domenica 3 marzo 2013

l’Unità 3.3.13Grillo sogna l’inciucio Pd-Pdl
Bersani: non lo farò mai
Corruzione e partiti, il leader Pd va avanti
La legge sulla moralità al primo posto del programma
Sfida a Grillo sulla riforma della politica: insieme finanziamento, democrazia e trasparenza
Mercoledì in Direzione Bersani presenterà il suo programma e al primo posto ci sarà l’anti-corruzione
Poi sfida Grillo sulla riforma dei partiti: discutiamo insieme di finanziamento, democrazia e trasparenza
Il segretario Pd al lavoro sugli otto punti del programma del «governo di scopo»
«Non farò mai un governo, di qualunque natura, fondato sulla alleanza tra noi e il Pdl»
di Simone Collini

Punto numero uno: norme anticorruzione. E poi una legge sui partiti che affronti i temi della democrazia interna, della trasparenza, della partecipazione. Pier Luigi Bersani tira dritto sulla linea annunciata all’indomani del voto, insiste nei colloqui che ha in queste ore che il Pd non sosterrà un governo insieme al Pdl «mai, in nessuna forma» e inizia a mettere nero su bianco gli otto punti attorno a cui, dovesse ricevere l’incarico da Giorgio Napolitano, intende costruire un governo di scopo e chiedere la fiducia delle Camere. Mercoledì, alla Direzione del Pd, chiederà un voto mettendo sul piatto le otto leggi da approvare in tempi rapidi per realizzare quel «cambiamento» che in tanti si limitano soltanto ad evocare a parole. A cominciare da Beppe Grillo.
Proprio per sfidare il leader del Movimento 5 Stelle, già all’indomani della Direzione Pd Bersani farà pubblicare sul sito web del partito il testo delle otto proposte di legge, che a quel punto servirebbero da base per una discussione pubblica tra sostenitori ed eletti dei diversi partiti. Il documento in otto punti, su cui Bersani conta di incassare il via libera mercoledì per poi compiere da una posizione di forza i passi successivi, a cominciare dalle consultazioni al Quirinale, fa riferimento all’Europa (dall’austerità alle misure per la crescita), a una legge sull’anticorruzione, al conflitto d’interessi, al dimezzamento del numero dei parlamentari, alla riduzione dei costi della politica, a un nuovo sistema elettorale, a norme per l’occupazione e alla green economy. Proposte su cui il Pd intende poi avviare anche una mobilitazione, sfidando Grillo a confrontarsi sul merito delle questioni.
Non è casuale che il primo provvedimento di legge che sarà annunciato da Bersani riguarda proprio l’anticorruzione. Per due motivi. Da un lato, Grillo dovrebbe giustificare il no a un governo che intenda approvare in tempi rapidi una legge di questo tipo. Dall’altro, è proprio la legge sull’anticorruzione approvata dall’esecutivo Monti che dimostra che non è più pensabile di andare avanti con un governo sostenuto dai voti di Pd e Pdl, che su questioni fondamentali sono attestate su posizioni antitetiche. Se si vuole un vero cambiamento, sostiene Bersani, non è possibile proseguire o riprodurre, mutatis mutandis, l’esperienza appena vissuta con il governo tecnico. Il leader del Pd sa, anche perché tra democratici e M5S sono stati aperti dei canali di comunicazione, che Grillo farà di tutto perché nasca un nuovo governo sostenuto dalla famosa «strana maggioranza». Ma Bersani mette in chiaro che per quanto lo riguarda «mai nascerà un governo sostenuto da Pd e Pdl, quale che sia la forma proposta». E sfida Grillo sul suo stesso terreno: «Non m’impressiona, ho le spalle abbastanza solide per sopportar tutte le battute e gli insulti. Gli pongo una sola questione, che si chiama democrazia. Io voglio fare una legge sui partiti e sono pronto a discutere del finanziamento ai partiti dice il leader Pd in un’intervista a “Presa diretta” che va in onda stasera però Grillo spieghi, quando facciamo la legge sui partiti, com’è la trasparenza e la partecipazione, come si eleggono gli organismi dirigenti, com’è il codice etico per le candidature».
Bersani intende insomma andare avanti in questa strategia che è comunque una sfida a Grillo e che renderebbe complicato, per i parlamentari M5S, dire no a un governo che voglia approvare leggi invocate da loro stessi. Nel Pd però non tutti condividono la strategia del segretario. Walter Veltroni ha rilasciato un’intervista al “Corriere della Sera” in cui sostiene che «l’unica strada è un governo nato dall’iniziativa del presidente della Repubblica, che senza una maggioranza precostituita vada in Parlamento a cercare il consenso su un programma di riforme». E anche Matteo Renzi ha espresso delle perplessità sulla linea del segretario.
Bersani, in Direzione, spiegherà perché un governo di scopo guidato dal Pd è l’unica soluzione possibile in questa situazione e perché senza la rappresentanza parlamentare democratica non possa avvenire nulla di alternativo. E alla fine chiederà un voto. Bisognerà vedere che atteggiamento manterrà, mercoledì, chi contesta la strategia del segretario. Stando alle voci della vigilia non ci dovrebbero essere fratture e Bersani potrà incassare, magari con qualche assenza al momento delle votazioni che si farà notare, un via libera per proseguire su questa strada.
Una volta realizzata la precondizione per proseguire, Bersani potrà andare alle consultazioni al Colle auspicando di ottenere l’incarico. Il leader del Pd sa, perché ha avuto con lui un colloquio telefonico martedì, che Giorgio Napolitano non vede di buon occhio mosse azzardate e auspica invece proposte che assicurino la governabilità. Però Bersani è determinato ad andare avanti, convinto com’è che alternative al governo di scopo non ci sono.

La Stampa 3.3.13
E Bersani adesso tiene pronto un piano B
Andare a elezioni a giugno, se il Movimento Cinque Stelle non ci starà
di Fabio Martini
qui

La Stampa 3.3.13
Le consultazioni informali e le due opzioni in campo
Un esecutivo di minoranza o un governo “di scopo”
di Antonella Rampino
qui

il Fatto 3.3.13
Napolitano frena Bersani. Si prepara un governino
La fine è (quasi) nota
di Antonio Padellaro

Tutto si può dire di Grillo, ma non che abbia lasciato il pur minimo dubbio su ciò che farà, anzi che non farà il Movimento 5 Stelle in Parlamento. Lui dice: non daremo la fiducia a nessun governo, non faremo accordi sottobanco con il Pd e meno che mai parteciperemo al mercato delle vacche spartendo poltrone e prebende. Voteremo esclusivamente le leggi del nostro programma. E chi non vuole capirlo è un fallito, uno stalker e ha la faccia come il culo. Del resto, entro sei mesi questi partiti saranno finiti, la maggioranza degli italiani sarà con noi e, finalmente, potremo governare da soli. Amen.
Berlusconi è quello che è, ma non è tipo da nascondersi dietro le parole. Che voglia al più presto un voto bis è così evidente che ha già prenotato una manifestazione di piazza per il 23 marzo. Il suo calcolo è semplice: se sono riuscito in poche settimane a recuperare una barca di voti, con qualche mese a disposizione posso puntare alla vittoria piena anche perché delusi dalla sinistra parolaia e dal grillismo lunare, gli italiani torneranno in massa da me. Il flop di Monti è sotto gli occhi di tutti, ma anche il Professore, par di capire, ha un progettino per restare a galla. Basta leggere i giornali amici che parlano di congelare il premier poiché visto che un governo nuovo non si riesce a fare allora teniamoci quello vecchio.
Perfino nel Pd, dove come al solito siamo al tutti contro tutti, già si guarda al voto che sarà. Quando Bersani sfida Grillo sul finanziamento dei partiti, sembra portarsi avanti col lavoro, esattamente come Renzi, che propone di rinunciare ai rimborsi elettorali da destinare all'emergenza case (ma guarda un po’). In attesa che Napolitano decida come mettere in piedi uno straccio di esecutivo, che duri il tempo per fare una nuova legge elettorale (impresa niente affatto semplice), sarebbe interessante sapere cosa ne pensano di tutto ciò i cittadini italiani. Soltanto una settimana fa pensavano di votare chi avrebbe comunque provato ad affrontare una crisi che ha già prodotto tre milioni di disoccupati. Soltanto una settimana dopo si ritrovano con un Parlamento che è un cubo di Rubik. L'altra sera, in televisione, c’era un disoccupato del Sulcis che gridava: “Dopo Grillo c’è il sangue”. Ecco.

il Fatto 3.3.13
L’industria della paura
di Marco Travaglio

Ho trascorso qualche ora in rete a leggere i commenti ai nostri ultimi articoli. E, pur non avendo mai mitizzato il “popolo del web”, mi sono un po’ spaventato. Non per il caos creativo uscito dalle urne, che contiene pericoli ma anche grandi opportunità per chi vuole raccogliere la sfida di incanalare questa rabbia positiva verso un vero cambiamento. Ma per la paura di cambiare che vedo in molti lettori, compresi paradossalmente quelli che han votato per cambiare. C’è chi continua a ripetere la frottola della rimonta di B. e addirittura ad attribuirla alla famosa puntata di Servizio Pubblico, come se il centrodestra avesse preso il 29% dei voti perché B. ha spolverato una sedia. Fermo restando che nessun programma ha mai detto in faccia a B. tutto quel che gli abbiamo detto noi (rivedere la puntata, prego), la venuta di B. da Santoro non ha gli ha portato voti: l’unico balzo in avanti (2-3 punti) s’è registrato dopo la promessa di restituire l’Imu. Un mese prima del voto l’Unità pubblicò un sondaggio che dava il Pdl al 20% e i suoi alleati all’8, staccati di 10 punti da Pd-Sel. È la conferma che non è stato B. a recuperare, ma il centrosinistra a franare con la campagna elettorale più suicida della storia. Una campagna che abbiamo criticato subito, quando c’era ancora tempo per raddrizzarla, ovviamente inascoltati. Altri accusano il Fatto di aver sottratto al centrosinistra i 2 punti di Ingroia: ma sarebbe bastato accettare l’apparentamento con Rc per evitare il quasi-pareggio incamerando quei 2 punti preziosi (che sarebbero stati di più se il centrosinistra non avesse demonizzato Ingroia e Di Pietro, regalando altri voti a Grillo). Altri ancora ci attribuiscono il successo di Grillo, e verrebbe quasi da dire: magari un piccolo giornale fosse capace di tanto! In realtà M5S è una marea che monta spontaneamente e irresistibilmente da sei anni, e il nostro unico torto è stato di notarla e segnalarla a chi fingeva di non vederla o, peggio, non la vedeva proprio. Chi ci legge ogni giorno sa bene che abbiamo elogiato molti aspetti di M5S perché coincidono con le nostre idee, e ne abbiamo criticati altri che ci paiono assurdi e sbagliati. Tralascio le dietrologie canagliesche di chi insinua inesistenti rapporti societari fra Casaleggio e uno dei nostri azionisti, Chiarelettere. Il tutto per non ammettere che, come ai tempi degli inciuci del centrosinistra con B. e al momento della nascita del governo Monti, leggiamo la politica con occhi liberi e vediamo le cose un po’ prima di altri, con buona pace di chi tenta di iscriverci d’ufficio a questo o quel partito, non riuscendo a immaginare un’oasi di informazione indipendente da tutto e da tutti. Ma non dalla memoria della storia recente. Che, a volerla ricordare , ha molto da insegnarci. Il vuoto politico uscito dalle urne deve spaventare gli eterni gattopardi dei partiti, dei giornalisti e delle clientele aggreppiate e assistite. Ma non può spaventare le menti libere. È una sfida appassionante, l’ultima occasione per costringere la politica e quindi la società a rigenerarsi dalle fondamenta. Non grazie ai Vaffa di Grillo, che appartengono alla pars destruens. Ma grazie ai milioni di cittadini che hanno votato 5 Stelle e ai pochi che hanno scelto Rc, ma anche a molti elettori del Pd, di Sel e perfino a qualcuno che ha votato Monti, o il fu Giannino, o la Meloni. E che oggi, messi intorno a un tavolo, si ritroverebbero subito d’accordo su un programma di governo che tolga i soldi pubblici a partiti, giornali, imprese, opere inutili, banche, guerre, scuole e cliniche private, e faccia pagare la crisi ai ladri, agli evasori, ai corrotti, ai parassiti e ai mafiosi anziché agli onesti. Se non nascerà domani, questo governo arriverà magari fra qualche mese, dopo un altro passaggio elettorale. Ma solo se continueremo a chiederlo con parole e menti aperte al nuovo. Senza farci spaventare da chi, sulla paura, campa da una vita.

il Fatto 3.3.13
Il Colle ha già pronto un governo del Presidente
Napolitano chiede misura, realismo e responsabilità
Il Pd vuole tentare la sfida, ma i numeri non gli bastano
di Eduardo Di Blasi

Gli elettori si sono espressi con il proprio voto giusto domenica e lunedì scorsi. Eppure nella settimana che doveva aprire le porte alla diciassettesima legislatura, la campagna elettorale non è finita. Pare anzi che partiti e movimenti siano pronti, da subito, a condurne un’altra (alcuni anche tra le proprie file).
In questa drôle de guerre, guerra farsa in cui non c’è voto a decidere (il capo dello Stato non ha in questa fase la facoltà di sciogliere le Camere, ma neanche il suo successore, si immagina, manderebbe il Paese al voto con questa legge elettorale), ognuno dei contendenti mantiene la propria posizione iniziale. Se Beppe Grillo continua a tenere sotto schiaffo Pd e Sel, e Silvio Berlusconi si avvia alla consueta campagna anti-giudici che “vogliono cambiare l’esito (elettorale ndr.) nelle aule dei tribunali”, Pier Luigi Bersani e Nichi Vendola tengono aperta l’unica strada politica che li porterebbe al governo.
SONO LE TELECAMERE di Presadiretta, il programma di Riccardo Iacona in onda oggi nella prima serata di RaiTre, a restituirci la linea del centrosinistra. Bersani tira dritto e si fa coraggio con Vasco Rossi: “Grillo e il M5S cosa pensano? Fin qui hanno detto ‘tutti a casa’. Adesso sono nella casa anche loro. Quindi adesso o dicono ‘tutti a casa’ ma compreso loro, o dicono come vogliono ristrutturare la casa. Mi insulteranno tutti i giorni, non faccio una piega. Io faccio come dice Vasco Rossi: corri e fottitene dell’orgoglio”. La canzone del rocker di Zocca si chiama per l’appunto “Giocala”.
La linea, anche se assai complessa da realizzare, è chiara. Aprire al movimento di Grillo per consegnargli, nel caso, la responsabilità di non aver voluto fare nulla per il Paese. In questo quadro Bersani non può far altro che rilanciare: “Io voglio fare una legge sui partiti e sono pronto a discutere del finanziamento ai partiti. Adesso si può e dico a Grillo: finanziamento ok, però tu adesso mi spieghi quando facciamo la legge sui partiti, com’è la trasparenza e la partecipazione, come si eleggono gli organismi dirigenti, com’è il codice etico per le candidature. Facciamo questa sfida, perché parliamo di democrazia, che è un bene indivisibile, non ci può essere l’uomo solo al comando”. Convinto di aver raggiunto un risultato storico con la sinistra prima forza sia alla Camera che al Senato, ma lontanissima dalla maggioranza a Palazzo Madama, Bersani deve però fare i conti con il Quirinale, che teme l’avventura prospettata dal leader Pd.
È infatti Giorgio Napolitano, di ritorno dal viaggio di Stato in Germania, a chiarire, ancora una volta, che le carte le distribuisce lui. In una nota dell’ora di pranzo il presidente della Repubblica, preso atto delle tante proposte emerse sui media nazionali (buon ultima quella di Walter Veltroni che in contrasto con la segreteria del partito, suggeriva un “governo del presidente” aperto anche al Pdl), chiarisce: “Mi permetto di raccomandare a qualsiasi soggetto politico misura, realismo, senso di responsabilità anche in questi giorni dedicati a riflessioni preparatorie”. E ammonisce: “Abbiamo tutti il dovere di salvaguardare l’interesse generale e l’immagine internazionale del Paese, evitando premature categoriche determinazioni di parte”.
Le parole chiave sono le prime tre: misura, realismo e senso della responsabilità. E sembrano dirette primariamente proprio al leader del Pd, che la “responsabilità” già se la caricò sulle spalle all’epoca in cui, novembre 2011, invece di andare verso le urne, aprì la strada al governo tecnico di Mario Monti. Le condizioni politiche, allora, erano diverse. Il Pd, si osserva negli ambienti democratici più prossimi al segretario, non aveva all’epoca la maggioranza di una Camera. Sarà questo l’elemento che Bersani farà pesare nei colloqui al Colle, dove poi si presenteranno, però, anche gli altri attori politici, Beppe Grillo in primis.
L’UNICO suggerimento, a Bersani, arriva dall’alleato Vendola, sempre per il tramite di Presadiretta: “Proponi una squadra di governo di altissimo profilo. Sarebbe sbagliato acconciarsi a vivere questo passaggio secondo una logica di sopravvivenza, come se volessimo aggrapparci per resistere. Questo è un passaggio importante, è un punto di cesura netto rispetto alla storia che abbiamo conosciuto. E ci sono dei rischi gravi: ma c’è un potenziale straordinario in questo passaggio”. Parla di ripristino del decoro istituzionale, dei tanti giovani e delle tante donne elette in Parlamento. C’è solo un problema. Se il Movimento Cinque Stelle non vota la fiducia al Senato, la fiducia non c’è.
Tra le ipotesi fantasiose si aggira anche quella di conservare Monti premier fino alla prossima tornata elettorale. Anche questo, però, richiederebbe un voto d’aula e una fiducia. Dietro l’angolo si materializza sempre più il governo del Presidente.

Corriere 3.3.13
Nel richiamo (irritato) il no a un esecutivo che nasca «di minoranza»
di Marzio Breda


L'idea del governo di scopo «La politica ha bisogno di silenzi e, a volte, di zone d'ombra». Viene spontaneo pensare a questo precetto della Prima Repubblica tramandato da Cossiga, ragionando sulla «raccomandazione» che Giorgio Napolitano ha rivolto ieri a «tutti i soggetti politici», ai quali chiede «misura, realismo, senso di responsabilità». Zone d'ombra a parte (il cosiddetto «indicibile», di cui non si sente davvero bisogno quando la società pretende trasparenza), un po' di silenzio sarebbe davvero opportuno, oggi, dato il marasma aperto dalla fase postelettorale. Il capo dello Stato se ne è convinto al ritorno dal viaggio in Germania, dopo aver letto la rassegna stampa degli ultimi giorni e verificato il florilegio di «ipotesi disparate sulle soluzioni da perseguire». Insomma: è stato detto e scritto di tutto, con molte sgangheratezze, nelle «riflessioni» su come gestire i risultati del voto. Con il risultato che i cittadini e i partiti sono frastornati da un groviglio di ipotesi e congetture impraticabili.
Un marasma che, tra l'altro, chiama in causa lo stesso presidente su almeno tre fronti. Nei quali non si tiene conto delle sue prerogative e di ciò che prevede la Costituzione: 1) si continua a ignorare che spetta a lui, e a lui solo, avviare la nuova fase politica, scegliendo in piena autonomia, al termine delle consultazioni, a chi affidare l'incarico per formare il governo; 2) qualcuno, ispirato da spirito millenarista e con l'ansia di continuare la campagna elettorale, insiste affinché il Quirinale sciolga subito le Camere: possibilità esclusa dal ripristino di un "semestre bianco" che priva di tale facoltà i capi dello Stato in scadenza; 3) altri non smettono di imbarazzare Napolitano con la proposta di una prosecuzione "a tempo" del suo mandato al Quirinale, cosa che in termini costituzionali non esiste, perché il mandato è pieno e dura sette anni.
Non basta. Nella convulsione di queste ore, si rincorrono ipotesi che già il buonsenso dovrebbe escludere, vista la proibitiva situazione italiana. Tanto per capirci, quella di un esecutivo di minoranza messo in piedi da un "vincitore perdente" — così è stato definito il Pd di Bersani — che senza una fiducia preventiva va allo sbaraglio in Parlamento, contrattando di volta in volta l'appoggio su singole leggi. Viene da domandarsi: quale orizzonte e saldezza avrebbe un simile scenario, per uno come Napolitano che segnala l'urgenza di «governare il Paese»?
Allo stesso modo, sembra logico il suo invito a «evitare premature e categoriche determinazioni di parte». Infatti, data la logorante babele di voci che rimbalzano sui mass media, sarebbe forse meglio, per i partiti, tacere un po' di più. Prudentemente. Perché già domani — pare il retropensiero del presidente — ci si potrebbe pentire di alcuni compromettenti ultimatum, blandizie, provocazioni o rifiuti. Meglio quindi impegnare i prossimi giorni in un'analisi approfondita sul significato del voto, è il suggerimento del capo dello Stato, per cominciar a costruire un confronto. Meglio verificare — immaginando un quadro più accettabile per il Colle — la percorribilità di qualche soluzione alternativa. Come un accordo politico-parlamentare per governo di scopo, guidato da una personalità con caratura istituzionale e che sia in grado di far convergere più forze su un programma limitato. Una formula intermedia, rispetto a quelle di cui si parla, e in ogni caso diversa da un "governissimo" come sempre lo si intende, per quanto l'esperienza del governo Monti costituisca di fatto un precedente che dovrebbe permettere di superare certe paranoie di adesso (ad esempio quella di un Pd che giura di non voler mai più votare nulla assieme al Pdl di Berlusconi).
In tanta confusione, resta fermo il tentativo di accelerare di qualche giorno (anticipando dal 15 al 12 marzo) la convocazione delle Camere. Ma non sarà facile. Per diversi motivi. Bisogna che tutte le Corti d'Appello completino prima la verifica che porta alla proclamazione degli eletti. Bisogna che gli eletti in più circoscrizioni optino per una di esse. E bisogna che l'esecutivo cambi il decreto ad hoc messo a punto a suo tempo.

