venerdì 1 marzo 2013

l’Unità 1.3.13
Bersani va alla conta «Ora basta giochetti»
Aut aut sul governo
«Presenterò un programma di cambiamento»
Il segretario deciso  a chiedere alla direzione un voto sulla sua linea: no al Pdl e sfida al M5S sul cambiamento
D’Alema: «Grillo non s’illuda, o si prende le sue responsabilità
o si tornerà alle urne, altro che governissimo»
di Simone Collini


Nessun governissimo che coinvolga il Pdl e basta battute da parte di Grillo. Bersani è intenzionato a giocare fino in fondo una partita che con le elezioni di domenica e lunedì si è soltanto aperta. Adesso c’è da gestire il risultato delle urne, che seppur deludente ha dato al Pd la maggioranza alla Camera e il più alto numero di senatori a Palazzo Madama. Per questo Bersani tira dritto sulla linea formulata all’indomani del voto e sulla quale chiederà un pronunciamento formale alla riunione della Direzione del partito, convinto com’è che in una fase delicata come questa per il Pd mostrarsi compatto è d’obbligo.
Mercoledì, di fronte al gruppo dirigente democratico, Bersani ribadirà che spetta al centrosinistra, in quanto partito più votato e con il maggior numero di parlamentari, esprimere la premiership e presentare al Parlamento una proposta per uscire da questa impasse, dopodiché ognuno si assumerà le proprie responsabilità. Un governo di scopo che chieda un voto di fiducia per approvare un limitato pacchetto di leggi su lotta alla corruzione, conflitti di interessi, riduzione del numero dei parlamentari e dei costi della politica, legge elettorale, misure per occupazione e green economy per Bersani avrebbe tutte le possibilità di vedere la luce: perché risponderebbe alla domanda di cambiamento che viene dal Paese e perché altre formule di governo, per quel che riguarda il segretario
Pd, non sono ipotizzabili. E l’unica alternativa sarebbero nuove elezioni.
Ecco perché all’uscita di Grillo sulla possibilità che Pd e Pdl votino la fiducia a un governo Cinquestelle, Bersani risponde a muso duro: «Come noi rispettiamo gli elettori, anche Grillo li rispetti. I numeri li vede anche lui. Non pensi di scappare dalle sue responsabilità con delle battute. Ci si vede in Parlamento e davanti agli italiani».
È vero che con il Movimento 5 Stelle il Pd ha aperto anche più di un canale di comunicazione (le diplomazie sono al lavoro soprattutto in Emilia Romagna e nella Sicilia di Crocetta) ma quella di Bersani è soprattutto una sfida a Grillo, che il segretario democratico ha intenzione di portare fino in fondo senza prevedere subordinate.
La strategia di non tenere per il Pd la presidenza delle Camere va in questa direzione. Bersani non vuole ripetere le mosse fatte da Prodi nel 2006, quando nonostante una vittoria di misura il Professore volle tenere per il centrosinistra la presidenza sia di Montecitorio che di Palazzo Madama. Come dice D’Alema in un’intervista al Corriere della Sera, la prima cosa da garantire è «il funzionamento delle istituzioni»: «E ritengo che quindi al centrodestra e al Movimento 5 Stelle vadano le presidenze delle due assemblee parlamentari, ovviamente sulla base di personalità che siano adeguate a ruoli istituzionali di garanzia».
Un’uscita che viene interpretata da diversi esponenti del Pd troppo aperturista nei confronti del Pdl, nonostante il presidente del Copasir si dica contrario all’ipotesi del governissimo. Non a caso, nel pomeriggio è lo stesso D’Alema che va a parlare con Bersani al quartier generale del Pd, per chiarire che il suo sostegno alla linea decisa dal segretario è totale. E non a caso, in serata, D’Alema rilascia un’intervista al Tg1 per ribadire il suo no al governissimo e insistere sul governo di minoranza come «unica strada possibile»: «Se Grillo si illude di spingerci verso un governissimo con Berlusconi perché pensa così di averne un vantaggio, si illude». Di più: «Se Grillo vuole che la legislatura vada avanti deve prendersi una parte di responsabilità altrimenti sarà responsabile di nuove elezioni».
Bersani non vuole bruciare i tempi e prefigurare già ora l’ipotesi di un ritorno a breve alle urne. Vuole andare fino in fondo con il tentativo di dar vita a un governo di minoranza che poi possa incassare su quei punti precisi su moralità, legalità e lavoro anche il voto dei Cinquestelle. Ma è nel ragionamento stesso che il segretario fa (tra l’altro oggi in un’intervista a Repubblica) la possibilità che si debba tornare a votare se le altre forze politiche presenti in Parlamento «non si mostrassero responsabili».
La mossa di lasciare la presidenza delle Camere alle forze che, pur non essendo arrivate prime, hanno incassato un consenso considerevole è importante perché segnala la volontà del Pd di andare verso una «corresponsabilità istituzionale» (che niente ha a che vedere con una cogestione di governo) ma dice anche che Bersani non intende prendere in considerazione subordinate, nel caso il tentativo di dar vita al governo di scopo non vada in porto. Sarebbe infatti impensabile, per il Pd, sostenere un governo di larghe intese, per il quale non ci sono le condizioni, per di più non essendo presente in nessuno dei vertici istituzionali.
Per questo Bersani chiederà alla Direzione di mercoledì il mandato di andare avanti sulla linea illustrata all’indomani del voto, per poi andare alla conta finale al Senato (alla Camera la fiducia è scontata). Avere alle spalle un partito compatto è per il segretario Pd la precondizione per poter poi muovere i passi successivi: alle consultazioni al Quirinale (ma già un contatto telefonico con Napolitano c’è stato) e poi, se l’elezione dei presidenti delle Camere dovesse andare per il verso giusto, alla prova della fiducia a Palazzo Madama. Nel caso in cui le altre forze parlamentari impedissero la nascita di un governo «per il cambiamento e il superamento della crisi economica e sociale», sarebbe loro la «responsabilità di portare nuovamente il Paese alle urne». E il Pd avrebbe già pronto il principale argomento su cui insistere nella prossima campagna elettorale.

Repubblica 1.3.13
Parla Bersani. Intervista al leader pd
È innegabile che la necessità di non rompere con Monti ci ha condizionato. E abbiamo pagato
Mi presenterò alle Camere con sette o otto punti da realizzare subito
Il mio piano per governare: pronti 8 punti da presentare in Parlamento
Mai larghe intese
Non esiste il governissimo chiedo la fiducia a tutti partiti
di Massimo Giannini


«CHIAMATELO come volete: governo di minoranza, governo di scopo, non mi interessa. Mercoledì prossimo lo proporrò in direzione, poi al Capo dello Stato: io lo chiamo un governo del cambiamento, che mi assumo la responsabilità di guidare, che propone sette o otto punti qualificanti e che chiede in Parlamento la fiducia a chi ci sta». Pierluigi Bersani si gioca così le ultime carte. Chiuso nel suo ufficio, tormenta il solito toscano spento.
MA APPARE molto più battagliero della mesta conferenza stampa di martedì scorso. Il leader del Pd prova a uscire dall’angolo rilanciando la sfida a Grillo («i suoi insulti non mi spaventano»), aprendo alle ipotesi di offrire le alte cariche dello Stato a M5S e Pdl («sui ruoli istituzionali siamo pronti a esaminare tutti gli scenari») ma chiudendo definitivamente la porta a qualunque “governissimo” con Berlusconi («ora basta, di occasioni per dimostrarsi responsabile ne ha avute e le ha sprecate tutte»).
Segretario, partiamo dall’inizio. Il giorno dopo lo tsunami. Cos’ha provato, lunedì sera?
«Come ho già detto: una delusione per una governabilità a rischio ».
Vogliamo dirlo? Queste elezioni le avete perse.
«Anche se per la prima volta un partito di centrosinistra ha avuto la maggioranza assoluta alla Camera e relativa al Senato questo non ci ha consegnato di per sé la soluzione, come avverrebbe in altre democrazie del mondo…».
Non parli in politichese. Avete vinto numericamente, ma avete perso politicamente. Il Pd ha dilapidato 3 milioni 600 mila voti, con il neo-liberismo in crisi, l’onda lunga delle sinistre in Europa, la destra berlusconiana distrutta in Italia. Quando vi ricapiterà un’occasione del genere?
«Certamente questa ondata di protesta ed esigenza di cambiamento ci è arrivata in casa. Ma non è vero che le “condizioni di sistema” erano così favorevoli. Sul terreno sociale non lo erano affatto. E questo io l’avevo percepito. Si vada a rileggere tutto quello che ho detto in campagna elettorale, e vedrà se non è vero».
Se fosse vero, gli italiani l’avrebbero votata in massa. Se non è successo la colpa di chi è? Degli italiani che non hanno capito, o di voi che non vi siete spiegati?
«Ne vedo tanti di dotti, medici e sapienti che sdottoreggiano col senno di poi. Io non ho mai pensato che se non vinciamo la colpa è degli italiani che non ci capiscono. E neanche penso che quel che è avvenuto sia riconducibile a errori della campagna elettorale che possono sempre esserci. Si sono fronteggiati una destra che proponeva soluzioni fiscali oniriche e Grillo che proponeva la palingenesi. Mi vuol far dire che avremmo dovuto coltivare anche noi un messaggio che si inserisse tra l’impossibile e l’irrazionale? Avremmo dovuto essere un po’ meno “realisti”? Non sono convinto di questo. In campagna elettorale ho sempre detto che il cuore della crisi italiana nasceva dai temi sociali, dall’impoverimento e dall’allargamento della forbice delle disuguaglianze».
L’impressione è che siate rimasti ingabbiati tra la solita paura di scoprirvi a sinistra e la solita necessità di aprire al centro, tanto più che sapevano tutti che dopo il voto avreste fatto l’accordo con Monti.
«È innegabile che la necessità di non rompere con Monti ci ha condizionato. E in questo condizionamento qualcosa abbiamo pagato».
In più avete sottovalutato la rabbia degli italiani, che mentre pagavano l’Imu vedevano moltiplicarsi gli scandali e non vedevano limiti ai privilegi della casta.
«Ho sempre avuto chiaro quanto contassero anche i nodi dei costi e dei meccanismi della nostra democrazia, che via via sono diventati una pregiudiziale ineludibile per tanti elettori che hanno scelto il Movimento 5 Stelle…».
Ma lo tsunami vi ha travolto lo stesso. Evidentemente il messaggio sul cambiamento è stato vago, o non abbastanza forte.
«No, su questo non ci sto. Si può dire che non siamo riusciti ad evitare che il fenomeno del voto del disagio e della protesta ci venisse in casa. Ma non mi si venga a dire che non avevamo visto il pericolo. Se non l’avessi visto non avrei fatto le primarie, mettendomi in gioco, e non avrei fatto le “parlamentarie”. E oggi lo tsunami non l’avremmo preso di striscio, ma in piena faccia. Se abbiamo un Parlamento tutto nuovo il grosso del merito è nostro: il 42% dei nuovi sono donne, e su 340 deputati dei nostri eletti alla Camera io ne conosco al massimo il 10%. In campagna elettorale ho passato giorno e notte a divincolarmi, tra chi mi chiedeva a quanti centimetri di distanza il Pd dovesse stare da Monti o da Vendola. Mi sono sgolato a rispondere “voi siete matti, non vedete che il problema non è questo”?».
Lei si sgolava pure, ma non si chiede perché non l’abbiamo sentita?
«Vuol dire che abbiamo sbagliato qualcosa in campagna elettorale? Accetto anche questo. Ma vede, insistere su questo vuol dire rimuovere la questione di fondo. Le ragioni che spiegano la novità del voto le ho indicate più volte e ora devo solo rafforzarle. Negli ultimi due anni la riduzione di Pil e la distruzione di valore aggiunto e posti di lavoro è comparabile solo con quello che è successo dopo l’ultima Guerra Mondiale. Di fronte a questo dramma la politica è apparsa impotente o immorale. Chiedersi “quanto ci costa un parlamentare” è l’altra faccia del chiedersi “a che serve un parlamentare”. La democrazia rappresentativa ha dimostrato di non padroneggiare l’avvitamento in atto tra austerità e recessione. È un tema europeo, ma è un tema ancora di più italiano. Questa crisi ha creato correnti fortissime, l’opinione pubblica si è divisa tra istanze di innovazione, proteste radicali, linee di fuga utopiche, scorciatoie per cercare il meglio dal peggio, tipo “usciamo dall’euro”. Qui, in questo punto, sta il che fare…».
Bene, ce lo spieghi. Che fare?
«Prima di tutto c’è da rispettare l’esito del voto. In secondo luogo c’è bisogno che ciascuno si assuma le sue responsabilità. A noi spetta la prima parola perché abbiamo la maggioranza, larga alla Camera e relativa al Senato. E allora, per noi responsabilità significa cambiamento. Il cambiamento non è un’esclusiva di M5S. Anche noi l’abbiamo chiesto, l’abbiamo praticato e oggi e lo invochiamo con ancora più forza».
In che modo? Qual è la sua proposta per dare governabilità al Paese?
«Voglio ribaltare lo schema. Mercoledì prossimo in direzione mi assumerò la responsabilità di formalizzare la proposta di un governo di cambiamento, che segnali in modo netto il cambio di fase con sette-otto punti programmatici. Il primo tema è l’Europa. Voglio che il prossimo governo ponga una questione dirimente, di cui ho parlato al telefono con Hollande l’altroieri: l’austerità da sola ci porta al disastro. In sede europea, tutti devono mettersi in testa che il rientro dal debito e dal deficit è un tema che va spostato nel medio periodo: ora c’è un’altra urgenza assoluta, il lavoro. Il secondo tema è quello sociale. Il disagio è troppo forte, i comuni devono poter aprire sportelli di sostegno, bisogna sbloccare subito i pagamenti della PA alle imprese e introdurre sistemi universalistici negli ammortizzatori sociali. Il terzo tema è la democrazia. Il nuovo governo, immediatamente, deve dimezzare il numero dei parlamentari, abbattere gli stipendi al livello di quelli dei sindaci, varare leggi che regolino la vita dei partiti e non solo per i finanziamenti, che inaspriscano drasticamente le norme anti-corruzione e che regolino finalmente i conflitti di interessi. Ciascuno di questi punti si tradurrà in un specifico disegno di legge, che giorno dopo giorno farò pubblicare in rete già da giovedì mattina. Questo mi offrirà la gradevole opportunità di rilanciare anche qualche vecchia idea, come la creazione di un ministero per lo Sviluppo Sostenibile, visto che l’economia verde deve essere il cuore del nuovo governo che ho in testa».
Perfetto. E con questa piattaforma programmatica cosa ci farà, una volta ottenuto il via libera dalla direzione del Pd?
«Quando il Capo dello Stato mi chiamerà per le consultazioni, io presenterò questa piattaforma come base per un governo di cambiamento…».
Di cui lei si candida a fare il presidente del Consiglio?
«Sì. Questa sarà la mia proposta a Napolitano. Con questa piattaforma io mi presento in Parlamento, perché è ora che questo Parlamento fortemente rinnovato torni a svolgere fino in fondo il suo ruolo. Con questa piattaforma io mi rivolgo a tutte le forze politiche, per vedere chi è pronto ad assumersi le proprie responsabilità».
E questo cosa sarebbe? Un governo di minoranza, un governo di scopo, che si va a cercare i voti dove li trova, senza maggioranze precostituite?
«Lo chiami come vuole. Per me è un governo di cambiamento, che come tutti i governi chiederà la fiducia. La mia partita la gioco a viso aperto, e questo vuol dire che non ci sono tavoli segreti, inciuci o caminetti».
Grillo dice: “sceglierò legge per legge cosa votare”…
«Leggendo la nostra costituzione, votare legge per legge non è sufficiente, perché un governo nasce con un voto di fiducia o non nasce per niente. Ora sta a lui scegliere. Il cambiamento non lo fai con quelli che di una torta si vogliono mangiare solo la ciliegina. Il Paese va governato, non può essere lasciato allo sbando di fronte all’Europa e ai mercati».
D’Alema propone di cedere a M5S e al Pdl la presidenza di Camera e Senato. Lei è d’accordo?
«Non mi discosto da quello che ho detto in campagna elettorale. Chi arriva primo non ha l’esclusiva sulle cariche istituzionali. Ma ci sono due aspetti che mi preme sottolineare. Il primo: l’emergenza non si affronta con i vecchi schemi da cittadella assediata della politica. Il secondo: quando ci sono in ballo le istituzioni sono aperto a tutte le ipotesi, ma quando si parla di governo non possono esserci ambiguità…».
Appunto, Hic Rhodus. Se salta lo schema del suo “governo di cambiamento” lei è pronto o no a fare il patto col diavolo, cioè un governo di larghe intese con il Berlusconi “statista” che dice “questa è l’ora della responsabilità”?
«Senta, in questi anni Berlusconi di “ore della responsabilità” ne ha avute a bizzeffe, e le ha mancate tutte. La responsabilità lui non la concepisce al di fuori degli interessi suoi e dei suoi. Dunque, lo voglio dire con assoluta chiarezza: l’ipotesi delle larghe intese non esiste e non esisterà mai».
Eppure sembra che anche nel Pd ci siano forti pressioni su di lei.
«Pressioni ce ne sono tante, e di tutti i tipi. Anche la base preme, e in direzione opposta a quella delle larghe intese. Per fortuna siamo un grande partito, che discute e decide in organismi collegiali. Proposte di governissimo finora non ne ho sentite. Sarebbero la morte del Pd, sarebbero risposte di una politica che rifiuta la realtà e si chiude in se stessa. Io ho un’altra idea: come ho detto sempre in campagna elettorale serve un governo di combattimento, e io sono pronto a guidarlo».
Ma se Grillo le risponde picche, e le ripete che lei è “un morto che cammina” che si fa?
«Mi aspettavo che Grillo rispondesse così. Ma sbaglia di grosso, se pensa di aver davanti uno che si impressiona. A Grillo voglio solo dire che accolgo il suggerimento di Vasco Rossi: “fottitene dell’orgoglio”. Lui può insultare finchè vuole, ma deve venire in Parlamento a dirmelo. Gli lancio questa sfida. Il governo di cambiamento che propongo non risponde solo al sentire del suo popolo, ma anche del mio. Finora il suo slogan è stato “tutti a casa”. Bene, ora che dentro la casa c’è anche lui dica con chiarezza se vuole andare via anche lui o se è interessato a ristrutturare la casa».
Non mi ha detto se nel suo pacchetto c’è anche la riforma della legge elettorale, visto gli ennesimi disastri prodotti dal Procellum.
«È certamente una priorità. Bisognerà verificare le posizioni altrui. Noi la nostra proposta l’abbiamo già presentata in Parlamento: maggioritario a doppio turno, sul modello francese».
D’Alema, evidentemente per blandire il Pdl, propone di inserire il presidenzialismo. Lei condivide?
«Nella nostra proposta deliberata dall’assemblea nazionale il presidenzialismo
non c’è».
Senta, ma se il suo governo di cambiamento fallisce che succede? Si torna a votare?
«Non ho subordinate. Questa è la mia proposta. Deciderà il presidente della Repubblica, con la sua consueta saggezza».
Lei si sta giocando l’osso del collo. Non ha mai pensato di dimettersi, in questi giorni? E che farà se la sua proposta non va in porto?
«Dimissioni? Sono due anni che dico che questo 2013 per me è l’ultimo giro. Lo so e l’ho sempre saputo. Ma da mozzo o da comandante, io non lascio la nave…».
Segretario, dica la verità. Quanto pesa l’istinto di sopravvivenza delle nomenklature?
«Non scherziamo. Qui c’è un Paese da salvare. Per quel che riguarda me chi pensa che sia in gioco una questione personale o è un meschino, o è un cretino».

La Stampa 1.3.13
Bersani non teme la conta nel Pd
Tutti i big contro un esecutivo di larghe intese. Ma già si profila uno scontro generazionale in vista del congresso
di Car Ber.


