giovedì 28 febbraio 2013

l’Unità 28.2.13
Bersani replica agli insulti ma non cambia linea
Il leader Pd a Grillo: «Venga in Parlamento a dirmi quello che ha da dire»
Nel partito i dubbi e i silenzi sulle aperture ai 5 Stelle
Letta: il segretario è il nostro candidato, non ce ne sono altri
di Maria Zegarelli


ROMA La doccia gelata arriva nel primo pomeriggio, sul blog: «Questo smacchiatore fallito ha l’arroganza di chiedere il nostro sostegno». Niente fiducia al Pd, avvisa Beppe Grillo mentre nel partito di Pier Luigi Bersani si ragiona attorno all’unico scenario possibile (ieri “benedetto” anche da Monti) per dare vita ad un governo: presentarsi in Parlamento con pochi ma incisivi punti programmatici e chiedere la fiducia anche e soprattutto al M5s.
Grillo, a supporto delle cannonate che lancia, posta tutte le dichiarazioni del leader Pd contro il Movimento in campagna elettorale ma non basta a fermare l’onda di protesta della sua base per questa posizione di chiusura totale e al Nazareno non sfugge quello che succede sul web, il luogo dove oggi sembra essersi spostato il nuovo fermento della politica. «Quel che Grillo ha da dirmi, insulti compresi, lo voglio sentire in Parlamento. E lì ciascuno si assumerà le proprie responsabilità», replica Bersani, ormai sotto il tiro del fuoco nemico e di quello amico (Scalfarotto lo invita a dimettersi, idem Civati che annuncia la corsa per la segreteria).
Gioco tattico quello del leader M5s? È probabile, considerato che più tardi, quando il dibattito dentro il suo movimento non accenna a smorzarsi, twitta: «Se Bersani vorrà proporre l'abolizione dei contributi pubblici ai partiti sin dalle ultime elezioni lo voteremo di slancio». Inizia l’altalena che andrà avanti da qui fino al giorno della fiducia che il nuovo Parlamento dovrà votare al governo. Bersani in fondo se lo aspettava, sa che non sarà facile, che gli è toccata l’ultima delle imprese che in cuor suo avrebbe mai voluto dover affrontare: provare a dare vita ad un governo che si annuncia sin da ora debole, appeso agli umori di Grillo e di un Parlamento dove non può che fare i conti con Berlusconi da una parte e il M5s dall’altra. «Davanti al risultato uscito dalle urne noi non possiamo che presentarci in Parlamento e fare le nostre proposte di rinnovamento pensando al bene del Paese», spiega ai suoi collaboratori.
L’altra sera durante il coordinamento, al quale erano presenti anche i segretari regionali (e dove non è voluto andare Matteo Renzi) il segretario Pd ha spiegato la linea, la stessa illustrata durante l’incontro con la stampa e per la quale chiederà l’ok durante la direzione del partito convocata per il 5. L’altra sera nessun intervento contro e e molti silenzi, a partire da D’Alema, Veltroni e Franceschini. Per ora nessuno intende aprire la faida interna, ma è qustione di tempo.
Non a caso Enrico Letta sente di dover precisare: «Il nostro candidato a guidare il governo è Bersani perché vogliamo metterci tutto l’impegno, perché ha vinto le primarie e ha avuto la maggioranza alle elezioni. E spetta a noi provare a formare un governo di svolta. Grillo non faciliterà l’impresa, sarà così fino al giorno in cui Bersani si presenterà al Senato, ma intanto il leader del M5s deve fare i conti con la sua base che non mi sembra abbia gradito questa chiusura netta al Pd». Al quartier generale dei democratici fiutano l’aria: c’è chi vorrebbe in scena il sindaco di Firenze per formare un governo affidando a Bersani e Berlusconi un ruolo istituzionale. «Non se ne parla nemmeno», liquida Letta. Una maggioranza sostenuta da Bersani e Berlusconi, lasciando a Grillo l’opposizione, sarebbe la fine del Pd. «Il governo o lo fa Bersani o non si fa», taglia corto Beppe Fioroni che pure bersaniano non è mai stato.
Marina Sereni respinge l’ipotesi del governissimo e non si spaventa davanti alle stroncature di Grillo: «Vediamo cosa succederà da qui ai prossimi giorni, anche gli eletti del M5s sanno quali sono le condizioni in cui versa il Paese, non so se vogliono assumersi la responsabilità di una situazione di in governabilità». Stefano Fassina è sulla stessa linea: «Vedremo in Parlamento se la partita con Grillo è chiusa».
Ieri Bersani ha incontrato a pranzo Nichi Vendola, primo faccia a faccia dopo il voto, per fare il punto. Il governatore vede come fumo negli occhi l’ipotesi di governi di emergenza, la strada, dice al segretario Pd, non può che essere quella imboccata. Proposte forti su cui chiedere la fiducia, concordano:abbattimento dei costi della politica, legge elettorale, dimezzamento del numero dei parlamentari, legge sulla corruzione, misure di moralità «pubblica e privata», interventi per sollevare le fasce più esposte della società. Con questo programma la coalizione, compatta, deve presentarsi in Parlamento e «stanare» i parlamentari del M5s. «Se diranno no si dovranno assumere la responsabilità di non aver voluto cambiare il Paese», è il ragionamento. Walter Veltroni non parla ma non gli piace l’idea di doversi affidare a Grillo. C’è chi già ipotizza l’ipotesi di un incarico a Giuliano Amato (aleggia anche il nome di Passera) per un governo tecnico Pd-Pdl-Monti, se dovesse fallire il tentativo di Bersani. «Non possono essere Amato o Passera la risposta a quello che gli italiani hanno detto con il loro voto», commentano dal Nazareno. Per ora l’ipotesi «B» resta sullo sfondo. Ieri Bersani ha avuto anche un lungo colloquio telefonico con il presidente francese Francois Hollande sull’esito del voto italiano. Entrambi sono convinti che quello che è successo qui è un monito per l’intera Europa e che ora più che mai è necessario un cambio di rotta. «Riformare il sistema politico italiano e rilanciare misure tese a risolvere i problemi sociali causati dalla recessione sono due obiettivi decisivi per l`Italia», ha spiegato Bersani. Grillo permettendo.

l’Unità 28.2.13
Lo Spi-Cgil
«Nessun dialogo con Berlusconi»

Un sonoro no al governissimo arriva anche da parte del vertice del sindacato dei pensionati. «Il futuro governo dovrà dare delle risposte al problema del lavoro soprattutto per i giovani e alla condizione dei pensionati e degli anziani con politiche basate sulla giustizia sociale e sull’uguaglianza. Che non venga in mente alla coalizione di centrosinistra che ha vinto le elezioni di fare un governo con il Pdl di Berlusconi perché sarebbe un gravissimo errore». A dirlo è Carla Cantone che ieri ha riunito il gruppo dirigente dello Spi-Cgil per fare punto sulla tornata elettorale che si è appena chiusa e sul difficilissimo scenario che ne è scaturito. «È vero che c’è bisogno di governabilità ma non a qualsiasi prezzo. Nessun dialogo e nessun governissimo con la destra e con Berlusconi che hanno rovinato questo Paese», ha continuato Cantone lanciando il suo monito contro qualsiasi ipotesi di apparentamento con il Cavaliere e la sua compagine.

l’Unità 28.2.13
Il web si ribella a Grillo
Proteste dopo gli insulti a Bersani. Il leader Pd: lo dica alle Camere. Monti: meglio M5S del Cav
Ma sul blog scoppia la rivolta: «Beppe, stai sbagliando»
di Toni Jop


Accade semplicemente che il voto sia andato a bussare al portone del suo referente e che gli stia dicendo: ti ho sostenuto, ma se fai le bizze di fronte a una proposta di collaborazione di governo senza andare a vedere le carte, la festa appena cominciata è già finita, atsalùt. Non c'è trucco, non c'è inganno, è tutto vero: in queste ore sul blog del Grande Imbuto sta maturando un evento biblico, imponente per dimensioni – i post sono migliaia e migliaia – e eccitante per la ricchezza dei piani di confronto lungo i quali si incollano le comunicazioni. La stragrande maggioranza degli scriventi si rivolge direttamente a Grillo, ma non sono pochi quelli che si rivolgono proprio a questa tormentata audience per avvisarla, per strigliarla, per rimetterla sulla retta via, evidentemente «tradita» da questa nuova, corale, potente disponibilità al dialogo con l'odiato, disprezzato Bersani, con il cadavere putrefatto di quel partito che si chiama Pd. Così, sotto gli occhi del Capo assoluto, si consuma questa confessione di massa, che si snocciola ai piedi di un suo post, il Post dei Post, in cui il leader del Pd viene definito «morto che parla», e più avanti liquidato come «lo stalker politico», uno che infastidisce le persone perbene con offerte offensive.
FUOCHI D’ARTIFICIO
Folklore grillino, simile a quello del Bossi degli anni verdi, ma che forse nasconde intenzioni meno folkloristiche del linguaggio con cui sono vestite. Comunque vada, Grillo non può rinunciare ai suoi fuochi d'artificio, in troppi lo rimprovererebbero per il suo «imborghesimento». Poi, se trattativa ci deve essere, pensa, è bene che questo avvenga al punto più basso per il Pd, è cioè quando Bersani sia in ginocchio; qualunque concessione, qualunque cedimento al realismo che imporrebbe l'ascolto suonerebbe un tradimento delle trombe di Gerico che Grillo ha suonato durante tutta la campagna elettorale: predicava il bombardamento di Dresda, non una nuova stagione di intese. Per questo, forse, sbatte intanto la porta davanti al «morto». Il problema è che, a quanto pare, la grande maggioranza di chi usa quel suo blog – il salotto privato che lui da sempre mette a disposizione del suo pubblico elettore – vorrebbe riaprire quel-la porta proprio mentre lui la sta chiudendo.
Tira e molla, sì, ma da ascoltare perché è istruttivo e dice molte cose di chi lo ha votato, di chi ha votato le sue trombe, del perché lo ha fatto, e di cosa si aspetta si faccia ora con quel voto e di che cosa possa fare quel voto se la sua postilla non sarà accolta, presa in considerazione. In parole povere, questa pioggia scrosciante di post pone a Grillo un problema, inedito fin qui in queste dimensioni, su un terreno che il capo detesta: quello del potere, il suo. Chi è lui e chi sono i suoi elettori: fino all'altro ieri erano una cosa sola, adesso molto meno.
«Ok, ci siamo, è ora di combinare qualcosa di buono.Personalmente un “governo di scopo” con pochi punti ben chiari si potrebbe fare, vorrei proprio sentire che scuse trova il Pd di fronte ad una legge riduce i costi della politica o che regolamenta il conflitto d’interessi. Se accettano si va finalmente avanti, se rifiutano si scavano definitivamente la fossa»: così sbotta Marco
Santinon, per lui la trattativa è una possibile tagliola per la sinistra, e va usata in questo senso; è chiaro che per questa via il militante ritiene di portare, ancora, la sinistra ad accettare o a rinnegare, sottoscrivendo o meno quelle proposte operative, il proprio format culturale; per questo, anche, vuole che il capo vada a vedere. Intelligenza tattica.
ATTENTO, È UN’OPPPORTUNITÀ
Guido Cavallari è più diretto: «Beppe non tirare troppo la corda. Il Paese è nella tempesta. È ora di governare la barca. Abbiamo l'occasione di dettare le regole per cambiamenti importanti che molti del Pd condividono. Se si manda a monte questa opportunità si rischia di consegnare il Paese allo psiconano»; ed è chiaro che l'autore del post non sta proponendo inciuci o banali giochi di facciata: lui sa che nel Pd ci sono le sensibilità per costruire, su una piattaforma definita, preziose sintonie. Insieme, quel «Beppe non tirare troppo la corda» è un gesto forte al cospetto del grande Capo, un avvertimento, quasi minaccioso. Un tono ripreso molte volte, da Alberto Coluccia, per esempio: «Grillo è ora di saltare a casa. Se vuoi imporre la tua presenza diventi come i capi partito. E alle prossime elezioni non avrai il mio voto. Bersani e il Pd sono marci ok ma se tendono la mano sulle riforme del movimento vale la pena votare la fiducia e metterli alla prova, se non si va avanti, legge elettorale e tutti alle elezioni»; di nuovo la questione del potere: stanno rimproverando Grillo di imporre la sua presenza; ricordano che lo slogan del capo dice altro, e cioè che «uno vale uno», senza eccezioni. Non pochi si muovono lungo questo fronte in aperta rotta di collisione col leader padrone e suggeriscono vie alternative alla Rappresentanza unica: «Caro Beppe anche tu hai chiuso, il megafono è giusto che ora si spenga e che il movimento si esprima autonomamente via web su cosa fare: Referendum on line!!!!!!!!!!!»; così spariglia Maria A. E lo fa impugnando proprio l'attrezzatura che Grillo aveva promesso ai suoi, senza mai rispettare la parola data. Lo farà? Nell'incertezza, Vito Lanci avvisa: «Se Beppe non la pianta di fare il supereroe delle cause perse invito tutti alla riflessione. Il movimento non deve morire ora che sta imparando a camminare», e aggiunge che se non verrà aperta quella porta il suo voto e quello di tanti altri prenderanno altre strade.
SOSPETTO INFILTRATI
Logica stringente, servita fredda da atti di vera e propria insubordinazione di fronte all'autorità costituita. Insolito. Qualcuno la prende male, ci vede le tracce di una invasione aliena, Pd nel caso, tesa a sovvertire la felice pax post elettorale del Movimento: «Chi critica Beppe, o non ha mai seguito ciò che ha sempre detto fin dal 2009 (niente alleanze), oppure è un infiltrato del Pd», sentenzia Massimo P. E siamo già nella pancia di un sommovimento che mette in discussione la sincerità – predicata da Casaleggio – del Santo Web. Vogliono, i moltissimi contestatori, che il Movimento si misuri con Pd e Sel su argomenti chiave: il conflitto di interessi, la lotta alla corruzione, il finanziamento pubblico ai partiti, il reddito di cittadinanza, la riforma elettorale. Tutta farina del sacco della sinistra: non hanno torto a voler andare a vedere.

l’Unità 28.2.13
La petizione grillina on line
In poche ore trentamila firme: «Diciamo sì, per cambiare»
di Osvaldo Sabato


In poche ore la petizione on line con cui viene chiesto a Beppe Grillo di votare la fiducia al futuro governo raggiunge la cifra record di oltre trenta mila firme. E il numero è destinato ad aumentare. L’appello al leader del Movimento 5 Stelle è stato pubblicato sulla piattaforma Change.org. «Caro @beppe_grillo dai la fiducia al Governo per cambiare l'Italia. #GrilloDammiFiducia» è il titolo della petizione lanciata da una giovane universitaria fiorentina di 24 anni, Viola Tesi, 24 anni, ad un passo dalla laurea in Relazioni internazionali e in attesa di trovare lavoro in una gelateria, la sua passione, il suo sogno è di aprirne una. A chiarire meglio il motivo della sua iniziativa è la stessa Viola. «Sono molto preoccupata per il futuro del mio paese e quindi anche per il mio. L'esito di queste elezioni ha gettato un po' tutti nel panico, ho votato il 5 Stelle e non mi aspettavo che prendesse così tanti voti» dice all'Adnkronos «ora deve passare dalle parole ai fatti: si vota qualcuno per mandarlo al governo, non per farne cadere uno». La giovane fiorentina nel caso in cui Grillo si rifiutasse di votare la fiducia al governo, i presupposti ci sarebbero tutti, almeno a sentire come si è rivolto a Bersani definendolo sul suo blog «morto che parla», si dice pronta a non rivotare più il movimento del comico genovese «aspetto la prima scadenza parlamentare, che doverebbe essere appunto la fiducia, è lì che si vedrà se c’è responsabilità o no». Un governo che prima del ritorno alle urne faccia una nuova legge elettorale, una legge contro la precarietà e l’istituzione del reddito di cittadinanza; la riduzione del numero dei rappresentanti, l’eliminazione dei loro privilegi, l’ineleggibilità dei condannati; la cancellazione dei rimborsi elettorali; l’abolizione della legge Gasparri e una norma sul conflitto d’interessi; una legge anticorruzione che colpisca anche il voto di scambio; e l’istituzione di uno strumento di controllo sulla ricchezza dei rappresentanti del popolo (il “politometro”). «Un sistema elettorale malato ha prodotto un risultato che non garantisce governabilità. Il mandato del Presidente della Repubblica Napolitano è in scadenza, le Camere non possono essere sciolte, non da lui: non si può tornare subito alle urne. Questo Parlamento avrà forse vita breve, ma non brevissima» scrive Viola nella sua petizione sul web «al Pd sarà quasi certamente dato mandato di provare a formare un nuovo Governo. Non ci sono molte possibilità: se i senatori del M5S si astengono o votano contro, sarà paralisi, o peggio, vedremo un qualche Monti bis». «Allora poniamo noi le giuste condizioni al partito di Bersani: in cambio dovranno presentare in Parlamento quelle riforme che ci stanno a cuore e che possono far diventare l'Italia migliore. Raccogliete questa sfida e cominciamo subito a cambiare l’Italia, per il bene di tutti» aggiunge la giovane fiorentina, prima di concludere «caro Beppe, non sprecare il mio voto. L’ho dato con la testa e con il cuore».

l’Unità 28.2.13
È in gioco l’unità del nostro Paese
di Alfredo Reichlin


CERCHIAMO DI CAPIRE I MESSAGGI MOLTO SERI E GRAVI CHE CI MANDA QUESTO PAESE. Essi interrogano non solo le capacità politiche di chi dovrà mettere insieme una maggioranza di governo, investono il pensiero sull’Italia di oggi e il sentimento di ciò che è in gioco.
Spero che alla luce del terremoto elettorale sia più chiaro che cosa era (ed è) in discussione. Non una normale scelta tra progressisti e conservatori ma un problema costituente, di futuro della nazione. Il dilemma era chiaro.
Non c’era (e non c’è) altra speranza di evitare un destino di decadenza e di marginalità rispetto al mondo nuovo che non sia quella di ricollocare il grande, ma sempre più dissipato patrimonio storico italiano (produttivo, culturale, di capacità umana), in una vicenda più vasta; che è la creazione di una federazione europea, cioè uno strumento senza il quale e fuori dal quale un Paese come l’Italia non ha le risorse per affrontare i suoi problemi. Insomma il rischio di finire ai margini del mondo nuovo e di non contare più niente.
Questo era e resta il nostro ruolo: guidare il Paese in presenza di qualcosa che non è solo una gravissima crisi economica ma un trapasso geo-politico rispetto al vecchio ordine mondiale. Ma l’interrogativo che mi preme, anche alla luce dei risultati elettorali, è questo: si può fare un’operazione così difficile senza una consapevolezza più profonda da parte delle grandi masse popolari e senza fare i conti tornerò su questo punto che è cruciale con una lacerazione così ampia e profonda del tessuto sociale (specie del rapporto con i giovani) e con una vacillante unità nazionale? Tutti danno consigli e lezioni al Pd. Ma il punto che si continua a eludere quando si innalza il vessillo del rinnovamento è sostanzialmente questo. Dopotutto le nostre facce vivaddio sono pulite e i dirigenti nuovi e giovani sono tanti. Ciò che non si riesce a rinnovare è altro: è la concezione della politica come gioco di vertice, è come impedire la riduzione del partito a strumento elettorale. Ma soprattutto il fatto che non rappresentiamo gli «ultimi».
Abbiamo assistito allo spettacolo di volgarità, di cinismo, di fuga dai problemi reali e da ogni responsabilità verso il Paese che ci ha offerto la campagna elettorale. Ma è sbagliato prendersela con gli elettori. Ascoltiamoli, invece. Essi segnalano che la malattia è più profonda e riguarda il modo di essere dell’Italia. Ed è su questo che vorrei facessimo qualche riflessione. La verità mi pare è che il sistema italiano, cioè quell’insieme di strutture che formano lo Stato, l’amministrazione, la scuola, i compromessi sociali, il rapporto tra il Nord e il Mezzogiorno, non regge più. Siamo arrivati a un’ultima spiaggia. E ciò per tante ragioni, ma la principale è che noi, così come siamo, non siamo in grado di stare al passo con i cambiamenti del mondo. Non nascondiamocelo. Perciò da venti anni non cresciamo, e ciò rende incerto il futuro dei nostri figli e nipoti. Io credo che sia questo che spiega il terremoto politico in atto. La gente lo sente sulla sua pelle e disprezza «chi comanda». Sbaglia a dire «siete tutti uguali», ma io non ricordo una situazione simile, cioè un numero così grande di persone, di povera gente come di commercianti e soprattutto di giovani che appaiono così smarriti e sfiduciati, che non vedono un futuro sia pure non immediato. Persone alle quali la politica non può dire solo che la crisi è grave, che non è finita, anzi che il peggio deve ancora arrivare e che c’è ben poco da fare. Questa situazione non può durare. D’altra parte a che servono le ricette degli economisti se la società italiana si disgrega?
Dunque, arrivo al punto. Tutto ormai ci dice che è tempo di mettere in campo un pensiero politico sull’Italia più forte e più autonomo rispetto al ricettario dominante (rigore senza sviluppo). Un pensiero che, tenendo ben fermi i vincoli e gli impegni europei, rimetta al centro quello che è più che mai il problema principale di questo Paese: la questione della sua unità, irrisolta da più di un secolo ma aggravata diciamolo dal modo come le forze dominanti, il cosidetto «asse del Nord» (Berlusconi, Lega e il «salotto buono» milanese) ha governato per quasi 20 anni. In nome degli interessi del più forte, sul saccheggio dello Stato e sullo scatenamento degli egoismi sociali. Il risultato è che la povertà torna a presentarsi in larghe zone del Mezzogiorno mentre al Nord si moltiplicano i fallimenti delle imprese. L’Italia non è un problema di risorse scarse, né di «Roma ladrona». Se la cosa pubblica non funziona è perché si è rotto un organismo nazionale e un patto sociale.
Quindi è la grande politica che deve tornare a occupare il suo spazio. Il suo compito non è fare «inciuci» ma mettere fine alla scissione tra l’economia e la società. Lo spazio per le riforme esiste se si punta sul protagonismo delle persone, spingendole a misurarsi e a cooperare tra loro. I tecnici faranno quello che devono fare, ma il compito vero dei riformisti è mettere 60 milioni di italiani dotati di una qualche intelligenza (cioè persone, non derivati o titoli bancari) nella condizione di impadronirsi delle loro vite e quindi produrre cose, idee, progetti, bisogni, relazioni.
Tutto ciò in vista di che cosa? L’Europa. Ma anche qui dobbiamo uscire dal generico perché in Europa ci sono tante cose. C’è una destra e c’è una sinistra, c’è il più grande deposito di civiltà e capacità dell’uomo e ci sono al tempo stesso le fratture create dalle troppe guerre. Ma c’è in Europa anche una nuova possibile strategia in nome della quale lo sviluppo dei Paesi del Sud come l’Italia non è un peso, ma una grande occasione anche e soprattutto ai fini di un protagonismo mondiale. Parlo di una Europa che decida di aprirsi non solo verso il Nord, ma verso l’Oriente e l’Africa (i grandi sviluppi futuri) e che in ciò riscopre come sua risorsa straordinaria questa grande penisola protesa nel Mediterraneo che è l’Italia, il luogo delle antiche civiltà e religioni che hanno plasmato l’uomo moderno. Stiamo attenti perché questo non è un mito astratto, è il solo modo per tenere unita l’Italia. Solo una Italia unita può andare in Europa. E solo una nuova Europa può riaprire all’Italia le vie dello sviluppo.

l’Unità 28.2.13
La democrazia in presa diretta
La vittoria di Grillo e il nodo della democrazia diretta
di Michele Ciliberto


SE SI VUOLE CAPIRE QUELLO CHE È ACCADUTO IN ITALIA IN QUESTE ORE OCCORRE ALZARE LO SGUARDO DALLA ATTUALITÀ IMMEDIATA E SOLLEVARLO SU UNA LUNGA SPANNA DI STORIA ITALIANA, CERCANDO DI AFFERRARE I MOTIVI DI FONDO CHE HANNO PORTATO AI RISULTATI, A PRIMA VISTA SORPRENDENTI, DI QUESTA TORNATA ELETTORALE.
Il punto principale da cui partire è questo: nel nostro Paese è aperto ormai da quasi mezzo secolo il problema delle fonti e dei caratteri della sovranità: in altre parole è sul tappeto il problema delle forme e dei soggetti della democrazia. Un problema immenso ma di questo si tratta: niente di più, ma niente di meno. Se si volesse periodizzare, è un problema che si apre negli anni Settanta del secolo scorso e che, mai messo a fuoco con la necessaria urgenza dalle forze della sinistra, ha percorso, incancrenendo, la società italiana.
In questo lungo processo va collocata l’esperienza di Craxi che ne ebbe lucida consapevolezza, ponendosi il problema di una riforma costituzionale dall’alto e in termini sostanzialmente autoritari, ma muovendosi nel solco della tradizione democratica e socialista.
In questa prospettiva va situato il berlusconismo che non è stato, come a lungo si è pensato specie a sinistra, la performance teatrale di un bravo attore, ma il tentativo più organico compiuto in Italia di risolvere in chiave reazionaria il problema delle fonti e delle forme del potere, della sovranità: in una parola, della democrazia. Lo ha fatto, certo, con un uso sapientissimo dei media e interpretando e rappresentando interessi, bisogni, aspettative sociali di ceti assai vasti e non interpretabili alla luce delle vecchie nomenclature, a cominciare da quella di classe.
È proprio su questo terreno che però il berlusconismo ha ceduto; certo, la crisi internazionale ha avuto un ruolo importante ma il calare del consenso evidente, nonostante il risultato di questi giorni ha avuto anche altre radici e fra esse l’incapacità di costituire un nuovo patto fra dirigenti e diretti. Anzi, Berlusconi ha proceduto nella strada opposta, imponendo un modello di demagogia dispotica imperniata su un individualismo esasperato stabilendo su queste basi una egemonia culturale forte e di vasta portata. Se in queste elezioni ha tenuto, ciò è dipeso dalla resistenza di questa egemonia e dalla capacità che ha avuto, sia pure in extremis, di motivare e risvegliare il blocco di interessi che è sempre stato alla base del suo consenso elettorale. Ma in generale il distacco tra dirigenti e diretti nel ventennio berlusconiano si è approfondito, non è venuto meno.
Eppure questo bisogno di mutamento, di mobilità sociale, di trasformazione ha continuato ad agire come una forza sotterranea nella società italiana: tanto più forte, quanto meno è stato intercettato. Le forze di sinistra ne hanno avuto sentore e si sono inventate lo strumento delle primarie per mettere in sintonia governanti e governati, dopo la fine delle forme ideologiche, politiche e organizzative della politica di massa novecentesca. Questa prospettiva ha tuttavia avuto due limiti: non si è confrontata a sufficienza con il rapporto tra democrazia diretta e democrazia rappresentativa; si è risolta in una esperienza sostanzialmente interna agli apparati (di partito o della amministrazione) come si è visto nelle primarie di fine dicembre, riproducendo un ceto politico chiuso in dinamiche corporative e perfino castali.
La forza della proposta di Grillo sta qui: ha intercettato ed enfatizzato questa esigenza di mutamento, ma curvandola ed è questo il suo limite nella direzione di una democrazia diretta, con una netto rifiuto della democrazia rappresentativa e dei suoi organi. Grillo parla infatti di «comunità» contrapponendola al termine «società»; e alla figura del rappresentante sostituisce quella del delegato, revocabile in ogni momento da parte del popolo, cioè dal capo carismatico. Fra Stato e popolo per Grillo non devono esserci mediazioni di alcun tipo: il rapporto deve essere diretto, secondo i canoni della democrazia diretta di matrice ottocentesca.
È naturale che in una concezione di questo tipo ci siano pulsioni dispotiche, ma il dato politico con cui ora confrontarsi è il successo che nelle elezioni ha avuto questa proposta neo-giacobina. Porsi il problema di contenerla è certo giusto, se si vuole dare un futuro alla democrazia italiana. Ma per poterlo fare bisogna confrontarsi con i problemi, le esigenze, i bisogni di cui essa si è nutrita e sviluppata fino al successo, importante ma non imprevedibile, di questi giorni. E questo a sua volta significa che le forze riformatrici devono mettere al centro della loro azione, in modo organico e su tutti i piani, il problema dei rapporti tra governanti e governati nel nostro Paese. Che è poi la questione delle fonti e delle forme della sovranità. Cioè della democrazia.