Corriere 3.3.13
Mossa Pd: una maggioranza per il nuovo Colle Tensione tra i Democratici e il Quirinale L'ipotesi: costruire un fronte attorno al nome del futuro presidente
di Francesco Verderami


ROMA — Se ieri Napolitano ha imposto il «reset» al dibattito politico postelettorale, è perché confida che una ripartenza possa offrirgli dei margini di mediazione per la formazione di una maggioranza di governo. D'altronde la politica non può restare senza un «piano B». Ma a nemmeno sette giorni dal voto ogni soluzione sembra esser stata bruciata, e gli spazi di manovra per il capo dello Stato sono strettissimi. Di più, la partita che si prepara a gestire già prefigura un braccio di ferro con il capo dei Democrat. Il paradosso provocato dal risultato delle urne è che le parti si sono rovesciate: ora è il Pdl a dar manforte all'opera del Quirinale.
Bersani è consapevole delle proprie difficoltà, l'inseguimento di Grillo gli serve per sfuggire all'abbraccio di Berlusconi, per evitare cioè la prospettiva di larghe intese, anche camuffate dalle sembianze di un governo a guida tecnica. La direzione del Pd sarà fondamentale prima di andare all'appuntamento con Napolitano: il voto del partito gli servirà per arrivare alle consultazioni con la forza necessaria a resistere al pressing del Colle. Bersani ritiene di aver con sé la maggioranza del gruppo dirigente, a cui si unisce una base ostile all'idea di un patto con il Cavaliere.
E ancor prima che inizi la sfida, già si mette di traverso rispetto alla prima opzione del «piano B», l'ipotesi che si possa sfruttare il governo attualmente in carica per dare quantomeno avvio alla legislatura. Una prospettiva che anche i vertici della Cgil vivono come una «provocazione». Monti — anche per rispetto verso Napolitano — ha detto di sentirsi «ancora a disposizione del Paese, se servisse». Ma si rende conto che la «salita in politica» ha compromesso la sua immagine di terzietà. Lo pensano anche il leader del Pd e Berlusconi, e almeno su questo punto concordano: «Mai un Monti-bis». Anche perché l'obiettivo del capo del centrodestra è quello di «svuotare» la lista del Professore.
Sul resto i due avversari si dividono. E la «disponibilità» del Cavaliere è un modo per incalzare Bersani, testimoniando al capo dello Stato che il Pdl è pronto a un accordo per un patto di governo che abbia come «precondizione» una durata di almeno due anni, «altrimenti sì che regaleremmo il Paese a Grillo», spiega Alfano. Stretto nella morsa e senza possibilità di conquistare alla causa i 5 Stelle, il Pd è in cerca di altre strade. E chissà se l'ipotesi di velocizzare le procedure di avvio della legislatura — di cui si è discusso a Palazzo Chigi e al Colle — sia una contromossa rispetto allo scenario che è stato preso in esame in questi giorni dallo stato maggiore democratico: dato che non è possibile formare al momento una maggioranza di governo, perché non tentare di precostituirla con una maggioranza sul nome del nuovo capo dello Stato?
L'operazione avrebbe un senso, se non fosse che — per realizzarla — Napolitano dovrebbe dimettersi senza avviare le consultazioni, e lasciando come primo compito al nuovo Parlamento l'elezione dell'inquilino del Quirinale. Le argomentazioni che i dirigenti del Pd producono sottovoce a sostegno della tesi, vanno dai limitati poteri di Napolitano (che è al termine del mandato e non può sciogliere le Camere), fino al ricordo che «proprio lui aveva detto di voler lasciare al suo successore il compito di gestire la nuova legislatura».
L'impressione che Napolitano sia vissuto come un intralcio dai suoi ex compagni di partito è il segno di quanto forti siano le tensioni tra il Pd e il capo dello Stato, e dà l'idea di quanto potrà essere drammatica la fase che si apre. Non a caso l'ex ministro Fitto ha denunciato in maniera preventiva «il rischio di un gravissimo sgarbo istituzionale verso il presidente della Repubblica che saremmo pronti a denunciare», quasi ad alludere a forme di pressione in atto verso il Colle. È chiaro che se le fiamme dello scontro politico sul governo dovessero propagarsi fino al Quirinale, gli esiti del conflitto potrebbero essere devastanti per un sistema già in pezzi.
Il punto è che il Pd non vuole andare in pezzi, perché il prezzo che pagherebbe rispetto all'ipotesi di un qualsiasi rapporto con il Pdl sarebbe altissimo, viste le posizioni nel partito. Anche perché — per quanto affidato a un tecnico — il governo dovrebbe poi essere sostenuto in Parlamento dalla riedizione della «strana maggioranza», e Bersani sembra disposto a sacrificarsi magari per aprire la strada a nuove elezioni con un nuovo candidato, Renzi. Sarà così? Per ora la politica è senza «piano B»: Napolitano ha imposto il «reset» per cercarlo e farlo diventare un compromesso. Ma è chiaro che si tratta di un braccio di ferro. È già iniziato.


l’Unità 3.3.13
L’incultura costituzionale
Strane ipotesi a Cinque Stelle fuori dalla Costituzione
di Marco Olivetti

La complessa situazione politica ed istituzionale generata dal voto del 24 e 25 febbraio pone certamente sfide ardue a coloro che portano la responsabilità di disegnare una road map per dare un governo all’Italia. E l’intreccio fra la formazione del nuovo governo e la scadenza del mandato di Giorgio Napolitano al Quirinale introduce un ulteriore elemento di complicazione.
In questo scenario, tuttavia, ognuno si crede legittimato ad inventare ipotesi estranee alla logica delle democrazie costituzionali contemporanee. È il caso della doppia ipotesi formulata, pare, in ambienti vicini al Movimento Cinque Stelle di risolvere la crisi di governo: a) attribuendo a Grillo la guida del nuovo esecutivo; b) lasciando in carica il governo Monti («in prorogatio», si dice), mentre si approvano le misure di riforma della politica da molti invocate. Ora, mentre la prima delle due proposte è antidemocratica, la seconda è incostituzionale. Riguardo alla prima, il ragionamento sembrerebbe essere il seguente: visto che il 5 Stelle è il primo partito, a tale partito dovrebbe essere affidata la formazione del governo, con l’appoggio esterno degli altri. Ma in questo caso la stessa premessa è in parte falsa. Il Movimento 5 Stelle è infatti la prima lista elettorale in termini di voti, ma la legge elettorale attuale consente le coalizioni e considera vincitrice la coalizione di liste o la lista singola che abbia ottenuto il maggior numero di voti. In questa prospettiva, il Movimento 5 Stelle è la terza forza politica nazionale in termini di voti conseguiti per l’elezione della Camera dei deputati (al Senato, inoltre, esso è secondo anche considerando i partiti e non le coalizioni). Ne segue che la richiesta di Grillo e dei suoi adepti di guidare il governo va attribuita alla sua prima vita: non solo in quanto attiene più al genere del comico che a quello del politico, ma anche in quanto ricorda uno dei bersagli della sua comicità negli anni ottanta, vale a dire Bettino Craxi. Solo quest’ultimo, prima di Grillo, era
infatti arrivato a teorizzare che la guida del governo spetta non alla prima forza politica rappresentata in Parlamento, ma alla terza. Con l’evidente deficit democratico che ne seguiva allora e che ne segue oggi. Riguardo alla seconda proposta, essa anzitutto si rivela poco chiara. Con essa, infatti, sembrerebbe ipotizzarsi che il governo attuale dovrebbe rimanere in carica «in prorogatio». Ma, da un lato, ciò accade già oggi, visto che il governo Monti è attualmente in carica per gli affari correnti e che lo sarà fino all’insediamento del prossimo governo. Prolungarne la vita oltre tale data appare oltremodo complesso e, soprattutto, presuppone ciò che sembrerebbe negare. Infatti il Presidente della Repubblica, dopo l’insediamento delle nuove Camere, dovrà conferire un incarico di formare un nuovo esecutivo ed eventualmente nominare un nuovo governo, che dovrà poi presentarsi alle Camere per ottenerne la fiducia (art. 92 e 94 della Costituzione). È ovviamente possibile che il Presidente nomini di nuovo Monti e che le Camere gli confermino la fiducia. Ma, appunto, non si tratterebbe affatto di prorogatio, bensì, semmai, di un nuovo governo tecnico (e sarebbe difficile chiamarlo così, dato che a guidarlo non sarebbe più un senatore a vita, ma il leader di una delle coalizioni che hanno preso parte alle elezioni).
Forse qualcuno ha pensato al precedente del 1948. Dopo le prime elezioni successive all’entrata in vigore della Costituzione, le Camere elessero Luigi Einaudi Presidente della Repubblica e il Presidente del Consiglio uscente, De Gasperi (vincitore delle elezioni del 18 aprile), si dimise. Einaudi, tuttavia, respinse le dimissioni del IV governo De Gasperi, il quale procedette ad un rimpasto e si presentò alle Camere, ove ottenne la fiducia. La procedura fu criticata da Togliatti in quanto il Capo dello Stato aveva omesso le consultazioni, ma resta comunque chiaro che in quel caso De Gasperi formò un nuovo governo (il V da lui presieduto) e soprattutto ottenne la fiducia delle due Camere. Anche un eventuale ma improbabile Monti-bis dovrebbe passare per le forche caudine della fiducia parlamentare. In questo contesto è sconcertante l’incultura costituzionale nel Movimento 5 Stelle e dintorni. Sembra che da quelle parti le uniche letture in questa materia possano essere ricondotte a qualche bignamino per studenti mediocri. Decisamente su questa come su molte altre questioni, anche più serie è necessaria una nuova stagione di difesa della Costituzione. L’invito alla vigilanza lanciato nel 1994 da Giuseppe Dossetti va riattualizzato e adeguato ai tempi. Ora la minaccia per la nostra democrazia costituzionale viene anche dall’estrema sinistra, nella sua variante populista.

l’Unità 3.3.13
Da Goldman a Bifo, i grillini del giorno dopo
Il patron Luxottica: «Grillo premier, perché no?»
Ma anche il leader del ’77 lo ha votato per «mettere un freno alla dittatura finanziaria»
di A. C.

Ci mancava solo l’«entusiasmo» dell’odiata (da Grillo) banca d’affari americana Goldman Sachs per il successo dei 5 stelle. Già, perchè tra professori veri e onorevoli trombati che s’improvvisano tutor dei grillini, imprenditori da 7 miliardi l’anno, ex leader di estrema sinistra, cantanti e attori, ormai la corsa a salire sul carro grillino sta diventando un piccolo tsunami. Una moda, anche.
E così si assiste al coming out del leader del ’77 bolognese Franco Bifo Berardi, che ha votato 5 stelle «per tentare di mettere un freno alla dittatura finanziaria». Guarda caso, è lo stesso partito cui guarda con simpatia il patron di Luxottica Leonardo Del Vecchio, uno che ha sempre ammirato il Cavaliere. «Grillo premier? Perché no? Non credo sia più stupido di quelli che abbiamo avuto fino adesso. E poi ho molta fiducia nei giovani e aspiro al cambiamento», ha spiegato.
Nel nord-est non è certo un’opinione isolata. Del resto, il comico e il fedelissimo Casaleggio, in campagna elettorale, avevano organizzato incontri con gruppi di imprenditori proprio in Veneto. E il guru aveva molto insistito su temi come l’abolizione dell’Irap, cercando di fare leva sulla delusione per le promesse mancate, in tema di fisco, di Pdl e Lega. Alcuni, come il leader della Confartigianato veneta Giuseppe Sbalchiero, avevano mostrato subito la loro simpatia, ma non è stata certo la regola.
Anche nel mondo dello spettacolo, da sempre serbatoio di appelli ed endorsment pro-sinistra, s’affollano le dichiarazioni d’amore. Dario Fo seguiva le mosse grilline fin dalla Woodstock a 5 stelle del 2010 a Cesena e dunque si può considerare un precursore. Celentano aveva fatto capire le sue simpatie prima del boom, mentre Fiorella Mannoia, presenza assidua delle piazze di sinistra negli ultimi vent’anni, ha fatto “coming out” solo dopo il voto: «Sarò sincera, sono contenta per il M5S», ha scritto in un tweet da Cuba. Sono di sinistra. È per questo che non ho votato Pd», ha replicato alle critiche dei suoi fans. Anche Franco Battiato, impegnato come assessore nella giunta Crocetta in Sicilia, ha spezzato una lancia: «Beppe ha un’intelligenza politica notevole. Rivoluzionaria», ha detto. «Questi non sono come i sessantottini, stavolta mi pare che il cambiamento sia più serio». Ieri sulla spiaggia davanti la sua villa al mare in toscana, accanto al comico è comparso lo scrittore Stefano Benni, amico di vecchia data, che già aveva collaborato col blog grillino.
Intanto, da varie parti, spuntano docenti ed esperti, soprattutto di economia e ambiente, che si professano fedeli dei 5 stelle. Sul Fatto quotidiano (giornale certo non antipatizzante) compaiono anche le autocandidature dell’ex Idv Franco Barbato e dell’ex ministro Pecoraro Scanio per fare da tutor alla nuova truppa parlamentare. Un affollamento di esperti o presunti tali che provoca la reazione stizzita di Grillo: «I contributi sono sempre bene accetti, ma non l’utilizzo del M5S per promuovere se stessi...».

l’Unità 3.3.13
Linguaggio grillino e Robespierre
di Massimo Adinolfi

CHI SE LA SENTE DI PROPORRE, NELLA PRIMA SEDUTA PARLAMENTARE UTILE DEL NUOVO PARLAMENTO, UN UNICO ARTICOLO in base al quale i membri in carica dell’Assemblea non possano essere rieletti nella successiva legislatura? Se mai ci fosse qualcuno che depositasse un simile disegno di legge, e tra i grillini uno lo si potrebbe scovare, il Parlamento italiano si caccerebbe in una situazione analoga a quella in cui si trovò l’Assemblea Nazionale, in Francia, un bel giorno del mese di maggio del 1791. Allora il progetto fu approvato, in mezzo ad entusiasmi e vivissimi applausi: cosa accadrebbe oggi non so. Anzi: non oso saperlo, perché il clima in cui cadrebbe non penso affatto che sarebbe pregiudizialmente ostile ad una simile proposta (controllo costituzionale a parte).
Il Movimento 5 stelle, per ora, si limita a chiedere che le legislature per ciascun parlamentare siano al massimo due, ma non trovo ragioni per cui non ci si dovrebbe piuttosto limitare ad una. A meno che, certo, non si considerino esperienza, continuità, solidità politica ed istituzionale come beni da salvaguardare. Ma tutto mi pare che i grillini apprezzino, meno che la permanenza in carica, o la stabilità e la durata della rappresentanza parlamentare. Perciò non mi meraviglierebbe l’adozione della stessa strategia che ispirò i passi di quel giovane avvocato di provincia che per primo ebbe, in quel tempo lontano, la brillante idea: Maximilien de Robespierre, l’Incorruttibile.
Gli storici sono abbastanza concordi nello spiegare i motivi che lo spinsero a presentare la proposta, guadagnandosi la guida dei democratici in seno all’Assemblea: con l’ineleggibilità dei membri in carica, Robespierre infragilì i processi politici e costituzionali, decapitò la classe dirigente dell’epoca e ne promosse un rinnovamento totale, guadagnò il favore popolare e acquistò fama di inflessibile censore. Non male, con un colpo solo.
Ora, ben lungi da me l’idea di fare paragoni impropri. Non voglio nemmeno riportare qui gli argomenti che Robespierre impiegò per convincere l’Assemblea, così singolarmente consonanti con quelli che si spendono oggi. E comunque voglio tranquillizzare tutti: quel Robespierre là non era ancora il Robespierre del Comitato di Salute pubblica e del Grande Terrore. Suppongo anzi che neppure lui sapesse quale corso gli eventi avrebbero preso. Il fatto è che però non riesco a convincermi che sia privo di senso riflettere non sulle intenzioni dei singoli (che sono sempre le più democratiche del mondo), ma sulla forza delle parole, la persistenza degli argomenti, e persino sulle conseguenze degli stili politici. Quando ad esempio ci si domanda se il Movimento Cinque Stelle possa mai dare un «appoggio esterno» a un «governo di minoranza», si può trascurare il fatto, mi domando, che espressioni come «appoggio esterno» e «governo di minoranza» non hanno mai potuto trovare né mai potranno trovare in futuro ospitalità nel blog di Beppe Grillo? Cosa accade se linguaggio, categorie, liturgie parla-
mentari e costituzionali perdono improvvisamente i loro nomi? Se ne troveranno altri, come no. Ma in quale cultura politica andremo a pescarli, quando la stessa espressione, «cultura politica», riesce del tutto indigeribile, polverosa, desueta?
Nel maggio del 1791 il corso della rivoluzione francese non era ancora tracciato. Molte cose dovevano ancora accadere, all’interno e all’esterno dei confini nazionali. E gli storici discutono accanitamente se non furono fatti degli errori, che favorirono la radicalizzazione giacobina (e, attenzione, il contraccolpo della successiva restaurazione termidoriana). Di nuovo, però: si prenda l’esempio per ciò di cui è esempio. E lo si utilizzi solo per formulare una domanda: riusciranno le istituzioni e la prassi parlamentare – le consultazioni, le votazioni, le mediazioni, le commissioni – ad inalveare il linguaggio grillino, riconducendolo entro i limiti di un’accettabile dialettica politica, oppure la primazia accordata alla rotazione degli incarichi del «cittadino deputato» (anche Robespierre aveva la fissa degli incarichi temporanei), il primato della diretta web e la religione dell’immediatezza travolgeranno ogni altra cosa? Hegel la chiamò «furia del dileguare»; il filosofema che usa Grillo è invece lo sputtanamento, ma si tratta ahimè della stessa cosa.
E non è una buona cosa. Soprattutto se poi tutta questa enfasi su democrazia e partecipazione si dovesse risolvere non nel sapere come si comporterà in Aula la rappresentanza Cinque Stelle, ma cosa mai diranno Beppe Grillo e Roberto Casaleggio. I quali, per l’intanto, serrano le file ammonendo tutti gli eletti di quali siano i vincoli statutari del Movimento. Proprio come l’avvocato di Arras, per il quale il mandato parlamentare doveva essere ferreamente vincolato e soggetto alla costante vigilanza popolare. Ora che c’è la Rete, Robespierre, lui, sarebbe lieto di scoprire che si può fare. (Io, un po’ meno).

