mercoledì 27 febbraio 2013

l’Unità 27.2.13
Bersani: no al governissimo. «Grillo dica cosa vuole fare»
di Simone Collini

qui

l’Unità 27.2.13
Se non sono chiacchiere, è una buona occasione
di Margherita Hack


MI SEMBRA CHE SE CI FOSSE UN PO’ DI BUON
SENSO E DI BUONA VOLONTÀ, da queste elezioni potrebbe uscire il governo più forte che ci sia mai stato negli ultimi anni.
Per dire questo, parto da una constatazione: Grillo e i grillini in fondo vogliono molte cose che vuole anche la coalizione di centro sinistra. Almeno su quelle cose, quindi, le due forze potrebbero trovare un accordo. Così l’Italia ingovernabile potrebbe essere governata per fare quello che c’è da fare in tempi brevi.
E cioè:
1) Intervenire sul conflitto d’interessi.
2) Una nuova legge elettorale che ridia al cittadino la possibilità di scegliere i propri rappresentanti.
3) Una drastica riduzione dei costi della politica, con riduzione del numero dei parlamentari, eliminazione dei vantaggi e dei privilegi di cui godono.
4) Una riduzione delle spese militari che renda subito disponibili fondi da investire in modo prioritario per la scuola e la ricerca.
5) L’eliminazione delle province. E non il loro accorpamento che solleverebbe infinite diatribe e avrebbe come risultato un raddoppiamento degli uffici e quindi delle spese.
6) Una politica del lavoro. Su questo, non ho ricette perché non sono un’economista e non so come si faccia a creare lavoro in un’Europa in crisi. Però credo che ci siano alcuni settori pubblici di risanamento e di rispetto dell’ambiente che potrebbero creare posti di lavoro e andrebbero privilegiati.
7) I diritti civili. C’è da mettere mano al testamento biologico, ai matrimoni di fatto, alla revisione della legge 40. Su alcune di queste cose si può pensare di mettere d’accordo anche i grillini.
8) Infine, ci sarebbe da facilitare il processo di integrazione degli immigrati, abolendo le leggi indegne fatte dalla Lega.
Almeno su alcuni di questi punti si potrebbe trovare un accordo e andare avanti fino alla fine della legislatura, senza perdersi nei distinguo sulle cose meno importanti. In questo quadro anche Monti con i suoi potrebbe fare un’opposizione intelligente, da economista che ha a cuore la riduzione del debito pubblico e le condizioni economiche del Paese.
Del resto, non c’è altra possibilità: la grande coalizione col Pdl non è possibile. Basta che quello che dice Grillo non siano chiacchiere.

l’Unità 27.2.13
La diplomazia europea «tifa» ancora per Bersani
di Umberto De Giovannangeli


Le fotocopiatrici funzionano a ciclo continuo nelle ambasciate europee, e in quella Usa, a Roma, per sfornare voluminose rassegne stampa. La richiesta che giunge da Parigi come da Londra, da Berlino come da Washington, è la stessa: capire di più sul «fenomeno Grillo». Un fenomeno che ha spiazzato l’Europa e che costringe agli straordinari gli ambasciatori di stanza in Italia. Si cerca di capire cosa accadrà ora nell’Italia post elettorale investita dallo «tsunami Grillo». Lo spettro che aleggia è quello della ingovernabilità: «Altro che la Grecia, se crolla l’Italia trascina con sé il resto dell’Europa», dice a l’Unità una fonte diplomatica europea, da lungo tempo nel nostro Paese e per questo punto di riferimento dei colleghi di più giovane esperienza.
«Il risultato ammette la fonte ha spiazzato tutti. Si dava per scontata la vittoria del centrosinistra e un ridimensionamento di Berlusconi, al punto che il lavoro sotterraneo dei governi europei, come della Casa Bianca, era ormai quello di “convincere” il leader del Pd a realizzare un governo con Mario Monti. Ora però tutto è cambiato...».
E l’incertezza regna sovrana. Le dichiarazioni ufficiali che giungono da Bruxelles vengono date come «scontate». Ma fuori dall’ufficialità, la preoccupazione è forte e trasversale, unendo cancellerie progressiste e quelle popolari: «Il successo del Movimento 5 Stelle non può essere sottovalutato, e se Bersani apre a Grillo l’Europa non griderà allo scandalo né si metterà di traverso, qualche concessione dovrà essere fatta, magari sulla Tav, l’importante è che si rispettino gli impegni presi e non si parli di un referendum sull’uscita dell’Italia dall’euro», sintetizza un’altra fonte diplomatica messa sotto pressione dal governo del suo Paese, tra i più influenti nell’area euromediterranea, perché decodifichi formule tipo «governo di scopo».
L’Europa continua a credere in Bersani, «un politico serio, equilibrato, sinceramente europeista», e sosterrà, nelle sedi e nei modi opportuni, il suo tentativo dato per scontato di formare un nuovo governo. Grillo non viene de-
monizzato «come potrebbe esserlo uno che raccoglie il consenso dell’oltre 20% dell’elettorato» ma nel «viaggio» de l’Unità tra diplomatici europei, la prospettiva di un «governo di stabilità», che vede impegnati Pd e Pdl «magari con un Berlusconi defilato» gode di un discreto sostegno. Nel borsino europeo prende quota il sostegno a quel «governo di minoranza», evocato da Bersani, che su alcune grandi questioni, anche riguardanti l’Europa, cerchi al Senato il sostegno, oltre che dei «montiani», quello dei «grillini». E c’è chi s’interroga sulla possibilità di esportare a livello nazionale il «modello siciliano» della giunta Crocetta, con rappresentanti del Movimento 5 Stelle che valutano le proposte del centro sinistra e appoggiano i provvedimenti che ritengono coerenti con il loro programma. A mettere tutti d’accordo è la consapevolezza che il «futuro dell’euro e dell’Europa non può permettersi un’Italia ingovernabile».
L’endorsement più esplicito per il leader del Pd viene dal ministro delle Finanze francese, Pierre Moscovici: l’Italia, afferma dovrebbe «dotarsi presto di un governo stabile e solido» e i rappresentanti politici dovrebbero «riunirsi intorno al leader della coalizione in testa, Pier Luigi Bersani».
Nel nostro «viaggio», sentiamo declinare in lingue diverse parole come «collaborazione», «dialogo», «senso di responsabilità». «Stabilità». L’impasse italiana crea sconcerto anche oltre Oceano. Sconcerto più che preoccupazione. Oggi arriva in Italia, John Kerry. Ufficialmente, il neo segretario di Stato Usa dovrebbe vedere solo il suo omologo italiano, Giulio Terzi; incontro dovuto alla riunione multilaterale sulla Siria, in programma domani a Villa Madama, ma i fermenti post-elettorali potrebbero indurlo a vedere altri leader italiani: all’Ambasciata Usa, come alla Farnesina, nessuna conferma, ma nemmeno smentite: tutto è possibile. A far compagnia a Kerry è un ponderoso dossier messo a punto, in tempi rapidissimi, dai suoi più stretti collaboratori: il dossier sul voto italiano. E su quel comico divenuto un leader politico. Vincente.

l'Unità 27.2.13
Il Pd non può rimanere a metà strada
di Emanuele Macaluso


IL 18 FEBBRAIO SCORSO, SU QUESTO GIORNALE, È APPARSO UN MIO ARTICOLO IN CUI, AUSPICANDO LA VITTORIA DEL CENTROSINISTRA,notavo tuttavia che l'impianto politico-elettorale della coalizione non era al passo con la realtà del Paese, soprattutto per tre motivi. Il primo era la sottovalutazione dello zoccolo duro e consistente di forze conservatrici che Berlusconi interpreta, ma che esistono in larga misura a prescindere da chi al momento le rappresenta: esistono con la ragione di avversare la sinistra non solo per quello che oggi è, ma soprattutto per quello che potrebbe essere. Il risultato elettorale mi pare che confermi questa analisi. La seconda osservazione riguardava la situazione economica e sociale del Paese, molto grave e molto sottovalutata, per cui è stato possibile assistere a una gara a chi offriva di più. Il Cavaliere, con la sua tracotanza e con la totale mancanza di senso dello Stato, è arrivato a promettere il rimborso dell’Imu. Grillo è stato un concorrente persino più prodigo: ha promesso mille euro a tutti gli inoccupati. Il centrosinistra è stato certo più responsabile, ma non ha allarmato i ceti popolari sul pericolo di approdare alle condizioni in cui si trova la Grecia, o peggio. Anche Monti ha cincischiato su questo punto. Ora, queste condizioni sul piano sociale appaiono all’orizzonte.
Il terzo motivo di grave preoccupazione riguardava la legge elettorale, la porcata voluta dalla destra e non combattuta come si doveva dalla sinistra. Questo avrebbe provocato delle conseguenze che attengono alla governabilità del sistema. E così è stato. In Italia il bipolarismo c’è sempre stato. Dopo il 1948, al governo c’era il centrismo degasperiano (Dc, Pli, Psdi, Pri) e all’opposizione il Pci e il Psi (la destra fascisteggiante aveva meno del 5 per cento). Anche col primo centrosinistra la coalizione di governo (Dc, Psi, Psdi, Pri) si presentava come un polo elettorale mentre l’altro era costituito dall' opposizione dei comunisti (insieme al Psiup). La destra e il Pli avevano cifre irrisorie. Seppure imperfetto, per l’impossibilità dell’alternanza di governo, sempre di bipolarismo si trattava. Con il crollo del Muro e l’avvio della seconda Repubblica, il bipolarismo ha avuto una codificazione più netta, ma dobbiamo ricordare che sia con Berlusconi sia con l’Ulivo di Prodi le coalizioni hanno subito crisi di governo.
Oggi, il fatto nuovo è che il «grillismo» ha praticamente distrutto il bipolarismo. Per la prima volta dal 1948, in Italia, abbiamo un triangolo politico (centrosinistra, destra e grillini) che si equivale nelle forze, e un centro che pure ha una sua consistenza politica. Dunque, non basta la legge elettorale per costringere al bipolarismo, perché i fatti ci stanno dicendo che è la politica che in definitiva decide tutto. E va osservato che, come scrivevo, anche se la porcata elettorale consente oggi al centrosinistra di avere una maggioranza alla Camera (ma non al Senato), un partito di governo non può fare riforme avendo ottenuto il 35% o, addirittura, il 30% alle elezioni. Avere mantenuto questa legge elettorale è stato grave, perché oggi ci troviamo effettivamente in una democrazia dimezzata: da una lato, gli elettori non hanno alcun potere di decisione sui parlamentari da eleggere; dall’altro le maggioranze parlamentari non sono corrispondenti alla realtà politico-elettorale del Paese.
Alla luce del risultato elettorale, vorrei fare un’unica osservazione al Pd che oggi è la sola forza politica di reale consistenza con cui ogni persona di sinistra deve rapportarsi. Io penso che dopo questo voto occorra una riflessione serena, ma realistica, sul profilo politico-culturale di questo partito e del suo gruppo dirigente. E lo dico perché un partito non può restare a metà strada tra essere una forza che opera per attuare programmi (o anche riforme) che non modificano sostanzialmente l’assetto della società e una forza che invece vuole ricollegarsi alla storia della sinistra italiana ed europea, per coniugare il riformismo con una prospettiva di trasformazione profonda della società, che la renda sempre più vicina all’eguaglianza sostanziale dei cittadini.
Anche in questi giorni sono stati pubblicati studi in cui si dimostra che il divario tra una minoranza di ricchi e potenti che si contrappone a una stragrande maggioranza di impoveriti senza capacità di decidere sul proprio destino, è ormai enorme. Penso che questo dovrebbe essere il tema fondamentale di una forza progressista capace di appassionare le nuove generazioni alla costruzione del futuro. Questa riflessione non può essere separata dal fatto che il Pd ha oggi la responsabilità, per come sono andate le cose, di fare il possibile per evitare che la crisi assuma sempre più caratteri tali da investire lo stesso assetto democratico del Paese e la sua collocazione in Europa. È una prova difficile ma questi sono i momenti in cui una forza politica può qualificarsi come decisiva non solo per l’avvenire dell’Italia, ma della stessa Europa. Il ruolo della sinistra, come in altri momenti della storia del Paese, può essere essenziale per evitare derive populiste o autoritarie e per dare alla democrazia, come vuole la Costituzione, i caratteri che coniugano la libertà con la giustizia sociale. L’unica cosa da evitare è far finta che non sia successo niente. Perché tutto è effettivamente cambiato, e tutto può evolversi in un senso o nell'altro.

