lunedì 4 marzo 2013

l’Unità 4.3.13
«Grillo decida o tutti a casa»
Bersani: niente mercati di poltrone, o si fa il governo o si vota
No patti con Berlusconi
Il leader Pd in tv da Fazio: «Non apro tavolini, ma ognuno si prenda le sue responsabilità»
Al Capo dello Stato: ci invita a riflettere, lo faccio a voce alta
di Giuseppe Vittori


«Dico io prima di Grillo, che ora gioca a fare l'uomo mascherato in giro, che io di tavolini non ne apro, non sto qui a scambiare sedie, non ho intenzione di fare patti. Bisogna che ognuno si prenda le sue responsabilità. Grillo ha voluto venire in Parlamento. Poteva anche stare a casa, lui e il Movimento 5 Stelle. Poteva dire siamo un movimento extraparlamentare. Ha detto “vengo in Parlamento”, ha un terzo dei parlamentari, adesso dice cosa vuole fare. Tutti a casa? Tutti, anche lui». Dagli studi Rai di «Che tempo che fa» Pier Luigi Bersani rilancia la sfida al leader dei 5 stelle. Rispondendo a Fabio Fazio ripete che il comico deve «scegliere dove andare», visto che nel suo programma, ci sono «cose di destra e cose di sinistra». «Mi sembra ad esempio aggiunge che Grillo non sia d'accordo sul fatto che uno straniero nato e cresciuto qui sia italiano, e che sia stato tiepido sulla lotta all'evasione». E «un partito azzoppato nella sua democrazia interna, poi, una volta al governo, azzoppa la democrazia».
In ogni caso ecco il secondo messaggio nessuno si illuda che il Pd possa essere alleato, nel prossimo governo, di Berlusconi: «Immaginare che noi possiamo fare qualche accordo con chi ha fermato il cambiamento è irrealtà». E aggiunge: «Io non so se è vero o falso ma è in corso un'indagine sul caso del senatore De Gregorio, sull'acquisto di parlamentari per ribaltare le elezioni. Non sono mica noccioline».
Tutto questo non significa prefigurare un esito della crisi, a cominciare dalle future consultazioni al Quirinale. «Il presidente della Repubblica, che ha tutta la nostra stima e il nostro rispetto, ha detto le forze politiche riflettano. Naturalmente le forze politiche ora riflettono a voce alta ed è quello che sto facendo». E nella sua riflessione, il segretario del Pd parte dall’esito del voto: «Noi abbiamo perso spiega perché abbiamo avuto un risultato inferiore alla aspettative e non riusciamo da soli a garantire al governabilità. Dentro a questa sconfitta ci sono delle cose particolari. Noi abbiamo 460 parlamentari, il doppio della destra, il triplo dei Grillo e quindi tocca a noi dire la prima parola su quello che bisogna fare».
È chiaro comunque che il Pd guarda innanzitutto ai 5 Stelle. Non ci sono incontri con Grillo, ma il segretario del Pd sa «benissimo», e «lo si vede sulla rete, sui territori, che c'è un parlarsi tra i nostri, i loro, non più di questo». Se gli verrà dato l’incarico, il leader del Pd punterà a «un governo largamente rinnovato, con la presenza di giovani, donne e anche presenze esterne dai partiti, assolutamente competenti». E con un «programma composto da 8 punti da affrontare con urgenza». A cominciare dall’anti-corruzione, dal conflitto di interessi, dal lavoro, dai costi della politica, anche se aggiunge a questo proposito la politica una qualche forma di sostegno pulito lo deve avere». «Anche fosse per un solo euro, su questo punto non sono disposto a rinunciare al principio che da Clistene in poi è un principio collegato alla democrazia. La politica deve avere una qualche forma di sostegno pubblico, altrimenti la fanno solo gli ottimati e miliardari». E poi? «Poi risponde non so che succederà, partiamo e cominciamo a cambiare, perché l’idea che adesso possiamo far battere la palla in una situazione sociale del genere è pericoloso».
Altro tema, il Pd e Renzi. Che ruolo potrà avere il sindaco di Firenze? «Quello che deciderà lui con la direzione del partito. Certamente aggiunge un ruolo lo avrà nel futuro del Pd». Bersani ricorda che sono state fatte «apposta le primarie», per scegliere chi avrebbe guidato il Pd nel corso della campagna elettorale e che i militanti di centrosinistra hanno affidato il compito a lui.
Ultima questione: il prossimo inquilino del Quirinale. «Dopo un presidente così non è semplicissimo trovare una soluzione, ma penso che troveremo una convergenza. In ultima analisi i numeri si possono trovare». Napolitano «lo conosco e lo stimo ha aggiunto e so anche che quando dice una cosa la dice seriamente». La scadenza del suo mandato «è certamente un problema perché abbiamo capito tutti l’importanza estrema del ruolo del presidente della Repubblica».