La Stampa 3.3.13
L’ambiguità del leader tra annunci e smentite
Il punto di forza di Grillo resta l’asimmetria comunicativa
Comunica con tutti, ma nessuno può parlare a lui
di Mattia Feltri

Tutti impazziti, come dice Petra Reski, giornalista tedesca di Focus. Ognuno alla frenetica ricerca del segnale giusto, ognuno smarrito nell’approccio a un movimento che sovverte l’ordine costituito nel rapporto dei leader coi leader, dei leader con la stampa, per non dire dello sbigottimento nell’apprendere che i leader del MoVimento 5 Stelle sono non-leader, sebbene andranno alle consultazioni (senza non) con Giorgio Napolitano. Un’ambiguità che fa impazzire tutti. Beppe Grillo si ritrova a smentire l’intervista con la Reski e la Reski stessa smentisce l’interpretazione che è stata data della sintesi del suo sito. Cioè, scrive in mattinata l’ Ansa attribuendo le parole a Grillo, «se il Pd di Pierluigi Bersani e il Pdl di Silvio Berlusconi» proponessero un cambiamento immediato della legge elettorale, l’abolizione dei rimborsi elettorali e introducessero il tetto di due legislature per deputato, «noi sosterremmo naturalmente subito un governo del genere. Ma non lo faranno mai». Qualcuno, e neanche molti, decifra l’editto come una disponibilità a fare il governissimo. Grillo si infuria. La giornalista di Focus pure: «Mi sembrano tutti impazziti». E specifica ripetendo però a fotocopia le parole dell’ Ansa. Rimane un dubbio: quel sosterremo sta per «voteremo la fiducia» o «voteremo i provvedimenti»? Dettagli, in fondo. Nell’uno e nell’altro caso, non verrebbe da giurare che l’ultima posizione di Grillo sia però coincidente con quella di martedì: «Faranno un governissimo pdmenoellepdielle. Noi siamo l’ostacolo».
L’introduzione di un sistema asimmetrico di comunicazione - Grillo parla a tutti ma nessuno può parlare a Grillo, anche perché lui ufficialmente non è incaricato di nulla - complica ulteriormente le cose. Per esempio, che peso dare alle certezze di Dario Fo, sostenitore del MoVimento di cui per qualche ora è stato nientemeno che il candidato al Quirinale, quando dichiara «so che lui ci sta» a Otto e mezzo? La domanda di Lilli Gruber era: Grillo farà nascere il nuovo governo proposto da Bersani? Che interpretazione dare agli ottimismi di Adriano Celentano che l’indomani afferma: «Grillo non è un irresponsabile, e appoggerà un governo qualunque forma abbia» (purché adotti anche i punti del suo programma)? Un enigma. E nel frattempo Grillo scrive sul sito o affida a occasionali telecamere le sue ultime riflessioni. «Non è il momento di parlare di alleanze», dice alle 15.31 di martedì, quattro minuti prima di parlare di alleanze: «Il MoVimento non si allea con nessuno». L’indomani: «Noi non stiamo alla finestra: entriamo. Ma inciuci e inciucetti e accordi non ne faremo». Gli stessi accordi che ieri, nella versione vidimata da Focus, ricompaiono.
Siamo davanti a un MoVimento con un non-Statuto e senza leader, dove uno conta uno, e però se quell’uno (Viola Tesi, elettrice di M5S) lancia un appello a valutare l’alleanza col Pd, e raccoglie 140 mila adesioni, è un uno che non conta. Non conta il deputato lombardo Ferdinando Alberti che si dice «orientato» a votare la prima fiducia. Non conta il deputato Alberto Zolezzi che vorrebbe accordarla «a un governo di scopo» (più o meno quello che ha detto Grillo a Focus ). Non conta la senatrice Serenella Fuksia: «Se ci sono convergenze, posso votare la fiducia a Bersani». Tutti impazziti, naturalmente. Stavolta lo dice Grillo: «Il MoVimento non darà alcun voto di fiducia». Né inciuci né inciucetti. A meno che: «Se proprio ci tengono alla governabilità, possono sempre votare loro [Pd e Pdl] la fiducia al primo governo targato M5S». Viene il mal di mare. Perché poi ogni spiffero esce sul sito, viene dettagliato in streaming su twitter, precisato da Gianroberto Casaleggio al Guardian: «Il M5S voterà per tutto ciò che è parte integrante del suo programma». Il famoso modello-Sicilia. «Il modello Sicilia è meraviglioso», dice anche Beppe Grillo. La fibrillazione è totale perché in Sicilia i deputati grillini non fanno opposizione pregiudiziale, e persino votano qualche provvedimento del presidente Rosario Crocetta. Il quale, però, una maggioranza ce l’ha, tenuta assieme con lo spago ma ce l’ha, e non ha bisogno del MoVimento per sopravvivere. Che c’entra il modello-Sicilia con l’ansiogeno stallo romano? Niente di niente. E però mezzo Pd ci si aggrappa, aggiungendo caos al caos. E un dubbio: ma Grillo se la sta spassando o è proprio così?

La Stampa 3.3.13
Roma, blindato il summit dei neoeletti
Località segreta, negata la diretta sul web: “Ma non è il capo che decide per noi”
Grillini sull’orlo di una crisi di nervi. Il gioco non è ancora iniziato, ma serve uno psicoterapeuta per evitare il collasso. Fisico e mentale
Favia: «Obbediranno, manca la caratura morale per dissentire»
di Andrea Malaguti

Grillini sull’orlo di una crisi di nervi. Il gioco non è ancora iniziato, ma serve uno psicoterapeuta per evitare il collasso. Fisico e mentale. La fusione. La follia. Lo scontro. Pressione furibonda. Responsabilità da schiantare un toro. Non era poi così male essere gente comune. Com’è stata questa vigilia del famoso incontro romano? Davvero valeva la pena farsi travolgere da questa onda velenosa, altissima, senza fine, fatta di domande, spernacchiamenti, diffidenza, ammiccamenti, proposte indecenti e insulti, attese e speranze in cambio di 2500 euro al mese da intascare per il bene delle Patria?
Il primo conclave della nuova era moVimentista si apre oggi pomeriggio nella Capitale promettendo di durare tre giorni. E i 162 neoparlamentari in arrivo da ogni angolo della Penisola hanno scelto la formazione a testuggine. Nessuna diretta streaming. La glasnost stavolta non funziona. Chiusi, compatti, in difesa davanti alle pressanti richieste del Paese - a chi date la fiducia? - in attesa di capire come comportarsi col Capo. Tutti barricati in una segreta Cappella Sistina. «E se qualcuno svela dove siamo lo cacciamo a calci in culo. In questo momento dobbiamo guardarci in faccia tra noi». Sono in pochi a parlare. Dopo che una mail interna ha consigliato il basso profilo. Nervosi come la jesina Donatella Agostinelli, che all’ennesima domanda sulla libertà di pensiero («Avete un cervello o lo avete ceduto in comodato d’uso a Grillo e Casaleggio? ») comprensibilmente sbotta: «Per i giornali sembra che siamo pecorelle al seguito del capo, ma non è lui che sceglie per noi».
E’ uno strano piscodramma. In cui il Guru Beppe Grillo - atteso assieme a Gianroberto Casaleggio soltanto domani - vorrebbe sentirsi rassicurato dalla base e la base vorrebbe avere la libertà di esprimersi senza il timore di sentirsi pericolosamente lontana da una linea che nei fatti non esiste. Inutile contestare. Il regolamento è chiaro. «Chi non gradisce gli obiettivi è pregato di farsi da parte». Gode Giovanni Favia. Dissidente suo malgrado. Delfino del Sovrano fino all’espulsione e conseguente inutile trasferimento nelle liste Ingroia per avere insinuato che tra i 5 Stelle non c’è democrazia. «Vedrete che i neoletti obbediranno agli ordini. Manca la caratura morale per dissentire», butta lì con l’autorevolezza di una segretaria di Mao. Ma perché chi è d’accordo con Bersani nel Pd è uno serio e chi la pensa come Grillo nel MoVimento è una mammoletta? Misteri. Che il clima generale non aiuta a risolvere. «Non siamo burattini, condividiamo la linea. Non sono capacità divinatorie. Lavoriamo insieme da molto tempo», insiste Carla Ruocco.
Solo gli uomini più vicini al papa ligure sembrano estranei all’impazzimento. L’avvocato Alfonso Bonafede passa il sabato nella sua casa in Toscana. Accende il cellulare solo per controllare i messaggi. E spiega candidamente di non avere idea di dove si terrà l’incontro. «Un paio di colleghi passano a prendermi in macchina domani e mi portano a destinazione. Queste fibrillazioni sono frutto della pressione, ma appena ci incontreremo avremo la forza di indicare un’agenda. E’ sempre stato così». Da alcuni giorni si sveglia con immagini fuggitive che non si prende la briga di inseguire. «Il programma c’è. Pensare a un’alleanza con Bersani non si può. E con Berlusconi tanto meno. Però possiamo discutere di temi specifici». In sintonia, ma meno serafica, la riminese Giulia Sarti. «Bersani se la può scordare un’alleanza. Non è colpa nostra se si è creato questo stallo». Ha 26 anni. E per un pezzo ci ha creduto nella sinistra classica. Ora le fa quasi male dire certe cose. Ma se non taglia di netto il cordone ombelicale le amarezze le resteranno dentro come fango nero. Come poltiglia. Ieri sera, dopo duecento telefonate - è svenuta mentre stava tenendo l’ennesima conferenza sul futuro. I suoi genitori le hanno detto: Giulia, ora basta. Lei si è rimessa in piedi. «Non riesco a pranzare con loro da una settimana. E’ il momento di farsi forza. Ci è arrivata addosso una valanga. Non è vero che sfuggiamo al confronto, abbiamo solo bisogno di respirare. E chi parla prima della riunione romana rischia di dire cose a vanvera».

La Stampa 3.3.13
“I 5 Stelle? Generazione di narcisisti Rifiutano chi li invita al sacrificio”
Lo psichiatra Pietropolli: per loro anche il virtuale è reale
intervista di Marco Belpoliti

Grillo si mostra ai giornalisti indossando uno scafandro da sciatore: un extraterrestre. Parlo con Gustavo Pietropolli Charmet che da quarant’anni ascolta quegli extraterrestri che sono i giovani, oggi grandi elettori del Movimento 5 Stelle. Psicoterapeuta, ha diretto servizi psichiatrici, insegnato all’università. I suoi ultimi libri s’intitolano: Fragile e spavaldo. Ritratto dell’adolescente di oggi e Cosa farò da grande? Il futuro come lo vedono i nostri figli, editi da Laterza. Il futuro dell’Italia appare incerto; c’è un evidente conflitto tra le generazioni reso manifesto dall’esito delle votazioni.
Professore, Grillo e i suoi elettori hanno mostrato la vera spaccatura che attraversa il paese?
«Vorrei premettere che le mie sono delle considerazioni di uno scienziato sociale, e non è detto che si applichino pari pari ai risultati elettorali. Ma è evidente che è urgente un ricambio generazionale. La gerontocrazia al potere non si è resa conto che le ultime generazioni sono cresciute in un contesto che non guarda più al Padre come una presenza persecutoria, da abbattere e contestare. Non lo vedono più come minaccioso e castrante. Questa era la vecchia autorità. Perciò quando compare un potere che invita al sacrificio, alla rinuncia, Monti con il suo messaggio masochistico, Bersani con il sol dell’avvenir, i giovani non sono molto propensi a dare loro la delega».
Lei ha descritto questa generazione come dei narcisisti?
«Sì, ma non è necessariamente un elemento negativo. Nessuno ha detto loro, come accadeva alle generazioni precedenti, che dovevano versare il loro sangue per la Patria, che dovevano aver fede nelle ideologie, e i ragazzi ci hanno creduto. Oggi in cima ai valori personali e di gruppo sta la realizzazione di se stessi. Hanno in mente un potere accuditivo, attento alla realizzazione della loro felicità. Per questo rispondono non con la rivolta, bensì con il disprezzo e il disinteresse. Reagiscono con il sarcasmo e la presa in giro».
La sera del risultato elettorale gli aderenti del Movimento 5 Stelle si sono trovati in una pizzeria a Roma per festeggiare la vittoria.
«Certo, ma la richiesta di piena realizzazione di sé non esclude grandi ideali. Molti dei valori ecologisti si ritrovano nel M5S, che interpreta in modo nuovo l’etica della responsabilità. Lavorano in piccoli gruppi, legati a realtà locali, a zone di scambio e di discussione nel web; gli anziani utilizzano ancora un modello generalista: finiscono per irridere le nuove generazioni che si affacciano alla politica nazionale».
Ma questo non è il narcisismo che trionfa?
«C’è la realizzazione del proprio sé, ma anche il gruppo, la fratellanza; si chiamano i fratelli a gestire insieme il potere. Se si è vecchi non si riesce a comprendere che bisogna guardare all’agorà, allo spazio collettivo, e contemporaneamente alla realizzazione del sé».
Questo è il risultato del cambiamento prodotto da Internet, dal web?
«Certo. Per quelli che hanno 20 e 30 anni lo scambio cognitivo e affettivo, che avviene nel virtuale, è vero e reale. Nel web si può avere una relazione autentica; può nascere l’amicizia e l’amore. Per chi ha sessant’anni sembra invece una moda, qualcosa di passeggero; non capisce che i corpi lontani gli uni dagli altri riescono ad avere un rapporto come accadeva nello spazio fisico comune. Le relazioni di gruppo, di solidarietà, di lotta, di condivisione, sono nate così, e si sono proiettate dal web al campo elettorale».
Insomma, lei vede dei grandi rischi in tutto questo, ma è sostanzialmente ottimista sulle nuove generazioni?
«Le nuove generazioni sono post-consumiste, più sobrie. Si sono emancipate dalla televisione, che è stata una delle fonti del consumismo. I giovani si fanno la loro televisione, la loro musica, le loro immagini, non aspettano che la rete pubblicitaria le produca per loro. Hanno generato forme affettive e simboliche che prescindono dal passato».
Chi ha il potere cosa dovrebbero fare?
«Ascoltare e capire che c’è un nuovo modo di vivere, di amare, di considerare se stessi e l’altro, di guardare ai bisogni collettivi. Se non lo fanno accentueranno l’impressione dei giovani che il potere attuale è morto. Che non serve dialogare con lui. Ci vuole al più presto un ricambio generazionale, una cooptazione nell’area delle decisioni. Prima che sia tardi».

l’Unità 3.3.13
«Capo, non isolarti»
Sul web la protesta degli elettori grillini
Sul blog del M5S molti reclamano il voto a un governo Pd, per far approvare le loro proposte in Parlamento
«Il tempo dei “vaffa” è finito. Basta insulti e cerchiamo di non far tornare Berlusconi»
di Natalia Lombardo

Caro Beppe, «il tempo dei “vaffa” è finito». Insomma «basta, parliamo di cose serie», altrimenti «sei tu che mantieni in vita il vecchio», se non dai la fiducia a un governo a cui proporre «le nostre leggi». Il popolo a Cinque stelle si ribella alla chiusura imposta da Grillo, dice basta agli insulti a Bersani e al Pd, a quelli omofobi e ai troppo pochi per Berlusconi. Attraverso l’unico strumento dal quale hanno voce in capitolo, il blog, i «grillini» contestano la linea-non linea del capo e del «Casa», il guru Casaleggio, che hanno imposto ai novelli parlamentari di non «associarsi» con gruppi o coalizioni e votare solo «punti condivisi» ma non un governo.
Basta guardare i commenti più votati al post di ieri, dedicato a deridere Vendola, per capire che il comico rischia un «vaffa» dai suoi sostenitori se atrofizza il cervello a chi, finalmente, può rappresentarli in Parlamento (contravvenendo all’articolo 67 della Costituzione). Dario Dabbicco è stanco di questo «continuare a parlare di politica con la p minuscola, dispensare attacchi a Pd più o meno L» e sul blog raccoglie consensi che crescono a vista d’occhio da 77 a 102, 166 e oltre voti. Insomma «basta Beppe con questo c... di vignette» che uccidono chi sta in fin di vita, è il concetto grillino, «parliamo di progetti» e «portiamo le nostre proposte in parlamento, con o senza fiducia e il resto verrà da sé», scrive Dario, anche se considera la fiducia «questione accademica». Anche lui, che dice «cresci M5S, è finita la tua adolescenza», aspetta trepidante come altri la «piattaforma on line» sul programma elaborato dagli iscritti. Casaleggio faccia vedere «che ci si sta lavorando seriamente». Sul blog di Grillo erano già comparse le scuse per l’avvio al ralenty: «La piattaforma, uno spazio dove ognuno veramente conterà uno, è in fase di sviluppo dopo il rallentamento dovuto all'anticipo delle elezioni».
C’è poi Roberto Zelante, «uno dei tanti padri di famiglia che ti hanno votato», che ha esperienza nelle istituzioni locali e consiglia a Grillo di «approfittare per realizzare il più possibile in questa situazione (mi contenterei del 50% del programma), evitare l'ingovernabilità», buttare nel cestino milioni di voti col rischio di tornare alle urne e far vincere Berlusconi. In quel caso, avverte, «io come altri non ti voteremmo più». 96 voti in progress.
Dai commenti emerge un senso di impotenza verso le scelte del Capo, per quell’essere bloccati nel pantano dell’insulto senza poter capitalizzare il successo elettorale e portare avanti le agognate parole d’ordine, soprattutto contro la «casta». Aldo F da Napoli è diretto, in 105 lo votano: «A chi minchia di governo proporremo di approvare le nostre leggi?» se il M5s non darà la fiducia e gli altri nemmeno? Lapalissiano. Basta giochetti, se non volete chiamarla «alleanza», (s’intende con il Pd), chiamatela «intesa o accordo o come maronn’ vulit’...» dice da napoletano, basta che non torni il «nano» con coda leghista. E avverte: «A chi sarà addossata la responsabilità» di un’alternativa Pd-Pdl?
Lo «staff del blog vai affanculo» protesta: tanto sforzo «per ritrovarmi un manipolo di onesti e capaci parlamentari» che non possono mettere alle strette il Pd perché uno statuto-non statuto dice di «non avere a che fare con nessuno?». No, l’occasione è «unica», continua il commento, per «imporre al Pd, in cambio della fiducia», l’approvazione delle leggi a cui tiene il M5S, dall’incandidabilità al conflitto d’interessi. Anche Paolo 1 di Roma vuole agire: «Caro Beppe, mo la bicicletta te l’abbiamo data a oltre 150 parlamentari di cui l’88 percento laureati -: è ora che cominciate a pedalare seriamente e la smettete di fare i bambini capricciosi offesi. Quali idee avete per il futuro????». Uffa, è il senso, caro Beppe «la tua pervicacia» può portare a un «nuovo governo tecnico o un governissimo Pd-Pdl». Michele C è più duro: «Basta fare il despota, Grillo. Vogliamo decidere anche noi, vogliamo rifare l’Italia», missione impossibile «se il movimento non passa davvero nelle mani di chi ne fa parte».

l’Unità 3.3.13
«Anche Beppe sbaglia Ora col Pd deve parlare»
Il Nobel: «La sinistra ha fatto molti errori ma adesso è possibile il dialogo col Movimento 5 Stelle. Evitare veleni da ambo le parti»
«Occorre fidarci l’uno dell’altro e non ricorrere a certi mezzucci. Il Pd non deve più essere sordo»
di Toni Jop

