», e ne chiedono l'«opportuna reintegrazione ad experimentum». Dov'è finito padre Willebaldo? In Messico, pure lui: inseguito da accuse di nuove molestie. «Caro Papa — scrisse nel 1993 una vittima, ormai adulta, a Giovanni Paolo II — io fui molestato la prima volta da bambino al campeggio di St. Malo, Colorado. Ho scoperto che quel prete oggi è in una parrocchia di Los Angeles. Ho informato tutti, anche il cardinale Mahony, degli orrori che dovetti subire. In dieci anni, non ho ricevuto una parola».

Repubblica 26.2.13
Benedetto toglie il segreto sul rapporto shock “I cardinali devono conoscerne i contenuti”
“Ma il testo resterà riservato”. Sì al Motu proprio per anticipare l’elezione
di Marco Ansaldo


CITTÀ DEL VATICANO — In tempi di cimici e fughe di documenti riservati, a tre giorni dalla fine del suo pontificato il Papa corre ai ripari e con un Motu proprio detta le nuove norme sul Conclave, sicurezza compresa, con scomunica «automatica» per chi infrangerà le regole. Ma i tre cardinali anziani a cui ha affidato l’inchiesta interna sul caso Vatileaks, da ieri ufficialmente sciolta, potranno comunque parlare dei risultati raggiunti con gli altri porporati negli incontri che precederanno gli scrutini per la scelta del nuovo Pontefice.
«Io N. N. prometto e giuro di osservare il segreto assoluto con chiunque non faccia parte del Collegio dei Cardinali elettori, e ciò in perpetuo. Prometto parimenti e giuro di astenermi dal fare uso di qualsiasi strumento di registrazione o di audizione o di visione di quanto, nel periodo delle elezione, si svolge entro l’ambito della Città del Vaticano ». Questo passo, estratto dal punto numero 48 del Motu proprio “Normas nonnullas”, annunciato ieri da Benedetto XVI, e che ogni cardinale dovrà giurare davanti al Camerlengo, è figlio delle tradizioni storiche del Conclave, ma anche della vicenda sulle lettere trafugate dall’Appartamento papale. Da sempre la Santa Sede vincola i suoi elettori al segreto. Ma i misteri affascinano, e così, per evitare comunque che qualcuno possa “bruciare” il Protodiacono, e dare al mondo, magari via Twitter, il nome del nuovo Papa, Joseph Ratzinger ha dato una stretta ulteriore a un Conclave che a questo punto si svolgerà di sicuro fra il 10 e il 20 marzo.
Con un vero colpo a sorpresa il Pontefice in dismissione ha innanzitutto deciso che gli atti del rapporto messo a punto dai tre cardinali Julian Herranz, Jozef Tomko e Salvatore De Giorgi, restino riservati e siano trasmessi solo al prossimo pontefice. Non finiranno così nell’Archivio segreto vaticano. Ma al tempo stesso ha permesso di togliere il
velo sul rapporto shock, lasciando che tutti i cardinali ne conoscano per sommi capi il contenuto. Ha infatti spiegato il portavoce papale, padre Federico Lombardi, che durante gli incontri pre-Conclave «le persone responsabili, compresi i tre cardinali del collegio d’inchiesta, sapranno in che misura possono e devono dare a chi li richiede elementi utili per valutare la situazione e scegliere il nuovo Papa».
La risultante di tutto ciò non è di poco conto. Perché significa che l’esito del lavoro dei tre cardinali potrà essere trasferito, oralmente, alle Congregazioni generali dei cardinali che inizieranno a riunirsi nei prossimi giorni, forse già il 1 marzo, dopo l’ultimo giorno di pontificato di Ratzinger. Una fase preliminare di fondamentale importanza, nella quale i porporati si incontrano, si consigliano, si aiutano vicendevolmente a comprendere le situazioni e le approfondiscono. Il caso Vatileaks entra così di fatto nel prossimo Conclave. E il lavoro d’indagine, benché fermato, non è affatto concluso. Starà dunque al prossimo Papa decidere se e come proseguirlo, per scoprire eventualmente altro. Per marcare anzi il valore del rapporto stilato dalla commissione cardinalizia d’inchiesta, Benedetto XVI ha voluto ricevere ieri alle 11 in udienza privata i tre cardinali accompagnati dal segretario, padre Luigi Martignani. Ratzinger ha ringraziato tutti del lavoro svolto. Un lavoro da cui escono «limiti e imperfezioni propri della componente umana di ogni istituzione», un chiaro riferimento alla fuga di documenti ad opera del suo maggiordomo, il cosiddetto “corvo”, e forse di altri.
Nel Motu proprio, il Pontefice ha poi aggiornato le regole del Conclave, dando la possibilità di anticiparne la data rispetto al minimo di 15 giorni dall’inizio della sede vacante (le ore 20 del 28 febbraio). E rendendo più severe le norme, con la scomunica “
late sentantiae”, cioè automatica, verso quanti dovessero violare il segreto. La riunione potrà quindi iniziare prima del 15 marzo, a partire forse dal 10. Per sapere la data esatta, bisognerà in ogni caso attendere le Congregazioni generali dei cardinali, che decideranno votando a maggioranza. «Trascorsi, però, al massimo — si legge nel dispositivo — venti giorni dall’inizio della sede vacante, tutti i cardinali elettori presenti sono tenuti a procedere all’elezione».
Per quanto riguarda, infine, il delicato tema della segretezza, «l’intero territorio della Città del Vaticano e anche l’attività ordinaria degli uffici aventi sede entro il suo ambito dovranno essere regolati», «in modo da assicurare la riservatezza e il libero svolgimento di tutte le operazioni connesse con l’elezione del Sommo Pontefice. In particolare si dovrà provvedere, anche con l’aiuto di prelati chierici di camera, che i cardinali elettori non siano avvicinati da nessuno durante il percorso dalla Domus Sanctae Marthae al Palazzo apostolico vaticano».
Blindatura totale, com’è ovvio. Soprattutto in tempi di cimici e di anticipi.