l’Unità 28.2.13
Non si torni al voto. Riforme su pochi punti
di Claudio Martini


CI SARÀ TEMPO (BISOGNERÀ PROPRIO TROVARLO) PER ANALIZZARE LE MILLE RAGIONI DEL VOTO POLITICO E DEL TERREMOTO CHE HA PROVOCATO. Ora e subito c'è da trovare una soluzione che sblocchi l'impasse creatasi ed assicuri una forma ragionevole di governabilità, fosse anche solo per preparare al meglio nuove elezioni ravvicinate.
Non è facile vedere un sentiero su cui incamminarci. Si possono delineare comunque alcuni orientamenti di fondo, per non chiudere i pochi spiragli che esistono. Innanzitutto va rifiutato il richiamo del «torniamo subito al voto». Nell'immediato Napolitano non può sciogliere le Camere e peraltro sarebbe un altro colpo serio al prestigio del Parlamento e della nostra affaticata democrazia. Aggiungo: si pensa ragionevole tornare a votare con questa legge elettorale? E come si cambia la legge se non si forma un nuovo governo, al limite anche solo per questa?
Va dunque investito il Parlamento di una proposta limitata nei temi ma forte nei contenuti, che dia il senso che il messaggio di dolore e protesta degli italiani viene recepito e tradotto in provvedimenti urgenti. Vedremo poi quanto la legislatura potrà durare. Una proposta di cambiamento e non politicista. Nessun governissimo è possibile, sarebbe negare il senso del voto. Nessun accordo politico con Berlusconi è immaginabile in questo quadro, per il Pd sarebbe il veleno finale.
La proposta di governo, rivolta dunque a Grillo e a Monti, deve contenere pochi punti qualificanti. La riforma elettorale ed istituzionale, con la riduzione dei parlamentari ed il riordino/dimagrimento degli Enti; misure urgenti per il lavoro e le piccole imprese, per ridurre il disagio sociale, per far valere in Europa le ragioni del nostro sviluppo ed allentare il patto di stabilità; provvedimenti di moralizzazione della vita pubblica, contro la corruzione e per la legalità. Pochi punti, per non annacquare la proposta che deve essere forte ed efficace. E non fare le cose a metà, ma con qualità. Faccio un esempio: si può dimezzare il numero dei parlamentari levandone un po' alla Camera e un po' al Senato, ma si può fare anche chiudendo il Senato e risolvendo radicalmente il tema dell'inutile bicameralismo, con uno spazio finalmente libero per l'Assemblea delle Regioni. Non è la stessa cosa, a parità di tagli: solo la seconda ci dà vantaggi duraturi.
Infine: la politica sul territorio non può restare spettatrice e passiva, in attesa dell' esito delle trattative romane. Bisogna affiancare al dialogo in Parlamento la mobilitazione di tutte le nostre forze, dal popolo delle primarie ai mille contatti attivati durante la campagna elettorale. Per superare lo smarrimento e la delusione che ci sono tra i nostri elettori e militanti dobbiamo scommettere sulla forza rigeneratrice della partecipazione popolare. Se Grillo ci sfida con la rete e con le piazze non dobbiamo sgomentarci e anzi rilanciare. Confrontiamoci in mille luoghi, nel Paese vero e non virtuale. Sarà per tutti un modo per chiarire cosa vogliamo fare in concreto per il nostro Paese.

l’Unità 28.2.13
Un bisogno forte di rinnovamento
risponde Luigi Cancrini

psichiatra e psicoterapeuta

M5S rappresenta oggi una delle tre maggiori forze politiche in Italia. Penso che i voti che hanno preso meritino lo sforzo di provare a creare una coalizione di governo con loro. Su molti punti c’è concordanza di visione: legge contro la corruzione, contro il conflitto d’interesse, per la riduzione dei parlamentari, per la riduzione degli F35, per la riduzione del potere della finanza, nuova legge elettorale.
MICHELE FERRAZZINI
In una intervista rilasciata a Repubblica, Dario Fo, insiste su questa possibilità. Al di là della veemenza spesso scomposta con cui Grillo ha affrontato quella che comunque era una campagna elettorale, quello su cui si dovrebbe poter contare, secondo lui, è l'insieme delle persone che entreranno al Senato e alla Camera dopo il successo del Movimento cinque stelle.
«Sono giovani preparati e intelligenti che io ho conosciuto da vicino, dice Dario Fo, pronti a ragionare con la sinistra per fare le cose che gli italiani chiedono da tempo». Riconsegnare il Paese a Berlusconi, ha dichiarato ieri lo stesso Grillo, sarebbe «un crimine galattico» ed è davvero possibile, forse, immaginare che Bersani esplori a fondo questa possibilità nelle prossime settimane. L'alternativa del governissimo, che comunque rimetterebbe in gioco Berlusconi, con la presidenza del Senato a Berlusconi potrebbe essere infatti l'inizio di una fase in cui davvero ci si «arrende», prima che a Grillo e al suo movimento, al bisogno di rinnovamento espresso dagli elettori: schierandosi con lui, astenendosi e votando un milione di schede bianche. Un bisogno di rinnovamento che noi tutti, a sinistra, non siamo riusciti a cogliere in tutta la sua dirompente significatività.

l’Unità 28.2.13
La sinistra affronti l’onda populista
di Paolo Borioni


QUELLA CHE ABBIAMO VISTO AFFERMARSI COSÌ SPETTACOLARMENTE POCHI GIORNI ORSONO NELLE NOSTRE ELEZIONI È L’ULTIMA INCARNAZIONE del populismo europeo. Un‘affermazione esplosiva, ma non per questo più indigeribile di altre passate. Infatti il comportamento dei rappresentanti di M5S appare forse meno aspro o dirompente di quanto accadeva per altri populismi del passato. A prima vista i rappresentanti eletti del movimento paiono diversi dal loro «facilitatore», come Grillo è stato definito. Forse per indole, forse per necessità di penetrare l’indifferenza, Grillo riesce irricevibile nelle espressioni.
Ma i rappresentanti eletti risultano finora piuttosto pacati, anche se troppo ingenuamente convinti delle proprie ragioni. Il loro insistere sull’abbassare i compensi dei politici è tipico di un’economia di bassi salari, ma è clamoroso come svii l’attenzione dai luoghi principali in cui i bassi salari si determinano. Quei luoghi non sono le assemblee regionali o il Parlamento, ma le proprietà delle imprese, e i centri decisionali che delineano i loro comportamenti. Nondimeno, mentre per esempio i leghisti riuscivano tutti indistintamente rozzi come Bossi, i «grillini» paiono provenire da ceti informati ed educati, di sicuro versatissimi nell’uso delle tecniche web, fino (anche qui) ad esagerarne le potenzialità di controllo democratico degli eletti. Vedremo. Intanto, pensiamo a quanto, negli anni passati, la sinistra ha ignorato il vilipendio delle loro professionalità. Deve essere risultato odioso il ripetere, con Blair, «education, education, education» senza mai occuparsi di creare la domanda per tanta «education», né i giusti salari, o i diritti, che essa merita. Così, il nostro grillismo è parente stretto dei movimenti «Pirati» di Germania e Svezia, ma con della rabbia in più. Una rabbia forse innescata da Grillo, ma causata dal modo più evidente in cui la precarizzazione europea colpisce il nostro mercato del lavoro.
Del resto, ogni populismo deriva da un particolare contesto. In Scandinavia è nato quello moderno di Anders Lange (Norvegia) e Mogens Glistrup (Danimarca): esso, nei primi anni Settanta, era soprattutto «borghese», ed anti-tasse. Non a caso, intorno al 1970, gli scandinavi conoscevano uno sviluppo della pressione fiscale tuttora ineguagliato, che spaventò molti nei ceti liberal-conservatori. Si scrisse allora di una «rivolta dal mezzo» (le classi medie oppresse) e non «dal basso» della società. Si trattava, ovviamente, di classi medie estranee alle burocrazie del welfare, che invece in famosi libelli venivano additate come la nuova «classe dominante», che secondo il nuovo populismo alimentava tasse e spesa per gestire più potere, non per obbiettivi sociali. Lange e Glistrup costruirono forti movimenti aspri e iconoclasti, anche perché ai loro occhi i partiti liberali e conservatori erano ormai complici delle socialdemocrazie. Ovvero (in epoca evidentemente pre-neoliberale) succubi della crescita di Stato sociale e fisco. Ciò conferma che il populismo si alimenta di elementi simili: la delusione per come certe istanze vengono rappresentate dai referenti naturali. E l’assimilazione dei partiti in un «sono tutti uguali». In seguito, quando ha vinto l’egemonia del neo-liberismo, a essere colpite dalla delusione dei propri ceti sono state le socialdemocrazie. E anziché la retorica anti-tasse il detonatore è stata la retorica anti-immigrati.
Forse il M5S (come già i Piraten) rappresenta una terza fase. Ma la risposta spetta ancora alla sinistra. Infatti, magari è anche vero che oggi si ricerca una rappresentanza diretta, mito mobilitante anche questo populista cui le tecniche del web fornirebbero un veicolo ovvio. Ma si dismettano gli abbagli postmoderni. La politica e la questione sociale rimangono il centro di ogni spiegazione.
Intanto, in Italia, a differenza di quanto avvenuto in Germania o Scandinavia, Grillo (e prima Berlusconi) straborda perché è crollato, dal 1993, l’argine del sistema politico precedente. Cioè una rappresentanza forte e inclusiva che va ricostruita e rilegittimata, pur innovandola. Da noi, inoltre, si verifica in modo estremo un problema europeo: nuove generazioni gettate in un mercato del lavoro in cui si investe meno in innovazione. Perciò si precarizza, si remunerano poco le competenze e aumenta la diseguaglianza salariale. E così declina la mobilità sociale. Certo, anche le retribuzioni dei politici sono un problema: pur rimanendo infinitamente più poveri e innocenti dei managers della finanza, i politici troppo retribuiti, specie se di sinistra, danno l’impressione di subire il fascino delle «classi dominanti tutte uguali», «tutte tecnocratiche», lontane dal «popolo». Ecco allora che è ben possibile recuperare la rappresentanza di ceti perduti garantendo riforme sui cosiddetti «costi della politica». Ma soprattutto facendo il lavoro della sinistra: individuando nell’uguaglianza i veri motori della mobilità sociale, operando per i salari e per l‘innovazione e contro la precarizzazione, differenziandosi dalla tecnocrazia neoliberale e dall‘austerità. E credendo che nel M5S esiste una parte «sinistra», ovvero un possibile rapporto con un ciclo meno selvaggio e più ragionevole di populismo.

l’Unità 28.2.13
Governo e congresso: nel Pd si alza la tensione
Matteo Renzi non parla e rifiuta ogni invito a farsi avanti
Letta: Bersani è l’unico candidato premier
Matteo Orfini: «Una nuova generazione riporti il Pd fra la gente
Il voto? La protesta ha rivelato quanto fosse perdente rincorrere certe idee economiche liberiste»
«Non parliamo più ai ceti popolari, altro che Matteo...»
di Marco Bucciantini


Capire e ritornare. Matteo Orfini ripete le due parole, spesso, le “vede” davanti, perché c’è molto da fare, da protagonisti, «ed è il bello del nostro mestiere. Sarà difficile, ma non abbiamo scelta: provarci e riuscirci, al governo e nel partito», e divide i compiti in maniera generazionale. Partiamo dal governo. Bersani chiama Grillo e lui risponde: «Sei un morto che parla». Bell’inizio.
«Scontato: Grillo nei toni è inabbordabile. Lo deluderemo: lui guarda ai suoi interessi e non a quelli dell’Italia. Calcola solo l’ampiezza del suo successo e infatti sogna un governo fra il Pd e il Pdl, che favorirebbe la sua eterna protesta. Questo governo è contronatura: non ci sarà».
E dunque torniamo a Grillo.
«Dovrà decidere davanti a una proposta concreta cosa fare del Paese, del suo Paese, e come partecipare alla vita parlamentare. Più in generale, forse più esattamente, il Movimento 5 Stelle dovrà giocoforza cambiare natura: fin qui è stato una proprietà privata in mano a Grillo, adesso diventerà un soggetto plurale e rappresentativo delle istanze dei cittadini. Misurarsi con il nuovo ruolo impone considerazioni per ora snobbate: per esempio, è evidente che i cittadini vogliono un governo stabile, riformista, che incida e favorisca un grande cambiamento nel Paese». Il Pd è unito su questo punto?
«Nelle riunioni sì, nei retroscena no. Ma l’elettorato non capirebbe un governo insieme a Berlusconi...I dirigenti del Pd lavorino perché Bersani abbia un mandato pieno, e una proposta convincente». Non crede che il successo del M5S declini l’inadeguatezza dei dirigenti che non hanno percepito la forza di questa protesta?
«La diffusione e l’energia di questo malessere era avvertita. Ma non è un problema di prognostica: siamo mancati nella rappresentazione della rabbia sociale. Perché da vent’anni facciamo una grandissima fatica a parlare con i ceti popolari del Paese. Per un partito di sinistra è una sconfitta tremenda».
Ammetterlo è già qualcosa.
«Capirlo e rimediare è più importante. Prendiamo quest’ultimo anno: ci siamo attardati a parlare dell’agenda Monti, intestandosi e perfino rivendicando per il futuro politiche di austerità, senza vedere che quest’azione necessaria all’inizio, zelante poi non guariva il Paese, e finiva per alimentare la protesta. Il Pd si è diviso: una parte ha rincorso politiche economiche incomprensibili per la gente e la nostra proposta non è “arrivata” nella sua interezza, serietà e anche novità». Quando avete “perso” questo contatto con la gente?
«Quando abbiamo smesso di essere lì, con loro. Le primarie ci avevano riavvicinato, suscitando simpatia. Sono una buona risposta, ma non sufficiente, anche perché stimolano quello che un tempo avremmo chiamato “ceto medio riflessivo”, e non certo il ceto popolare». Essere lì: c’è ancora posto per il Pd, o siamo alla secolarizzazione dei partiti? «Dobbiamo tornare lì. Questa è la sfida. E non dobbiamo tornarci con un leader carismatico. Questa sfida è l’essenza per tutto un partito».
Quale? Quello che ha marcato visita negli ultimi vent’anni?
«Con la prova del governo si chiuderà l’epoca di un gruppo dirigente storico. Una nuova generazione si assuma il dovere di ricostruire il rapporto con la società». Torniamo al voto di protesta. Avevate la carta vincente, Renzi, e non l’avete usata. «Renzi avrebbe rappresentato una risposta alla voglia di rinnovamento. Ma guardo i risultati: le sue convinzioni economiche, la sua lettura alla crisi e le sue ricette incarnate da Monti e Giannino hanno insieme raccolto l’11%... Le idee di Renzi sono state sconfitte dal voto».
Hanno detto sicuramente che al sud il Pd è naufragato, nonostante avesse speso laggiù Bindi e Finocchiaro come capilista. O forse proprio per questo.
«C’è piuttosto una questione di iconografia del partito democratico. A parte Anna Finocchiaro i leader sono tutti nati e cresciuti da Pisa in su.... Questo si riverbera sulla fatica di comprendere il Mezzogiorno, e sulla difficoltà a proporsi come rappresentanti credibili».
E il calo nelle “regioni rosse”?
«È la risposta alla nostra mancata rigenerazione della classe dirigente di queste zone, e alla difficoltà di aprirsi ai cittadini». Avete pagato l’esperienza di governo con Monti?
«Governare non è impopolare: questo è un vecchio luogo comune. Se governi bene, e fai le riforme che servono, crei consenso. Ma il Pd era diviso sul giudizio verso il governo Monti. La gente, come si è visto, aveva invece una sola opinione...».

l’Unità 28.2.13
Il Paese chiede radicalità, il Pd non l’ha capito
di Roberto Weber


VEDENDO SFUMARE LA VITTORIA DEL CENTRO-SINISTRA, MOLTI AVRANNO PENSATO al 2006: anche allora infatti i sondaggi davano quattro o cinque punti di vantaggio alla coalizione di Prodi e anche allora finì in un sostanziale pareggio. Questa volta tuttavia le cose hanno avuto un andamento leggermente diverso: Silvio Berlusconi si è fermato grosso modo alla soglia indicata dai sondaggi. Il Movimento Cinque stelle è andato un po’ oltre, Monti è rimasto leggermente sotto mentre a tradire le previsioni è stata la coalizione di Bersani che si è ritrovata con circa tre punti in meno. Detto ciò credo sia importante comprendere se questa «debolezza» della coalizione sia stata l’esito di una campagna elettorale «timida» e tendenzialmente giocata di rimessa forse nella convinzione che il patrimonio accumulato era bastevole o se invece sia il risultato di una tendenza erosiva più profonda che ha diverse e più sostanziali motivazioni, politiche, sociali ed economiche.
Io sono personalmente di questo secondo avviso e credo che se pure la campagna elettorale ha inciso, vi siano ragioni più profonde e ahimé meno agevolmente medicabili alla base della mancata affermazione del Pd e del centro-sinistra.
Penso che il Partito democratico non abbia compreso la domanda di radicalità che ha pervaso il Paese in questi ultimi due anni, che si è accentuata a partire dall’esperienza del governo Monti e che non tende a diminuire. Di questo clima e di questa domanda si sono fatti interpreti Silvio Berlusconi, dal momento della sua ridiscesa in campo, e Beppe Grillo da almeno 3 o 4 anni. L’elettorato di Berlusconi - perlomeno la sua parte attuale ma non solo - è del tutto impermeabile ai messaggi della sinistra. Si tratta di una condizione strutturale, storicamente data e permanente. L’elettorato di Beppe Grillo invece una buona parte di quello attuale e di quello potenziale è mosso ed è stato mosso da motivazioni diverse, tutte però, declinate all’insegna della radicalità e tutte raccontate in termini radicali: dalla domanda di etica nei comportamenti pubblici, al discorso sui beni comuni (acqua, suolo, energia, scuola, sanità etc), ai meccanismi di selezione dei gruppi dirigenti, al profilo dei «nemici» così nitidamente definiti (i partiti, le grandi banche, le istituzioni finanziarie, l’Europa che abbiamo conosciuto in questo paio d’anni, i manager delle grandi aziende e i loro guadagni, più generalmente un modello di sviluppo definito insostenibile).
L’M5S quindi si è fatto catalizzatore di tensioni profonde di parte della società italiana e contemporaneamente ha raccolto una pulsione di vasta rancorosità che s’era fatta strada in essa: l’idea di essere stati traditi, presi in giro, di aver dato più di quanto avevano ricevuto.
Tutto questo ha rappresentato il combustibile del M5S ed è stato argutamente ed efficacemente messo «in piazza» da Beppe Grillo (un comico, ma chi se non i comici hanno meglio raccontato questo Paese?). Ora sta soprattutto ai politici stabilire se parte almeno di questo «materiale grezzo» non avesse potuto e non possa ancora essere declinato dal Partito democratico.
Credo che il Pd abbia quindi perso la sua partita su questo crinale e l’abbia perduta non ieri, ma nell’arco di un tempo lungo, lasciando che i consensi affluissero «malgrado», sul registro dominante della scelta «del meno peggio». Troppo poco per vincere le elezioni.

l’Unità 28.2.13
Graziano Delrio
Il presidente dell’Anci: «Serve che il Parlamento si esprima su alcuni provvedimenti urgenti Ma di alleanze organiche col Pdl non se ne parla»
«Pensiamo al Paese. Il congresso del Pd verrà dopo»
di Paola Benedetta Manca


BOLOGNA «Il Pd in questo difficile momento per l’Italia non deve guardare al proprio ombelico e perdersi nei problemi interni di partito ma pensare al bene del Paese».
Graziano Delrio, sindaco di Reggio-Emilia, presidente nazionale Anci, renziano convinto e possibile ministro di un governo Bersani, esorta i Democratici a rimandare rese dei conti e discussioni interne. «Il Paese deve restare unito» avverte, ma ammette che, una volta ritrovata la stabilità politica, nel Pd bisognerà fare una riflessione «su cosa abbiamo sbagliato» e che a quel punto «Matteo Renzi può rientrare in campo».
Dopo il risultato elettorale, in effetti, molti nel Pd hanno invocato il ritorno del sindaco fiorentino. A Bologna il sindaco Virginio Merola, bersaniano doc, a sorpresa ha dichiarato: «Serve rinnovamento e Renzi è la nostra chance». La sua fuga in avanti è stata bloccata subito dai dirigenti locali del Pd e dagli stessi renziani che l’hanno ammonito: «Non è il momento di pensare a cosa farà Renzi. Ora bisogna pensare al Paese, non ad aprire il Congresso».
Delrio, dopo il risultato elettorale, c’è agitazione nel Pd e in tanti chiedono un’entrata in campo di Matteo Renzi.. «In questa fase la cosa importante è non fare riflessioni sul futuro, che sono premature, ma sul presente che ci sta presentando un conto salatissimo, con problemi gravi a cui bisogna pensare immediatamente. Tra questi: il finanziamento della cassa integrazione in scadenza, l’aumento dell’Iva (che vale 4 miliardi) e soprattutto la necessità di non buttare a mare i sacrifici enormi fatti dalle famiglie e dagli enti locali. I problemi del partito devono restare nello sfondo». Quali sono i prossimi passi da fare per uscire dall’impasse dopo le elezioni? «Secondo me, bisogna mettere insieme dei provvedimenti urgenti e dare la disponibilità ad approvarli al Presidente del Consiglio incaricato dal Capo dello Stato».
Quali sono questi punti?
«La riforma delle legge elettorale, l’abolizione dei finanziamenti pubblici ai partiti, la soppressione delle Province e la ridiscussione del Patto di Stabilità, particolarmente urgente perché le imprese stanno chiudendo». Poi cosa succede?
«Dopo il governo deve chiedere al Parlamento di esprimersi su questi provvedimenti».
Nessun accordo fra i partiti quindi?
«No. Il Pd deve fare la sua proposta, includendo queste riforme urgenti, in modo da rendere il Paese governabile. Ricordiamoci che l’ingovernabilità danneggia soprattutto i più deboli: i giovani senza lavoro e le imprese che non trovano credito».
I renziani, Paolo Gentiloni e Giorgio Tonini, suggeriscono di non sbattere la porta in faccia al Pdl...
«Di alleanze organiche con il Pdl non è il caso neanche di parlarne».
Bersani, però, si è richiamato al senso di responsabilità del Movimento 5 Stelle, anche se ieri Beppe Grillo ha chiuso ad ogni confronto..
«Il Pd deve insistere nel riuscire a far capire che non ha nessun desiderio di assicurarsi posti in Parlamento ma solo di affrontare le urgenze». Torniamo a Renzi, facciamo finta che l’emergenza politica e istituzionale sia stata superata e sia arrivato il momento di discutere sulla leadership del Pd... «Bisognerà fare, innanzitutto, una riflessione profonda e serena sul fatto che il Pd non sia riuscito ad intercettare le speranze dei giovani e la loro paura del futuro, nè a dare una risposta alle ansie degli imprenditori. Non siamo riusciti a convincere gli elettori». Dopo la riflessione, cosa succede? «Dopo quest’analisi ci potranno essere le condizioni e il terreno adatto per un rientro di Renzi. Matteo è una grande risorsa per il Pd e il Paese. Il partito però deve restare unito».
«Cos’ha sbagliato, secondo lei, il Pd durante la campagna elettorale?» «Sicuramente ci sono state carenze a livello comunicativo. Lo dicono i risultati elettorali. La gente non ha creduto al nostro desiderio di rinnovamento. Non siamo riusciti ad allargare il nostro campo, come abbiamo fatto con le primarie, e il nostro bacino elettorale».
Secondo lei Renzi ci era riuscito?
«Sì. Matteo ha avuto la capacità di fare questo passo in avanti».

il Fatto 28.2.13
Quattro tappe chiave: dalle Camere al capo dello Stato


IL 15 MARZO 2013: si riunisce il Parlamento. Camera e Senato devono essere convocate per la loro prima seduta entro 20 giorni dalle elezioni. La data del 15 marzo è quella prevista dal decreto con cui il presidente della Repubblica ha sciolto le Camere convocando i comizi elettorali. Dal 16 al 20 marzo saranno eletti i presidenti delle camere. A Montecitorio dopo i primi tre scrutini basta la maggioranza assoluta (il Pd ce l’ha). Al Senato serve la maggioranza assoluta. Il terzo giorno si va nel caso al ballottaggio tra i due più votati. Il 20 marzo si costituiscono i gruppi parlamentari. Dal 21 al 30 marzo partono le consultazioni. Istituiti tutti gli “interlocutori” del capo dello Stato richiesti dalla Costituzione per le consultazioni che porteranno alla nomina del presidente del Consiglio, si può partire con il tema del governo. Napolitano tenterà di conferire un incarico prima di Pasqua (31 marzo). Infine, dal 15 aprile al 3 maggio si elegge il nuovo Capo dello Stato. A 30 giorni esatti dalla scadenza del mandato di Napolitano le Camere sono convocate in seduta comune per il voto. La seduta potrebbe essere convocata per i primi di maggio, in modo da consentire ai Consigli regionali di eleggere i rappresentanti.

il Fatto 28.2.13
Senato: come funziona il voto di fiducia


DEL TEMA si è discusso in queste ore. Come si fa, non avendo una maggioranza al Senato, riuscire a ottenere la fiducia al governo nell’aula di Palazzo Madama? Nella nostra Camera alta il voto di astensione corrisponde infatti a voto contrario. Se quindi i 54 senatori grillini si astenessero nella votazione di fiducia, sarebbero 54 “no” alla fiducia per il governo.
Tra le alchimie studiate, si ipotizza (sono sempre casi di scuola, nulla di concreto) che i 54 senatori Cinque Stelle possano “uscire dall’aula”, consentendo ai 123 colleghi di centrosinistra di avere la meglio sui 117 senatori di centrodestra (con i grillini, però, dovrebbero uscire dall’emiciclo o votare favorevolmente al governo anche i 19 senatori montiani). Anche qui la soluzione appare impraticabile. Nel caso infatti che i 54 grillini escano dall’aula, nulla impedirebbe ai loro colleghi di centrodestra di fare lo stesso, lasciando in aula 142 senatori, meno della maggioranza (158) considerata “numero legale” per le deliberazioni.

il Fatto 28.2.13
Il signor G. balla da solo?
di Furio Colombo


C’è una proposta di Bersani. Annuncia di voler portare al nuovo Parlamento una proposta nuova e drammatica che tocca in modo chiaro e diretto i punti più discussi e criticati e disprezzati della politica come è stata vissuta fino ad oggi: il finanziamento dei partiti (o rimborso delle spese elettorali), la legge elettorale, il numero dei parlamentari delle due Camere, il modo di trovare risorse e aiuto per chi ha pagato più cara (o ha sente di avere pagato da solo) l’austerità. C’è una risposta di Grillo, pronta, ferma e dura. Una risposta che però si evolve di frase in frase, come cambia una voce quando passa da un ambiente esterno a un ambiente interno. In questo caso, dalla piazza e dal comizio elettorale (“un morto che parla, uno stalker”) a un interno, per esempio l'aula del Parlamento. Infatti è una dichiarazione che sembra scivolare nel puro e semplice rifiuto con disprezzo, frena il disprezzo e presta attenzione al modo di uscire, come dire, sia dalle parole che dal labirinto politico. Il fatto è che alla fine “noi voteremo tutto ciò che possiamo condividere”. L’atmosfera è un po’ quella della Notte dell’Oracolo di Paul Auster: apparentemente non c’è via d’uscita, se non voti la fiducia, non voti nulla perchè non c’è un governo che possa proporre qualcosa. Ma, nello stesso tempo, se ti impegni a votare qualcosa, vuiol dire che qualcosa accadrà in una ipotetica “fase uno” perchè si possa cominciare il lavoro “come fa Crocetta” (dicono in tanti riferendosi alla Sicilia dove lo M5S ha portato persone diverse ma non il rovesciamento dei tavoli) in una ipotetiuca “fase due” di lavoro parlamentare che qualcuno crede di intravedere e a cui l’editoriale del direttore faceva un riferimento su questa pagina ieri mattina. Se confronti frase per frase diresti che non può accadere, se pensi che tutta questa gente nuova è arrivata per iniziare una politica diversa, allora capisci che prima di discutere su quanto e come questa politica sarà diversa, bisognerà cominciare. È in questa strettoia (che forse è meno angusta di quello che sembra) che forse si trova un passaggio. Perchè, per quanto sia “estraneo al sistema” e “diverso”, è difficile che Grillo voglia ballare da solo.