«Sì, credo che lo spazio ci sia, spero proprio, per mio conto, che ci si possa intendere tra il Pd e il Movimento Cinque Stelle; l’ho detto, lo ripeto. L’importante è fidarsi l’uno dell’altro, vedremo...»: toh! Ma questo è Dario Fo, il giullare dei giullari d’Italia, il premio Nobel per la letteratura, la sinistra scomoda, quella che non s’accomoda; e che ci fa lui, occhi e sorriso maschera di gioia accecante, con quelle parole così misurate, con questi toni – visti anche in tv di recente – tanto posati, pensosi e pensati, degni di un leader politico? Dario è innamorato. Di Franca da una vita, della creatura di Grillo e Casaleggio da meno; anzi, pare proprio innamorato anche di Grillo del quale ha detto: non trovo in lui nessun difetto, solo pregi. E così ha scritto con il vecchio amico – e con il terzo comodo, Casaleggio – un libro. Bene: la forza politica “no partito” è a una svolta. E ora si sente incalzata dalla sinistra che, avendo formalmente e fragilmente vinto le elezioni, le suggerisce che forse è venuto il momento di mostrare, oltre ai muscoli, anche senso di responsabilità: ci sono cose che stanno nella cultura politica della sinistra e contemporaneamente nel programma dei 5 Stelle; se si vuole che divengano legge, basta dirsi di sì. Ma il tempo corre, l’Italia attende, Grillo e Casaleggio parlano ai media di mezza Europa e intanto Dario resta qui, nel fango della nostra pozzanghera, a rispondere in italiano a una valanga di richieste sul fenomeno che ora ama e rappresenta, non statutariamente, in amore e conoscenza. Stanco di questo tour de force? «Stanco ma felice. Da quando sono uscito con gioia da un mondo di sofferenza, per me, e ho scoperto questo Movimento...».
Sì, di Grillo e Casaleggio...
«Che sono di sinistra, tienilo a mente, questo è fondamentale. E lo so perché ho diviso con loro le lotte contro l’alta velocità, contro i mostri a carbone in Romagna...».
Quindi, dovrebbe essere facile per loro entrare in contatto fruttuoso con il centrosinistra, corretto?
«Certo, bisogna trovare il modo... prima parlavo di fiducia: bisogna provare fiducia nei confronti di chi ha spesso usato mezzucci poco eleganti per fare politica e organizzare il consenso, come il Pd».
Giusto: bisogna imparare lo stile da Grillo e Casaleggio, loro sì che sono eleganti, impeccabili, francescani...
«Voglio dire che non si tratta di un pokerino ed è inutile star lì a bluffare cercando di alterare il tavolo di gioco...». Prego?
«Mi risulta che abbiano già cercato, quelli del Pd, di portarsi a casa loro qualche nuovo parlamentare del Movimento, incantandoli...»
Davvero? Mi risulta che questa tecnica di combattimento appartenga alla cultura della destra che ha sgovernato il Paese. Se la sinistra si fosse comprata qualche onorevole, i suoi governi non sarebbero mai caduti. È bello si dica che ora invece sta facendo le spese al mercato, sarebbe una notizia, pessima, ma una signora notizia.
«Ricorda che la sinistra di cui parli è la stessa che non ha fatto la legge sul conflitto di interessi, che ha difeso interessi particolari, non pubblici, che ha recentemente favorito la costituzione di uno Stato-croupier; dopo aver spogliato i cittadini dei loro averi, ora li spennano nelle sale giochi, nei poker on line. Per non dire della Tav e degli interessi di parte che copre».
Sbaglierò, ma la legge sul conflitto di interessi non si è mai fatta perché non c'erano i numeri per farla passare. Sulla Tav: scrivo da anni contro quell’impresa e nessuno mi ha mai messo la museruola. E lo sai.
«Il fatto è che il Pd ha dimostrato di non saper ascoltare la voce delle popolazioni e le ha perdute. Come può un partito di sinistra diventare sordo a quel che gli dice la gente, la sua gente?» Nessuno è perfetto. Allora? Si può fare l’accordo tra Pd-Sel e Cinque Stelle? «La situazione è avvelenata, non chiara, scambi anche feroci. E non parlo solo di quel che viene dal Pd, ma anche di quel che ha detto-fatto Grillo, è stato pesante, avrà sbagliato anche lui, non so. Vedi, lo so che tanta base del Pd non ne può più di non essere ascoltata e rappresentata in quel modo. Io ne sono uscito, ma mi sono rimasti amici lì dentro, come te...».
Uguale: ho amici nei Cinque Stelle con i quali mi capisco benissimo. Li vedo mal rappresentati, ecco, dalla coppia leader-non-leader. Non ne parliamo, tu ed io, solo da ora: ma come ti sfugge che un grande e bel movimento sia nella disponibilità totale di due persone che nessuno ha eletto, nominato, votato e che nessuno può sfiduciare. Sarà una cosa di sinistra questa?
«Mannò, devi pensare che è tutta roba fresca di giornata. Che tutto è stato fatto in pochissimo tempo, che anche loro due si chiedono se esiste un problema di democrazia interna...».
Valà! Bontà loro, e cosa rispondono?
«Conviene leggere il libro che abbiamo scritto assieme, lì si capisce che sono brave persone, di sinistra, che nemmeno nel Sessantotto...».
Lasciamo perdere il 68. Quindi, la fretta sta giocando un ruolo fastidioso nell’incamiciare la democrazia dentro il movimento, è così?
«Grillo e Casaleggio si premurano di distinguere tra la posizione classica dei leader e quella del semplice portavoce, che è Grillo...».

Repubblica 3.3.13
Jacopo Fo: la mia agenda per Beppe se si torna alle urne non aumenterà i voti
Il figlio del premio Nobel ha già presentato una petizione: ecco le cose da fare nei primi 30 giorni di governo
di Giovanna Casadio

ROMA — «Stiamo per aprire un dibattito in Rete. La parola d’ordine è: non perdiamo questa occasione. Se qualcuno pensa che, tornando a votare, Grillo raddoppia i voti sbaglia ragionamento». Jacopo Fo ha pronta una piattaforma di proposte da mettere sul web perché centrosinistra e grillini si parlino, al di là dell’«isteria della politica italiana che si nutre di scambi di insulti».
Quindi, Jacopo Fo lei fa da mediatore?
«Ma no!».
Però lancia in Rete le proposte per il confronto?
«Stiamo organizzando un dibattito online per combinare proposte e persone, idee e interlocutori. Una petizione è già partita mercoledì scorso, ha avuto 15 mila adesioni, ci vuole qualcosa in più. Ma siamo solo persone di buona volontà, e non è facile. Si tratta delle cose da fare nei primi 30 giorni di governo. Ci sono i grandi passi - il taglio dei costi della politica, dei parlamentari, le norme sui partiti, il sostegno alle famiglie in disperazione - e parallelamente i piccoli passi. Penso a una serie di cose che comportano
un risparmio quotidiano».
Quali, per esempio?
«Una riforma che varrebbe il 3% della bolletta energetica è l’obbligo di mettere il termostato in particolare negli spazi pubblici, dove i caloriferi vanno spesso a palla. L’ingegnere Maurizio Fauri, dell’università di Trento, ha individuato poi, dove tagliare gli 80 miliardi di spreco energetico. Altro esempio, il giudice Gerardo D’Ambrosio, quand’era senatore, presentò un pacchetto di leggi sulle spese della giustizia. Mia
madre, Franca Rame, allora anche lei senatrice, cercò di portarle avanti. Niente da fare, sono leggi rimaste dormienti».
In definitiva lei crede che si riuscirà a uscire dallo stallo e Grillo accetterà un governo con il centrosinistra?
«Sì, mio padre Dario Fo l’ha detto più volte: Grillo non è un marziano».
Non sembrano esserci le premesse.
«Se togliamo gli insulti che Beppe e Bersani si sono scambiati, mi pare che abbiano entrambi detto che possono ritrovarsi su un programma. Il segretario del Pd deve cercare la quadra e il M5S deve rispondere agli italiani perché, se non succede nulla di quanto promesso, non lo votano più».
Si metteranno d’accordo, per forza?
«Perché non dovrebbero? Sarebbe da folli, come da folli è un’Italia che butta 60 miliardi di euro per via della corruzione, 80 miliardi per lo spreco energetico, 60
miliardi in burocrazia, per non parlare dell’evasione fiscale, delle mafie. L’ingovernabilità deriva dalle lotte di lobby. Se neppure un partito che nasce dal nulla, come i 5Stelle, riesce a cambiare la situazione...».
Magari Grillo appoggerebbe un governo ma non con Bersani premier?
«Penso che solo Bersani e Grillo insieme possano gestire il cambiamento, e non sono bersaniano, ho fatto campagna elettorale per Sel. Quando sento che il Pd richiama Renzi, che ha perso alle primarie, allora temo che si avvitino in qualche lotta d’apparato».
Sul web circola un paragone tra un discorso di Hitler e le dichiarazioni di Grillo, che a sua volta chiama Bersani “zombie, morto che parla”.
«Abbassiamo i toni. La reazione di Grillo viene dopo 19 anni di insulti».
L’Italia ha consegnato il paese ai clown, come dicono all’estero?
«Si interroghino anche sul perché l’Italia è stata l’ufficio affari sporchi dell’Occidente. De Gregorio è stato pagato da Berlusconi, ma credo anche gli Usa volessero fare cadere Prodi».

Repubblica 3.3.13
Veronesi: Grillo è al bivio dialoghi, distruggere non serve
“I cittadini vogliono una democrazia partecipativa”
intervista di Dario Cresto-Dina

PROFESSOR Umberto Veronesi, siamo ormai a Levi-Strauss. Ci si domanda se Beppe Grillo sia antropologicamente compatibile con Bersani? Paradosso a parte, che ne pensa?
«Penso che il problema non sia l’incompatibilità, ma l’incomprensione. La posizione di Bersani - che io stimo molto - appartiene ad una politica basata sul principio della rappresentatività, mentre quella del Movimento è figlia della politica fondata sulla partecipazione.
Entrambi hanno come obiettivo la democrazia, ma democrazie rappresentativa e partecipativa hanno regole, meccanismi e linguaggi diversi».
Qual è meglio?
«Io credo nelle democrazia partecipativa. C’è un’umanità che non si trova su giornali e tv. Tutti citano giustamente il web come strumento ed espressione di un nuovo sentire e pensare. Ma ci sono anche altri segnali e altri mezzi. Per esempio l’adesione della popolazione agli ultimi referendum. Insomma credo che l’idea della rappresentatività sia al tramonto, e vedo nei movimenti l’alba della democrazia partecipativa. Certo il passaggio non è facile, perché la partecipazione richiede consapevolezza. Ma il cambiamento è oggi. E oggi va affrontato».
Aveva intuito il quadro politico uscito dalle urne?
«Onestamente no. Avevo intuito la forza innovatrice di Grillo, ma non potevo immaginare cosa questo significasse in termini di voti. Sono sempre stato un suo estimatore, anche se spesso oggetto dei suoi attacchi. Due anni fa dissi in tv che non andava sottovalutato, ma analizzato e compreso».
Che cosa incarna il Movimento 5 stelle? Rabbia, populismo, disillusione, sfiducia nell'ortodossia politica?
«Tutte queste cose. Vede, oggi la società è troppo complessa - multietnica, multiconfessionale, globale - per trovare facilmente persone o partiti che la rappresentino. Ci vuole una rappresentatività diretta».
Ma Grillo è antidemocratico quando dice “vi spazziamo via tutti”.
«L’ideale sarebbe cambiare il sistema senza spazzarlo via. Ma allora ci vuole, da parte del sistema, la disponibilità a trasformarsi. E Grillo dovrebbe sperimentare strade alternative al massacro, quella del dialogo per esempio. Forse è solo questione di tempo e imparerà».
Professore, sembra di vedere anche altri germi nel grillismo: autoritarismo, dispotismo, superomismo. Un po’ di Mussolini e un po’ di Pugaciov.
«Sia ben inteso, non condivido i modi di esprimersi di Grillo. Sono contro ogni forma di violenza e sopraffazione, anche quella verbale, che trovo inutile e distruttiva. Sostengo però che Grillo e il suo movimento vanno capiti, prima di attribuire qualsiasi etichetta».
Quindi condivide il giudizio di Barbara Spinelli quando su “Repubblica” scrive che i grillini rappresentano anche il buono del populismo, cioè il desiderio del popolo di farsi cittadino, di farsi Stato?
«Certo. È la democrazia partecipativa. La campagna contro l’acquisto degli F35 ne è un esempio: la gente è stata informata (non dal governo, purtroppo ), si è organizzata e coalizzata grazie al lavoro delle associazioni civili, la Rete Italiana Disarmo in testa, e ha reclamato dalle piazze e dal web la revoca del programma. Altro tema che condivido è il ridimensionamento dell’apparato politico. Va abolito il ministero della Sanità perché la salute dei cittadini è il risultato dell’ambiente in cui viviamo, di come ci alimentiamo e come e dove lavoriamo, e esistono ministri preposti a queste tre aree. Va abolito il ministero dell’Agricoltura, delegandolo alle regioni. Vanno abolite le forze armate nazionali a favore della partecipazione dell’Italia ad un esercito unico europeo con funzioni di peace-keeping. Va riformato il sistema giudiziario sulla base del recupero del condannato. Va garantita la parità di uomini e donne alle Camere e nelle istituzioni pubbliche. E va fatta la riforma elettorale. Bisogna studiare un modo affinchè i cittadini possano accedere in modo sicuro ed affidabile al voto elettronico».
Le propongo di mettersi nel panni di pontiere. Come dovrebbe muoversi Grillo, considerate anche le parole di apprezzamento ricevute da Napolitano?
«Grillo si trova in una situazione non facile. Da un lato non può tradire la sua missione innovatrice, dall’altro non può assumersi la responsabilità dell’ingovernabilità. Un accordo con Bersani è auspicabile».
Lei è un uomo di sinistra, un riformista. Mi dica, dove continua a sbagliare il centrosinistra?
«Nell’ignorare l’evoluzione culturale della società che è sotto gli occhi di tutti. Nel non avere più, come ai tempi eroici di Turati, la sua anima di partito vicino alla gente».
È stata debole la candidatura di Bersani a premier?
«Credo di no. E comunque non si può parlare di errore se è frutto di un confronto democratico. Le primarie ci sono state. Bersani le ha vinte, Renzi le ha perse».
A Milano si ritrova con un presidente della Regione leghista. Perché Ambrosoli non ce l’ha fatta?
«Che il Nord sia orientato sul centrodestra non è una novità. Formigoni ha resistito vent’anni».
Non le sembra strano che gli inviti più forti al rinnovamento della politica giungano da ottuagenari come lei, Dario Fo e Margherita Hack?
«Lo scrittore Stephane Hessel è morto pochi giorni fa e aveva novantacinque anni. Con un suo pamphlet ha battezzato il movimento degli indignati, mobilitando milioni di giovani in tutta l’Europa. Penso che la risposta stia qui».

il Fatto 3.3.13
È arrivato il momento di uscire dalla Rete
di Furio Colombo

Caro Colombo, cos’è successo con la vittoria del grillismo alle elezioni e perché mi viene insistentemente in mente di paragonarla alla presa della Bastiglia? Qual è la novità rivoluzionaria del grillismo? L’idea di Grillo, non è stata quella, pur forte, di usare in modo organico la Rete, quanto quella di puntare a occupare il Parlamento, perché in Europa il potere finanziario non può mandare un dittatore a impedire l’ingresso dei rivoluzionari nelle assemblee nazionali. Tutto qui. Ma è una svolta epocale”.
Cito dalla lettera di un lettore, Giuseppe Perrotta, che pone, a me sembra, una delle due-domande fondamentali di questo strano momento: Qual è il senso, o meglio, l’esito di ciò che è accaduto in modo così rapido e solo apparentemente indolore?
Il confronto con la Bastiglia (episodio semplice come un simbolo, pesante come un cambio di secolo) mi sembra utile. L’altra domanda (poiché tutto è avvenuto in Rete) è come uscire dalla Rete, ovvero dall’incantesimo che ha reso possibile l’impossibile. Tutti ricordano con sarcasmo la frase di Fassino: “Se Grillo vuole contare in politica si faccia il suo partito e vediamo quanti voti prende”. Non dovrebbe esserci sarcasmo. Quell’affermazione era legittima. Ma è anche legittimo, anzi legittimato da un vasto sostegno popolare, il modo in cui Grillo ha preso alla lettera il messaggio. Forma un partito – che chiama “movimento” o “comunità”– si presenta alle urne e fa il pieno di voti. E qui occorre – come ha fatto il lettore Perrotta – notare i due aspetti che continuano a restare indivisi.
IL PARLAMENTO si è riempito di persone vere, di corpi umani. Ma il loro spirito-guida, senso e centro decisionale, rimane in Rete, dove tutto è nato. L’impressione è quella di una tendenza molto forte, anzi di una decisione di non separare la vita e la persona degli eletti dalla circolazione extracorporea in Rete. Quella circolazione garantisce un legame a costo di limitare la libertà o è libertà piena in un universo (non comprensibile da fuori) di un’associazione uomo-Rete mai vista prima? Non lo sappiamo ancora, però siamo costretti a cercare appena possibile (il più presto possibile) un chiarimento. La ragione è la sequenza costituzionale Parlamento-governo-Parlamento, messa in moto, in base al risultato elettorale, dal capo dello Stato che affida l’incarico. Il primo voto fuori dalla Rete sarà il voto che consente (o nega) di formare il governo. Ma Grillo sembra intento a raccomandare ai suoi di non esporsi al passaggio dalla Rete alla realtà. C’è una ragione? È necessario? Qui forse vengono a fronteggiarsi due mondi, che non sono necessariamente quello dei più e meno alfabetizzati della Rete. E non riflettono una scelta politica, nel senso di progressisti e conservatori. Piuttosto sono due diverse concezioni del mondo, data una certa tecnologia. Faccio un esempio. Per chiedere e ottenere un visto professionale (giornalista, per esempio) per gli Stati Uniti, non dovete vedere o incontrare nessuno. L’intero e complesso iter burocratico si fa on line e vi viene richiesta una partecipazione interattiva che non intende limitare il vostro diritto di avere il visto, o restringere la disponibilità del Consolato Usa a concedere quel visto, tanto è vero che, alle giuste condizioni, sarà certo concesso, Ma il percorso richiede l’osservanza di certe regole sulle quali il sistema, si direbbe, non può fare concessioni perché c'è più sicurezza e minore affidamento alla inevitabile vaghezza dei rapporti fra umani.
HO L’IMPRESSIONE che l’irruzione, attraverso la Rete, delle nuove forze del Movimento 5 Stelle sulla scena politica italiana sia segnata non da una arbitraria imposizione di regole ai nuovi venuti, in modo che non ci siano commistioni impure. Suggerisco di spostare la parola “purezza” dalla natura delle persone, la cui integrità ha già subìto le dovute verifiche, alla non flessibile natura della Rete e del suo agire interattivo che, come il visto americano on line, ha le sue regole e un suo percorso non necessariamente umano. Forse ha ragione Grillo quando dice ai giornalisti che lo assediano fisicamente intorno a casa: “Ma non vedete che è cominciata una rivoluzione che voi non avete capito? ”. Però, gli si dovrà rispondere, è impossibile evitare un passaggio inter-umano in cui rapporti fra persone si creino e si sviluppino, mentre continua il lavoro (per coloro che hanno fede) di perfezionare l’unica strada strada destinata a gestire il rapporto interattivo fra persone e macchine?
In altre parole, se Grillo usciva proficuamente dalla Rete per incontrare la sua gente negli episodi ben riusciti dello “tsunami”, adesso dovranno uscire, in carne e ossa, lui e i suoi nuovi eletti, per incontrare il mondo che aspetta, il mondo che diffida, il mondo che rifiuta.
Grillo ha molti argomenti, al di là del disprezzo che continua a usare in dosi pesanti, dai giorni elettorali, verso “gli altri” (con preferenza per il Pd). Quei giorni elettorali, per lui e per i suoi, sono finiti bene. Ma sono finiti. Non si tratta di fraternizzare col nemico. Si tratta di fermarsi a parlare con chi ha gli stessi avversari e ha fatto, a volte da solo, le stesse battaglie. Sicuro di volersi chiudere in Rete in un mondo puro di puri credenti?