Giornate difficili Il segretario del Pd Pier Luigi Bersani avrà il compito di provare a formare il prossimo Governo nonostante il risultato molto al di sotto delle aspettative della sua coalizione alle elezioni

La tensione squassa tutto il partito da nord a sud, l’incertezza nel Pd regna sovrana e la prima resa dei conti formale avverrà mercoledì prossimo, quando in una Direzione composta da 200 membri delle «vecchie» correnti, un leader azzoppato ma forte nei numeri metterà ai voti la sua sfida a Grillo per una proposta di governo del cambiamento. Ai veleni, alle recriminazioni, ai dubbi venuti a galla in queste ore si sta cercando di far fronte recuperando un minimo di collegialità con contatti e incontri a tu per tu: come quello tra Bersani e D’Alema di ieri in cui l’ex premier ha chiarito di essere contrario a un governissimo, ipotesi che tutti i maggiorenti escludono o fanno finta di escludere per non dare l’idea che esistono subordinate. Ma D’Alema è stato chiaro dicendo che «l’unica soluzione possibile oggi è quella proposta da Bersani» mettendo così un punto e a capo su una querelle che rischiava di tracimare. Sicuro di poter contare su una maggioranza interna, Bersani è convinto che la sua proposta passerà e che si potrà così presentare da Napolitano chiedendo che gli venga affidato un incarico per formare un governo del tutto nuovo e andare in Parlamento a stanare i grillini. E questa determinazione potrebbe poggiarsi sulla convinzione inconfessata che al momento clou una parte dei parlamentari grillini voterà la fiducia anche al Senato. «Oggi è impossibile dirlo - spiega uno dei fedelissimi di Bersani - e si vedrà cosa pensano solo tra qualche giorno quando cominceranno a parlare gli eletti». E anche se la tesi è che in questo momento è complicato fare una previsione, anche se vengono negati tentativi di abboccamento con i 5 Stelle e il loro leader, va pure registrato che più d’uno è convinto che Bersani potrà avere dalla sua una parte delle truppe grilline . «Perché molti di loro sono persone che fanno attività politica per passione e caricarsi il peso di dire no al tentativo di fare qualcosa che possa servire al paese non può essere preso alla leggera. Anche sui giornali locali diversi hanno detto che bisogna votare la fiducia e il fatto che ci siano altre due settimane di tempo certo aiuta», dicono i bersaniani.
Ma in queste ore tutti fanno mostra di esser compatti nel rifiutare qualsiasi apertura a Berlusconi e nessuno osa parlare della subordinata di un governo tecnico nel caso fallisse la sfida ai 5 Stelle. Pure Enrico Letta, parlando ieri col ministro degli esteri inglese William Hague, ha spiegato tutte le difficoltà che ci sarebbero in un rapporto col Cavaliere e quelle che ci sono nel misurarsi con un «movimento liquido come quello di Grillo». Tradotto, con lui si parlerà solo pubblicamente senza canali di altro tipo o contatti informali che non è il caso di esperire. E mentre in camera caritatis sono in molti a considerare una missione impossibile evitare le elezioni anticipate a breve, sotto traccia si muove ben altro nel Pd: c’è uno scontro generazionale, che travalica le diverse linee politiche, dei trenta-quarantenni, «giovani turchi», rottamatori, lettiani, bersaniani che siano, che non ne possono più dei vecchi leoni «che danno la linea anche se non stanno più in Parlamento», per dirla con uno che già si è candidato per la segreteria, Pippo Civati. Che se la prende evidentemente con Massimo D’Alema che ha fatto pensare ad un’apertura al governissimo con Berlusconi con la sua intervista al Corriere in cui propone di offrire le presidenze delle due Camere al Pdl e ai grillini. Ma l’insofferenza verso i Veltroni, D’Alema, Fioroni, Bindi, Finocchiaro, Franceschini, Letta, è palpabile nei conversari pubblici e privati dei più giovani. C’è poi un congresso di fatto già aperto, in cui non solo si fanno nomi di possibili reggenti da qui alle assise, come quello di Fabrizio Barca, Enrico Letta, Andrea Orlando. Ma già le truppe cercano di capire quale sarà il candidato che verrà opposto a Renzi, il quale sa che non si potrà tirare indietro nell’assumere la leadership quando verrà il suo momento. «È chiaro - dice uno dei leader dei giovani turchi, Matteo Orfini che qui finisce la storia di una generazione e ne inizia un’altra e questo Bersani lo deve capire. Non è pensabile che il Pd venga percepito come lo è stato fino a oggi. Detto questo, è chiaro che se Renzi si candida sulla linea che ha tenuto alle primarie, della cosiddetta agenda Monti, noi porteremo un nostro candidato contro. E poi si vedrà...»
"I Giovani Turchi: «È finita la storia di una classe dirigente Ora ne inizia un’altra» I bersaniani sperano che una parte dei grillini alla fine voti comunque la fiducia al Senato"

il Fatto 1.3.13
Bersani non vuol mollare D’Alema inciampa su B.
L’obiettivo è il dialogo coon i M5S per un esecutivo di scopo
Svolta nel Pd: in minoranza i big a favore del governissimo
di Fabrizio d’Esposito


Per il secondo giorno consecutivo, Pier Luigi Bersani non deflette dal suo orgoglio paziente e disperato allo stesso tempo: “Come noi rispettiamo gli elettori anche Grillo li rispetti. I numeri li vede anche lui. Non pensi di scappare dalle sue responsabilità con le battute. Ci si vede in Parlamento e davanti agli italiani”. È la risposta, quella del segretario del Pd, all’esortazione grillina di giornata: “Pd e Pdl votino la fiducia a un governo del Movimento 5 Stelle”. “Ci si vede in Parlamento”, dice Bersani. E su questo, almeno per il momento, non ci sono dubbi.
IL CANDIDATO-PREMIER del centrosinistra va avanti sulla sua linea, da sottoporre alla direzione del partito: un governo di minoranza o di scopo con un programma in grado di attrarre i consensi parlamentari del M5S. L’ultima indiscrezione di rilievo riguarda anche la candidatura di Stefano Rodotà al Quirinale, che potrebbe essere gradito ai grillini. In ogni caso, per Bersani l’unico dialogo possibile rimane questo. Nonostante l’intervista di Massimo D’Alema al Corriere della Sera. Ieri, l’ex premier ha lanciato “una proposta del Pd aperta a Grillo e Pdl”, escludendo però l’ipotesi del fatidico governissimo con Silvio Berlusconi, peraltro fresco indagato per la compravendita di senatore che fece cadere Prodi nel 2008. Bersani non avrebbe preso bene l’intervista. Anzi. Raccontano alcuni fedelissimi del segretario: “Ma come si fa a pescare insieme Grillo e Berlusconi? È un chiaro tentativo per far saltare tutto e tornare alle vecchie logiche della politica. Stiamo ricevendo telefonate furibonde dalla base, qualcuno non ha capito che stavolta la nostra gente ci lincia”. Il Pdl ha apprezzato l’apertura di D’Alema, ma lo stesso presidente del Copasir avrebbe smentito le letture dietrologiche alla sua conversazione sia con il segretario di Stato americano John Kerry (incontrato a pranzo con Prodi, Amato, Monti, Gianni Letta e Frattini) sia con Bersani: “Un governo con Berlusconi sarebbe un suicidio”. Non solo, in serata in un’intervista al Tg1 si è schierato con Bersani senza se e senza ma: “O Grillo si assume le sue responsabilità oppure si rivota. Governare con Berlusconi sarebbe un errore mortale”. Insomma, una correzione, se non una retromarcia.
La verità è che all’interno del Pd è in corso una mutazione genetica epocale, rispetto al ventennio della Seconda Repubblica. Dopo anni trascorsi a dividersi sull’opportunità o meno di dialogare con B. (dalla bicamerale di D’Alema alla campagna di Veltroni nel 2008 quando non citò mai il Cavaliere) e sul tormentone delle alleanze con sinistra radicale e “giustizialisti”, il terremoto delle urne di febbraio ha azzerato lo schema moderato dei professionisti della politica. Ossia i cosiddetti big che oggi sono o sarebbero contro la linea unilaterale del segretario: i già citati Veltroni e D’Alema, poi Fioroni, Franceschini e così via. Ma la nomenklatura, stavolta, non avrebbe il peso del passato, quando per esempio impose a Bersani, nel novembre 2011, l’amaro calice del governo Monti. Il segretario può contare sui “giovani turchi”, sul cento per cento dei vertici regionali, sulla la maggioranza dei gruppi parlamentari e soprattutto sulle paure materializzatesi dopo il voto: operazioni “responsabili”, dal sapore inciucista e su ispirazione del capo dello Stato, farebbero perdere un altro milione di voti al Pd, se non di più.
STABILITO IL SENSO di marcia, Bersani continuerà a stanare Grillo, tentando di capire se il leader del M5S ha in mente un altro nome di area Pd (Barca?) per un governo di uno o due anni. Il suo sospetto è questo e solo le consultazioni al Quirinale chiariranno le ombre di questi giorni. Fino a quel momento, ha confidato Bersani ai suoi, “ognuno terrà le sue carte coperte”. Un riferimento ad ampio raggio, non solo a Grillo e Napolitano ma anche a Prodi, che avrebbe un canale aperto con il M5S. Se poi il segretario del Pd andrà a sbattere sul muro del mandato esplorativo, facendosi male, si aprirà un’altra fase. Ancora più gravata da incognite, dal voto anticipato alle ambizioni di Renzi passando per un governo tecnico.

Repubblica 1.3.13
“Se apriamo alla destra siamo finiti” Pd diviso tra Grillo e nuove elezioni
No al pressing del Pdl per Berlusconi presidente del Senato
di Goffredo de Marchis


ROMA — Ragionare come se non ci fosse un domani, come se il tentativo con Grillo fosse destinato a un probabile fallimento. E come se dietro l’angolo ci fosse solo la strada delle elezioni a giugno, il 9 e il 10. Bersani è pronto ad affrontare uno scontro interno sul sentiero strettissimo dell’aggancio ai 5stelle. Già mercoledì nella direzione. Perché le acque sono molto agitate, si può arrivare a un voto drammatico nel Pd, lo dimostra la nuova giornata di tensione vissuta ieri. Contro D’Alema e le sue aperture al Pdl si è scatenata la bufera dei militanti, degli elettori e del gruppo dirigente. Tanto che nel quartiere generale bersaniano annunciavano con grande soddisfazione la «totale retromarcia » dell’ex premier affidata a un’intervista serale al Tg1. Ma ieri anche Walter Veltroni ha riunito un folto gruppo di fedelissimi, parlamentari e non, confermando che la corsa del segretario è giunta al capolinea. Ora. E che all’orizzonte è possibile solo un governo del presidente, ossia un gabinetto tecnico.
Bersani continua a escludere queste soluzioni: o Grillo o non esiste in natura una maggioranza con il Pdl anche se gli si dà un nome diverso dal governissimo. «Se apriamo a Berlusconi finisce il Partito democratico», è il ritornello di queste ore a Largo del Nazareno. La prova del possibile disastro si è manifestata ieri: l’apertura per la presidenza del Senato al centrodestra è stata registrata, in quel campo, come una chance per Berlusconi. Ad Anna Finocchiaro sono arrivate subito le richieste di un contatto diplomatico ma diretto per lavorare sull’ipotesi del Cavaliere a Palazzo Madama. Richieste respinte con forza dalla capogruppo, ma che possono tornare a farsi sentire se continuerà il balletto di un esecutivo aperto a tutti.
Con la proposta di D’Alema di una Camera da assegnare al Pdl, contenuta in un’intervista al Corriere, i berlusconiani hanno visto uno spiraglio per il loro leader. E per un governo simile a quello Monti, dove fossero impegnati ancora una volta insieme la destra e la sinistra. È la linea opposta a quella di Bersani, ed è una linea che, ha precisato D’Alema in serata, non è la sua: «Sarebbe un suicidio». Ma nelle sue parole, molti pidiellini hanno visto un’ancora di salvezza, una sponda preziosa. La reazione della base del Pd invece ha rasentato la rivolta. Mail e bacheche Facebook dei suoi dirigenti sono state inondate con migliaia di messaggi di sostegno all’unica strada indicata dal segretario: una proposta a Grillo e ai 5stelle fatta in Parlamento, alla luce del sole. Il post della Finocchiaro, che confermava il no netto al governissimo e la strada obbligata di un dialogo con il comico, ha avuto un mare di “condivisioni” e “mi piace” in pochissime ore. Che è anche un modo per dire che dev’essere Bersani a guidare il Pd in questa fase. Dopo di lui, c’è solo il voto e probabilmente un nuovo candidato.
L’accelerazione verso le urne è ormai un tema di confronto. Qualsiasi ipotesi di un abbraccio col Pdl, col rischio di fallire dopo pochi giorni, lascerebbe il Partito democratico in balia della tragedia elettorale. È del voto a breve che Matteo Renzi discute nelle sue lunghe e numerose telefonate. Ha contatti quotidiani con Dario Franceschini, si messaggia con Enrico Letta che da lunedì sera non fa che ripetere che sarà il sindaco di Firenze il nuovo leader del Pd, mantenendo oggi la lealtà a Bersani. Anche D’Alema sgombrando il campo dal governissimo, ammette che la subordinata a un governo Pd-Grillo può essere solo il ritorno alle urne. E nell’ottica di una divisione delle cariche istituzionali, annusando la rivolta, ha confidato che nella sua testa c’è semmai il nome di Gaetano Quagliariello, vicecapogruppo del Pdl nella scorsa legislatura.
Veltroni non ha intenzione di cedere sulla sua idea. Nella riunione della sua area, la linea di un dialogo con 5stelle è stata bocciata. «Dopo una sconfitta, se si vuole l’unità, ci vuole anche una maggiore collegialità. Non si può fare una mossa come quella del segretario senza ascoltare prima il partito». All’appuntamento c’erano Tonini, Gentiloni, Realacci, Verini, Martella, Peluffo, Morando, un mix di renziani e veltroniani. Manca però il nome del premier per dare gambe al progetto dell’ex sindaco. Dev’essere il capo dello Stato a sceglierlo, eventualmente. Ma in quella riunione sono circolati, senza renderli espliciti, gli identikit di Fabrizio Barca e Anna Maria Cancellieri, non a caso due ministri del governo Monti sostenuto da ABC.

Repubblica 1.3.13
Il pd Massimo Mucchetti: non serve un’intesa organica, è possibile mettersi d’accordo su alcuni punti programmatici comuni. L’importante è avviare l’azione di governo
“Conflitto di interessi e corruzione, con Grillo si può fare”
intervista di Alberto D’Argenio


Onorevole Mucchetti, su cosa si potrebbe basare un’intesa tra il Pd e l’M5S?
«Una collaborazione con il Movimento 5 Stelle può anche non avere un carattere formalizzato. Può essere anche un’apertura di credito dell’M5S e di altre formazioni, a cominciare dal centro montiano, sulla base di precisi impegni assunti da un governo espresso dal Pd. Impegni che già si ritrovano nei programmi di ciascuno».
Quali punti di convergenza intravede?
«Innanzitutto il taglio radicale dei costi della politica che va finanziata in modo più legato all’impegno dei simpatizzanti con opportune deduzioni fiscali. E poi misure contro gli effetti della crisi sui ceti più deboli. La riduzione delle spese militari. Una
vera legge contro la corruzione che introduca il reato di autoriciclaggio e ridia una adeguata rilevanza penale al falso in bilancio. Ma c’è anche un punto di alto rilievo politico che attende di essere risolto dal 1994: i privati in conflitto di interesse tra loro e i privati in conflitto con lo Stato. La prima famiglia di conflitti andrà risolta nel quadro della ridefinizione del Testo unico bancario e nei rapporti tra finanza e impresa, tra poteri economici e informazione. La seconda famiglia di conflitti la si risolve rafforzando i criteri di ineleggibilità a deputato o senatore o membro a qualsiasi titolo del governo».
Chi incapperebbe in una ineleggibilità rafforzata?
«I titolari di concessioni o di licenze d’uso loro assegnate da pubbliche amministrazioni. Penso a frequenze, autostrade, reti ferroviarie, telefonia mobile e quant’altro. I titolari sono le persone fisiche o i legali rappresentanti delle società intestatarie, ma ineleggibili devono essere anche gli azionisti rilevanti diretti o indiretti di queste società. Altrimenti rimarremmo nell’attuale situazione per cui, paradossalmente, il presidente o l’amministratore delegato di Autostrade, Mediaset, Telecom Italia Media e via elencando sono ineleggibili mentre l’azionista che li nomina può avere il potere politico di assegnare concessioni o licenze».
Ci sono però temi sui quali il Pd e l’M5S sono incompatibili. Grillo, ad esempio, vuole uscire dall’euro.
«In realtà dice di voler cercare le strade per una fuoriuscita dell’Italia dalla moneta unica ma, precisa, con il minor danno possibile. Nell’attesa resta un impegno comune di un po’ tutte le forze politiche a determinare una svolta dall’austerità allo sviluppo nelle politiche Ue. D’altra parte Bersani non sta chiedendo a Grillo o agli altri di formare una maggioranza organica. Il punto politico è consentire l’avvio dei lavori parlamentari e dell’azione di governo affinché poi ciascun partito ne possa dire bene o male sui singoli provvedimenti».

Corriere 1.3.13
La portavoce di Bersani
Moretti: se serve il segretario farà un passo indietro
di Monica Guerzoni


ROMA — «Un governo con Berlusconi io non lo voto».
Lei è la portavoce di Bersani, onorevole Alessandra Moretti, se il segretario non avrà altra via...
«Gli errori li abbiamo fatti, ma ora dobbiamo individuare una strategia alternativa per governare il Paese. Noi abbiamo molta fiducia nei parlamentari del M5S, portano istanze molto simili a quelle di una nuova classe dirigente del Pd e sento che possiamo trovare un'intesa».
D'Alema apre a Grillo e al Pdl.
«Escludo inciuci con il Pdl e sono contraria a offrire a Berlusconi il Senato. Noi stessi, penso alla nuova generazione di democratici che entrerà in Parlamento, faremmo fatica a votare la fiducia a un governo con Berlusconi, che è il nostro legittimo impedimento. Ci sarebbe una spaccatura dentro il Pd».
Sbaglia dunque D'Alema a offrire la presidenza delle Camere a Grillo e Berlusconi?
«Capisco che per D'Alema sia più facile trovare intese con la politica dell'ultimo ventennio, ma noi seguiamo Bersani. Adesso è la nuova generazione che deve parlare».
Non le sfuggirà che Bersani non fa parte della nuova generazione.
«Lo sappiamo, ma lui potrebbe farsi garante di un profondo cambiamento, di una compagine del tutto rinnovata, anche al governo».
Paradossalmente, il ruolo perfetto per Matteo Renzi.
«Nel Pd c'è una generazione che è cresciuta molto e che deve prendere la barra del timone, scardinando vecchie logiche e sostenendo colui che la democrazia ha individuato come il capitano. Penso a Renzi, ma anche a Fassina, a Orlando, a De Micheli, a Giuntella, a Moretti...».
Non esiste la possibilità che mercoledì in direzione Bersani venga disarcionato?
«Se ci venisse chiesto, se la direzione individuasse un'altra figura di garanzia per dialogare con il M5S, tutti dovremmo pancia a terra lavorare per questo. Il primo a tirarsi indietro sarebbe Bersani, pronto a fare il capitano o il mozzo senza abbandonare la nave».
Renzi candidato premier al posto di Bersani?
«Mettiamo caso che Napolitano faccia questa scelta... Se Renzi fosse ritenuto decisivo per promuovere un approccio diverso saremmo tutti pronti a lavorare per questa soluzione. Mi appello alla responsabilità dei renziani. Che senso ha accanirsi con Bersani, come fosse l'unico responsabile della sconfitta? Cerchiamo di essere responsabili. La resa dei conti sarebbe un suicidio».
D'Alema e Veltroni hanno lasciato il coordinamento di tre giorni fa in segno di dissenso?
«Devono avere generosità, sennò finiamo fagocitati. Devono lasciare spazio ad altri, non lo hanno capito? Non hanno visto che molti italiani non ci hanno votato dove, invece dei giovani, c'erano i vecchi che hanno chiesto la deroga?».
Ce l'ha con Bindi e Marini?
«Non mi faccia fare nomi, sennò succede un casino...».

il Fatto 1.3.13
Il premio Nobel Dario Fo
Grillo e Bersani, sedetevi insieme e trovate l’accordo su dieci punti
di Malcom Pagani


Indifferente ai suoi 87 anni: “Ma perché mi dà del lei? È forse per farmi sentire una cariatide? ” Dario Fo rimane sordo ai rumori di fondo: “Ora tra un assalto delle telecamere e una visita degli artificieri nel suo giardino, è difficile capire esattamente cosa accadrà domani. Ho provato a parlare direttamente con Beppe, ma da due giorni contattarlo somiglia a una missione impossibile. Se vuoi metto a disposizione la mia preveggenza”. E ride, il Nobel che preferisce la seconda persona alla terza, rivedendo forse nella parabola del comico iconoclasta premiato dal voto, le motivazioni dell’Accademia di Stoccolma che al tramonto dei ‘90 diedero lustro a una vasta genìa di giullari intenti a dileggiare il potere “restituendo dignità agli oppressi”. Secondo Fo, il mistero buffo uscito dalle urne fa parte della schiera. E adesso che i grilli sono diventati davvero cavalli, per proposte indecenti o mètaletture, ironie, dubbi e richieste di moderazione, Fo presta orecchio e voce. “A patto di usare le parole giuste perché quello a cui abbiamo assistito nei giorni scorsi non ha precedenti”. Alleanza fa parte dei termini corretti?
È tra quelli sbagliati. L’alleanza con il Pd non c’è mai stata, né ci sarà. È un equivoco. Uno slogan vuoto. Un espediente giornalistico. Grillo vuole risolvere problemi sospesi da anni. Temi reali, reclusi nel limbo dell’incerto dalla colpevole ignavia dei responsabili del Pd.
Non le piacciono i ragazzi del Nazareno?
Sono a dir poco dei ballerini zoppi. Gente che và di qua e di là cercando di vendere la propria merce per ottenere vantaggi e prebende.
Grillo è diverso?
Molto. Grillo dice una cosa semplice. Sostiene che in Italia esistano alcune ineludibili urgenze ferme da decenni, propositi ibernati che devono diventare leggi e regolamenti. Sono argomenti noti, sui quali non si può più perdere tempo. Il conflitto di interessi, il costo della politica, le spese per gli armamenti. Potrei andare avanti per un quarto d’ora.
Come si trova un punto di convergenza allora?
Sulle cose da fare. Il Movimento di Beppe ha proposto una ventina di punti su cui iniziare a ragionare. Dall’altra parte, su almeno dieci provvedimenti quasi identici e presenti nel suo programma, il Pd potrebbe trovare un accordo con Grillo.
Lei sarebbe favorevole?
Certo. Ci si mette attorno a un tavolo, si tirano via le difficoltà, si compie un primo passo di grande valore. Un dialogo di peso per migliorare la prospettiva dell’Italia. Un’idea del genere sarebbe già il principio di una rivoluzione. Un ribaltamento di schema mai intravisto dalle nostre parti.
E la diffidenza? Le schermaglie? Le percentuali interne? Le correnti?
Credo, spero, che nelle stanze del Pd abbiano capito che con Grillo e la sua gente non si può scherzare. Non è tempo di sofismi. Se si lambiccano con rimandi, cupe strategie da politicanti o trappole, quelli li mandano a fare in culo. Ma ho fiducia. In Sicilia l’esperimento funziona. Ha funzionato. E continua a funzionare.
Si stupisce?
Con tutto l’amore per i siciliani e per la loro terra, non è che da quelle parti siano celebri per azioni di politica collettiva e determinata. Però, proprio in Sicilia, i due mondi si sono incontrati. È una piccola cosa, mi rendo conto, ma qui si tratta di procedere necessariamente a una proiezione ingigantita del reale. Bisogna provare a sognare, con animo sgombro. Ci spero.
Grillo per ora sembra negare la sola ipotesi.
Grillo ha subìto da pennivendoli e vigliacchetti un assalto mediatico senza paragoni. Gli hanno detto e gettato addosso di tutto. Insulti, accuse, ignominie. Si è tenuto nello zaino l’umiliazione quotidiana e le provocazioni costanti di un vasto e ignobile microcosmo. A 60 anni, dall’alba al tramonto, mangiando panini e rischiando le corde vocali si è buttato in mezzo alla gente per ascoltarla. Che ora, in un quadro di generale sorpresa per il risultato, l’unico che forse se lo aspettava sia incazzatissimo con i solòni di casa nostra è perfettamente comprensibile.
Bisogna aspettare?
Grillo è furioso, non c’è dubbio. Il Vaffanculo stavolta non è soltanto tecnico, ma emotivo. Gli passerà, ma si dovrà attendere che la rabbia decanti. Intanto, dai giudizi tedeschi, l’ha pubblicamente difeso Giorgio Napolitano. Mi sembra una notizia notevole.
Il Presidente l’ha convinta?
Nell’occasione è stato straordinario.