l’Unità 4.3.13
I difficili passaggi della crisi: è tensione tra Pd e Quirinale
Sulla linea di Bersani governo di scopo o nuove elezioni Napolitano
non nasconde le sue riserve e chiede una maggioranza chiara
di Simone Collini


Il primo contatto tra Quirinale e Pd c’è stato lunedì scorso, a poche ore dalla chiusura dei seggi. E lì sono emersi i primi elementi di tensione. Commentando il risultato che via via si faceva chiaro, alcuni esponenti democratici hanno iniziato a parlare di un Parlamento ingovernabile e della necessità di approvare in tempi rapidi una nuova legge elettorale e tornare alle urne. Dal Colle è partita una telefonata per dare l’altolà, perché quell’evocare nuove elezioni è stato giudicato sbagliato (per non parlare del fatto che Giorgio Napolitano è nel semestre bianco e non ha il potere di sciogliere le Camere). Così, Enrico Letta in serata ha corretto il tiro: «Il ritorno al voto immediato non pare a oggi la prospettiva da perseguire e abbiamo fiducia che il Capo dello Stato possa aiutare a trovare le soluzioni migliori».
Il secondo contatto, direttamente tra Napolitano e Pier Luigi Bersani, c’è stato ventiquattr’ore dopo, cioè nel giorno in cui il leader Pd ha annunciato la linea con cui intende gestire il risultato elettorale: spetta al centrosinistra, coalizione più votata e con maggior numero di parlamentari, avanzare una proposta. E la proposta messa sul piatto dal segretario Pd è quella di un governo di scopo che chieda la fiducia alle Camere sulla base di un programma qualificato, orientato al cambiamento, alla legalità e alla moralità pubblica e quindi capace di intercettare i voti anche del Movimento 5 Stelle. Napolitano non ha nascosto le sue perplessità su questa linea. Direttamente a Bersani e poi con dichiarazioni pubbliche.
Per il Capo dello Stato non è possibile, nella situazione che si è determinata dopo il voto e con l’Italia già sotto la lente dei partner europei e dei mercati internazionali, far nascere un governo che non abbia già sulla carta una chiara e solida maggioranza: un incarico a Bersani sarebbe dunque possibile soltanto se nel corso delle consultazioni dovesse emergere una maggioranza di senatori pronti a votare la fiducia a questo esecutivo di scopo, o «di responsabilità nazionale», come lo chiama Bersani. Per questo Napolitano, rientrato dalla visita di Stato in Germania, ha raccomandato «misura, realismo, senso di responsabilità anche in questi giorni dedicati a riflessioni preparatorie».
È proprio in questa fase che precede le consultazioni che, per il Presidente della Repubblica, è sbagliato delimitare il campo a una sola ipotesi, o porre aut aut, come sta facendo sempre più chiaramente la maggioranza del Pd. Bersani ha definito «irrealtà» anche solo immaginare un accordo tra Pd e Pdl e ha sfidato Beppe Grillo a dire se è pronto a sostenere il programma in otto punti delineato nei giorni scorsi e che ha al primo posto l’anticorruzione: «Ha un movimento che ha un terzo dei parlamentari, decida che vuole fare altrimenti andiamo tutti a casa, anche lui». Una sfida a Grillo, ma anche un messaggio a chi pensa che il suo partito possa accettare una soluzione che implichi un accordo tra Pd e Pdl, pur nella forma di un governo tecnico. Ed è proprio su questo che si registra maggiore tensione, nel confronto tra Pd e Colle.
Napolitano nei giorni scorsi ha avuto un colloquio anche con Massimo D’Alema, che sostiene la linea di Bersani: «Se Grillo vuole che la legislatura vada avanti deve prendersi una parte di responsabilità altrimenti sarà responsabile di nuove elezioni». Ma come ha spiegato ai suoi interlocutori, il Capo dello Stato vuole evitare che si restringano i margini di manovra del Quirinale prima ancora che si capisca che tipo di maggioranze possano determinarsi al Senato. E con Napolitano è schierato apertamente Walter Veltroni. Certo, sarà decisiva l’elezione del presidente di Palazzo Madama. Tra le soluzioni che il Colle non accetta di veder escluse c’è quella del cosiddetto «governo del presidente», cioè un esecutivo guidato da una personalità al di fuori degli schieramenti e sostenuto dalle principali forze parlamentari. Una soluzione caldeggiata dal Pdl e per la quale circolano i nomi del governatore e del direttore di Bankitalia Ignazio Visco e Fabrizio Saccomanni, dei ministri uscenti Fabrizio Barca, Corrado Passera, Anna Maria Cancellieri. Un nome, quest’ultimo, che però viene citato anche per il Colle.
Il 15 aprile (salvo dimissioni anticipate) inizieranno infatti le votazioni per il nuovo Presidente della Repubblica. E, nel caso andasse a vuoto il tentativo di Bersani di dar vita a un governo di scopo e nel caso il Pd mantenesse fermo il punto di non far nascere un governo con un accordo col Pdl (e fondamentale da questo punto di vista sarà il voto che uscirà dalla Direzione di mercoledì e il sostegno alla sua linea che incasserà Bersani) lo sbocco dalla crisi potrebbe determinarsi proprio dopo l’elezione del nuovo Capo dello Stato. Il quale, guardando ai numeri del Parlamento, potrebbe essere eletto con i soli voti di Pd, Sel e centristi. E il quale sarebbe nel pieno dei poteri. Scioglimento delle Camere compreso.