il Fatto 28.2.13
Risponde Furio Colombo
Non datemi l’ultima delusione


CARO COLOMBO, chi le scrive è un uomo di settandue anni che da circa cinquantotto (ovvero da quando ragiona di politica) sostiene le ragioni della sinistra a cuore aperto, e senza mai vergognarsene anche nei momenti di sconfitta. Spero con tutte le mie forze che non si vada ad un governo di grossa coalizione Pd-Pdl- Monti. Sarebbe la fine della democrazia e la inevitabile accettazione di richieste che sono ricatti. E addio alla legge sul conflitto di interessi, sulla corruzione, sul falso in bilancio.
Carlo

LA LETTERA è molto più lunga (e molto bella) e l'autore mi scuserà se mi sono limitato a prendere la parte più importante, la frase finale. L'ho fatto perchè mi è chiaro quanto quella perorazione sia cara al lettore che scrive, e anche perchè la condivido in pieno e mi offre l'occasione di dirlo forte e chiaro su questa pagina. I Lettori sanno che spesso non sono ottimista quando tocca a me esprimere la mia parte di opinione. Questa volta vorrei dire che non solo condivido e faccio mio il messaggio appassionato della lettera. Ma attendo con una certa fiducia che i fatti rassicurino lui e me, e i milioni di persone che hanno votato, come lui, a sinistra. Infatti quei voti sono la causa di ciò che ha detto Bersani dopo i risultati delle elezioni. Rassicura anche una situazione che non offre uscite facili e un Paese che non sembra più disposto a tollerare scorciatoie o furbizie. Devo dire che il modo in cui il Pd sta affrontando queste ore non suggerisce un'idea di abbandono. C'è la responsabilità di troppi voti (anche se troppo pochi) per potersi anche solo simbolicamente accostare a Berlusconi. E' una questione di reputazione, non solo in Italia, ma in Europa, nel mondo. Nonostante lo scandalo della vittoria di Maroni a Milano, contro un uomo come Ambrosoli, Berlusconi non ha vinto, non vince e non gli resta che trovare un modo (uno di quei modi che lui definisce " eleganti") per allontanarsi. E lo farà fra non molto.

il Fatto 28.2.13
La voce della rete
Il web una risposta l’ha già data: ora trattiamo con i democratici


Una cosa fondamentale hanno detto ieri sera gli undici parlamentari del Movimento 5 stelle appena eletti in Emilia Romagna in una riunione convocata a Bologna: “Saremo costruttivi come vuole la Costituzione”. Non hanno aggiunto niente che possa lasciar intendere uno scenario di guerra: invitano solo il loro punto di riferimento, Beppe Grillo, a prendere in esame tutte le soluzioni perché il Paese abbia un governo.
LO FANNO CON razionalità e prudenza. E riunioni analoghe si stanno svolgendo in queste ore in tutte le città d'Italia dove il Movimento è radicato. Uno vale uno, dunque hanno voglia in queste ore frenetiche di dire la loro. Anche perché andranno a ricoprire dei ruoli istituzionali e vogliono presentarsi non come fecero i leghisti del 1994 al grido di Roma ladrona. No.
Più avventati sono invece quelli che si rivolgono direttamente a Grillo sul suo sito, commentano sui social network, rilanciano con petizione online. Strumenti diversi per le stesse richieste: pragmatismo, confronto con la base e senso di responsabilità. “Mi pare un errore non votare la fiducia, vorrebbe dire andare a votare tra pochi mesi con la stessa legge elettorale, può portare un vantaggio al movimento in termini di voti ed anche a Berlusconi, ma porterebbe un danno enorme al paese”, è il commento di Matteo M., tra i più letti sulla pagina beppegrillo.it   .
Per Raffaele Diana “bisogna agire con calma senza rispondere di getto”, mentre Giorgio Scarpa invita ad ascoltare la proposta di Bersani: “Se tutti, ma proprio tutti i punti, coincidono con il programma del Movimento benissimo, si può votare la fiducia, altrimenti niente”. L'ipotesi di un ritorno alle urne spaventa gran parte dei militanti a 5 stelle, che vede il rischio di gettare al vento il clamoroso successo ottenuto con il voto di domenica, e con lui settimane di campagna elettorale. Sanno che il momento è delicato, non solo per la situazione del Paese che sembra condannato all'impasse, ma anche per la minaccia di un governissimo, sulla falsa riga di quello dei tecnici.
QUEST'ULTIMO, ad esempio, è lo scenario che più spaventa la toscana Viola Tesi, elettrice del Movimento, che decide di metterci la faccia e non solo un nickname. Il suo appello, lanciato sulla piattaforma change.org  , raccoglie in un pomeriggio oltre 15 mila adesioni. “Dobbiamo scongiurare qualsiasi ipotesi di alleanza Pd - PdL, e non permettere alla minoranza di Monti di condizionare gli equilibri parlamentari. Possiamo respingere il ritorno di Berlusconi e costringere Bersani ad accettare le sfide che i suoi stessi elettori vorrebbero raccogliesse. Si possono fare poche cose, prima di tornare alle urne, in poco tempo”, aggiunge la giovane attivista del Cinque Stelle. E poi elenca i punti: una nuova legge elettorale, una legge contro la precarietà e l’istituzione del reddito di cittadinanza, la riforma del Parlamento, l’eliminazione dei loro privilegi, l’ineleggibilità dei condannati, la cancellazione dei rimborsi elettorali. E mentre su twitter nasce l'hashtag #grillodammifiducia per scongiurare l'intesa tra Bersani e Bersluconi, i parlamentari freschi di elezione, forse anche per evitare grane con i vertici preferiscono non esporsi, prima di aver definito una linea comune. “Non decidiamo singolarmente, ci deve essere prima un confronto”, chiarisce Maria Mussini, prossima senatrice a 5 stelle. Strategia che dovrebbe essere concordata in un summit a Roma, all'inizio della settimana prossima, a cui dovrebbe partecipare anche Grillo. e.l.

il Fatto 28.2.13
Bersani, l’ultima trincea. O Grillo o muerte
Beppe lo dà per finito, ma lui dice: senza accordo si rivota, e una parte del partito lavora per l’inciucio con B.
di Antonello Caporale


“Sei un morto che parla”. All’ora di pranzo giunge la voce di Beppe Grillo. Graffia, sfregia, irride. Pierluigi Bersani si è fatto troppo vicino ed è un modo per scrollarselo di dosso, ritrovare la giusta posizione in campo. Rifiatare perchè il pressing si fa insistente. Il Pd vorrebbe fare il governo con i 5 stelle, roba da matti. Si fa intervistare dalla Bbc: “Destra e sinistra si metteranno insieme. Durerà un anno questo governo e poi il Movimento cambierà il mondo”.
È FORSE la disperazione che porta Bersani ad azzeccare il rilancio: “Ce lo venga a dire in Parlamento”. Il leader mancato della sinistra al governo con Mario Monti conferma di aver cambiato rotta, sistema il timone in un modo piuttosto impetuoso verso il mondo nuovo del grillismo dove sono confluiti parecchi milioni di suoi elettori e prosegue la sua corsa verso l'unico obiettivo che sembra avere. Giungere in Parlamento come premier incaricato, elencare le priorità e attendere il voto dell'aula. “Dovranno dire no alla legge che regola il conflitto d'interessi, no al dimezzamento dei deputati, no alla riforma del mercato del lavoro. E se lo diranno si prende atto e si va al voto”, dice Miguel Gotor, consigliere del principe, galvanizzato e ottimista. O mi voti o si vota. “Bersani non ridurrà il Pd alle cifre del Pasok (partito socialista greco ridotto quasi all'inesistenza dopo aver accettato un governo di grande coalizione, nda) e non ascolterà i consigli di chi vorrebbe spingerci nelle braccia di Berlusconi”.
Oltre i ceffoni di Grillo, Bersani ha da chiedersi quanti amici ha in casa. Ieri l'altro l'hanno accolto come l'ospite inatteso, spendendo neanche una sillaba quando ha illustrato la sua linea d'azione. “Siamo stati una decina a parlare, gli altri zitti come pesci in barile. E in quale barile stanno nuotando felici? Silvio ci fa sapere poche cose, ma chiare: datemi la presidenza del Senato, tutelate Mediaset, e io sarò ragionevole, comprensivo, responsabile”, racconta una voce anonima, testimone attendibile ma allarmato dell'aria che tira. Sono le coincidenze ma il doppiopetto di Berlusconi è ricomparso ieri. In un video-messaggio ha offerto la disponibilità a farsi carico, ed è intuitivo che lo faccia per l'altissimo senso dello Stato, dell'impegno a ragionare “sulle cose da fare”. Pragmatico, fiducioso, aperto anch'egli al nuovo. Ed è solo una seconda coincidenza se anche Massimo D'Alema pensa, nell'interesse del Paese, che il premier incaricato, dunque Bersani, possa e debba coinvolgere tutto il Parlamento nello sforzo di salvare il Paese dalla sciagura. E anche Walter Veltroni ritiene che il Paese abbia bisogno di un premier di altissimo profilo. Si chiama governo del Presidente, cioè di Giorgio Napolitano. Il capo dello Stato potrebbe anche non affidare a Pierluigi Bersani l'incarico. Nell'ipotesi, finora non suffragata da fatti, le parole di Grillo riacquisterebbero senso: “Destra e sinistra faranno insieme un governo”. Ma Bersani vuole chiedere per sé, non per altri, l'incarico. Sceglie di avanzare da solo e l'idea di un governo di minoranza, aperto ai voti grillini e magari a quelli dei centristi di Monti, è l'unica ipotesi praticata, l'unica scelta possibile, “l'unica alternativa al suicidio”.
PER FAR QUESTO ha bisogno di due mandati. Il primo glielo dovrà conferire in una forma politicamente più robusta il partito. Ha la maggioranza e andrà liscia la conta. Come sempre accade i contrari rifuggiranno dall'idea di doversi mostrare e si accomiateranno, silenziosi, nelle retrovie. Aspettando che il pacco bomba gli esploda tra le mani. Perchè Grillo, ed è un conto da non scartare, ha nella parola una munizione micidiale: rendere eversiva, impraticabile l'idea stessa di una intesa. Come? Proponendo, per esempio, l'uscita dall'euro. Una posizione tattica che lo escluderebbe dal novero del convitato. “Anche in quel caso, anche se dovesse utilizzare il lanciafiamme per allontanarci da qualunque intesa, Pier Luigi non si scoraggerebbe. Andrebbe in Parlamento e, rivolgendosi a tutti (ma puntando il volto dei grillini), spiegherebbe: prima cosa da fare, conflitto di interessi. Seconda cosa, dimezzamento dei parlamentari... ”. Così Gotor, ancora lui.
I punti programmatici si faranno un po' più cospicui, la durata del governo più larga (un anno, forse due), la scommessa più alta. “Io sto con Bersani su tutta la linea, punto per punto” dice Enrico Letta, il suo vice. Punta gli occhi su quel che accade nella base del movimento e certo le notizie di un disagio più largo e impetuoso del previsto lasciano almeno la speranza di proseguire nel gioco dell'alleanza.
E' il giorno dell'azzardo. E ogni mossa è anche un capitombolo verso l'ignoto.

il Fatto 28.2.13
Emanuele Macaluso: Consigli a Bersani
Serve un governo con personalità forti, extra Pd
di Eduardo Di Blasi


Nel momento in cui il Paese avrebbe bisogno di un governo fortissimo noi abbiamo un non governo, un governo che non dispone di una maggioranza. Non ricordo una situazione così drammatica”.
Emanuele Macaluso mette in fila la sua storia dall’elezione al Comune di Caltanissetta nel ’46, ai suoi 75 anni in politica, nel Pci, sponda migliorista, la stessa di Giorgio Napolitano, all’amara constatazione genetica “che più che alla fine della vita politica sono alla fine della vita”, per ribadire: “Siamo in una situazione inedita e drammatica per la Repubblica. Non c’è un momento simile che io ricordi. Senza la maggioranza al Senato non si può governare”.
Esiste una strada politica da poter percorrere?
La proposta portata avanti da Pier Luigi Bersani “somiglia” a una soluzione, ma non lo è. Io non vedo come si possa fare un governo con Grillo che non vota la fiducia e con l’attesa che semmai qualcuno esca dall’aula al momento del voto. Col rischio che poi escano dall’emiciclo di Palazzo Madama anche quelli del Pdl facendo mancare il numero legale. No, questo è impossibile. Siamo di fronte a rappezzi.
L’accordo con Pd-Pdl?
Assolutamente no. Ma come si fa nello stato in cui si trova il Paese a scendere a patti con uno che dice “va bene, ma prima garantite un salvacondotto per il Cavaliere... ”?
Allora che si fa?
Per me la via d’uscita non c’è. Se fossi in Bersani io farei un governo chiamando personalità di spessore anche fuori dal Pd. A quel punto mi presenterei alle Camere a dire le cose che voglio fare: “Dobbiamo fare una riforma costituzionale, una legge elettorale a doppio turno che garantisca la governabilità del Paese, il dimezzamento, da subito, del numero dei parlamentari”. Direi anche cosa voglio fare su tasse e lavoro. Direi come voglio cancellare le leggi ad personam e sulla giustizia. Direi cose molto nette e chiederei un voto su questo. E vedrei chi ci sta.
E se andasse male?
Se non passa io credo che il presidente della Repubblica debba mandare alle Camere un suo governo. E credo che le stesse, con senso di responsabilità, dovrebbero a quel punto concedere a quello la fiducia. I parlamentari hanno il dovere costituzionale di far funzionare il Parlamento. Prima dell’elezione del nuovo presidente della Repubblica ci deve essere un nuovo governo in carica.
I tempi della politica, a questo punto, tra elezioni dei presidenti delle Camere, consultazioni, incarico di governo e voti di fiducia ci porterebbero a inizio maggio. A quel punto non saremo di nuovo sotto l’attacco della speculazione economica?
La situazione, come ho detto, è drammatica e sicuramente con il “non governo” la speculazione avrà corso. Ma qui si sottovaluta la questione sociale. Non ci sono solo i mercati. C’è una caduta della cultura politica di massa. Per questo non si capisce quale sia la situazione politica del Paese.
Mario Monti, che doveva portare in salvo la barca del Paese, con la sua candidatura a premier non ha garantito certo stabilità...
Lo dissi da subito. È stato un errore. Come è stato un errore del Pd quello di non mettere mano alla legge elettorale. Monti ha fatto un errore grave. Ho sentito anche che ha commentato nel dopo voto come fosse un capo partito. Sono rimasto colpito soprattutto dalla sua insensibilità istituzionale. Se prima poteva essere considerato una risorsa della Repubblica, adesso è il capo di un partito più o meno simile all’Udc.
La sua discesa in campo ha inciso sulla competizione elettorale...
Per me Bersani e Monti dovevano correre assieme. Dare certezza sul dopo. Semmai organizzare le desistenze al Senato. Non hanno fatto nemmeno questo.

il Fatto 28.2.13
Nel Pd il dopo Bersani è già iniziato
Il congresso sarebbe a ottobre
“Ma tutto deve cambiare ora” attacca Orfini
di Wanda Marra


I grillini i voti li hanno tolti in larga maggioranza al Partito Democratico. A dirlo è lo studio sui flussi in 9 grandi città fatto dall’Istituto Cattaneo. A Tori-no (37 su 100 passano dai Democratici a Grillo), a Brescia (32 su 100), a Padova (16 su 100), a Bologna (48 su 100), a Firenze (58 su 100), ad Ancona (47 su 100), a Napoli (44 su 100) è andata così. Meglio a Reggio Calabria e a Catania. Se serviva un altro dato per descrivere la “non vittoria” del partito che assomiglia tanto a una débacle, eccolo qua. In un’altra epoca, e forse in presenza di un’analisi e di una visione di prospettiva meno alla giornata, forse le dimissioni sarebbero già arrivate. In un partito a cui sfuggono sia la reale comprensione del fallimento, che la direzione verso cui andare queste oggi sono impensabili. Non lo saranno domani. E mentre Bersani sta arroccato nel suo fortino, nel tentativo di salvare il salvabile (e se stesso) la corsa al siluramento è già cominciata. Prima delle elezioni, Bersani l’aveva detto che avrebbe lasciato la segreteria. Pensava di essere impegnato a Palazzo Chigi. Adesso dovrà farlo comunque. Tutto rimandato a quando si capirà se l’operazione governo a 5 Stelle va in porto o no, ma siccome il boicottarlo è tra gli interessi di bottega le cose sono strettamente collegate. Nella riunione del “caminetto ” (un nome che è tutto un programma: non è la segreteria, non è la direzione, non è l’assemblea. È un incontro senza potere decisionale di giovani dirigenti e vecchi big) di martedì sera i grandi vecchi sono stati tutti zitti, tutti acquattati. Nessuna esplicita sconfessione a Bersani, nessun sostegno. Meglio lasciarlo sbattere da solo e remare contro nell’ombra. Vedremo se ci sarà uno scontro più vero nella direzione convocata per il 5. “Vogliono fare il governissimo Pd- Pdl, ma non glielo faremo fare”, commenta veementemente Matteo Orfini, giovane turco, della sinistra del partito. E in effetti, mentre in teoria si ragiona per il futuro del paese, molti pensano al loro futuro. “Basta così, è arrivato il momento che si facciano da parte”, dice ancora Orfini. Quel gruppo dirigente, quei rottamati solo a chiacchiere, D’Alema, Veltroni, la Bindi, Fioroni e Gentiloni il governo con Grillo non lo vogliono. Le alternative sono le più varie: da un governo del presidente al governissimo. Il tutto con loro in posti di rilievo e Bersani fuori. Per ora la parola dimissioni l’hanno pronunciata esplicitamente Civati (che poi s’è smentito) e la Vincenzi. Ma è solo questione di giorni. Il congresso è programmato a ottobre, con tanto di primarie. Possibile aspettare fino a quel momento? Serve una “figura di garanzia” per gestire la transizione tira fuori Sandro Gozi. I giovani turchi hanno la loro proposta: una specie di gestione collegiale, con uno di loro che tira le fila (magari Andrea Orlando) e che faccia piazza pulita di una serie di riti classici dei democratici, a partire appunto da caminetti e dai “tortellini magici”. “Basta, una fase così delicata, mica la possono gestire Migliavacca e Errani”. Ancora Orfini. Ma soprattutto c’è Renzi. Ora i Democratici sono sul “tutti con Renzi”. Lui ha fatto sapere che la linea Grillo non lo convince, non ha messo la faccia sulla sconfitta, ma non ha sconfessato Bersani. Vuole fare il segretario del Pd? Non dice né sì, nè no. Adesso nessuno sarebbe pronto a dichiarargli guerra preventiva. “Se vince Renzi muore ilo Pd”, disse il Lìder Maximo”. Ma quello che vuole fare davvero lui è il premier. Aspetta solo di capire quando ci saranno le condizioni. E poi c’è Fabrizio Barca, che molti vedrebbero come il Papa (un po’) straniero, che potrebbe salvare capra e cavoli. Non ha la tessera del Pd, ma non è una figura di rottura. Sempre che non si blindi un dirigente d’apparato. Enrico Letta sarebbe pronto. Ma è il vice-segretario. Il vice non vittoria.

il Fatto 28.2.13
Grillo al top, il web lo sapeva già
Ci siamo fidati dei sondaggi e abbiamo sopravvalutato Twitter
ma su Facebook e nei commenti ai siti online era tutto chiaro
di Stefano Caselli


La cosa più stupefacente è che qualche commentatore continui a stupirsi del successo clamoroso del Movimento 5 Stelle. D’accordo, il web non è la vita reale, ma da molti anni ne rispecchia una fetta consistente (e fa sorridere che spesso ancora si usi l’espressione “nuovi media” per indicare l’informazione online). Era già successo prima della tornata amministrativa della primavera 2012, quella della presa di Par-ma, nonostante le 101 piazze di allora fossero spesso non troppo affollate (a Palazzolo sull’Oglio, vicino Brescia, Beppe Grillo radunò meno di cento persone su un prato). Anche allora, tuttavia, bastava tenere distrattamente sott’occhio i social network, i siti dei quotidiani che ospitano i commenti degli utenti (come ilfatto  quotidiano.it   per esempio) e i blog (non solo quello ufficiale di Beppe Grillo) per capire che il Movimento 5 Stelle avrebbe fatto il famigerato “boom”.
Non è bastato. Buona parte dell’informazione italiana ha continuato a dar retta ai sondaggi tradizionali (elaborati sulla base di conversazione via telefonia fissa) e anche quando ha “scoperto” il web, si è focalizzata su Twitter, il social network più trendy tra gli opinion maker (reali o presunti tali) ma politicamente meno rappresentativo in termini di corrispondenza tra “menzioni” e risultati elettorali.
LO DICONO i numeri, che - come abbiamo scritto ieri - rilevano come i politici più cinguettati in campagna elettorale siano stati PierLuigi Bersani (andato molto sotto le aspettative) e gli strasconfitti Mario Monti e Oscar Giannino. Diverso il discorso per Facebook, dove gli “engagement” (la somma di “like”, commenti, con-divisioni e post spontanei in bacheca) hanno premiato Grillo (di gran lunga il primo) e Berlusconi, i due veri vincitori delle elezioni.
I dati - elaborati da blogosfere e consultabili sul blog vinicos.it   - dimostrano però che - per prevedere l’exploit del Movimento 5 Stelle - non era necessario metter mano agli algoritmi. Bastava leggere, anche distrattamente.
Blogosfere ha raccolto un campione di 34.017 intenzioni di voto dichiarate espressamente (quindi non un generale “sentiment”, ma un esplicita preferenza verso uno o l’altro candidato o partito) sul web da 22.456 autori unici nel periodo compreso tra l’11 e il 25 febbraio.
Il maggior numero di voti virtuali provenienti da attori unici (10.311) è stato infatti intercettato da Beppe Grillo e dal Movimento 5 Stelle. Al secondo posto Bersani e il Pd (4.564), al terzo Berlusconi e il Pdl (3.031). A seguire tutti gli altri.
Al di là del valore assoluto (evidentemente distante dalle percentuali del voto), colpisce l’andamento giorno per giorno: il 15 febbraio i tre competitor sono quasi allo stesso livello, un leggero vantaggio per Grillo (dovuto alla naturale, maggiore interazione sul web del popolo legato al Movimento 5 Stelle) su Bersani e un Berlusconi mischiato a Monti, Giannino e Ingroia (Rivoluzione Civile, nonostante il pessimo risultato alle urne, è stata capace di una buona mobilitazione in rete).
CON IL PASSARE dei giorni le dichiarazioni di voto a favore del leader del M5S s’impennano in maniera vertiginosa; buona anche la performance di bersani, ma il differenziale si allarga a dismisura: Anche Berlusconi avanza, un po’ meno, ma avanza. E fino al 19 febbraio, mentre Monti e Ingroia non si schiodano, è tallonato da Oscar Giannino che poi ha un tracollo.
É probabile che molti puristi della statistica storcano il naso, ma la rilevazione sulle intenzioni di voto online appare ben più veritiera di molti sondaggi tradizionali diffusi alla vigilia: la buona performance, ma non di vertice, del vincitore designato Bersani; il recupero di Berlusconi destinato alla sconfitta; l’exploit del vincitore che qualcuno non si aspettava, Beppe Grillo e il Movimento 5 Stelle. Il web lo aveva detto. NON VIRTUALE Su 34.017 dichiarazioni di voto sul web espresse tra l’11 e il 25 febbraio, 10.311 erano a favore di Grillo (foto) e del M5S. Al secondo posto Bersani e il Pd (4.564), al terzo Berlusconi e il Pdl (3.031). A seguire tutti gli altri.

il Fatto 28.2.13
Mirafiori si scopre a Cinque stelle
di Salvatore Cannavò


Tre voci diverse ma tutte con lo stesso messaggio: il sindacato dialoga con Grillo. Incuranti delle affermazioni sui sindacati come “cosa del passato” e che “si sono eliminati da soli”, importanti dirigenti come Raffaele Bonanni, Carla Cantone e Giorgio Airaudo, dimostrano di aver capito il messaggio che è venuto dal voto. Il più insospettabile è il segretario della Cisl che pure ieri ha ammesso che “Grillo è stato l’unico che è andato in piazza con una costanza invidiabile parlando alla gente, rompendo le acque che-te della politica”.
Meno esplicita, ma altrettanto chiara, è Carla Cantone, segretario del potente sindacato dei pensionati Cgil, lo Spi, che invia al Pd un messaggio chiarissimo: “Che non venga in mente alla coalizione di centrosinistra che ha vinto le elezioni di fare un governo con il Pdl di Berlusconi perché sarebbe un gravissimo errore”.
MESSAGGI e appelli che dimostrano non tanto la volontà di salire sul carro del vincitore quanto la preoccupazione per l’impatto negativo di uno stallo di governo. C’è la cassa integrazione da rifinanziare e una disoccupazione in costante aumento e serve una direzione di marcia socialmente sostenibile.
Chi è del tutto esplicito è Giorgio Airaudo, appena eletto alla Camera nelle liste di Sinistra ecologia e libertà, una vita nella Fiom, in particolare nella Torino operaia. Airaudo non si spaventa affatto all’ipotesi di un dialogo con il Movimento 5 Stelle: “Io penso che il populismo - dice al Fatto - non sia mai stata una formula in grado di spiegare in profondità quel mondo. Con il quale occorre dialogare”. In effetti, a sinistra, non sono pochi in questi giorni a interrogarsi sulla dirompenza grillina. Ieri sul quotidiano il manifesto si poteva leggere un “vecchio comunista” come Alberto Asor Rosa proporre a Bersani un programma di dieci punti per dialogare con Grillo mentre lo scrittore Marco Rovelli dichiarava che “la sinistra è trapassata”.
Airaudo, che da parlamentare potrà proporre direttamente questa linea, spinge sull’individuazione di alcuni punti concreti: il conflitto di interessi, i costi della politica, la trasparenza, il no alla Tav, la difesa della scuola pubblica e, ovviamente, il lavoro. “Su questi andrà formato un governo di programma o ‘di scopo’ e verificare la disponibilità del Movimento 5 Stelle”. Del resto, osserva ancora Airaudo, nei quartieri operai e popolari tra Pd e Grillo c’è un testa a testa, “che il voto del mondo del lavoro fosse già orientato verso Grillo lo si vedeva e percepiva da tempo”.
BASTI andarsi a guardare il voto della cintura operaia di Torino oppure quello simbolico di Mirafiori, dove la simbologia è avvalorata anche dai numeri: Pd e Cinque Stelle hanno gli stessi identici voti, 6.706, con il 30,86% ciascuno, mentre la lista di sinistra di Rivoluzione civile è solo al 2,6. Nel rapporto con Grillo, quindi, Airaudo sostiene che “bisogna provarci” sottolineando che anche il sindacato non è immune da una domanda di partecipazione più generale: “Lo tsunami tour riguarda anche il nostro mondo”.

il Fatto 28.2.13
Il governo non c’è, i soldi sì. La nuova torta dei rimborsi
Pronti 159 milioni per i partiti
Anche con legislatura breve, spese coperte
I grillini rifiuteranno i fondi: ma come?
di Paola Zanca


Al servizio Tesoreria di Montecitorio sono già al lavoro. Calcolatrici e percentuali: i voti presi dai partiti, adesso, si trasformano in soldi. Così, ecco i 453 seggi conquista-ti dal Pd tra Camera e Senato materializzarsi in 45 milioni di euro. E le 240 poltrone dei deputati e senatori Pdl tintinnare come 38 milioni di monetine. E ancora le 63 caselle occupate dalla lista Monti: 15 milioni di euro. Infine loro, i 163 grillini che hanno già annunciato il gran rifiuto: valgono 42 milioni di euro. Un totale di 159 milioni di euro, compresi i “piccoli” eletti, mentre Fini, Ingroia e Giannino restano a bocca asciutta. Il piano è quinquennale, orizzonte lunghissimo per questa legislatura che non ha vincitori. Eppure, anche se durasse pochissimo, renderebbe grazia ai soldi spesi in campagna elettorale. Sarà un caso, ma mai come questa volta, i partiti si sono tenuti bassi con le spese.
SAPEVANO che la torta sarebbe stata dimezzata, come deciso dalla legge sui rimborsi approvata nel luglio scorso. Prendiamo il Pd, che per la sua campagna ha messo a budget 6 milioni e mezzo di euro. Il governo può anche non nascere, ma nessuno ci rimette: con la sola elezione, rientrano 9 milioni di euro. Sui conti degli altri, brancoliamo nel buio: la Scelta Civica di Monti non ha ancora pubblicato un resoconto delle spese sostenute, nonostante prima delle elezioni giurassero: “Il 26 avrete tutto”. Ora spiegano che hanno bisogno di tempo: “Stiamo aspettando le ricevute dai territori, ci vuole qualche ora più del previsto”. Idem Grillo: 550 mila euro raccolti durante lo Tsunami tour, ma la scheda sulle spese sostenute è ancora vuota. Aspettiamo. Anche il Pdl che, per la verità, promesse di trasparenza non ne ha mai fatte.
Prima o poi, però, arriverà per forza. Entro il 27 marzo, trenta giorni dopo le elezioni, i partiti entrati in Parlamento dovranno depositare la richiesta di rimborso. Poi, entro l’11 aprile saranno costretti a depositare alla presidenza di Camera e Senato il rendiconto delle spese sostenute in campagna elettorale. Per tre mesi - dice una legge del ‘93 - i rendiconti saranno a disposizione dei cittadini che volessero prenderne visione.
MA TORNIAMO alla richiesta da presentare tra un mese: saranno i tesorieri dei partiti o i rappresentanti legali dei movimenti a doverla presentare. Nel caso dei Cinque Stelle, dunque, Beppe Grillo in persona, in qualità di titolare esclusivo del simbolo. Non è ancora chiaro come si comporterà: se non presenta richiesta, la quota annuale dovrebbe rimanere ferma in Tesoreria. Sostiene però Giovanni Favia, ex grillino, poi espulso e traghettato in Rivoluzione Civile che in Emilia Romagna non andò così: “Qualche settimana fa - sostiene il consigliere regionale - ho scoperto che il nostro gesto andava esattamente in direzione opposta a quelli che erano i nostri obiettivi: rinunciammo ad un milione di euro che poi venne diviso tra i partiti della Casta”. Il rischio si potrebbe evitare accettando i contributi e poi restituendoli, magari costituendo un fondo per le imprese come stanno facendo i Cinque Stelle in Sicilia. Ma ci sono altri due ostacoli: il primo è quello dello Statuto, requisito fondamentale per l’accesso ai rimborsi e inesistente nel movimento con il Non-Statuto per antonomasia. Il secondo riguarda Grillo in persona: se si “immischia” nella faccenda dei rimborsi in qualità di “tesoriere”, seppur non eletto ricade nell’obbligo di rendere pubblici i suoi redditi e patrimoni. Gli avversari che già hanno aperto la guerra tra figli di benzinai e miliardari, lo aspettano al varco.
Nel frattempo, tre giorni fa, si è consumata “l’ultima cena”. I grillini romani hanno pubblicato lo scontrino dei festeggiamenti post-elettorali: focaccia al prosciutto, zucchine fritte, panini fritti ripieni, due assaggi di primi, acqua, birra, vino. Erano quasi 3 mila euro, sono riusciti a farseli scontare a 1800. Ma giurano che “alcuni giornalisti avrebbero consumato senza pagare: forse sono troppo abituati alle cene dei partiti pagate con i soldi dei rimborsi pubblici. Beh, con noi non funziona così”.