Corriere 1.3.13
Dario Fo
«Il giullare è mediatore. Mi spenderò con Grillo per il dialogo con il Pd»
di Giuseppina Manin


Allora Fo, dalla Spd all'Economist, tutti ci accusano di essere il Paese dei clown. Che ne dice?
«Dico che la parola è stata usata a sproposito. Da qualcuno che non ne conosce il significato. Gli consiglierei di rileggersi Shakespeare: nelle sue tragedie affidava al clown l'arduo compito di tirare la sintesi di quel che succedeva. E poi clown viene dal latino “colonus”, contadino. Colui che lavora la terra, ne raccoglie i frutti e quindi è giocondo. In molti quadri del Medioevo, viene raffigurato a fianco di Gesù, un mediatore tra cielo e terra».
Clown come uomo del fare quindi?
«Del fare e del provocare. I giullari e i fool hanno sempre avuto il compito di metter a nudo il potere. La satira è un'arte nobile quanto rischiosa, molti ci hanno lasciato persino la pelle. Allora e anche oggi. La prova che con il teatro si fa politica».
Lei ne è un testimone militante. Per questo ha deciso di appoggiare Grillo?
«Mi è piaciuta la sua forza, la sua passione straordinaria. Quello slancio utopico che la sinistra ha perso da tanto tempo. Ma anche la concretezza di voler metter a punto cose serie e ben determinate».
Però non si capisce con chi voglia realizzarle. A Bersani, che gli ha teso una mano, ha risposto brutale: sei un morto che parla.
«Una frase dura. Ma non bisogna dimenticare quanti e quali insulti Beppe e i suoi hanno ricevuto nel corso di questa campagna elettorale. Bersani ha chiamato i grillini “fascisti del web” e a Grillo ha dato del miliardario…».
Non è vero?
«Ma sì, sarà anche ricco… Soldi che però si è guadagnato lavorando per anni, su cui ha pagato le tasse. Mi pare che nei partiti, Pd compreso, sia successo ben di peggio. Ma nessuno ha mai ricevuto tante ingiurie come Grillo. Che ne sia rimasto ferito bisognerà pur metterlo in conto. C'è bisogno di un po' di tempo. E di proposte concrete».
Bersani ha già parlato di riforma della legge elettorale, di tagli ai costi della politica, del conflitto d'interesse.
«Le affinità esistono, lo sforzo sarà di trovare un terreno comune. Per quel che posso mi spenderò anch'io a parlare con Grillo e con Casaleggio. Tra i due il più saggio e anche il più duro».
Visto che si parla di democrazia diretta, si terrà conto delle tantissime voci che dal web chiedono di non sbattere la porta al Pd?
«Gli appelli si moltiplicano a vista d'occhio. Quello messo in rete da mio figlio Jacopo, che propone un accordo su 10 punti tra 5 Stelle e Pd, in poche ore ha raccolto migliaia di firme. Prima o poi si arriverà a un'intesa. Grillo ha rispetto per chi l'ha votato. Qualche volta si lascia andare a intemperanze di troppo, ma non va mai “allo scarampazzo”».
Lei che mai ha rinnegato di essere comunista, cosa rimprovera al Pd?
«Di non essere più dai tempi di Berlinguer il partito dei lavoratori, dei più deboli. La sua nomenclatura si è troppe volte compromessa, ha fatto “inciuci” di ogni tipo. Ha avvalorato i tagli del governo Monti, che picchiava sui più poveri e non toccava gli intoccabili. Io ho votato tutta la vita per quel partito, seguendolo, più o meno convinto, nelle sue tante metamorfosi. Questa volta però non ce l'ho fatta più. Dico anch'io: tutti a casa».
Anche Bersani?
«Se ne deve andare. In Parlamento sono entrati tanti nuovi nomi, giovani, donne. Ci sarà con chi potersi intendere».
Lei è stato tentato anche da Ingroia.
«Ma mi sono reso conto che il suo era un partito di carta velina rispetto a ciò che succedeva. E anche Di Pietro… Cominciato bene e poi andato alla rovina. Possibile che tutti debbano avere un figlio cretino? Meno male che il mio mi contesta da quando è nato».
Tra le varie ipotesi c'è anche quella di nuove elezioni.
«Non vedo cosa potrebbero risolvere... La situazione non è solo grave ma spaventosa. Bisogna fermare la giostra dei pazzi. Una volta andai in visita a un manicomio dove accanto ai malati tenevano degli animali a scopo terapeutico. A un certo punto tutti si alzarono in piedi e, uomini e bestie, iniziarono a girare ossessivamente intorno a un palo. Che succede? chiesi al medico. Niente, rispose. È la loro ora, si sfogano un po'».
Cosa ha pensato quando Grillo l'ha candidata al Quirinale?
«Che era un segno d'amore. Con Beppe siamo vecchi amici, abbiamo condiviso tante battaglie e da poco, con Casaleggio, abbiamo anche scritto un libro (“Il Grillo canta sempre al tramonto”, Chiarelettere). Lui pensa davvero che io potrei essere la persona giusta per uscire dagli schemi… Lo ringrazio ma sono troppo vecchio. Avessi dieci anni di meno, avrei accettato. Mi sarei divertito a parlare in “gramelot” a Bruxelles. Franca però mi ha subito avvertito che lei al Quirinale non ci vuole andare. A noi basta qualcosa di più piccolo».
Dall'altra parte del Tevere c'è un altro posto vacante. E il Papa è un ruolo che lei conosce bene, l'ha interpretato tante di quelle volte.
«Duemila solo in “Mistero Buffo”. Bonifacio VIII si troverebbe a suo agio nella Chiesa da paura che circola adesso… Nei giorni scorsi qualcuno mi ha telefonato dicendo che un gruppo di cardinali voleva indicare il mio nome al Conclave. E che Benedetto XVI sarebbe venuto di nascosto a casa mia per consultarmi. Un bello scherzo, vero?».
O forse no?

Repubblica 1.3.13
“Beppe è uno showman lo capirete solo smettendo di prenderlo alla lettera”
Battiato: non può essere peggio degli altri
intervista di Sebastiano Messina


ROMA — «La nostra fortuna è stata la vittoria di Grillo» dice Franco Battiato mentre prepara il suo concerto in Calabria.
Perché dice così?
«Perché se avesse vinto qualcun altro saremmo andati tutti all’estero».
Parla di Berlusconi?
«Lascio a lei la deduzione».
Ma lei è contento o deluso, per questo voto?
«Contento e deluso. Contento per il risultato di Grillo. Siccome faccio il cantante, quando dicevo che avrebbe preso il 25-30 per cento tutti mi dicevano: lo vanno a sentire ma poi non lo votano. S’è visto. Deluso perché vedo che in Italia c’è ancora gente che vende il proprio voto. Quando sono andato a votare, a Milo, le ho viste quelle povere donne alle quali avevano dato cinquanta euro per un voto».
Cosa legge, in quel sorprendente risultato del Movimento 5 Stelle?
«Un cambiamento radicale. Lui ha un’intelligenza politica a dir poco notevole. Rivoluzionaria. Come Crocetta».
Michele Serra ha detto che in quello che sta succedendo c’è qualcosa che gli ricorda il Sessantotto.
«Non credo. Perché purtroppo il Sessantotto è stata, come dicono a Roma, una
sòla, una fregatura. Nel senso che una buona parte di quei rivoluzionari engagè di
lì a poco sono entrati nelle stanze del potere. Stavolta mi pare che il cambiamento sia più serio».
Perché emerge la voglia di dare un calcio alla vecchia classe politica, di mandarli tutti a casa?
«Esattamente. Io non dico il 100 per cento, ma di sicuro il 75 per cento dovrebbe andarsene in pensione. A cominciare da quelli che sono in Parlamento da una vita».
Intanto adesso in Europa ci guardano come la prossima Grecia, e rischiamo l’ingovernabilità. O no?
«Non credo. Grillo non è un irresponsabile. Sa che prima delle elezioni volevo chiamarlo? Poi non l’ho fatto, ho pensato che ognuno deve fare quello che vuole».
Ma cosa avrebbe voluto dirgli?
«Gli avrei consigliato di fare un patto con Bersani, che è l’unico con cui in questo momento lui si può alleare, sia pure temporaneamente. Per fare subito, insieme, le riforme più urgenti e più importanti. Un patto a termine, su una lista corta di cose da fare, e poi ognuno va per conto suo».
Però Grillo non sembra su questa linea. Dice che Bersani è “un morto” e che non gli voterà mai la fiducia.
«Sì, ogni tanto lui ha queste uscite, ma non bisogna prenderlo alla lettera. Quando ci parli, è squisito. Dice cose che nessuno ha mai detto e che sono la soluzione, non il problema».
Come assessore della giunta regionale siciliana, lei ha visto i grillini all’opera dentro le istituzioni. Com’è stato l’impatto?
«Il primo che ho conosciuto è stato Cancelleri, il capogruppo. Mi ha fatto un’ottima impressione. E noi stiamo lavorando bene con loro. Sono persone in gamba, ci si parla bene, le cose funzionano».
Si può governare con Grillo?
«Ma certo. Vede, io e lui abbiamo una cosa in comune: siamo uomini di spettacolo, non abbiamo bisogno di soldi e abbiamo deciso di fare qualcosa per la nostra terra. Io per la Sicilia, in questo momento, lui per tutta l’Italia. Grillo è felice, quando riesce a realizzare qualcosa di buono».
Quindi lei non pensa che lui voglia il caos, ovvero costringere Pd e Pdl a fare un’ammucchiata per restare l’unico portavoce del nuovo?
«Non conosco Grillo così profondamente da immaginare cos’ha in mente. Però so che ha un’intelligenza creativa, e che quando si discute di cose concrete spesso tira fuori delle buone idee».
Bersani, il vincitore perdente: dove ha sbagliato, secondo lei?
«Non credo che abbia commesso errori. Bersani è così, non è un imbonitore. Ha detto che bisognava battere la destra, che era la cosa giusta. Il vero problema è che siamo entrati nella torre di Babele. Che non è, come molti pensano, il multilinguismo. No, la torre di Babele è un castigo di Dio, che ci dice: non siete degni di comunicare tra di voi. Quindi parliamo tutti la stessa lingua, ma non ci capiamo».
Ci manca un centro di gravità permanente.
(Battiato ride). «Però io dico: questo Paese è stato governato da gente che ha fatto disastri totali. Si può fare peggio di loro? Io penso di no. E allora perché dobbiamo avere paura del nuovo?».
C’è chi propone di chiedere a tutti, centrodestra, centrosinistra e grillini, di assumersi la responsabilità di far funzionare il Parlamento e il governo.
«Non sopporto questa idea. E’ finito il tempo per queste cose. Berlusconi ha perso, ha tentato l’ultimo scatto ma non gli è riuscito. Voltiamo pagina, una buona volta».

il Fatto 1.3.13
Guida al possibile accordo Bersani-Grillo
Un compromesso a cinque stelle
a cura di Salvatore Cannavò, Stefano Feltri e Marco Palombi


Ci sono un paio di settimane per inventarsi un governo. E al momento, pur tra polemiche e incomprensioni, la sola ipotesi di cui si discute è quella di una collaborazione tra Partito democratico e Movimento Cinque stelle. I programmi, su entrambi i fronti, sono poco dettagliati. Ma se Pier Luigi Bersani vuole coinvolgere i grillini dovrà offrire loro qualcosa sui temi qualificanti del movimento: casta, grandi opere, giustizia, redistribuzione del reddito. Il punto di incontro più immediato è sui tagli ai costi della politica: dimezzamento del numero dei parlamentari e taglio ai rimborsi elettorali ai partiti. Sull’economia le intese sono possibili su vari dossier: il reddito di cittadinanza caro a Grillo – una forma di sussidio di disoccupazione da 600 euro per tutti – è tecnicamente possibile, ma richiede una complessa riforma degli ammortizzatori sociali, o il suo costo sale da 5 a 45 miliardi di euro. Il Pd ha le sue proposte in materia, è semplice trovarsi a metà strada. Idem per il patto di stabilità interno dei Comuni, la regola che blocca gli investimenti anche negli enti locali virtuosi. Tutte le forze politiche ne chiedono una revisione, qualcosa si potrà fare. I guai sono maggiori quando si passa ai conti pubblici nazionali: Grillo ha nel programma l’abolizione dell’Imu sulla prima casa, dell’Irap, l’aumento delle risorse per scuola e sanità. E non indica alcuna fonte di copertura. Il Pd può essere d’accordo, se si trovano i soldi. Il punto di partenza può essere applicare la proposta dei democratici sull’Imu, cioè toglierla a chi paga fino a 500 euro scaricando il peso sui grandi patrimoni immobiliari.
Lo scoglio maggiore, forse insuperabile, è quello del Tav, la linea ad alta velocità e dubbia utilità tra Torino e Lione: molti degli eletti a 5 stelle vengono dal movimento di protesta della Val di Susa, mentre il Pd (piemontese e non solo) si batte da anni a difesa della grande opera. Lì non ci sono compromessi: o si fa o non si fa. Magari si può prendere tempo, in modo tipicamente italiano, creando qualche tavolo o commissione. E intanto si fa il governo.

Casta Dimezzare i parlamentari e taglio ai rimborsi ai partiti
Ridurre i costi della politica a ogni livello è un punto delicato per un accordo, ma anche quello dal contenuto simbolico più evidente se davvero Pier Luigi Bersani vuole inviare un segnale al Movimento 5 Stelle e, ancor di più, al suo elettorato. Tra i punti qualificanti del suo governo di scopo, il segretario del Pd avrebbe dunque intenzione di inserire alcune proposte sul tema. Si parte col dimezzamento dei parlamentari: serve una legge costituzionale, quindi da approvare in doppia lettura sia alla Camera che al Senato con maggioranza assoluta e una distanza di almeno tre mesi tra la prima e la seconda votazione (se l’ultima approvazione non raggiunge il sì dei due terzi dei parlamentari, la legge può essere sottoposta a referendum confermativo, senza quorum). Le altre idee del Pd sono meno complesse da applicare: un taglio agli stipendi dei parlamentari (“saranno pagati come un sindaco”) e in generale delle poltrone legate alla politica nelle società controllate da Stato, regioni o enti locali attraverso l’obbligo di accorpamento; una legge sui partiti che garantisca la trasparenza delle loro spese e delle loro fonti di finanziamento; l’incompatibilità tra incarichi elettivi e qualunque altra nomina. Fonti democratiche, infine, annunciano che nel programma breve di Bersani ci sarà anche una “ulteriore riduzione” del finanziamento pubblico ai partiti che, al momento, costa una novantina di milioni l’anno tra elezioni nazionali, locali e contributo diretto reintrodotto con la riforma del 2012.
Si può fare? Probabilmente il M5S non direbbe no a queste proposte, ma di certo le sue sono assai più radicali. I rimborsi elettorali, ad esempio, il movimento di Beppe Grillo li vuole abolire del tutto, non ridurli (il Pd, invece, ritiene che senza il contributo della fiscalità generale si tornerà a una politica fatta solo dai ricchi). Pure sulle Province c’è un punto di frizione: i Cinque Stelle sono per l’abolizione secca – ma esagerano assai sui risparmi ottenibili – mentre il Pd vorrebbe sostanzialmente proseguire con più radicalità sulla strada di Monti (accorpamento e declassamento a “istituzioni di secondo livello”). La seconda strada ha il vantaggio che non necessita di una legge costituzionale.

Reddito di cittadinanza Costa almeno 5 miliardi, ma riforma complessa
Il problema non è di principio, ma pratico: Pd e Movimento 5 stelle hanno idee compatibili sul reddito di cittadinanza, la cosa difficile è realizzarle. Il reddito di cittadinanza non è altro che una forma di ammortizzatore sociale: chi non ha un lavoro, deve poter beneficiare di un minimo di reddito che gli permetta una vita dignitosa. Nella visione grillina, che si ispira ai lavori di Andrea Fumagalli e del Basic Income Network, è una specie di dividendo che spetta al cittadino in quanto titolare di una quota dei beni comuni. Può assumere la forma non di un vero sussidio (che scoraggia dal lavorare), ma di una imposta negativa: se esistono detrazioni e deduzioni – come quelle per i figli a carico – ne deve beneficiare anche chi non paga le tasse perché guadagna troppo poco. Il reddito minimo di cittadinanza, secondo Grillo, ha un costo complessivo che va tra i 20,7 e i 45 miliardi di euro a seconda che si voglia garantire un reddito superiore del 10 o del 20 per cento alla soglia di povertà. L’obiettivo minimo di Grillo è quello di garantire a tutti 7200 euro all’anno, 600 al mese. E nei suoi comizi ribadisce spesso che costerebbe soltanto poco più di 5 miliardi. Miracolo? No, perché il reddito di cittadinanza sostituirebbe tutti gli altri ammortizzatori (cassa integrazione, mobilità, indennità di disoccupazione) che costano circa 15,5 miliardi all’anno. La differenza è appunto di 5.
Si può fare? Non è tanto quindi il costo, il problema, quanto che per introdurre il reddito di cittadinanza bisogna riformare tutto il sistema degli ammortizzatori (e tutti quelli che oggi ricevono più di 600 euro dovrebbero rassegnarsi a incassare meno). Il Pd usa un lessico diverso, ma la sostanza è simile: nei documenti programmatici si parla di un salario minimo per chi non è coperto dai contratti nazionali di lavoro e di “Reddito minimo di inserimento”, che in Italia è già stato sperimentato a livello degli enti locali a partire dal 1998 (la differenza è che questo tipo di sostegno è più orientato al reinserimento nel mercato del lavoro, quello di Grillo è meno condizionato). Ammesso che si risolvano i nodi politici e tecnici, poi bisogna trovare le coperture: i teorici del reddito di cittadinanza evocano una nuova aliquota Irpef al 45 per cento e patrimoniali. Il Pd potrebbe anche dire sì.