l’Unità 3.3.13
L’unica strada in un sistema a tre punte
di Michele Prospero

È USCITO DAL VOTO UN SISTEMA TRIPOLARE CHE NON CONCEDE AMPI MARGINI PER LA GOVERNABILITÀ. IL PROBLEMA NON RISIEDE nel modulo tripolare in quanto tale ma nella peculiare configurazione degli attori in campo. Nessuna intesa organica è possibile tra di loro. Né una di tipo inclusivo, che coinvolga cioè i tre poli principali in un percorso condiviso, né una di tipo selettivo, che abbracci almeno due di essi per gestire il governo solo per un tempo limitato. Il ritrovamento di un qualche spettro di azione è appeso perciò a un esile filo. Il vincitore sconfitto, cioè il Pd, ha, grazie all’ampio premio ottenuto alla Camera, la responsabilità/opportunità di condurre le danze, almeno all’inizio. Dal suo orizzonte sono escluse due soluzioni ipotetiche. Il cosiddetto governissimo, ossia un accordo con il Pdl e la riproposizione di sbocchi ibridi, come sarebbe una reviviscenza del governo tecnico.
La carta del governo tecnico, dopo le mosse di Monti, non è più giocabile con credibilità. Ha perso la sua validità come rimedio emergenziale estratto dalla creatività degli organi costituzionali e non ha scongiurato la crisi della democrazia. Poiché anche un ritrovato tecnico avrebbe comunque bisogno del sostegno della maggioranza parlamentate, allora di nuovo non si scappa dall’enigma di fondo: o il supporto numerico scaturisce dall’asse Pd-Pdl (ovvero la sanzione dell’immobilismo assoluto) o dal Pd-Movimento 5 stelle. Non ci sono alternative che possano coprirsi con il manto della tecnica, come la prorogatio, la ricerca di nuove figure di rimpiazzo.
Avendo il Pd escluso una vocazione al suicidio (governi con Berlusconi di qualunque tipo) non resta che valutare la praticabilità di un qualche patto con il movimento 5 stelle. Si tratta di una strada ardua che presuppone, da parte del Pd, l’opzione circa una qualche scala di preferenze sul grado di vicinanza-lontananza con i soggetti antisistema ora in scena. Questa scala prevede che mentre con il Pdl non ci sono ambiti possibili di una reciproca legittimazione (il macigno Berlusconi è insuperabile), con il movimento 5 stelle è auspicabile una decantazione per vagliare abbozzi di intesa su alcuni punti d’innovazione contrattabili.
È realistica questa apertura di credito? Con il movimento 5 stelle il Pd, senza nascondere le grandi distanze sull’idea di politica e di rappresentanza, ritiene che un qualche protocollo sia possibile siglare in nome dell’emergenza nazionale. Lungo questa strada occorre valutare però quanto alto sia il prezzo del sostegno ricevuto da alcuni poteri forti (Corriere della Sera, la Sette, Sky) che, visto che il cavallo di Monti era azzoppato, avevano puntato su Grillo (con un’ampia copertura mediatica) proprio per recuperare in extremis il governissimo o la rinascita della conduzione tecnica. I calcoli dei poteri forti di fare di Grillo lo strumento per sancire l’obbligo al ritorno della tecnica al comando poggiano sulla scommessa di una inattaccabile rigidità identitaria del movimento. Più prevale la linea intransigente della estraneità ai giochi, più la tecnica entra in scena come un inevitabile sbocco. Su questo nesso tra assolutismo antisistema dei grillini e ritorno disperato alla «strana maggioranza», il Pd deve operare. Senza illusioni però. Perché non basta recuperare alcune idee condivise per ottenere il lascia passare. Il programma di Grillo non è infatti l’insieme di singole proposte ragionevoli da recepire in agenda ma è una radicale alternativa di sistema tenuta in piedi dalla totale ostilità verso la politica vigente.
È possibile costringere una forza antisistema ad indossare degli abiti pragmatici? Solo se è definitivo nel Pd il rigetto di ogni governo a parvenza tecnica può avere una qualche efficacia la sua condotta tesa a proseguire la legislatura con discontinuità simboliche. Se l’unità di intenti nel Pd manca e si ponderano ipotesi b, passaggi parlamentari subordinati, non c’è alcuna prospettiva di uscire indenni dalla crisi. Non che un governo di minoranza sia privo di incognite, di rischi anche. Ma quando un sistema crolla non si può che convivere con il rischio per cercare di estrapolare quello minore. Con la proposta di un governo di minoranza, il Pd cerca di costringere il movimento 5 stelle ad ammainare l’intransigenza, propedeutica alla guida tecnica, e di indurlo ad indossare gli abiti della contrattazione pragmatica.
Solo la colpa letale di tramutarsi in un agente dell’ingovernabilità che spinge al voto anticipato, cioè a una crisi priva di qualsiasi sbocco, può trattenere Grillo. La migliore arma per spezzare il perverso gioco tra tecnici (come architetti della governabilità) e comico (come guastatore di equilibri sistemici) è un governo di minoranza, con scadenze programmatiche a tempo, e rendimento verificabile. Il Pd deve rifiutare alchimie che nell’apparenza della responsabilità (le macerie ci sono già, non sono più uno spettro da evitare) lo catturerebbero nella morsa che stringe tra l’immobilismo acclarato dell’esecutivo di tregua e la cieca rivolta antisistema.

Corriere 3.3.13
La paralisi e le possibili soluzioni
Una nazione allo specchio
di Ferruccio De Bortoli
qui

Repubblica 3.3.13
Difficilissimo uscire dalla tempesta perfetta
di Eugenio Scalfari

IL NOSTRO Presidente della Repubblica ha fatto molto bene a redarguire il leader dei socialdemocratici tedeschi per le sue dichiarazioni sulle elezioni italiane. Aveva detto che gli elettori avevano privilegiato due “clown”, due pagliacci. Era una mancanza di rispetto nei confronti del nostro Paese e Napolitano gli ha risposto con fermezza e dignità. Perfino Grillo l’ha pubblicamente riconosciuto scrivendo sul suo blog «ho trovato finalmente il mio presidente». Bene, ma purtroppo che una metà degli elettori italiani abbia votato per due comici è la pura verità.
Sono due comici assai diversi tra loro, uno mescola alla buffoneria anche il disprezzo dell’etica pubblica e spesso sconfina nella criminalità; l’altro ha in mente la palingenesi cioè il mutamento totale della struttura istituzionale del nostro Paese e fa dell’etica pubblica la leva per arrivare al suo obiettivo, ma per reclutare il consenso necessario usa l’arte del buffone. L’ha detto con piena cognizione di causa Dario Fo che di buffoneria se ne intende, è il suo pane quotidiano: «Parliamo di buffoneria shakespeariana» (ricordate Yorick quando incontra Amleto che torna dall’Inghilterra e si accinge a vendicare suo padre?).
Molti dei nostri lettori mi hanno chiesto se mi aspettavo che Grillo arrivasse al 25 per cento dei voti. Sì, me lo aspettavo e l’ho anche scritto due settimane prima del voto. Ho scritto che il Movimento cinque stelle (che allora era stimato tra il 17 e il 19 per cento) avrebbe superato il 21-22 e anche più.
Perciò non mi ha affatto sorpreso il successo di Grillo. Invece mi ha sorpreso il successo di Berlusconi e la perdita di voti del centrosinistra; mi ha sorpreso la sconfitta in Campania, in Puglia e soprattutto in Lombardia.
Pensavo che il Pd si attestasse sul 30 per cento e con Vendola arrivasse al 33-34, con sei o sette punti di vantaggio rispetto allo schieramento di destra. E speravo che il voto disgiunto facesse vincere Ambrosoli in Lombardia.
Neanche questo è accaduto. La Lega ha perso un terzo dei suoi voti ma in Lombardia ha superato — pur arretrando — il centrosinistra. I voti persi dalla Lega sono andati a Grillo. Il grosso del ceto medio lombardo — salvo a Milano città — non voterà mai a sinistra, quello è un confine invalicabile. La sinistra di governo è composta da bolscevichi; turandosi il naso la maggioranza degli artigiani, delle piccole e medie imprese e delle partite Iva vota qualunque cosa ma non per i bolscevichi.
Spiace ricordarlo ma perfino Luigi Albertini vide il Mussolini del 1920 come un fenomeno da incoraggiare per ripulire l’Italia dalla sinistra e con il suo giornale lo incoraggiò molto, fino al delitto Matteotti e fino a quando quel Mussolini gli tolse la guida del
La borghesia lombarda è un fenomeno molto complesso e assai difficile da capire.
Riassumiamo. In cifre assolute il centrosinistra ha perso tre milioni e mezzo di voti, Berlusconi ne ha persi quasi sei; Grillo ha raggiunto otto milioni e mezzo.
Bersani-Vendola hanno 340 deputati alla Camera avendo superato il centrodestra con lo 0,4 per cento. Il Senato è ingovernabile. Quanto a Monti, il suo 10 per cento per metà gli viene da Fini (ormai scomparso dal Parlamento) e da Casini rimasto in brache di tela. Per l’altra metà gli viene da conservatori perbene che non amano i buffoni.
Purtroppo per lui e per la democrazia italiana, il Monti politico è stato un disastro. Ha salvato l’Italia dal baratro ma l’ha messa a bollire a fuoco non tanto lento. Il popolo sovrano la sua agenda l’ha fatta a pezzi, ma l’Europa no. Questo non è un dettaglio. I buffoni (shakespeariani o no) l’hanno dimenticato. Hanno dimenticato che l’Italia non sta nella luna ma in Europa; hanno dimenticato che non è una malattia ma un termometro che misura la febbre. Possiamo buttarlo quel termometro ma la febbre resta, anzi sta aumentando. I buffoni promettono ma non manterranno perché non hanno i mezzi né le risorse. Gli elettori che li hanno votati non lo sapevano?
* * *
Circa un terzo dei voti di Grillo proviene da quei tre milioni e mezzo persi dal centrosinistra. Perché l’hanno fatto? Molti di loro hanno scritto al nostro giornale spiegando i loro comportamenti così: volevano dare una scossa al Pd, volevano che il suo spirito cambiasse, che il partito si rinnovasse da cima a fondo, ascoltasse la società, la rabbia dei giovani, la sfiducia e l’indifferenza dei lavoratori. In parte questo effetto l’hanno provocato, ma facendo pagare al Paese una situazione di ingovernabilità quale mai c’era stata dal 1947 in poi.
C’erano altri modi per provocare quella desiderata e desiderabile trasformazione? Uno sicuramente: potevano chiedere la convocazione immediata del congresso del partito e delle primarie che ne rappresentano il punto centrale; potevano — usando il web — autoconvocarsi e deliberare. Certo, ci volevano impegno e fatica. Invece hanno
scelto la scorciatoia del voto a Grillo. E adesso che faranno? Come voteranno tra pochi mesi, perché così andrà inevitabilmente a finire? Se resta il “porcellum” Grillo probabilmente avrà la maggioranza assoluta oppure l’avrà Berlusconi con la conseguenza della perdita d’ogni credibilità del nostro Paese rispetto all’Europa.
Quando si vota con la pancia e si imboccano le scorciatoie accade quasi sempre il peggio e noi siamo nel peggio, più vicini allo sfascio che ad una palingenesi creativa.
Alcuni grandi imprenditori del Nord fanno anch’essi tifo per Grillo e sperano che conquisti la maggioranza assoluta. Personalmente non mi stupisce.
Perfino la Goldman Sachs sembra soddisfatta del risultato elettorale italiano.
Domandatevi il perché di questo consenso: un crollo politico italiano disarticolerebbe l’Europa e l’euro.
Ripeto: l’Italia non sta nella luna ma in Europa. L’Europa va costruita e noi siamo, dovremmo essere, uno degli attori di prima fila di questa costruzione. Ma siamo passati
da Altiero Spinelli, da De Gasperi, da Prodi, da Ciampi, da Padoa Schioppa, a Grillo e a Casaleggio. Shakespeariani forse ma comunque buffoni.
Non si va molto lontano su questa strada.
* * *
Per fortuna c’è Napolitano, ma ancora per poco, il suo mandato scade il 15 maggio ma fin dal 15 aprile il “plenum” del nuovo Parlamento comincerà a votare per eleggere il suo successore. Nel frattempo spetta a lui la nomina d’un nuovo governo che possa disporre d’una solida maggioranza parlamentare.
Il 15 marzo si riuniranno le nuove Camere. Dovranno innanzitutto proclamare gli eletti e poi costituire i gruppi parlamentari, eleggere i presidenti delle due assemblee, i vicepresidenti, i questori, le Commissioni.
Solo a quel punto, che comunque sarà molto meno facile da raggiungere visto che il Senato è privo di maggioranza, Giorgio Napolitano inizierà le consultazioni.
Prassi vorrebbe che dia a Bersani l’incarico di verificare se può realizzare al Senato una maggioranza solida sulla base d’un programma che metta al primo posto la riforma elettorale e una politica economica ed europea che punti sulla crescita, fermo restando il pareggio del bilancio che è una legge europea già ratificata dal Parlamento italiano.
Riuscirà Bersani a portare a casa questo risultato che per legittima decisione dei Pd ha come unico destinatario il Movimento cinque stelle? A meno che Grillo e Casaleggio capovolgano la loro strategia, la risposta è negativa.
A quel punto Napolitano avrà la sola strada di nominare un governo tecnico e politicamente neutrale con lo stesso programma affidato ma non realizzato da Bersani: legge elettorale, politica economica di crescita nel quadro degli impegni europei. Il governo del Presidente illustrerà quel programma e chiederà il voto a chi ci sta.
Questo è il quadro che ci aspetta. Poi si passerà all’elezione del nuovo Presidente della Repubblica e anche questa non sarà una facile impresa.
Essendo stato tra i primi, molti mesi fa, a proporre una riconferma di Napolitano e avendogli poi promesso di non ripetere mai più quella proposta, mantengo con rammarico la parola data; ma un punto deve tuttavia essere chiarito. Napolitano ha correttamente osservato che la Costituzione non prevede una del capo dello Stato. Non esclude la rielezione per sette anni ma Napolitano ha ricordato che nel 2020 di anni ne avrebbe 95, perciò l’anagrafe esclude questa ipotesi e conferma la sua decisione di passare la mano.
Tutto esatto salvo che il Presidente in carica può dimettersi in qualsiasi momento del suo settennato. L’ha fatto il Papa, mettendo a rischio lo Spirito Santo che l’aveva scelto al momento del Conclave. Molto più agevolmente può dunque farlo un capo di Stato quando il Paese sia uscito dalla tempesta perfetta nella quale si trova. Ciò detto, poiché il Presidente non vuole, nessuno lo tenga per la giacca e noi meno che mai.

Repubblica 3.3.13
Quei punti d’intesa nella Costituzione
di Salvatore Settis

La spietata eloquenza dei numeri azzera la retorica liquidatoria che fino a ieri bollava di “antipolitica” ogni sillaba di ogni grillino e porta il Movimento Cinquestelle, divenuto il primo partito italiano, al centro della politica. «Antipolitica, parola violenta e disonesta», ha scritto Gustavo Zagrebelsky in queste pagine; violenta specialmente in bocca a chi ha sdoganato in passato, in nome della Realpolitik, indiscussi campioni dell’antipolitica come Berlusconi e la Lega. Oggi i numeri del Senato impongono la scelta fra due strade: la prima è l’abbraccio mortale con Berlusconi per un cosiddetto governissimo che sarebbe un governicchio incapace di gestire non dico la crisi ma l’ordinaria amministrazione, in una legislatura breve destinata a finire rovinosamente sfociando in nuove elezioni con Grillo sopra il 50%. La seconda, verso la quale si registrano faticose aperture, è una maggioranza d’obiettivo Pd-5Stelle. Ezio Mauro ha detto quale dovrebbe essere il programma, peraltro obbligato, di un’alleanza come questa: nuova legge elettorale, drastiche misure contro il conflitto di interessi, riduzione dei costi della politica, revisione del bicameralismo perfetto; Stefano Rodotà ha aggiunto diritti delle persone e beni comuni.
Su questo terreno è possibile una convergenza tattica di breve periodo, se il piano è di eleggere i presidenti delle Camere e il Capo dello Stato, affrontare il menu delle riforme e tornare al voto. Sarebbe una maggioranza fragile, afflitta da mutue diffidenze, potenzialmente rissosa. E assediata da Berlusconi e da montiani con voglie di rivalsa. Gettando il cuore oltre l’ostacolo, è dunque il caso di chiedersi se non sia possibile cercare un terreno d’intesa strategica più ampio e radicale. La prima mossa per farlo è una pratica abbandonata, una virtù desueta: quella dell’autocritica. Il Pd sembra specialmente allergico a qualsiasi analisi dei propri errori, dalla Bicamerale all’incondizionato appoggio al governo “tecnico”, che ha ridotto lo spread al costo di paralizzare il Paese, accrescere la disoccupazione e il disagio sociale, mettere in campo un nuovo partitino di destra. Ma il fallimento di una campagna elettorale che si è afflosciata subito dopo le primarie, quasi che fossero più importanti delle elezioni nazionali, dovrebbe far riflettere. Milioni di italiani (anche chi ha votato Ingroia) hanno dichiarato col voto di non poter più seguire un Pd il cui progetto per il futuro si fonda sull’obbedienza al Volere dei Mercati (ripetendo fedelmente le giaculatorie di Monti). Grillo e i suoi, molti ripetono, non hanno cultura di governo; sanno dire solo dei no, vogliono spaccare tutto all’insegna di una generica indignazione civile, non hanno un vero programma. E se invece i formidabili anticorpi spontanei contro il sistema che hanno raccolto più di otto milioni di elettori intorno al Movimento 5Stelle avessero un dna comune, una matrice riconoscibile, da cui possa partire una vera proposta di governo? E se il Pd, dopo la vittoria di Pirro che deve ancora digerire, ritrovasse in quello stesso dna qualche ragione di riflessione su se stesso, sull’Italia, sul futuro? Questo terreno comune esiste, nonostante lo sforzo di auto-accecamento che ci impedisce di vederlo: si chiama Costituzione.
Negli ultimi decenni si è aperto un baratro fra i principi della Carta fondamentale e le pratiche di governo. Nella Costituzione troviamo scritta la sovranità popolare, il diritto al lavoro, il diritto alla salute, il diritto alla cultura, il precetto di orientare l’economia e la proprietà secondo il principio supremo dell’utilità sociale (cioè del bene comune). Troviamo un orizzonte dei diritti, mai pienamente attuato, per cui possiamo dire con Calamandrei che «lo Stato siamo noi». Lo Stato, non i governi. Perché i governi hanno fatto il contrario: hanno smontato lo Stato, ridotto lo spazio dei diritti, svenduto le proprietà pubbliche, anteposto il guadagno delle imprese al pubblico interesse, promosso la macelleria sociale (l’espressione è di Mario Draghi) e la creazione di “generazioni perdute” di giovani. In nome di una concezione miserabile dell’economia come cieca obbedienza alle manovre della finanza, genuflessione ai mercati, concentrazione della ricchezza e pauperizzazione dei più, la democrazia è stata sospesa e mortificata, sono cambiate le regole della politica. “Politica” è il pubblico discorso fra cittadini, che ha come fine la pubblica utilità, come strumento il governo, come regola la democrazia. “Antipolitica” è regolare le sfere vitali della comunità (economia, società, etica) sfuggendo alle regole della democrazia, ponendo l’impersonale supremazia dei mercati al di sopra di ogni istanza di giustizia, di libertà, di eguaglianza. I cittadini che protestano contro tanta violenza, anche se in modo scapigliato e informe, hanno più voglia di politica di molti che la fanno per mestiere, storditi dai tatticismi di partito. Associazioni e movimenti reclamano più (e non meno) politica, cioè una più alta, forte e consapevole voce dei cittadini. Questo è il senso del travolgente referendum sulla proprietà pubblica dell’acqua, questo è (lo ha scritto in queste pagine Barbara Spinelli) il senso del successo-tsunami del Movimento 5Stelle.
Una forte iniezione di Costituzione nelle ragioni dei movimenti non ne cambia le istanze di fondo, le rafforza. In nome della Costituzione, gli anticorpi spontanei che si manifestano oggi nell’indignazione e nel voto (e domani potrebbero diventare barricate e sommosse) possono prendere coscienza del drammatico gap fra orizzonte dei diritti e pratiche di governo. Possono provare a sanare questo gap non chiudendo gli occhi davanti ai problemi (per esempio il debito pubblico), ma cercandone la soluzione in nome non solo dei mercati ma dell’utilità sociale (per esempio colpendo l’evasione fiscale). Con lo Stato contro i governi: questa lettura del “voto di protesta” (o delle astensioni) passa attraverso la legalità e la Costituzione. Ci ricorda un antico principio del diritto romano (resuscitato in alcune recenti Costituzioni, per esempio in Brasile), l’azione popolare, e cioè il diritto dei cittadini di agire in giudizio, in nome della legalità, contro governi e pubbliche amministrazioni che non la rispettino. Misurare i drammi dell’economia sul metro della Costituzione, cercarvi soluzioni graduali tenendo l’ago della bussola fisso sul bene comune, principio supremo che informa ogni parola della nostra Carta fondamentale. Su questo terreno comune, perché non potrebbe formarsi oggi una maggioranza di governo un po’ più coraggiosa, un po’ meno fragile?

il Fatto 3.3.13
Napoli, saccheggio da 20 milioni nella biblioteca Girolamini

“UN MASSACRO totale”. È la definizione del procuratore della Corte dei conti campana, Tommaso Cottone, per il saccheggio dell’antica biblioteca dei Girolamini, a Napoli. Un danno da 20 milioni di euro, da una vicenda in cui compare anche il nome di Marcello Dell’Utri, indagato dalla Procura di Napoli per concorso in peculato. L’ex senatore del Pdl è indagato per aver ricevuto alcuni volumi dall’ex direttore della biblioteca, Marino Massimo De Caro. Dell’Utri ha restituito i libri, ma all’appello manca ancora una copia de L’Utopia di Thomas More. Ieri Cottone ha usato parole durissime nella sua relazione: “Hanno massacrato tutto, distruggendo una collana preziosissima, caduta nelle mani di alcuni senza che vi fosse alcun controllo. È come se ci fosse stato un incendio, che non ha risparmiato nulla”. Cottone ha ricordato dati e tempi del saccheggio: tra il giugno 2011 e l’aprile 2012, la biblioteca dei Girolamini ha subìto sistematici furti. Sono stati sottratti volumi rarissimi, poi ritrovati in librerie antiquarie in Germania e Gran Bretagna e in case d’asta internazionali. Dal 18 aprile 2012, la biblioteca è sottoposta a sequestro giudiziario.