l’Unità 4.3.13
Fassina: «Governo tecnico? Sarebbe un suicidio»


Stefano Fassina, responsabile Economia e Lavoro del Pd, respinge l’ipotesi di un nuovo governo tecnico. «Ritengo che sarebbe un suicidio per la democrazia nominare un altro tecnico senza alcun mandato elettorale che insiste su un’agenda che ha causato problemi», ha detto durante un’intervista a Maria Latella su Sky Tg24. «Credo che vada ascoltato il messaggio degli elettori. Deve stare a Palazzo Chigi chi ha ricevuto il consenso. Se non è possibile si deve tornare a chiedere il consenso agli elettori, se vogliamo salvare oltre che l’economia anche la democrazia», ha insistito Fassina, «altrimenti veniamo travolti da questa disattenzione».
Affrontando poi uno dei temi più cari al Movimento Cinque Stelle, Fassina sottolinea: «Noi vogliamo discutere, ma i rimborsi elettorali servono anche per far andare avanti la vita democratica del partito, che non viaggia solo su internet, per finanziare assemblee e finanziare la formazione dei quadri».
In materia di rimborsi elettorali, ai quali secondo Grillo i partiti dovrebbero rinunciare, Fassina invita quindi alla riflessione: «Sarei per discutere e sarei per discutere anche sugli statuti dei partiti. I partiti, indipendentemente dal fatto che prendano o no i finanziamenti pubblici, debbono avere democrazia interna. Ritengo che il finanziamento pubblico ai partiti sia importante ma debba essere trasparente e con regole molto chiare».

Repubblica 4.3.13
Carlo De Benedetti
“La più grave crisi dal Dopoguerra ora l’Italia corre un grande rischio”


ROMA — «Questa è la crisi politica più grave dal dopo guerra”. Ne è convinto Carlo De Benedetti che, in un’intervista al settimanale francese “Journal du dimanche”, attribuisce larga parte delle responsabilità al «decennio berlusconiano ». Secondo l’Ingegnere, allora, a questo punto «l’Italia corre un grande rischio» anche per la presenza al Senato di una «maggioranza antieuropea ». Ma Grillo potrebbe provocare una «forte reazione nelle forze politiche » sebbene «la legislatura sarà comunque di breve durata». De Benedetti spera che non si torni a votare immediatamente e che il Movimento 5 Stelle non rigetti i provvedimenti proposti dal centrosinistra e che condivide.

Repubblica 4.3.13
L’appello
“Berlusconi deve essere ineleggibile” Anche Rodotà firma, oltre 70 mila adesioni


ROMA — Anche Stefano Rodotà firma l’appello di MicroMega su “Berlusconi ineleggibile”. «La rilevanza del conflitto di interessi del Cavaliere, negli anni, è divenuta molto evidente» ha spiegato il giurista, motivando così la sua adesione affinché venga applicata la legge 361 del 1957 che renderebbe Berlusconi ineleggibile. Secondo questa norma, mai applicata, non sarebbe infatti «eleggibile in Parlamento, chi ha rilevanti concessioni da parte dello Stato, in proprio o attraverso i propri amministratori». Una campagna che sta riscuotendo un clamoroso consenso: in soli due giorni le firme raccolte hanno già superato quota 70 mila.