Lavoro Modifica (o abolizione?) delle leggi sulla precarietà
Sul tema del lavoro il movimento grillino e il Partito democratico sono molto avari di riferimenti precisi. Per quanto riguarda i Cinque Stelle, nel loro programma è indicato solo un punto specifico, certamente di grande impatto, l’abolizione della “legge Biagi”. La legge 30 del 2002 è considerata la “madre” della flessibilità con la creazione di circa quaranta tipologie contrattuali anche se le aziende ne utilizzano ormai meno di dieci. L’altro grande tema è il ruolo dei sindacati. Grillo, in campagna elettorale, si è lasciato andare a dichiarazioni impegnative sulla fine del ruolo di queste organizzazioni e sul fatto che “si sono eliminati da soli”. Il suo economista di fiducia, Mauro Gallegati, proprio al Fatto, però, ha spiegato che l’affermazione discende dall’idea di voler rendere i lavoratori partecipi degli utili dell’azienda, così non avrebbero più bisogno di un sindacato. Lo stesso Grillo, però, quando ha dovuto spiegare meglio il senso delle proprie dichiarazioni ha attaccato Cgil, Cisl e Uil ma ha difeso i Cobas e la Fiom.
Il Pd ha invece un rapporto organico con la Cgil e il sindacato in generale. Al di là dei programmi si è distinto per l’appoggio dato alla riforma Fornero e quindi per la diluizione dell’articolo 18 che Bersani, in campagna elettorale, ha detto di voler “aggiustare” ampliandone la parte relativa alla flessibilità. Un impegno è stato preso anche in direzione di una legge sulla rappresentanza dopo l’impasse generata dai contratti Fiat.
Si può fare? Sembra difficile che il Pd possa accettare di abrogare la legge Biagi ma questa è stata già ritoccata dalla legge Fornero e quindi si tratta di vedere in che modo questa verrà “aggiustata”. Il M5S non ha pregiudiziali sulla flessibilità a condizione che ci sia un’apertura concreta sul reddito di cittadinanza come protezione universale. Una convergenza si potrebbe trovare sulla legge sulla rappresentanza fortemente sostenuta da Sel e dall Fiom, che alla Camera ha eletto Giorgio Airaudo. Un provvedimento “anti-Marchionne” potrebbe essere apprezzato anche da Grillo. Anche un provvedimento “salva-esodati” avrebbe un consenso ampio.

Tasse Meno Imu e più patrimoniale, incognita Irap
Compromesso non impossibile in materia fiscale, soprattutto quando si arriverà al dunque di scrivere davvero il bilancio dello Stato. Il primo capitolo sarà probabilmente l’Imu sulla prima casa: il M5S ne propone l’abolizione secca, il Pd invece una rimodulazione che sgravi chi ha pagato fino a 500 euro circa e carichi la differenza su chi possiede un patrimonio immobiliare superiore al milione e mezzo di euro di valore catastale, cioè circa tre milioni al valore di mercato (non proprio il “ceto medio”, come sostiene qualche commentatore). Un accordo si può trovare, come pure sulla defiscalizzazione degli utili reinvestiti in azienda e qualche forma di credito d’imposta per gli investimenti in ricerca e sviluppo. Sull’Irap, invece, ci sarà da penare. Il movimento di Grillo – o meglio lui stesso, visto che nel programma ufficiale di questa proposta non c’è traccia – ne ha promesso l’abolizione (35 miliardi l’anno il gettito), una cosa impossibile dentro i meccanismi di bilancio costruiti dagli accordi europei a meno di non procedere a tagli di spesa strutturali – non basta, insomma, non costruire il Tav – che rischiano di peggiorare l’andamento del nostro Pil e costringerci a ulteriori manovre correttive in una continua spirale. La direzione, comunque, è la stessa: ammesso che ci siano le condizioni, anche il Pd ha previsto una graduale diminuzione dell’Irap, anche se preferirebbe iniziare sgravando i redditi da lavoro con un aumento delle detrazioni. Pd e M5S potrebbero poi trovare un accordo su una drastica riforma o l’abolizione secca del redditometro, mentre difficoltà potrebbe incontrare la proposta di Bersani di abbassare il limite per l’uso del contante a cui Grillo si è sempre detto contrarissimo (nel programma, comunque, non c’è).
Si può fare? Come nel caso dei conti pubblici, a cui la materia fisco è legata a filo doppio, non ci sono ostacoli enormi, eppure è difficile al momento data l’estemporaneità delle proposte del movimento sul tema, capire come si comporteranno i parlamentari Cinque stelle. La gradualità e la moderazione, che è la cifra principale della proposta Bersani, potrebbe non soddisfare l’urgenza “rivoluzionaria” dei “cittadini entrati in Parlamento”.

Conti pubblici Comuni e patto di stabilità interno , ma c’è il nodo dell’Europa
Gestione e intervento sui conti pubblici sono il problema fondamentale per ogni governo ed è difficile dire quale potrebbe essere il rapporto tra Pd e Movimento 5 Stelle su questo punto. Intanto c’è un problema filosofico. Il partito di Pier Luigi Bersani è europeista fino all’autolesionismo e intende comunque rispettare tutti gli impegni assunti a Bruxelles col Fiscal compact (pareggio di bilancio immediato, percorso di riduzione del debito al 60% del Pil a partire dal 2015), anche se – com’è probabile – le sue proposte di riforma del Patto di Stabilità venissero respinte dai partner europei. Il M5S, al contrario, parla di referendum sull’euro (e Grillo, ma solo qualche volta, di uscita) e di una non meglio precisata “riforma” dell’Europa. In realtà, sulle linee generali da tenere in contabilità pubblica ci sarebbero meno problemi di quanti se ne immaginino visto che entrambi sembrano condividere la stessa visione della crisi: il problema italiano è la spesa pubblica “improduttiva” e l’alto debito che ne consegue. Un punto di contatto, per di più, potrebbe riguardare il cosiddetto Patto di stabilità interno, quello che riguarda regioni ed enti locali: negli ultimi anni è stato talmente irrigidito che molti comuni non possono spendere soldi che hanno già in cassa per non incidere sul deficit annuale programmato a Roma. La sua riforma è uno dei punti programmatici qualificanti del Pd e potrebbe piacere anche al M5S, che è assai attento alla politica locale.
Si può fare? Sì, ma probabilmente solo per poco tempo. Nessuno è in grado di prevedere come reagirebbe la base M5S – e dunque il suo gruppo parlamentare – se il combinato disposto tra impegni di bilancio imposti dall’Ue e recessione costringesse il futuro governo ad una di quelle manovre che si definiscono “lacrime e sangue” per la quale non basterebbe certo il taglio degli stipendi dei parlamentari o delle pensioni d’oro. Di certo sui temi macro, il movimento di Grillo è un po’ vago (ad esempio, “riduzione del debito pubblico con il taglio degli sprechi e l’introduzione di nuove tecnologie”). Ma questo può anche significare una certa libertà di manovra rispetto alle promesse elettorali.

Imprese Beni comuni e nazionalizzazione del Monte Paschi
Molte cose nei programmi di 5 Stelle e Pd sono vaghe. Ma a grandi linee il Pd propone più liberalizzazioni (non si sa bene quali, si immagina nei servizi) e una riforma degli incentivi alle imprese che favorisca l’innovazione. Grillo chiede invece un maggior ruolo dello Stato soprattutto nei servizi pubblici locali, a cominciare dall’acqua, anche eliminando la messa a gara dei servizi per ridurre il peso dei privati. Il movimento ha anche drastiche ricette di mercato per le grandi imprese: no a incroci azionari tra banche e imprese industriali, difesa (anche con misure protezionistiche, par di capire) delle aziende del made in Italy e dell’agricoltura, introduzione di una vera class action riducendo il ruolo o abolendo proprio le autorità di vigilanza come la Consob. Il Pd non ha mai neppure ipotizzato qualcosa di simile, anzi, nell’approccio democratico le authority vanno rafforzate e il sostegno alle imprese passa soprattutto per la leva fiscale, con i crediti di imposta. Poi c’è il caso Monte Paschi: Grillo ha una posizione molto netta, chiede la nazionalizzazione immediata, cacciando gli attuali manager. Bersani traccheggia, ma anche nel Pd molti sanno che la banca non potrà ripagare i Monti bond (3,9 miliardi). Quindi il problema, prima o dopo, va affrontato.
Si può fare? Le posizioni di partenza sono molto distanti. Però qualche compromesso è possibile: Grillo chiede sostegno alla green economy, cioè alle imprese che operano nel settore delle energie rinnovabili (pesantemente sussidiato in questi anni, senza grandi risultati in termini di occupazione e innovazione). Nonostante la recente riforma degli incentivi all’energia verde che ha ridotto i sussidi, Bersani e il Pd potrebbero declinare la loro riforma degli incentivi in modo da favorire le imprese più green. E se le liberalizzazioni riguardassero anche settori fondamentali per Grillo, banche e grandi imprese, i 5 stelle potrebbero anche approvare nuove “lenzuolate” di provvedimenti bersaniani. Più difficile immaginare una convergenza sul ruolo delle authority. Entrambi gli schieramenti mancano di idee forti sull’industria, a cominciare dal caso Fiat.

Corruzione e conflitto di interessi anti-B. e contro gli intrecci di poltrone
La legalità e il conflitto di interessi sono i temi su cui il rapporto tra Bersani che tenta l’azzardo del governo di minoranza e il Movimento 5 Stelle potrebbe dare i frutti migliori. Il segretario del Pd ha già annunciato tanto in campagna elettorale che nel-l’ultima conferenza stampa alcune misure che intende proporre da subito: nei primi tre mesi dovrebbero arrivare in Parlamento per essere discusse una legge più dura contro la corruzione (con l’introduzione, ad esempio, del reato di auto riciclaggio), una sul voto di scambio politico-mafioso e l’incandidabilità, una che garantisca maggiore trasparenza sugli appalti. Bersani punta anche su due interventi che di sicuro faranno infuriare Silvio Berlusconi e il Pdl. Il primo è la cancellazione della legge del Cavaliere sul falso in bilancio (che lo aveva depenalizzato) come di altre norme ad personam, tipo la ex Cirielli. Il secondo ddl, invece, è la nuova legge sul conflitto di interessi che scatenerebbe la guerra totale col centrodestra: due diverse norme, una antitrust (“cioè contro le concentrazioni”), la seconda “una legge severa sulle incompatibilità”, ovvero decidere quali incroci di posizioni, patrimoni e cariche pubbliche e private sono vietati. Questo è, in sostanza, il provvedimento che potrebbe impedire a Berlusconi – o a qualcuno con le sue caratteristiche – di candidarsi alle prossime politiche.
Si può fare? Difficile che ci siano problemi su questo punto se Bersani farà seguire i fatti alle parole. Anzi, il Movimento 5 Stelle potrebbe introdurre nel pacchetto “conflitti di interesse” alcune misure inserite nel suo programma e che l’attuale gruppo dirigente del Pd potrebbe facilmente appoggiare. Si tratta, ad esempio, della vigilanza sugli incroci tra sistema bancario e industriale, delle norme sulle “scatole cinesi” in Borsa con cui capitalisti senza capitali controllano le grandi imprese italiane, di un più deciso divieto sugli incroci di poltrone tra società diverse, dell’introduzione di una legge che consenta davvero ai cittadini di intentare una class action contro un’azienda scorretta. In questo contesto potrebbe passare anche la proposta più hard per un paese col nostro recente passato: “Le frequenze tv vanno assegnate attraverso un’asta pubblica ogni cinque anni”.

Grandi Opere Il difficile sacrificio del Tav a Torino (e niente Ponte)
Al netto di tutti i dubbi politici e istituzionali, c’è una enorme differenza tra il programma del Pd e quello del Movimento 5 stelle: il Tav, la linea ad alta velocità e alta capacità tra Torino e Lione. Anche nella sua versione low cost attuale richiede almeno 8 miliardi di euro, per non parlare dell’impatto ambientale che preoccupa i residenti assai più che l’effetto sulla finanza pubblica. Beppe Grillo ha raccolto consensi massicci proprio nelle zone della protesta da cui è venuta anche una folta pattuglia di parlamentari, cresciuti politicamente proprio nel movimento di protesta No Tav. Il Pd, invece, pur con qualche sfumatura ha sempre difeso l’opera, anche in assenza di studi o simulazioni che ne giustifichino la realizzazione. Alcuni parlamentari piemontesi del Pd sono anche andati in Francia a difendere il Tav dopo le obiezioni della Corte dei conti francese. La base di Grillo non potrebbe tollerare alcun cedimento su questo punto, neppure in cambio delle più feroci misure anti-casta.
Anche perché il Tav è ormai anche un simbolo, una filosofia. Dire no al Tav significa bocciare anche il Terzo Valico tra Genova e Tortona (altri 6 miliardi), considerato altrettanto inutile e pericoloso dai grillini. Oggi poi dovrebbe andare in liquidazione la Stretto di Messina spa, archiviando il progetto assurdo e faraonico del ponte voluto da Berlusconi. Ci sarà da gestire il nodo delle penali, ma almeno questo dossier dovrebbe essere superato. Altro tema tabù rischia di essere l’Ilva: dovendo scegliere, il Pd si è schierato con il governo Monti, ha ricandidato un deputato in buoni rapporti con l’azienda (Vico) scaricando l’ambientalista Della Seta. Grillo non ha ricette precise sullo stabilimento, ma pretende che tutti i costi di riqualificazione siano a carico della famiglia Riva , fino a espropriarli. Solo a quel punto interverrebbe lo Stato.
Si può fare? In realtà la filosofia del Pd e del M5s sulle infrastrutture sarebbero compatibili: basta grandi opere costosissime che danno benefici sull’occupazione in decenni. Meglio manutenzione di quello che c’è e riqualificazione, si spende meno e si crea lavoro subito. Però il Pd non transige sul Tav. Forse, visti gli attuali rapporti di forza, però Bersani potrebbe sacrificare la parte piemontese del partito in nome dell’accordo programmatico con Grillo.

Repubblica 1.3.13
Le riforme della ricostruzione
di Stefano Rodotà


L’INVENZIONE politica e istituzionale battezzata “Seconda Repubblica” è crollata miseramente e rischia di seppellire il paese sotto le sue rovine. Un esito purtroppo prevedibile, viste le illusioni sulle quali quella nuova fase era stata fondata.
Ricordiamole. Il bipolarismo come bene in sé, che avrebbe inevitabilmente prodotto stabilità governativa, governabilità a tutto campo, efficienza, fine della corruzione grazie all’alternanza al governo di diverse coalizioni. Oggi sarebbe persino impietoso ricordare con nomi e cognomi chi ha assecondato questa deriva, anche se prima o poi bisognerà pur farlo. Ma, intanto, si deve almeno sottolineare come non si sia voluto vedere l’abisso crescente tra quelle illusioni e la realtà, tanto che si arrivò addirittura a dire, dopo le elezioni del 2008, che l’orribile “Porcellum” aveva comunque avuto come effetto quello di stabilizzare il bipolarismo. Se vogliamo comprendere il presente, e progettare il futuro in maniera meno avventurosa, si dovrà partire proprio da una severa lettura critica dell’intera storia della cosiddetta Seconda Repubblica.
In questo momento, il criterio di analisi e di valutazione è ovviamente rappresentato dalle vere novità politiche del voto di domenica e lunedì. Che sono tre: la vittoria del Movimento 5 Stelle, il rifiuto dell’Agenda Monti, il ritorno della politica dei contenuti. La vittoria di Grillo e del suo movimento è già stata commentata nei modi più diversi. Ma la sua “anomalia” si somma al fatto che critiche sostanzialmente analoghe alla politica condotta e poi rilanciata da Mario Monti sono state l’elemento forte della campagna di Silvio Berlusconi. Che gli elettori hanno bocciato in modo sonoro la personificazione di quell’Agenda affidata alla lista “Scelta civica” e che da Monti aveva preso le distanze anche una parte del Pd. Questo dato politico non può essere minimizzato e anzi, nel momento in cui si insiste sulla necessità di andare in Parlamento con proposte precise, contiene una indicazione importante per quanto riguarda appunto i criteri di selezione delle proposte.
Il dimezzamento dei parlamentari e il taglio radicale dei costi della politica, che compaiono in cima all’ipotetica nuova agenda di governo, sono proposte che circolavano da anni e sono la conferma evidente di quel che si diceva all’inizio, dunque della lontana origine della crisi attuale. Ma ridurre della metà il numero dei parlamentari è misura certamente assai simbolica, che tuttavia avrebbe risultati economici
modesti, e persino qualche effetto negativo. Nell’ultimo decennio è emersa una enorme manomorta politica, alimentata da aumenti ingiustificati e insensati delle indennità corrisposte agli eletti a qualsiasi livello, accompagnati da una ulteriore attribuzione di risorse a singoli e gruppi che nulla ha a che vedere con lo svolgimento dell’attività istituzionale. Questa manomorta deve essere abbattuta, eliminando ogni beneficio aggiuntivo rispetto alle indennità, a loro volta riportate a cifre socialmente accettabili, con un intervento che azzeri gli appelli alle competenze locali.
Questa operazione, però, deve andare al di là del ceto politico in senso stretto. Un’altra deriva degli anni passati è quella che ha portato ad un altrettanto ingiustificato dilatarsi delle retribuzioni nella dirigenza pubblica. Sono molti i dirigenti che hanno compensi persino doppi rispetto all’indennizzo previsto per il Presidente della Repubblica (248.000 euro). Si può polemizzare con Marchionne sottolineando che la sua retribuzione è 415 volte superiore a quella di un operaio Fiat e ignorare del tutto che sperequazioni ancora maggiori vi sono tra dirigenti pubblici e poliziotti in strada o impiegati ministeriali? Interventi in queste direzioni, insieme alla rottura delle cordate di magistrati amministrativi che ormai governano le strutture pubbliche, non garantirebbero soltanto risparmi, ma sarebbero un segnale importante verso un recupero dell’eguaglianza.
Proprio i principi di eguaglianza e di dignità sono all’origine di un’altra tra le proposte che circolano, quella riguardante il reddito di cittadinanza.
Anche qui, tuttavia, bisogna liberarsi delle genericità, evitando di guardare a misure del genere come l’avvio di una fulminea palingenesi sociale. Vi sono ipotesi serie, già trasformate in proposte di legge d’iniziativa popolare, che possono essere subito sottoposte all’attenzione parlamentare, avviando così anche l’indispensabile riordino degli ammortizzatori sociali e sfidando un certo conservatorismo sindacale. È tempo, peraltro, di restituire al mondo sindacale una pienezza democratica per troppi versi perduta, con una legge sulla rappresentanza che davvero può stare in un programma dei cento giorni. Allo stesso modo, ai diritti del lavoro deve essere restituita la loro dimensione costituzionale, abrogando l’articolo 8 del decreto dell’agosto 2011 che permette di stipulare accordi anche in contrasto con le leggi vigenti, ampliando in maniera abnorme il potere imprenditoriale.
Questi esempi vogliono ricordare che un vero governo di programma, capace di abbandonare stereotipi e chiusure d’orizzonte, deve essere esplicito su provvedimenti che riguardino la dimensione sociale, ponendo basi solide per vere politiche del lavoro. Non si tratta di dare un “segnale”, ma di stabilire
le giuste priorità in una situazione che, data la tensione sociale crescente, non può essere affrontata insistendo soltanto su misure istituzionali. Intendiamoci. La tensione è alimentata anche dalle gravi inadeguatezze istituzionali che, di nuovo, ci riportano ai vizi della Seconda Repubblica. Enormi si rivelano oggi le responsabilità di quanti, da troppe parti, hanno impedito la riforma della legge elettorale, invocando la necessità che una nuova legge salvaguardasse bipolarismo e governabilità. Abbiamo visto com’è andata a finire. La riforma elettorale, dunque, è una priorità assoluta, ma pure una buona legge faticherebbe a funzionare se non venissero rimossi gli ostacoli al suo funzionamento, che esigono norme severe sui conflitti d’interesse, riforma del sistema dei mezzi di comunicazione, disciplina davvero severa contro la corruzione, a cominciare dalle norme penali sul falso in bilancio. E nuove norme sulla partecipazione dei cittadini, per riaprire i canali necessari alla comunicazione tra società e politica. Tutte cose che sappiamo a memoria e fin da troppo tempo, e che devono essere prese terribilmente sul serio se si vuol dare una pur minima credibilità ad una prospettiva di governo.
Se questa prospettiva dovrà essere coltivata in primo luogo dal Pd, come buona logica istituzionale vuole, bisognerà considerare un’altra novità politica. Il tracollo dell’Udc, considerata come partner necessario, libera dalla subordinazione alle pretese di questo partito su due questioni chiave: i diritti delle persone e i beni comuni. Il Pd ha ormai l’obbligo di proporre norme finalmente sottratte ai diktat fondamentalisti sulla procreazione assistita, sulle unioni tra persone dello stesso sesso, sulle decisioni di fine vita. E deve dichiarare esplicitamente la sua volontà di seguire la strada indicata dai referendum sull’acqua.
È un compito difficile, una sfida ai conservatorismi e alle incrostazioni che sono il lascito pesantissimo di un ventennio. Un compito, allora, che non può essere affidato ad alcun tecnico. I punti programmatici diventano credibili solo se vengono incarnati da un governo dichiaratamente politico e provveduto di un altissimo tasso di competenze. Solo così può essere ripreso l’impervio cammino della ricostruzione della fiducia nella politica. E, se uno spirito deve essere invocato, forse è quello del discorso sulle quattro libertà pronunciato da Roosevelt all’indomani dell’attacco giapponese a Pearl Harbor. La ricostruzione della Repubblica esige che agli italiani vengano restituite due di quelle libertà: quella dal bisogno e quella dalla paura.

l’Unità 1.3.13
Ma la partita decisiva sarà quella sulle presidenze
Prima della formazione del governo il Parlamento dovrà eleggere i presidenti delle Camere e delle singole Commissioni
Solo allora si capirà se un esecutivo di minoranza sarà davvero possibile
di Ninni Andriolo