La Stampa 3.3.13
Alla Scuderie del Quirinale in vetrina i grandi capolavori di Tiziano

Il Concerto e la Bella di Palazzo Pitti, la Flora degli Uffizi (a destra un part.) , la Pala Gozzi di Ancona, il Ritratto di Paolo III senza camauro e la Danae di Capodimonte, l’ Uomo con il guanto del Louvre, il Carlo V con il cane e l’ Autoritratto del Prado o lo Scorticamento di Marsia di Kromeriz: sono solo alcune delle opere più conosciute di Tiziano che saranno esposte alle Scuderie del Quirinale di Roma, dal 5 marzo al 16 giugno, nella rassegna dedicata al grande artista veneto a cura di Giovanni C. F. Villa. Una mostra concepita per concludere idealmente l’ampio progetto di rilettura della pittura veneziana e di riflessione sul ruolo cardine che essa ha avuto nel rinnovamento della cultura italiana ed europea. Un percorso che le Scuderie del Quirinale hanno sviluppato analizzando l’opera dei protagonisti della rivoluzione pittorica moderna - da Antonello da Messina a Giovanni Bellini, da Lorenzo Lotto a Tintoretto - di cui Tiziano è testimonianza finale e altissima quale artista europeo per eccellenza. Venezia celebrò Tiziano in una fondamentale retrospettiva a Ca’ Pesaro nel 1935, impressa nella memoria delle mostre esemplari, e nel 1990 a Palazzo Ducale.

Corriere Salute 3.3.13
Protossido d’azoto
Il gas che fa ridere e persino diventare poeti
di Adriana Bazzi

La sua invenzione più nota è la lampada di sicurezza per i minatori, ma Sir Humphry Davy è anche famoso per aver isolato alcuni importanti elementi chimici come cloro, potassio e magnesio. Tutto registrato nei libri di storia della scienza e della medicina.
C'è però un aspetto poco conosciuto di questo famoso chimico britannico, nato nel 1778 a Penzance, nel sud dell'Inghilterra: una vena poetica, innata per certi aspetti, ma talvolta stimolata dalle inalazioni di protossido di azoto, il gas esilarante che ha sperimentato a lungo su se stesso.
Già, perché nel XVIII e XIX secolo, la cultura era una sola: scienze e arti non avevano ancora preso due strade separate e le persone colte si potevano cimentare sia con le provette in laboratorio sia con la penna alla scrivania. Del resto quando The Lancet, una delle più antiche e conosciute riviste scientifiche al mondo, nacque nel 1823, sempre in Inghilterra, si rivolgeva genericamente a un pubblico colto e non solo ai medici e ai chirurghi.
Davy, dunque, dapprima intraprende la carriera medica come apprendista da un farmacista-chirurgo nella sua città natale, poi raggiunge Thomas Beddoes, fisico e scrittore, che aveva fondato, nel 1799 a Bristol, il Pneumatic Institute con l'obiettivo di studiare su pazienti incurabili, soprattutto paralizzati, gli effetti medici dei nuovi gas, scoperti da Joseph Priestly, a sua volta chimico e filosofo.
Ed è a Bristol che Davy comincia a sperimentare gli effetti del protossido di azoto, il gas esilarante da lui chiamato così proprio per la sua attività euforizzante: lo riteneva meglio dell'alcol perché privo degli effetti collaterali di quest'ultimo. Davy è un ambizioso in cerca di notorietà. Beddoes lo presenta ad alcune personalità dell'epoca: il poeta e filosofo Samuel Taylor Coleridge fondatore del romanticismo inglese, Robert Southey, cognato di Coleridge e anche lui poeta romantico (Coleridge, Southey e Wordworth costituiranno il trio dei «lake poets», cosiddetti perché vissero un periodo di tempo nella regione dei laghi nel Cumberland), Peter Mark Roget, medico e scrittore (l'autore del Thesaurus, una specie di dizionario dei sinonimi e dei contrari arricchito da frasi esplicative e definizioni) e il drammaturgo James Webbe Tobin. Tutti riuniti attorno a Beddoes attratti dalle sue simpatie politiche (aveva condiviso gli ideali democratici della rivoluzione francese anche dopo la dichiarazione di guerra dell'Inghilterra alla Francia) e dai suoi interessi per la medicina. È in questo contesto che Davy sperimenta il protossido di azoto, dimostrando, contrariamente a quello che si pensava, che la sua inalazione non era letale. Scrive in una lettera a un amico datata 10 aprile 1799: «Mi ha fatto ballare come un pazzo in tutto il laboratorio e ha acceso il mio spirito».
Beddoes pensava che il protossido d'azoto potesse offrire un mezzo per controllare il piacere e il dolore, ma Davy si spinge più in là e ipotizza che il gas, grazie alla sua capacità di controllare il dolore, possa essere utilizzato nel corso di operazioni chirurgiche. Sfortunatamente queste osservazioni non furono prese in considerazione fino al 1844, quando, per la prima volta, il protossido d'azoto fu utilizzato come anestetico in sala operatoria.
E si può capire il perché: all'epoca nessuno si poneva il problema dell'anestesia in chirurgia e il dolore era considerato inevitabile se non altro perché segnalava che il paziente era ancora vivo.
Fra il maggio e il luglio del 1800 Davy inala regolarmente il protossido di azoto e ne descrive gli effetti: «Provo un senso di piacere che mi attraversa le gambe, il petto, le mani e i piedi»; «i miei sensi sono più acuti»; «sento di avere una grande forza nei muscoli e sono spinto all'azione».
Anche la sua creatività sembra aumentata. Così Davy compone un poema intitolato «Respirando protossido di azoto», non certo un capolavoro, ma una descrizione in versi delle sensazioni provocate dal gas. Davy comincia con il dire che cosa non è questa esperienza: non è un sogno e non è qualcosa che deriva dall'incontro con l'occulto, ma è una sensazione che coinvolge tutto il corpo e che accende le guance, illumina gli occhi, fa tremare le gambe…
Un modo diverso, dunque, di descrivere un esperimento che, in parallelo, viene anche illustrato da Davy in vere e proprie pubblicazioni scientifiche: linguaggio poetico e linguaggio scientifico erano, all'epoca, complementari e non in contrapposizione. Davy (che ha inspirato la figura del professor Waldman nel romanzo Frankenstein di Mary Shelley) abbandona, poi, gli studi sul protossido per dedicarsi alla pila voltaica, che usa per isolare il potassio e gli altri elementi, diventando così il padre dell'elettrochimica moderna, ma continuerà, per tutta la vita, a scrivere poemi.

Corriere La Lettura 3.3.13
Obama segue Spengler. Heidegger ha unìaltra verità
Tramonto o missione: come l'Occidente compie il suo destino
Il passato può essere vissuto come un mandato per il futuro
Mentre l’apparente declino consente di realizzare la propria vocazione
di Umberto Curi


Uno scatto in extremis, un colpo di reni, un guizzo imprevisto. Così è stato da più parti commentato il discorso di Barack Obama, in occasione dell'avvio del suo secondo mandato presidenziale. Ora che non si tratta più di convincere l'elettorato a confermargli la fiducia, il primo presidente afroamericano degli Stati Uniti delinea una prospettiva ambiziosa: quella di invertire la tendenza al declino dell'Occidente, reagendo a un destino che ai più appare già segnato, caratterizzato da una irrimediabile decadenza.
«Noi non abbiamo la possibilità di realizzare questo o quello; abbiamo solo la libertà di fare ciò che è necessario o nulla... Ducunt volentem fata nolentem trahunt». Con questa frase, alla cui solennità concorre indubbiamente il motto latino, si conclude l'opera con la quale, nell'ormai lontano 1922, Oswald Spengler decretava Il tramonto dell'Occidente. Il significato di questa clausola, almeno nella parte scritta originariamente in lingua tedesca, non presenta particolari problemi di interpretazione.
In essa si dice infatti che la libertà consiste nel fare ciò che è necessario (tesi ricorrente nella cosiddetta storia della filosofia, dagli Stoici a Spinoza, e poi a Hegel e Marx), e inoltre che la necessità della Storia si impone con o contro il volere del singolo individuo. Più complesso, e insieme anche più interessante, il ragionamento condensato nella citazione latina. Desunta da un passaggio delle Lettere a Lucilio di Seneca, il quale a sua volta cita il filosofo stoico Cleante, la massima colpisce anzitutto per la simmetria della sua architettura sintattica.
All'inizio e alla fine troviamo due verbi — ducunt... trahunt — in qualche modo opposti, così come di significato opposto sono i due sostantivi volentem... nolentem. Al centro della frase, suo vero e proprio baricentro concettuale, oltre che linguistico, il termine fata, col quale nella Roma antica si designava il destino. Nel suo insieme, dunque, il motto sottolinea l'inesorabilità del destino, che è in grado di condurre colui che ad esso si piega o di trascinare colui che ad esso si opponga. Se ne deduce che, suggellando il denso percorso descritto nella sua opera con la citazione senechiana, Spengler intendesse affermare che il destino dell'Occidente (che in tedesco si dice col termine Abendlandes, «le terre della sera») coincidesse con il suo Untergang, con il suo «tramonto».
È ormai assodato che il termine latino fatum — derivando dal verbo fari = parlare, dire — sta a indicare originariamente la «parola pronunciata». Di conseguenza, il «destino» si identifica con un participio passato, con ciò che è «scritto», o più propriamente con ciò che, essendo stato pronunciato, è già stato «detto». Le tre dimensioni del tempo vengono con ciò a convergere nella definizione del destino. Esso è ciò che io riconosco nel presente come parola pronunciata nel passato riguardante quello che accadrà nel futuro.
Ma vi è un'altra importante implicazione connessa all'etimologia del termine fatum, della quale Spengler non sembra tenere conto, nel momento in cui indica quale inesorabile destino dell'Occidente il suo tramonto. Poiché quella «parola» è proferita da un vate (che ha appunto la stessa radice greca — che troviamo nel verbo phemí — di fatum), come ogni altra enunciazione oracolare è anch'essa intrinsecamente ambigua, dice e insieme disdice, afferma e nega. La parola che mi parla del futuro è insomma una parola che non ha un significato univoco, ma che esprime una ineliminabile duplicità. Di qui il carattere irrimediabilmente ambivalente di qualunque pro-fezia, di qualsiasi discorso che pretenda di prevedere il destino che ci attende. Quasi negli stessi anni in cui Oswald Spengler elaborava la sua concezione del tramonto dell'Occidente, Martin Heidegger poneva radicalmente in discussione la concezione della temporalità soggiacente alla visione tradizionale del destino. In particolare, secondo l'autore di Essere e tempo (1927), il passato può essere concepito in due maniere nettamente differenti.
Da un lato, può essere considerato come un dato di fatto, senza significati reconditi, letteralmente come ciò che, essendo «passato», non è più. Ma, dall'altro lato, esso può essere concepito come un «mandato», come un incarico che abbiamo ricevuto, in base al quale possiamo dunque progettare il nostro futuro.
Si manifesta qui, nelle posizioni contrastanti di Spengler e di Heidegger, una netta alternativa fra due maniere divergenti di concepire il destino, e dunque fra due significati molto diversi di intendere la prognosi del tramonto dell'Occidente. Se ci si riferisce alla concezione tradizionale del tempo, inteso come realtà tripartita nelle scansioni di passato, presente e futuro, è inevitabile che il destino venga concepito come punto di arrivo e momento terminale di un processo che prevede l'avvicendarsi di alcune fasi, l'ultima delle quali è appunto quella del tramonto.
In questa prospettiva, il titolo dell'opera spengleriana starebbe a indicare il verificarsi del declino irrimediabile dell'Occidente, la sua irreparabile decadenza.
Ma tutt'altra prospettiva è quella che emerge ove il destino venga ricondotto a una differente concezione del tempo, e più specificamente a un modo di intendere il passato come assegnazione di un mandato. In questo caso, infatti, il destino non si identificherebbe col declino, ma all'opposto con la fase di pieno compimento, di totale realizzazione. Per questa via, si potrebbe così scoprire che l'incarico ricevuto dalle «terre della sera» è per l'appunto quello di tramontare. Non come segno di decadenza, ma all'opposto come espressione di una matura adeguazione a ciò che era «scritto» nel mandato.
È specificamente nel tramonto che l'Occidente — la terra dell'occasus, il tramonto — può portare a termine la propria missione storica.

Corriere La Lettura 3.3.13
Platone remix come Hollywood comanda
Alain Badiou riscrive e attualizza la «Repubblica» per coglierne lo spirito originario «Il mondo d'oggi ne ha bisogno. Sbaglia chi ci vede un programma neostalinista»
di Stefano Montefiori


«I l mio è un Platone remix, o meglio un remake come dicono a Hollywood. Ho passato sei anni immerso di nuovo nella Repubblica perché credo che sia un'opera attualissima, a condizione di tornare al suo spirito originario. Il mondo di oggi ha bisogno di Platone», dice Alain Badiou, 76 anni, uno dei più celebri — e discussi — filosofi francesi viventi. Maoista secondo molti non sufficientemente pentito, nella sua casa di Montparnasse Badiou sorride di chi sospetta intenzioni totalitarie anche dietro la sua ultima opera, un riscrittura della Repubblica di Platone. «In Francia questo libro ha avuto un certo successo ma c'è chi ha voluto scorgervi il manifesto per una prossima dittatura stalinista, il che è ovviamente ridicolo. Ma va bene così, il giorno in cui non susciterò più alcun interesse o inquietudine sarò diventato un filosofo inutile».
Professor Badiou, come le è venuto in mente di mettersi a riscrivere «La Repubblica» di Platone, di stravolgere il mito della caverna per ambientarlo in un cinema?
«Ho un rapporto forte con Platone sin dalla mia giovinezza filosofica. Ogni volta che lo rileggevo mi dicevo che questo testo vale più di se stesso, cioè vale più della sua semplice traduzione. Esistono ottime traduzioni letterarie, ma "il mio Platone" è quello che fa viaggiare la mente. Ecco si tratta di un libro di viaggio».
Perché dice che oggi bisogna riabilitare Platone?
«Perché il XX secolo è stato un secolo antiplatonico, per molte e opposte ragioni. I sostenitori della filosofia analitica, logica, molto forti in America, erano risolutamente antiplatonici perché pensavano che non esistano le idee, ma solo il linguaggio. I filosofi della vita erano contro Platone perché dicevano che non ci sono due mondi, quello delle idee e quello della realtà, ma solo uno, il mondo della vita, da cui gli attacchi di Nietzsche. Anche i marxisti erano antiplatonici: nel dizionario di filosofia dell'Urss la voce di Platone si riassumeva in "filosofo dei proprietari di schiavi". Per non parlare degli esistenzialisti, per i quali soltanto l'esistenza concreta conta. Come vede, Platone ha davvero bisogno di un difensore».
Perché secondo lei oggi Platone è più attuale che mai?
«Sono convinto che dobbiamo lottare contro il relativismo, la convinzione che non c'è niente di universale, che esistono solo i gruppi particolari, le comunità, le nazionalità, che ognuno ha la sua cultura, anzi può restarci chiuso dentro. Contro il relativismo contemporaneo, Platone è il maestro dell'idea di universalità, senza la quale l'umanità non riuscirà a uscire dal caos. Perché non ci sia la guerra di tutti contro tutti, bisogna che condividiamo un'idea, e questa non è un'idea che sta in cielo, le idee non sono angeli: le idee sono ciò a partire da cui possiamo condividere qualcosa».
Per esempio?
«Se Platone attribuisce molta importanza alla matematica è solo per questo, perché vede nella matematica un esempio astratto di universale. Se conosci le regole del gioco, tutti possono giocare. Platone non pensava certo che fosse una ricetta facile o immediata, questa universalità bisogna cercarla e costruirla».
E il mito della caverna?
«Il mito della caverna trasferito nella sala cinematografica mi si è imposto con evidenza mentre scrivevo: le immagini hanno un potere estremamente forte, ed è ancora più vero oggi che al tempo di Platone. In fondo il mito della caverna è un'anticipazione straordinaria. Platone aveva immaginato una caverna con un fuoco, delle marionette, immagini sul muro. Era una caverna ancora molto rudimentale... Oggi le persone possono anche restare a casa loro per entrare nella caverna. Come qui, per esempio, guardi lì l'ingresso» (Badiou indica la tv).
Perché sostiene di essere tornato al Platone originario?
«Mi distacco dalle due principali, ed erronee, vulgate del passato. Platone ha avuto una doppia discendenza. Quella religiosa, che comincia molto presto, con i neoplatonici come Plotino, che spinge Platone verso la trascendenza, l'idea di Bene, e l'idea dei due mondi: c'è il mondo sensibile, corrotto e incline ai vizi, e il mondo celeste che è quello della salvezza. Poi c'è l'interpretazione contraria, ossia razionalista, che ha interpretato Platone soprattutto attraverso la matematica, la scienza, facendone il primo grande razionalista. Platone è stato un po' seppellito sotto il peso delle interpretazioni».
E la sua di interpretazione, invece?
«Cerco di riportare Platone alla sua natura di pensatore dialettico, cioè un filosofo che cerca di tenere insieme la contraddizione tra il carattere materialista di ogni conoscenza e il carattere universale della verità. Platone cerca di dire: non cedo né sul fatto che viviamo in un mondo di esperienza sensibile (parla spesso di dottori, artigiani, piloti di navi, quindi è falso dire che è perso nelle nuvole, è una diceria), né sul fatto che è giusto ambire a qualcosa di universale, comune a tutti. Bisogna tenere le due cose insieme».
Questi due elementi si realizzano nella città ideale.
«Il tipo di vita che Platone propone come ideale non prevede la proprietà privata, le decisioni sono prese in comune e così via. Questa visione politica credo che la si possa definire come il tentativo di organizzare la società sulla condivisione di valori universali, su quel che c'è di comune negli uomini (comunismo vuol dire questo). Altrimenti la sola universalità che ci resta è quella del denaro, come già sta accadendo. O ci incamminiamo lungo una strada platonica — rinnovata, trasformata, modernizzata, naturalmente — cioè riorganizziamo la vita sociale sulle basi di una uguaglianza minima tra gli uomini, o lasciamo che il potere della manipolazione finanziaria su scala globale abbia l'ultima parola. Il mio libro quindi è anche Platone contro i finanzieri» (si mette a ridere).
Lo vede che è comunista...
«Ma no, il mio è un libro filosofico, non un manifesto politico. E poi Platone è aristocratico e antidemocratico. Nella mia riscrittura, invece, allargo a tutti quel che Platone riserva all'élite. Le formule che mi piacciono sono elitismo per tutti, o aristocrazia popolare».