l’Unità 4.3.13
Perché recuperare la vocazione maggioritaria
di Michele Ciliberto


L’INTERVISTA DI WALTER VELTRONI AL CORRIERE DELLA SERA AVVIA IN MODO SERIO UNA RIFLESSIONE sulle recenti elezioni e sulla sconfitta del Pd: perché di sconfitta bisogna parlare quando un partito perde circa 4 milioni di elettori, anche se è graziato da una oscena legge elettorale.
Veltroni pone alcuni problemi importanti rifacendosi,in effetti, alla strategia proposta al Lingotto; e opportunamente, a mio giudizio. Fu infatti una scelta precipitosa accantonarla; soprattutto si sbagliò a rinunciare a un perno vitale di quella prospettiva: l’idea di un partito riformatore a vocazione maggioritaria, con il conseguente offuscamento, e il sostanziale dileguarsi, di una dinamica bipolare in grado di riorganizzare in forme nuove il sistema politico italiano.
Intendiamoci: alla base di tutto questo ci sono stati processi di vario genere che occorrerebbe approfondire e da cui sono state generate scelte strategiche diverse, su cui si possono avere idee differenti. Ma questo non toglie il valore, e la permanente importanza, di una prospettiva bipolare in Italia. Per un motivo decisivo, che si può esprimere in modo assai semplice: solo un serio bipolarismo può contrastare le tendenze strutturalmente trasformiste della nostra storia, con ciò che esse comportano su tutti i piani (bipolarismo, preciso, non bipartitismo).
Un esempio: negli ultimi mesi si è enfatizzata, quotidianamente, l’importanza del Centro come se si fosse finalmente trovata l'araba fenice. Ma riciclare sotto le bandiere di Scelta civica Fini e Casini cosa era, nonostante tanta retorica sulla «società civile», se non vecchio trasformismo: questo indomabile Proteo sempre pronto a risorgere, specie nei momenti di crisi della storia nazionale italiana?
Uscire da questa palude non è facile; ma per cercare di farlo è importante riprendere a ragionare anche sulla necessità, in Italia, di un partito riformatore a vocazione maggioritaria. Tanto più occorre farlo di fronte al successo del Movimento 5 Stelle, il quale questo è: un movimento a forte vocazione maggioritaria; anzi, ad esser precisi, «totalitaria». Quello a cui tende non è infatti un sistema di alleanze in cui inserirsi, tantomeno in funzione subordinata. Esso esprime una forte pulsione di autonomia, di indipendenza, di alterità. Non vuole in alcun modo far parte di un gioco politico ordinario; ambisce ad identificarsi con l’«intero», cancellando l’idea di «parte» e quindi anche la differenza di destra e di sinistra. È effettivamente, per alcuni aspetti, un movimento «apocalittico», e come tale tendente alla totalità.
Si capisce, naturalmente, lo sforzo che oggi stanno facendo i capi politici del Pd per cercare di stabilire un contatto con il Movimento 5 Stelle. Ma forse non sono ancora chiare fino in fondo la violenza e la natura dell’onda che si è abbattuta sul nostro sistema politico e le conseguenze che essa può generare, se riesce a ingrossassi. Forse non è stata compresa ancora fino in fondo la «missione» (uso volutamente questo termine di tipo religioso) che Grillo e Casaleggio si sono dati. Un intero mondo è finito, e un altro, in modo tumultuoso e informe, sta cercando di nascere. Oggi è assai arduo proporre al Movimento 5 Stelle una piattaforma comune, sia pure su una serie circoscritta di punti, riproponendo modelli politici ordinari e schemi parlamentari tradizionali. Grillo e i suoi seguaci sono su un’onda diversa, difficile da cavalcare per tutti, anche per gli amanti del surf. Come testimonia il lessico che usano: spia sempre decisiva dei processi che avvengono nel profondo di un mondo, di una società.
Con il loro successo essi hanno però dimostrato un punto di valore generale: un movimento che si esprima con una vocazione maggioritaria così violenta da configurarsi addirittura come «totalitaria» e perciò radicalmente altra rispetto al gioco politico tradizionale oggi in Italia è destinato a intercettare un consenso popolare tanto vasto da diventare il primo partito del Paese.
Non credo che il Movimento 5 Stelle riuscirà a conseguire gli obiettivi che si prefigge. In Italia la democrazia è ancora forte e i legami con l’Europa assai profondi. Non ha perciò senso paragonare, come fa Veltroni, la nostra situazione con quella della Repubblica di Weimar; oltretutto la storia non torna mai nelle stesse forme. Penso però che esso possa contribuire, oggettivamente, a una riorganizzazione del sistema politico, favorendo la ripresa di una dinamica bipolare, anche se è difficile dire dove si collocherà. Anzi, è assai probabile che il duello più duro lo voglia impegnare proprio a sinistra, con il Pd. Lo vedremo, anzi lo stiamo già vedendo in questi giorni.
Ma non è su questo che ora intendo fermarmi. Mi interessa sottolineare un altro punto: se questo è vero, è essenziale che il Pd, in questa situazione complicata e tumultuosa, riprenda la sua funzione originaria di partito a vocazione maggioritaria, lottando per la costruzione di un serio bipolarismo, mettendo fine alla frantumazione del sistema politico e contenendo le pulsioni trasformiste che corrompono le basi della nostra democrazia. Oggi, nel campo riformatore è necessaria una vera e propria rivoluzione copernicana, se non si vuole essere definitivamente travolti: forse cominciano ad essercene alcune condizioni. È una battaglia che vale la pena di fare e che, forse, si potrebbe ancora vincere.