 La Stampa 27.2.13
Il voto dell’Italia
Pd, scontro sotterraneo sulle prossime mosse Poi Bersani strappa l’ok
Dubbi sul metodo, alcuni dirigenti guardano al Pdl
di Carlo Bertini


La prima scossa del terremoto, per ora ancora di bassa intensità, viene registrata solo dai sismografi del Pd, ma lascia il segno al punto da far dire sottovoce a qualcuno che «il partito non c’è più se la linea viene decisa in separata sede da una cerchia ristretta, se viene comunicata urbi et orbi alle cinque di sera e se gli organismi dirigenti vengono convocati solo dopo a cose fatte». E sono in tanti a ritenere che questo modo di procedere in un momento così delicato e cruciale sia «quantomeno un po’ bizzarro», nella definizione di Matteo Orfini, che pure del segretario non è certo uno strenuo oppositore, anzi. Tanto per dare un’idea, ieri mattina alle dieci Anna Finocchiaro si presenta a Largo del Nazareno, convinta di trovare qualcuno con cui parlare e trova la sede del Pd ancora deserta, il leader è chiuso altrove in riunioni riservate con «gli emiliani» e la capogruppo stizzita se ne va. Altri arrivano più tardi e non sanno che fare se non raccontare che ci sono dirigenti che fanno anticamera fuori la porta del segretario. Che certo non deve essere dell’umore migliore se nella affollatissima conferenza stampa pomeridiana, alla domanda di un cronista che gli chiede se abbia pensato a dimettersi in queste ore, risponde con una frase sibillina: «Io non abbandono la nave, posso starci sopra da capitano o da mozzo, ma non la abbandono». E quando gli domandano se non ritenga che con Renzi la vittoria avrebbe potuto essere più netta, allarga le braccia: «Non so, certo può darsi tutto, ma con questi ragionamenti non vorrei oscurare un dato ben più profondo sui motivi di quanto è successo... »
Ecco, il clima è questo e il fatto è che la linea di un governo di minoranza con una sorta di appoggio esterno di Grillo, sponsorizzata da Bersani, non è la sola a tenere banco: c’è chi preferirebbe andare a votare subito senza prestare il fianco a inciuci di nessun tipo, contando sulla carta di una candidatura Renzi; chi ritiene debba essere cercata un’intesa anche col Pdl per un governissimo - e varie fonti identificano in D’Alema il principale sostenitore di questa tesi: che fa però diversi proseliti anche se considerata dagli uomini di Bersani «una linea di minoranza». E c’è perfino chi sponsorizza un governo affidato alla guida di un esponente di Grillo con l’astensione del Pd. Nella fattispecie si spinge a proporlo un fedelissimo di Franceschini come il toscano Antonello Giacomelli. Quindi non sorprende se la linea ufficiale lanciata dal segretario viene interpretata da molti maggiorenti come una sorta di «ponte» per poi arrivare ad un’intesa allargata anche al centrodestra, con una guida tecnica, che traghetti il paese alle urne dopo aver cambiato la legge elettorale e prese le misure necessarie a tenere a bada i mercati.
In questo clima di gran caos si consuma una giornata già densa di incognite sugli sbocchi futuri e col bicchiere colmo di veleni come nelle migliore tradizioni della sinistra. Nessuno nei conversari privati fa sconti sul fatto che il Pd abbia perso più di 3 milioni di voti rispetto al 2008 e nessuno si nasconde la sconfitta. Quando alle otto di sera va in scena un megavertice con i big del partito, membri della segreteria e del coordinamento nazionale, tutti i segretari regionali, il leader per prima cosa sconfessa qualsiasi volontà di dar vita a un governissimo. «No, perché sappiamo qual è la nostra responsabilità, il che significa saper cogliere l’esigenza di cambiamento, maggiore anche di quella espressa in campagna elettorale. Noi ci rivolgeremo alle Camere. Tocca a noi tirar fuori il Paese dall’impasse».
«Non possiamo diventare ora grillini inseguendoli sul loro terreno», obietta Fioroni. «Ma non possiamo neanche replicare lo schema del 2012, con Pd, Pdl e Monti che sostengono un governissimo», ribatte Orfini. E mentre nelle roccaforti rosse si riuniscono come da tradizione gli «esecutivi provinciali» per un’analisi del voto in cui i bersaniani sostengono la tesi che anche con Renzi sarebbe finita nello stesso modo, nel «caminetto dei big» a Roma Piero Fassino osserva che «serve una riflessione sulla forma tradizionale di partito che forse non funziona più: le primarie sono il massimo momento di vitalità...».

Corriere 27.2.13
Si sono spostati 16 milioni di elettori: il Pd perde un terzo di voti, il Pdl metà
Monti e 5 Stelle erodono il bacino dei «vecchi» schieramenti
di Renato Mannheimer


Il Movimento 5 Stelle, con più di 8,5 milioni di voti, è apparso il vero dominatore delle elezioni. Grillo ha attratto voti da tutti i partiti: in misura simile da ex elettori Pdl e Pd, ma anche (circa il 20% degli attuali votanti per il M5S) da chi, alle precedenti Politiche del 2008, aveva deciso di astenersi ed è stato questa volta motivato dal comico genovese a partecipare. Ancora, una parte consistente (16%) dei suffragi per Grillo proviene dai giovanissimi che si sono recati alle urne per la prima volta.
Dall'altra parte, i valori assoluti mostrano la débacle della gran parte dei partiti tradizionali. Il Pdl ha subito, in confronto al 2008, l'erosione maggiore, perdendo più di 6 milioni di voti. Solo circa metà degli elettori di Berlusconi ha confermato la propria scelta di cinque anni fa: molti si sono rifugiati, come si è accennato, nel Movimento 5 Stelle, ma anche, in misura maggiore (24%), verso l'astensione che si è fortemente accresciuta. La campagna elettorale di Berlusconi è riuscita comunque a recuperare consensi per il suo partito, che era stimato attorno al 16% a dicembre ed è giunto a sfiorare il 22%. Ma ciò non ha compensato il declino che, peraltro, si era già manifestato quando nel 2009 si è votato per le Europee. È vero, dunque, che il Pdl è uscito dalle urne meglio di quanto si ipotizzasse qualche mese fa, ma è vero anche che deve far fronte alla forte perdita di sostegno tra gli elettori.
Anche il tradizionale alleato di Berlusconi, la Lega Nord, ha assistito a un crollo di suffragi: dai 3 milioni del 2008 si è passati a meno di metà, 1 milione e 400 mila voti. Ha pesato, naturalmente, la crisi interna del partito, sino alla messa in disparte di Bossi e all'ascesa di Maroni e la forte controversia sull'opportunità o meno di allearsi con il Pdl. L'erosione della Lega è ancora più evidente se si prendono in considerazione le regioni del Nord: in Lombardia il partito di Maroni ha perso quasi 600 mila voti; più di 500 mila nel Veneto e oltre 600 mila in Piemonte.
Un calo significativo è stato subito anche dall'altro grande partito presente sul nostro scenario politico: il Pd. Quest'ultimo poteva contare su circa 12,5 milioni di consensi nel 2008. Domenica e lunedì il partito di Bersani ha colto circa 8 milioni e 600 mila voti, con un decremento di quasi 4 milioni di consensi. Il Pd gode comunque di un tasso di riconferma dei suoi votanti alle Politiche precedenti (61%) maggiore del Pdl. Ma quasi il 16% del suo elettorato passato si è diretto verso Grillo. La campagna elettorale di Bersani non è valsa dunque a conquistare nuovi consensi né, peraltro, a mantenere tutti quelli passati. Anche nella zona che una volta veniva chiamata «rossa», ove il Pd è sempre stato più presente, il partito perde voti. In Emilia-Romagna ha lasciato, rispetto al 2008, quasi 300 mila voti. Altrettanto accade in Toscana. Nel Lazio l'erosione supera i 400 mila voti. E in Puglia è pari a 330 mila voti. Si va dunque erodendo anche la base tradizionale, non ultimo a causa di importanti mutamenti avvenuti nella stessa composizione socio-economica dell'elettorato italiano.
L'erosione del consenso del Pd ha avvantaggiato anche Sel, la forza alleata posizionata alla sua sinistra. Quest'ultima aveva ottenuto poco più di 500 mila voti nel 2008, salendo sino a quasi un milione nel 2009 e crescendo di altri 100 mila voti in questa occasione. Nell'insieme, Vendola è riuscito, in controtendenza con le altre forze politiche, a recuperare più di 500 mila voti negli ultimi cinque anni.
Rivoluzione Civile di Ingroia ha invece eroso in larga misura il patrimonio di consensi portatogli dall'Idv di Di Pietro. Quest'ultimo poteva contare nel 2008 su quasi 2 milioni e 200 mila voti, scesi oggi con Ingroia a meno di 800 mila.
Ancora, colpisce il vero e proprio crollo di consensi subito dall'Udc: dai 2 milioni di voti delle politiche del 2008, si è giunti a poco più di un quarto: 610 mila voti. Parte dei consensi passati dell'Udc si sono diretti verso la lista Monti che ha ottenuto, in queste elezioni, quasi 3 milioni di suffragi, sottratti, oltre che a Casini, a Pd e Pdl.
In conclusione, sommando le perdite complessive delle principali forze politiche, si rileva come almeno 16 milioni di elettori abbiano abbandonato i partiti votati cinque anni fa per dirigersi verso altri lidi. Segno del forte mutamento dello scenario elettorale (con l'ingresso di nuovi attori tra cui, specialmente, Grillo e Monti), ma anche, in qualche modo, dell'estendersi dell'insoddisfazione verso l'offerta politica tradizionale.

Repubblica 27.2.13
Un terzo dalla sinistra, 18% dal Pdl così Grillo ha fatto il pieno di voti
I due blocchi hanno perso dieci milioni di consensi
di Silvio Buzzanca


ROMA — Il 60 per cento degli italiani ha scelto l’appartenenza, il 25 per cento ha optato per il cambiamento. La fotografia alle elezioni scattata dall’istituto di ricerca Swg non lascia dubbi: i primi, sia pure disincantati e delusi, «hanno dato il proprio voto al partito e alla coalizione cui si sente strutturalmente e ancestralmente legato». I secondi «hanno scelto di mandare un segnale di cambiamento».
Quel 25 per cento finito nelle casse elettorali di Beppe Grillo proviene per il 33 per cento da elettori che nel 2009 avevano scelto il centrosinistra, mentre il 27,28 per cento ha abbandonato il centrodestra. Eccoli allora i flussi elettorali, calcolati sul voto europeo del 2009: fra i voti di sinistra arrivati ai grillini l’11 per cento viene dal Pd, il 12 per cento arriva dall’Idv e il 7 per cento da altri. Sull’altro versante il Pdl ha pagato un 18 per cento, la Lega l’8 e altri l’1 per cento.
Il resto del bottino di Grillo arriva dall’astensione: il 37 per cento. Mentre il 6 per cento è stato strappato ad altri. Alla fine il Movimento 5Stelle è riuscito nell’impresa di a riportare alle urne più di 3 milioni di astenuti. Bisogna stare molto attenti — spiega allora il presidente di Swg Roberto Weber, «a dire che si tratta solo di un voto di protesta ». Secondo Weber, «ci sono due strati di elettorato: un primo, che vale il 10-12 per cento, ingloba nuove istanze democratiche di gestione del territorio e sviluppo. Il secondo strato è invece fortemente insofferente rispetto alla gestione dello Stato e ai partiti».
Se i grillini possono sorridere gli altri hanno ben poco da gioire. Il Pdl, per esempio, alle Europee del 2009 aveva 10 milioni 800 mila voti. Domenica ne ha conservato 5 milioni 900 mila che corrisponde al 55 per cento. I 4 milioni 900 mila mancanti sono finiti un po’ ovunque: 1 milione 600 mila li ha incamerati Grillo, altrettanti hanno preso la via dell’astensione, 700 mila hanno preferito Monti, altrettanti hanno scelto altri di centrodestra. E 300 mila hanno saltato il fosso votando il Pd.
Il Pdl si salva un po’, Swg parla di «diaspora di voti senza crollo», perché ha recuperato 900 mila voti dall’astensione e ha “cannibalizzato” 300 mila voti leghisti. Infine Berlusconi ha portato via anche 200 mila voti a Casini, fissando il risultato finale a 7 milioni e 300 mila voti. Risultato, si spiega, maturato negli ultimi due giorni di campagna.
visto che ancora venerdì c’era un 5 per cento di indecisi del Pdl che alla fine ha votato.
Dati che vengono confermati da un’altra ricerca condotta dal-l’Istituto Cattaneo di Bologna che fa il confronto con le politiche del 2008. Secondo il Cattaneo domenica il Pdl ha perso 6 milioni 292 mila 744 voti che rappresentano il 46 per cento della sua dote. Il dato peggiore Berlusconi lo registra nel centro dove perde il 50,01 dei voti, mentre tiene nel Nordest dove perde solo il 39 per cento. Il Pd, per il Cattaneo lascia sul terreno 3 milioni 435 mila 958 voti che rappresentano una contrazione del 28 per cento rispetto al 2008. Un dato omogeneo su tutto il territorio nazionale, ma con punte negative in Puglia (-44,8 per cento) e Basilicata e Calabria (-39,4 per cento).
I dati di Swg confermano anche il crollo della Lega nelle tradizionali roccaforti. Il Carroccio, per esempio, scende in Veneto dal 35 per cento delle regionali 2010 al 10/11 per cento di domenica. In questa regione i leghisti cedono il 24 per cento dei voti a Grillo, mentre il 20 per cento prende il via dell’astensione. Una diaspora che, secondo Swg, potrebbe essere fermato
solo se alla guida del movimento arrivasse il governatore Luca Zaia. Il disastro leghista è confermato anche dal Cattaneo che scrive di un perdita di consensi rispetto al 2008 del 54 per cento che in valori assoluti sono 1 milione 631 mila 982 voti. Frutto di una regressione nelle zone rosse (meno 68 per cento) e nelle zone del Nordest dove mancano all’appello il 68 per cento dei voti. Nel Nordovest i leghisti perdono molto in Piemonte (-64,3 per cento), ma compensano con il calo contenuto in Lombardia: meno 44,2 per cento.