La Stampa 28.2.13
L’ultima mossa del segretario
Prima Grillo, la scommessa di Bersani
Se fallirà l’obiettivo le dimissioni sarebbero inevitabili e il timone andrebbe a Renzi prima di tornare al voto
di Carlo Bertini

«È un passaggio difficilissimo, ma è l’unica strada praticabile per salvare il Paese e per salvare il Pd». Bersani si vuole giocare fino in fondo questa carta, è consapevole che il sentiero di un governo di minoranza con Grillo è strettissimo...
segue qui

La Stampa 28.2.13
Pd-M5S, c’eravamo tanto odiati
di Marcello Sorgi


Chissà cosa avrà pensato Peer Steinbrueck, leader della Spd, che considera Berlusconi e Grillo «due pagliacci», nel vedere Pier Luigi Bersani proporre un’alleanza e la presidenza della Camera al fondatore del Movimento 5 Stelle. La frase un po’ forte del candidato socialdemocratico alla Cancelleria nelle prossime elezioni tedesche, considerata «fuori luogo o peggio» da Napolitano, ha portato all’annullamento del previsto incontro con il Capo dello Stato in visita in Germania. Ma Steinbrueck, c’é da giurarci, non ne avrà compreso fino in fondo la ragione, dato che si sentiva in piena sintonia con i cugini del Pd.
Fino a domenica scorsa infatti Grillo era per Bersani «un fascista», o «fascista del web», che usava un «linguaggio fascista», tanto per ribadire il concetto.
La polemica, poi sviluppata per mesi e ripetuta durante la campagna elettorale, era nata tra la fine di agosto e l’inizio di settembre, quando un gruppo di grillini avevano accolto alla Festa Democratica il leader del Pd a Bologna al grido di «zombie». Epiteto particolarmente sanguinoso, se si considera che, prima d’allora, solo Bossi lo aveva usato nei confronti di Occhetto («zombie coi baffi») quasi vent’anni prima, nel 1994. E che al segretario e candidato primo ministro del Pd ovviamente aveva fatto saltare la mosca al naso, specie quando Grillo lo aveva ribadito sul web, aggiungendo che Bersani, «cadavere ambulante», avrebbe dovuto considerarlo quasi un complimento perché gli si dava atto di avere ancora un alito di vita.
Se questo era appunto il tenore dei rapporti tra il partito e il movimento che presto dovrebbero allearsi e governare insieme, dopo il risultato «monstre» di M5S alle elezioni, si può immaginare lo choc del collega tedesco per l’annuncio a sorpresa del Pd. Anche perché, per tutta la fase precedente all’ascesa di Grillo, i Democratici italiani avevano mostrato di condividere in pieno il giudizio durissimo della sinistra europea, e non solo, sui movimenti populisti, che ovunque predicano la fine dell’Europa e dell’euro e rastrellano voti nelle fasce di elettorato più deboli. Grillo e i suoi seguaci, per il Pd, non erano altro che la propaggine italiana di quell’anomalia manifestatasi in Olanda con Pim Fortuyn, in Austria con Jorg Heider, in Francia con Le Pen padre e figlia, e da ultimo, in Grecia, con Alba Dorata di Nikòlaos Michaloliàkos, anche se ciascuno di questi movimenti faceva storia a sè, e non tutti avevano posizioni di estrema destra o solo razziste o xenofobe. Eppure per il centrosinistra italiano era niente di più che un virus, una malattia della democrazia, da combattere sul piano continentale e europeo, quasi come l’influenza russa o cinese, rafforzando le strutture comunitarie e rendendo più fecondo il confronto tra Stati e partiti alleati all’interno dell’Unione.
Un’analisi come questa rivelava, già prima del boom del Movimento 5 Stelle, una qualche forma di superficialità e presunzione. Mentre Berlusconi, nel ritiro che precedeva la riscossa, confessava di studiare il linguaggio e le mosse di Grillo sui palcoscenici dei suoi spettacoli, avendone da tempo colto l’insidia, non solo Bersani, ma la sinistra italiana nel suo complesso - con l’eccezione di Bertinotti non lo considerava un vero pericolo. In un Paese cattolico e in cui ancora esiste, grazie al centrosinistra, una politica «sana» e un accettabile tasso di fiducia nelle istituzioni democratiche, si dicevano tra loro i dirigenti dello schieramento che dalle urne di domenica e lunedì si aspettava la vittoria, il populismo non potrà mai attecchire più di tanto. E avevano continuato a dirselo anche dopo le amministrative del maggio 2012, e la conquista, da parte di M5S, del comune di Parma con il sindaco Pizzarotti.
In realtà sarebbe bastato leggere il bel libro di due studiosi, Piergiorgio Corbetta e Elisabetta Gualmini dell’Istituto Cattaneo, che lavorano a Bologna, proprio nella capitale delle regioni rosse, per capire che Grillo con Haider, Fortuyn e con tutti gli altri campioni europei del populismo, c’entra poco o niente: è un prodotto italiano artigianale e genuino, nato all’ombra delle amministrazioni democratiche e post-comuniste del Centro Italia, che una volta erano il fiore all’occhiello del Pci, e nel tempo si erano burocratizzate e sclerotizzate, finendo a non reggere i ritmi e i problemi di una società mutata, globalizzata e indebolita da normali problemi e contrapposizioni sociali, di quelli che il «welfare-state» socialdemocratico non é più stato in grado di riassorbire. Di lì, grazie alla crisi economica, all’aumento della disoccupazione e alla rigorosa, seppur necessaria, politica fiscale imposta dalla congiuntura, i grillini nostrani sono dilagati a Nord-Est verso il Veneto, andando a intaccare la solida riserva leghista, a Nord-Ovest nelle valli piemontesi dove si combatte la guerra contro i treni ad Alta Velocità, e a Sud e nelle isole, verso l’ultima pianura democristiana e il granaio siciliano di voti del Cavaliere. Tal che se non se ne fosse accorto in tempo, e non vi avesse posto rimedio con il suo ritorno in campo e l’imprevedibile rimonta, anche Berlusconi oggi piangerebbe le stesse lacrime che piange Bersani. Ma con l’aggravante che, pure a volersi perdonare la sottovalutazione del fenomeno M5S, rivelato via via dai sondaggi durante la campagna elettorale, e confermato dalle urne quando ormai era troppo tardi, il Pd aveva in casa un antidoto di sicura efficacia come Matteo Renzi, ma ha preferito accantonarlo.
Ora invece Bersani cerca ascolto da Grillo per convincerlo/costringerlo ad accettare la responsabilità di sostenere un governo «di combattimento, come l’ha definito, che con il solo appoggio del centrosinistra non avrebbe la maggioranza al Senato. Lo fa usando il bastone e la carota, blandendo Grillo e minacciandolo al contempo che in caso contrario l’incubo di un secondo scioglimento delle Camere e di un altro, ravvicinato, passaggio elettorale, come in Grecia, potrebbe realizzarsi davvero. È un’impresa ardua. Le reazioni di scherno che provengono da Grillo dovrebbero scoraggiarla definitivamente. Anche Napolitano, a cui come ultimo atto del suo settennato toccherebbe benedire dal Quirinale il primo accordo organico di governo con i populisti in Europa, ha lasciato trapelare i suoi dubbi su una manovra così azzardata. Forse Bersani dovrebbe rifletterci, ripensare ai tempi non lontani in cui con Grillo si scambiavano insulti, cercare ancora una soluzione diversa. Per salvare, non solo il governo, ma l’ultimo pezzo di credibilità del Paese.

La Stampa 28.2.13
“Collabora con la sinistra” E l’appello esplode sul web
La lettera di Viola ( 24 anni) a Beppe ha già 50000 adesioni
di Nadia Ferrigo


«Wow. È incredibile». Commenta così Viola Tesi, 24 anni, ex studentessa di scienze politiche con il sogno di aprire presto una gelateria a Firenze, la sua città. Certo non poteva neppure immaginare che il suo appello a Beppe Grillo, lanciato sulla piattaforma di petizioni online Change.org, potesse raggiungere in poco più di quattro ore quasi 50.000 persone. E le sottoscrizioni continuano a crescere di ora in ora.
La lettera di Viola inizia così: “Caro Beppe, mi chiamo Viola ho 24 anni e ho scelto di votare il M5S. Sono tra quei milioni di giovani che credono in una rivoluzione gentile: in un paese solidale, più pulito e giusto, capace di tutelare i cittadini, il loro lavoro, l’ambiente in cui vivono”. Viola continua dicendo che sa che il Parlamento avrà vita breve, ma che “gli eletti del M5S hanno un’occasione storica. Possiamo respingere il ritorno di Berlusconi e costringere Bersani ad accettare le sfide che i suoi stessi elettori vorrebbero raccogliesse. ” Viola ha le idee chiare: «Ho scritto a lui perché ho paura. Paura dell’instabilità, paura di un paese che resta immobile e incapace di reagire. Vorrei che Grillo capisse che è ora di dialogare e rispondere alla fiducia che gli italiani hanno riposto in lui».
Che cosa ti aspetti dal M5S?
«Non c’è molto tempo. Una nuova legge elettorale, delle norme per combattere la precarietà, i tagli ai costi della politica. Il conflitto di interessi».
Nella tua lettera scrivi: “Sono impegni che possono raccogliere il consenso di molte persone. E non tutte hanno votato M5S”.
«Sono tutti argomenti cari anche al Pd, sarebbe bello vederli collaborare. Il fine giustifica i mezzi no? E né Bersani né Grillo da soli riusciranno a combinare granché».
Che cosa ti ha spinto a lanciare una petizione su Change.org?
«Lo spunto me l’ha dato lo spettacolo teatrale di Marco Travaglio “È stato la mafia”. Quando è finito sono uscita da teatro con una rabbia costruttiva. Sono stufa di sentirmi impotente e mi sono decisa a fare qualcosa».
Credi che Grillo ti risponderà?
«Secondo me sì. Insomma il suo movimento è nato sul web, credo sia il più sensibile ai movimenti della rete».
Si sente spesso dire che i voti dati al Movimento 5 Stelle sono “ di pancia”. Tu che ne pensi?
«Il mio è un voto di speranza, di cambiamento. Per me questo non è il momento di distruggere, solo di ricostruire».

La Stampa 28.2.13
Proteste tra i militanti Ma lo staff: la fiducia la chiedano al Pdl
“Sono finti oppositori, facciano pure l’inciucio alla luce del sole”
di Jacopo Iacoboni


C’ è un paradosso da cogliere, per capire: tanti simpatizzanti di Beppe Grillo ieri lo hanno criticato per la scelta di rimpallare in malo modo la timida apertura di Pierluigi Bersani, ma queste critiche dov’è che le leggevamo? Sul blog gestito, tecnicamente, dai ragazzi della Casaleggio. Uno di quei casi in cui conosciamo il dissenso perché la voce ufficiale del movimento gli fa da megafono.
Riflettuto su questo, e evitando locuzioni stereotipate come «rivolta della base», molti elettori di Grillo la possibilità di un dialogo con il Pd non l’avrebbero scartata subito. Con un argomento tipo quello esposto da Marco Vallerga, torinese: «Cosa ci impedisce di votargli la fiducia (su un programma limitato che ci sta bene ovviamente) e in seguito di poter condizionare-votare ogni altra legge? ». O ancora, come Turi S. che scrive al leader «caro Beppe, mi ero illuso di aver votato un partito in cui anche io potevo dire la mia... invece dopo sole poche ore mi accorgo di essere stato solo un numero». Molti altri invece sono del tutto d’accordo con Grillo, e il motivo è quello che coglie Andy R., «no a Bersani, il M5S finirebbe per snaturarsi e per essere vampirizzato». Qualcuno propone addirittura una terza via, come Walter Uliano di Bologna, immagina che «la soluzione sia contro-proporre “un governo della società civile” o “dei cittadini”, guidato da personalità di alto valore morale (esempi: Stefano Rodotà, Davigo) per realizzare un programma semplice e di pochi punti».
La paura di snaturarsi è molto forte dentro il movimento; ci sono tante voci critiche, ma altrettanto e forse più verrebbe criticato Grillo se alla prima offerta parlamentare subito s’accodasse a pratiche di antica politica. Forse la vera mossa per sedurli non è proporgli impossibili manovre per far nascere un governo, ma fare leggi sul reddito di cittadinanza, o il taglio alla casta, cominciando con l'estrarre un uomo per il Colle rispettato, nel solco di Pertini. Loro non dicono nomi ma insomma, personaggi assai stimati ce ne sono, per esempio uno come Stefano Rodotà.
Grillo dice alla Bbc che ogni «tentativo di includerci nel governo è falso», che si farà un« patto BersaniBerlusconi, durerà un anno al massimo e poi ci saranno nuove elezioni». E lo staff, il team che davvero l’ha seguito durante lo Tsunami tour, fa capire anche di più; questi ragazzi stanno al movimento come un sistema nervoso sta a un corpo. I loro ragionamenti sono esposti in forme sempre assai soft, schive è dire poco: «E’ ovvio che per Bersani sarebbe molto più comodo avere la fiducia dal M5s invece che andarla a chiedere dalle forze politiche con cui hanno inciuciato per trent’anni». Invece, «dovranno chiedere la fiducia ai loro finti oppositori, in modo da inciuciare con loro alla luce del sole».
L’idea di un’uscita mirata dall’aula del Senato, per far comunque nascere un governo, è lunare. Tra l’altro le mosse di Bersani, animate da volontà di dialogo, non hanno centrato temi e lessico giusto. Ha dato fastidio quando l’altro giorno il segretario ha detto che «se poi non si fa un governo, andiamo a casa tutti, anche loro». Il punto è che «loro» non sono affatto atterriti da questa prospettiva. Non capirlo è un vero autogol.
Ecco perché «l’unico governo per cui il M5s darà la fiducia sarà un governo dei cittadini. Ma è un momento lontano. Ci vorranno altre elezioni». Tra parentesi, nel loro programma sta scritto chiaro che non si fanno alleanze con nessuno. Il Movimento 5 stelle si sente oggi come Liv Tyler nel film di Bertolucci, una che sa di avere la fila fuori, e balla da sola.

La Stampa 28.2.13
Giulia Sarti, 27 anni: “Non è Beppe che ci detta l’agenda”
“Però di Bersani non ci fidiamo, elude ogni responsabilità”
di Andrea Malaguti


La Rossa e la Mora. Presunte ingenue neocandidate alla guida della Camera. Pivettine. Definizione terribile. Ma il giochino è iniziato. Una, la Rossa, è Marta Grande - è il Pd a fare il suo nome -, 25 anni, l’eletta più giovane di questa tornata rivoluzionaria. L’altra, la Mora, è Giulia Sarti. Oggi in primo piano c’è lei. Laurea in giurisprudenza, fanatica della democrazia orizzontale. «Uno vale uno». Grillo compreso. Quello che dice non è Vangelo. Li ha portati fin qui. Ma il futuro è da organizzare.
Onorevole-cittadina Giulia Sarti, Bersani è un morto che parla?
«Uhm no. È esagerato dirlo. Però è poco credibile. Ha perso e doveva dimettersi. Non riconoscerlo e passare la palla a noi significa non rendersi conto delle enormi responsabilità che ha».
Resta un interlocutore possibile?
«Ci stiamo impegnando per costruire, non per distruggere. E siamo pronti a collaborare su una serie di provvedimenti esemplari».
Prima dovete votare la fiducia.
«Non è un tabù. Ma pretendiamo riscontri immediati. Se alle parole non seguono i fatti fine della fiducia».
Diceva: provvedimenti esemplari.
«Subito i tagli ai costi della politica e agli sprechi pubblici, a cominciare dalle spese militari. Poi la riforma della legge anticorruzione e gli interventi sulle politiche del lavoro».
Un piano quinquennale.
«Forse. Ma un indirizzo lo si può dare in fretta. Però vorrei sottolineare la cosa più importante».
Quale?
«Le nostre linee guida le decidiamo assieme la prossima settimana. Lunedì e martedì. Il resto sono favole. Noi 162 parlamentari ci chiudiamo in un albergo di Roma e discutiamo. In diretta streaming. Cariche, obiettivi, ruoli, patti. Conta il gruppo».
Marta Grande sarà il prossimo presidente della Camera?
«Sono solo sparate dei media per muovere le acque».
Anche il Pd sarebbe favorevole.
«E’ surreale. Ci manca solo che sia il Pd a dirci chi dobbiamo indicare alla Camera o alla Vigilanza Rai. È evidente che non hanno idea dei nostri meccanismi di lavoro».
Lei accetterebbe la Presidenza della Camera?
«Sono troppo giovane. E in questo caso un po’ di esperienza ci vuole. Bisogna essere mediatori e io preferisco la battaglia».
E il napoletano Roberto Fico alla Camera come lo vede?
«Non lo vedo. Ne parlavamo giusto ieri. Lui è come me».
L’avvocato Alfonso Bonafede, eletto in Toscana?
«Potrebbe essere un buon nome. Alfonso ha le caratteristiche giuste. Ma qui siamo alle opinioni personali».
Le opinioni generali invece le esprime Grillo. Ha presente «Non è la Rai»? Lui fa Boncompagni e voi le sue Ambra Angiolini?
«La sola idea fa ridere. Abbiamo spiegato in campagna elettorale quello che vogliamo. C’è un programma. E’ scritto lì, per esempio, che siamo contrari alle alleanze a priori. Non è Grillo che detta l’agenda o che si sveglia al mattino e ci dice che cosa fare».
Eppure racconta che andrà da Napolitano. A che titolo?
«L’ha detto così, era fuori casa. Aveva il sapore della presa per i fondelli. Intorno a lui c’è sempre la ressa dei giornalisti. Lo coinvolgeremo, ci mancherebbe. Ma è arrivato il momento di camminare da soli. Dal Presidente ci possiamo andare per conto nostro, secondo le regole. Che problema c’è? ».
Quando si torna al voto?
«Non subito. Prima si deve scegliere il Presidente della Repubblica, quello non si può rimandare».
Dario Fo ha cortesemente declinato la vostra offerta.
«Magari possiamo chiederlo a Franca Rame. Donna favolosa».

La Stampa 28.2.13
Le forze sociali
Sindacati divisi sul governissimo
La Cgil: niente accordi con il Pdl. La Cisl: è inevitabile E la Uil propone un esecutivo istituzionale di transizione
I fedelissimi della Camusso: «Con Renzi avremmo perso troppi voti a sinistra»
di Roberto Giovannini


Beppe Grillo nelle piazze diceva che i sindacati vanno «eliminati»; il fatto che il suo partito abbia preso milioni e milioni di voti non è una notizia che entusiasmi i leader dei medesimi sindacati. «Sono collusi con il potere», diceva il comico genovese. Per molti l’accusa non è per niente infondata. Quel che è certo è che la geografia sindacale in Italia, con la presenza di Cgil, Cisl, Uil e Ugl, è un residuo archeologico del paesaggio politico della estinta Prima Repubblica. E che l’irruzione del Movimento 5 Stelle in Parlamento rappresenta una novità devastante: fino a sabato scorso la Cgil «tifava» per Bersani e Vendola, mentre la Cisl ha lavorato duramente per tirare la volata a Mario Monti. E adesso, come fare i conti con una forza come M5S, «geneticamente» alternativa alla cultura e alle logiche sindacali, nelle due versioni del conflitto o dell’accordo ad ogni costo?
Un pasticcio talmente complicato che la Cgil di Susanna Camusso aspetterà l’esito di una riunione di segreteria allargata in programma oggi per esprimere una sua valutazione.
Nelle stanze del palazzo Cgil di Corso d’Italia certamente si respinge con decisione al mittente l’accusa di aver contribuito alla «non-vittoria» di Pier Luigi Bersani ancorando il Pd su una linea eccessivamente di sinistra. «Se si fosse candidato Renzi - dice un dirigente - avrebbe perso a sinistra molti più voti di quanti ne avrebbe recuperati a destra». Certo, l’emergenza economica che incombe sull’Italia preoccupa molto: ma non tanto da riuscire a digerire un governissimo tra Pd e Berlusconi. Alla Cgil forse andrebbe bene l’idea del governo Bersani che concorda misure con M5S; ma lo stesso anonimo dirigente fa notare che «Grillo vuole abolire stipendi e pensioni pubbliche. Siamo matti?»
Di sicuro il numero uno della Cisl Raffaele Bonanni vuole evitare ad ogni costo il ritorno alle urne. «È inevitabile - dice - se i grillini dicono no a Bersani, il Pd deve trovare un accordo con il Pdl e Monti». Un accordo, spiega, «come quello che abbiamo già visto» nell’ultimo scorcio di legislatura, anche perché «la gente adesso è preoccupata per i fondamentali dell’economia», e c’è bisogno di un governo che garantisca per il periodo più lungo possibile la governabilità.
Eppure, chiediamo, per il Pd un accordo con Berlusconi sarebbe fatale. E si fa fatica ad immaginare su quali proposte di merito Pd, Pdl e Scelta Civica potrebbero mettersi d’accordo. «La politica non è certo una gara sportiva - risponde il leader cislino - se bisogna farlo lo si fa, questi sono ancora i fumi residui del bipolarismo. Si mettano d’accordo: sotto sotto già lo hanno fatto sia durante il governo Monti che quando si è trattato di farlo cadere, abbreviando la durata della legislatura. Come si sono messi d’accordo sotto banco, adesso lo facciano sopra il banco».
A una conclusione simile, ma leggermente diversa, arriva anche il segretario generale della Uil Luigi Angeletti, che non crede alla possibilità di governi «politici». «Vi ricordate il Belgio - chiede -, rimasto per 18 mesi senza governo? Beh, se i governi fanno dei danni è meglio che non ci siano».
Insomma, spiega il sindacalista, visto che per ragioni costituzionali non si riuscirà comunque ad andare a votare prima della fine dell’anno, ci sono solo due possibilità praticabili: «lasciare il governo Monti in carica per la gestione degli affari correnti - dice oppure mettere in piedi un governo istituzionale di transizione». Il capo dello Stato potrebbe dare l’incarico a qualche personalità al di sopra delle parti, che potrebbe ottenere la fiducia al Senato «anche con la semplice uscita dei senatori dei diversi partiti dall’Aula».
Questa è per Angeletti una delle poche soluzioni possibili per evitare che «il problema Italia diventi un problema globale per i mercati mondiali». L’importante, conclude, è che poi questo governo istituzionale «faccia cose giuste in economia: ad esempio, tagliare 10 miliardi di spesa e recuperare 10 miliardi di evasione per ridurre di 20 miliardi di euro le tasse sui lavoratori dipendenti».

La Stampa 28.2.13
Pd e Pdl, elettori in fuga verso Grillo
Dall’analisi dei flussi di voto emerge una quadro diverso da città a città: a Nord e al Centro ha eroso consensi al centrosinistra
di Marco Bresolin


L’ azionista di maggioranza del nuovo elettorato grillino? Il Partito Democratico, soprattutto al Nord e al Centro. Ma al Sud è stato il centrodestra a perdere voti in favore del Movimento Cinque Stelle. Nelle «zone bianche» del Nord-Est, un tempo dominio assoluto della Dc, la situazione è ancora diversa: qui sono soprattutto gli ex leghisti ad aver dato fiducia a Beppe Grillo. Per studiare il fenomeno a Cinque Stelle è interessante guardare i flussi di voto, capire da dove arrivano quegli 8,7 milioni di elettori che hanno deciso di regalare la loro croce sulla scheda. E i dati emersi dall’analisi realizzata dall’Istituto Cattaneo, che ha preso in esame nove città, evidenziano soprattutto una cosa: i flussi sono molto diversi da zona a zona.
Addio al Partito Democratico
A Torino il Movimento Cinque Stelle ha incassato 128 mila voti. Di questi, il 37% aveva votato il Pd alle politiche del 2008. Una percentuale piuttosto simile a Brescia (32%), ma la vera impennata si registra in alcune città delle regioni rosse. A Bologna, per esempio, il 48% dell’elettorato grillino è composto da ex elettori del Pd. Ad Ancona il 47%, mentre a Firenze la percentuale sale addirittura al 58%. Trend simile a Napoli (44%), dove il movimento guidato dal comico ha incassato 110 mila voti. Interessante vedere anche come quasi ovunque siano stati recuperati i voti che cinque anni fa erano finiti all’Idv: a Torino un elettore grillino su cinque aveva scelto il partito di Di Pietro nel 2008. Più contenuto, ma pur sempre significativo, il contributo della sinistra radicale.
Il Carroccio «tradito» Alla Lega Nord è bastato un lustro per perdere 1,6 milioni di voti (su 3 milioni) e dove credete che siano finiti? I flussi di Brescia e Padova parlano chiaro: nella città della Leonessa il 30% di chi ha votato il M5S è un ex leghista, nella città veneta il 46%. Ma molti voti, soprattutto nel Nord, arrivano dai partiti di estrema destra (Forza Nuova e La Destra). Da notare anche l’influenza esercitata sugli ex astenuti: a Torino, il 25% degli elettori grillini non aveva votato nel 2008, a Firenze il 22%, a Catania il 27%. Ma in molte città quell’effetto è inesistente.
Il Pdl e la questione Meridionale
Scorrendo la Penisola da Nord a Sud, sembra quasi che l’avvento di Grillo non abbia sottratto voti al Pdl. Arrivati a Napoli, però, le cose cambiano. Un elettore su quattro è un ex berlusconiano, a Reggio Calabria uno su due. A Catania, invece, l’azionista di maggioranza dei Cinque Stelle è il Movimento per le Autonomie, sempre fedele alleato del Cavaliere. I flussi dell’Istituto Cattaneo rivelano inoltre un allontanamento dalle urne dell’elettorato Pdl nel Sud: tendenza già registrata tra il 2008 e le europee del 2009.
Gli elettori di Monti
Eppure sono 6,2 milioni gli elettori persi dal Popolo della Libertà. Possibile che siano rimasti tutti a casa? No, e infatti nel Centro-Nord c’è stata una transumanza verso Scelta civica di Monti. Il nuovo partito del Professore ha pescato soprattutto nell’elettorato di centrodestra, sottraendo consensi al Pd soltanto nel Meridione.