il Fatto 26.2.13
Lo scheletro incarcerato, simbolo della Palestina
Samer è in sciopero della fame da 200 giorni per protestare contro il trattamento inflitto dagli israeliani
di Roberta Zunini


Samer Essawi è ormai in fin di vita e non ha potuto partecipare ai funerali di massa di Arafat Jaradat, il 30enne palestinese morto nel carcere israeliano di Megiddo la settimana scorsa dopo un interrogatorio in cui, secondo l'Autorità nazionale palestinese, sarebbe stato torturato. Samer, 35 anni, ci sarebbe sicuramente andato se non fosse ormai un fantasma di 46 chili su un metro e 80 di altezza e se non fosse rinchiuso in un altro carcere israeliano dove è finito nel luglio scorso perché avrebbe violato le restrizioni di movimento a cui era sottoposto da quando, alla fine del 2011, ottenne la libertà in seguito allo scambio di prigionieri per la liberazione del caporale Gilad Shalit. Il suo rientro nell'ottobre del 2011 a Esawyiee un villaggio dei Territori occupati a pochi chilometri da Gerusalemme Est, fu accolto da centinaia di palestinesi, giovani e anziani, che volevano abbracciarlo.
QUANDO Il Fatto arrivò nella grande casa dove vivono la madre e i fratelli, trovò un clima di festa nonostante il dolore: la sorella Shreerin, avvocato con master in diritti umani, era agli arresti domiciliari pur ignorandone le ragioni. Israele applica l’“adminstrative detenction” cioè l'arresto e la carcerazione senza averne rivelato i motivi. Una persona può dunque finire in carcere per mesi senza che nemmeno l'avvocato difensore possa conoscere i capi d'accusa. Per protestare contro questo metodo, 200 giorni fa Samer ha iniziato lo sciopero della fame. Dieci giorni fa, quando sembrava ormai in punto di morte, i medici gli hanno somministrato contro il suo volere vitamine e sostanze nutrienti, ma Samer ha continuato a rifiutare il cibo. L'11 febbraio, il giorno in cui si diffuse la notizia della sua morte imminente, centinaia di palestinesi scesero in piazza in segno di solidarietà così come sono tornati a protestare per la morte di Jaradat, ma le manifestazioni sono degenerate in scontri, durante il fine settimana, quando due palestinesi sono rimasti feriti dalle fucilate di alcuni coloni nei pressi di Hebron.
L’EVENTUALE MORTE di Shamer potrebbe far scoppiare la terza Intifada: sono in molti a te-merlo, soprattutto il vertici dell'Anp, che hanno accusato Israele di voler provocare il caos per continuare l'occupazione ed evitare la ripresa dei negoziati, auspicata da Obama che a marzo andrà per la prima volta in Israele e nei Territori.
La storia di Shamer e della sua famiglia è emblematica della vita sotto occupazione: di formazione laica, madre ostetrica, padre costruttore, tutti, nessuno escluso, hanno conosciuto il carcere, oltre al lutto per la morte di 2 figli, uccisi durante gli scontri di Hebron nel 1994, provocati dalla strage compiuta dal colono israeliano Baruch Goldstein. Shamer invece fu arrestato a Ramallah nel 2002 durante la seconda Intifada. Venne condannato a 30 anni di prigione pur non essendo stato riconosciuto colpevole di omicidio. Ottenne l'amnistia nel 2011, ma “anche se era stato liberato, le autorità israeliane lo tenevano sempre sotto pressione”, spiega la sorella. Shamer dovrebbe essere scarcerato il 6 marzo, sempre che ci arrivi vivo.