Repubblica 27.2.13
La sede vacante
di Ezio Mauro


SI PUÒ prevalere nei numeri e nelle percentuali (cosa che certamente conta, e fa la differenza sui competitori) e tuttavia perdere le elezioni. È quel che è accaduto al Pd e alla sinistra italiana. Bisogna dire la verità. La coalizione guidata da Bersani dopo un lunedì di disillusioni e una notte di tormenti ha infine spuntato uno 0,4 per cento in più alla Camera, incassando un premio di maggioranza abnorme, che distorce il principio di rappresentanza, grazie al Porcellum voluto dalla destra. È davanti di un soffio anche al Senato, dove non c’è maggioranza possibile, e dove risiede dunque la nuova ingovernabilità del sistema politico e istituzionale italiano. Ma ha perso nel significato autentico del voto, nel suo risultato morale, nel segnale che hanno ricevuto gli elettori di sinistra e tutti i cittadini.
Il Pd non era solo il vincitore annunciato di un’occasione unica e straordinaria: era l’alternativa in campo ai vent’anni di berlusconismo e soprattutto alla sua fase finale, con l’incapacità a governare coniugata con la crisi di credibilità e la perdita verticale di consensi, e l’azione esterna degli scandali, degli eccessi, dei soprusi e degli abusi. Tutto ciò ha portato Berlusconi non solo alle dimissioni, poco più di un anno fa, ma praticamente all’abbandono della politica, senza più la fiducia nemmeno dei suoi uomini.
Alle prime elezioni dopo la fine di questa avventura, il Pd non riesce a imporsi come forza di governo alternativa a Berlusconi, ma anzi assiste alla resurrezione miracolosa del Cavaliere che gli sbarra il passo e sfiora addirittura la vittoria, al trionfo di Grillo che pesca abbondantemente nel suo campo con la sua proposta di rinnovamento della politica e sullo slancio diventa primo partito, all’afflosciarsi di Monti che doveva essere l’alleato di governo e che non riesce a compiere la trasformazione da bruco a farfalla, perché dal Premier tecnico non è sbocciato un leader politico.
L’ingovernabilità è dovuta a questo, prima ancora che ai numeri. La politica tradizionale – tutta insieme, Monti compreso – non ha capito che la vera posta in palio nelle elezioni era quella del cambiamento, cioè una risposta radicale e concreta alle disfunzioni e alle inefficienze della nostra macchina istituzionale e politica, e soprattutto alla sfiducia drammatica dei cittadini nei confronti del sistema. Quando la fiducia nei partiti scende al cinque per cento, e quella nel parlamento si ferma all’otto, siamo sotto la legge di gravità, nel senso che una democrazia non può stare in piedi, o almeno una repubblica non funziona. Gli scandali e il malgoverno hanno fatto il resto, allontanando ancora di più gli elettori dagli eletti, la lunga semina di antipolitica, per mesi e anni, ha preparato il terreno di coltura agli opposti populismi che si alimentano di crisi reale e fantasmi generici, come l’Europa, l’euro, la Germania, la Bce e le banche. La divaricazione tra la forza del vincolo europeo, che ci condiziona come Paese a rischio, e la debolezza della sua legittimità dal punto di vista del consenso democratico ha prodotto un esorcismo politico che semplifica la crisi mentre la nega, e la attribuisce comunque a colpe esterne, in una de-responsabilizzazione crescente. Col risultato paradossale di un Paese che accetta i sacrifici ma è incapace di elaborare una cultura condivisa della crisi, e un suo meccanismo di governo.
In una parola, è come se il governo della fase che viviamo fosse impossibile, per una fetta di pubblica opinione. O peggio, inutile. Dentro questa rinuncia ipnotica, si scavano percorsi a breve, abitati da illusioni politiche, fantasmi culturali. Nazionalizziamo le banche, anzi chiudiamole. Ignoriamo lo spread, che importa se cresce? Non badiamo ai mercati, tanto sono un po’ pazzi. Se la Germania pretende troppo, usciamo dall’euro. Sciocchezze che funzionano come false rassicurazioni, perché non esistono risposte banali a problemi complessi. Ma funzionano, come le false promesse sulle tasse che si possono restituire, i soldi che arrivano dalla Svizzera, il magnate-demiurgo che in ogni caso, se mancano i miliardi, li metterà di tasca sua.
Come vediamo da questi esempi, tutti presi dalla campagna elettorale, anche la politica è in sede vacante, e qualcos’altro di confuso, semplice ed elementare, consolatorio e primordiale ne ha preso il posto. Un negazionismo autarchico, insieme orgoglioso e compassionevole, che è un prodotto non secondario della crisi sociale del nostro
tempo. I populismi diventano l’es pressione compiuta ed organizzata di tutto questo. A destra, con l’incalzare sorridente e ideologico di Berlusconi. A sinistra (o meglio, in un luogo di pseudosinistra) con la predicazione comica e apocalittica di Grillo. Con una differenza non da poco: che mentre Berlusconi chiede un voto di autotutela, di protezione a breve, conservativo, esaurendo ogni antica spinta rivoluzionaria, Grillo al contrario è capace di intercettare non solo quella spinta ma una vera ansia di cambiamento, a cui si aggiunge una volontà di partecipazione, una disponibilità all’ingaggio, una manifestazione concreta della volontà di realizzare fisicamente il rinnovamento.
Ed è qui la vera energia che ha portato i grillini – nello sganghero del linguaggio mortuario del leader, nel terrore della democrazia interna – a diventare il primo partito. Ed è sempre qui e proprio qui la sconfitta del Pd. Un partito nato con l’ambizione di essere moderno perché nuovo, forte se contendibile, aperto in quanto scalabile, pronto a mettere ogni volta in discussione i suoi assetti locali e nazionali e le sue leadership con la religione delle primarie, non può infatti essere messo fuori gioco dalla sfida per il cambiamento, soprattutto quando diventa il tema centrale delle elezioni e di questa fase. Sembra quasi che la sinistra abbia rinfoderato tutta la spinta che veniva dalle primarie, che Bersani, battuto Renzi, abbia archiviato la questione cruciale del rinnovamento dei dirigenti, che il Pd abbia sotterrato i suoi talenti (frutto della partecipazione dei cittadini) invece di farli fruttare. Un riflesso di conservazione, di garanzia degli apparati e dei gruppi dirigenti, che già si spartivano posti di governo in organigrammi improbabili. Ma soprattutto la rinuncia a giocare la partita del cambiamento preferendo la battaglia navale delle alleanze, come se tutto fosse dentro il Palazzo e la vita non scorresse invece fuori. Come se non esistessero un modo, un codice, una cultura e un linguaggio moderni e capaci di declinare il tema del cambiamento della politica da sinistra, e non solo da postazioni populiste.
Ora il Pd pensa come forza di maggioranza alla Camera di avere il dirittodovere di fare la prima proposta per il governo. E pensa di farlo guardando ai grillini, e aprendo loro la strada per la presidenza della Camera. Ma anche qui, lo schema di gioco è vecchio e difensivo. Grillo non accetterà mai un’intesa di sistema, programmatica e di maggioranza, potrà dare l’appoggio a singole riforme, non di più. E allora la vera formula di sfida e insieme di ingaggio dei grillini è la partita del cambiamento, com inciando dalla politica e dalle istituzioni, con un pacchetto che comprenda il dimezzamento del numero dei parlamentari, il superamento del bicameralismo
perfetto, la riduzione drastica dei costi della politica, l’abolizione dei privilegi, una vera legge anticorruzione, il conflitto d’interessi, il cambiamento della legge elettorale.
Questa – insieme con le misure per il lavoro, col rigore combinato con l’equità, con la riduzione delle tasse per i ceti più deboli – deve essere la piattaforma non solo politica ma identitaria della sinistra dopo la sconfitta. Guardando ai cittadini e alla pubblica opinione più che alla società dei partiti. E proponendo il cambiamento invece di subirlo. Su una piattaforma di questo tipo, si può mettere l’onda grillina alla prova del parlamento. Sapendo che c’è una barriera da superare, che è il rispetto degli impegni presi con l’Europa, quando eravamo a rischio default: perché se Grillo in parlamento seguirà una strada che ci porta fuori dall’euro, nessun accordo è possibile, e il Paese giudicherà. A quel punto, potrebbe esserci lo spazio soltanto per una larga coalizione, che gli elettorati del Pdl e del Pd difficilmente potrebbero reggere. E infine resterebbe la carta estrema di un governo allo sbando, senza maggioranze precostituite, che potrebbe diventare un governo di scopo nella drammatica necessità di negoziare con l’Europa gli aiuti che ci toglierebbero l’ultima sovranità, o di tentare disperatamente di scongiurarli.
I mercati ci hanno già messi nel mirino per l’evidente, clamorosa instabilità scelta dagli elettori. Dopo il voto del Senato siamo infatti davanti al caso di scuola del “governo impossibile”, o di governi tutti anomali, impropri e di breve durata. Al fondo, nuove elezioni come la Grecia, con la rabbia e la protesta ingigantite nelle urne. Perché non provare a riformare davvero la politica, subito e radicalmente, invece di aspettare che venga sepolta dall’onda dell’antipolitica? È una convenienza per il Paese, un’opportunità per tutti, ma è una necessità per la sinistra. A patto di essere credibili, ecco il problema. E dunque di avere il coraggio di mettere subito e davvero in gioco tutto, dopo la sconfitta: leadership, premiership, partito e consenso elettorale pur di salvarsi l’anima e approdare nel mondo nuovo.

il Fatto 27.2.13
Bersani vede le 5 stelle
“Non abbandono la nave”
di Wanda Marra


Io non sono uno che abbandona la nave, eh. Posso starci da capitano o da mozzo”. Ha il volto grigio come il suo vestito, Pier Luigi Bersani. Scuro come la cravatta che ha sostituito quella rossa. Gioca con gli occhiali, mantiene lo sguardo basso, curvo sulle gambe accavallate. All’Acquario, dove da lunedì è approntata la sala stampa del Pd per i giornalisti di tutto il mondo, ci arriva alle 17 di ieri. Dopo più di 24 ore di attesa collettiva. È rimasto chiuso in casa per tutta la durata dello spoglio.
DALLE dimissioni al governissimo, a un pronto arruolamento di Renzi per un voto il più vicino possibile, si sono fatte le ipotesi più disparate. Il segretario alla fine ha capito di avere un’unica carta da giocare per salvare il salvabile: guidare un governo, con l’appoggio di Grillo. Il “populista”, il “fascista”. Ma ora è cambiato tutto: il Pd ha sfiorato la catastrofe. “È chiaro che chi non riesce a garantire la governabilità del suo Paese non può dire di avere vinto le elezioni. Non abbiamo vinto, anche se siamo arrivati primi e questo è anche l'oggetto della nostra delusione". Esordisce così Bersani. Arriva sul palco passando da dietro. Nessuna scenografia, nessuna colonna sonora. Per i primi minuti i click delle macchine fotografiche fanno da sottofondo al tono rotto del segretario. Solissimo, al centro del palco, è un uomo stanco. Sconfitto. Ma non molla. Lo stato maggiore del partito non si fa vedere. C’è solo qualche giovane dirigente (Or-fini, Fassina) e i fedelissimi dello staff. Analizza i risultati: “Hanno pesato due elementi: la crisi e la non accettazione di una ricetta basata solo su austerità e rigore. E il rifiuto della politica come si è presentata”. Politica che è stata “insufficiente”. Non dice neanche una volta “ho sbagliato”, il segretario. Ma l’ammissione del fallimento è nel ragionamento. A partire dall’appoggio al governo Monti, quello del rigore. Immediata una rimozione: “Non siamo noi che abbiamo impedito di cambiare la legge elettorale”. Ma Bersani si affida di nuovo alla testardaggine emiliana. Metà partito tifa per il governissimo con Berlusconi, per l’inciucio tanto più politicante e rassicurante. Più realistico. Giacomelli (corrente Franceschini) organizza una fazione per sostenere che l’incarico deve andare a Grillo. Ma Bersani impone la linea: “La prima parola tocca a noi. Proporremo un programma essenziale da rivolgere al Parlamento su alcuni temi: riforma della politica, nuova legge sui partiti, moralità”. Pensa alla legge elettorale, al conflitto d’interessi, ai tagli ai costi della politica, a misure per lavoro e sviluppo. Da offrire soprattutto ai 5 Stelle. Ai quali chiede una fiducia non solo tema per tema. Per un governo che duri qualche mese. “Stavolta non ci stiamo a gestire per gestire. Rovesciamo lo schema e pensiamo a cosa serve al Paese. Nessuna alleanza a tavolino”. Come dire a Napolitano: non ci chieda ancora di donare il sangue. E, allora, eccolo l’appello ai 5 Stelle, l’unico momento in cui la voce di Bersani vibra: “Fin qui hanno detto 'tutti a casa'. Adesso ci sono anche loro e o 'vanno a casa' anche loro o dicono cosa vogliono fare per il loro Paese, il paese dei loro figli". E subito, offre la presidenza della Camera. Altrettanto netto il no a Berlusconi: “Il Paese non credo tolleri altri balletti di diplomazia politica. Si riposino... ”. Rivendica la campagna dei toni bassi: “In coscienza non me la sono sentita e non me la sento di coltivare degli inganni. Non sono capace”.
ALLARGA le braccia: si è cucito addosso una linea politica. E adesso è lì, pronto a portare la croce fino a farcisi inchiodare. Ma non cambia. A chi gli chiede se sarebbe stato meglio candidare Renzi: “Ho letto camionate di senno di poi. Ma più di far le primarie cosa dovevo fare? ”. In serata c’è il coordinamento del Pd. Nessuna resa dei conti, a parole tutti con il segretario. Per ora. Forse il tema nuovo segretario tornerà nelle prossime settimane. Intanto, Bersani pensa a “un governo di combattimento”. Nessuno degli organigrammi che sono girati in questi mesi va bene. È tutto da inventare.