Corriere 28.2.13
La valanga di no al governissimo
di Massimo Franco


La trincea di Pier Luigi Bersani rimane quella del «mai un governo con Silvio Berlusconi».
E i simbolici sacchetti di sabbia ammassati per puntellarla sono i veti arrivati nei giorni scorsi per email da circa un milione di elettori delle primarie del Pd, decisi a impedire che la sinistra interpreti il risultato elettorale cercando un compromesso col centrodestra.
Ma il problema del segretario e candidato a Palazzo Chigi è che la trincea potrebbe ritrovarsi sotto gli attacchi non dei nemici ma degli alleati: quelli acquisiti e quelli potenziali. Il «fuoco amico» di alcuni settori del Pd è già cominciato, perché l'idea di cercare l'aiuto parlamentare di Beppe Grillo è vista con un misto di speranza e scetticismo.
D'altronde, dal Pdl arrivano aperture nette quanto interessate; dal capo del Movimento 5 Stelle, invece, risposte brutali e liquidatorie al corteggiamento guardingo cominciato da Bersani. Il segretario del Pd si sente proiettato verso Palazzo Chigi, magari a capo di un governo minoritario. Ma si ha l'impressione che nel suo partito qualcuno lavori in direzione opposta: una coalizione di emergenza con o senza di lui premier, dopo il risultato numericamente vittorioso ma politicamente perdente del 25 febbraio. Per paradosso, le parole abrasive di Grillo contro Bersani fanno pensare che anche il comico voglia spingere la sinistra nelle braccia di una specie di «governissimo».
Il comico che ha trionfato nelle urne conta di potere approfittare meglio, restando da solo, dell'immagine dell'«inciucio» altrui. Per questo Bersani prova ad abbracciarlo, nella speranza che il grillismo possa essere, se non addomesticato, almeno usato a intermittenza per trovare una maggioranza. Ma la divergenza di impostazione nel Pd è vistosa. L'analisi del gruppo dirigente intorno al segretario parte dalla premessa che Berlusconi non sia un alleato «digeribile». Di più: il capo di ciò che resta del centrodestra è considerato delegittimato e destabilizzante per la sinistra. Si teme che qualunque dialogo con lui divida e regali un ulteriore vantaggio a Grillo e alla sua strategia di smantellamento del sistema politico.
Per questo il «no» di Bersani rimane granitico, al momento. Eppure, la pressione di dirigenti come Massimo D'Alema tende a rovesciare il ragionamento; e a riesaminare questa posizione di chiusura totale. L'obiezione è che una maggioranza di fatto nelle mani dei grillini porterebbe diritto alle elezioni anticipate entro un anno, regalando al Movimento 5 Stelle un bel vantaggio. In nome di un realismo che d'istinto lascia stupefatti, si addita invece una soluzione finora impensabile: un governo di tregua col Pdl destinato, in teoria, a durare cinque anni, ad approvare riforme radicali e a logorare il movimento di Grillo. Secondo questo schema, una tregua darebbe tempo ai partiti per fermare l'onda che minaccia di spazzarli via.
Bersani non sembra disposto ad assecondarlo, però. Anzi, è attestato su una strategia che prevede una sorta di «grillizzazione» della sinistra almeno su alcuni temi: legge sul conflitto di interessi, taglio ai costi della politica, norme radicali anticorruzione. Significherebbe approfondire il solco con il fronte berlusconiano e con i centristi di Mario Monti; e preparare un programma elettorale che dovrebbe, almeno nelle intenzioni, calamitare una parte del voto del Pd andato a Grillo. Su entrambi gli scenari pesa tuttavia un'ombra di precarietà e di incertezza ineludibili; e la convinzione che i paradigmi del passato non funzionano più. Né si può sottovalutare lo sguardo severo e un po' sprezzante di una parte dell'Europa. Per quanto inaccettabili, i giudizi dei socialdemocratici tedeschi su Berlusconi e Grillo bollati come «clown» segnalano un umore ben presente nelle opinioni pubbliche nordeuropee.
Dicono a Bersani che il Movimento 5 Stelle non suscita meno allarme del Cavaliere, anzi. Soprattutto, lasciano capire che dopo le ultime elezioni politiche, l'Italia potrebbe tornare ad assumere il ruolo di capro espiatorio delle difficoltà europee. È triste azzardare questa tesi, ma gli attacchi tedeschi confermano che parlare male del nostro Paese può tornare utile a chi vuole prendere voti facili in Germania. I confini fra politica interna ed estera non esistono più. E una nazione ingovernabile è candidata a diventare il bersaglio non solo dei propri cittadini, ma di una comunità europea a caccia di responsabilità altrui. La ricetta contro i populismi non esiste ancora. Inseguirli, però, difficilmente aiuterà a sconfiggerli.
Ma il problema del segretario e candidato a Palazzo Chigi è che la trincea potrebbe ritrovarsi sotto gli attacchi non dei nemici ma degli alleati: quelli acquisiti e quelli potenziali. Il «fuoco amico» di alcuni settori del Pd è già cominciato, perché l'idea di cercare l'aiuto parlamentare di Beppe Grillo è vista con un misto di speranza e scetticismo.
D'altronde, dal Pdl arrivano aperture nette quanto interessate; dal capo del Movimento 5 Stelle, invece, risposte brutali e liquidatorie al corteggiamento guardingo cominciato da Bersani. Il segretario del Pd si sente proiettato verso Palazzo Chigi, magari a capo di un governo minoritario. Ma si ha l'impressione che nel suo partito qualcuno lavori in direzione opposta: una coalizione di emergenza con o senza di lui premier, dopo il risultato numericamente vittorioso ma politicamente perdente del 25 febbraio. Per paradosso, le parole abrasive di Grillo contro Bersani fanno pensare che anche il comico voglia spingere la sinistra nelle braccia di una specie di «governissimo».
Il comico che ha trionfato nelle urne conta di potere approfittare meglio, restando da solo, dell'immagine dell'«inciucio» altrui. Per questo Bersani prova ad abbracciarlo, nella speranza che il grillismo possa essere, se non addomesticato, almeno usato a intermittenza per trovare una maggioranza. Ma la divergenza di impostazione nel Pd è vistosa. L'analisi del gruppo dirigente intorno al segretario parte dalla premessa che Berlusconi non sia un alleato «digeribile». Di più: il capo di ciò che resta del centrodestra è considerato delegittimato e destabilizzante per la sinistra. Si teme che qualunque dialogo con lui divida e regali un ulteriore vantaggio a Grillo e alla sua strategia di smantellamento del sistema politico.
Per questo il «no» di Bersani rimane granitico, al momento. Eppure, la pressione di dirigenti come Massimo D'Alema tende a rovesciare il ragionamento; e a riesaminare questa posizione di chiusura totale. L'obiezione è che una maggioranza di fatto nelle mani dei grillini porterebbe diritto alle elezioni anticipate entro un anno, regalando al Movimento 5 Stelle un bel vantaggio. In nome di un realismo che d'istinto lascia stupefatti, si addita invece una soluzione finora impensabile: un governo di tregua col Pdl destinato, in teoria, a durare cinque anni, ad approvare riforme radicali e a logorare il movimento di Grillo. Secondo questo schema, una tregua darebbe tempo ai partiti per fermare l'onda che minaccia di spazzarli via.
Bersani non sembra disposto ad assecondarlo, però. Anzi, è attestato su una strategia che prevede una sorta di «grillizzazione» della sinistra almeno su alcuni temi: legge sul conflitto di interessi, taglio ai costi della politica, norme radicali anticorruzione. Significherebbe approfondire il solco con il fronte berlusconiano e con i centristi di Mario Monti; e preparare un programma elettorale che dovrebbe, almeno nelle intenzioni, calamitare una parte del voto del Pd andato a Grillo. Su entrambi gli scenari pesa tuttavia un'ombra di precarietà e di incertezza ineludibili; e la convinzione che i paradigmi del passato non funzionano più. Né si può sottovalutare lo sguardo severo e un po' sprezzante di una parte dell'Europa. Per quanto inaccettabili, i giudizi dei socialdemocratici tedeschi su Berlusconi e Grillo bollati come «clown» segnalano un umore ben presente nelle opinioni pubbliche nordeuropee.
Dicono a Bersani che il Movimento 5 Stelle non suscita meno allarme del Cavaliere, anzi. Soprattutto, lasciano capire che dopo le ultime elezioni politiche, l'Italia potrebbe tornare ad assumere il ruolo di capro espiatorio delle difficoltà europee. È triste azzardare questa tesi, ma gli attacchi tedeschi confermano che parlare male del nostro Paese può tornare utile a chi vuole prendere voti facili in Germania. I confini fra politica interna ed estera non esistono più. E una nazione ingovernabile è candidata a diventare il bersaglio non solo dei propri cittadini, ma di una comunità europea a caccia di responsabilità altrui. La ricetta contro i populismi non esiste ancora. Inseguirli, però, difficilmente aiuterà a sconfiggerli.

Corriere 28.2.13
Nel Pd due partiti sulle alleanze E il segretario studia la sua agenda
Il piano per raccogliere voti: tagli alla politica, imprese e lavoro
di Dino Martirano


ROMA — Anche la base del Partito democratico ha cuore e testa per dire no ad accordi di governo con il centrodestra. Tra martedì e mercoledì, il popolo delle primarie ha fatto sentire la sua voce con una valanga di mail inviate al partito di largo del Nazareno per chiarire un concetto, inequivocabile per il segretario Pier Luigi Bersani: «Dopo il governo tecnico, mai più con Berlusconi...». Il circuito sfruttato dai militanti e dai simpatizzanti del Pd è quello della mailing list delle primarie, conferma Nico Stumpo responsabile dell'organizzazione: «Stanno arrivando moltissime mail di elettori che hanno partecipato alle primarie dalle quali emerge una contrarietà generalizzata ad un accordo politico con il centrodestra... Insomma, ci chiedono di non allearci con Berlusconi».
Ecco, con queste suggestioni che vengono dalla base, Pier Luigi Bersani prova a navigare tra le obiezioni sollevate da molti big del partito che invece sono favorevoli alle «larghe intese» con il centro e il centrodestra. Insieme ad un programma che vede, tra i punti forti, il rimborso dei crediti alle imprese e la scelta di due personalità condivise per le presidenze di Camera e Senato.
Il segretario prima incontra a pranzo Nichi Vendola — al quale conferma di essere contrario al governissimo — poi gli tocca prendersi gli insulti di Grillo: «Bersani sei morto, dimettiti, fai proposte indecenti...». E lui incassa, risponde ma non sbatte la porta in faccia al leader del M5S. Più che polemizzare, sceglie di confrontarsi con il suo braccio destro, lo storico e neodeputato Miguel Gotor, per iniziare a mettere nero su bianco i punti programmatici sui quali chiedere la fiducia in Parlamento se Napolitano lo indicherà per Palazzo Chigi. Il resto lo fa Enrico Letta, vicesegretario del Pd, che ricorda quanto sia incerta la rotta da seguire: «Chiederemo voti a tutto il Parlamento per un governo di svolta soprattutto sulla moralità pubblica, l'anticorruzione, un'Unione Europea diversa e l'occupazione... La situazione di incertezza preoccupa e noi vogliamo evitare il caos nel Paese».
I punti sarebbero sette o otto: 1) legge elettorale; 2) taglio dei costi della politica e riduzione del numero dei parlamentari; 3) conflitto di interessi; 4) nuova legge anticorruzione che recuperi i contenuti stralciati, su pressione del Pdl, dalla legge Severino: reato di autoriciclaggio, pene più severe per il falso in bilancio e nuovo reato voto di scambio; 5) riduzione delle spese militari; 6) rimborso dei crediti vantati dalle aziende nei confronti dello Stato; 7) esenzione Imu per la prima casa fino a 500 euro; 8) interventi urgenti per l'occupazione e la crescita. L'ultimo punto è il più complesso da realizzare perché i margini di manovra della spesa pubblica sono limitati e sotto osservazione da parte dell'Ue. C'è poi la questione delle cariche che potrebbero andare al M5S. Sulla presidenza della Camera convivono due scuole di pensiero: Grillo non è mica come Mastella che lo attiri con il miraggio di una poltrona, avrebbe detto Vendola a Bersani. Invece Luigi Zanda ritiene più che giusto condividere le cariche istituzionali: «Per ribadirne il carattere di garanzia».

Corriere 28.2.13
D'Alema: impegno con 5 Stelle e Pdl
A loro la guida delle Camere
«Ora dobbiamo salvare il Paese. No all'ipotesi di un governissimo.
Neanche Grillo può volere che si precipiti verso nuove urne
Monti? Dialogo con chi è indispensabile»
intervista di Maria Teresa Meli


Presidente D'Alema questo voto ha messo in agitazione tutti.
«La situazione dell'Italia era già grave prima, ma questo voto rischia di approfondire la crisi e renderla drammaticamente irreversibile, come si vede anche dalla prima sia pur contrastata reazione dei mercati finanziari. Viceversa, potrebbe rappresentare l'occasione per una svolta positiva».
In che senso?
«Nel senso che forze che si sono aspramente contrapposte potrebbero assumere una comune responsabilità e farlo in modo nuovo rispetto alla politica tradizionale».
Voi del Pd siete stati colti alla sprovvista. Pensavate di vincere.
«Non posso dire di essere tra quelli che sono stati presi di sorpresa. Non è stata colta la drammaticità della frattura tra cittadini e sistema politico che è emersa nel corso della campagna elettorale e che certamente viene da lontano».
Il voto grillino ha rappresentato una bella botta per voi.
«Si è pensato che i grillini pescassero solo a destra e questo è stato vero, in una certa misura, almeno all'inizio; ma poi a un certo punto una parte dell'elettorato del centrosinistra si è volto in quella direzione, tant'è che il voto per Grillo ha in parte prosciugato Sel e ha colpito fortemente noi per diverse ragioni: forse più per angoscia sociale nel Mezzogiorno e più per protesta contro la politica tradizionale nel resto del Paese. La spinta al cambiamento è stata per lo più intercettata dal Movimento 5 Stelle: è un dato con cui dobbiamo fare i conti. Però adesso vorrei soffermarmi sui dati più immediati».
Ossia?
«E' chiaro che siamo di fronte a un voto che segna la fine di un'epoca, tuttavia il Paese deve essere governato. Non è che possiamo fare un convegno culturale, c'è una priorità: salvare il Paese e trovare una soluzione che passi attraverso un'assunzione di responsabilità da parte delle forze principali. Questo significa, innanzitutto, Movimento 5 Stelle, centrodestra e noi».
E Monti?
«Naturalmente, non sottovaluto il ruolo del centro di Monti, ma occorre rivolgersi alle forze che, per il peso del consenso ricevuto, sono indispensabili a garantire la governabilità del Paese. Mi dispiace che Monti abbia fatto una campagna elettorale come se i problemi del Paese fossero rappresentati da una sinistra non abbastanza riformista, non vedendo che razza di ondata stava per abbattersi sul Paese. Una violenta reazione di matrice populista, con un duplice segno: di critica all'Europa e anche al sistema politico italiano. Attenzione, entrambe le critiche hanno un fondamento, sono le risposte che non sono convincenti. In mezzo a tutto questo sommovimento, Monti pensava di fare l'ago della bilancia, quando invece il problema era fare argine alla destra e al populismo».
Tornando all'assunzione di responsabilità, che cosa vuol dire?
«Significa innanzitutto far funzionare le istituzioni. Parliamoci chiaro: nessuno può avere interesse a precipitare il Paese verso nuove elezioni, che sarebbero un drammatico choc. Neanche il Movimento 5 Stelle, che ha ottenuto un successo e che ragionevolmente credo voglia dimostrare la capacità di generare cambiamenti positivi per l'Italia».
Ma Grillo all'apertura di Bersani ha risposto picche.
«È presto per valutare le posizioni che alla fine verranno prese. Mi pare di vedere una certa difficoltà e anche, inevitabilmente, una tendenza a fare tattica. Mi pare anche che questa posizione di Grillo incontri qualche perplessità nel suo stesso mondo. Vedremo...».
Quindi cosa propone?
«Voglio essere assolutamente chiaro: c'è qualcosa che non può esser fatto nel modo più assoluto e cioè offrire al Paese l'immagine di partiti che cominciano le trattative per un qualche governissimo. E' tale il fastidio verso la politica e i suoi riti che una cosa del genere non potrebbe mai funzionare. Quando parlo di assunzione di responsabilità mi riferisco alla possibilità che ciascuno, mantenendo la propria autonomia, possa confrontarsi in Parlamento alla luce del sole. Il primo problema è il funzionamento delle istituzioni e ritengo che le forze politiche maggiori debbano essere tutte coinvolte. E che quindi al centrodestra e al Movimento 5 Stelle vadano le presidenze delle due assemblee parlamentari, ovviamente sulla base della proposta di personalità che siano adeguate a ruoli istituzionali di garanzia».
E poi?
«Poi il Parlamento, e questo appello è rivolto ovviamente a tutti, deve consentire che il governo possa funzionare ricevendo il voto di fiducia. Il modello siciliano adombrato da Grillo può essere una buona idea, ma c'è una differenza istituzionale: in Sicilia il presidente è eletto dal popolo, a livello nazionale il capo del governo, se non riceve la fiducia del Parlamento, non può governare. Quindi, il confronto caso per caso finisce prima di cominciare. Dunque, ciascuno deve assumersi le proprie responsabilità, senza ammucchiate e senza pasticci. Non dico che bisogna eliminare in modo artificioso le differenze che restano profonde, ma per una volta si può tentare di farne un elemento di ricchezza e di confronto e non necessariamente di scontro pregiudiziale, che rischierebbe di paralizzare le istituzioni e produrrebbe un danno difficilmente rimediabile al Paese».
Quindi niente governissimo Pd-Pdl?
«Esatto. Sono d'accordo con Bersani. A questo punto, il sistema politico-democratico è chiamato a una prova cruciale: se è in grado o meno di fare le riforme che tante volte ha annunciato e che sin qui non è stato capace di fare. E il sistema politico-democratico comprende, oggi, anche Grillo che, a mio parere, non può chiamarsi fuori».
E allora?
«La nostra è una proposta di radicale cambiamento che dovrebbe interessare innanzitutto le forze che vogliono il cambiamento. Allora dobbiamo fare una legislatura costituente. Dobbiamo dimezzare il numero dei parlamentari, ridurre quello degli eletti, riformare radicalmente la struttura amministrativa del Paese, mettere mano ai costi della politica, combattere la corruzione, varare una seria legge sul conflitto di interessi. Poi io sono anche dell'opinione che occorra una nuova legge elettorale. In una situazione frammentata come quella italiana l'unica soluzione sarebbe il doppio turno alla francese».
C'è chi dice che non abbia senso senza il presidenzialismo.
«Non demonizzo l'elezione diretta del presidente della Repubblica, che può anche servire a rafforzare l'unità del Paese. Si potrebbe fare un referendum di indirizzo sulla forma di governo, impegnando il Parlamento a seguire la decisione popolare».
E che altro si dovrebbe fare?
«Bisogna aggredire il tema del debito, facendo un'operazione sul patrimonio pubblico: valorizzazioni e dismissioni intelligenti, quindi non quelle industriali. E poi, ciò che è fondamentale è imprimere una svolta nel senso della crescita, del lavoro e della giustizia sociale. Non dimentichiamoci, infatti, che una chiave di lettura di questo voto è la disperazione sociale. La gente non ce la fa e comprensibilmente è esasperata verso tutti. Il voto dovrebbe mettere in allarme pure le tecnocrazie di Bruxelles, perché parla anche di loro: ci vuole un governo che abbia un mandato forte per fare valere queste ragioni anche in Europa. Il punto non è "Europa sì", "Europa no", ma "Europa come"».
E il reddito di cittadinanza?
«Ma chi può essere contrario al reddito di cittadinanza? Il problema è quello di trovare i soldi… Certo, se il Paese brucia un'enorme quantità di risorse in una crisi politica senza sbocchi ce ne saranno molte di meno anche per il reddito di cittadinanza».
Ma chi dovrebbe guidare questo governo? Bersani?
«Lo guiderà il partito che ha la maggioranza relativa al Senato e quella assoluta alla Camera. E che ha espresso come candidato premier Bersani».

Corriere 28.2.13
Fo, Asor Rosa e Hack: i «pontieri» dell'intesa


ROMA — Felice del risultato elettorale ottenuto dal Movimento 5 Stelle, Dario Fo aveva auspicato a caldo che il suo candidato Beppe Grillo acconsentisse all'appello alla collaborazione lanciato da Pier Luigi Bersani. Ieri altri intellettuali di area sono intervenuti per condividere una prospettiva di esecutivo Pd-M5S. Sull'Unità, l'astrofisica Margherita Hack spiega che «da queste elezioni potrebbe uscire il governo più forte che ci sia mai stato negli ultimi anni», perché, se quello che dice Grillo «non sono chiacchiere», «i grillini vogliono molte cose che vuole anche il centrosinistra». La Hack boccia come «impossibile» una grande coalizione con il Pdl, e per Monti vede un ruolo da «opposizione intelligente». Sempre sul quotidiano fondato da Gramsci, il direttore Claudio Sardo dichiara il suo «No, il governissimo no», e sottolinea che «la riproposizione della strana maggioranza (tra Pd e Pdl, ndr) sarebbe un suicidio per il Paese e per le stesse istituzioni». Su il manifesto anche il professor Asor Rosa respinge come «catastrofica» un'ipotesi di grande coalizione con il centrodestra, sperando invece in un governo guidato da Bersani, senza Monti («non sappiamo che farcene di lui e della sua agenda») e basato sul confronto programmatico con il M5S. E un invito simile arriva all'Ansa dall'ex presidente del Consiglio superiore dei Beni culturali, Salvatore Settis: «Non basta allearsi. La sinistra si sieda a un tavolo con Grillo per rileggere insieme la Costituzione».

Corriere 28.2.13
Il blog si spacca: «Mai con Gargamella»
Ma tra i militanti cresce la voglia di un'intesa
di Elsa Muschella


MILANO — Abituati da sempre a dire la loro, rispettando la ragion d'essere del Movimento, non rinunciano certo adesso. Beppe Grillo indica la via sul blog («Bersani morto che parla») — denunciando lo «smacchiatore fallito» che «ha l'arroganza di chiedere il nostro sostegno» e annunciando che «il M5S non darà alcun voto di fiducia al Pd (né ad altri)» — e migliaia di iscritti commentano a raffica. Divisi tra la procedura standard («Nessuna pietà, nessun accordo con Gargamella!») e due sostanziali richieste («Ripensaci, ti prego! Facci scegliere in Rete cosa ne pensiamo!»). Gli ottomila e passa commenti al post hanno messo in piazza una spaccatura tra i grillini, per via di una leggera maggioranza convinta che il sì all'accordo con i democratici sia l'unica soluzione.
I commenti più votati sono quelli di chi invita il leader a non perseverare «su questa linea talebana», di chi non si rassegna all'ipotesi che non si possa nemmeno provare, a realizzare il programma attraverso «necessari compromessi» e, soprattutto, di chi rinfaccia a Grillo il tradimento della «democrazia delle Rete». Scrive Diego Benin: «Caro Grillo come fai a valutare legge per legge se un governo neanche lo fai partire?». Domenico Andria ricorda che «basterebbe un accordo tipo "ti votiamo la fiducia solo per fare tutte quelle riforme che servono: legge elettorale; legge anticorruzione; conflitto di interessi; finanziamento ai partiti. Ma per farlo serve sempre un governo, non facciamo i comunisti». Lucian T. chiede ciò che in centinaia vogliono sapere: «Perché non si vota online su questa decisione? L'uno conta uno lo stiamo smarrendo dalle prime puntate?». Giambattista Martino rivendica: «Vi abbiamo votato e su questa decisione non siamo stati interpellati. Non ho votato Grillo presidente ma per dei cittadini il cui compito è fare quella politica che i partiti non sono riusciti a fare. Se non vi va e/o non siete capaci la prossima volta voteremo qualcun altro».
Con toni diversi, la linea è la stessa della «rivoluzione gentile» di Viola Tesi, militante di Firenze, 24 anni: ieri ha lanciato su change.org la petizione «Caro @beppe_grillo dai la fiducia al governo per cambiare l'Italia. #GrilloDammiFiducia»: «Poniamo noi le giuste condizioni al Pd — scrive —. In cambio dovranno presentare in Parlamento quelle riforme che ci stanno a cuore e che possono far diventare l'Italia migliore. Non è difficile capire ciò che gli elettori chiedono. A voi, che siete i nostri dipendenti, è stato dato un mandato. Raccogliete questa sfida e cominciamo subito a cambiare l'Italia, per il bene di tutti. Caro Beppe, non sprecare il mio voto. L'ho dato con la testa e con il cuore». Dal primo pomeriggio alla serata di ieri ha raccolto più di 40.000 firme e 54.632 sostenitori.