il Fatto 26.2.13
Pietre nei territori
Le torture e la rabbia accendono la Terza Intifada
Scontri con l’esercito di Gerusalemme dopo i funerali di Arafat Jaradat


Rabbia e vampate d’Intifada in Cisgiordania, dove almeno 10.000 palestinesi hanno seguito a Sair il feretro di Arafat Jaradat, l’attivista morto sabato in circostanze sospette in una cella israeliana, in un funerale segnato da tensione e spari in aria. Sullo sfondo di una giornata di proteste e scontri sfociati nel ferimento di 2 tredicenni palestinesi, colpiti dal fuoco dell’esercito israeliano in due episodi distinti.
Per l’occasione sono ricomparsi in pubblico, dopo una lunga assenza, i miliziani delle Brigate dei martiri di al-Aqsa, la costola armata di al-Fatah di Abu Mazen, mai a loro agio con la linea diplomatica del presidente dell’Autorità palestinese (Anp), che hanno minacciato ritorsioni contro lo Stato ebraico. Il premier israeliano Netanyahu e il ministro della Difesa Ehud Barak hanno seguito gli sviluppi sul terreno ora per ora, con preoccupazione crescente, nel timore che possa sprigionarsi davvero una nuova rivolta popolare generale.
LA MORTE DI JARADAT ha toccato il tasto più dolente in ogni famiglia palestinese: quello dei “prigionieri”. Ieri, al termine di un’autopsia, il ministro palestinese Issa Qaraqe ha imputato la morte di Jaradat a sevizie patite nelle prigioni di Jalame e Megiddo, nel nord di Israele. Il ministero israeliano della Sanità ha respinto le accuse, sostenendo che sul corpo non c'erano tracce evidenti di violenze e consigliando di attendere l’esito definitivo delle indagini. Ma la conferma dell’individuazione di due costole rotte (che Israele riconduce a maldestre manovre di rianimazione) rinfocola i sospetti. Mentre i familiari di Jaradat denunciano tumefazioni sul volto.
E così, quando oggi nel villaggio di Sair è giunta la sua salma (avvolta nella bandiera nazionale palestinese, scortata da ufficiali e da dignitari dell’Anp), l’ira della gente è esplosa incontenibile. Da più parti sono stati scanditi slogan di collera verso Israele, ritmati insieme dai militanti di al-Fatah (la grande maggioranza) con quelli delle fazioni della sinistra marxista, ma anche con i vecchi rivali dei gruppi islamici.
La zona della Cisgiordania compresa fra Betlemme e Hebron è stata chiusa al traffico ebraico, nel timore che non fosse possibile difendere l’incolumità dei coloni. In seguito incidenti sono divampati pure a Hebron, a Nablus, a Ramallah, a Betlemme.
“Israele uccide i nostri figli”, ha esclamato il presidente dell’Anp Abu Mazen, che potrebbe presto appellarsi - in quanto Stato osservatore all’Onu - alla Corte Penale internazionale.