La manifestazione «a difesa della democrazia» annunciata da Alfano, dopo la notizia che Berlusconi è indagato a Napoli, suona anche come avvertimento a Bersani che intende proseguire lungo la strada che esclude il governissimo che il Cavaliere considerava già a portata di mano. Solo apparentemente, quindi, la minaccia di ricorrere alla piazza smentisce la preoccupazione per la governabilità e la stabilità del Paese fatta veicolare poche ore prima. Il timore che la governabilità possa prescindere da Arcore agita non poco il leader Pdl che aveva puntato le carte più che sulla sua improbabile vittoria su un ruolo di interdizione da far pesare su un qualunque tavolo di trattativa.
Fin dai contenuti programmatici, però, l’esecutivo di «combattimento» al quale lavora Bersani delimita un campo che non comprende Berlusconi. Nessuna intesa per il governo, quindi. Nessun negoziato preventivo e sotto banco per incassare voti di fiducia. Né con il Movimento 5 Stelle al quale pure guarda l’iniziativa del leader Pd né con il Pdl. Sarà il Parlamento la sede in cui «ciascuno si assumerà le proprie responsabilità». Nella consapevolezza che il sentiero per impedire all’Italia il trauma di nuove elezioni è stretto ma non impossibile. E che il percorso delle larghe intese non è l’unico, né quello obbligato per dare una prospettiva ad un Paese che, tra l’altro, non intende digerire oltremodo «balletti politici» o «inciuci». Una cosa è il governo, quindi. Altra cosa, però, sono le istituzioni, a partire da Camera e Senato.
Massimo D’Alema, escludendo il governissimo, ha proposto ieri che alle presidenze dei due rami del Parlamento vengano eletti esponenti del Movimento 5 Stelle e del Pdl. «Ritengo che le forze politiche maggiori debbano essere tutte coinvolte» sulla base, ovviamente «della proposta di personalità che siano adeguate a ruoli istituzionali di garanzia», ha spiegato il presidente del Copasir. Tra queste personalità, ovviamente, non è contemplato Berlusconi. Il Cavaliere, come è noto, aspira alla presidenza del Senato. Escluso, però, che possa svolgere il ruolo di garante, chi ha puntato a garantire soprattutto se stesso e continua a contrapporre la piazza alle Aule di tribunale. Il tema è altro, quindi. E con questo anche il Pdl si dovrebbe eventualmente misurare.
L’esperienza da non ripetere è quella del 2006, quando l’Unione vinse per il rotto della cuffia, ma non volle cedere nulla all’opposizione, scontando enormi difficoltà nell’azione parlamentare. «Il Parlamento uscito» dal voto del 24-25 febbraio è «un Parlamento a tre punte», ha commentato Giuliano Amato, riferendosi al Centrosinistra, al Movimento 5 Stelle e al Pdl. Assumendosi la responsabilità che spetta a chi pur non avendo vinto «è arrivato primo», Bersani aveva già distinto tra governo e istituzioni, ipotizzando che il Pd possa rinunciare alla presidenza di una delle due Camere.
D’Alema, ieri, ha precisato oltre. Il Pd, che ha ottenuto la maggioranza assoluta a Montecitorio e quella relativa a Palazzo Madama, non avanzerebbe candidature per la seconda e terza carica dello Stato. Ma il Parlamento «dovrà consentire», poi, «che il governo possa funzionare ricevendo il voto di fiducia». Il Pd rinuncerebbe perfino a guidare importanti commissioni parlamentari pur di assicurare al Paese una difficile governabilità. L’elezione dei presidenti avverrà dopo l’insediamento di Camera e Senato. Il voto di fiducia al nuovo governo alla fine di un percorso che comprende le consultazioni del Capo dello Stato, il conferimento dell’incarico, lo scioglimento della riserva, ecc.
È chiaro che un patto siglato alla luce del sole per far decollare la legislatura Parlamento da una parte e governo dall’altra non potrà essere smentito da trappole successive che tradiscano il senso di responsabilità che tutti dovranno dimostrare, né la disponibilità del partito «che è arrivato primo». Una cintura di sicurezza attorno a un esecutivo di «combattimento», che cerca la fiducia in Parlamento e punta sul coinvolgimento istituzionale delle «forze principali» sancite dal voto, quindi. Una reciproca garanzia per evitare al Paese e alle stesse forze politiche (M5S compreso) il trauma di nuove elezioni e per dare le risposte migliori ad una nazione che può dimostrare come ha detto il Capo dello Stato di saper vivere il difficile, ma «fisiologico», passaggio politico determinato dal voto.

l’Unità 1.3.13
La missione possibile di un governo a guida Pd
Si riconosca che l’Italia è troppo grande per fallire, altri sacrifici farebbero crescere solo l’instabilità
di Paolo Leon


ADESSO SI VEDE QUANTO PUÒ ESSERE DIFFICILE FAR POLITICA. LA MERKEL, L’UNIONE EUROPEA, IL FONDO MONETARIO, DOMANIL’OCSE,dopo aver espresso il rammarico per la perduta stabilità di una maggioranza, non se ne assumono alcuna responsabilità: eppure, è la politica dell’austerità, desiderata da tutti costoro, che ci ha portato alla recessione più lunga del dopoguerra, all’impoverimento di larghi strati di popolazione e ad una riduzione del Pil così forte da annullare i benefici del risanamento di Monti.
Il successo di Grillo è, credo, dovuto ai tanti che hanno d’improvviso realizzato di essere precipitati in un pozzo, dal quale nessuno dei partiti tradizionali sembrava capace di farli uscire. Se qualcuno pensa, in queste circostanze, di criticare la gestione di Bersani, sta scherzando col fuoco: l’insuccesso relativo del Pd non gli toglie la responsabilità politica di trovare una soluzione utile. Cambiare i cavalli in corsa implicherebbe soltanto abbandonare il campo. Non penso che dobbiamo temere la reazione del Fondo Monetario, dell’Unione Europea o della Bce. È evidente il tragico errore nel quale sono cadute tutte le autorità internazionali quanto al modo di uscire dalla crisi del 2008 e dalla speculazione avversa ai debiti pubblici: il nazionalismo tedesco e la pervicace ostinazione della cultura liberista anche dopo la crisi, hanno costituito una miscela esplosiva, e se adesso si pensasse di lasciare la soluzione ad un singolo Paese membro, come l’Italia, si finirebbe per moltiplicare il tragico insuccesso greco. Al governo tedesco, e in particolare a Schäuble, occorre anche ricordare che non è meno colpevole il Paese in surplus, rispetto al Paese in deficit, perché il deficit nasce da quel surplus. La storia del mondo moderno illustra bene come sia responsabilità dei Paesi in surplus venire in soccorso di quelli in deficit, non allo scopo di fare un’opera buona, ma per costruire condizioni di sviluppo per tutti i Paesi, come furono il Piano Dawes dopo la prima guerra mondiale e il Piano Marshall dopo la seconda, ambedue a favore della ricostruzione tedesca.
Lo so che non ci crede nessuno, perché si è visto in questo ultimo periodo che l’opinione pubblica dei Paesi in surplus pensa di essere più «ricca» e non desidera impoverirsi: ma, appunto, questa è la cultura dell’egoismo, del nazionalismo, del mercantilismo. Arpagone insegna. Alla fine, però, proprio questo egoismo deve costringere tedeschi ed europei a riconoscere che l’Italia è troppo grande per fallire, e che obbligarla a ulteriori sacrifici ricostruirebbe il circolo vizioso che ha portato noi all’attuale instabilità politica, e porterebbe tutti ad una recessione europea ancora più profonda. Penso, perciò, che esista la possibilità di costruire un rapporto decente con l’Europa, così da permettere almeno alla Bce di respingere la speculazione contro il nostro debito, senza ricorrere al
Fondo Salva Stati (che implicherebbe l’insolvenza dell’Italia).
Se è così, allora vale la pena che il Pd tenti di mettere in piedi un governo di minoranza, non con lo scopo di aggravare l’austerità, ma per instaurare un rapporto tra eguali con l’Unione europea, e per fare quelle riforme elettorali, fiscali e a favore dell’occupazione, che sono indispensabili per ricostruire un rapporto di fiducia con il Paese. Un governo di minoranza farà tremare le vene e i polsi di chi lo dovrà guidare, e le opposizioni che si manifesteranno cercheranno di cavalcarne la debolezza parlamentare. Ma gli italiani capirebbero.

l’Unità 1.3.13
Governo e congresso, la vittoria mancata riapre il dibattito nel Pd
D’Alema risponde alle polemiche: «Il governissimo sarebbe un suicidio»
Finocchiaro: «Non è questione di poltrone»
Orlando: «Serve una sterzata a sinistra verso una maggiore redistribuzione»
Fassina e Orfini per tornare al voto
Fioroni sfida Grillo: non è più un comico, sia responsabile
Veltroni poco convinto da un governo di minoranza
Letta: Renzi sarà la carta del futuro
di Maria Zegarelli


ROMA «Serve una lucidità pazzesca in questo momento. Qui ci giochiamo tutto, noi come Pd e il Paese». Michele Ventura, vicecapogruppo uscente, fuma nervosamente, capannelli di democratici in Transatlantico, l’intervista di Massimo D’Alema al Corriere nella quale si dice pronto a cedere la presidenza di Camera e Senato a Pdl e M5s pur di consentire a Bersani di proporre un governo di centrosinistra, senza maggioranza precostituita a tenere banco. Il governo e il futuro del partito, se si sbaglia sul primo si rischia di disintegrare il secondo.
Bersani mercoledì illustrerà alla direzione la linea: andare in Parlamento con pochi ma incisivi punti programmatici, e chiedere su quelli la fiducia. L’intervista di D’Alema viene letta da qualche dirigente persino come un’apertura al Pdl e, tra questi c’è chi sperava di avere nell’ex premier una sponda per il governissimo. D’Alema nel pomeriggio sgombra definitivamente il campo: «Un governissimo con il Pdl sarebbe un suicidio» ma la polemica a quel punto ha già occupato gran parte della giornata. Anna Finocchiaro su Facebook fa sapere: «Il punto non sono le poltrone, il punto è come si fa a governare un Paese senza aumentare i problemi». «Lo dico con anticipo, io un’alleanza con Berlusconi non la voto», assicura il giovane Emanuele Fiano. Ivan Scalfarotto: «I nostri elettori non capirebbero un accordo un Berlusconi». Duro Pippo Civati: «Ma perché chi non fa più parte dei gruppi parlamentari dà la linea ai gruppi parlamentari?». Bersani di discutere con Berlusconi non ne vuol sentire parlare, né è intenzionato a fare un passo indietro. Nico Stumpo diffonde una nota: «Il Pd è contrario a ogni forma di governissimo». Ipotesi da non prendere «in considerazione. Si sottovaluterebbe, e di molto, il segnale del voto», per il giovane turco Andrea Orlando. Piuttosto, «serve una sterzata a sinistra dal punto di vista della proposta sociale e della redistribuzione». Matteo Orfini e Stefano Fassina preferiscono tornare al voto, nel caso non decolli il governo Bersani. L’incubo dei democratici è quello di compiere un passo falso: sarebbe fatale dopo questa emigrazione di oltre tre milioni di voti. Vorrebbe dire stavolta sì consegnare il Paese a Grillo, o peggio ancora a Berlusconi.
Beppe Fioroni chiama in causa proprio il comico: «È la prima forza del Paese, si assuma le sue responsabilità e di fronte alle proposte che Bersani farà in Parlamento, dica se vuole aiutare a risolvere i problemi del Paese. Non è più un comico, adesso». Ma lo dice con l’amarezza di chi sa che non c’è altra via d’uscita e se potesse ne farebbe a meno. Gianni Cuperlo ha una certezza: «Non voterò mai la fiducia a un governo con il Pdl». Mercoledì si vedrà quanti saranno con il segretario e quanti no. Non sono pochi coloro che preferirebbero il piano «B», il governissimo, guidato da una personalità terza. Tace Walter Veltroni, ma chi ha avuto modo di parlare con l’ex segretario racconta che l’idea di un governo di minoranza non lo convince affatto. Veltroni pensa anche che uno dei primi passaggi istituzionali, cruciali, come la presidenza di Camera e Senato, andrebbe compiuto «collegialmente nel partito». Tra i veltroniani c’è chi rimprovera al segretario, «non aver allargato la segreteria in un momento come questo». C’è anche chi avrebbe voluto le sue dimissioni immediate, «perché se porti un partito al 25% hai fallito».
Piuttosto c’è chi punta a depotenziare e indebolire ulteriormente la leadership per rendere ineludibile il governissimo. Tentativo per ora che sembra frenato da due elementi: le presa di posizione di D’Alema che in serata al Tg1 ha rilanciato la linea Bersani fino a porre un aut aut sulla legislatura: se Grillo non consentirà la fiducia al governo Pd-Sel, si tornerà al voto e l’intervento di Giuliano Amato (uno dei nomi che circolavano come possibile premier) che sul suo blog individua proprio nel segretario Pd l’unico legittimato ad avere l’incarico dal presidente Napolitano.
Come andrà a finire questa partita si vedrà da chi andrà ad occupare le caselle della presidenza di Camera e Senato. Quello sarà il segnale, il resto è tattica. Il gioco di Grillo è chiaro: spingere il Pd verso l’abbraccio mortale con il Pdl. Vannino Chiti è tra quanti sostengono il segretario, «L’Italia ha bisogno di un governo autorevole, che operi per il rilancio dell’economia, la creazione di posti di lavoro, la riforma delle istituzioni, l’approvazione di una nuova legge elettorale, l’abbattimento dei costi della politica».
L’altro fronte aperto è la guerra interna al partito, ormai inarrestabile. Il congresso è fissato in autunno ma è già in atto. Destini personali, destino collettivo, rancori correntizi e voglia di dare una sterzata, di capire quale è la direzione verso cui portare il partito. Chi rimprovera l’abbraccio con Sel e chi la perduta vocazione originaria. I giovani turchi chiedono un rinnovamento profondo, l’archiviazione di tutta la vecchia classe dirigente, i renziani spingono il sindaco ad uscire dal silenzio e farsi avanti. Enrico Letta adesso dice: «Dobbiamo dire la verità: Renzi sicuramente sarà la carta del futuro. E su forme di democrazia diretta e partecipazione bisogna riconoscere che Matteo è moderno e decisamente competitivo con Grillo». Fioroni, che durante le primarie ha dichiarato guerra al suo ex pupillo, ammette: «È una prospettiva interessante per il Pd anche perché è un giovane intelligente e aveva intuito che la rottamazione era l’elemento che contendeva il consenso a Grillo». Il sindaco per ora resta a guardare, osserva ingrossarsi le file di chi, con il famoso senno di poi, sostiene che se ci fosse stato oggi la storia sarebbe altra. Renzi non ci tiene alla segreteria del partito, punta alla guida del Paese. Deve solo aspettare, vedere quanto durerà l’avventura di Bersani e come ne uscirà il Pd, racconta chi lo conosce bene.

l’Unità 1.3.13
Enrico Rossi
La proposta di Bersani è quella giusta, senza ipotesi di serie b
Il Paese rischia la paralisi, c’è bisogno che a Roma si prendano delle decisioni
«Col Pdl nessun accordo Esecutivo di svolta o voto»
Con le nostre riforme sarebbe una rivoluzione
Rispetto il silenzio di Renzi, il punto non è lui
di Vladimiro Frulletti


«Meglio andare ad elezioni anticipate che il tentativo di mettere al posto di Berlusconi una “faccia pulita”, per portare avanti politiche liberiste, che fanno pagare ai lavoratori e alla parte più debole della popolazione il costo della crisi». Così scriveva nel settembre 2011, il presidente della Toscana Enrico Rossi.
Presidente, poi non le hanno dato retta.
«In effetti è andata così. Abbiamo pagato le politiche di rigore non seguite da scelte di giustizia sociale. Il nostro popolo è stato ferito e sui di noi s’è caricata tutta responsabilità dei tagli e dell’austerità che vogliono la Merkel e i conservatori europei e che Monti ha espresso».
Da presidente cosa si auspica dopo questo voto?
«Un governo perché è da un po’ di tempo che siamo senza. La nostra attività versa in una impasse drammatica. I cittadini hanno votato e hanno diritto a un Parlamento che lavora e a un governo che funzioni. Qua rischiamo il blocco dell’intero Paese, l’ingovernabilità a tutti i livelli, non solo nazionale. Abbiamo bisogno a Roma di signori che prendano decisioni e ci rispondano». Invece come dirigente Pd?
«Mi convince molto la proposta di Bersani di un governo di minoranza senza ipotesi di serie b».
Nessuna intesa col Pdl?
«L’ipotesi di governissimo con Berlusconi sarebbe esiziale per noi. Un accordo con Berlusconi si porterebbe dietro tutti i suoi interessi, la sua demagogia antieuropea e magari come frutto avvelenato anche la discussione sulla secessione leghista della macroregione del nord».
Coi 5 Stelle un’intesa sarebbe possibile?
«Con loro si può lavorare. Dopo la proposta di Bersani ci sono state sì le offese di Grillo, ma anche l’appello a non sprecare il voto di Viola, elettrice grillina, che ha già centomila adesioni». Bersani ce la farà?
«Spero di sì. Va apprezzato il suo coraggio che esprime un senso profondo di rispetto delle istituzioni e della democrazia parlamentare. Il voto si rispetta ma ritorna in campo la politica».
In che senso?
«Che c’è spazio per costruire maggioranze e che la po’ po’ di roba che Bersani propone, se andrà avanti sarebbe davvero una rivoluzione».
Perché?
«Perché cambierebbe il Paese intervenendo come propone Bersani sui costi della politica, sulle norme anticorruzione, sul conflitto di interessi, sulla riforma del Parlamento, su una nuova legge elettorale e su un tetto agli stipendi di manager pubblici e privati. Per un Paese come il nostro da anni incartato a causa del ricatto berlusconiano sarebbe davvero una bella sfida perché con queste riforme si potrebbe ricostruire un rapporto di credibilità fra cittadini e istituzioni che è l’unica base per uscire dalla crisi».
Il Pd ha perso o ha «non vinto»?
«Sono state bocciate le politiche rigoriste e questo voto manda un segnale a tutta Europa. La sola austerità che produce tagli e recessione non è più sostenibile perché aumentano le disuguaglianze e la disoccupazione. Stiamo mandando allo sbando un’intera generazione. Alla lunga verrà messa in discussione la stessa esistenza dell’Europa. Il Pd ha pagato per aver sostenuto oltre il giusto queste politiche di rigore. Dopo il decreto SalvaItalia bisognava votare».
La proposta politica di unire i progressisti e allearsi poi coi moderati è stata bocciata dagli elettori.
«Pensavamo che il problema fosse di annacquare il nostro riformismo e non ci siamo accorti che dai cittadini, non solo dai ceti popolari, ma anche dai ceti medi, veniva una domanda di radicalità. Siamo stati poco di sinistra. Non a caso il flop più grande è quello del centro moderato. Anche il centro sociale del Paese chiede scelte radicali. I messaggi degli elettori non sono mai stati chiari come oggi. La sinistra ha ricevuto il messaggio a fare la sua parte con ancora più forza».
Grillo non è più un pericolo?
«Grillo è tante cose assieme, ma quello che conta è che dietro a lui c’è un movimento di persone che esprime voglia di partecipazione civile alla politica. Una spinta che noi non abbiamo intercettato. Non ci siamo nemmeno accorti che ci stava razzolando in casa. Ecco perché non solo ci dobbiamo confrontare con loro ma anche farcene carico». Come?
«Temi come l’acqua pubblica, la tutela del paesaggio, il consumo del suolo, i piani energetici, lo smaltimento dei rifiuti, le forme di partecipazione, i costumi della politica, la moralità sono temi anche nostri. C’è una base comune su cui lavorare. Ma allo stesso tempo dovremmo porre, come dice Bersani il tema di una legge sui partiti per garantirne la democrazia interna. Perché una contraddizione fra partecipazione e autoritarismo dentro quel movimento si porrà e se non la risolvono li porterà a esplodere».
Molti dicono che con Renzi sarebbe andata diversamente.
«Renzi ha fatto la sua partita alle primarie e ha perso, poi con coerenza è stato leale. Come dice un renziano intelligente come Delrio, però, mi sembra un esercizio inutile se non dannoso».
Nel futuro sarà Renzi il candidato del centrosinistra?
«Rispetto il silenzio di Renzi, sono introppi a tirarlo per la giacca da una parte dell’altra. Ora il problema è sostenere la proposta politica di Bersani senza sotterfugi o alternative».
Nel Pd ci sono opinioni diverse, D’Alema o Veltroni...
«Il Pd ha selezionato con le primarie una nuova classe dirigente. Consiglio di far parlare quella con i volti nuovi espressi dalla rivoluzione di Grillo e così sarà più facile raggiungere l’obiettivo di dare al Paese un governo per una politica diversa. Per il resto sui territori ci sono già tante esperienze di cui è tempo che il partito tenga più conto».

l’Unità 1.3.13
Così la rossa Toscana ha trasferito voti ai Cinquestelle
Più del 64% dei consensi raccolti da Grillo a Firenze arriva da elettori del centrosinistra
Ed è il picco di un fenomeno che interessa tutta la regione
di Vu. Fru