Corriere 28.2.13
La grandinata di donne e giovani rivoluziona il Palazzo inamidato
Addio al Parlamento «maschilista» e l'età media scende a 48 anni
di Gian Antonio Stella


«Si può vincere una guerra mandando al fronte i vecchi?». Lo chiese anni fa un grande vecchio, Umberto Veronesi. Parlava di «guerra» da vincere nella ricerca, ma il tema vale anche per la politica, l'economia, la società. Erano decenni che l'Italia non aveva il coraggio di scommettere sui suoi giovani e sulle sue donne come ha scommesso col voto di lunedì. Decenni.
C'è chi dirà perplesso: ma l'esperienza? Può essere un problema, certo. Inizialmente lo sarà senz'altro. Ma visto il malinconico declino che viviamo da anni a dispetto di una classe dirigente fin troppo «esperta», ti viene in mente che forse non aveva torto Antonio Martino quando in tempi lontani sbuffò: «Abbiamo fatto esperienza dei politici d'esperienza e non è stata una bella esperienza».
C'era da vergognarsi, fino a ieri, del maschilismo del nostro Parlamento. Nell'ultima classifica sulla presenza di donne nelle Camere basse di tutto il mondo compilata dalla «Inter-Parliamentary Union», eravamo (con poco più del 21% di deputate) al 55º posto. Staccati non solo dal Ruanda, dove i reciproci genocidi di Hutu e di Tutsi hanno spinto a investire massicciamente sulle donne (56,3% dei parlamentari), ma dalla gran parte dei paesi europei. Primo fra tutti la Finlandia che a un certo momento si ritrovò una donna alla presidenza della Repubblica, una donna alla guida del governo e 12 ministri donna su 20.
Ancora più umiliante, del resto, è la classifica delle donne inviate dagli elettori europei al Parlamento di Strasburgo nell'ultima tornata del 2009. Con 18 donne su 72 euro-parlamentari siamo ventiquattresimi su 27 paesi: solo la Polonia, la Repubblica Ceca e Malta (che però ha solo 5 rappresentanti) ne hanno elette meno di noi. E va già un po' meglio che in passato: nella legislatura 1999-2004, di euro-parlamentari donne, ne avevamo 11. Contro le 34 della Spagna, le 37 della Germania e le 40 della Francia.
Quanto alle Regioni, un numero dice tutto: su 20 presidenti (per il Trentino-Alto Adige il ruolo viene svolto a turno da chi guida la provincia di Trento e quella di Bolzano: il risultato non cambia) c'è una sola governatrice, l'umbra Catiuscia Marini. Fine. Quanto ai comuni, nonostante le donne siano il 52% della popolazione, i municipi guidati da una donna sono solo il 9,8%. Di più: dopo l'uscita di scena di Letizia Moratti a Milano e Rosa Russo Jervolino a Napoli neppure una delle prime venti città italiane ha una sindaca. Di più ancora: quasi un terzo (per l'esattezza il 32%) delle giunte comunali non ha neppure un assessore donna.
Il tutto nella scia di una storia di misoginia. Basti dire che le italiane votarono per la prima volta nel 1946, cioè 77 anni dopo le donne americane del Wyoming, 53 dopo le neozelandesi, 44 dopo le australiane, 27 dopo le belghe, 24 dopo le austriache, 25 dopo le armene… La prima donna ministro, Tina Anselmi, arrivò nel 1976: dopo 836 maschi. Insomma l'ostilità nei confronti dell'impegno politico femminile è stato tale, storicamente, da spingere Giuliano Amato a confidare: «Un giorno mi sognai di proporre una donna al Quirinale: mi guardarono sconcertati. Manco avessi proposto un coleottero!»
L'irruzione in Parlamento di tante deputate e tante senatrici da rappresentare il 31% del totale, per un paese come il nostro che meno di dieci anni fa aveva solo il 9,8% di presenze femminili, è dunque una svolta storica. I partiti che ci hanno creduto di più, dicono i numeri, sono il Pd (41% della forza parlamentare) e il Movimento 5 Stelle: Grillo aveva detto che avrebbe fatto eleggere più donne che uomini e non ce l'ha fatta, ma le grilline sono comunque il 38%. Seguono nell'ordine il Pdl e l'Udc (22%), Sel (20 %) e, ultima, la Lega Nord: 14%.
Salutare come una benedizione l'allegra grandinata di donne là dove si fanno le leggi non è una questione di galanteria o una mossa politically correct. È buon senso. La ripresa di questo Paese, come ripetono tutti da anni (a parole) è strettamente legata alla necessità di consentire alle donne di essere pienamente competitive nella loro potenzialità di lavoro, di intelligenza, di creatività. È un peso economico e non solo culturale, essere ultimi nell'Europa a 27 per partecipazione femminile al mondo del lavoro. Tante chiacchiere, annunci e family day, ma come denuncia da anni Famiglia Cristiana non c'è governo di destra o di sinistra che abbia messo a punto progetti decenti. Dagli asili nido alla possibilità di scaricare dalla dichiarazione dei redditi come in Francia la metà dello stipendio alla collaboratrice domestica, cosa che tra parentesi farebbe emergere molto lavoro nero. Che sia finalmente la volta buona che questi temi essenziali saranno affrontati?
Ancora più clamorosa, per certi versi, è l'irruzione di ragazzi e ragazze. Di giovani che fino a ieri erano del tutto esclusi dalla possibilità di dire la loro, di portare le loro idee, di fornire le loro soluzioni. Conosciamo l'obiezione: ci son vecchi con le rughe ma con la mente fresca di un ventenne e ci sono giovani che a trent'anni sembrano averne 80. Ma certo. Ovvio. Ma che vuol dire? Resta il fatto che, come sottolinea giustamente il presidente della Coldiretti Sergio Marini, «l'Italia ha la classe dirigente più vecchia d'Europa con una età media di 59 anni, con punte di 67 anni per i banchieri, di 63 per i professori universitari e di 61 per i dirigenti delle partecipate statali». E non tutti, come ci dice la realtà dei fatti, sono fuoriclasse. O no?
Siamo un paese dove solo 9 su circa 18mila docenti universitari hanno meno di 35 anni, dove vari direttori del Cnr sono arrivati a fare ricorso contro le regole di un concorso che prevedeva per i partecipanti l'età massima di 67 anni (sessantasette!), dove Raffaele Lombardo si è spinto a dare una consulenza per lo sviluppo economico e le politiche industriali a Domenico La Cavera quando aveva 94 anni. E potremmo andare avanti all'infinito…
Una tabella dello studio «Il mercato del lavoro dei politici», di Merlo, Galasso, Landi e Mattozzi mostrava tre anni fa i percorsi paralleli nostri e dei tedeschi. Dove si notava come i deputati e senatori italiani che nella prima legislatura repubblicana avevano mediamente meno di 46 anni, erano inesorabilmente invecchiati insieme con la prima Repubblica arrivando a 49. Lo sfondamento nel '94 di Silvio Berlusconi e della Lega Nord, che inizialmente puntarono davvero sui giovani più di altri, fece precipitare questa età media a 47. Ma fu solo una svolta provvisoria. Da allora, mentre in Germania l'anzianità dei parlamentari tedeschi si stabilizzava cominciando via via a scendere, quella dei nostri ha continuato a salire, salire, salire. Fino a 54 anni.
Fino, appunto, al cataclisma di lunedì. Basti vedere le foto dei neoeletti: è cambiato il mondo. L'età media dei nuovi parlamentari si è abbassata di colpo a 48. Per l'esattezza 53 al Senato, 45 alla Camera. Scoprire che i grillini eletti a Montecitorio hanno mediamente 33 anni (17 meno dei berlusconiani, 22 meno dei montiani e addirittura 25 meno dei casiniani) mette i brividi? Sicuramente. Anzi, diamo per scontato che alcuni di questi ragazzi siano immaturi. Che altri siano scarsi. Che altri ancora, trascinati in Parlamento dall'ondata come fossero sul surf, possano tradire le speranze perfino del loro guru genovese.
Una cosa comunque è certa: sul linguaggio, sulla rigidità inamidata di certi riti del palazzo, sulla illeggibilità delle norme sempre più astruse e su tante altre cose, quei ragazzi, insieme coi giovani portati dentro il palazzo, finalmente, anche da altri partiti, hanno la possibilità di marcare una svolta fino a ieri impensabile. E se è vero che i malati parlano sempre di malattie e i marinai di mare e i vecchi di vecchiaia, chissà che finalmente in Parlamento si parli di giovani.

Corriere 28.2.13
Così il voto in nove città: l'emorragia di Pd e Lega a vantaggio di Grillo
di Lorenzo Fuccaro


ROMA — I grillini hanno «mangiato» voti soprattutto al Pd nel Centro Nord, alla Lega nelle aree cosiddette bianche e all'Italia dei valori. Non solo. L'apporto di ex elettori del Pdl è stato pressoché nullo nelle città del Centro Nord mentre si è avvertito a Napoli e Reggio Calabria. I delusi da Berlusconi (lo avevano votato nel 2008) si sono orientati in parte verso Scelta civica al Nord, mentre hanno ingrossato le file degli astensionisti nelle città meridionali.
Questo quadro emerge da un esame dei flussi elettorali compiuto dai ricercatori dell'Istituto Cattaneo di Bologna. Si tratta, avvertono gli autori dello studio, di «stime statistiche e quindi di misure affette da un certo margine di incertezza» e vanno lette come «mere stime di tendenza». Sono, comunque, interessanti perché offrono una chiave interpretativa di quanto è avvenuto nelle urne domenica e lunedì. Le città prese in considerazioni sono Torino, Brescia, Padova, Bologna, Firenze, Ancona, Napoli, Reggio Calabria e Catania.
I votanti per il Movimento 5 Stelle provengono prevalentemente dall'area della sinistra a Torino, Bologna, Firenze, Ancona, Napoli, cioè in zone di tradizionale insediamento di partiti come Pd e Sel. Giungono, invece, per la maggior parte dalle file della destra in città come Padova, Reggio Calabria e Catania. I ricercatori del Cattaneo riassumono così il quadro emerso dalle Politiche di domenica e lunedì: «Possiamo dire che nel Centro Nord Grillo ha preso voti soprattutto dall'area di centrosinistra e dalla Lega». A Brescia, per esempio, il 30% di chi ha optato per Grillo in passato aveva dato il proprio voto alla Lega, una percentuale che arriva al 46% a Padova. A Torino il 20% di voti ai grillini proviene da ex elettori dell'Italia dei valori e costituisce i tre quarti dei consensi dei dipietristi nel 2008. Nel Sud, osservano ancora, «la situazione è meno netta ma sembrerebbe prevalere un contributo maggiore dal centrodestra». E i motivi che hanno spinto a un cambio di campo sarebbero, ipotizzano quelli del Cattaneo, «l'indignazione morale nei confronti della politica che è più diffusa nell'elettorato del Pd che in quello del Pdl».
Un ragionamento a parte va fatto per il Pdl che tra i due appuntamenti elettorali (2008 e 2013) ha perso oltre sei milioni di votanti. Dove sono finiti? «I dati evidenziano — fanno notare i ricercatori del Cattaneo — un duplice registro che separa il Centro Nord dal Sud. Nella prima zona i flussi indicano Scelta civica di Monti come area prioritaria di destinazione dei transfughi del Pdl. Questo vale in tutte e sei le città del Centro Nord analizzate. Nel Sud, invece, è l'astensione il campo nel quale si sono rifugiati i delusi del Pdl». Ed è un dato che i ricercatori avevano già riscontrato nell'esame dei flussi tra le Politiche del 2008 e le Europee del 2009 soprattutto a Napoli, Reggio Calabria e Catania.

Repubblica 28.2.13
La strada proibita del governissimo
di Piero Ignazi


IL NOSTRO paese è sempre affascinato dall’idea della concordia, dell’armonia, della corrispondenza d’amorosi sensi, come fossimo tutti epigoni dell’abate Francesco Zorzi e del suo De Hamonia Mundi, best seller cinquecentesco in tutta Europa. Non per nulla ospitiamo la Chiesa cattolica, romana ed universale.
La moderna democrazia pluralista vive invece di contrapposizioni e conflitti, temperati da regole condivise che assicurano pari diritti a tutti. Eppure, ad ogni momento critico, da noi, risuona il mito della grande coalizione, della chiamata a raccolta di tutte le forze come se si fosse di nuovo in trincea a combattere l’invasore. Le grandi coalizioni necessitano però di alcune condizioni per dare buona prova di sé, condizioni che attualmente non esistono. La più importante riguarda la condivisione dei principi costituivi del sistema. L’abbraccio tra Pdl e Pd, patrocinato a gran voce dai berlusconiani, non si scontra solo con policies incompatibili su quasi tutto, ma soprattutto con una concezione della democrazia e del funzionamento delle istituzioni totalmente divergente: populista e irrispettosa dei checks and balances il Pdl, parlamentare-rappresentativa il Pd. Se non c’è accordo sui fondamentali ogni intesa non regge. Inoltre manca ogni traccia di un sentimento reciproco di affidabilità e di fiducia: la campagna elettorale condotta da Berlusconi tutta all’attacco del governo Monti, al quale pur aveva partecipato, è sintomatica della disinvoltura politica del Pdl. Legarsi a un partito siffatto significa candidarsi al suicidio politico.
Cosa rimane allora? Semplicemente, un governo di minoranza. Una bestemmia per l’italico benpensantismo unanimistico, ma una pratica corrente nelle democrazie consolidate. Nel dopoguerra, i 2/3 dei governi nei paesi scandinavi sono stati governi di minoranza. In Danimarca il loro numero ha superato i quattro quinti. In altri termini, la normalità dei governi in quelle democrazie è stato il minority government.
E non è una bizzarria nordica. In Canada dal 2004 al 2011 si sono alternati governi liberali e conservatori di minoranza. Lo stesso si è verificato in Nuova Zelanda e in Olanda con il governo di Mark Rutte. Anche in Spagna sia il primo governo Aznar che il primo governo Zapatero non avevano la maggioranza alle Cortes. Ma questo non ha limitato la loro efficacia tant’è che, ad esempio, il 92% dei provvedimenti governativi dell’esecutivo Zapatero è stato approvato dal Parlamento. Preso atto che il governo di minoranza non è un monstrum ma una prassi corrente dei paesi democratici bisogna chiedersi se oggi ci sono le condizioni politiche per realizzarlo. Una volta ottenuta la fiducia — o la “non sfiducia” se vogliamo ricordare i tempi di Giulio Andreotti — che, contrariamente ad altri paesi, in Italia deve essere manifestata con un voto di investitura, i governi di minoranza possono muoversi in tre direzioni: la più rischiosa e la meno proficua è quella di ricercare l’appoggio volta per volta sui singoli provvedimenti in Parlamento; la seconda è quella di un gentlemen agreement con un partito di opposizione su alcuni punti qualificanti; la terza punta ad un accordo organico che lascia comunque fuori dal governo gli altri partiti. Il Pd, cui spetta fare il primo passo essendo il partito leader dello schieramento che ha la maggioranza alla Camera, deve muoversi in una di queste direzioni. La più proficua, è quella di un accordo limitato su alcuni punti qualificanti di riforma della politica che sono condivisi sia dal partito di Bersani che da quello di Grillo: riduzione dei costi della politica, taglio delle cariche rappresentative, riforma elettorale, conflitto di interessi, incompatibilità e ineleggibilità. Ovviamente in agenda c’è ben altro di urgente e necessario, sul piano economico e sociale. Se sulla riforma della politica l’intesa sembra agevole, su questi altri punti (ivi compresa Europa e politica estera) si entra in un territorio sconosciuto perché vaghe e contraddittorie sono le posizioni dei grillini. Ma non si tratta di cercare un’alleanza organica. Si tratta di trovare una via di uscita praticabile ad una inedita impasse, attraverso un governo di minoranza che assicuri la governabilità per un periodo transitorio in vista di un inevitabile ritorno alle urne. L’alternativa in fondo è chiara. O riportare al governo i berluscones con il loro bagaglio di sotterfugi e trabocchetti, che farebbero a pezzi il Pd in pochi mesi, o un accordo limitato, con obiettivi comuni e con partner “nuovi” probabilmente molto meno inaffidabili di quanto si pensi. In fondo le loro facce pulite sono buon viatico per una politica meno limacciosa.

Repubblica 28.2.13
Nel Pd già spaccato processo al segretario
I big del Pd processano il segretario “Quanti errori, ora dialogo con tutti”
Affondo di D’Alema e Veltroni. Ma Bersani è pronto alla conta
di Goffredo De Marchis


QUANDO non ci sono richieste esplicite di dimissioni dopo una sconfitta, quando Veltroni e D’Alema partecipano a una riunione senza aprire bocca, è lì che comincia lo scontro nel Pd. Pier Luigi Bersani finisce nel mirino. Sono in discussione il suo ruolo, la sua leadership, la campagna elettorale, gli errori.
LA RIVOLTA dei big ha i contorni della critica politica: l’apertura a Grillo, il rifiuto di un confronto con il Pdl. Ma, come sempre, straripa nelle battute personali. Velenose, niente a che vedere con le metafore di Maurizio Crozza. In tempi non sospetti D’Alema aveva criticato la corsa democratica verso il voto, puntando il dito contro l’arroganza dei vincitori annunciati. Adesso dice: «Abbiamo sbagliato moltissimo nell’ultimo mese. Purtroppo il nostro segretario è un uomo dell’’800». Veltroni non è da meno. Ricorda il suo risultato di cinque anni fa: «Quando io presi il 34 per cento, due giorni dopo Pierluigi rilasciò un’intervista in cui chiedeva le mie dimissioni ». E fa un riassunto spietato della recente strategia bersaniana: «Mentre Berlusconi diceva “vi restituisco l’Imu”, mentre Grillo avanzava al grido di “tutti a casa”, ho visto che la risposta del Pd era affidata a un balletto organizzato sulla terrazza di Largo del Nazareno con un gruppo di persone che cantava “smacchiamo il giaguaro”».
È un clima che non promette nulla di buono in giorni che sarebbero complicatissimi anche per leader di statura storica. Bersani resiste, circondato dai suoi fedelissimi, appoggiato dal grosso dei dirigenti territoriali, fedele al rifiuto dei «politicismi». È al corrente dell’offensiva dei maggiorenti, ma la liquida così: «Vogliono tornare ai discorsi di vent’anni fa, agli accordi sottobanco, agli inciuci? Fatti loro, le opinioni sono tutte legittime». Ma la sfida interna è partita, aggravata dalla peggiore crisi degli ultimi 60 anni. Perciò si schierano le truppe. Il segretario sembra pronto ad andare a una conta se sarà necessario: nei gruppi parlamentari, nella direzione di mercoledì. Convinto com’è che il partito non digerirà mai un nuovo esecutivo tecnico o un patto esplicito col Pdl.
Ma ci si può chiudere in un unico schema di fronte alla confusione del momento? Questo è il punto. Sì, se si mette in conto anche l’ipotesi di un ritorno alle urne nel giro di pochi mesi. La risposta di D’Alema a questi scenari? Un sibilo: «Sono d’accordo con Bersani. Grosso modo». L’ex premier pensa a un tentativo del segretario, ma aprendo a tutti, non solo ai grillini. A Monti, a Berlusconi, alle forze responsabili «per dare vita a una stagione costituente ». Di sicuro lui ha avviato un personale giro di consultazioni che non ha escluso, ieri, la telefonata a Gianni Letta, interlocutore principale di D’Alema nel campo avverso da molti anni, per non dire decenni. Senza dimenticare un contatto con Giorgio Napolitano. Il Movimento 5stelle non basta e il “grosso modo” dalemiano si riferisce all’essersi infilati in una soluzione apparentemente priva di piano B. «Una scelta demenziale», l’ha definita Marco Follini.
L’analisi di Veltroni è diversa. Per l’ex segretario, Bersani è tagliato fuori, escluso dai giochi, in nessun modo può guidare da protagonista questa fase. «Inseguire Grillo è del tutto inutile», dice. L’unica via d’uscita può essere «un governo tecnico, un governo del presidente. Uno pseudo- Monti». Veltroni non ha nomi da proporre. L’Italia ha bruciato una tale quantità di “esterni” che diventa impossibile fare delle previsioni. Semmai, delle esclusioni. «Ecco, Amato — spiega Veltroni nei suoi colloqui — proprio no. Il suo nome può solo ingrassare Grillo». L’identikit dell’esecutivo però è molto chiaro. «I partiti gli staranno lontano ancor più che col governo uscente. Non dovrà avere ministri politici. Il premier deve avere una credibilità europea e non deve mettere le dita negli occhi né alla destra né a Grillo».
La linea di un’alternativa al dialogo con Grillo non è certo isolata nel Pd. «L’importante è non chiamarlo governissimo o grande coalizione. Non è questo di cui bisogna ragionare — spiega Veltroni —. Sarebbe una follia e farebbe saltare il Pd». Ma il Pd può davvero saltare e non aiutano i 15 giorni che ancora separano lo spoglio dall’apertura delle Camere. Bersani lavora nella direzione indicata. A Largo del Nazareno prepara il pacchetto di riforme da presentare al Parlamento. O meglio, ai 5stelle e a Monti, con cui ha ripreso a lavorare. Le proposte sono incentrate sul lavoro e sulla moralità della politica: anticorruzione, conflitto di interessi, riforma dello Stato, costi della politica e dei parlamentari, legge elettorale. Non sembra un pacchetto che si possa facilmente sottoporre a Berlusconi. La “trattativa” con il comico, ripetono i suoi collaboratori, avverrà alla luce del sole, ossia nelle aule parlamentari. In realtà, nel quartier generale del segretario, preparano con cura un contatto diretto con Grillo e Gianroberto Casaleggio. Senza mediazioni, senza ambasciatori anche se sono del calibro di Romano Prodi. «Un incontro? Non è escluso, mancano ancora parecchi giorni al 15».
La strada è tracciata, ma oggi è più difficile che il partito arrivi unito al traguardo, quale che sia.
I segnali di D’Alema e Veltroni servono a far uscire allo scoperto distinguo o dissensi. Cosa faranno Finocchiaro, Gentiloni, Tonini, per fare alcuni nomi in ordine sparso, davanti a una conta? E le pattuglie di parlamentari vicini all’uno o all’altro? Il segretario ha dalla sua parte Franceshini, Bindi, Nichi Vendola, Enrico Letta (con qualche perplessità) e un gruppo di bersaniani disposti a vendere cara la pelle. «Attenzione — avverte Matteo Orfini — chi vuole un altro governo tecnico o un accordo con Berlusconi dovrà passare sul nostro cadavere. Per fortuna, abbiamo stabilito che si decide a maggioranza nei gruppi e vediamo chi ha più voti». E se il tentativo con Grillo non funziona, il rischio Grecia fa paura fino a un certo punto. Qualcuno nel Pd ha già disegnato un cerchietto intorno alla data del 9-10 giugno. Per tornare a votare.

Repubblica 28.2.13
Ma Pierluigi non vuole mollare “Sì a 5Stelle o ci spazzano via”
L’idea del mandato esplorativo e le alternative al leader pd
di Francesco Bei


ROMA — Bersani nei suoi colloqui di queste ore lo definisce un «governo di responsabilità nazionale». E la partita è giocata su due tavoli: l’offerta al Movimento 5 Stelle e il dialogo (ripreso dopo le asprezze della campagna elettorale) con Mario Monti. «Non ci sono subordinate — ha spiegato il segretario del Pd —, andiamo avanti con questa disponibilità. Anche perché Grillo già si frega le mani al pensiero di un governissimo tra noi e il Cavaliere, per poi tornare a votare tra un anno e ammazzarci: non gli faremo questo regalo».
L’offerta sarà sostanziata mercoledì alla direzione del partito. Gli uomini di Bersani stanno dettagliando le singole proposte che dovrebbero allettare i grillini e tenere alla larga Berlusconi, a partire dal conflitto d’interessi e da una vera legge anticorruzione. «Dobbiamo stanare Grillo», è l’imput del leader del Pd. In parallelo ha concordato con Vendola che sia proprio il leader di Sel il «pontiere» con il M5S. C’è poi la rete degli eletti Pd in Emilia-Romagna già al lavoro per ricucire, ma soprattutto sarebbe entrato in campo Romano Prodi. Con una telefonata a Gianroberto Casaleggio. Mediazione smentita dall’ex leader dell’Unione, ma non è un mistero che i voti grillini, oltre che per palazzo Chigi, farebbero comodo anche per il Quirinale.
La novità è che il segretario Pd, come detto più volte in campagna elettorale, non ha affatto abbandonato l’idea di imbarcare Mario Monti. Tra Bersani e il premier c’è già stato due giorni fa un lungo colloquio telefonico. Il fatto è che il leader democratico ha un assoluto bisogno del sostegno del Professore. In primo luogo perché a palazzo Madama, senza i 19 montiani, un eventuale governo Bersani non avrebbe i numeri per la fiducia. Inoltre l’ombrello internazionale offerto dalla credibilità del premier può mitigare gli effetti sui mercati dell’instabilità italiana. «Per la maggioranza puntiamo a un’entente cordiale tra Scelta-Civica, Italia Bene Comune e Grillo», conferma il segretario socialista, Riccardo Nencini, dopo un consulto con Bersani.
L’offerta di Berlusconi, resa pubblica ieri via Facebook, invece non viene presa in considerazione, anche se Bersani è consapevole che dentro il Pd sta crescendo un’area non piccola che preferisce guardare in quella direzione. «Dai tempi della Bicamerale del ‘96 ne abbiamo prese fin troppe di fregature dal Cavaliere », avverte un fedelissimo di Bersani come Stefano Fassina. Anche al Colle al momento nessuna strada viene esclusa. Compresa quella di un mandato esplorativo che potrebbe essere affidato a Bersani, ma anche ad Amato o allo stesso Monti. Altri due nomi che circolano in area Pd sono quelli di Fabrizio Barca ed Enrico Letta. Il timore di Napolitano è infatti legato all’incertezza del quadro: nel caso affidasse a Bersani un incarico pieno e il segretario del Pd non riuscisse a trovare una maggioranza, a quel punto l’unica alternativa sarebbero le elezioni a giugno.
La chiusura di Bersani al leader del Pdl lo espone tuttavia al rischio di consegnarsi mani e piedi ai diktat di Grillo. Da qui la necessità di bilanciare l’apertura al M5S con Monti. Due tavoli dunque, per costruire un programma da portare in Parlamento e «vedere chi ci sta». E intanto provare a trovare un’intesa sui presidenti delle Camere. Bersani la definisce «la tattica del carciofo», una foglia alla volta per non essere travolto: prima i presidenti delle Camere (dal 15 marzo, l’anticipo della convocazione è troppo complicato), poi le consultazioni per il governo, infine la partita del Quirinale. Ed è l’opposto di quanto vorrebbe Berlusconi. Il Cavaliere infatti, tramite un ambasciatore, ha fatto pervenire al leader del Pd un’offerta di alleanza preventiva «onnicomprensiva». Un pacchetto unico, che comprende il governo di larghe intese (senza Grillo), le presidente delle Camere e il Quirinale. Dove il Cavaliere vedrebbe bene ancora l’attuale inquilino del Colle. «Diglielo a Bersani: in questo caos l’unica — ha confidato ieri Berlusconi al mediatore del Pd — è sperare in una proroga di Napolitano».

Repubblica 28.2.13
La base di Beppe insorge: “Devi trattare”
Spaccatura sul blog e petizione con 20 mila firme. Anche tra gli eletti c’è chi apre
di Tommaso Ciriaco


ROMA — Il primo a osare l’incursione in territorio ostile si firma Manuel. Sono le 14.22 e sul blog di Beppe Grillo scrive: «Grillo ma cosa cazzo fai?? Ti sei bevuto il cervello forse?? Potremmo attuare la nostra agenda. Da tuo grande sostenitore ti dico che stai buttando via il consenso. Manderai il Paese nel caos». Nel giorno in cui il leader del M5S sbatte la porta in faccia a Bersani, il grillino deluso non è l’unico a dissentire. In centinaia sfidano il Capo, mentre sul web la petizione di una giovane elettrice del movimento a favore dell’alleanza con il Pd raccoglie in poche ore ventimila firme. E fra i neo parlamentari c’è già chi sostiene l’intesa.
Molti richiamano il politico genovese alla responsabilità. Qualcuno quasi lo implora: «La linea dei duri e puri ci porterà al fallimento ». Il movimento non può chiamarsi fuori, sostiene Giuseppe: «Si prenota il campo da tennis, poi quando dobbiamo giocare diciamo: io con te non gioco». Nei commenti più accorati si affaccia anche lo spettro del Cavaliere: «Facciamo in modo che Berlusconi non abbia più alcuna voce in capitolo - dice Roberto - io non lo posso più vedere».
Complice anche il clamoroso boom elettorale, il blog del comico raccoglie in meno di sette ore più di quattromila commenti. La novità è che di fronte al rischio di ingovernabilità il popolo dei grillini si divide. Le sfumature scavano solchi nel movimento. C’è l’entusiasmo per l’affermazione, ma anche una buona dose di realismo: «Li tenete tutti in pugno scrive Elena - Ma se non andate incontro a Bersani, per quanto sia un voltafaccia, spingerete solo verso il governissimo. E quello sì che fa paura». La soluzione più creativa spetta però a Matthias: «Si tenga una votazione on-line con gli iscritti per decidere democraticamente se dare o meno la fiducia al governo».
Sono in molti a temere nuove elezioni, replicando il modello greco: «Se non dai la fiducia al Pd - prevede Fabrizio - si torna alle elezioni e se la giocano Renzi e Berlusconi. Gli eletti del M5S saranno la metà, vedi elezioni greche. E intanto l'Italia va a rotoli». Passare dalla protesta alla proposta, questa la linea di Roberto: «Proporre al Pd un accordo su pochissimi punti programmatici come riforma elettorale e conflitto di interessi».
Nel giorno del dissenso c’è spazio anche per critiche ruvide al fondatore. Come quella di Mary: «Chi ha deciso che non bisogna dare una possibilità al Pd? Solo tu, Beppe, e Casaleggio, non chi ti ha votato». Chiara invece domanda: «Siete una forza di rinnovamento o siete in Parlamento solo per sfasciare tutto?». E c’è chi osa addirittura spingersi oltre: «Tu chi sei chiede Mirko - il megafono o il leader che mira a fare la rivoluzione?».
Un coraggioso «elettore del Pd» sconfina nel blog per lanciare un appello: collaboriamo. Parte la caccia all’intruso, molti grillini denunciano chi osa sposare una linea eterodossa: «C'è troppo traffico sul blog, di sicuro ci sono degli estranei», avverte Riccardo. Il nemico dichiarato resta comunque il Pd: «Piddini - attacca Roberto - vendereste pure vostra madre per non mollare la poltrona». Mentre il blog si divide, si fa largo la petizione dell’elettrice grillina Viola Tesi, ventiquattrenne fiorentina: «Caro Beppe - scrive sulla piattaforma “Change.org” - ho votato M5S e credo in una rivoluzione gentile». Per realizzarla, spiega, serve un’intesa con il Pd, sbarrando la strada alle larghe intese.
Nella pattuglia parlamentare del M5S, intanto, si fa spazio qualche distinguo. Il lombardo Ferdinando Alberti è orientato a votare la prima fiducia, Alberto Zolezzi apre a un «governo di scopo», Giulia Sarti dichiara chiuso «il tempo degli insulti». La più netta è però la senatrice Serenella Fuksia: «Se ci sono convergenze sul programma, posso votare la fiducia».