Corriere 27.2.13
Stefano Fassina
«I temi di confronto? Sul rigore si cambi rotta e parliamo del reddito»
intervista di Alessandro Trocino


ROMA — «Sarebbe un suicidio scommettere su un'alleanza con Berlusconi. Noi presenteremo un governo con mandato limitato, per rispondere all'emergenza morale ed economica. Verificheremo la disponibilità di chi vuole affrontare i problemi del Paese, a cominciare dal Movimento 5 Stelle. Altrimenti, Grillo dovrebbe risponderne ai suoi elettori». Stefano Fassina, responsabile economico del Pd, prova a fare il punto su una situazione più che aggrovigliata.
Il Pd è andato peggio del previsto.
«Abbiamo pagato la caduta verticale di credibilità del sistema, nonostante le nostre responsabilità siano state circoscritte e comunque infinitesimali rispetto ad altri».
Nessuna autocritica?
«Non credo che le campagne spostino in modo significativo i voti. Questo risultato è frutto di sommovimenti più profondi».
Berlusconi è tornato a galla.
«Ha recuperato rispetto agli abissi in cui era caduto: ma dal 38% è arrivato al 22. E la Lega dimezza l'elettorato. Con questo non voglio certo dire che abbiamo vinto le elezioni».
E Grillo?
«Le domande che tanti cittadini gli hanno affidato sono domande vere, a cui va data una risposta».
Potevate darle prima.
«Molte di queste proposte le abbiamo fatte: dalla riduzione dei parlamentari al finanziamento dei partiti. Ma ricordo che eravamo minoranza».
E ora?
«Bersani proporrà soluzioni concrete sui costi della politica, sullo statuto dei partiti, sul finanziamento, su corruzione e conflitto d'interesse. Mi auguro che gli eletti si confrontino. Del resto, la protesta si intercetta in campagna elettorale, ma quando si siede in Parlamento, si cercano soluzioni».
Un governo sui singoli temi?
«Con un voto di fiducia iniziale».
Difficile che M5S sia disponibile.
«Non darei una probabilità così bassa a un governo del genere».
Che proposte economiche farete?
«Partiremo dal pagamento dei debiti della Pubblica amministrazione verso le imprese, dal finanziamento della cassa integrazione, dalla cancellazione dell'aumento dell'Iva».
La politica del rigore che fine fa?
«Il voto è una chiara indicazione che occorre cambiare rotta. Un cambiamento che va condiviso a livello di eurozona. E ovviamente non portare a regressioni devastanti, come l'uscita dall'euro».
E il reddito di cittadinanza?
«Credo che si possa partire con un'universalizzazione dell'indennità di disoccupazione: dare a tutti quelli che perdono lavoro un sostegno».
Se Grillo dicesse no, un governo con il Pdl sarebbe possibile?
«No, sarebbe impraticabile».
Altre soluzioni?
«Non ce ne sono».

Repubblica 27.2.13
Celentano: Grillo incarna la rabbia dei maltrattati. Bersani ora creda in lui
“A Beppe dico un solo no: il referendum sull’euro”
di Dario Cresto-Dini


ADRIANO Celentano, come si sta nei panni del vincitore? Dico così perché il suo sostegno a Beppe Grillo è stato totale e manifestato pubblicamente. Credo sia la sua prima vera vittoria politica.
O sbaglio?
«Non credo di aver vinto qualcosa, se non il grande regalo che Grillo ha fatto a tutti gli italiani, compreso me».
Si attendeva che potesse ottenere un risultato così sorprendente nei numeri, tanto da risultare alla fine il primo partito alla Camera?
«Fin dai suoi primi interventi, e parlo di qualche anno fa, ho subito visto in lui il SEME del cambiamento. Quel seme che, sotto le fronde della sua innata comicità, si nascondeva, forse volutamente, ai tanti FARISEI concentrati solo a deriderlo. Lui ha incarnato la rabbia degli italiani, stanchi di essere spudoratamente MANIPOLATI per i loro sporchi interessi e giochi di potere in tutti i settori».
Sia sincero, il programma di Grillo, che ho letto, appare a tratti confuso e farraginoso. A tratti anche banale. Lei lo ha letto? Come lo giudica?
«Si, l'ho letto. Non ho trovato niente di banale. Può darsi che manchi qualche voce per essere perfetto, ma gran parte dei suoi punti sono condivisibili: L'ABOLIZIONE DEL FINANZIAMENTO ai PARTITI, l'ABOLIZIONE delle PROVINCE che nessuno ha voluto fare, l'ABOLIZIONE della DE-VOLUTION fatta dalla Lega che, affidando il finanziamento alle regioni non fa altro che accentuare le differenze fra i territori dove, anche non volendo, è facile cadere in comportamenti razzisti, in cui più che altro prevalgono gli obiettivi economici rispetto alla SALUTE. E ancora, la battaglia agli inceneritori che uccidono (vedi l'Ilva di Taranto), il dimezzamento dei parlamentari e altri e, senza snocciolare tutto il programma, già questi darebbero al Paese segni di vero cambiamento».
Ma per governare un grande paese non basta scagliarsi contro il cemento e puntare a energie alternative.
«Il fatto è che, persino in nome delle energie alternative, si è trovato il modo di fregare la gente, Ha visto il Molise? E' letteralmente bombardato dalle pale eoliche. Anche quello è un modo per distruggere la terra».
Lei crede davvero che Grillo e i suoi ragazzi siano in grado di occuparsi di occupazione, di pensioni, di sanità, di temi europei, degli impegni internazionali assunti dal governo Monti, impegni che siamo chiamati a onorare?
«Lei forse non ci crederà ma se guarda più attentamente le facce di quei ragazzi così pieni di entusiasmo si accorgerà che anche il suo respiro sarà meno affannoso. 'Occuparsi di occupazione', pensioni e sanità non è difficile quando si è onesti. E per non sbagliare basta essere TRASPA-RENTI prima di tutto con se stessi. È questo che ci sta dicendo Grillo».
Lei mi sta dicendo che il Movimento 5 stelle sarebbe in grado di occupare sin da subito posti di responsabilità istituzionale?
«Si. Le sto dicendo questo».
Si rende conto che, visti i risultati del voto, siamo in una situazione di quasi assoluta ingovernabilità?
«Io toglierei il quasi».
E allora? Come si gestisce questo nostro povero paese?
«Bersani, che ha vinto le elezioni ma non abbastanza, dovrà sedersi al tavolo con Grillo e vedere quali sono i possibili punti di incontro. Qualcuno, per esempio, dovrà rinunciare alla Tav. E per Grillo non credo che questo sia un problema. Poi ci sono le grandi opere, gli F35, lo smaltimento dei rifiuti e tante altre cose che, purtroppo, li accomunano appassionatamente in un profondo disaccordo».
Lei sta dimenticando il ruolo del Cavaliere, una sorta di araba fenice della politica italiana. Pensi che sia finito e lui risorge, un altro uomo di spettacolo.
«Eccolo. A questo punto entra in campo il secondo vincitore: Berlusconi. Con una 'vittoria' diversa da quelle a cui era abituato. Questa si può dire che è una vittoria LAMPO. Una vittoria che se non stai attento si può perdere anche il giorno dopo, se non addirittura mentre ti consegnano il 'premio di maggioranza'. Qualche punto di incontro fra lui e Bersani c'è. Tutti e due parlano di edilizia, non importa quale ma bisogna riaprire i cantieri e costruire. Anche cose che non hanno senso, ma costruire. Pare che l'edilizia sia l'ultimo baluardo contro la crisi. Senza contare che è proprio nell'edilizia l'origine del fallimento della politica. Ma basterà questo per metterli d'accordo? E quantunque lo fossero, poi dovranno sempre fare i conti con Grillo».
Ha parlato di programma quasi perfetto. C’è un tema difeso dal comico genovese sul quale non è d’accordo?
«Si. Il referendum sull'euro. Penso che uscire dall'euro sarebbe un cataclisma. Nel giro di una settimana l'Italia si troverebbe in ginocchio. Gli investitori e i grandi finanzieri si spaventerebbero, con una inevitabile fuga di capitali all'estero e con un aumento dell'inflazione dovuto a un'impennata dei prezzi sui consumi di prima necessità. Un brusco innalzamento dei costi soprattutto per quanto riguarda le fonti energetiche da cui noi siamo fortemente dipendenti. Senza contare l'effetto panico, come ad esempio la richiesta di ritirare i propri risparmi da parte dei risparmiatori. Con uno spread al massimo, il quale indurrebbe lo Stato a pagare più alti tassi di interesse ai creditori. E poi, mi domando, che importanza avrebbe questo referendum se poi risultasse vincente l'idea di non uscire dall'euro?».
Quali sono stati gli errori compiuti da Bersani e dal Pd in campagna elettorale?
«Non ho visto errori da parte di Bersani, se non quello di non aver calcolato che il tempo è cambiato. E quindi non aver capito che il tempo era Grillo».
Il voto sarebbe andato diversamente con Matteo Renzi candidato premier della coalizione di centrosinistra?
«Per certi aspetti sì. Con Renzi il Pd sarebbe stato all'altezza dei tempi, ma non so fino a che punto. Berlusconi forse non si sarebbe rituffato. Tuttavia il Pd, anche con Renzi, non avrebbe minimamente intaccato l'ascesa di Grillo. Queste elezioni erano un uragano annunciato dal quale non si poteva sfuggire».
Adriano, quale scenario politico si prefigura adesso nella sua testa di artista-politico?
«Grillo non è un irresponsabile, appoggerà il governo qualunque forma abbia. Ma non potrà assolutamente retrocedere dai punti che riguardano il suo programma: proprio in virtù di quei PUNTI lui è esploso in quel CAMBIAMENTO che gli italiani si aspettavano».
Quindi il messaggio è?
«O i partiti faranno quello che dice lui o, altrimenti, come egli stesso prevede, si ritornerà alle urne».
(Prima di mandare le risposte Adriano Celentano fa una telefonata di conferma. Dice: «Sto scrivendo, ma non riuscirò a rispondere a tutte le domande, ci impiegherei due giorni». Chiede di lasciare in maiuscolo le parole che, come sua abitudine, vuole rafforzare).