Corriere La Lettura 3.3.13
Se scoppia la guerra fra Tokyo e Pechino chiedete il perché a Tucidide e Hobbes Fantasy-fantascienza così la Cina ci sfida
Lo storico greco e il filosofo inglese insegnano che i focolai di tensione riconosciuti sono in realtà solo pretesti per nascondere cause più profonde di
di Robert D. Kaplan


Se Erodoto è il padre della storia, Tucidide è il padre del realismo. Per capire le ragioni geopolitiche dei conflitti del XXI secolo, bisogna tornare agli antichi greci. Tra i tanti insegnamenti che si possono trarre dalla Guerra del Peloponneso di Tucidide, c'è quello per cui ciò che dà inizio a una guerra è diverso da ciò che la provoca.
Tucidide racconta che la guerra del Peloponneso scoppiò, nella seconda metà del V secolo a.C., per la contesa sull'isola di Corcira nella Grecia nordoccidentale e su Potidea nella Grecia nordorientale. Non erano luoghi di particolare importanza strategica ma, se si pensa che le guerre siano causate dall'importanza di un luogo, non si è messa a frutto la lezione di Tucidide. Corcira e Potidea diedero inizio alla guerra, ma non ne furono la causa. Quel che la provocò, scrive Tucidide nel primo degli otto libri della sua opera, fu l'allarme che si diffuse, a Sparta e tra i suoi alleati, per la sensazione che la potenza navale di Atene stesse aumentando. Luoghi come Corcira e Potidea, e i complessi sistemi di alleanze che rappresentavano, non costituivano di per sé validi motivi per una guerra, che tra l'altro sarebbe durata più di un quarto di secolo. Non avevano importanza. Erano solo pretesti.
Nessuno capì questa distinzione — che Tucidide fu forse il primo a sottolineare — meglio del più illustre traduttore di Tucidide, il filosofo inglese del XVII secolo Thomas Hobbes. Hobbes scrive che nel caso di una guerra per un luogo privo di importanza il pretesto «è sempre un affronto subito, o che si sostiene di aver subìto». Mentre «il motivo reale che spinge alle ostilità può essere solo ipotizzato, non dimostrato». In altre parole, lo storico e il giornalista potrebbero aver difficoltà a trovare documenti che spieghino le ragioni per cui gli Stati entrano in guerra. Devono quindi spesso affidarsi a deduzioni basate sul quadro degli eventi, e in molti casi sono comunque costretti a fare congetture.
Applicando la saggezza di Tucidide e Hobbes alle aree di conflitto presenti in Asia, si comprendono molte cose. Il conflitto del mar Cinese Meridionale, ad esempio. Qui le caratteristiche dei luoghi sono significative, perché in quelle acque vi sono ingenti giacimenti di greggio e di gas. Inoltre il mar Cinese Meridionale è una via di comunicazione marittima di vitale importanza, verso l'Oceano Indiano da una parte e il mar Cinese Orientale e il mar del Giappone dall'altra. È quindi una delle grandi linee di transito per gli interessi energetici del mondo. Supponiamo però che qualcuno volesse trascurare questi fattori e pensare che quei lembi di terra in mezzo al mare non siano così importanti da scatenare una guerra. Tucidide e Hobbes lo smentirebbero. Direbbero che è la percezione di un aumento della potenza marittima cinese — e la preoccupazione che suscita tra gli alleati degli americani — a essere la vera causa di un possibile conflitto nel prossimo decennio. Le caratteristiche del mar Cinese Meridionale, per quanto significative, non sarebbero che il pretesto. Nessuno, in realtà, ammetterebbe di voler provocare un conflitto per contrastare la crescente potenza navale cinese. È più probabile che ci si appellerebbe a una qualche violazione della sovranità marittima in un qualche isolotto. Tutto il resto dovrebbe essere oggetto di ipotesi.
Lo stesso vale per il conflitto tra Cina e Giappone a proposito delle isole Senkaku/Diaoyu nel mar Cinese Orientale. Anche se si argomenta che sono isole poco significative, non è questo il punto. La disputa su questi isolotti è infatti un pretesto dietro il quale si cela la preoccupazione giapponese per l'aumento della potenza navale cinese; timore che spinge il Giappone a uscire dal suo guscio quasi pacifista e a fargli riscoprire il nazionalismo e la potenza militare. (La crescita della potenza navale cinese non significa che la Cina sia in grado di affrontare la marina Usa in una battaglia navale. Vuol solo dire che la Cina potrebbe utilizzare le navi da guerra, assieme alla pressione economica e diplomatica e all'orchestrazione di proteste interne, per una serie di «colpi combinati» volti a indebolire i rivali, giapponesi e di altri Paesi asiatici).
C'è poi la Corea del Nord. Con un prodotto interno lordo simile a quello della Lettonia o del Turkmenistan, potrebbe essere considerata un'altra area di scarso valore. Le cose stanno però in altro modo. La penisola coreana, che si protende dalla Manciuria, controlla tutto il traffico marittimo della Cina nordorientale e delimita il mare di Bohai, i cui fondali contengono la più grande riserva di petrolio della Repubblica Popolare. La Cina, come ho scritto altrove, cerca di avere il controllo economico nella regione del fiume Tumen — dove Cina, Corea del Nord e Russia si incrociano — grazie alla costruzione di grandi impianti portuali di fronte al Giappone. Il destino della metà settentrionale della penisola coreana contribuirà quindi a determinare i rapporti di potere in tutta l'Asia nord-orientale. Naturalmente tutto questo, come avrebbero detto Tucidide e Hobbes, deve essere dedotto, ipotizzato. Il comportamento imprevedibile della Corea del Nord potrebbe dare inizio a un conflitto, ma le cause risiederebbero probabilmente altrove.
L'India e la Cina hanno collocato dei sistemi per rilevare intrusioni nella regione dell'Himalaya, che qualcuno potrebbe ritenere una regione poco importante. Ma questi sistemi assumono un altro significato nel momento in cui l'India sposta parte delle sue risorse difensive dal Pakistan per schierarle verso la Cina. Lo fa perché il progresso tecnologico ha creato una nuova e claustrofobica area strategica che unisce l'India e la Cina, con navi da guerra, aerei da combattimento e satelliti che consentono a ciascuno dei contendenti di violare lo spazio di manovra altrui. Se tra questi due colossi demografici ed economici dovesse mai scoppiare un conflitto, nascerebbe probabilmente da queste profonde motivazioni geografiche e tecnologiche, e non dai motivi che verrebbero dichiarati.
Per quanto riguarda l'India e il Pakistan, ricordo che, trovandomi anni fa a Peshawar con un gruppo di giornalisti, leggevo di truppe pakistane e indiane che si affrontavano in Kashmir sul ghiacciaio Siachen, un territorio così elevato che i soldati dovevano indossare maschere di ossigeno. Poteva valer la pena di combattere per una zona del genere? Anche in quel caso, le rivendicazioni ufficiali erano solo il sintomo di una più sostanziale disputa sulla legittimità stessa di quegli Stati, che aveva origine dalla divisione del subcontinente avvenuta nel 1947.
Infine Israele. Che teme per la propria sopravvivenza qualora l'Iran si doti di un'arma nucleare. Questo è un caso in cui l'inizio di un conflitto (da parte degli Stati Uniti, che agirebbero per conto di Israele) può ampiamente coincidere con la sua causa. Israele ha però altri timori, meno frequentemente espressi. Per esempio, un Iran nucleare renderebbe più pericolosa qualsiasi crisi tra Israele e Hezbollah libanese, Israele e Hamas di Gaza, Israele e palestinesi in Cisgiordania. Israele non può accettare un simile incremento della potenza iraniana. Questa sarebbe probabilmente la vera causa di un conflitto, se Israele riuscisse a trascinare gli Stati Uniti in una guerra con l'Iran. In questi e in altri casi, Tucidide e Hobbes ci insegnano che di una crisi bisogna prendere in considerazione quel che non viene detto esplicitamente, quel che può solo essere dedotto. L'efficacia di un'analisi sta nel ragionare con calma, non nel limitarsi a riportare le dichiarazioni ufficiali. Quel che dà inizio a un conflitto è pubblico, e quindi molto meno interessante — e meno cruciale — delle vere cause, che spesso pubbliche non sono. 

Repubblica 3.3.13
I segreti della doppia elica icona moderna della scienza
di Piergiorgio Odifreddi

Il 7 marzo 1953, esattamente sessant’anni fa, James Watson e Francis Crick andarono a pranzo insieme ad alcuni colleghi, e il secondo annunciò loro inaspettatamente: «Oggi abbiamo scoperto il segreto della vita». E non era una boutade, perché quella mattina i due erano riusciti a mettere a posto i pezzi del puzzle della doppia elica del Dna: una struttura che sarebbe diventata un’icona della scienza moderna. Il 25 aprile la rivista Nature pubblicò il loro resoconto della scoperta, che si concludeva con una frase memorabile: «Non è sfuggito alla nostra attenzione che lo specifico accoppiamento che abbiamo postulato suggerisce immediatamente un possibile meccanismo di copiatura del materiale genetico». Il 10 dicembre 1962 Watson e Crick ricevettero il premio Nobel per la medicina insieme a Maurice Wilkins, che aveva pubblicato sullo stesso numero di Nature un resoconto degli esperimenti a raggi X che confermavano il loro lavoro teorico. Questa, in estrema sintesi, la storia di una delle scoperte più famose e importanti del Novecento, appunto quella del segreto della vita, i cui romanzeschi retroscena sono stati rivelati da Watson stesso nel bestseller La doppia elica (Garzanti, 1968 e 2004), che è stato il libro scientifico più letto del Novecento. Chi volesse invece capire non solo cosa sia la famosa doppia elica, ma quali siano le sue innumerevoli applicazioni in biologia e medicina, può rivolgersi a uno dei più bei libri di divulgazione di questi anni: Il segreto della vita dello stesso Watson (Adelphi, 2004), uscito dieci anni fa in occasione del cinquantenario della scoperta, e che quest’anno verrà aggiornato in occasione del sessantenario.

Repubblica 3.3.13
La costruzione dell’ideologia antisemita
di Susanna Nierenstein

Di Auschwitz si evita spesso di dare una spiegazione razionale, quasi fosse un delitto da indagare attraverso la criminologia, la psichiatria e non un mattatoio nato da un autentico progetto politico partorito dal ventre dell’Europa. E invece se pensiamo all’enormità della sua realizzazione è evidente quanto dietro la Shoah non possa che esserci stata una forte prospettiva teorica, un sistema ideologico complesso, anche se si fatica, si soffre a chiamare così l’odioso antisemitismo fiorito nell’Ottocento, maturato nel ’900 nella sua contaminazione con altre culture antidemocratiche, e infine inverato nel totalitarismo. «Una teoria rivoluzionaria che dispone di una propria Weltanschauung» e di una propria teoria economica mirate «a rovesciare la società borghese liberale» «in aperta concorrenza col socialismo e il marxismo», animata dallo stesso «attivismo antisistemico», la definisce, con un piglio eretico che può meravigliare, uno storico da sempre a sinistra, Francesco Germinario, studioso tra i più attenti delle ideologie e della destra nel XIX e XX secolo, in questo Antisemitismo. Un’ideologia del Novecento (Jaca Book, pagg. 247, euro 24).
Dunque l’antisemitismo non come pregiudizio scomposto, invasivo e convulso, ma ideologia articolata e radicale che lascia alle spalle, anche se non ne rinnega gli stereotipi, l’antigiudaismo cattolico. Navigando nella vasta bibliografia sull’argomento, da Toussenel a Drumont e Chirac, da Eckhart a Rosenberg e Hitler, Germinario parte dal riassumere i tre pilastri su cui si sono via via fondate tutte le declinazioni dell’antisemitismo: a) la convinzione che la storia umana sia attraversata da una cospirazione dell’ebraismo volta a conseguire il potere assoluto dell’umanità; b) la certezza che l’epoca borghese e liberale corrisponda all’ebreizzazione del mondo, alla presa del potere ebraica; c) infine la sicurezza che quella ebraica non sia una religione ma una razza con caratteristiche biologiche e culturali comuni.
L’idea di Germinario è quella che l’antisemitismo si sia chiesto sempre più, come le altre ideologie rivoluzionarie del momento, di rispondere con una grande narrazione che legasse passato e presente alle domande nate da una situazione storica angosciante, dove si erano stravolti regni, assetti, poteri, modi di produzione, tradizioni, si erano moltiplicati scontri sociali, povertà, guerre. E la narrazione (di cui gli artefici cercano sempre di dimostrare le basi scientifiche per reggere il confronto con le altre strategie rivoluzionarie) è quella complottista, un aspetto che forse non è così forte nella prima fase, quella di Toussenel e Tridon, ma poi, specie con Drumont, inizia a definirsi saldando ed esaltando «le tematiche antisemite, specie quelle anticapitaliste, di provenienza socialista col cospirazionismo di provenienza cattolica»: è con i Protocolli dei Savi di Sion che si assiste al salto decisivo, è qui e in quel che segue che si crea e si rafforza la teoria secondo cui la Storia non è fatta dagli uomini, ma tessuta dalle centrali occulte dell’ebraismo che nelle società borghesi e liberali nuotano come pesci nell’acqua facendo credere ai popoli di essere liberi ma in realtà dominando tutti con la finanza, e progettando un futuro di tirannide. Una lettura della Storia che contesta “l’individuo” del liberalismo e le “classi” del socialismo e riesce a preconizzare un futuro di salvezza solo mettendo in campo le razze, da un lato quella ebraica, da battere, il cui “attivismo diabolico” era stato finora sottovalutato dall’umanità, dall’altro l’unica altra concreta, naturalisticamente radicata nelle nazioni europee, l’unica su cui si può fondare una politica, quella ariana. Ed è proprio il matrimonio tra razzizzazione e cospirazionismo storico a cambiare l’ultima faccia dell’antisemitismo novecentesco perché declinare biologicamente il nemico voleva dire escludere con esso ogni compromesso, e l’unica via per disfarsene diventava lo sterminio.
Germinario, dopo aver lungamente analizzato le metamorfosi dell’antisemitismo, si ferma al 1933. Peccato.

ANTISEMITISMO di Francesco Germinario Jaca Book Pagg. 288 euro 24 (Si presenta il 14 marzo a Milano, Libreria Jaca Book, ore 18.30)

Repubblica 3.3.13
Dolori di successo
Dopo zombie e vampiri i romanzi per adolescenti scoprono la malattia
Il nuovo filone si chiama “sick-lit” e divide i critici
di Elena Stancanelli

Opere scritte per adulti sono diventate di culto tra i ragazzi. Il primo caso fu Amabili resti dove la morte è il motore della storia Mancava solo l’amore che poi sarà portato nel genere dalla serie Twilight
Ad aprire il dibattito è stato Colpa delle stelle un libro ben scritto, forte mai patetico e retorico ma non succede spesso Editori senza scrupoli cavalcano il fenomeno pubblicando robaccia arrabattata, morbosa e volgare

Sembra che le malattie siano diventate uno degli argomenti preferiti dagli adolescenti. E il cinico mercato editoriale fiuta l’affare. Never Eighteen di Megan Bostic, So much to live fordi Lurlene McDaniel, Red Tearsdi Joanna Kenrick, The probability of miracles di Wendy Wunder, Voglio vivere prima di morire di Jenny Downham (pubblicato in Italia da Bompiani)... per citare solo alcuni bestseller. Bastano i titoli per capire di cosa si tratta: ragazzini pallidi, che imbastiscono amori e amicizie tra corsie di reparti oncologici e gruppi di appoggio, mentre nei loro corpi variamente mutilati scorre il veleno della chiemioterapia, entra ed esce l’ossigeno pompato dalle bombole. Gli ultimi mesi, spesi tra desideri da realizzare e lunghe chiacchierate per sviscerare il mistero dell’esistenza. Gli americani, tassonomisti indefessi e geni della titolazione del mondo, hanno battezzato Sick-lit questo sottoinsieme della letteratura YA (young adult).
Dopo zombi e vampiri the next big thing sarebbe dunque il cancro. Ma vanno forte anche l’anoressia, (tra questi Zoe letting Go di Nora Price e Wintergirls di Laurie Halse Anderson, pubblicato in Italia nella collana Y, di Giunti, l’unica vera collana di narrativa young adult che sia stata tentata da noi) la depressione, l’autolesionismo. Persino Quel che ora sappiamo – l’ultimo libro di Catherine Dunne, l’autrice del tristemente noto La metà di niente – ha per protagonista un ragazzino che si uccide, dopo aver cercato di arginare l’angoscia ferendosi braccia e gambe. Dell’ossessione adolescenziale per il suicidio racconta anche Julie Anne Peters in By the time youread this I’ll be dead. Il fascino per i corpi manomessi, le menti mangiate dal rovello, la consunzione della carne che sveglia il desiderio sessuale: vecchie storie, nostri eterni topoi letterari. Ma la questione, quella che ha posto il Daily Mail qualche giorno fa, è che questa letteratura in particolare è immaginata esplicitamente per degli adolescenti. Quanto è pericoloso – si chiede Amanda Craig, tra le massime esperte di letteratura per ragazzi, intervistata dal Daily Mail– consegnare a ragazzi molto giovani storie nelle quali la malattia e la mortificazione del corpo, sono presentati come luoghi della conoscenza, addirittura condizioni di privilegio emotivo? La letteratura per ragazzi pretende una enorme responsabilità sociale e morale. Scrittori, ma soprattutto editori, hanno il dovere di tener conto che in quella fase della vita siamo particolarmente fragili, oltre che incredibilmente portati all’imitazione, dice. E cita un precedente molto noto, un libro destinato agli adulti ma diventato, quasi suo malgrado, un cult per gli adolescenti. «Mi chiamo Salmon, come il pesce. Avevo quattordici anni quando fui uccisa, il 6 dicembre del 1973».
Amabili resti, di Alice Sebold. Una storia terribile narrata dalla voce leggera della ragazzina morta. L’impatto del lutto sulla sua famiglia, le indagini che portano all’arresto del serial killer, il mondo di chi resta, visto attraverso gli occhi di chi non c’è più. Amabili resti non è certo un libro malizioso, non indulge e non specula. Ma sveglia un appetito, crea un desiderio, secondo Craig. Mette a punto quella dinamica tra tema tragico e tono brillante, sceglie la morte, la sua seduzione/repulsione, come motore della storia. Manca solo l’amore, ma a questo penseranno i vampiri. Saranno le creature esangui, celebrate dalla saga di Twilight, a portare nella YA il pathos sentimentale e il sesso. La formula è completa, il successo matematico. Curioso come sia stata proprio Kristen Stewart, eroina cinematografica della saga di Stephenie Meyer, a impersonare la protagonista di Speak, una ragazzina che subisce uno stupro durante un party e viene perseguitata dai compagni quando si decide a denunciarlo, storia scritta dalla già citata Laurie Halse Anderson, tra gli autori considerati da salvare, in una perfetta e moralmente sostenibile biblioteca Sick-lit. Tout se tien.... Ma il vero caso letterario che ha dato origine alla polemica è il romanzo di John Green, Colpa delle Stelle, pubblicato qualche mese fa anche in Italia da Rizzoli. Che la giornalista Michelle Pauli, rispondendo dal Guardian all’articolo del Daily Mail, difende invece con tenacia. È un libro che consiglio, che offre spunti di riflessione su amore, amicizia, famiglia, scrive la giornalista. Non capisco per quale motivo dovremmo bandire dalla letteratura per ragazzi proprio i temi attraverso i quali si svolge la loro crescita, compresa la depressione, la sessualità, e in certi casi la malattia. La protagonista del romanzo di Green, Hazel Grace, ha sedici anni, è vergine, «diagnosi di cancro alla tiroide in fase IV a tredici anni... tre mesi dopo la prima mestruazione. Tipo: congratulazioni! Sei una donna. Adesso muori». Augustus Waters invece è reduce da un osteosarcoma che gli ha mangiato una gamba, ma adesso sta bene. È bello, atletico, intelligente, sexy. E si innamora di Hazel durante un incontro al gruppo di appoggio. Hazel e Augustus non piangono mai, quasi mai..., leggono ossessivamente il romanzo di uno scrittore olandese che parla di una ragazzina che muore di cancro e si intitola Un’imperiale afflizione, e perdono insieme la verginità in Olanda. Ma dal momento che «il mondo non è un ufficio esaudimento desideri» non ci sarà un lieto fine, anche se sarà comunque una fine diversa da quella che ci si aspetta.
Colpa delle stelle è un libro ben scritto, mai patetico, forte e non retorico. I nostri ragazzi, scrive Michelle Pauli sul Guardian, hanno bisogno di leggere libri che parlino della vita, non solo di gnomi, maghi, vampiri, libri che esplorino esperienze che li riguardano o potrebbero riguardarli. E la sofferenza è certamente tra queste, come sapeva anche la mia generazione che è cresciuta guardando Heidi e piangendo calde lacrime sulle sue disgrazie. E io mi fido degli scrittori che si rivolgono agli YA, perché sono tra i più seri, scrive la giornalista, e consapevoli della loro grandissima responsabilità. John Green è certamente tra questi. Dunque la questione della Sicklit, secondo il Guardian e secondo molti blog e siti americani che si occupano di YA, non riguarderebbe gli scrittori ma editori senza scrupoli, che cavalcano il fenomeno buttando in pasto agli adolescenti robaccia arrabattata, morbosa e volgare. La morte sì, ma con stile.