Quando quattro anni fa l’avvocato Alfonso Bonafede si presentò alle elezioni comunali di Firenze sembrò un’apparizione destinata a svanire in fretta. Nelle elezioni che decretarono, con oltre centomila voti, l’arrivo a Palazzo Vecchio del futuro rottamatore Matteo Renzi, pochi si accorsero di lui sia fra gli osservatori che fra gli elettori. Bonafede raccolse poco più di 3mila 800 voti, pari al 1,8%. Fra due settimane Bonafede entrerà in Parlamento come capolista toscano alla Camera del Movimento 5Stelle. In questi quattro anni quelle poche migliaia di preferenze sono state moltiplicate per dieci. E oggi a Firenze il movimento che fa capo a Beppe Grillo sfiora i 39mila voti, pari al 18%. Percentuale più bassa rispetto alla media toscana, dove i grillini superano il 24% incassando oltre 530mila voti, ma alimentata in maniera corposa da molti elettori che nel 2008 avevano dato il proprio voto al Pd.
L’Istituto Cattaneo di Bologna andando a vedere la composizione del voto grillino in nove grandi città italiane ha infatti scoperto che nella città di Renzi i 5Stelle sono stati premiati in modo consistente da ex elettori Pd. Fatto cento il voto a Grillo, ben il 58% gli arriva dal Pd. Che è la trasmigrazione più alta rispetto a quella registrata nelle altre città dove si va dal 48% di Bologna al 47% di Ancona al 44% di Napoli, dal 37% di Torino al 32% di Brescia; dal 18% di Catania al 17% di Reggio Calabria. Quindi il principale flusso verso i 5Stelle nelle città del centro e del nord (unica eccezione Padova) e di Napoli arriva dal Pd e fra queste Firenze primeggia. Tanto che per il Cattaneo si può affermare che l’elettorato di Grillo in queste aree proviene dall’area della sinistra. A Firenze ad esempio su 100 voti ai 5Stelle ben 64,1 arrivano dal centrosinistra (cioè Pd, Idv e sinistra cosiddetta radicale), solo 12,5 dal centrodestra e ben 22,1 da chi nel 2008 s’era astenuto.
«È chiaro spiega il professore Piergiorgio Corbetta, uno dei ricercatori del Cattaneo che hanno fatto questa analisi a Firenze il contributo del Pd e del centrosinistra ai 5Stelle è particolarmente sostanzioso proprio perché lì sono più forti numericamente». Un effetto calamita verso gli elettori di sinistra che si registra un po’ in tutta la Toscana. E forse non è solo un elemento simbolico, che a Firenze i grillini strappino le loro perfomance migliori proprio nei quartieri più popolari (Novoli e Isolotto) dove la sinistra è sempre stata molto forte e non nei quartieri bene del centro storico o di Campo di Marte, tradizionalmente più moderati (ed è qui che infatti Monti raccoglie le sue percentuali più alte). «È ovvio che è più facile prendere voti a sinistra che a destra visto che in Toscana la maggior parte degli elettori è di sinistra» osserva Alessandra Bencini, 44 infermiera a Careggi e neosenatrice del Movimento 5Stelle. Lei stessa del resto, prima di Grillo, ha «sempre votato a sinistra»: Ds, Prc, Idv. «La sinistra spiega Bencini ha sempre lottato per il popolo, per far avere una vita decorosa alle classi meno abbienti e il nostro movimento rispecchia questi valori perché per noi nessuno deve rimanere indietro e nessuno deve essere lasciato da solo». Infatti se ci si domanda dove sono finiti i voti presi dal Pd nel 2008, l’Istituto Cattaneo spiega che nelle città del centro-nord sono tornati per circa i due terzi al Pd, ma quelli che mancano sono andati soprattutto ai 5Stelle. A Firenze dei cento elettori che nel 2008 hanno scelto Pd hanno confermato il proprio voto in 75, mentre 22 hanno optato per Grillo, spiccioli agli altri. Un fenomeno che a girare la Toscana si trova un po’ ovunque. A Livorno (27% di media) i grillini esultano per i loro successi nei quartieri popolari (come Shangai, quello di Cristiano Lucarelli, il centravanti che esultava col pugno chiuso e la maglietta del Che o Ovosodo del regista Paolo Virzì). Le stesse zone in cui il Pd ha subito le flessioni più pesanti e dove il Pci non aveva mai avuto rivali. «Noi siamo l’alternativa a chi governa e quindi è ovvio che qui prediamo voti a chi ha sempre governato, cioè il centrosinistra» è la spiegazione di Bonafede che sottolinea cioè la capacità di raccogliere il malcontento dei cittadini. Il che aiuta a capire perché una delle roccaforti grilline (primo partito con oltre il 30%) sia diventata Orbetello, nel grossetano, messa in ginocchio dalla recente alluvione. E perché i 5Stelle siano il primo partito (con percentuali vicine al 30%) a Carrara, patria degli anarchici e dei cavatori, a Massa dove i danni dell’alluvione si sono sommati a una sempre più preoccupante crisi occupazionale e a Viareggio (sia qui che a Massa si vota a maggio per le comunali) e in tanti Comuni della lucchesia, del pistoiese e della Maremma.

il Fatto 1.3.13
Un voto operaio e verde. La mappa del grillismo
L’M5S sfonda nei luoghi di emergenza sociale e ambientale
A Mirafiori, nella Taranto dell’Ilva e nel Sulcis
di Salvatore Cannavò


Quello a Beppe Grillo è considerato spesso un voto di protesta. Ma che tipo di protesta? La definizione è generalmente associata a un voto di opinione contro “la casta” e la politica professionale che, certamente, costituisce una base solida del voto ai Cinque stelle. Ma guardandolo più attentamente si scopre che Grillo raccoglie il voto di alcune specifiche sofferenze, in luoghi dove si sono realizzate delle forti opposizioni sociali. Ad esempio in luoghi simbolici del lavoro oppure in aree con forti conflitti ambientali. La mappa che riproduciamo, lungi dall'essere esaustiva, offre più di un indizio.
INNANZITUTTO, Grillo fa il pieno in Val di Susa tanto da potersi fregiare del titolo di “partito no-Tav”. Nella “capitale”, Susa, arriva al 42%, ma a Venaus, municipio simbolo della lotta della valle, supera il 58% mentre è al 46 a Bussoleno e al 37% nella città più popolosa, Avigliana. Fin qui parliamo di vertenza ambientalista ma il M5S eguaglia il Pd, con il 30,86%, nel quartiere simbolo degli operai torinesi, Mirafiori, ed è il primo partito nella tradizionale cintura “rossa” composta da Nichelino (35), Rivalta (36), Grugliasco (33), Collegno e Settimo Torinese (32).
Sempre per restare sul piano della crisi sociale vanno segnalati anche altri picchi. In particolare quello di Taranto, dove con il 27,7% è il primo partito. Ma nel quartiere di Tamburi, di fianco all'Ilva, raggiunge il 32% mentre nel quartiere operaio Paolo VI picchi del 38%.
Proprio dove la crisi del lavoro si sovrappone a quella ambientale si trovano i risultati migliori. Spostiamoci molto più a ovest, in Sardegna, e scopriamo il 36,39% di Porto Torres dove la crisi del petrolchimico è occupazionale ma attiene anche ai tentativi di impiantare un'industria ecologia molto contestata dagli ambientalisti. Grillo fa il pieno anche nel Sulcis con il 33% di Carbonia e il 31 di Iglesias e comunque si afferma come primo partito in tutta la Sardegna. Ottenendo anche un primato indicativo: il 29,94% e il primo partito a Ghilarza, in provincia di Oristano, sede del centro Gramsci.
LA PRIMA posizione è ottenuta anche nelle Marche con il 32%, regione che prima della crisi vantava una ricchezza diffusa proveniente dal modello sociale “morbido” rappresentato da imprese come Della Valle o Merloni e che ora, secondo la Banca d’Italia, subisce “effetti più incisivi che nel resto del Paese” dalla crisi. Ma nelle Marche si raccoglie anche la diffusa opposizione al progetto autostradale del “quadrilatero” che invece è sostenuto dal Pd. Anche in Sicilia si afferma il binomio crisi sociale e crisi ambientale. Nell'area “a elevato rischio ambientale” di Augusta-Priolo si arriva al 41 e 43% e un picco, anche se minora, viene ottenuto a Gela (31,2). I successi delle liste stellate sembrano sovrapporsi a quelle delle zone più inquinate e dove si sono verificate le principali vertenze: a Vado Ligure, centrale termoelettrica, il 33,4, a Mira, contro la tangenziale di Venezie, il 35%. Lo stesso avviene nel Lazio dove a una media del 26-28% si raggiunge il 34,66% a Civitavecchia, nota per l'opposizione alla Centrale a carbone, il 31,24 ad Albano Laziale, sede di discarica e inceneritore, nella Valle del Sacco, a Colleferro, centrale di inquinamento. Stesso esempio in provincia di Rimini, già sede dei primi successi, dove le percentuali salgono vicino all'inceneritore di Coriano con il 32-34% di Riccione, Coriano e Misano Adriatico.

l’Unità 1.3.13
Grillo, il migliore utilizzatore del Porcellum
di Giovanni Pellegrino


VI È NEI RECENTI RISULTATI ELETTORALI UN DATO CHE FORSE MERITA UN’ATTENZIONE MAGGIORE DI QUELLA CHE L’ANALISI gli ha sino ad ora dedicato: la forte differenza, che M5S ha ottenuto nelle elezioni di Camera e Senato e in quelle dei presidenti e dei consigli regionali in Lombardia, Lazio e Molise.
Infatti, mentre nelle elezioni politiche generali M5S ha conteso sino alla fine al Pd il primo posto alla Camera e al Senato, nelle tre elezioni regionali il candidato di M5S si è classificato sempre terzo, ottenendo in due delle tre Regioni circa la metà dei voti del secondo classificato.
Ovviamente le ragioni per cui ciò è avvenuto sono molteplici e sarebbe forzato ridurle ad una sola; tuttavia è indubbio che un ruolo non secondario abbia avuto la diversità delle regole del confronto elettorale e il modo con cui Grillo è riuscito ad interpretarle.
Il Porcellum ha contribuito alla performance di Grillo, che pure nelle piazze tuonava contro una legge infame colpevole di aver sottratto ai cittadini la possibilità di scegliere i propri rappresentanti.
Con consumata abilità Grillo ne ha utilizzato al massimo la anomalia, impedendo agli elettori estranei alla rete persino di conoscere chi fossero i candidati, per i quali chiedeva il voto, condannandoli al silenzio e ad una situazione di sostanziale invisibilità.
Proclamando che M5S non ha leader, perché nel movimento «ognuno vale uno», Grillo ha voluto darne prova non candidandosi né a Camera, né a Senato; e però ha operato sostanzialmente come candidato unico, leader assoluto di un esercito di invisibili senza voce e senza nemmeno volto.
Né il suo atteggiamento è mutato subito dopo il voto, perché ha rifiutato l’offerta di Bersani in totale solitudine senza consultare la rete, e quindi scopertamente violando la regola asseritamente fondativa di un partito virtuale, di cui Grillo è padre padrone non diversamente da Berlusconi con il suo partito di plastica.
Chi scrive non pensa affatto che Grillo e Berlusconi siano due pagliacci da circo; nutre invece la preoccupata convinzione di essere in presenza di due pericolosi demagoghi, ultimi epigoni di una pessima razza, che ha sempre allignato nel nostro Paese soprattutto nei suoi ricorrenti momenti di difficoltà.
Ovviamente l’approccio personalistico di Grillo non poteva funzionare nelle elezioni regionali di Lombardia, Lazio e Molise, dove i candidati di M5S alla presidenza erano pur costretti dalle regole della competizione a metterci la faccia, mentre i candidati ai tre consigli regionali non potevano sottrarsi ad un minimo di attivismo in una competizione interna, in cui l’ordine della graduatoria è determinato dal numero delle preferenze.
A questo si è aggiunta a danno del Pd una sua antica scarsa attitudine ad ottenere risultati apprezzabili in competizioni elettorali tra liste bloccate. Basterà ricordare che nella vigenza del Mattarellum, in cui un quarto dei deputati veniva eletto dalla competizione tra listini bloccati, Pds e Ds ottenevano sempre risultati inferiori a quelli cui pervenivano contemporaneamente nelle competizioni elettorali rette da regole diverse: collegi uninominali per il Parlamento nazionale e per i consigli provinciali; preferenze per i Consigli regionali e per quelli comunali.
Sembra quasi che permanga nell’elettorato di riferimento una resistenza ad accettare pacchetti preconfezionati; a ciò probabilmente aggiungendosi una scarsa attitudine a confezionare pacchetti attraenti.
Dall’intera riflessione è possibile trarre una conclusione, che guardi al futuro. Se Bersani riuscirà a costituire un governo di minoranza (come è pur possibile con le tecniche che consentirono ad Aldo Moro di presiedere il governo della non sfiducia), tra i pochi punti da inserire nel programma, chi scrive metterebbe al primo posto la riforma elettorale e non all’ultimo, come pur si è letto in questi giorni avventurati.
Si sfidi M5S a dire come modificherebbe il vituperato Porcellum; se rifiuterà ne avremo svelato un primo bluff, rendendo palese che Grillo non intende affatto modificare regole elettorali, che ha saputo utilizzare con astuta efficacia.

il Fatto 1.3.13
Il costituzionalista Giovanni Sartori
“Legge elettorale, poi le urne: così avremo un Parlamento credibile”
di Silvia Truzzi


Epilogo di una lunga conversazione: “Sono turbato da questi eventi, siamo in acque pericolosissime. Abbiamo la reputazione di essere tra i paese più corrotti al mondo, di essere controllati dalla mafia. E lo siamo. Abbiamo una burocrazia mastodontica che non funziona. Per non dire della sciagurata situazione monetaria ed economica. Con queste premesse che facciamo? ”. Il guaio è che il professor Giovanni Sartori, politologo e firma del Corriere della Sera, un libro che s'intitola Mala tempora (Laterza, 2004) l'ha già scritto. Diciamo “malissima” tempora e cominciamo dall'inizio.
Professore, in queste ore si discetta molto sulla questione della fiducia.
A chi? Calma, calma... prima bisogna eleggere i presidenti delle due Camere, poi si affronterà il nodo dell'affidamento del governo. Il presidente della Repubblica avvierà le consultazioni, è materia sua. Certo i numeri sono un problema.
Pare escluso un governo Pdl-Pd, se non altro.
Ne han fatte tante, ma questo sarebbe troppo perfino in Italia.
Nel caos, si è parlato perfino di Amato.
Il bravo Amato è sempre in ballo...
L'ultimo governo Amato è stato nel 2000. E poi il messaggio che è uscito dalle urne è chiaramente di rinnovamento...
Certo, ma teniamo presente che l'interesse di Grillo è andare a votare il prima possibile. Tre mesi, secondo me. Non vuole un capo del governo che abbia potenziale durata.
E Bersani? Aleggiano dimissioni.
Potrebbe anche farlo. Però il Pd, seppur con numeri risicati, ha vinto le elezioni e ha la maggioranza nella Camera bassa. Quindi sarebbe sensato che il Capo dello Stato cercasse un'alternativa da quelle parti. Magari il ragazzotto di Firenze. Ovvio, sono ipotesi. A un certo punto bisognerà arrivare a una sintesi, sennò restiamo senza esecutivo. Quanto duri poi, è un altro discorso.
Lei è favorevole a un'ipotesi di elezioni in autunno?
Anche prima. Sono per un governo, qualsiasi sia, che riesca a trovare un’intesa sulla riforma elettorale. Come ho scritto mille volte sono per il sistema alla francese, doppio turno e semi-presidenzialismo: una legge in cui l'elettore è centrale perché sceglie due volte. Si sono messi d'accordo tutti per non cambiarlo, ma sta volta non possono scappare. La riforma elettorale va fatta. Funzionerebbe e ci darebbe, finalmente, una legislatura piena e credibile. Se non fanno la legge elettorale è tutto inutile.
Quale sarebbe l'effetto del modello francese?
Con lo sbarramento al 10-12 per cento e il doppio turno (passano i primi due), secondo me questo sistema darebbe non pochi problemi al Movimento 5 stelle: difficile che al secondo turno passi un candidato grillino, che magari nessuno conosce. Bersani e Berlusconi hanno mantenuto il Porcellum, che è un sistema vigliacco ma che poteva consentire a uno di stravincere: ora si dovranno rassegnare anche loro.
Riusciranno a fare anche misure come la legge anti-corruzione e il conflitto d'interessi?
Ho letto sul Corriere che ora Massimo D'Alema caldeggia la legge sul conflitto d'interessi. E dire che la bloccò lui! Aveva un patto con Berlusconi, c'era già un disegno di legge perfetto e votato da una Camera. Scelsero la via del blind-trust, una formula stupida e improponibile.
Lei che pensa del leader del Movimento cinque stelle?
È stato formidabile in campagna elettorale. Ha padroneggiato per primo la “retecrazia”, come si dice ora. Bravissimo, davvero: del resto è uomo di scena. Ma le proposte, secondo me, sono quasi tutte sbagliate.
Anche l'abolizione del finanziamento pubblico ai partiti?
I rimborsi elettorali sono stati eccessivi, selvaggi e senza controlli. Però una forma di finanziamento ai partiti ci vuole, sennò rubano.
Novità dell’ultim’ora: l'inchiesta di Napoli sull'ipotesi di compravendita di De Gregorio. Berlusconi, secondo l'accusa, gli avrebbe dato tre milioni di euro.
Prodi non avrebbe mai dovuto fare un governo in cui erano fondamentali i voti dei senatori a vita e imbarcando tutta la sinistra. I governi di coalizioni più sono ristretti, in termini di alleanze, più sono omogenei e quindi stabili. Una nozione che s'impara nelle università, ma che i nostri politici ignorano. Quanto a Berlusconi e alla compravendita bisognerà provarlo. Certo che, se fosse così, paga bene. A me non dispiace mai se Berlusconi ha una grana in più. Ma tanto gli elettori si sono assuefatti agli scandali: non succederà nulla, anche se dovesse esserci una condanna in primo grado. Ormai l'immagine del perseguitato dalla magistratura comunista è consolidata. Ma me lo lasci dire: anche i magistrati, sono diventati un po' troppo esibizionisti.

l’Unità 1.3.13
Il futuro del M5S tra realismo e paranoia
risponde Luigi Cancrini
psichiatra e psicoterapeuta


Insieme Bersani e Grillo potrebbero davvero fare cose importanti, quelle che la sinistra non ha mai potuto realizzare fino in fondo perché costretta a governare con chi, quelle cose, non voleva per interessi personali e di appartenenza. Ora credo che la volontà di cambiare ci sia tutta, le forze che servono pure; si tratta di trovare i modi.
Silvana Stefanelli

In che direzione andrà ora il Movimento 5 Stelle? La Rete, dicono i giornali, si è spaccata dopo che Grillo ha risposto picche alla proposta di Bersani. Con due ipotesi politiche opposte da verificare nei prossimi giorni (o nelle prossime settimane) su quella che è (sarà) la tendenza prevalente del nuovo partito. Volevano davvero la riduzione delle spese per la politica, il dimezzamento dei parlamentari, una nuova legge elettorale, la fine degli inciuci, una legge vera sul conflitto d’interessi, la trasparenza, il blocco delle spese per gli F35 e, più in generale, per gli armamenti e una modificazione profonda del costume politico? La possibilità di ottenere queste cose c’è tutta. Basta chiederle: alla luce del sole, in Parlamento, quando si discutono (e, più tardi, quando si attueranno) i programmi elettorali di un nuovo governo. Rinunciare a questa possibilità porterebbe a rendere più probabile la seconda ipotesi, quella di un movimento che vuole soltanto sfasciare tutto. Pensando non tanto al Paese quanto alla possibilità di crescere ancora lui (il movimento di Grillo) se gli altri falliranno ancora. Dall’interno di un vissuto paranoico in cui si pensa di dover continuare a lottare da soli contro tutti: «per cambiare il mondo», si è lasciato sfuggire ieri Grillo che forse ci crede davvero. Riusciranno i suoi a fargli capire che la paranoia è incompatibile con la razionalità (che ci parla dei limiti di ognuno di noi) e con la democrazia (che è consapevolezza dell’arricchimento che ci può venire dall’altro)?

il Fatto 1.3.13
Perdere vincendo
Le tre lezioni di Machiavelli che il Pd ignora
di Maurizio Viroli