La Stampa 27.2.13
Il voto dell’Italia
Gli ottantacinque giorni che hanno gelato il Pd
Dall’euforia per i sondaggi dopo le primarie alla delusione nelle urne Campagna difensiva, messaggi deboli, scarso ascolto dei dirigenti locali
di Fabio Bertini


Per tre mesi l’imminente vittoria del Pd veniva annunciata dai suoi capi ad ogni sorger del sole, ma nel frattempo la dote democratica andava sfumando, un po’ alla volta. Ottatantacinque giorni iniziati il 3 dicembre del 2012: erano trascorse poche ore dalla vittoria definitiva alle Primarie e un Bersani gasatissimo e spiritoso decise di lanciare la sua campagna elettorale, optando per i superlativi: definì il suo partito «uno squadrone» e disse: «la prossima avventura è il governo». In quelle stesse ore gli istituti di sondaggi offrivano solidi argomenti all’euforia di Bersani. Per la Ipsos di Nando Pagnoncelli il Pd era al 36% nelle intenzione di voto, mentre la coalizione progressista, assieme a Sel di Vendola e al Psi di Nencini era quotata al 43%, con un vantaggio abissale: nientedimeno che 22 punti sul centrodestra. E la Swg misurava il distacco tra i due schieramenti in 15 punti. Vantaggi formidabili, a rigor di logica incolmabili. Certo, in quei giorni in campo c’era soltanto il Pd: sul fianco destro, Silvio Berlusconi insisteva nel suo tiramolla - scendo in campo, no, forse mentre Antonio Di Pietro - inchiodato una volta per sempre alla risposta data ad una giornalista di “Report” (« Mia moglie non è... mia moglie») - aveva trascinato la sua Idv ad un destino senza speranze, fotografato dall’1,9% della Ipsos.
Negli ottantacinque giorni successivi quel vantaggio di 15-22 punti si è azzerato. Un fenomeno originale, che si presta ad essere studiato dai politologi. La prima mossa - a metà dicembre - è la produzione di un manifesto con la faccia (seria) di Bersani, che contiene quello che sarà il logo-refrain di tutta la campagna elettorale: l’Italia giusta. In quell’aggettivo - giusta - preferito ad altri, c’è quasi tutta la campagna bersaniana. Campagna rassicurante, che scarta l’aggettivo «nuovo», cancella dai comizi termini come «riforme radicali», volentieri lasciati al professor Monti. Tanto è vero che, a metà gennaio, l’ennesima sortita di Nichi Vendola, è stroncata così: «Niente patrimoniale». Oltre al refrain «più lavoro», il messaggio subliminale è di continuità. Per dirla con un sondaggista come Roberto Weber della Swg, che viene dal mondo della sinistra, «il «Pd ha giocato di rimessa e questo corrisponde ad una precisa cultura politica, l’idea di una campagna elettorale come una guerra di posizione: si schierano le truppe e si avanza di qualche metro al giorno». Come dice un giovane dirigente del Pd: «Bersani ha scavato la sua trincea ed ha aspettato lì, scommettendo che il terreno conquistato in assenza del nemico, gli bastasse a vincer la guerra»
Ma nel frattempo, come in tutte le campagne elettorali, la guerra è diventata di movimento. L’11 gennaio parte lo Tsunami tour di Beppe Grillo e il Pd scommette sul fatto che il comico faccia un’altra gara, diversa da quella dei partiti “veri”. L’unico a segnalare il pericolo e a sollecitare un cambio di nemico, è Massimo D’Alema. Soltanto a poche ore dalla fine della campagna elettorale i ripetuti allarmi che arrivano dalla periferia - insistenti quelli dai dirigenti toscani - vengono raccolti da Bersani che accusa Grillo di essere «un miliardario». Resterà un assolo. Anche perché, secondo uno dei fondatori del Pd come Arturo Parisi, «quella di Bersani è stata una campagna interpretata tutta in modo proporzionale e, a forza di parlare soltanto ai propri elettori, si è perso per strada la stragrande maggioranza di loro, che lasciati liberi sono entrati nella disponibilità di Grillo». Il 3 febbraio si è mosso anche Berlusconi, che l’ha sparata grossa, annunciando la restituzione integrale dell’Imu. Bersani ha puntato a ridicolizzare la promessa, ma continuando a mantenere il profilo basso sulle grandi proposte per far uscire il Paese dallo stallo. In questo interpretando un’altra idea di lungo corso, di tradizione Pci, quella per cui «se ti esponi, sei attaccabilie», come ricorda Weber. Ma così, dopo aver rinunciato all’idea di contrastare politicamente Grillo e contendergli gli elettori, è stata accantonata anche l’idea eguale e contraria: conquistare voti di elettori delusi dal centrodestra e ieri si è scoperto che sono stati ben 7 milioni gli italiani non hanno votato centrodestra.
E nel frattempo lasciando correre l’idea che alla fine la vittoria sarebbe arrivata. Sostiene Iginio Ariemma, già portatoce di Achille Occhetto negli anni della svolta: «Dare per scontata la vittoria è stato uno di quegli errori che la sinistra ha sempre cercato di evitare, perchè liberi due diversi sentimenti: da una parte ti viene contro il voto di protesta, dall’altro la prospettiva di successo induce i più incerti a votare in altro modo, perché tanto si vince... ».
Una campagna elettorale uniforme, compatta nella quale è difficile rintracciare una caduta, un momento di svolta. Dice Nico Stumpo, capo dell’Organizzazione, uno degli artefici delle Primarie: «No, non abbiamo mai avuto un momento nel quale abbiamo percepito una particolare difficoltà. Lo si è visto soltanto a cose fatte: l’elettore di destra aveva meno remore a dichiarare la propria propensione a votare per Grillo, mentre gran parte di quelli di sinistra avevano resistenze ad ammetterlo. E questo ha tratto in inganno i sondaggisti e non solo loro». Il risveglio è stato amaro. Il Pd di Bersani ha preso due milioni di voti in meno del Pd (sconfitto) di Veltroni e la coalizione progressista PdSel ne ha presi tre milioni e trecentomila in meno persino della indimenticata «gioiosa macchina da guerra» guidata da Achille Occhetto e sconfitta nel 1994 da un avversario che allora era davvero imprevedibile: si chiamava Silvio Berlusconi e sarebbe risceso in campo altre cinque volte.

La Stampa 27.2.13
La sinistra che non impara dai suoi errori
di Luca Ricolfi


Le domande sono tante, ma ognuno se ne fa una diversa. C’è chi non si capacita che quello di Grillo sia diventato il primo partito italiano. C’è chi non si capacita che le ambizioni «terzo-poliste» di Monti e Casini siano state così severamente punite dagli elettori. C’è chi non si capacita che cattolici e comunisti siano praticamente scomparsi dal panorama politico italiano. C’ è chi non si capacita che Bersani sia riuscito a dissipare un vantaggio che sembrava incolmabile. E c’è chi non si capacita del ritorno di Berlusconi, una specie di gatto dalle sette vite.
Personalmente, trovo tutti questi stupori ben poco ragionevoli, e non lo dico con il senno di poi. Che tutti questi eventi fossero perfettamente possibili, infatti, mi è capitato di scriverlo ripetutamente dalle colonne di questo giornale, per lo più suscitando la costernazione dei miei amici: non volevano credere che il premio di maggioranza potesse vincerlo persino Grillo, non riuscivano a concepire che le elezioni potesse vincerle anche Berlusconi, non vedevano che cosa ci fosse di autolesionistico nell’alleanza fra Monti e il mondo cattolico. Ecco perché, a me, nulla di quel che è accaduto pare davvero stupefacente.
Questo non vuol dire, però, che non sia stupito anch’io. Solo che è un’altra la cosa che mi stupisce. Non il fatto che Bersani, pur vincendo (il premio di maggioranza), sia il grande perdente di questa tornata elettorale: questo non era scontato, ma era nell’ordine delle cose prevedibili. Quello che, ancora oggi, continua a suscitare il mio stupore è invece il fatto che la sinistra, questa sinistra un tempo egemonizzata dal Pci e ora tenuta insieme dagli ex comunisti, sia assolutamente incapace di imparare dai propri errori. E quindi sia, per così dire, rigidamente programmata per ripeterli, cocciutamente e senza alcuna speranza di imparare alcunché dal proprio passato.
E dire che, per capire quali fossero gli errori da evitare, non ci voleva una mente molto raffinata. Il più grave, spiace dover sottolineare una simile ovvietà, è quello di non ascoltare la gente. Bersani ha offerto affidabilità, credibilità, rassicurazione (il famoso «usato sicuro») a un elettorato che, semplicemente, voleva prima di tutto un’altra cosa: un rinnovamento radicale della politica. Eppure quella richiesta di cambiamento era chiarissima e antica, visto che aveva già preso forma più di dieci anni fa (era il 2002), con la famosa invettiva-profezia di Nanni Moretti in piazza Navona: «Con questi dirigenti non vinceremo mai! ».
Perché non hanno saputo o voluto ascoltare questo sentimento, che pure attraversa il popolo di sinistra da così tanti anni? Perché la classe dirigente della sinistra non impara mai dai propri errori? Perché non ascolta il suo elettorato?
Me lo sono chiesto tante volte, perché anch’io - se molte cose cambiassero - potrei esserne parte. E la conclusione cui sono arrivato è che la ragione vera, la ragione profonda, per cui la sinistra non sa ascoltare è una soltanto: è la fortuna. La sinistra può permettersi - o meglio: si è potuta permettere finora - di ignorare completamente il suo popolo per la sfacciata fortuna che la accompagna. La sinistra è come Gastone Paperone: almeno nella seconda Repubblica è stata così fortunata da potersi sottrarre a ogni controllo di realtà.
In che cosa è consistita la fortuna della sinistra?
La prima fortuna è di essere riuscita a vincere ben tre elezioni, quelle del 1996, quelle del 2006 e quelle attuali, nonostante la maggioranza degli italiani non l’avesse scelta. Vincere per il rotto della cuffia significa essere fortunati, ma è una fortuna che si paga, perché ti fa credere di aver fatto tutto giusto anche se non è vero. La sinistra ha da sempre il problema di allargare i propri consensi al di fuori della cerchia dei propri sostenitori tradizionali, ma non lo affronta mai perché una maledetta fortuna la accompagna in ogni tornata elettorale. Ciò vale, in particolare, per la tornata del 2006 e per quella attuale. In entrambe il candidato più capace di allargare il consenso, il candidato che avrebbe attirato voti anche dal campo avverso, il candidato che avrebbe assicurato un’ampia maggioranza in Parlamento, era una persona diversa da quella che poi effettivamente venne scelta. Nel 2006 il consenso di Veltroni era notoriamente molto più ampio di quello di Prodi. Oggi il consenso di Renzi è notoriamente molto superiore a quello di Bersani. Eppure l’apparato del partito non se ne cale: come in un tipico concorso universitario, promuove il candidato interno, o quello che ha le simpatie dei baroni, e dice agli outsider che devono avere pazienza, il loro turno verrà. Peccato che, quando il loro turno arriva, il giocattolo è rotto: a Veltroni venne consegnato un Pd lacerato dalle lotte interne e dai due anni di non-governo di Prodi, a Renzi verrà (forse) consegnato un partito militarizzato da Bersani e ancora un po’ ostile al ragazzino. Se avesse avuto meno fortuna, se non fosse riuscita a nascondere con vittorie tecniche sconfitte politiche, la sinistra avrebbe iniziato ben prima quel processo di rinnovamento che da tanto tempo attendiamo.
C’è poi una seconda fortuna, che nessuno nota mai. Negli ultimi venti anni l’economia, in Italia, è andata sistematicamente peggio che nel resto d’Europa ma, curiosamente, la destra ha governato sempre in anni di congiuntura negativa (2001-2005 e 2008-2011), la sinistra sempre in anni di congiuntura positiva (1996-2000 e 2006-2007). Il nesso è del tutto casuale, perché la congiuntura dipende essenzialmente dal resto dell’Europa, ma mi sono divertito a calcolare le probabilità che - in un quindicennio - la «dea bendata» distribuisca i suoi favori in modo così squilibrato: sono così basse che verrebbe da pensare che la dea non sia bendata come si dice. Anche questo ha contribuito a ritardare una diagnosi spietata su se stessa e sulle proprie politiche.
Ma forse la fortuna-sfortuna più importante della sinistra è il suo elettorato. Delle tre opzioni di cui, secondo la celebre analisi di Albert Hirshman, l’elettore-consumatore può servirsi, l’elettore di sinistra ne trascura sempre una: la defezione (exit). All’elettore progressista piacciono solo le altre due: la protesta (voice) quando le elezioni sono ancora lontane, la lealtà (loyalty) al momento del voto. L’elettore di sinistra, secondo tutte le indagini, è il più fedele, il più leale, o il più gregario, se preferite. Può mugugnare, indignarsi, criticare, parlare male del Pd per anni e anni ma poi, arrivato al dunque, immancabilmente mette la crocetta nella casella giusta. Con ciò, verosimilmente, raggiunge lo scopo che si prefigge (togliere voti all’odiato Cavaliere), ma ottiene anche un effetto che forse non desidera: quello di permettere alla classe dirigente del Pd di rimandare, ancora una volta, il momento di cambiare. Rinunciando a inviare ai politici l’unico segnale che essi (talora) mostrano di comprendere, l’elettorato di sinistra è destinato a tenersi i dirigenti che ha. Non per sempre, perché nessuno è eterno, ma più del necessario, questo sì.