Repubblica 28.2.13
Crocetta: “Il modello Sicilia funziona con loro tagliati i costi e i privilegi”
di Emanuele Lauria


PALERMO — «Ma Grillo vuole fare il cantore della contestazione o il poeta della rivoluzione?». Rosario Crocetta, l’inventore del modello Sicilia, adesso sferza il leader di 5 stelle. Dice che «deve superare dei tabù se vuole davvero salvare il Paese». Lo invita a rivedere il no a un eventuale voto di fiducia a Bersani. A meno che, afferma il presidente della Regione siciliana, «non intenda favorire un governissimo che porterebbe solo guasti».
Dalle urne è venuto fuori un vincitore senza maggioranza e con una possibile sponda nella pattuglia grillina. In Sicilia, a ottobre, cominciò più o meno così.
«Ed ha funzionato. C’è sempre stata un’affinità elettiva fra me e gli esponenti di 5 stelle. Ci siamo trovati sull’idea di taglio dei privilegi senza massacrare lo Stato sociale. E abbiamo scoperto “convergenze parallele” su norme di carattere ambientale, come quella sull’acqua pubblica, e sulla revoca dell’autorizzazione del Muos (il sistema radar americano di Niscemi, provincia di Caltanissetta) che pare sia nocivo per la salute dei cittadini. Io fra i grillini ho trovato solo persone perbene con le quali si può dialogare ».
Lei è stato favorito dal fatto che all’Assemblea regionale, per governare, non serve un voto di fiducia. In Parlamento è diverso.
«È vero. Ed ecco perché credo che Grillo ora debba superare dei tabù. Se vuole salvare il Paese non può negare la fiducia a un accordo mirato alle riforme. O vuole favorire un governissimo in nome della purezza? Stavo rischiando di subirlo pure io, il governissimo,
in Sicilia...».
In che senso?
«Qualcuno, anche ai vertici del mio partito, voleva impormi un accordo Pd-Pdl per le cariche più alte dell’Assemblea. Mi sono opposto e oggi c’è un vicepresidente grillino dell’Ars... Un atto di intelligenza che ha favorito poi un percorso comune con M5S».
Secondo lei come dovrebbe comportarsi Bersani?
«Proporre subito un’intesa istituzionale. Dialogare con i grillini, e non solo, sulle presidenze delle Camere e sul Quirinale. Io, per l’elezione del capo dello Stato, un nome ce l’avrei: quello di Piero Grasso. Una soluzione del genere smuoverebbe la politica: il movimento 5 stelle si opporrebbe?».
Ci vorrebbe un programma.
«Lotta alle caste, difesa dell’ambiente, ripresa produttiva, solidarietà sociale, sburocratizzazione: vuole che Bersani e Grillo non trovino 4 o 5 punti forti da cui partire, salvo verificare poi di volta in volta l’intesa sulle leggi in aula?»
Presidente, è vero però che il modello Sicilia trova resistenze nella sua stessa maggioranza: sia il Pd che l’Udc nell’Isola non guardano di buon occhio le aperture ai grillini.
«Se allude al Pd, è un problema che riguarda la dirigenza regionale, forse troppo legata al passato. Voleva impormi Crisafulli come assessore! Da Roma nessuno mi ha mai detto nulla e d’altronde noi siano autonomi per antonomasia. Il problema è generale: i partiti, a Roma come a Palermo, si rifiutano di capire che la politica non è più quella del secolo scorso...»

Repubblica 28.2.13
L’Aula delle Idi di Marzo
di Andrea Manzella


Quando, il 15 marzo, le Camere si riuniranno per la prima volta (in un giorno, le Idi di Marzo, che a Roma ha una sua storia) si troveranno di fronte non uno ma due scenari complicati. Non solo quello politico: di cui tutto il mondo ormai sa. Ma anche quello istituzionale. Perché?
Perché il Parlamento sarà nuovo, ma i suoi regolamenti sono vecchi. Di per sé non sarebbe un male, anzi: la forza di una istituzione è proprio nella stabilità delle sue regole. Al di là della discontinuità delle persone che, di volta in volta, la compongono. Ma è un guaio quando quei regolamenti sono pieni di incertezze, di contraddizioni, di omissioni. Tra le colpe dell’ultima legislatura perduta (2008-2013) forse la più grave è proprio questa: di non aver provveduto a sanare le debolezze che ognuno vedeva ad occhio nudo nel funzionamento delle Camere. Non si trattava di cambiare la Costituzione. Per migliorare un po’ le cose bastava mettersi d’accordo per rimediare ai buchi neri, alle incoerenze dell’impianto procedurale. Ma neppure questa limitata intesa è stata possibile. Così la legislatura si è chiusa con un Parlamento che poteva passare dall’asservimento ai più stravaganti interessi personali del premier; alla puntigliosa resistenza contro riforme di interesse generale. Un Parlamento di cui si poteva dire ad uno stesso tempo (e si è detto in campagna elettorale) che fosse ingovernabile o che fosse, invece, una semplice protesi del potere di governo.
Il programma di revisioni regolamentari che poteva (e doveva) essere attuato è così ora davanti al nuovo Parlamento come un compito dimenticato. Tra le cose non fatte, rimangono le incomprensibili differenze tra le regole procedurali del Senato e quelle della Camera. Tra di esse vi sono quelle che non permettono un quadro di tempi certi per le decisioni sulle iniziative del governo e per l’esercizio dei diritti d’opposizione. Vi sono quelle sul calcolo degli astenuti nelle votazioni: per cui una legge o addirittura un governo possono, con gli stessi numeri, ottenere il voto favorevole alla Camera e non al Senato. Vi sono quelle sui limiti diversi che nelle due Camere si pongono all’ostruzionismo: sia nelle procedure preparatorie in commissione, sia nelle proposte di emendamenti, sia nella ripetizione delle verifiche del numero legale.
Poi ci sono le omissioni di coordinamento tra le due Camere. Non si è cercato di unificare tra Montecitorio e Palazzo Madama (anche per risparmiare soldi) le fasi conoscitive, le indagini, le istruttorie, gli uffici studi. Non si sono ancora costruite – dal momento che la Grande Crisi ha spiegato a tutti i limiti della nostra sovranità parlamentare – né le procedure né la sede unica per la partecipazione diretta e permanente del Parlamento alle decisioni dell’Unione europea (in sintonia con la precisa “legge comunitaria” varata dal governo Monti). Non si è consentito l’ingresso dei rappresentanti regionali in Parlamento, nell’ambito della speciale Commissione, già proposta (da 12 anni) in norme costituzionali. Insomma: non si è fatto niente su questioni che non soltanto sono importanti giuridicamente. Esse soprattutto incidono sul grado in cui il lavoro delle istituzioni parlamentari può essere seguito e capito dai cittadini.
Le centinaia di nuovi e giovani parlamentari entreranno così in una istituzione fragile che certo non resisterebbe ad un giuoco “a rompere”, condotto sino in fondo. Ma a che servirebbe rompere: se non ad una caotica e disperata distruzione, anticamera di qualche tragedia politica? Non c’è a Roma un compatto meccanismo parlamentare da sventrare, com’è stato immaginato da chi pensa ad una specie di assalto ad un Palazzo di Inverno. C’è invece una macchina in affanno: da adeguare ai tempi, tra tutte le incertezze dei tempi. Il difficile non è dunque cercare di sabotarla dal di dentro: il difficile è rimetterla in moto – anche attraverso la forza di nuove regole interne – per farle ritrovare l’energia perduta. Che poi è l’energia della rappresentanza.
La parola “parlamentarizzazione” significava, un tempo, il recupero alle istituzioni statali di eletti espressi da movimenti anarchici o, comunque, anti- sistema. Oggi può significare esattamente il contrario. I nuovi parlamentari vengono tutti o da partiti-non-partiti o da un partito, il Pd, profondamente trasformato dalle “primarie”. I gruppi parlamentari non possono essere più considerati come le “sezioni istituzionali”, le famose “cinghie di trasmissione”, dei partiti. È da questa situazione inedita che possono sorgere la spinta e le aperture – anche regolamentari – per far recuperare all’istituzione appunto il vitalismo della rappresentanza. Il Parlamento, con questo spettacolare rinnovamento di personale, può cioè diventare l’interporto delle rappresentanze smarrite. La rappresentanza dei lavoratori-isolati-dimassa. La rappresentanza degli “invisibili”, dei non-cittadini. La rappresentanza della “società informata” che vive la Rete: prima come strumento di associazione virtuale e poi come mobilitazione politica reale. La rappresentanza dei territori abbandonati.
Ecco: se questo recupero di vitalità rappresentativa sarà possibile e diventerà reale, allora “parlamentarizzazione” indicherà il ritrovamento di queste molte Italia in un rapporto continuo e diretto con la democrazia parlamentare. Una democrazia che in quel rapporto, quasi naturalmente, può trasformare se stessa: nella sostanza politica prima che nei suoi regolamenti. La speranza è che la “nuova classe” di eletti si metta subito al lavoro. Decisa non ad una sterile “occupazione” del Parlamento: ma alla sua trasformazione per “occupare”, per “parlamentarizzare”, il Paese.

Repubblica 28.2.13
Cavaliere pronto al governo Bersani “Ma subito, prima delle sentenze”
E teme l’asse Grillo-Pd: “Mi farebbero fuori”
di Carmelo Lopapa


ROMA — Pronto al patto col diavolo, pur di essere in partita. Pochi giorni a disposizione per disinnescare la bomba della stretta democratici-Grillo che rischierebbe di spazzarlo fuori, ma anche quella dei processi con le sentenze in arrivo. Ecco la strategia che spinge Silvio Berlusconi a lanciare una sorta di video-ultimatum al leader Pd, dal fortino di Arcore.
«Io sono disposto a votare la fiducia a Bersani premier, sia chiaro, se questo ci permetterà di dar vita a un governo politico, un governo di responsabilità, senza più tecnici» è l’uscita a sorpresa del capo al cospetto di Angelino Alfano, Denis Verdini, Paolo Bonaiuti. I tre raggiungono in giornata ad Arcore il Cavaliere che non ha alcuna intenzione di rientrare a Roma, per ora, «non ne ho voglia». Con Nicolò Ghedini, da giorni al suo fianco, è barricato a Villa San Martino per preparare le dichiarazioni spontanee che intende rendere domani al tribunale di Milano per il processo Mediaset. La prima di una serie di tappe decisive per i tre processi che volgono minacciosamente a sentenza. Così, ad Arcore si tiene il primo caminetto post guerra (elettorale). «Non abbiamo molti giorni a disposizione» dice ai suoi giustificando quell’appello a fare in fretta («Troppi quindici giorni») lanciato nel video con consueta libreria sullo sfondo. Entro un mese, è il suo chiodo fisso, almeno Mediaset e Ruby rischiano di arrivare a sentenza. E a quel punto le porte per un’intesa di governo si chiuderebbero per sempre. Svanirebbero anche le sponde interne al Pd sulle quali a fatica stanno già lavorando Gianni Letta, Gaetano Quagliariello, Fabrizio Cicchitto, tra gli altri. Il loro leader ha fretta. Da un lato, invita ancora i suoi dirigenti saliti ad Arcore a «mantenere la calma, non fare mosse azzardate, lasciare loro il pallino». Dall’altro, non nasconde tutti i suoi timori: «Non ce la faranno mai a chiudere con Grillo, vedrete che torneranno da noi, ma ci riuscissero, la prima cosa che farebbero sarebbe una legge sul conflitto di interesse per farmi fuori». È lo spettro che lo assilla, ne va non tanto del suo futuro politico, quando della tenuta dell’impero mediatico.
Ecco perché Berlusconi si prepara alla svolta, la lotta ai «comunisti » di pochi giorni fa è già un ricordo lontano: «Sono pronto a votare la fiducia a Pier Luigi, a me non interessa, basta che non si parli di tecnici, né di Amato», figurarsi Monti, ormai ritenuto un comprimario. Una via tuttavia impervia, il Cavaliere non nasconde i rischi e li mette sul tavolo al cospetto di Verdini, Alfano, Bonaiuti. «L’unico rischio è che, con Grillo unica forza di opposizione, quando si rivota avrà il doppio dei consensi». Ma al voto il Cavaliere spera di poter andare tra un paio d’anni. E nel frattempo tanta acqua passerà sotto i ponti. In ogni caso, quando sarà, il candidato premier del centrodestra sarà di nuovo io, lo ripete già da ora: «Io non vado in pensione, non posso permettermelo».
Intanto, deve evitare il conflitto d’interesse e chiudere l’accordo col Pd, prima delle sentenza. Non solo. «Dobbiamo essere in partita per l’elezione del presidente della Repubblica, non possiamo restarne fuori» è l’altra priorità rivelata ai suoi. E l’unico modo per esserlo è far parte della maggioranza. Ma per spendere quale carta? «Mi sarebbe piaciuto salire al Colle» ha ammesso in queste ore Berlusconi alla luce dell’ultimo successo, ma tornando subito alla realtà: «Ma non sono amato da tutti, purtroppo, in Italia». E allora? «Dobbiamo spendere al meglio le chances di Gianni Letta, l’unico apprezzato anche dalla sinistra». Intanto bisogna disinnescare le micce accese delle sentenze in arrivo. Il Cavaliere andrà a deporre in tutti i processi, farà anche lì la sua «campagna» davanti alle telecamere per spiegare la sua «innocenza ». Già da domani. A tutti, invece, confessa il suo rammarico per non aver fatto di testa sua alla vigilia del voto. «Se mi aveste consentito di fare i manifesti 6x3, se mi aveste consentito di spedire 15 milioni di lettere sull’Imu anziché 9, avrei recuperato quei 120 mila voti e vinto» ha rinfacciato ad Alfano e Verdini. Ma non si sogna nemmeno di mettere in discussione la regolarità dei voti. Molto meglio, in questo giro, che la patata bollente resti nelle mani di Bersani.

La Stampa 28.2.13
“Il giudice e la sorella di Vendola a pranzo prima della sentenza”
L’accusa del pm al Csm. Il governatore: processo mediatico
di Carmine Festa


Pochi giorni prima che Nichi Vendola fosse assolto dall’accusa di aver fatto pressioni per la nomina di un primario ospedaliero, Patrizia Vendola, sorella del governatore pugliese e fresco eletto deputato, avrebbe pranzato con il gup Susanna De Felice in un ristorante di Bari. La circostanza è stata riferita dal pm della Procura di Bari Francesco Bretone durante la sua audizione davanti alla prima commissione del Csm. Il magistrato ha aggiunto di aver riferito notizie apprese da una giornalista, e di non poter essere certo che l’episodio sia accaduto veramente.
Ma le dichiarazioni del pm della Procura di Bari sono bastate per riaccendere la polemica esplosa all’indomani della sentenza di assoluzione che ha riguardato Vendola. Nei giorni scorsi il settimanale «Panorama» aveva pubblicato una fotografia risalente al 2006 in cui ad un pranzo c’erano effettivamente sia il presidente della Puglia e leader di SeL che la gip De Felice. Ora le dichiarazioni di Bretone suscitano la risentita reazione del governatore che dice: «Apprendo con sconcerto di quanto uno dei pm, pur con formula dubitativa, avrebbe riferito alla Prima Commissione del Csm. Penso che in un paese normale gli uomini delle istituzioni debbano essere i primi a garantire il funzionamento ineccepibile della giustizia. Rispettare il proprio pubblico ministero significa rispettare la funzione della giustizia. Se il pubblico accusatore riteneva però che il giudice avesse dovuto astenersi, avrebbe dovuto parlare al momento opportuno e non lo ha fatto». E ancora: «Oggi c’è una sentenza. Il pubblico ministero ha tutti i titoli per contestarla ma io ho il diritto come tutti i cittadini nelle mie medesime condizioni, di pretendere che questo avvenga nel processo e non in una singolare trama tutta mediatica che comprende gossip giornalistico e informazioni di terza mano. Ciò che è certo è che chi non è riuscito ad ottenere la mia condanna in un processo regolare, sta cercando di costruire un processo mediatico. E questa non è giustizia».
Subito dopo la sentenza fu il presidente del tribunale di Bari Vito Savino a provare a smorzare le polemiche. Il tentativo pare non sia riuscito.

l’Unità 28.2.13
Zingaretti fa il pieno Voti anche dai grillini
Il neo presidende del Lazio: «Farò una giunta di persone competenti, metà uomini e metà donne»
Apertura dei M5S: si può collaborare
Entrano solo 10 consigliere. Resta fuori Touadi
di Jolanda Bufalini


ROMA C’è il voto ballerino di una parte consistente degli elettori, quasi il 10 per cento, che ha votato il Movimento 5 stelle alle politiche e, nello stesso momento, il Partito democratico con Zingaretti candidato presidente alle regionali. La simmetria quasi perfetta si vede benissimo nel raffronto del voto della Camera, dove votano i diciottenni, con quello del Lazio: il Pd nel voto per la Camera, a Roma, si è fermato al 28,6%. Nel voto per le regionali, invece, il Pd ha toccato il 32,5% che arriva al 38% se si sommano i consensi ricevuti dalla lista civica Zingaretti a quelli della lista Pd. Inversamente, dalle urne delle politiche, i grillini romani sono usciti con il 27,2% dei consensi, mentre da quelle per le regionali il dato si è fermato al 16,8%. Numeri simili anche a livello dell'intero Lazio. Qui il Pd ha raccolto alle politiche il 24,5% circa dei consensi, percentuale che sale al 34,12% con i voti della lista Zingaretti, per le regionali. In misura minore ma analoga, le liste che hanno sostenuto Zingaretti nel Lazio sembrano aver tolto voti anche alla lista Monti che, nell’elezione del parlamentino regionale, ha perso rispetto alle politiche 136.000 voti dimezzando i consensi.
C’è il successo personale di Nicola Zingaretti che ha staccato Francesco Storace di 370.713 voti, vincendo a Roma (323.000 voti), Viterbo, Rieti. Piero Marrazzo aveva superato Storace di 100.000 voti, Renata Polverini aveva battuto Emma Bonino per 77.000 voti.
Nel day after Zingaretti incassa anche una apertura di credito da parte dei grillini, «Siamo disponibili al confronto», ha detto in diretta sulla «Cosa», Davide Barillari, eletto al Consiglio regionale del Lazio con il Movimento 5 Stelle. «Zingaretti ha aggiunto su alcuni temi, la trasparenza, la sanità è vicino al nostro programma. Invece sarà difficile convincerlo su rifiuti zero e costruzioni. Ci sono troppi
interessi cui non si è mai espresso». Ora comincia un lavoro difficile e delicato, «se avessi ereditato un’azienda ha detto Zingaretti quando ha appreso del suo successo sarebbe in default per 22 milioni di euro». Si impegna a fare dice una giunta del presidente, non costruita con il bilancino ma mettendo nella squadra persone competenti. Nel totonomine le uniche certezze, per ora, riguardano Michele Civita, già assessore all’urbanistica della Provincia di Roma, e Massimiliano Smeriglio (Sel), che è stato coordinatore della campagna elettorale. In giunta saranno rappresentate tutte le cinque province laziali. Altra certezza: saranno cinque donne e cinque uomini. A parziale compensazione di ciò che è avvenuto per l’elezione del consiglio, nelle liste della coalizione di centro sinistra le uniche donne che sono entrate in consiglio regionale sono quelle del listino: Cristiana Avenali, Daniela Bianchi, Marta Bonafoni, Rosa Giancola, Maria Teresa Petrangolini. Pattuglia al femminile rafforzata dalle grilline Silvana De Nicolò e Gaia Pernarella, Valentina Corrado, da Silvia Blasi della lista Bongiorno e Olimpia Tarzia della lista Storace. Anche nelle liste del Pdl non sono state elette donne e c’è già la richiesta che una delle prime leggi da approvare sia quella sulla doppia preferenza che consenta di votare un uomo e una donna.
Altro incidente di percorso è stata la non elezione di Jean Leonard Touadi, capolista Pd, che ha comunicato lui stesso su facebook «sono fuori, non è bastata l’indicazione del partito». Nella lista del partito democratico il più votato è Massimiliano Valeriani (12.780 voti), seguono Mario Ciarla (11.200), Zambelli, Patanè, Fabio Bellini mentre Giulio Pelonzi è il primo dei non eletti. Restano fuori del consiglio regionale la capolista della civica di Zingaretti, Livia Azzariti e la rappresentante del mondo Glbt Imma Battaglia. Anche Claudio Cecchini, ex assessore alle politiche sociali nella giunta provinciale, resta fuori.
Sull’altro fronte, nel centro destra, il voto punisce molti degli uscenti della stagione Polverini. Non entra Chiara Colosimo, la giovane di estrema destra che è stata per qualche giorno capogruppo del Pdl dopo lo scandalo Fiorito. Fuori diversi ex assessori regionali e capitolini del centro destra come Malcotti, Visconti, Sergio Marchi. Non è stato eletto nemmeno Fidel Mbanga Bauna, il giornalista del Tgr capolista di Storace. Fra gli esclusi eccellenti anche Francesco Carducci, Udc ed ex consigliere regionale.
«È nato un nuovo modello Lazio», ha festeggiato il segretario regionale del Pd Enrico Gasbarra e ora «bisogna continuare sulla via del cambiamento e del rinnovamento». Gasbarra rivendica il contributo che il Lazio ha dato, «con le regioni rosse» «a far sì che la coalizione abbia avuto il premio di maggioranza». Il Pd, rispetto al 2010 ha conquistato voti in tutte le province. Critico, invece, Goffredo Bettini, che nota il calo del Pd a Roma rispetto alle politiche del 2008.

l’Unità 28.2.13
A Roma parte la sfida delle primarie aperte
I democratici della capitale chiamati a scegliere il candidato sindaco
In pista Sassoli e Gentiloni, tra le ipotesi Marino e De Gregorio
di J. B.


Alemanno è fuori gioco, lo dicono ad una sola voce il segretario regionale del Pd del Lazio Enrico Gasbarra e quello romano Marco Miccoli. Ma la situazione, per il Campidoglio, non è per questo meno semplice, perché la gara più probabile sarà, al secondo turno, con ogni probabilità, fra il candidato/candidata del centro sinistra e quello del Movimento 5 stelle.
Lo spettro di una situazione come quella di Parma è, dunque, molto verosimile, con l’elettorato di destra che farebbe facilmente confluire i propri voti sul candidato grillino. «Anche se il voto amministrativo è diverso da quello politico, dice l’ex assessore di Veltroni Roberto Morassut come dimostra l’affermazione importante di Zingaretti, le acque sono increspate, la situazione delicata». I due segretari confermano la scelta delle primarie «aperte» ma sono sollecitati a definire le regole al più presto dai candidati già in campo. «Per Roma subito primarie aperte, anche al web. Solo con i cittadini si può cambiare al Campidoglio», twitta Davide Sassoli, che sta lavorando da ottobre su Roma e ha un volto televisivo popolare. E Paolo Gentiloni: «Il risultato del Lazio è il miglior auspicio per il Campidoglio. Ma c’è bisogno di una rapida definizione di tempi e modi delle primarie». Umberto Marroni invita a non «politicizzare il voto amministrativo, Alemanno ha fallito e a Roma gli abbiamo fatto opposizione. Le primarie saranno vicine al voto e chi vincerà avrà il sostegno di tutti gli atri candidati».
La data resta fissata al 7 aprile ma la consegna delle firme (per ora il 7 marzo), dicono Gasbarra e Miccoli, potrebbe slittare. È chiaro che si cerca ancora la candidatura che possa rispondere alla «forte domanda di cambiamento» che si è espressa nel voto politico. E ha ripreso a circolare l’ipotesi di Ignazio Marino, sponsorizzato soprattutto dal gruppo storico del modello Roma, a cominciare da Goffredo Bettini. Marino è andato a festeggiare la vittoria con Zingaretti, accolto con affetto dai militanti, ha studiato le proposte per Roma formulate dal gruppo di lavoro messo su da Zingaretti quando pensava di candidarsi al Campidoglio. Marino poteva, in una situazione diversa, aspirare, a fare il ministro ma, dopo lo tsunami di Grillo, le chance per una sua candidatura al Campidoglio sono cresciute. Non convince tutti, in molti lo vedrebbero bene con incarichi sulla sanità ma, fare il sindaco di Roma, è un altro mestiere, bisogna governare le partecipate come Atac, avere cura del decoro urbano e rispondere agli anziani sulle panchine rotte o alle mamme sulle liste d’attesa negli asili nido. Inoltre, proprio il sostegno dei romani che hanno governato Roma dagli anni Novanta potrebbe non essere un buon passaporto nel segno del rinnovamento. Poi ci sono le ipotesi che accarezzano l’elezione della prima sindaco donna a Roma. E spunta il nome di Concita De Gregorio, su cui punterebbe Walter Veltroni. In alternativa è ancora in campo l’ipotesi di Bianca Berlinguer.
La gatta da pelare, a questo punto, è nelle mani di Gasbarra e del nuovo governatore del Lazio. Al Nazareno il punto di riferimento sarà Migliavacca ma è impensabile, con tutti i problemi e le spine sulla formazione del governo, che Bersani si occupi anche di Roma.

l’Unità 28.2.13
L’addio.  L’ultimo irriducibile
Si è spento Stéphane Hessel, il ribelle e instancabile autore di «Indignatevi!»
L'ex diplomatico e partigiano aveva 95 anni
Il suo pamphlet è stato venduto in oltre quattro milioni di copie in 100 Paesi e tradotto in 27 lingue
Ispiratore di «Occupy» è diventato un guru per i più giovani che incitava alla «speranza contagiosa»
di Anna Tito


PARIGI «RATTRISTATEVI!» È LA PAROLA D’ORDINE CHE CIRCOLA SU TWITTER A POCHE ORE DALL’ANNUNCIO DELLA SCOMPARSA – ALL’ETÀ DI 95 ANNI DI STEPHANE HESSEL, DESIGNATO DAGLI INTERNAUTI FRANCESI COME «PERSONALITÀ DELL’ANNO 2011». Il suo pamphlet di appena 25 pagine in difesa dello spirito di resistenza Indignatevi! (ed. Add), apparso nel 2010 al prezzo di 3 euro, aveva riscosso un successo planetario, diventando un caso editoriale e politico: solo in Francia aveva venduto due milioni di copie, e altrettanti in un centinaio di Paesi, dalla Cina agli Stati Uniti, dalla Russia al Sudamerica. In quelle poche pagine si concentravano le necessarie parole di speranza per sognare un futuro migliore.
Hessel si rivolge in particolare ai giovani, invitandoli a occuparsi di una causa civile: «cercate e troverete, le cause per indignarsi sono molte». Ci si deve impegnare per una società migliore: «L’interesse generale deve prevalere sull’interesse particolare, l’equa distribuzione delle ricchezze create dal mondo del lavoro prevalere sul potere del denaro». In questo mondo, «vi sono cose insopportabili, e l’atteggiamento peggiore è l’indifferenza».
E il suo appello fu ascoltato, divenne il «padre spirituale» del Movimento degli Indignati, che rivendicano una democrazia partecipativa e una migliore gestione delle risorse umane ed economiche. Apparve nello stesso anno Il cammino della speranza (Chiarelettere), redatto con il «fratello di lotta», il filosofo Edgar Morin, e in cui, pur denunciando l corso perverso di una politica miope che conduce al disastro, annuncia una nuova speranza.
MILITANTE DEI DIRITTI
Questo instancabile militante dei diritti fino all’ultimo si è appellato ai giovani: in Impegnatevi!(Salani), con Gilles Vanderpooten, li ha esortati a costruire un futuro migliore, basato su uno sviluppo compatibile con le risorse della Terra e dei popoli, su una vera alternativa economica più equa e più giusta. E in Vivete! (Castelvecchi) ha affrontato per loro, in una riflessione intima, i temi della trascendenza, etica, amore, fortuna e morte.
Era figlio del saggista polacco d’origine ebraica e convertito al luteranesimo Franz Hessel, traduttore di Marcel Proust in tedesco, e di Helen, il cui «triangolo amoroso», doloroso e complesso, con Henri-Pierre Roché ispirò il celebre film di François Truffaut Jules e Jim.
Hessel, nato a Berlino nel 1917, ma naturalizzato francese, ex partigiano, membro della Commissione che redasse la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo ed ex diplomatico, impegnato a fianco dei sans-papiers e per l’accoglienza dei migranti,
Era un «gentiluomo indignato» come ha titolato Le Monde, e ha conservato fino all’ultimo una grande vivacità intellettuale.
La sua speranza era contagiosa, e riteneva che combattere l’ingiustizia e l’oppressione facesse parte del privilegio di vivere. A otto anni quando fu investito da un’automobile sul boulevard Saint-Michel, passò fra le ruote ma si rialzò indenne. E questa fortuna «mi ha accompagnato per tutta la vita», spingendolo verso l’impegno inteso come dovere. E «quando nel ’40 scoppiò la guerra, mi è sembrato naturale mettere la mia vita al servizio di qualcosa». Arrestato e torturato nel luglio del ’44, salì poi su un treno per Buchenwald, con 37 compagni, che quasi tutti furono impiccati o fucilati: «Io faccio parte dei miracolati, e se ho avuto salva la vita, era mio dovere investirla, metterla a disposizione di altre lotte».
Di tutte le lotte in cui si è lanciato con entusiasmo, quella per i diritti dei palestinesi. Recatosi a più riprese in Cisgiordania e nella striscia di Gaza, il suo impegno gli è valso nel novembre scorso la nomina di cittadino onorario di questo Paese senza Stato. Aveva a suo tempo aderito al boicottaggio dei prodotti palestinesi, diventando la «bestia nera» degli ambienti pro-Israeliano francesi, che lo accusavano di incitare all’odio contro Israele.
Nel suo appartamento del XIV arrondissement di Parigi, ci aveva ricevuti con il medesimo sorriso che appare nelle fotografie dei giornali e che mantenne per tutto il corso della conversazione, con le mani sulle ginocchia, solare e pacifico, seduto sul divanetto di cuoio del soggiorno. Appassionato di poesia, il più delle volte, nel congedare i propri ospiti, non mancava di declamare qualche verso. Allorché lo arrestò la Gestapo nel 1944, portò con sé in tasca solo un pezzetto di carta con su scritto «Nessun lutto per me quando sarò morto» di Shakespeare, e fino all’ultimo, «quando niente di particolare occupa i miei pensieri, mentre mi reco a prendere il metro, ad esempio, recito dei versi a voce bassa, di preferenza Apollinaire».