l’Unità 26.2.13
La realtà è uno schifo meglio il manicomio
Riflessioni, pensieri e fantasie nello stimolante memoriale («romanzo») di Permunian
di Angelo Guglielmi


IL GABINETTO DEL DOTTOR KAFKA, Francesco Permunian pagine 186 euro 15,00 Nutrimenti

ERA DA MOLTO TEMPO CHE NON LEGGEVO UN LIBRO COSÌ STIMOLANTE. Un libro, forse un romanzo pur se non è che un cumulo di riflessioni, pensieri, fantasie, letture e ricordi che insieme costituiscono il racconto di una interiorità e più ancora di un personaggio e di una vita. Intanto straordinario è il linguaggio con la sua nettezza feroce; abituati alla parole di oggi che dicono sempre altro, le parole di Permunian impongono di essere prese per quel che sono e vietano slittamenti verso significati diversi.
Così Il Gabinetto del dottor Kafka (che è anche il titolo del libro) non è che il cesso alla turca della stazione (ferroviaria) di Desenzano (la residenza dell’autore) in cui, tra le scritte che in genere ricoprono le pareti delle latrine pubbliche, Permunian lesse il titolo di un racconto di Kafka (Il cacciatore) presuntamente graffito dallo stesso scrittore praghese che in un lontano anno del 900 passò (questa è storia) per la stazione di Desenzano. Quel cesso alla turca successivamente sarebbe stato restaurato, per concessione del Ministero dei trasporti, dallo stesso Permunian e trasformato in un boudoir filosofico in cui l’autore, che soffriva di una insonnia incurabile, riusciva finalmente ad addormentarsi.
Ma i suoi sonni, come peraltro le sue veglie, erano abitati da diavoli e dolorosi fantasmi che non sono altro che immagini riflesse di eventi reali, di cui mostrano per intero la sgradevolezza e volgarità. La realtà, fantastica Permunian, non è che la sua faccia brutta nascosta dietro l’ipocrisia della bellezza. Dietro l’ipocrisia del benessere in onore del quale vecchie carampane si conciano schifosamente per apparire giovani; dietro l’ipocrisia della ricchezza che quando l’hai raggiunta ti convince a diventare ladro; dietro l’ipocrisia dell’intelligenza e della creatività nel cui nome «una marea di grafomani incontinenti che non hanno nulla in comune con la letteratura...producono quotidianamente tonnellate di mucillagine cartacea...ammorbano l’aria e ti investono in faccia appena ci si arrischia a mettere il naso in una libreria»; dietro l’ipocrisia della santità che stimola nelle mogli devote il desiderio di uccidere i mariti blasfemi.
E, diciamocelo, per la fuga dall’ipocrisia non rimane che il manicomio dove il protagonista va a trovare un’amica che è li perché da bambina è stata stuprata dal padre e ora deve difendersi dalla concupiscenza (lurida lussuria) dei diavoli. Ma il protagonista è lì, è di casa al manicomio che «considera alla stregua dei moderni monasteri in cui rifugiarsi quando i rumori e le voci del mondo diventano insopportabili» anche perché ha avuto l’incarico di mettere in ordine le cartelle cliniche dei malati. È sempre stato affascinato dalla malattia mentale e ne fruga i segreti nascosti in quelle cartelle. E non solo del manicomio della sua città. Sfogliando le cartelle di Robert Walser, internato nel manicomio di Herisau, non potè nascondere il piacere di leggere che lo scrittore austriaco, interrogato sulle sue opere, «metteva in guardia dall’acquistarle perché...assai mediocri...ed egli non vorrebbe sottoporci a spese superflue». E non dimentica neanche il divertimento con cui Zanzotto gli raccontava di un assurdo Festival degli scrittori più depressi vinto meritatamente da Ottiero Ottieni mentre a lui era toccato solo il terzo posto scavalcato da Luca Canali (che si era recluso in casa) con il quale era stato fino all’ultimo in gara.
Walser, Zanzotto, Joyce, Caruso, Kafka, Sebald ma anche Piero Chiara e prima Delfini sono gli artisti e scrittori che legge e ama (e se può frequenta) perché hanno praticato e vissuto la letteratura come un campo disseminato di mine che esplodendo sgretolano la serie infinita di corpi pesantemente deformi che abitano il mondo, refrattari e incapaci di ogni ironia e «leggerezza». Le esplosioni di Permunian sono innescate da un linguaggio di cui rispetta l’assetto lessicale e sintattico comunemente in uso: non ha avuto bisogno, come Zanzotto e Joyce, di travolgerlo rinnovando le connessioni interne: si è limitato ad affilarlo, rendendolo più lucido e tenace di una lama, in modo che scontrandosi con l’abusata realtà fosse questa, senz’altra scelta, a frantumarsi mostrandola sua inutile miseria.
Allora non ci è difficile capire la solitudine dello scrittore (il suo sdegno e insofferenza) che, in pensione dalla biblioteca di Desenzano di cui era il direttore, ha ceduto a scrivere «questo diario dell’infamia e dell’inganno» (altrove da lui chiamato «memoriale di demoni e fantasmi») forse felice, ma senza contarci, che qualcuno potesse leggerlo.