Nel 2012 Berlusconi tornerà probabilmente al potere come primo ministro, o capo effettivo di un governo presieduto da uno dei suoi cortigiani. Non fate gestacci, non imprecate, non svenite: le previsioni politiche sono sempre state e sempre saranno incerte e la mia è condizionata dal pessimismo. Ma in Italia i pessimisti hanno rare volte avuto torto, e le ragioni che sostengono la mia ipotesi sono, purtroppo, solide”. Iniziava così un articolo che ho pubblicato su questo giornale il 30 dicembre 2011, e i fatti hanno dimostrato che sbagliavo di poco. Berlusconi, contro tutti i commentatori politici che lo davano per morto, è ancora al centro della vita politica italiana.
1. Dopo le occasioni perse arriva sempre la penitenza
Ho riesumato lo scritto di più di un anno fa non per la vanagloria di poter proclamare “io ve lo avevo detto”, ma per porre l’ovvia domanda: di chi è la colpa di questo esito, che personalmente reputo disastroso per la vita repubblicana? La risposta, piuttosto ovvia, è che la responsabilità del trionfo inatteso di Berlusconi sta tutta sulle spalle di chi ha scelto di non votare nel gennaio o febbraio, al più tardi, del 2012. “Ma come si faceva a votare allora, con i mercati impazziti e il rischio di bancarotta? ” immagino controbatteranno i critici della mia tesi (ammesso che qualcuno legga l’articolo). Rispondo che resta da dimostrare se davvero la scelta di andare subito al voto quando Berlusconi era vulnerabile avrebbe provocato la catastrofe economica da tanti paventata. Aggiungo che in politica fra un male incerto (la catastrofe finanziaria) e un bene certo (infliggere una sconfitta irreparabile a Berlusconi) saggezza consiglia di scegliere il bene certo sul male incerto, anche perché con un Berlusconi così forte il pericolo di tornare alla situazione della fine del 2011 incombe di nuovo. Non aver votato allora può dunque essere causa di due mali: Berlusconi e la perdita di credibilità internazionale con quel che segue.
In politica le occasioni sono rare e dietro all’occasione persa – ricordava Machiavelli – viene la penitenza: “Dimmi: chi è colei che teco viene? / È Penitenzia; e però nota e intendi: / chi non sa prender me, costei ritiene. / E tu, mentre parlando il tempo spendi, /occupato da molti pensier vani, / già non t’avvedi, lasso! e non comprendi / com’io ti son fuggita tra le mani”.
2. Gli uomini si devono vezzeggiare o spegnere
E visto che ci siamo, e che cade quest’anno il V centenario della scrittura del Principe, uso ancora le parole di Machiavelli per discutere il secondo grave errore di chi dovrebbe essere l’argine contro Berlusconi. Gli uomini, scriveva Machiavelli, “si debbono o vezzeggiare o spegnere”, vale a dire che un avversario politico pericoloso o lo distruggi completamente o lo accontenti, ma mai e poi mai lo offendi e gli lasci il modo e il tempo di vendicarsi. Proprio questo, invece, hanno fatto gli antagonisti di Berlusconi, Pd in testa: lo hanno tolto, d’intesa con il capo dello Stato, dal governo e poi hanno con lui sostenuto per un anno il governo Monti. In questo modo gli hanno dato la possibilità di rafforzarsi mentre loro si indebolivano. Non capivano che il tempo non giocava a favore loro ma a favore di Berlusconi. Col passare dei mesi gli elettori hanno infatti dimenticato il malgoverno di Berlusconi e dei suoi servi e ricordano invece i sacrifici imposti da Monti.
Terzo errore grave del Pd è di non aver saputo o voluto esprimere una posizione di intransigenza assoluta nei riguardi di Berlusconi, dove intransigenza vuol dire rifiuto categorico di qualsivoglia forma di collaborazione – compreso il comune sostegno al governo Monti – e la dichiarata volontà, una volta al governo, di abrogare tutte le leggi vergogna, approvare una legge seria sul conflitto di interessi, affrontare la crisi economica con misure eque ed essere avversari irriducibili della corruzione. E invece il Pd è caduto in un altro degli errori che Machiavelli rimproverava ai politici di buone intenzioni, ma di scarsa prudenza, vale a dire scegliere le “vie di mezzo”, ovvero posizioni che scontentano tutti e non ti permettono di guadagnare un sostegno convinto. Prova ne sia che chi ha voluto esprimere un voto di condanna intransigente di Berlusconi e della degenerazione dei partiti ha votato per Grillo, mentre chi pensa di trarre vantaggio dal malgoverno o dalla corruzione, o chi si lascia ingannare dalle facili promesse, ha continuato a votare Berlusconi. Il Pd è rimasto non al centro, ma nel mezzo, in un vero e proprio limbo politico, a scontare la pena di non aver saputo cogliere un’ occasione che chissà se e quando si ripresenterà.
3. Le vie di mezzo sono quasi sempre dannose
Se non ci fosse di mezzo la dignità della Repubblica e di milioni di persone per bene, soprattutto di giovani, ci sarebbe da ridere di fronte al paradosso di uomini – probi e responsabili – che sono dei politici di professione, e come tali sono riconosciuti, che hanno commesso errori da principianti. E allora ricominciamo dai fondamenti: lezione n. 1: “non si possono lasciar passare le occasioni di vincere, quando si presentano”; lezione n. 2: “gli uomini vanno vezzeggiati o spenti’; lezione n. 3: “le vie di mezzo sono quasi sempre dannose”. Speriamo valgano per il futuro, ma ne dubito.

Repubblica 1.3.13
Michele Serra

Quando si dice che questo voto stravolgerà tutto e tutti, si dice davvero: tutto e tutti. Comprese le Cinque Stelle, che in poche convulse mosse, in pochi difficili giorni saranno costrette a capire molto della propria natura e del proprio futuro. Capire in primo luogo se sono in grado di inverare il loro mito fondante, quello della democrazia autoconvocata, oppure se devono figurare come una docile armata compattamente a disposizione del suo capo e creatore. In poche parole: come si prendono le decisioni, là dentro? Decidono solo Grillo e Casalegno? Decidono — o decideranno — gli eletti? Esistono o esisteranno forme e luoghi di decisione collettiva, sia pure in qualche arcana forma webbica? Ove decidesse solo Grillo, neanche il Pcus funzionava così, e il “nuovo” prenderebbe sembianze ben sinistre. Con i voti, milioni di voti, usati come fiches nelle mani di un giocatore di poker. Si guarda a quel potente grumo di pulsioni politiche e sociali con giustificata ansia, e un misto di diffidenza, interesse, paura, speranza. Il timore è che la gente di quel movimento confonda ogni parola esterna con un’intrusione, ogni contatto con una contaminazione. Il mito della purezza perde anche i migliori.

Repubblica 1.3.13
Tyssen
Quanto pesa quella colpa
di Luciano Gallino


LA PENA comminata a chi viene riconosciuto colpevole di un reato in base al codice è intesa svolgere funzioni sociali di grande importanza.
PUNIRE in misura adeguata l’autore del reato; esercitare una forte misura di dissuasione nei confronti di chiunque fosse tentato di commettere azioni analoghe; mostrare a chi da quel reato ha ricevuto danno che giustizia è stata fatta. Nel caso Thyssen, in che misura tali funzioni paiono essere state assolte dalla sentenza di appello?
Da un punto di vista strettamente giuridico, è evidente che per dare una risposta bisogna attendere le motivazioni della sentenza. E soltanto un giurista potrà farlo in forma appropriata. Tuttavia nel caso Thyssen vi sono migliaia di persone che cercano subito una risposta, a cominciare dai parenti delle vittime, e dal modo in cui la formulano dipendono sia il tasso di fiducia che ripongono nella magistratura, sia i comportamenti che terranno nelle materie toccate dalla sentenza.
Il pm Raffaele Guariniello sostiene che, seppure con una notevole riduzione di pena rispetto al primo grado di giudizio, la sentenza risulta di una durezza quale di rado si è vista in Italia, ed è difficile non convenire con lui su questo punto. Innumerevoli incidenti sul lavoro, nel passato, hanno dato origine a sentenze sostanzialmente più miti dell’appello di Torino. D’ora innanzi sarà questa sentenza a fare giurisprudenza. Per cui, può dirsi che con la seconda sentenza di Torino rispetto alla prassi vigente un tangibile progresso è comunque stato compiuto nella difesa della salute sui luoghi di lavoro.
La questione sembra tuttavia presentarsi in una luce un po’ diversa se si guarda, da un lato, alla percezione della sentenza che possono aver avuto i familiari delle vittime e i loro compagni, che stanno in tutta Italia e non solo a Torino; e, da un altro lato, alla sua efficacia dissuasiva nei confronti di dirigenti d’azienda e imprenditori.
È chiaro che non spetta a chi ha subito un danno valutare e men che mai determinare l’entità della pena da infliggere al colpevole. Ma coloro che avevano accolto con soddisfazione la pesante sentenza di primo grado, sorretta da un formidabile impianto delle motivazioni – 508 pagine di inusitata levatura tecnica, oltre che giuridica – non possono non essere negativamente colpiti dalla riduzione delle pene principali di oltre un terzo per tutti i principali imputati, a partire dall’ad Herald Espenhahn. Né possono a meno di chiedersi quali novità siano intervenute nel frattempo per giustificare una simile riduzione.
In realtà non sembra esservi stata alcuna dirimente scoperta investigativa. Né la riduzione della pena appare dovuta a circostanze attenuanti o altre causali prima non applicate: la si deve soltanto alla derubricazione del reato da omicidio volontario a omicidio colposo. In primo grado la Corte aveva applicato l’art. 575 del c.p., il quale recita seccamente “Chiunque cagiona la morte di un uomo è punito con la reclusione non inferiore a tot anni”. La sentenza d’appello si riferisce invece a chi “cagiona per colpa la morte di una persona” e prevede pene che partono da pochi mesi di reclusione. Sotto questo aspetto, c’è quasi da stupirsi che le pene comminate agli imputati siano rimaste così elevate, sia per l’ad che per gli altri dirigenti.
Ma qui entra in scena la funzione dissuasiva della pena, che la sentenza d’appello – è giocoforza concludere – appare avere sostanzialmente mitigato. Un conto è temere di venire accusati di aver cagionato la morte di un uomo. È un’accusa terribile. Assai meno pesante è l’accusa di avere concorso a cagionare una morte per colpa, ossia per un atto qualsiasi di omissione o violazione di norme. È la derubricazione della motivazione dell’accusa nell’appello del caso Thyssen, più ancora che l’alleggerimento delle pene, che induce a riflettere sulle conseguenze che essa potrebbe avere nel comportamento quotidiano di chi, a qualunque titolo, è responsabile della sicurezza sui luoghi di lavoro.

l’Unità 1.3.13
Blocco degli stipendi per 3 milioni di statali
Una bozza di decreto congela le retribuzioni fino a tutto il 2014
Il ministero dell’Economia precisa «che nulla è stato deciso», ma i sindacati insorgono: i lavoratori pubblici hanno già dato
di Massimo Franchi


ROMA L’ennesimo colpo di coda del governo Monti. Dopo aver penalizzato i lavoratori dell’agricoltura con la circolare Fornero che dava il via libera ai voucher a pochi giorni dalle elezioni, ieri è arrivata la notizia del blocco dello stipendio per gli oltre 3 milioni di lavoratori pubblici fino al 31 dicembre 2014. Il provvedimento è contenuto nella bozza di un decreto del presidente della Repubblica (Dpr) di soli tre articoli e tre pagine in cui si prevede la proroga del congelamento delle retribuzioni e lo stop alle procedure per il nuovo contratto («non si dà luogo si legge alle procedure contrattuali e negoziali negli anni 2013-2014»). Si blocca inoltre la cosiddetta «vacanza contrattuale», l’aumento automatico dello stipendio in caso di mancato rinnovo del contratto. In questo modo il potere d’acquisto dei lavoratori pubblici, già in sofferenza, sarà in balia dell’inflazione per ben quattro anni e non recupererà praticamente nulla.
In serata il ministero dell’Economia ha precisato «che nulla è stato ancora deciso», ma non ha smentito la volontà di emanare a breve il decreto. Mentre dal ministero della Pubblica amministrazione, l’altro proponente il provvedimento, sostengono di non essere a conoscenza di alcun testo in materia.
IL PARERE DELLE COMMISSIONI
Il governo Monti aveva già deciso l’estensione del blocco nella prima versione della Spending review. Ma le pressioni dei sindacati lo avevano fatto desistere. Rimaneva però valida la possibilità per il governo di emanare in qualsiasi momento un decreto ministeriale per estendere il blocco: una “facoltà” prevista dalla penultima finanziaria dell’esecutivo Berlusconi-Tremonti che nel luglio 2011 istituiva il blocco degli stipendi a tutto il 2013. In realtà la bozza di decreto era stata preparata dai tecnici del ministero dell’Economia e delle Finanze già quattro mesi fa. Ma il provvedimento non è stato emanato. A dicembre, dopo le dimissioni di Mario Monti, la bozza è tornata a circolare tanto da spingere il responsabile del settore pubblico della Cgil Michele Gentile a dare l’altolà, per la semplice ragione che un esecutivo dimissionario non può adottare un provvedimento così importante.
L’impressione è quindi che il governo non possa emanare il decreto perché nello testo stesso si prevedono «i pareri delle competenti commissioni della Camera e del Senato»: le commissioni non ci sono e probabilmente perché si costituiscano ci vorranno mesi. Il governo tuttavia non smentisce l’esistenza del provvedimento forse per dare a Bruxelles il segnale che è ancora intenzionato a ridurre la spesa pubblica, bloccando una grande fonte di uscite come quella per il rinnovo dei contratti dei lavoratori pubblici.
I SINDACATI: IL GOVERNO SI FERMI
Smentita o no l’ipotesi di un’ulteriore blocco delle retribuzioni è stata accolta in malo modo dai sindacati. «Sarebbe davvero inopportuno un decreto approvato dal governo Monti a urne chiuse, una forzatura ai danni dei lavoratori delle pubbliche amministrazioni ha attaccato il segretario generale della Fp Cgil Rossana Dettori Non credo che l’esecutivo uscente possa permettersi di prendere scelte politiche così importanti proprio in questi giorni. Credo che fin quando il quadro politico non sarà più chiaro - continua Dettori - in una fase di instabilità come quella attuale il governo non possa procedere, soprattutto in assenza di un confronto con i lavoratori e con un tavolo ancora aperto all’Aran». Sulla stessa lunghezza d’onda i i segretari generali Fp e Scuola della Cisl, Giovanni Faverin e Francesco Scrima «le retribuzioni sono ferme dal 2010, mentre la spesa pubblica continua a crescere» e quelli della Uil Scuola, Massimo Di Menna e dell’Ugl Francesco Prudenzano.
A proposito di retribuzioni, ieri l’Istat ha diffuso i dati relativi a quelle nelle grandi imprese: nel 2012 a fronte di costo della vita aumentato del 3%, le buste paga sono cresciute meno della metà attestandosi a +1,2%. Quanto all’occupazione, sempre nelle aziende con più di 500 addetti, nel 2012 è calata dello 0,9% rispetto al 2011.

il Fatto 1.3.13
Edoardo Agnelli, torna il mistero
Per il giudice il figlio scomparso dell’Avvocato “non fu adeguatamente tutelato”
di Marco Franchi


La morte di Edoardo Agnelli, trovato cadavere il 15 novembre 2000 sotto un viadotto dell’autostrada Torino-Savona, resta ancora oscura. Che si sia trattato di suicidio (versione accreditata dalla famiglia e dall’inchiesta giudiziaria della Procura di Mondovì) o di omicidio, infatti, il rampollo dell’Avvocato non fu sufficientemente tutelato. Almeno per il giudice di Torino Maria Sterpos che il 21 dicembre del 2012 ha assolto Marco Bava, un piccolo azionista Fiat, dall’accusa di diffamazione per le frasi dette in un’assemblea del gruppo nel 2008.
BAVA ha sempre sostenuto che Edoardo Agnelli fosse stato ucciso a causa di un suo scomodo ruolo negli equilibri di potere interni alla Fiat. "Ritengo responsabile per omessa vigilanza - aveva detto Bava - anche la sicurezza Fiat che non solo allora non ha protetto sufficientemente Edoardo Agnelli". Parole che gli erano costate la denuncia. Ma nelle motivazioni della sentenza di assoluzione il giudice scrive nero su bianco: “E’ chiaro che se qualcuno si era assunto il compito di tutelare Edoardo Agnelli, non lo ha svolto in modo adeguato, sia che egli sia stato ucciso sia che si sia suicidato”.
Bava viene accusato di essere stato “inopportuno e fuori luogo” nel fare riferimento alla “triste vicenda”, ma si fa presente che, nonostante le conclusioni dell’inchiesta giudiziaria, “sono stati sollevati da molti i dubbi sulle circostanze della morte del figlio dell’Avvocato”. Secondo il giudice, quelle fatte da Bava in assemblea sono state allusioni generiche sulle responsabilità. “tanto generiche che non possono ritenersi di per se stesse sufficienti a diffamare la Fiat nel suo complesso”. Nella sentenza vengono inoltre ricordati i legami personali fra Bava e Edoardo, “di cui era amico in vita” e “la conoscenza che l’imputato avrebbe avuto tramite lui anche di altri membri della famiglia e di alti dirigenti Fiat come Cesare Romiti”.
Ieri è arrivata la replica dell'avvocato di parte civile Giovanni Anfora: “Non ci furono – ha sottolineato il legale - carenze o errori del servizio di sicurezza Fiat nella vicenda di Edoardo Agnelli”, tanto che la magistratura, dopo gli accertamenti sulla morte del figlio dell'avvocato Gianni Agnelli, “aveva escluso qualsiasi rilievo o osservazione”. Ma quegli atti processuali “evidentemente non sono stati ben compresi o adeguatamente valutati” dal tribunale di Torino nella sentenza con cui ha assolto un piccolo azionista dall'accusa di diffamazione. Anfora ricorda che per l'imputato la procura aveva chiesto sei mesi di carcere, e annuncia ricorso contro “l'ingiusta e iniqua sentenza di assoluzione”. E aggiunge: “Non è vero che la sentenza del tribunale di Torino abbia proposto dubbi sulle circostanze del decesso di Edoardo Agnelli, come si desume agevolmente dalla lettura del provvedimento. Si deve evidenziare con definitiva chiarezza che su tale evento è intervenuta più volte la magistratura che ha ripetutamente escluso le fantasiose quanto indimostrate illazioni su fantomatici quanto improbabili complotti. Si tratta - aggiunge il legale - di teorie avanzate soltanto da avventurieri autoreferenziali in caccia di improbabile notorietà o vantaggi economici”. L'azionista, Marco Bava, doveva rispondere di "oltre venti fatti di diffamazione" e, sottolinea Anfora, "nella sentenza è affermato che ha complessivamente pronunciato parole di oggettiva portata offensiva”. Ecco perché Fiat proporrà l’impugnazione.

il Fatto 1.3.13
Il teologo Leonardo Boff
“Ratzinger non era all’altezza. Vatileaks, il colpo finale”
Come prefetto del Sant’Uffizio, scrisse una lettera in cui chiedeva ai vescovi di impedire che i preti pedofili venissero portati davanti ai tribunali
di Alessandro Oppes


“Una grande pena. Pena e compassione”. Nel lungo ragionamento, a tratti molto duro, di Leonardo Boff sulla figura del Papa che da ieri sera non è più Papa, queste sono forse le parole di maggiore vicinanza e comprensione. Pena per l'implicita ammissione di un fallimento, compassione per la figura di un pontefice che ha dovuto gettare la spugna di fronte all'enormità di una missione costellata di ostacoli insormontabili, in un ambiente diventato ormai irrespirabile. Dell'uomo che un tempo gli fu amico, il grande teologo brasiliano ricorda ancora che è “una persona estremamente gentile, estremamente cortese, estremamente timida, estremamente intelligente”. Così, senza tralasciare neppure un superlativo. Nonostante tutto, pur se di mezzo, e dopo una frequentazione proficua durata cinque anni in Germania, ci fu quel famoso processo sommario: il Ratzinger che, una volta nominato cardinale di Curia e assurto alla guida del’'ex-Sant’Uffizio, nel 1984 convoca Boff in Vaticano e lo condanna al “silenzio ossequioso” per zittire la voce scomoda della Teologia della liberazione, di cui era rappresentante di punta. “Da allora, non ci siamo più visti. Io non ho mai conservato rancore nè risentimento, perché ho capito la logica che determinava quella decisione, pur non essendo d'accordo. Il suo sospetto era che la nostra visione teologica fosse il cavallo di Troia attraverso il quale il marxismo si faceva strada nella Chiesa. Questa era la sua idea. Ma so che ancora oggi, quando parla di me, si esprime in termini persino affettuosi. Mi definisce come ‘il teologo pio’”
Leonardo Boff, oggi 75enne, risponde alle domande del Fatto Quotidiano al telefono dalla sua casa di Jardim Araras, una riserva ecologica alla periferia di Petropolis, l’antica città imperiale brasiliana che fu residenza dei Bragança, a poco più di un'ora di distanza da Rio de Janeiro.
Un gesto rivoluzionario, o semplicemente umano, quello di Benedetto XVI che abbandona la cattedra di Pietro?
Un chiaro gesto d'impotenza, in parte dovuto all'età, in parte alla gravità dei crimini nei quali l’istituzione ecclesiastica si è vista immersa nel corso di questi ultimi anni. Scandali sessuali, sete di denaro, pedofilia.
Il vero Spirito Santo, di questi tempi, si chiama Vatileaks. Di fronte a questa situazione, il Papa è stato colto da una profonda depressione.
Una fuga dalle responsabilità?
No, è qualcos'altro: è un Papa che demitizza la figura del Papa, che si riconosce umano come tutti gli altri umani. C'è tutta una papolatria che è stata coltivata troppo a lungo, soprattutto per interessi interni alla gerarchia vaticana. Lui, con un gesto inedito e in questo senso da lodare, è stato capace di distinguere tra la persona del Papa, che può essere malata, o sentirsi per qualche motivo debole, e la funzione del Papa, che è quella di governare la Chiesa.
Non è rimasto sorpreso da questa decisione?
No, posso dire che me l’aspettavo. Joseph Ratzinger è uomo troppo sensibile e timido, incapace di maneggiare i conflitti. Ad un certo punto ha capito di avere a che fare con una sorta di governo parallelo gestito dal cardinale Tarcisio Bertone.
In sostanza, pensa che non sia stato all'altezza delle circostanze?
Non solo non è stato all’altezza delle sfide, ma ha anche commesso una serie di errori molto gravi. Prima con i musulmani, con quell'infelice discorso all'università di Ratisbona che provocò violente reazioni nel mondo islamico.
Poi con gli ebrei, urtandone la sensibilità. Poi con i levebvriani, annullando la scomunica del vescovo Williamson, negatore dell'Olocausto. Ha fatto della Chiesa un'istituzione machista e reazionaria, che ha mantenuto un rapporto estremamente negativo con le donne, con gli omosessuali, che non ha saputo affrontare i temi della morale sessuale.
Si è molto polemizzato intorno ai silenzi e i ritardi del Papa sugli scandali di pedofilia.
L'origine della questione risale all'epoca in cui era ancora cardinale: come prefetto dell'ex Sant'Uffizio, scrisse una lettera in cui chiedeva ai vescovi di impedire che i preti pedofili venissero portati davanti ai tribunali. Poi, da Papa, quando cominciavano a emergere le prove del coinvolgimento non solo di sacerdoti ma anche di vescovi e cardinali in quelle pratiche, si è dovuto ricredere, ha cominciato a prendere decisioni per bloccare il fenomeno. Ma non sarà mai possibile dimenticare che si è reso complice di quei crimini.
Nella sua ultima intervista, il cardinale Carlo Maria Martini disse che la Chiesa è rimasta in ritardo di almeno duecento anni. Condivide questa valutazione?
Io andrei ancora più in là, parlando non di 200 ma almeno di 500 anni e anche più. Dall'epoca della Riforma la Chiesa ha un atteggiamento negativo nei confronti del mondo, chiamando la democrazia come delirio moderno. É rimasta afferrata al tempo medioevale. Questo Papa, ancor più che i suoi predecessori, ha recuperato quella vecchia tesi secondo cui fuori della Chiesa non c'è salvezza.