La Stampa 27.2.13
Va tutto bene
di Massimo Gramellini


Va bene, va tutto bene. La capacità del Pd di perdere le vittorie ha raggiunto livelli talmente sofisticati che persino un tifoso del Toro si sente pervadere da ammirato stupore, ma va tutto bene. Bersani è uscito disidratato dalle urne e beve venti bicchieri d’acqua in un quarto d’ora di conferenza stampa, ma va bene, va tutto bene. Domani si dimette il Papa, il Presidente della Repubblica è in Germania, il governo chissà, e a presidiare Roma è rimasto soltanto Alemanno, ma non abbiate paura: va tutto bene (anche perché non dovrebbe nevicare). Col quattro per cento dei voti la Lega controlla le tre Regioni più importanti del Nord e minaccia di trasferirle in Carinzia, ma va tutto bene, davvero. Gli uomini di Ingroia danno colpa della débâcle all’imitazione di Crozza (ma dai, era Crozza?), però va tutto bene. Una neosenatrice dei Cinquestelle, intervistata alla radio, non sa esattamente quanti siano i componenti di Camera e Senato che vorrebbe giustamente dimezzare, ma va bene, benissimo così (magari una sbirciata a Wikipedia, la prossima volta). I tedeschi, gli unici ad avere votato per Monti (per Fini e Casini non ce l’hanno fatta neanche loro) oltre a tutto il resto pretendono di esportare la stabilità e, avendo le elezioni a settembre, potrebbero decidere che il vincente governerà loro e il perdente noi, ma credetemi: va bene, va tutto bene.
Non sono impazzito, anche se la situazione politica me ne darebbe ampia facoltà. Mi sono solo convinto che l’Italia versava in un tale stato catatonico che per rianimarla serviva un elettrochoc. Ora siamo svegli. Nella melma più nera, ma svegli. Non resta che venirne fuori, ma questa da millenni è la nostra specialità.

Corriere 27.2.13
Il Lazio volta pagina, vince Zingaretti
Il centrosinistra si riprende la Regione. «Ora innovazione e trasparenza»
di Alessandro Capponi


ROMA — Alle sette e trenta della sera, con un spoglio delle schede fermo al trenta per cento dei seggi, lento che più non si potrebbe, Nicola Zingaretti arriva nel Tempio di Adriano, in piazza di Pietra, a due passi dal Pantheon, e parla da governatore del Lazio: la proporzione definitiva della vittoria arriverà in nottata, ma il risultato non è in discussione. È in giacca blu, camicia bianca, senza cravatta. Sorride, con quella faccia un po' paffuta: «Mi ha appena chiamato Storace per congratularsi, lo ringrazio. Da oggi sarò il governatore di tutti». La dedica, scontata, è «per mia moglie e le due mie figlie». Poi si parla di politica: «In un quadro nazionale di incredibile frammentazione e partendo dal 29,8% della Camera, il risultato che si profila nel Lazio è straordinario, attorno al 39-40 per cento dei consensi. Significa che ci sono stati tanti voti disgiunti». Dallo staff parlano del «10% in più». Di sicuro, a oltre metà scrutinio, Zingaretti ha quasi 200 mila preferenze più dei partiti che arrivano al 41,8%. Su 4.968 sezioni scrutinate su 5.267 — all'una e mezza del mattino, a spoglio quasi finito — Zingaretti ha il 40,6% dei consensi, Storace il 29,4%, il «grillino» Davide Barillari il 20,3%. Molto più staccati Giulia Bongiorno di Scelta civica con Monti (4,6%) e Sandro Ruotolo (2,2%) di Rivoluzione civile. Su Roma città, il distacco si allarga: Zingaretti arriva al 45,4%. E Fiorella Mannoia commenta su Facebook: «Almeno Zingaretti ce l'ha fatta. Ogni tanto una buona notizia». Circolano i primi nomi per la giunta. Per il Bilancio, l'ex ministro Vincenzo Visco. Mentre alla Scuola, il rettore di «Roma Tre» Guido Fabiani.
Non trova una Regione «comoda», Zingaretti: non tanto per la riduzione dei consiglieri a 50 e la maggioranza alla Pisana («sarà ampia», dicono nel Pd), quanto per i problemi legati ai temi «caldi» come la Sanità e i rifiuti. E, poi, c'è l'eredità dello scandalo targato «Batman» Fiorito del Pdl (ad Anagni, sua roccaforte, passa il centrosinistra) e del «bombardiere» Maruccio dell'Idv, e la gestione dei fondi a disposizione dei gruppi politici. In più, c'è l'onda grillina, con Barillari che annuncia ricorsi per l'annullamento di molte schede. Zingaretti apre il dialogo con Cinque Stelle: «La nostra proposta è chiara: taglio dei costi della politica, innovazione, trasparenza, sviluppo e lavoro. Non ci chiuderemo a riccio: sui punti elencati vedo un'affinità col Movimento 5 stelle».
Il centrodestra, invece, medita sulla sconfitta. Che su Roma città, più ancora che nelle province, è cocente: nella Capitale il Pd «doppia» il Pdl (404 mila voti, contro 216 mila, il 32% contro il 17%). Dato che «pesa», in vista delle comunali del 26 maggio. I democratici, ora, devono trovare un candidato sindaco da opporre ad Alemanno ma non è detto che si facciano le primarie, neppure nella forma «aperta» ad outsider come Alfio Marchini. E il centrodestra? Secondo Alemanno «Grillo, nelle amministrative, è il terzo partito e non il secondo. La sfida è aperta». Il sindaco spera nell'appoggio di tutta la coalizione, anche se qualcuno pensa alle primarie: «Su Storace potevamo partire prima: avremmo avuto più voti». Proprio Alemanno, però, era quello dubbioso. Ieri colloquio con Berlusconi: «Mi ha detto: "Peccato, alla Camera potevamo farcela"». Zingaretti annuncia il primo provvedimento: «Taglieremo i costi della politica e investiremo i proventi nello sviluppo». Adesso, nel centrosinistra, sorridono tutti. Ma quando Zingaretti venne dirottato dalla corsa al Campidoglio (dove, ora, crescono le quotazioni di Ignazio Marino) alla Regione, dopo le dimissioni della Polverini, ci furono anche dei malumori: «Allora — dice il neogovernatore — non si erano compresi i motivi, ma i consensi ci dicono che abbiamo fatto bene. Abbiamo agito con discontinuità e siamo stati percepiti come coalizione che vuole cambiare».

Repubblica 27.2.13
Parla il neogovernatore: cambio di passo dopo gli scandali
“Serve voltare subito pagina ai 5Stelle dico: apriamo insieme una fase costituente”
di Mauro Favale


ROMA — «Dal porto delle nebbie a una casa di vetro». La Regione Lazio, Nicola Zingaretti la immagina così: qualcosa di completamente diverso rispetto a quella attraversata da Franco Fiorito e da Vincenzo Maruccio, i due protagonisti dello scandalo che, lo scorso settembre, ha fatto naufragare anzitempo la giunta guidata da Renata Polverini. «La parola d’ordine sarà discontinuità: nel modo di fare politica, di gestire la cosa pubblica e il potere».
Dici Lazio e pensi a sprechi, vitalizi, commissioni, monogruppi, finanziamenti ai gruppi: non sarà facile strappare dalla Regione questa nomea.
«E infatti voltare pagina rispetto agli scandali non basterà: qui bisogna mettere in campo una proposta di governo che deve confrontarsi con tre sfide: la prima riguarda la partecipazione, la seconda, appunto, la trasparenza e la terza lo sviluppo».
Temi, almeno i primi due, cari anche al Movimento 5 Stelle che anche qui ha raggiunto un ottimo risultato. Si rivolgerà anche ai grillini?
«Ci sono tali e tanti problemi che non possiamo chiuderci a riccio: cercheremo di essere aperti al confronto. Durante la campagna elettorale ho parlato della necessità di inaugurare una fase costituente, ora voglio proseguire con coerenza».
E su questi temi pensa di guache l’ascolto e l’appoggio dei 5 Stelle?
«Mi rivolgerò a tutto il Consiglio regionale. Non ci sono pregiudiziali nei confronti di nessuno. La nostra sarà una proposta di governo basata su innovazione, trasparenza taglio dei costi della politica, sviluppo e lavoro. Su questi punti ci sono affinità: se ci sarà anche consenso con il Movimento 5 Stelle lo vedremo in aula. Questi, però, sono temi pieni della proposta che avevamo messo in campo e che i cittadini hanno riconosciuto come nostro patrimonio identitario».
Qui il Pd e il centrosinistra hanno tenuto meglio che altrove, come mai?
«In Lazio c’è stato un risultato straordinario perché in un quadro di incredibile frammentazione, partendo da un risultato sfiorava il 30% alla Camera, in Regione siamo intorno al 40%».
È stato favorito dal voto disgiunto?
«Sicuramente. Sono stati in tanti a scegliere la proposta politica che abbiamo messa in campo per la Regione, pur avendo fatto scelte diverse in campo politico ».
E questo come se lo spiega?
«Probabilmente qui è passato un messaggio diverso, più forte rispetto a rabbia e astensionismo: in Lazio ha vinto la buona politica e credo che questo risultato di affidi una grande responsabilità. Dobbiamo cambiare questa Regione e restituire all’istituzione dignità e autorevolezza».
Eppure anche qui il Movimento 5 Stelle ha fatto incetta di consensi.
«Non deve sfuggire a nessuno che il Lazio, come l’Italia intera, soffre. In questo voto è esplosa una voglia di rigore e trasparenza, un grido di dolore che abbiamo ascoltato in campagna elettorale. In parte è stata intercettata dai grillini, in parte siamo stati noi ad assorbirla. Ma non vogliamo cavalcarla, bensì provare a estirparla col buongoverno».
Quale sarà il suo primo provvedimento da governatore?
«Eredito una Regione in condizioni disastrose. E bisognerà fare i conti con questo. Se fosse un’azienda sarebbe in default, con 22 miliardi di debito, una situazione sociale drammatica, aggravata da nomine volute dalla Polverini fino a pochi giorni dal voto: una storia, francamente, molto triste. Detto ciò, ci concentreremo su una proposta seria per tagliare i costi della politica».
Lei era destinato a correre per il Campidoglio, ora si ritrova alla Regione: rimpianti?
«Nessuno, anzi. Abbiamo visto che è stata la scelta giusta. Alla Pisana sarò il presidente di tutti. E, a proposito del Comune di Roma, per vincere useremo la stessa arma: la buona politica».
Che pensa della situazione nazionale? Da neo governatore auspica un governo di larghe intese?
«Intanto, auspico un governo. In ogni caso, in questa partita, Bersani si è battuto come un leone».

il Fatto 27.2.13
La sinistra che ha perso davvero
Nichi tentato: niente Camera, resto in Puglia
di Antonio Massari


Bari Mentre anche Nichi Vendola cerca di stringere accordi di programma con il M5S, in Puglia si vivono ore di confusione, e per capirlo basta chiacchierare con qualche funzionario della Regione che già intravede la “smobilitazione” del governatore verso il Parlamento e le prossime elezioni regionali a giugno. Nell’entourage di Vendola, invece, la parola “dimissioni” è tabù: “Andare alla Camera, lasciando la presidenza della Puglia, equivale a consegnare la Regione al Pdl”. Vendola ci sta pensando e potrebbe rinunciare al seggio in Parlamento”.
Sel in Puglia ha preso il doppio dei voti ottenuti su scala nazionale (pochi). Nel 2010, in Puglia, Sel ottenne il 9.7 per cento, al quale deve sommarsi il 5.5 della lista “La Puglia per Vendola”, totale 15,3. Nel 2013 prende il 7 per cento, un flop. Dalla Puglia si rialza – e con forza – l’ex ministro Raffaele Fitto: riesce a spingere il Pdl al migliore risultato di questa tornata elettorale. E prenota un ruolo di rilievo per la guida del futuro centrodestra. Il tutto nella terra governata da Vendola: il tonfo della sua sinistra e il rilancio del berlusconismo. Certo, con meno voti delle ultime elezioni politiche, quando però nessuno aveva ancora fatto i conti con il M5S, che strapazza Sel e surclassa il Pd (sotto il 20 per cento). Una sconfitta che assume le proporzioni di un’onta a Taranto: nella città più operaia della Puglia, guidata da un sindaco vendoliano, quasi un elettore su tre si consegna al Pdl. Il Pd si ferma al 20 per cento. Sel non supera il 5,4. Vendola ha preso 15 mila voti, meno dei 24 mila raccolti dalla lista di Ma-rio Monti (circa 8 per cento) che, solo pochi mesi fa, ha emanato il decreto Salva Il-va.
“Il Movimento 5 Stelle – ha commentato ieri Vendola - tende a sottrarre voti a chi governa, ecco perché in Puglia ha avuto tanti consensi”. Un’autocritica scarna. Vendola qui in Puglia deve uscire dall’angolo. La prima decisione: abbandonare la Regione per Montecitorio? Fitto insiste per una risposta immediata: “Non è immaginabile che i pugliesi restino appesi ai suoi destini politici per altri tre mesi”. Vendola intanto si candida a pontiere con il M5S, aprendo al “confronto” con Beppe Grillo.