Corriere 28.2.13
Michel Onfray
«Ratzinger vuole la rivoluzione. Ora alla Chiesa serve un soldato»
di Stefano Montefiori


PARIGI — Michel Onfray, filosofo e autore di un fortunato «Trattato di ateologia», che stava facendo quando Benedetto XVI si è dimesso? E che cosa ha pensato?
«Stavo andando dal commercialista delle due università popolari che ho fondato. Ho ricevuto il messaggio sull'iPhone e sono rimasto sorpreso, perché all'epoca del lungo calvario di Giovanni Paolo II tutti i vaticanisti ci spiegavano che per un Papa era impossibile abdicare. Ripetevano la frase di Wojtyla "Cristo non è sceso dalla Croce".... Ed ecco che Benedetto XVI "prova il movimento camminando": ciò che era impossibile diventa possibile, poiché lo ha deciso. Ho pensato che Giovanni Paolo II, mistico che portava il cilicio, avesse imitato il Cristo in croce e che Benedetto XVI, intellettuale che ama la mente, si fosse ispirato a Gesù 12enne, quando soggioga i dottori della Legge».
Che pensa di quel che sta accadendo in Vaticano?
«Benedetto XVI ha detto che la Chiesa deve riorientarsi, e lui che conosce il peso delle parole, la loro etimologia, sa che orientarsi significa andare verso il posto giusto, l'oriente, dove sorge la luce. Che un Papa inviti a questo tipo di movimento rappresenta una rivoluzione. Almeno una rivoluzione sperata, desiderata, come può desiderarla un Papa, a mezze parole. Solo il seguito ci dirà che pensarne. E il seguito è l'elezione del nuovo Papa».
Quale idea si è fatto delle forze all'opera nella scelta del successore?
«Penso che Ratzinger voglia lasciare il posto a qualcuno di più forte perché crede nella necessità di lottare per la permanenza del cristianesimo in un'Europa in piena secolarizzazione. È una grande impresa che richiederà un soldato, un combattente in pieno possesso dei suoi mezzi fisici. Ma non so se Ratzinger è in grado di manovrare per assicurare la sua successione, o se ha già abbandonato i cardinali nella fossa dei leoni».
Molti criticano la Chiesa perché troppo lontana dai costumi contemporanei, altri sostengono che questa distanza è la sua stessa ragion d'essere. Lei che ne pensa?
«La Chiesa è così, ma potrebbe essere diversa: è un'istituzione fatta dagli uomini, con i loro vizi e le loro virtù. È la sola monarchia medievale che abbia resistito nella storia. Un giorno un Papa, animato dalle stesse intenzioni di Gorbaciov, potrebbe imporre glasnost e perestrojka in Vaticano. Ma lo credo improbabile».
Qual è il suo giudizio sulla figura di Benedetto XVI?
«I media hanno confinato l'attenzione alle solite questioni del celibato dei sacerdoti, della contraccezione e dell'aborto, e non hanno sottolineato abbastanza i suoi interventi politici, ecologisti e di critica al capitalismo. Benedetto XVI mi è sembrato un uomo di influenza molto abile, dal Concilio Vaticano II alla vicinanza con Wojtyla, e più a disagio da uomo di potere: obbligato a incontrare persone prive di interesse (penso per esempio al presidente francese Nicolas Sarkozy, che mandava sms davanti a lui) e costretto ad affrontare i media mondiali che sono una macchina per offuscare il cervello. L'esposizione pubblica costante è stata la sua croce, io credo».
Tra i laici, i non praticanti e gli atei, molti riconoscono al papato comunque un valore di guida certo non religiosa ma morale. Comprende questo atteggiamento?
«Quanto a me, ho letto il Gesù di Nazaret di Benedetto XVI che mostra come sia un grande intellettuale, un filosofo formato sull'ermeneutica tedesca, un teologo impeccabile, un pensatore che ha incontrato altri pensatori (come Habermas per esempio). Per me è più un teologo, un ricercatore, che una guida morale o spirituale».
Monsignor Gianfranco Ravasi, tra i cardinali più importanti del prossimo Conclave, l'ha messa una volta nella categoria degli atei «ironico-sarcastici» assieme a Christopher Hitchens e Richard Dawkins. È una definizione nella quale lei si riconosce?
«Sarei molto onorato se monsignor Ravasi diventasse Papa: quale onore per me essere stato letto da un successore di San Pietro, il quale però sembra avere compreso male quel che dico, come tanti giornalisti. Ma lei mi sta dando un'idea, farò campagna in suo favore».

Repubblica 28.2.13
Benedetto XVI più forte della Chiesa
Delusi dalla Curia, conquistati dal Papa così gli italiani hanno imparato ad amarlo
In dieci anni crolla la fiducia nella Chiesa, ora Ratzinger la sorpassa
di Ilvo Diamanti


OGGI si conclude il papato di Benedetto XVI. Il quale resterà, comunque, Papa. Emerito. Come un professore universitario in pensione.

BENEDETTO XVI, d’altronde, è anche un professore. Un teologo finissimo, che ha guidato la Congregazione per la Dottrina della fede per oltre vent’anni. Rigoroso nel tracciare i confini della religione cattolica in tempi di secolarizzazione. Di confronto con altre fedi e altre religioni — assai più esigenti di quella cristiana — veicolate dai flussi migratori. A Joseph Ratzinger la Chiesa chiedeva di marcare i segni e principi dell’identità religiosa. In altri termini, il “distintivo cristiano”, come l’ha definito Romano Guardini, teologo importante. Influente ai tempi e nei luoghi di formazione del Pontefice, Romano Guardini (tra Frisinga, Monaco e Tubinga). Invece Benedetto XVI se ne va. Si ritira. Fiaccato da problemi di salute. Dall’età. Ma forse anche dal peso degli scandali che hanno scosso la Chiesa nel corso del suo papato. E degli intrighi, delle tensioni che attraversano il Vaticano. Da alcuni anni in modo particolarmente violento.
Una “scelta difficile”, l’ha definita il Papa, ieri, nella sua ultima udienza. Ma anche un segno di “umanità”. E di “modernità”, come ha scritto Ezio Mauro, all’indomani dell’annuncio. Per questo traumatico, per un’istituzione metastorica come la Chiesa. Per una figura, come il Papa, che fonda il suo riconoscimento, la sua stessa legittimità, oltre ogni modernità. Oltre il tempo. Oltre l’età — propria e del mondo. Per questo, il gesto del Papa è un’ammissione di debolezza.
Non solo propria, ma anche della Chiesa. Con effetti che rischiano di essere molto più rilevanti di quanto si pensi, nel rapporto tra la Chiesa stessa e la società. Soprattutto in Italia, dove ha sede il “Soglio pontificio”.
D’altronde, la fiducia nei confronti della Chiesa, fra gli italiani, è calata sensibilmente. Negli ultimi 10 anni: di quasi 20 punti. Dal 63 nel 2003 al 44% di oggi (sondaggi Demos). In un Paese nel quale quasi tutti si dicono “cattolici” o, comunque, “cristiani”, è interessante e significativo osservare come oltre metà dei cittadini non nutra fiducia nella Chiesa. La svolta, a questo proposito, avviene nel 2009, l’anno in cui esplodono gli scandali sulla pedofilia che coinvolgono molti esponenti del clero, a diverso livello e in diversi paesi. Lo stesso anno in cui Dino Boffo, allora direttore dell’Avvenire, viene “crocifisso” da lettere anonime — e false — amplificate e strumentalizzate da una pesante campagna di stampa. Allora la fiducia nella Chiesa crolla sotto il 50%. Al di sotto della metà degli italiani. Ma il declino procede, anche in seguito. Parallelamente alle vicende che scuotono il Vaticano. E testimoniano di una Chiesa lacerata da lotte di potere.
Certo, la Chiesa non è solo questa. È anche molto altro. Come testimonia la presenza di religiosi e organizzazioni in diversi luoghi del mondo, fra i poveri e i disperati. Lontano dal Vaticano. In Italia, peraltro, la Chiesa, in molte aree, costituisce un tessuto associativo e di servizi di grande importanza per il territorio e la società. Complementare, talora concorrente rispetto a quello pubblico. Ciò non è più sufficiente, però, a garantirle il credito della maggioranza dei cittadini. Diverso è l’atteggiamento nei confronti del Papa. Benedetto XVI succede a Giovanni Paolo II. Papa Wojtyla. Capace, come pochi altri, nel nostro tempo, di “personalizzare” la Chiesa. Di unificarne l’immagine. Il Papa dei viaggi nelle diverse terre. Della riconciliazione con le altre religioni. Il Papa che ha estetizzato e sacralizzato anche il dolore, la malattia, la stanchezza. Fino alla morte. A differenza di Benedetto XVI, che invece si è “ritirato”, ammettendo la propria inadeguatezza. Ebbene, la popolarità di Papa Ratzinger resta sensibilmente al di sotto rispetto a quella di Wojtyla.
Tuttavia, proprio negli anni degli scandali e del declino della Chiesa, la fiducia nei suoi riguardi è risalita. E nell’ultimo scorcio, dopo le dimissioni, è cresciuta ancora. Anche se il giudizio sulle ragioni della rinuncia divergono. Il 44% degli italiani (intervistati da Demos due settimane fa) le attribuisce a motivi di stanchezza e di salute, secondo la versione proposta dal Papa. Quasi altrettanti, il 43%, pensano, invece, che le dimissioni siano la conseguenza delle tensioni e delle lotte che lacerano il Vaticano. Naturalmente, l’orientamento cambia in base alla pratica religiosa. I praticanti assidui, ma anche quelli saltuari, credono maggiormente alle spiegazioni del Papa. I non praticanti alle ragioni non dette e indicibili, da Ratzinger e dalla Chiesa. Tuttavia, anche fra i cattolici praticanti, l’incredulità sulla versione del Papa è molto estesa.
Tutto ciò ha contribuito, nell’ultimo periodo, a ridimensionare ulteriormente la “fede” nella Chiesa. Ma non la fiducia verso il Papa. Che, anzi, è risalita ben oltre la Chiesa stessa. D’altronde, oltre il 70% degli italiani si dice d’accordo con la decisione di Ratzinger. Senza grandi differenze tra praticanti e non praticanti. Anche chi ritiene queste dimissioni conseguenza del clima di tensioni e di conflitti interni al Vaticano approva, in larga maggioranza la scelta del Papa. Perché si tratta di un’ammissione di vulnerabilità e di inadeguatezza. Oppure di una “denuncia”, non importa. È, comunque, un segno di “umanità”. Avvicina il Papa agli uomini. Ma, forse, anche per questo, è destinato a indebolire ancor di più la Chiesa.

Il sondaggio è stato condotto nei giorni 19-21 febbraio 2013 da Demetra (metodo Cati). Il campione nazionale intervistato è tratto dall’elenco degli abbonati di telefonia fissa (N=1009 rifiuti/sostituzioni 5916), ed è rappresentativo per i caratteri socio-demografici e la distribuzione territoriale della popolazione italiana con età di 18 anni e oltre (margine di errore 3.1%).
Documento completo su www.agcom.it

La Stampa 27.2.13
Cina, sfida a Xi Jinping Gli attivisti: ora le riforme
Cento intellettuali scrivono al neo leader: subito i diritti civili
di Ilaria Maria Sala


A cinque anni dalla «Carta 08», che chiedeva ampie riforme per incamminarsi verso una piena democrazia in Cina, cento intellettuali cinesi firmato una lettera aperta, indirizzata all’Assemblea Nazionale del Popolo che aprirà fra una settimana, affinché sia ratificato il trattato Onu sui diritti civili e politici (Iccpr) di cui la Cina è già firmataria.
La «Carta 08» è costata cara ai riformisti nel Paese: il più famoso di loro, il Premio Nobel per la Pace Liu Xiaobo, sta scontando una pena a 11 anni di prigione, e molti altri hanno subito interrogatori, pedinamenti, periodi di detenzione o di restrizione delle libertà personali. La nuova lettera - firmata anche da alcuni membri del Partito fra cui il giurista He Weifang, fra i più stimati in Cina, e da nomi noti come quello dall’avvocato per i diritti umani Pu Zhiqiang, l’economista Mao Yushi e lo scrittore Wang Lixiong - ha richieste più modeste e rientra nel tentativo di favorire maggiori aperture politiche nel periodo di transizione fra la leadership uscente composta da Hu Jintao e Wen Jiabao, e quella che entrerà in carica a marzo, composta da Xi Jinping e Li Keqiang. Il trattato dell’Onu protegge la libertà di espressione e la libertà di assemblea e prevede standard internazionali per i processi penali.
La Cina non è l’unico Paese ad aver ritardato la sua applicazione: gli Stati Uniti, per esempio, dopo averlo firmato attesero 15 anni prima di ratificarlo. La Corea del Nord, invece, lo firmò e ratificò immediatamente. Ma poi chiese di ritirare la sua adesione, un’eventualità non prevista dall’Onu, che non glielo consentì. La Cina stessa, del resto, ha solo pochi mesi di tempo per non superare i 15 anni del precedente statunitense. Gli intellettuali sperano che questa lettera potrà accelerare le cose. «Si tratta di una richiesta di riforme, e il gesto è senz’altro coraggioso, ma è stato fatto in un modo che potrebbe essere accettabile dal governo cinese», dice Nicholas Bequelin, di Human Rights Watch. «Nei fatti, la ratificazione non cambierebbe molto, ma sarebbe un modo per la società civile di avere uno standard rispetto al quale chiedere conto al governo. E su questo il governo non vuole rischiare».
La lettera chiede al governo cinese di «mostrare al mondo di essere una potenza mondiale responsabile», capace di rispettare i diritti umani e la Costituzione nazionale, e soddisfare così le speranze «più sentite del popolo cinese». Pechino ha sempre dichiarato che il trattato Onu sarà ratificato «al momento opportuno». Ma la lettera aperta risponde dicendo che «per quanto riguarda la situazione dei diritti umani in Cina, appare chiaro che esiste un divario fondamentale fra gli standard internazionali e le pratiche cinesi attuali (…) da cui consegue che questo è il momento più opportuno per ratificare il trattato, e operare in modo costruttivo».
Gli intellettuali firmatari della lettera rimandano apertamente ad alcuni dei primi concetti politici espressi da Xi Jinping, dichiarando che «i principi supremi dei diritti umani e del costituzionalismo fanno parte della grande missione per il rinnovo della nazione». Una frase, quest’ultima, cara al Presidente cinese.
Diffusa tramite il Web, la lettera da ieri appariva e spariva dai siti nei quali veniva pubblicata, nel solito gioco del gatto e del topo fra chi vuole utilizzare Internet per diffondere scritti che allarghino i limiti di ciò che si può discutere, e i censori governativi con la loro costante mannaia.

Corriere 28.2.13
Diritti umani, la lettera degli intellettuali a Xi
di Guido Santevecchi


PECHINO — La lettera è firmata da centoventi accademici, giuristi, giornalisti e attivisti delle libertà civili. È indirizzata al Congresso nazionale del popolo, l'assemblea legislativa cinese che si apre il 5 marzo e durerà due settimane. La richiesta: ratificare la «Convenzione internazionale sui diritti civili e politici», il trattato Onu sui diritti umani sottoscritto da Pechino nel 1998 e mai attuato. Un gesto coraggioso in una fase cruciale, perché il Congresso di Pechino segnerà l'ultimo passo nel ricambio al vertice del potere: Xi Jinping, che a novembre è diventato segretario generale del partito comunista, assumerà anche la carica di capo dello Stato.
Il documento delle Nazioni Unite prevede tra gli altri punti la rinuncia alla detenzione arbitraria, la libertà religiosa, e il riconoscimento del diritto di partecipazione politica: che significa poter fondare o aderire a partiti, poter votare, criticare apertamente le autorità. La ratifica rappresenterebbe quindi un segnale della rotta che vorrà seguire Xi Jinping. La reale e piena applicazione, naturalmente, non è nemmeno pensabile: significherebbe la fine del regime del partito unico e questo Xi ha già detto che non avverrà. Ma neanche gli intellettuali della petizione lo sognano: tanto per fare un esempio, tra i Paesi che hanno accettato la Convenzione Onu c'è la Corea del Nord.
I centoventi firmatari quindi non si fanno illusioni, vogliono solo muovere le acque, chiedono il «riconoscimento dei diritti umani e l'applicazione della Costituzione cinese», che in teoria offre alcune garanzie come il diritto di parola. Tra loro spiccano i nomi della scrittrice Dai Qing, ex esponente del partito, scomunicata quando pubblicò nel 1989 un saggio contro la costruzione della diga delle Tre Gole sullo Yangtze; dell'avvocato Pu Zhiqiang, che ha tra i suoi clienti Ai Weiwei; dell'economista Mao Yushi. A dicembre alcuni di loro avevano sottoscritto un appello dai toni molto più forti, in cui si metteva in guardia il regime dal rischio che «la frustrazione popolare esplodesse nel caos e in una rivoluzione violenta». Questa volta le parole sono studiate per dare atto al nuovo leader Xi Jinping della difficoltà di avviare un cambiamento politico.
Il giornalista investigativo Wang Keqin, un altro dei firmatari, ha spiegato alla Bbc che nessuno di loro «osa nemmeno sognare che la Cina possa fare un grande balzo sul terreno delle riforme politiche: il Paese si sviluppa passo dopo passo, è imbarazzante magari, ma è così». Wang sostiene però che l'obiettivo minimo della ratifica della Convenzione Onu sarà probabilmente raggiunto durante la sessione di marzo del Congresso nazionale del popolo.
La prima reazione delle autorità non è stata incoraggiante: la lettera aperta è stata rimossa piuttosto rapidamente dal web ieri mattina. Qualche segnale incoraggiante però, nei primi tre mesi dell'era Xi è arrivato: sono state diffuse anticipazioni sulla fine del laojao, il sistema «amministrativo» che permette alla polizia di «rieducare attraverso il lavoro» soggetti ai quali non si vuol concedere nemmeno la possibilità di comparire di fronte a una corte di giustizia: tradotto significa che centinaia di migliaia di cinesi sono finiti nei gulag. Questo almeno, da marzo, dovrebbe finire.

Corriere 28.2.13
Servire il potere, lite tra archistar
Meglio i dittatori o il mercato? Gregotti e Fuksas attaccano Libeskind
di Pierluigi Panza


Servire il principe o il popolo... Un vecchio problema per gli architetti. Quando il committente di un'architettura è un monarca assoluto, per i progettisti è spesso più semplice realizzare un'opera, basta seguirne le inclinazioni del gusto. La democrazia invece, con le sue burocrazie e i suoi riti, allunga i tempi dei progetti e spesso li incaglia. Detto questo, l'attacco lanciato da Daniel Libeskind ai colleghi che lavorano per i «nuovi dittatori» è un giusto richiamo o un autogol fuoritempo?
Su Architects' Journal, Libeskind ha criticato aspramente quei colleghi che si mettono al servizio di «regimi autoritari». Discettando su etica e committenza, Libeskind ha sottolineato che, ancora oggi, gli architetti possono essere usati per servizi poco apprezzabili. Così, in una ricostruzione dei possibili riferimenti, ieri si sono cimentati blog e giornali facendo trapelare vari nomi di progettisti ai quali sarebbero rivolti gli strali dell'archistar. Primi fra tutti quelli che stanno realizzando grandiosi progetti in Cina, come Rem Koolhaas (China Central Television), la cui poetica, comunque, come mostra un bel libro di Roberto Gargiani, (Rem Koolhaas/OMA, Laterza, pp. 230, 25), si è formata nel contesto culturale delle neo-avanguardie fine anni Sessanta. Oltre a Koolhaas gli strali di Libeskind sarebbero contro Herzog & de Meuron (Stadio nazionale) e gli italiani Massimiliano Fuksas (per l'aeroporto di Shenzen) e Vittorio Gregotti (per la new town di Jiangwan). Inoltre, genericamente gli architetti che stanno lavorando negli Emirati, a Dubai, ad Abu Dhabi e a Riad, ovvero nei santuari di una certa architettura contemporanea. Insomma, per Libeskind non si può servire due padroni, l'architettura e il denaro. L'etica dell'architetto preclude di porsi al servizio di Paesi a rischio totalitario.
Ieri, Vittorio Gregotti, ha inviato a Daniel Libeskind una lettera di commento. «Gli ho risposto — riferisce — di andarsi a leggere Architettura e potere di Deyan Sudjic». Un libro (Laterza, pp.384, 20) dove si dimostra come edificare sia il mezzo con cui l'egotismo degli individui al potere si esprime nella sua forma più pura, come dimostrano gli edifici commissionati da Imelda Marcos nelle Filippine, la moschea voluta da Saddam Hussein e le ville per Mao di Zhang Kaiji ma anche la piramide di Mitterrand o il Millennium Dome dell'epoca Blair. Aggiunge Gregotti: «Se c'è un esempio di rispecchiamento del potere è proprio quello di Libeskind. Tutti i suoi progetti sono espressioni al servizio del potere finanziario, esempi di adesione al potere, sono come architettura stalinista. Il mio intervento in Cina non è al servizio del grande dittatore, ma dello scongelamento della Cina, secondo me è un'apertura, nasce con l'inizio della concessione ai privati».
Anche Massimiliano Fuksas rispedisce al mittente le accuse lanciate da Libeskind. «È molto meglio lavorare con l'emiro di Abu Dhabi e sperimentare un modello di città sostenibile, come fa Norman Foster, piuttosto che impegnarsi in Citylife, che è la peggiore speculazione immobiliare italiana da Craxi in poi, realizzata all'ex Fiera di Milano, come ha fatto Libeskind. Io — continua Fuksas — ho progettato l'aeroporto di Shenzen, in Cina, ma nessuno mi ha chiesto di inneggiare al comunismo capitalista cinese. Libeskind non avrebbe dovuto progettare tanti centri commerciali che, per i moralisti americani, sono quanto di peggio si possa immaginare».
Di Koolhaas, sull'argomento, ricordiamo che, dopo la delusione del progetto abbandonato alla Maddalena, disse: «La morale è una sola: la politica rovina la buona architettura. In ogni parte del mondo».
Da accusatore, insomma, la raccolta delle reazioni al suo j'accuse fa finire Libeskind sul banco degli accusati, specie per Citylife. Un progetto realizzato con Zaha Hadid, un'archistar che figurerebbe tra i suoi «accusabili».
Si tratta di un discorso pericoloso quello tra architettura e potere e si tratta di architetture che, spesso, non reggono ai tempi. Lo ricorda lo storico Francesco Dal Co a proposito delle opere bulgare di Georgi Stoilov, che celebravano il regime. La Casa del partito sul monte Buzludja, una sorta di pantheon, «è completamente abbandonata. Rapidamente il tempo ha provveduto a trasformare in una rovina questa costruzione così pretenziosamente e insensatamente moderna» (Dal Co ha dedicato a essa un saggio su Casabella). Un monito per tutte le costruzioni «da regime» up-to-date.

La Stampa 28.2.13
La rivolta delle spose comprate nell’India senza più ragazze
Meno femmine per gli aborti selettivi: esplode il commercio di giovani da marito
di Fabio Sindici


Appena arrivata nella sua nuova casa dopo un viaggio interminabile attraverso l’India, Sreeja Singh fu colpita da un particolare. La maggior parte delle donne che vedeva per le strade di Sorkhi, piccolo villaggio in un distretto rurale nello Stato dell’Haryana, avevano il volto coperto dal velo. Eppure era una comunità hindu. «In Kerala, dove sono nata, solo le donne musulmane usano il velo - dice -. Qui invece è un costume diffuso tra le donne sposate, anche se gli abitanti sono induisti. Non è tutto. Una donna che cammina da sola non è ben vista. Può accadere che venga molestata e assalita».
Sreeja è una paro, una delle «mogli comprate» che si spostano da un estremo all’altro del subcontinente al seguito di un marito sconosciuto. Partono a migliaia dal Kerala, nel Sud del paese, o dall’Orissa e dal Bengala, nell’Est, per iniziare una nuova vita nel Nord, in Haryana, in Punjab, nella stessa Delhi, la capitale. Spesso si ritrovano in una prigione familiare. Non si tratta dei soliti matrimoni combinati, tuttora una consuetudine in India. Le «spose straniere» arrivano da realtà lontane, da abitudini diverse. Non portano nessuna dote. Anzi, è il futuro marito a pagare la famiglia - quasi sempre molto povera della sposa. La cifra media per l’acquisto di una ragazza giovane è di 100 mila rupie, circa duemila euro. Per protestare contro il traffico delle mogli, Empower People, una ong indiana, ha organizzato, all’inizio di marzo, una marcia che dalle regioni del Bihar, dell’Assam e del Bengala farà convergere i manifestanti su Delhi.
I matrimoni interstatali sono un fenomeno nuovo per l’India. Le unioni combinate sono sempre avvenute all’interno dello stesso gruppo sociale; e sono le spose a portare con sé una ricca dote. Negli ultimi anni, però, in molti Stati indiani la forbice dei sessi si è allargata: le nascite delle bambine sono diminuite drasticamente rispetto a quelle dei maschi. In Haryana, il rapporto è di 877 donne ogni mille uomini. Se poi si guarda sotto i 7 anni di età, le bambine sono a quota 830. Molto al di sotto della già bassa media indiana che, secondo l’ultimo censimento, è di 914 femmine ogni mille maschi. In Punjab, dove è avvenuto l’ultimo stupro di gruppo che ha indignato il paese, il divario è appena inferiore rispetto allo Stato confinante dell’Haryana. Anche a Delhi la proporzione tra i sessi è sbilanciata. La causa sono gli aborti selettivi, proibiti per legge (come la compravendita delle mogli e la stessa dote), ma praticati in maniera diffusa, soprattutto al Nord. Secondo dati dell’Onu, in India vengono abortiti duemila feti femminili al giorno. E si calcola che le bambine che mancano all’appello negli ultimi dieci anni siano otto milioni. Così, la vendita delle mogli e la scomparsa delle figlie appaiono strettamente legate.
In Punjab, considerato una delle riserve agricole dell’India, è stato coniato un termine singolare: la «carestia delle spose». «Quando mio figlio ha compiuto 35 anni, ci siamo resi conto che non c’era nessuna candidata disponibile nel nostro villaggio o nella nostra cerchia sociale. Così abbiamo dovuto accettare una moglie da un altro Stato» racconta Mahinder Singh, patriarca in un villaggio del Punjab. Lo scopo ultimo, ammette, è quello di continuare la linea familiare paterna, di avere figli maschi. Continuando ad allargare il divario tra i sessi. A volte, questi matrimoni possono causare uno choc culturale, come nel caso di Shreeja, che, intervistata dall’inglese «Bbc», afferma di non sentirsi sicura nella sua nuova vita. Ma può andare molto peggio. Secondo organizzazioni non governative come Shakti Vahini, molte delle spose sarebbero sfruttate e picchiate, impiegate come serve, costrette ad abortire se il nascituro è femmina. E, alla fine, abbandonate. O rivendute. Come è accaduto a Munni Devi, nel Rajastan, lo Stato dei palazzi principeschi, venduta a quattro diverse persone, nel corso di tre anni. È stata fermata dalla polizia mentre abbandonava una bambina di due anni al margine della strada. Le autorità hanno scoperto organizzazioni criminali che gestiscono il traffico delle mogli, soprattutto dagli Stati orientali. Intanto il distacco tra i sessi si allunga. Se in Stati come l’Haryana il processo si è leggermente invertito, in altri quali il Kashmir, la nascita delle bambine è precipitata. Gli scapoli indiani rischiano di dover fare molti viaggi per sposarsi, nel prossimo futuro.