il Fatto 1.3.13
Ultime dall’Europa: la crisi taglia il sangue alla Grecia
La Svizzera riduce le forniture
Atene non riesce a pagare trasporto e conservazione
di Roberta Zunini


È proprio il caso di dire che i greci stanno finendo dissangua-ti. Dopo i tagli degli stipendi, delle pensioni, degli ammortizzatori sociali, delle medicine, migliaia di greci affetti dalla forma più grave di anemia mediterranea, la talassemia, dovranno abituarsi al taglio delle scorte di sangue, vitale per la loro sopravvivenza. Insomma è vero, le sventure non arrivano mai da sole. Nonostante gli aiuti finanziari della troika internazionale, in cambio di misure d'austerità draconiane in ambito sociale, il sistema sanitario greco non pare sul punto di riprendersi dal collasso. Gli aiuti in realtà sono serviti a salvare soprattutto le banche, più che gli ospedali in gravissima sofferenza e di conseguenza i malati. Ne è una prova lampante la drammatica ammissione di Rudolf Schwabe, il direttore del servizio trasfusioni della Croce Rossa elvetica.
130 mila sacche l’anno per i malati di talassemia
Schwabe, dopo la fuga di notizie apparse sulla stampa locale, ha dovuto ammettere che l'offerta di sangue di donatori svizzeri alla Grecia verrà tagliata perché il paese non è riuscito a pagare in tempo, finendo per accumulare debiti per alcuni milioni di franchi svizzeri. Mentre una tranche di donazioni veniva pagata, nel frattempo se ne accumulava un'altra. Per questo la Croce Rossa ha deciso di dimezzare la spedizioni di sangue alla Grecia nei prossimi anni.
Il sangue svizzero inviato alla Grecia proviene dalle scorte inutilizzate ed è indicato per uso umanitario. In passato, la CRS ha chiesto alla Grecia 5 milioni di franchi svizzeri ($ 5,4 milioni) per coprire la fornitura di 28.000 sacche di sangue all'anno. Ciò che viene addebitato al paese ricevente non è il sangue, che viene donato gratuitamente, ma il costo della conservazione e del trasporto. Il sangue svizzero spedito in Grecia aiuta a soddisfare la domanda dei malati di talassemia del paese. Si stima che circa 3.000 su 10 milioni di persone soffra della forma più grave di questa malattia genetica, nota anche come anemia mediterranea. Queste persone per vivere hanno bisogno di trasfusioni regolari, pari a circa 130.000 sacche all'anno. "Ecco perché abbiamo avuto lunghi colloqui con il Ministero della Sanità greco" avrebbe spiegato Schwabe. La Croce Rossa elvetica ha assicurato che non cesserà le spedizioni di colpo ma le ridurrà gradualmente fino ad arrivare a 14.000 sacche all'anno entro il 2020, ma al tempo stesso aiuterà la Grecia a sviluppare il proprio sistema di donazione di sangue. "In questo modo non ci sarà alcun problema umanitario”, ha ribadito il responsabile elvetico. Un funzionario del Ministero della Salute greco, ha invece dato un'altra versione dei fatti, che però sembra più che altro un tentativo di salvare la faccia. Ha sostenuto che la Grecia ha sempre pagato le spese e che la riduzione delle importazioni fa parte di un piano per aumentare le donazioni nazionali, che attualmente ammontano a circa 670.000 sacche all'anno.
Il collasso della sanità pubblica
“Non si capisce per quale motivo il ministero della Salute abbia deciso di spingere i greci a donare il sangue proprio quando molti greci iniziano a soffrire di malnutrizione, asma e malattie del passato, tornate a colpire i cittadini non più in grado di alimentarsi, riscaldarsi e curarsi in modo appropriato”, spiega un medico di un ospedale di Atene che vuole mantenere l'anonimato perché cura illegalmente i malati disoccupati. In Grecia dopo un anno circa di disoccupazione, e quindi di mancato versamento delle tasse prelevate dalla busta paga, non si ha più diritto alla sanità pubblica e pertanto non è più possibile ricorrere alle cure ospedaliere né al medico di base. Sta al buon cuore dei sanitari assicurare le cure almeno di pronto soccorso. “Abbiamo ormai molti greci che vengono a curarsi nei nostri ambulatori – spiega Anna Mailli, una pediatra volontaria dell'associazione “Medici del mondo” con sede al Pireo – perché sono disoccupa-ti o non ce la fanno con gli stipendi ridotti all'osso e, vi posso assicurare, che non avrebbero i requisiti per donare il sangue. La salute di molti greci è peggiorata sensibilmente a causa della crisi”.

Corriere 1.3.13
Accordo con la Croce rossa svizzera
Atene in crisi taglia anche sul sangue
di Danilo Taino


La notizia fa naturalmente correre brividi lungo la spina dorsale: la Croce Rossa Svizzera manderà in Grecia sempre meno sangue per trasfusioni. Per ragioni economiche: Atene le deve circa quattro milioni di euro — relativi a spese di organizzazione, packaging e trasporto, dal momento che il plasma è gratuito e viene da donatori — e fatica a saldare il conto. La notizia, però, è meno clamorosa (e più interessante) di quanto non appaia a prima vista. La scelta, infatti, non è unilaterale ma concordata.
Due mesi fa, il servizio elvetico per le trasfusioni ha firmato un contratto con il ministero della Sanità di Atene sulla base del quale dimezzerà, tra il 2015 e il 2020, le forniture: dagli attuali 28 mila sacchetti di sangue a 14 mila. In compenso aiuterà le autorità greche a migliorare l'organizzazione della raccolta locale tra i donatori, attraverso training e tecnologie. Il capo del servizio di trasfusioni elvetico, Rudolf Schwabe, ha assicurato che «non ci sarà un problema umanitario». Da Atene, le autorità confermano che il nuovo contratto fa parte di un programma di miglioramento della raccolta domestica di sangue. La crisi finanziaria e la profonda recessione in atto hanno messo in ginocchio il sistema sanitario greco. Da almeno due anni, molte case farmaceutiche internazionali hanno tagliato i rifornimenti al Paese perché non venivano pagate oppure erano costrette a vendere i farmaci sotto costo. Negli ospedali e nelle farmacie c'è penuria di medicinali e di strumentazione. Una situazione gravissima che pesa soprattutto sui più poveri. L'accordo stretto con la Svizzera è però un approccio nuovo — certo non piacevole ma forse efficace — che i greci cercano di seguire per rispondere alle loro esigenze non necessariamente contando solo sul denaro e sugli aiuti. Secondo le autorità, spazio per trovare nuovi donatori c'è, anche in un Paese con circa tremila persone che soffrono di talassemia (anemia mediterranea) e hanno bisogno di regolari trasfusioni. Razionalizzare quando si tratta della vita delle persone non è facile: in molti casi, di fronte al dramma, i greci stanno però dimostrando grandi capacità di resistenza.

Corriere 1.3.13
Nazismo e comunismo: le scandalose idee di Nolte
risponde Sergio Romano


Anni orsono, all'Università Cattolica di Milano ho assistito a un convegno in cui partecipava il prof. Ernst Nolte: un uomo di levatura morale e intellettuale superiore. Lo scorso gennaio Nolte ha compiuto novant'anni. Un suo ricordo sarebbe un messaggio lusinghiero per Nolte e per i suoi amici.
Guido Vestuti

Caro Vestuti,
I n questi ultimi anni le acque degli studi sulle ideologie totalitarie del XX secolo si sono alquanto calmate. Ma vi è stato un lungo momento, fra gli anni Ottanta e Novanta, quando Nolte fu il più discusso e contestato degli storici tedeschi. Nel 1963 aveva pubblicato la sua tesi di laurea, apparsa in italiano con il titolo Il fascismo nel suo tempo, ed era stato molto lodato per la chiarezza con cui aveva confrontato tre movimenti — l'Action Française, il fascismo e il nazismo — che appartenevano a una stessa famiglia. Ma negli anni seguenti Nolte allargò i suoi studi al fenomeno comunista e sostenne che tra il regime di Stalin e quello di Hitler esisteva una inquietante analogia e che il primo era per molti aspetti all'origine del secondo. Il comunismo voleva cambiare il mondo e riteneva che la realizzazione del suo sogno dipendesse dalla fermezza con cui il sistema sovietico avrebbe soppresso senza pietà i nemici di classe. Il nazismo contrappose all'internazionalismo comunista una sorta di nazionalismo genetico e sostenne a sua volta che l'opera sarebbe stata compiuta soltanto se il regime fosse riuscito a espungere dal corpo della nazione il «nemico di razza». Fra il gulag e il lager, quindi, vi era un rapporto di causa ed effetto. La tesi era più filosofica che strettamente storica ed era talvolta affermata da Nolte con una certa secchezza logica. Ma era molto interessante e meritava d'essere dibattuta. Vi fu effettivamente un lungo dibattito, soprattutto sulle pagine della Frankfurter Allgemeine Zeitung, che venne chiamato «historiker streit» (la disputa degli storici) in cui Nolte dovette battersi contro parecchi avversari. I suoi critici affermarono che le sue tesi avrebbero avuto l'effetto di giustificare il nazismo, di attenuare il sentimento di colpa della nazione tedesca e di ritardare quel processo di auto-purificazione in cui la Germania avrebbe dovuto impegnare totalmente se stessa. Per molto tempo le idee di Nolte trovarono migliore accoglienza in Italia, dove venne spesso per partecipare a incontri e convegni, che nella sua patria.
Qualche settimana fa mi ha scritto per dirmi che al compimento dei novant'anni avrebbe deposto la penna. Ma più recentemente ho ricevuto una interpretazione filosofica del nazionalsocialismo scritta da Massimo De Angelis (Adolf Hitler, una emozione incarnata, Edizioni Rubbettino) per cui Nolte ha scritto una interessante prefazione. Come dicono gli americani dei grandi generali, le personalità molto combattive non muoiono: svaniscono con grande gradualità e lentezza lasciando a lungo una traccia della loro presenza.

Corriere 1.3.13
L'israeliano e il palestinese: vite scambiate alla nascita
La regista: favola su due popoli, credo nell'utopia
di Giuseppina Manin


Cosa succede se di colpo scopri che tuo padre non è più tuo padre? Se quella che credevi tua madre è in realtà la madre di un altro? E tu stesso non sai più chi sei, nemmeno se sei ebreo o palestinese come avevi sempre creduto… Tutto perché 18 anni prima, nel panico di un bombardamento su Haifa, qualcuno in un ospedale ha confuso due bebè riconsegnandoli nelle braccia «sbagliate». E così il palestinese Joseph è cresciuto con genitori israeliani a Tel Aviv e l'ebreo Yacine è finito in Cisgiordania con papà e mamma arabi. Tutti serenamente ignari, fino a quando un test medico non butta ogni cosa all'aria: il sangue di Joseph è incompatibile con quello della sua famiglia. Un enigma clinico che nasconde una dura verità: quei due giovani, per sbadataggine del destino, si sono scambiati le vite.
Scandito con la grazia leggera di una favola e l'implacabile geometria di un apologo illuminista, Il figlio dell'altra di Lorraine Lévy, dal 14 marzo nei cinema, racconta una piccola storia che si fa emblema di una situazione drammatica e attuale: la difficile convivenza di due popoli fratelli e nemici. «Quella di Israele ma non solo — suggerisce la regista, ebrea nata e cresciuta in Francia —. Come Joseph e Yacine, tutti noi siamo bloccati dentro dei cliché, impermeabili a intendere l'altro. Che ci somiglia più di quanto immaginiamo persino quando sta sul fronte opposto».
Arrivare a riconoscersi nel suo sguardo non è facile. L'equivoco biologico dei figli scambiati dilania i cuori, manda a pezzi certezze, scompiglia equilibri. «Ma mentre i padri, arroccati nelle loro convinzioni contrapposte, faticano a muovere qualsiasi passo verso l'altro, le madri stabiliscono un patto di alleanza carnale. Perché il figlio dell'una è anche figlio dell'altra. E ciascuna si ritrova con due figli e ogni figlio con due madri. Una moltiplicazione di affetti, di legami, di punti di vista».
Quanto ai ragazzi, la strada per loro sarà meno aspra perché meno contaminata dall'odio. Joseph, il più fragile e scontroso, riconoscerà presto nel più solido e intraprendente Yacine un fratello vero. A cui poter porre la domanda cruciale: visto che nessuno di noi sa più chi è, potendo scegliere chi vorresti essere? E l'altro ridendo: James Bond. Ma poi più serio gli farà notare: «Siamo come Isaac e Israel, i due figli di Abramo».
«Il mio non è un film politico ma di speranza. Qualcuno mi ha rimproverato una certa ingenuità ma un artista deve poter sognare e credere nell'utopia. Uno scrittore come Amos Oz è stato per me un faro nella notte. E un piccolo miracolo è successo durante le riprese. A parte il nucleo francese, la mia troupe era in gran parte composta da israeliani, arabi e palestinesi. All'inizio un grande bordello, alla fine una squadra formidabile. Abbiamo girato nei posti più difficili, davanti al Muro, nei territori occupati. Se c'era un problema con la polizia d'Israele erano gli israeliani della troupe a negoziare, e così i palestinesi con i loro. L'unione è stata la nostra forza. La prova che un incontro è sempre possibile. Che nel corso della vita possiamo rinascere molte volte. E diventare alla fine un'altra persona, un essere più completo».

Corriere 1.3.13
Vita dell'eterno Don Chisciotte sognatore sempre ingannato
Personaggio universale che aiuta tutti noi a capirci meglio
di Cesare Segre


Don Chisciotte è uno dei non moltissimi personaggi delle letterature moderne che s'è imposto universalmente. Non per la sua vicenda, che non è poi straordinaria, ma perché ha qualcosa di archetipico, aiuta tutti noi a capirci meglio. Il cavaliere della Mancia è pazzo, perché crede di vivere ancora nel mondo dei romanzi, tra sfide e duelli, salvataggio di damigelle indifese e fama gloriosa; ma per il resto è persona di alti sentimenti, quasi un maestro. È dunque una delle molte vittime che fa la letteratura, quando non si è capaci di distinguerla dalla realtà (tra i discendenti più famosi di don Chisciotte c'è Madame Bovary). Il romanzo a lui intitolato è uscito in due parti, nel 1605 e nel 1615, ma si può dire che il «tipo» di don Chisciotte è già disegnato perfettamente nella prima. Anziano e scalcagnato, il protagonista si fa armare cavaliere in una comica cerimonia, e cerca avventure degne dei leggendari cavalieri erranti. Siccome non sa leggere la realtà, ogni volta viene sconfitto e ridicolizzato. Ma intanto gira per la Mancia, e tutto si nobilita ai suoi occhi: le locande diventano castelli, le prostitute sono principesse, i mulini a vento giganti. E, eroe della libertà, scioglie le catene di un gruppo di galeotti in marcia verso la prigione. Il bello è che moltissime delle persone che incontra sono, anche se meno gravemente di lui, malate di letteratura, e altre svolgono acuti ragionamenti sulla loro arte prediletta: così il viaggio finisce per essere una rassegna delle idee letterarie dell'epoca. Don Chisciotte si è poi preso come scudiero un contadino ignorante e sentenzioso, Sancio, che in linea di principio smonta con il buon senso le fantasticherie del padrone, ma lentamente è attratto nel gioco e diventa una caricatura dello stesso don Chisciotte.
Il don Chisciotte della seconda parte è concepito da Cervantes in modo molto diverso, anche per mortificare un mistificatore, Avellaneda, che lo aveva anticipato con una seconda parte apocrifa. Il don Chisciotte autentico sa di essere ormai un personaggio, data la diffusione straordinaria che ha avuto la prima parte del romanzo. Si muove con passo sicuro, e sente in chi incontra l'ammirazione nei suoi riguardi. Però, nello stesso tempo, la sua inventiva si è esaurita, e sono gli altri che cercano di stimolarla. Così, mentre nella prima parte è don Chisciotte che cerca di trasformare la realtà secondo i suoi sogni, nella seconda si sente obbligato ad accettare e motivare a posteriori le trasformazioni apportate dai suoi interlocutori. I quali, onorandolo e coccolandolo, in realtà fanno di lui uno zimbello, quasi un buffone di corte.
Un'occasione per rileggere questo secondo, meno noto, don Chisciotte ce la dà l'uscita di una nuova traduzione del capolavoro, fondata sulla più attendibile ricostruzione critica del testo (Miguel de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia, a cura di Francisco Rico, traduzioni di Angelo Valastro Canale, testo spagnolo a fronte a cura di F. Rico, Bompiani, pp. CXXIV-2162, € 30).
Per cogliere il diverso clima della seconda parte del romanzo, basta una lettura dei capp. XXXIV-XXXV. Vi si narra una macchinazione dei duchi di cui don Chisciotte è ospite. Essa ha come punto focale quella Dulcinea del Toboso che don Chisciotte ha trasformato nella propria dama, anche se è una rozza contadina appena incontrata, e forse nemmeno incontrata. Poiché don Chisciotte è convinto che Dulcinea sia vittima di un incantesimo, i duchi, instancabili nel progettare nuove avventure a don Chisciotte, fanno apparire nella foresta, dove la corte è impegnata in una caccia, nientemeno che il diavolo, accompagnato da musiche d'effetto. E poi, su un grande carro, il mago Merlino, il quale annuncia che per la libertà di Dulcinea è necessario che Sancio si frusti tremilatrecento volte «ambedue le chiappe».
E qui si possono notare almeno due cose. Anzitutto che sono stati messi in moto una grossa macchina teatrale, un gruppo di musicanti e complessi effetti speciali, per ottenere la fine, sempre fittizia, dell'incantesimo di una contadinella. E poi che il gusto dei nobili duchi scopre la sua volgarità di fondo nel prendere come bersaglio quel poveraccio di Sancio e le sue natiche. Questa volgarità ha già trovato un primo appagamento quando Sancio, fuggendo da un cinghiale, si arrampica su una quercia e rimane appeso a testa in giù ad un ramo, suscitando la grassa ilarità dei presenti.
Se nella prima parte don Chisciotte si ingannava, nella seconda viene ingannato, e la parabola da pazzia trasfiguratrice a pazzia organizzata, eteronoma, segue l'arco narrativo costituito dallo sviluppo fra prima e seconda parte. Ciò rende più complesso il rapporto fra realtà e follia e invenzione, in un gioco di specchi esasperatamente letterario. Il mondo che ora don Chisciotte attraversa è molto più ricco e variegato di quanto lo stesso don Chisciotte immaginasse, ma è anche tale da produrre una serie crescente di scacchi, come la sconfitta in duello da parte di un cavaliere più finto di lui, o la rovinosa caduta nel fango dopo che un'orda di porci lo ha travolto con Sancio. Don Chisciotte è diventato un personaggio tragico, e, prima di dichiararsi risanato e pentito, e dunque vinto, sul letto di morte, esclama, come un mistico: «io sono nato per vivere morendo».

l’Unità 1.3.13
Arte e terapia
Se lo psicoterapeuta sale sul palcoscenico


Curiosa proposta al Sinergy Art Studio di Roma (via di Porta Labicana 27) dove oggi comincia un ciclo di incontri di arteterapia a ingresso libero di cui è regista, psicoterapeuta e attore Giovanni Porta. Sei gli incontri in tutto fino a maggio che mirano a esorcizzare le paure interiori e i blocchi sotto i riflettori. Perché il teatro? Perché, spiega Porta, è il luogo perfetto dove darsi finalmente il permesso di sbagliare. Info su www.giovanniporta.it