La sinistra che ha perso davvero
Repubblica 27.2.13
Rc nel caos, con Ingroia resta Rifondazione
De Magistris: “Non c’è futuro”. E Di Pietro lascia la presidenza dell’Idv
di Liana Milella


ROMA — Un brutto colpo di mattina. E uno di sera. Ma Ingroia va avanti. Di buon ora fa il punto con i candidati della società civile, La Torre, Ruotolo, Cucchi, Favia. Si lasciano decisi ad andare avanti. Il problema, dopo la sconfitta, è “avanti con chi”. E qui torniamo ai brutti colpi. Brutto quello del sindaco di Napoli Luigi De Magistris che liquida la creatura di Ingroia in due battute: «Rivoluzione civile è finita. Non c’è futuro per questa lista dopo una sconfitta così netta». Poi tocca ai dipietristi. Non è l’ex pm in persona a sganciarsi dall’avventura politica dell’ex procuratore aggiunto di Palermo. Perché Di Pietro, silente ormai da 48 ore, si dimette a sorpresa dalla presidenza dell’Idv. I suoi però riuniscono l’ufficio di presidenza e non solo vanno avanti, ma decidono pure di lasciarsi alle spalle Rc, vogliono «rifondare, rinnovare e rilanciare l’azione di Idv». Con Ingroia restano associazioni e movimenti, ma anche Rifondazione comunista. Paolo Ferrero, il segretario, non ha dubbi: «Costruiamo un percorso costituente della sinistra anti-liberista e proponiamo che Rc sia il punto di partenza». Dal Pdci di Oliviero Diliberto arriva solo una battuta del segretario — «esito disastroso» delle elezioni — mentre il gruppo medita sul che fare.
Il dilemma su cui si arrovellano i soci fondatori di Rc è sempre lo stesso, essere o non essere una formazione politica che assembla i movimenti, i sindacati, ma anche i partiti. De Magistris ha scelto. Spiegano dal suo staff che il sindaco avrebbe voluto «una lista di rottura, composta solo di società civile», invece Rc è diventata «il coagulo di esponenti della vecchia politica che si è opposta a Berlusconi e a Monti». Per carità, sarà pure «il volto migliore della vecchia politica, ma è stata percepita comunque come vecchia». Per questo De Magistris chiude, come aveva fatto con Di Pietro. Offre una lettura politica perché «la fase di ingovernabilità che si apre non consente a un sindaco di una città come Napoli alcuna distrazione». Non bisogna chiedere altro per capire che De Magistris, l’inventore del popolo arancione e della candidatura stessa di Ingroia a premier, non si può compromettere con un fallimento di cui critica le cause. Troppi vecchi partiti, troppi vecchi candidati che avrebbero fatto perdere a Rc la scommessa di raccogliere il voto di protesta.
Anche Leoluca Orlando, sindaco di Palermo e tuttora nell’Idv, rilascia una dichiarazione in cui una frase prevale sulle altre, «occorre andare oltre il recinto di partiti atrofizzati», tuffandosi nella Rete, quella che gli ha garantito il 74% dei voti quando ha corso per la poltrona di primo cittadino. Come dice Claudio Giardullo, poliziotto, per anni segretario del Silp-Cgil, «l’esperienza di Rc deve continuare, ma deve prevalere un’immagine di discontinuità rispetto al passato ». L’ha detto anche Ingroia, commentando a caldo il voto. «Abbiamo avuto poco tempo...». Meno di due mesi dalla prima assemblea. Per questo Ferrero disegna un cammino di “vera rifondazione”: «Rc non ha intercettato il disagio sociale, ma ciò non significa che nel paese non ci sia una presenza anti-liberista e di sinistra». Bisogna solo seguire la strada giusta, con «un processo costituente, dal basso, tenendo insieme esperienze sociali, personalità politiche, comitati». E Ingroia? «Lui è una figura simbolo e ha fatto quel che poteva».

Corriere 27.2.13
Il declino vaticano, specchio dell'Europa
di Massimo Franco


La decisione di dimettersi di Benedetto XVI è stata epocale. E ha chiuso non soltanto il suo pontificato ma una stagione plurisecolare. Il suo gesto ha spinto quasi a forza il Vaticano dalla parte opposta di un simbolico confessionale. La Chiesa è stata costretta dalla propria crisi di identità nella posizione scomoda di chi deve spiegare e confessare i propri «peccati»; farsi accettare; e convincere l'opinione pubblica che si sta ravvedendo.
C on la decisione epocale di dimettersi da papa il 28 febbraio 2013, Benedetto XVI ha chiuso non solo la parabola del suo pontificato ma una stagione plurisecolare. E ha permesso di comprendere in modo traumatico un fenomeno che si intuiva oscuramente, senza riuscire a metterlo a fuoco perché considerato troppo inverosimile: il Vaticano è stato spinto quasi a forza dalla parte opposta di un simbolico confessionale. La Chiesa, «maestra di vita» per antonomasia, è stata costretta dalla propria crisi di identità nella posizione scomoda, e per molti versi inedita, di chi deve spiegare e confessare i propri «peccati»; giustificarsi; farsi accettare; e convincere l'opinione pubblica che si sta ravvedendo, che è pentita, che cambierà modo di agire.
Si tratti dello scandalo della pedofilia, della trasparenza delle finanze della Santa Sede, delle tasse sugli immobili della Chiesa o degli intrecci con una Seconda Repubblica italiana nella fase finale della sua parabola, il Vaticano sembra condannato a sedere sul banco degli accusati. A volte si ha perfino l'impressione che sia diventato una sorta di «imputato globale», messo sotto accusa dalla cultura occidentale. È come se gli si rimproverasse di non essere più lo stesso, di avere tolto la bussola morale a milioni di cittadini europei. Anche se non è chiaro fino a che punto sia stato lo stesso Occidente a perdere le coordinate etiche. Ma è difficile sottrarsi all'impressione che la Chiesa viva una fase declinante; che la sua proiezione mondiale debba fare i conti con la consapevolezza di essere diventata una minoranza circondata dalla diffidenza o dall'indifferenza. Si tratta di un «impero» che può essere spinto dalle difficoltà a chiudersi in se stesso in modo orgoglioso ma perdente, di fatto favorendo la propria emarginazione; oppure indotto ad aprirsi in positivo a quella che viene chiamata modernità, sfidando la condizione scomoda di chi si vede contestare il primato morale.
Per ironia della sorte, ormai la Chiesa viene messa all'indice perfino quando è vittima e non responsabile di quello che accade: vittima anche nel senso più letterale del termine, al confine fra vita e morte. Quando si scorrono le cronache sulle stragi di cristiani in alcuni Paesi islamici e in Africa, è difficile non parlare di persecuzione. Eppure, dopo le ambigue primavere arabe, le minoranze religiose legate al Vaticano sono additate come colpevoli per essere state alleate dei dittatori laici travolti dalle rivolte scoppiate nel Maghreb e in Egitto negli ultimi due anni: dal libico Gheddafi all'egiziano Mubarak. La Chiesa è messa dalla parte dei «perdenti», ma non nel senso nobile del termine. È accusata dalle nuove élite islamiche di essere stata complice di regimi autoritari, sebbene la ragione fosse quella della pura sopravvivenza. La protezione da parte di tali dittature, pagata peraltro a caro prezzo in termini di libertà, salvava le piccole comunità cristiane dal pericolo di essere sterminate e costrette ad andarsene. Come sta accadendo adesso.
Ma il caso più eclatante di un Vaticano vittima che alla fine si ritrova comunque nei panni dell'imputato è quello dei processi per la fuga di notizie riservate, che ha coinvolto addirittura l'Appartamento: parola alla quale la maiuscola fa assumere il significato di qualcosa di sacrale e inviolabile, perché si tratta dell'abitazione e degli uffici del papa. È stata una vicenda triste, dolorosa e traumatica per Benedetto XVI. E sconvolgente per chi è abituato a pensare alla Chiesa come a una «società perfetta» almeno nelle sue stanze più alte, dotata di una superiorità morale, di un'unità e di un'armonia che mancano altrove e che sono una delle principali fonti della sua legittimazione. Anche in quel caso, il fatto che l'imputato fosse il maggiordomo storico di Benedetto XVI, Paolo Gabriele, ha gettato sull'intera vicenda una luce surreale. Alla sbarra è andato lui. Eppure, il suo arresto è stato quello virtuale di una cerchia di solidarietà e di abitudini, di silenzi e di imperdonabili leggerezze. Sia perché alla fine lo scandalo è stato circoscritto in modo tale da fare apparire il maggiordomo insieme colpevole e capro espiatorio; sia perché non ci si è potuti non chiedere che tipo di ambiente umano lo abbia spinto a comportarsi in quel modo criminale. Sorprende il fatto che per anni abbia potuto agire indisturbato, senza che l'intelligence vaticana abbia mai sospettato nulla. Le voci contraddittorie su un perdono papale al suo maggiordomo «Paoletto» dopo la condanna, prima dato per scontato, poi rimandato fino a pochi giorni prima del Natale 2012, hanno aggiunto confusione e sospetti sul processo. Soprattutto, al fondo è rimasta una sensazione sgradevole. E cioè che dentro le Sacre Mura abbiano trovato un habitat ideale i cosiddetti «Corvi»: personaggi spregevoli che in certi tribunali malati di faide e intrighi fanno uscire in modo anonimo notizie riservate e diffamanti, e che in Vaticano hanno agito per danneggiare l'uno o l'altro cardinale e perfino Benedetto XVI. Quei palazzi che incutono rispetto e timore sono diventati in modo imprevedibile e sconcertante il nido dei Corvi. Li hanno cresciuti e moltiplicati, senza che nessuno sia riuscito a vedere o abbia voluto capire dove nascessero e perché. È il paradosso di una Chiesa che ha per ragione sociale il primato morale, la difesa del significato più autentico dei valori della vita, l'insegnamento della fede. E invece mostra discordia, standard etici e comportamenti non solo discutibili ma contraddittori rispetto ai valori che promuove; e dunque rivela un divario sconcertante fra ciò che predica e quello che fa.
Dopo il tramonto di «un» Vaticano, quello plasmato dalla guerra fredda, stiamo assistendo alle conseguenze di questo declino. È finito il monopolio del giudizio su ciò che è bene e male per l'Occidente. Dal Paradiso virtuale, il Vaticano è passato a rappresentare il Purgatorio di una lunga espiazione della quale non si vede ancora la fine. Ed è diventato più evidente che la crisi è soprattutto quella di un sistema di governo inadeguato ai nuovi tempi. Il cuore del paradosso infatti pulsa a Roma, la Roma pontificia. È dalla capitale del cattolicesimo che si propagano onde di incertezza e disorientamento. Ed è questo che fa più paura e preoccupa: storicamente, le grandi crisi degli imperi e delle istituzioni si rivelano e si consumano quando partono dal centro, e non dalla periferia. Ma l'affanno all'interno del «suo» Occidente non dilata solo l'immagine del declino vaticano: riflette la crisi di identità del Vecchio Continente che combatte una sorta di guerra civile fra cristianesimo e indifferenza, fra valori religiosi e individualismo, senza riuscire a trovare un punto di compromesso.
La conseguenza è una rapida evoluzione verso un «mondo post-occidentale», come l'ha definito il Rapporto sui trend mondiali di qui al 2030 del National Intelligence Council. Il declino dell'impero vaticano accompagna quello degli Usa e di un'Unione Europea in crisi economica e demografica. Mostra un modello di papato e di governo ecclesiastico centralizzato, sfidati da una realtà inesorabilmente frammentata e decentrata; dominata da attori non statali e da religioni «fai da te», e da coordinate culturali che la classe dirigente vaticana fatica a elaborare e utilizzare.
D'altronde, la dicotomia Vaticano-Chiesa mai come adesso, forse, è vistosa e in qualche misura positiva. Altrove la Chiesa cattolica è viva e vitale: perfino in alcuni Paesi di un Occidente che tende a osservarla come un retaggio del passato, e che sembra deciso a sottrarle a uno a uno i vecchi privilegi. Negli Stati Uniti, in America Latina, e soprattutto nell'Africa che non teme il martirio, il cattolicesimo appare consolidato, comunque meno fragile. Ma dentro la Città del Vaticano si sta consumando la fine di un modello di governo e di una concezione del papato; e la decadenza di una nomenklatura ecclesiastica che rischia di passare alla storia con un carico di responsabilità esagerato rispetto a quelle che realmente ha a livello individuale. Il «papa teologo» ha denunciato di volta in volta quello che non andava, dipingendo affreschi inquietanti della realtà all'interno delle Sacre Mura. Ha analizzato il male, cercato i rimedi. Ma si è sempre avuta l'impressione che mancasse qualcosa, perché gli aggiustamenti, per quanto radicali, non mettevano in discussione il sistema. Tentavano di risolvere il problema che di volta in volta esplodeva, ma non lo anticipavano, non riuscivano a prevederlo: insomma, non cambiavano un terreno di gioco che invece nel mondo era stato già sconvolto. È significativo che in alcuni ambienti ostili si tenda a raffigurare il Vaticano come un «secondo Cremlino»: non quello trionfale e controverso del nuovo zar dei petrorubli Vladimir Putin, ma il Cremlino dell'Unione Sovietica, crollato con la sua classe dirigente insieme al comunismo. Dopo il simbolo del potere sovietico, predicono i nemici del Vaticano, cadrà anche il baluardo morale dell'anticomunismo. Pur avendo vinto la guerra fredda, il Vaticano sarà sconfitto nel prossimo futuro, perché è venuto a mancare il suo storico avversario. È questa la tesi radicale, e a dir poco discutibile, che aleggia soprattutto in alcuni circoli del nord Europa: gli stessi che vagheggiano un'alleanza virtuosa delle nazioni protestanti e finanziariamente affidabili, contro il «lassismo» fiscale e impunito dei Paesi cattolici del Mediterraneo, a cui si aggiunge il sovraccarico della Grecia ortodossa.
Anche la crisi economica è rimbalzata addosso alla Chiesa cattolica in modo paradossale. Nata nel 2008 nelle stanze più potenti e segrete di Wall Street, la strada della Borsa di New York, e delle sue banche d'affari, si è propagata in Europa come un'epidemia provocata da un virus difficile da individuare. Ma, invece di spingere ad analizzarne le origini, ha finito per risvegliare vecchi fantasmi del passato europeo, facendo riemergere le rughe e i veleni delle guerre di religione. Ha messo a forza sul banco degli imputati, inginocchiati come peccatori incalliti, la cultura e i popoli a maggioranza cattolica; e, sotto sotto, una Chiesa che assolvendo troppo facilmente si assolve troppo e che dunque si sarebbe «italianizzata» nel modo peggiore: al punto da evocare il concetto di «spread morale» su un ideale mercato della fede, che si intreccia allo «spread» dei titoli di Stato italiani sovrastati dalla «bontà» finanziaria di quelli tedeschi. Paradosso nel paradosso, questo è avvenuto mentre sul soglio di Pietro sedeva un Papa tedesco bavarese che rifletteva nella sua persona tutta la ricchezza e le complessità dell'identità europea. L'ultimo atto d'accusa, l'alleanza che negli ultimi quindici anni la Chiesa italiana e il Vaticano hanno di fatto siglato con il centrodestra berlusconiano, lascia un segno a dir poco controverso sui rapporti fra Stato e Chiesa e sul cattolicesimo politico, che riemerge residuale e confuso. La stessa esigenza di una «nuova classe di politici cattolici», per quanto rilanciata in continuazione, si sta rilevando velleitaria, smentita com'è da una realtà di protagonismi e invidie. Sembra sottovalutare il problema altrettanto acuto di una nomenklatura ecclesiastica all'altezza dei tempi nella lettura della società italiana. In fondo, il passo indietro del Papa si può interpretare anche come ammissione di una inadeguatezza collettiva.