Repubblica 3.3.13
Tutte le metafore di un malessere molto più profondo
di Umberto Galimberti

Perché la letteratura che intreccia sentimenti e sofferenza non è all’altezza della vera infelicità giovanile Freud ci ha insegnato che accanto alla pulsione di vita c’è in noi anche la pulsione di morte che si esprime in tutte quelle forme di autodistruttività da cui i giovani non sono assolutamente immuni. Anzi, proprio nella giovinezza, in cui si sperimenta il massimo della forza biologica, c’è quel gusto del rischio e dell’eccesso che rasenta spesso l’invalidità quando non addirittura la morte.
C’è allora bisogno di quella letteratura che intrattiene i giovani sui temi delle malattie irreversibili, o di quelle che senza speranze conducono alla morte? Oppure su quelle pratiche di autolesionismo a cui molti giovani si dedicano nel segreto dei loro vissuti autodistruttivi, quasi volessero punirsi da sé per colpe, spesso a loro stessi sconosciute, da cui il dolore autoinflitto dovrebbe redimere? O infine quella sfida con la morte che si chiama anoressia, dove il piacere del controllo totale, giocato sul registro di quel bisogno primario che è la fame, offre, al prezzo della propria consunzione, l’ebbrezza di una quotidiana vittoria su quanto la vita esige per poter vivere? Io direi proprio di no, anche se Montaigne scrive: «Se fossi un facitore di libri, farei un registro commentato delle diverse morti, perché chi insegna agli uomini a morire, insegna loro a vivere». Sarà. Ma se adottassimo come chiave interpretativa il titolo di quel libro fortunato di Susan Sontag, La malattia come metafora, non potremmo leggere il cancro, l’autolesionismo l’anoressia e in generale tutte quelle forme di sofferenza che oggi sembrano avere tanto successo nella letteratura per giovani, come una metafora di quella vera e più profonda malattia che talvolta porta i giovani al suicidio o al tentato suicidio, per una totale mancanza di prospettive e di progetti, quando non di sensi e di legami affettivi, per cui, come ultimo rimedio, non resta che la malattia, per riscuotere un minimo di attenzione, di cura, di compassione e in ultima istanza di amore?
Se questa ipotesi ha una sua plausibilità non è un caso che questo tipo di letteratura sia nata proprio oggi quando i giovani toccano con mano che nessuno sembra aver bisogno di loro, nessuno li chiama per nome, nessuno offre loro uno straccio di prospettiva per il loro avvenire, per cui preferiscono vivere di notte, rifiutando la vita che si svolge di giorno per non assaporare la loro esclusione, oppure consegnandosi alla droga, o per sentirsi vivi nonostante tutto, o per anestetizzarsi e diventare insensibili al dolore che scaturisce dal toccare con mano quotidianamente la loro insignificanza sociale.
Questa malattia, di cui le malattie cliniche sono solo metafore, non è di origine psicologica, ma culturale. Appartiene cioè alla cultura del nostro tempo che Nietzsche, centocinquant’anni fa, in un lampo profetico, aveva chiamato “nichilismo” e così descritto: «Manca lo scopo, manca la risposta al perché. Tutti valori si svalutano ». Che i valori si svalutino non è un problema. Ogni generazione ha svalutato valori logori e dato vita a nuovi valori. Ma là dove manca lo scopo, dove non c’è una risposta al perché della propria esistenza, che ai giovani d’oggi appare inessenziale perché il futuro, da promessa, è divenuto per loro una minaccia, come si fa a inventare nuovi valori in questo scenario chiuso non solo alla promessa, ma addirittura alla speranza?
La letteratura Sick-lit, come viene battezzata questa offerta letteraria di malattie cliniche nei romanzi per giovani, magari con intenti educativi per affinare la loro sensibilità, in realtà non intercetta la vera malattia che oggi angoscia la condizione giovanile perché, nell’atmosfera nichilista che li avvolge, i giovani possono senz’altro appassionarsi alla sofferenza propria o altrui, come l’umanità ha sempre fatto, ma così facendo li si inganna, perché, come ci ricorda Günther Anders: la loro vita «non appare priva di senso perché costellata dalla sofferenza, ma al contrario appare insopportabile, perché priva di senso».
Se questo è vero, come io credo, una letteratura sulla sofferenza che intreccia l’amore e il sesso alla sofferenza e alla malattia, se non è inutile, è senz’altro ingannevole, perché non è all’altezza del dolore giovanile che oggi soffre, per un deserto troppo arido, troppo avaro di senso.

Corriere 3.3.13
L’umiliazione di Angela, destinata a non finire più
di Aldo Grasso


Ancora adesso, il video in cui Silvio Berlusconi chiede alla dipendente di Green Power «Quante volte viene?», è tra i più cliccati in Italia. Curiosità fra i visitatori, certo, indignazione, ci mancherebbe, ma anche una buona dose di piacere nel vedere qualcuno mortificato dal doppio senso, visto che ci rassegniamo più facilmente all'inopportuno che all'opportuno.
Così Angela Bruno è sbottata, si è accomodata nel salotto di Michele Santoro e ha ricostruito con sdegno la scena: «È normale che un nonno mi chieda quante volte vengo e poi si gira e mi guarda il c...?». Più la scena prendeva corpo, più Angela schiumava rabbia: «È stato detto che io abbia "gradito", anzi, che io fossi "onorata" di quelle attenzioni di Berlusconi e io vorrei sapere come fa un giornale a fare una notizia così falsa?». La signora ne ha anche per Giancarlo Galan che in un'altra trasmissione avrebbe dichiarato di essere in possesso di alcuni messaggi in cui Angela si dice gratificata dalle avances di Berlusconi: «Ho risposto al signor Galan che voglio vedere chi gli ha dato l'autorizzazione a diffondere messaggi privati perché questa persona ha palesemente violato la mia privacy». Poi l'accusa più pesante: «Berlusconi ha inviato Galan ad Agorà per minacciarmi, intimidirmi, tramite degli sms che doveva rendere pubblici. Questa a casa mia si chiama mafia. Sono stata calpestata. Quest'uomo mi ha messo contro qualsiasi».
Angela vorrebbe infine che Berlusconi le chiedesse pubblicamente scusa, ma le scuse tardano ad arrivare. E con i datori di lavoro i rapporti hanno preso una brutta piega.
Anche se in molti tendono a intravedere nel gesto di Berlusconi l'ennesima manifestazione di un umorismo da bar, ruvido e ammiccante, indegno di un gentiluomo ma tipico di un venditore, Angela rischia di essere umiliata una seconda volta. Da una battuta volgare e dalla sua reiterazione in Rete, non c'è dubbio, ma anche dal destino che l'aspetta: diventare vittima dell'infernale meccanismo televisivo, trasformarsi in personaggio, essere ancora chiamata a raccontare l'accaduto. Le scuse, quelle vere, non arriveranno mai: chi offende non perdona mai all'offeso.

Corriere 3.3.13
I telespettatori cattolici: «Fermate la fiction tv che racconta i Borgia»
di Giovanna Cavalli


ROMA — Fermate la fiction sui Borgia. O perlomeno rimandatela ad un momento meno delicato. Non proprio adesso che la sede pontificia è vacante. Questo chiede l'Aiart, associazione di telespettatori cattolici, preoccupata per la serie tv a sfondo vaticano, che verrà trasmessa questa sera alle 21.30 su La7. «Sarebbe opportuno spostarne la messa in onda» si raccomanda il presidente Luca Borgomeo. «È un momento delicato per la Chiesa e per il Papato. I credenti sono in grado di fare le debite distinzioni con la situazione odierna, ma i non credenti o chi ha una cultura religiosa approssimativa forse no. Quando è stata fissata la programmazione nessuno poteva prevedere una tale coincidenza temporale con la rinuncia di Benedetto XVI e l'apertura del Conclave per la nomina del nuovo Pontefice». Il rinvio, argomenta Borgomeo «sarebbe utile anche per non dare un'immagine distorta del Papato».
Niente da fare, comunque. Nonostante un articolo fortemente critico sull'Avvenire di ieri, in cui Franco Cardini lo definisce «un polpettone di sangue e sesso con i soliti luoghi comuni, in parte puramente calunniosi, montati alla rinfusa», la fiction «I Borgia», importata dagli Stati Uniti, dove è stata un successo, andrà in onda regolarmente. La7 non ha modificato il palinsesto. L'ipotesi non è proprio mai stata presa in considerazione. La rete non ha ricevuto alcuna richiesta in proposito.
Diretto da Neil Jordan, il teleromanzo storico-papalino in nove puntate, ambientato nella Roma del 1492, racconta gli intrighi, i torbidi rapporti e gli omicidi della famiglia più potente e immorale del Rinascimento. Con il premio Oscar Jeremy Irons nei panni di Rodrigo Borgia (padre dell'avvelenatrice e scostumata Lucrezia), che alla morte di Innocenzo VIII, tra minacce, corruzione, ricatti e omicidi, riesce a farsi eleggere Pontefice con il nome di Alessandro VI.

l’Unità 3.3.13
La psicoanalisi ora cambia passo. E si rinnova
Colloquio con Ferro, neo presidente dello Spi:
«Più cura per l’infanzia e attenzione per i servizi pubblici»
di Cristiana Pulcinelli

SPINGERSI OLTRE I PROPRI CONFINI SPAZIALI E TEMPORALI. APRIRSI AL MONDO INVECE DI RIMANERE IN UN DORATO ISOLAMENTO. Guardare al futuro e non guardare solo ai fasti del passato. Si potrebbe riassumere così il progetto che Antonino Ferro ha in mente per la psicoanalisi del nostro Paese e che, in quanto nuovo presidente della Società psicoanalitica italiana (Spi), cercherà di realizzare.
Ferro, palermitano che vive e lavora a Pavia, è psichiatra e si è occupato soprattutto di analisi di bambini e di pazienti patologie gravi. È autore di numerosi libri tradotti in più di dieci lingue. Si insedierà proprio oggi nel corso dell’assemblea dei soci che si svolge a Roma e, prima della cerimonia, ci tiene a precisare quale futuro vede per la Società che andrà a dirigere. «Penso prima di tutto a una Società che dia maggior spazio all’internazionalizzazione, ovvero che sia più presente da un punto di vista scientifico sulla scena internazionale. La psicoanalisi italiana, infatti, è ad un livello di assoluta eccellenza, ma ha un handicap: l’inglese. La comunità scientifica internazionale ormai funziona solo in inglese, quindi la poca conoscenza sia della lingua inglese, sia del funzionamento internazionale della psicoanalisi, ci ha tagliati fuori. Gli italiani, così, non sono stati sufficientemente presenti nella letteratura internazionale e questo è un problema che dobbiamo affrontare in tempi brevi».
Maggiore dialogo con il resto del mondo, quindi. Ma sulla base di una visione «minimalista» della psicoanalisi, come dice lo stesso Ferro: «Molti colleghi sono legittimamente interessati alla psicoanalisi applicata alla letteratura, all’arte o al cinema. Il mio interesse invece è per la psicoanalisi come un metodo straordinariamente efficace di terapia della sofferenza psichica. In fondo, lo psicoanalista si occupa della sofferenza psichica un po’ come un ortopedico si occupa delle fratture. Questo è lo specifico dell’analisi e questo è il campo in cui dà il meglio di sé».
L’enfasi sull’aspetto terapeutico si coniuga poi, nell’idea di Ferro, ad una maggiore attenzione al mondo dei bambini e degli adolescenti. «Bisogna dare più spazio alla psicoanalisi dei bambini e degli adolescenti. Altrimenti c’è il rischio di vedere la loro sofferenza sequestrata dagli aspetti biologici. Faccio un esempio: se il bambino è agitato, la risposta più semplice potrebbe essere dare il Ritalin, mentre si deve tener conto della sofferenza psichica e, in questo campo, la psicoanalisi può dare risposte importanti»
A proposito di psicoanalisi rivolta all’infanzia, c’è un progetto della Spi nato prima della nomina di Ferro, ma che il nuovo presidente ci tiene a sostenere. Si tratta della formazione di centri clinici che dovrebbero diventare in seguito delle strutture terapeutiche convenzionate con i servizi sanitari pubblici. «Noi – prosegue Ferro possiamo mettere a disposizione le nostre competenze per offrire le capacità di cura anche fuori dalla stanza d’analisi. Certo, serve una controparte che sia ugualmente interessata al progetto».
La mancata relazione con le strutture di sanità pubblica è un problema non solo italiano, come spiega Stefano Bolognini, primo presidente italiano dell’International Psychoanalitical Association, l’istituzione fondata da Freud nel 1910. «La psicoanalisi in questi 100 anni è andata molto avanti dando un contributo sempre più specifico alla cura dei disturbi mentali ed emotivi. Però ha un problema di raccordo con altre aree della salute mentale, con le strutture psichiatriche e con la cultura della salute a livello politico. Così la psicoanalisi si è sviluppata soprattutto nel privato, senza un legame forte con la sanità pubblica. Esiste, dunque, come un mondo parallelo cui i pazienti ricorrono quando le hanno provate tutte. Il trattamento analitico diventa così l’ultima spiaggia, quando invece dovrebbe essere il primo tentativo da fare». Questo diventa anche un problema economico: “Nei paesi scandinavi, ad esempio, lo Stato dà contributi significativi al cittadino per la terapia psicoanalitica perché questo permette di risparmiare sui ricoveri e sulla somministrazione di farmaci».
In questo processo di svecchiamento c’è posto per un nuovo rapporto con le neuroscienze che negli ultimi anni hanno fornito un contributo importante alla conoscenza dei processi mentali? «Si tratta di due laboratori diversi: credo che debbano continuare a lavorare nel proprio specifico, lasciando acceso il citofono che li mette in contatto».

La Stampa 3.3.13
«Porterò da noi la psicanalisi low-cost e le sedute via Skype»
«I sogni hanno perso il primato di strada maestra verso il nostro inconscio»
«Curare i bambini dà immense soddisfazioni, le terapie sono efficaci e durano meno che per gli adulti»
Parla Antonino Ferro lo studioso freudiano che oggi diventa presidente della Società Psicanalitica italiana
intervista di Egle Santolini

Antonino Ferro palermitano di nascita ma pavese di adozione è uno psicanalista famoso per i suoi studi sulle terapie infantili Ha 65 anni

I freudiani della Società Psicoanalitica Italiana, riuniti in assemblea a Roma, proclamano oggi il loro nuovo presidente. È Antonino Ferro, 65 anni, palermitano di nascita, pavese di adozione, conosciuto in tutto il mondo. Siamo andati a trovarlo in un momento singolarmente sospeso della vita nazionale.
Lei si trova a presiedere un importante organismo internazionale nella propria declinazione italiana. Una bella responsabilità, di questi tempi.
«Vede, io ho una formazione per molti versi non italiana. In giro per il mondo è capitato spesso che colleghi per esempio britannici o finlandesi si mettessero a ridere del nostro Paese, e lei può immaginare di chi si ridesse. Sì, mi sono portato questa croce. Eppure la situazione che stiamo vivendo è molto simile a quella analitica: siamo in una specie di bolla e non ne capiamo il senso. Non sappiamo dove stiamo andando. Per fortuna, perché ogni sviluppo è possibile e non è detto che stia arrivando qualcosa di spiacevole. Sono quelle che nel mio mestiere si chiamano capacità negative, una caratteristica preziosa dei bravi analisti: l’essere in grado di tollerare l’incertezza fino a che non si configuri una Gestalt, cioè una forma precisa. Devo aggiungere però che io ho una concezione molto minimalista dell’analisi».
Vale a dire?
«La considero esclusivamente una cura della sofferenza psichica. Altri colleghi molto stimabili la usano come strumento per l’interpretazione del mondo. Li capisco, ma continuo a credere che non ci si debba far affascinare da certe sirene. Da questo punto di vista, mi considero come un bravo ortopedico. Il suo lavoro potrà essere influenzato dalla situazione economica e politica, e se per esempio il suo ospedale non ha strumentazioni efficaci ne risentirà. Ma, nella sostanza, il suo specifico sta nell’aggiustare le ossa».
Eppure la crisi incide, se non altro sulla difficoltà per i pazienti di pagare le sedute.
«Tanti di noi sono andati incontro a problemi di questo tipo. Non insormontabili: molti colleghi, giovani e no, fanno pagare ai pazienti un onorario ridotto, adeguato al loro stipendio. Ho intenzione di portare in Italia l’esempio della Tavistock Clinic di Londra: centri non solo di diagnosi ma anche di terapia, a basso costo, connessi col servizio pubblico».
L’altra crisi spesso evocata è proprio quella della psicoanalisi, per cui ogni tanto si recita il de profundis.
«È sbagliato. L’analisi gode di ottima salute e viaggia verso Est: prima l’Europa orientale, ora la Russia, la Cina, la Corea. Il fatto è che funziona. Altrimenti - non le pare? - avrei cambiato mestiere da un pezzo, visto che sono medico. Bisogna però guardare al futuro e non limitarsi a rimpiangere i fasti del passato. Ci si aprono territori ancora inesplorati. Prima di tutto, la possibilità di attaccare patologie sempre più gravi, che una volta gli analisti nemmeno prendevano in considerazione».
Gli psicoanalisti hanno anche cominciato a somministrare farmaci?
Mi piacerebbe che su temi come le famiglie gay, la psicoanalisi non tenesse posizioni di retroguardia. Siamo scientifici: andiamo a vedere, senza giudizi formulati a priori
«Per non fare pastrocchi è meglio che il medico che prescrive le medicine non sia lo stesso che cura con l’analisi. Ma con i pazienti gravi è ormai prassi: occorre agire di conserva, con il neurologo o lo psichiatra a stabilire una rete di sicurezza, per eventuali ricoveri o per le emergenze nel periodo di sospensione estiva delle sedute».
Altri nuovi orizzonti terapeutici?
«Le malattie psicosomatiche. Il filone più importante per il futuro dell’analisi sta però nei piccoli pazienti. Curare i bambini dà immense soddisfazioni, le terapie sono efficaci e durano molto meno di quelle degli adulti. Pensi che due analisti svedesi, Johan Norman e Björn Salomonsson, hanno addirittura cominciato a curare neonati di poche settimane, per esempio casi di anoressia infantile, usando i vocalizzi, le lallazioni».
Ma i bambini così piccoli sono talmente privi di esperienza da far pensare che si possa agire soltanto su fattori neurologici.
«Le emozioni cominciano subito. Ed è attraverso l’emotivo che il neurologico si sviluppa e si struttura».
Il sogno resta ancora la strada maestra per l’inconscio?
«Ha perso questo primato. Disponiamo di molti altri shuttle su cui salire. Ma ha acquisito una nuova funzione: oggi possiamo dire che soffriamo dei sogni non fatti, nel sonno e anche a occhi aperti. Per meglio dire, il sintomo è il precipitato di sogni che la nostra mente non è stata capace di fare. È una grande intuizione di Bion della quale ancora non si è tenuto il debito conto».
Che cosa non va, o va meno, nella psicoanalisi di questo inizio di millennio?
«È spesso troppo ortodossa, troppo ritualizzata. Si ricorda la famosa frase di Freud a Jung, mentre arrivavano a New York? “Non sanno che portiamo la peste”. Ecco: vorrei una psicoanalisi più pestifera, sulfurea, capace di osare. Pensi anche a certi tormenti sull’analizzabilità del paziente, a certe assurde chiusure sul setting. Il mondo va avanti: non mi scandalizzano neppure le sedute su Skype. Certo non sono la prima scelta, ma piuttosto che non curare un paziente…».
Alcune settimane fa, lei ha preso posizione a favore delle famiglie omosessuali.
«Mi piacerebbe che, su questi temi, la psicoanalisi non tenesse posizioni di retroguardia. Siamo scientifici, nel senso proprio della parola: andiamo a vedere, senza apriorismi. E dirigiamo le nostre carovane verso il West».