La Stampa 26.2.13
Cent’anni fa nasceva la teoria dei quanti
Dirac, l’uomo che inventò l’antimateria
Il disturbo autistico gli donò una eccezionale capacità di astrazione
di Piero Bianucci


A mettere d’accordo Bohr e Einstein fu lo scienziato “più strano del mondo”
Nel Big Bang secondo l’equazione di Dirac potrebbero essere nati due universi, uno di materia e uno di antimateria
Albert Einstein Nel 1905 interpretò la luce come un flusso di corpuscoli che chiamò fotoni Ne ricavò il premio Nobel nel 1921
Niels Bohr Nel 1913 il fisico danese immaginò l’atomo come un minuscolo sistema solare: il nucleo al centro, gli elettroni intorno come i pianeti

Prima lo scenario. L’idea moderna di atomo ha cent’anni. Nel 1913 il danese Niels Bohr lo immaginò come un minuscolo sistema solare: il nucleo al centro come il Sole, gli elettroni intorno come i pianeti. L’anno prima Rutherford aveva scoperto che il nucleo, pur contenendo quasi tutta la massa dell’atomo, è piccolissimo: se fosse un granello di sabbia al centro della piazza di San Pietro, gli elettroni girerebbero alla distanza del colonnato. Tutti i pianeti pesano un millesimo del Sole. Gli elettroni, rispetto al nucleo, hanno una massa ancora più trascurabile: l’atomo è fatto soprattutto di vuoto.
Le regole del microcosmo sono scritte nella meccanica dei quanti. Per noi abituati alla meccanica di Newton, che si applica non al micro ma al macrocosmo, è una teoria incredibile e stravagante. Nessuno l’ha capita fino in fondo. Eppure funziona meglio di qualsiasi altra teoria ed è precisa fino all’undicesima cifra dopo la virgola. Nella meccanica dei quanti le particelle si comportano ora come corpuscoli ora come onde. Nel 1905 Einstein interpretò la luce come un flusso di corpuscoli che chiamò fotoni. Ne ricavò il premio Nobel nel 1921 e di lì derivarono il laser, i led, le celle fotovoltaiche e un sacco di tecnologie che usiamo tutti i giorni. Ma in varie circostanze la luce si capisce meglio se la pensiamo come un’onda. La cosa strana è che la luce, come ogni altra radiazione elettromagnetica, può essere prodotta solo a pacchetti di entità definita, chiamati appunto «quanti». È come se la birra potesse esistere solo in pinte, non in gocce o in barili. Questa scoperta, senza accorgersene, l’aveva già fatta il fisico tedesco Max Planck nel 1900.
A completare le bizzarrie, nel 1926 Heisenberg aveva stabilito che di una particella, proprio perché è un po’ corpuscolo e un po’ onda, non si può conoscere con la stessa precisione l’energia e la posizione. Per misurarne l’energia occorre rinunciare a localizzarla bene e per localizzarla bene si perde informazione sull’energia: è il famoso principio di indeterminazione. Ne consegue che i fenomeni del microcosmo sono probabilistici e che è l’osservatore con la sua osservazione a definirli. La faccenda si riassume nell’esperimento ideale del «gatto di Schroedinger». È un gatto dalla salute precaria: prima che l’osservatore lo osservi, non è né vivo né morto, si troverebbe in uno stato misto vivomorto... In questo scenario irrompe Paul Dirac, l ’Uomo più strano del mondo , stando al titolo della sua biografia scritta da Graham Farmelo appena pubblicata da Raffaello Cortina. Nato nel 1902, alto ed esile, timido con le donne e ruvido con gli uomini, Dirac amava i valzer di Chopin, leggeva Topolino, rideva ad algide barzellette, ammirava le forme della cantante Cher (prima che eccedesse con la chirurgia plastica), La sua teoria gravitazionale valida per il macrocosmo non si applica alla realtà subatomica parlava a monosillabi, si curava con farmaci omeopatici (ciò contribuì alla sua morte nel 1982), ma soprattutto fu un genio della fisica quantistica.