Repubblica 27.2.13
Un saggio di Massimo Cacciari affronta una classica controversia da San Paolo fino a Nietzsche e Carl Schmitt
Se la religione si sporca col potere
di Roberto Esposito


C’è un passo enigmatico, nella Seconda Lettera ai Tessalonicesi (2, 6-7) attribuita a S. Paolo, su cui si è esercitata una schiera di esegeti, antichi e moderni, senza mai venirne definitivamente a capo. In esso si fa riferimento a un katechon che trattiene il trionfo finale del male, ritardando così anche il suo annientamento da parte del Signore. Il “mistero”, come l’autore stesso lo definisce, contenuto in questo testo riguarda insieme il soggetto e il significato del katechon. Chi, o cosa, è questa forza che frena al contempo lo scatenamento del male e la vittoria del bene? E come, tale funzione, va interpretata — come espressione diabolica o come forza spirituale? La questione torna ad essere interrogata, con straordinaria acutezza analitica, da Massimo Cacciari in un piccolo, ma denso, libro appena edito da Adelphi col titolo Il potere che frena. Saggio di teologia politica.
Nella sua interpretazione, naturalmente, non è in gioco solo il senso di quel passo e l’identità della figura che esso evoca, ma l’intero rapporto tra teologia e politica — il ruolo del potere e la maschera della sovranità, il contrarsi del tempo e l’immagine dell’eternità, il travaglio del cristianesimo e il destino del mondo contemporaneo. Il presupposto da cui Cacciari parte è che tra teologia e politica vi sia una relazione ineliminabile. Non solo nel senso, teorizzato da Carl Schmitt, che i principali concetti politici abbiano un’origine teologica. E neanche in quello, affermato dal grande egittologo Jan Assmann, che le categorie teologiche contengano un originario nucleo politico. Ciò che presuppone Cacciari è un rapporto insieme più vincolante e più contraddittorio. E cioè che la vita religiosa abbia già in sé un impulso politico, così come un autentico operare politico non possa mai smarrire la propria radice spirituale.
La drammatica figura del katechon si situa precisamente all’incrocio di queste traiettorie — rendendole, se è possibile, ancora più impervie. Intanto non è chiaro chi storicamente lo incarni. Gli interpreti sono divisi — la maggioranza di essi pensa alla potenza dell’impero romano, altri all’apparato istituzionale della Chiesa. In nessuno dei casi, tuttavia, il mistero del katechon sembra sciogliersi, acquietarsi in una soluzione soddisfacente. Certamente esso si pone in un tempo ultimativo. L’età presente sta per finire — questa è la convinzione della comunità cristiana cui Paolo dà voce. Ma come avverrà tale fine? E cosa ci sarà dopo di essa — un’altra epoca o l’Evo eterno, la fine gloriosa della storia? Che il soggetto del katechon sia l’Impero oppure la Chiesa, resta la domanda di fondo. Come comporre gli opposti — tempo ed eternità, potere e bene, forza e giustizia? L’un termine non renderà vano l’altro? Per trattenere il male, sia l’Impero sia la Chiesa non possono fare a meno di usare quel potere che ad esso è connaturato. Perciò il katechon, qualunque cosa sia, opera sempre con le armi del Nemico dello Spirito. Ciò è ben visibile nelle vicende sanguinose dell’Impero romano; ma risulta altrettanto evidente nella storia della Chiesa, da sempre impastata con le forze che combatte, incapace di rispondere alla parola purissima da cui nasce. Certo, entrambi, Impero e Chiesa guardano oltre il proprio tempo, si fanno carico di una missione universale. Ma per produrre novitas — per dare espressione veritiera alla propria epoca — essi devono prima di tutto durare, conservarsi, con ogni mezzo possibile, compresi l’inganno e la violenza.
Le pagine di Cacciari restituiscono a pieno l’intensità di questo dramma. Il bene non è rappresentabile dal potere, ma per realizzarsi, sia pure imperfettamente, in questo mondo, è costretto a far ricorso ad esso. Così le due autorità che per un millennio hanno combattuto per assicurarsi il governo, politico e spirituale, degli uomini, si sono a lungo specchiate l’una nell’altra. Agostino e Dante sono i due grandi interpreti di questo scontro epocale. Il primo destituendo di ogni sacralità il potere dell’impero. Il secondo, cercando in esso il necessario contraltare alla potenza della Chiesa.
Nonostante questa divergenza profonda, per entrambi le due città non soltanto sono divise tra loro, ma divise anche al loro interno tra i salvi e i reprobi, tra coloro
che limitano lo sguardo al proprio interesse e coloro che lo allargano all’intera comunità.
Nulla meglio della figura del Grande Inquisitore di Dostoevskij rappresenta questo tragico conflitto. Con lui il male ha già vinto. Dando per scontata l’incapacità dell’uomo a sostenere la libertà, egli si è posto a fianco dell’Anticristo. Eppure anche nella sua maschera esangue traspare qualcosa dell’antica battaglia, come una eco non spenta di quell’annuncio che, dolorosamente, ha tradito. C’è anche questa infinita nostalgia nel bacio livido che egli depone sulle labbra di Cristo. L’Inquisitore è l’ultimo rappresentante di quella vicenda prometeica che ha scandito la storia del mondo, sospendendola allo scontro senza esito tra verità e potere.
Dopo di lui non resta che il compimento del nichilismo — il tempo dell’ultimo uomo di cui parla Nietzsche. In esso non trapela più il raggio di una possibile redenzione. Ma non si avverte neanche il frastuono dell’apocalisse. Piuttosto il deserto del nulla — la gestione tecnica come forma anomica dell’età globale. Esaurito lo spazio del sacro, viene meno anche quello del politico che ad esso corrisponde. Senza la polarità teologica non si dà vera politica. Naturalmente ciò vale, se regge il presupposto di partenza di tutto il discorso — e cioè il radicamento originariamente teologico del politico e viceversa. Che così sia, Cacciari lo dà per scontato. Ma si tratta dell’unica verità possibile? O non è un effetto ottico della stessa macchina teologico- politica che egli analizza, situandosi al suo interno? E ancora — qual è oggi il compito della filosofia contemporanea? Scendere sempre più a fondo dentro questo tragico viluppo o tentare di aprire un nuovo orizzonte di pensiero, con tutto il rischio che ciò comporta? Il dibattito che si va aprendo sulla teologia politica ha per posta questa questione decisiva.

Il potere che frena di Massimo Cacciari Adelphi pagg. 211 euro 13

Repubblica 27.2.13
Il ministero dell’Ambiente si rifiuta di rendere pubblici i risultati di uno studio quinquennale sul sottosuolo. “A rischio la salute di milioni di persone”
La Cina impone il segreto di Stato sull’inquinamento
di Giampaolo Visetti


PECHINO — In Cina anche l’inquinamento del sottosuolo diventa «segreto di Stato». Che la terra e le falde siano avvelenate da decenni di sfruttamento industriale è fuori discussione. Fino a che punto però per il governo deve restare un mistero. Il ministero dell’Ambiente si è rifiutato così di rendere pubblici i risultati di uno studio quinquennale che ha testato 200mila campioni di terreno, di acque sotterranee e di prodotti agricoli, fornendo milioni di dati sullo stato drammatico in cui versa l’ambiente nella seconda economia del mondo. Il segreto, secondo Pechino, è «necessario a causa della sensibilità politica della ricerca ». Avvocati, ecologisti e scienziati denunciano invece «l’alto rischio dell’atteggiamento delle autorità», che accusano di aver tradito le promesse perché la situazione «è ben peggiore di quella ipotizzata». «La decisione —
ha detto l’avvocato Dong Zhengwei — pone a rischio la salute di milioni di persone».
I veleni che in Cina impregnano intere regioni non sono visibili dagli abitanti. Accade così che i contadini coltivino campagne tossiche, che acque avvelenate vengano usate per l’irrigazione, o considerate potabili. «Nascondere la mappa delle aree a rischio — ha detto il direttore dell’Istituto per gli affari ambientali — espone la gente a conseguenze
tragiche, come il boom delle patologie cancerogene». Gli «interessi collettivi» sarebbero dunque prevalenti sul «segreto di Stato» e a far aumentare l’allarme è il diverso atteggiamento del governo in occasione dei picchi di smog registrati nella capitale e nelle maggiori metropoli del Paese. Dopo anni di censura, la nuova leadership ha consentito anche ai media di Stato di denunciare come traffico, riscaldamenti a carbone ed emissioni industriali abbiamo fatto schizzare le polveri sottili a livelli «inadatti alla vita umana». Una scelta in realtà obbligata, considerato che i rilevatori dell’ambasciata Usa e gli apparecchi di organizzazioni indipendenti certificavano da tempo come in Cina la qualità dell’aria abbia superato la soglia della respirabilità.
Il dubbio che opprime ora i cinesi è che il segreto sia calato sull’inquinamento del suolo perché il suo livello è ancora peggiore di quello dell’aria. Le ultime ricerche disponibili, del 2006, dimostrano che oltre il 10% dei terreni cinesi erano inquinati e che 12 milioni di tonnellate di cereali erano state contaminate da sostanze tossiche. Gli scienziati calcolano che nel frattempo i numeri siano quintuplicati e pongano la Cina al vertice delle potenze economiche più inquinate. La sostenibilità della crescita diventa così uno dei problemi cruciali per la nuova leadership. L’arricchita popolazione urbanizzata non accetta più di morire avvelenata per alimentare la crescita di export e Pil. Sul fronte della corruzione, altra piaga del partito, il prossimo presidente Xi Jinping ha promesso il pugno di ferro. La lotta contro l’inquinamento si rivela più difficile e costosa, ma trasformare i veleni in un segreto si profila come una soluzione destinata al fallimento. Nascondere la verità non pulisce la terra e tantomeno rende i cinesi più tranquilli.