Bohr e Einstein – onde e particelle – erano separati in casa. Nel 1930 Dirac riuscì a dare una descrizione degli elettroni mettendo d’accordo meccanica dei quanti e relatività di Einstein, teorie che fino ad allora sembravano inconciliabili. L’equazione finale contiene una sorpresa: non ha una soluzione ma due, entrambe giuste pur essendo l’una il contrario dell’altra. In matematica è normale: la radice quadrata di 25 può essere sia +5 sia -5. Ma nella realtà come vanno le cose? Quella equazione, premiata con il Nobel nel 1933 e ora incisa nell’abbazia di Westminster accanto alle tombe di Newton e di Darwin, contiene la scoperta dell’antimateria. La prima soluzione corrisponde all’elettrone, la particella con carica elettrica negativa che ben conosciamo e che fa funzionare i nostri mille apparecchi elettronici. La seconda soluzione, con il segno invertito, corrisponde a una particella identica all’elettrone ma con carica elettrica opposta: un anti-elettrone poi chiamato positrone. Non stiamo parlando di scienza lontana dalla vita quotidiana. Oggi la tomografia a emissione di positroni è una tecnica diagnostica usata in ogni ospedale ben attrezzato.
Il positrone fu il primo mattone dell’anti-mondo. L’equazione di Dirac dice infatti che ogni particella ha la sua antiparticella. Dunque alla materia «comune» di cui siamo fatti e che ben conosciamo corrisponde una antimateria che è un po’ come la sua immagine riflessa in un specchio. Lo specchio inverte destra e sinistra, tra materia e antimateria si inverte la carica elettrica. Potrebbero quindi esistere anti-Terre, anti-stelle, anti-galassie: guardandole al telescopio e studiandole con ogni mezzo oggi a disposizione, non avremmo modo di distinguerle. Nel 1932 Carl Anderson scoprì il positrone nei raggi cosmici. Quanto all’antiprotone, lo staneranno Emilio Segré e Chamberlain nel 1955 (Nobel 1959). Oggi al Cern si fabbricano anti-atomi di idrogeno a decine di migliaia. Capire se abbiamo a che fare con antimateria è semplice ma pericoloso: basta metterle a contatto. Materia e antimateria si annientano in una spaventosa esplosione. È la reazione nucleare più potente che ci sia. Tutta la massa si trasforma in energia, non soltanto lo 0,7 per cento come accade nella bomba H!
Perché un genio come Dirac fu anche «l’uomo più strano del mondo»? Il suo segreto è una malattia. Non la Tbc a un rene che lo uccise, ma l’autismo annidato nella sua mente. Il disturbo autistico fece di lui un isolato, donandogli però una eccezionale capacità di astrazione e il gusto assoluto della bellezza matematica. «Dirac presenta la meccanica quantistica come un’opera d’arte perfettamente levigata», ha detto un altro grande fisico, Freeman Dyson. Il vero mistero di Dirac riguarda la fede. Per il decano di Westminster fu un ateo militante. Eppure nel 1971 aveva messo la domanda «C’è un Dio?» tra i cinque interrogativi più importanti della fisica contemporanea e la moglie Manci sulla sua tomba fece incidere la frase: «Perché Dio ha detto che doveva essere così».