l’Unità 4.3.13
Non è vero che il terremoto elettorale ha origine solo nella crisi della politica
La frattura sociale che ha sconvolto la Repubblica
Mai come stavolta si è verificato uno scollamento tra generazioni e ha pesato la precarietà
di Carlo Buttaroni


Pubblichiamo l’analisi del voto elaborata da Tecné. Balzano agli occhi i consensi ottenuti dai 5 Stelle tra gli elettori più giovani e tra i disoccupati. Il che dimostra che la sfiducia verso la politica sono una chiave interpretativa non sufficiente.
Sono passati sette giorni dal terremoto che ha sconvolto l’Italia della politica. Un sisma fuori scala, il cui epicentro non è nel sistema dei partiti, ma nella società. Dalle urne è uscito l’urlo di una generazione cui è stato sottratto il futuro. Poteva manifestarsi nelle piazze. È esploso, invece, nei seggi elettorali, materializzandosi in un contesto di istituzioni molto fragili, logorate, indebolite. Soprattutto, incapaci in questi anni di trasformare questi segnali in un’azione riformatrice. La forza di quanto accaduto, e la potenza degli eventi, non ha precedenti nella storia della nostra Repubblica. E nemmeno in Europa, per come si è manifestato e per l’impotenza che adesso avvolge le istituzioni democratiche.
Tutto è cambiato dalla manifestazione di Roma, a piazza San Giovanni, a 48 ore dal voto, e dalle tante piazze riempite nei giorni precedenti, con centinaia di migliaia di cittadini plaudenti. Da quelle piazze, e dai relativi collegamenti web, la dinamica non è stata più politica, non ha misurato più il consenso, ma ha assunto le dimensioni della partecipazione collettiva a un evento che avrebbe segnato la vicenda del nostro Paese. È stata la caduta di un «muro», del nostro muro, a spingere qualche milione di italiani a depositare il loro «mattone» nell’urna, come una testimonianza della propria presenza.
Solo partendo da qui si possono evitare analisi viziate dai vecchi paradigmi e da presupposti che appartengono a un passato spazzato via dalla crisi economica e dalla crisi istituzionale. Il fenomeno è molto più profondo di quanto è stato descritto nelle prime analisi post-voto. E solo la cecità di chi non vuol vedere può nascondere i detriti del mondo rovesciato in cui ci siamo scoperti a camminare. Non è stato un voto di protesta, ma molto di più: il distacco di due placche sociali, la deriva di una generazione dall’altra. Un quarto dei votanti ha scelto il movimento di Grillo. Ma non è tanto il numero che conta. Perché questo voto non ha una contabilità elettorale, ma quasi esclusivamente sociale. Nei seggi non è stata messo il segno su un simbolo, bensì premuto un pulsante di allarme disperato.
Lo si legge nel voto degli studenti e dei disoccupati. Lo si vede nella differenza dei gesti elettorali dei giovani e degli anziani, e nelle differenze tra chi riesce a preservare un briciolo di garanzie (come i lavoratori dipendenti) e chi, invece, queste garanzie non le ha mai avute e mai, probabilmente, le avrà. La velocità a terra del terremoto si vede dalla paralisi istituzionale, ma l’intensità si desume dai numeri: su 8,7 milioni di cittadini che, tra domenica e lunedì, hanno votato il Movimento 5 Stelle, oltre 2,5 milioni vengono dal centrosinistra, 3,1 milioni dal centrodestra e 2 milioni dall’astensionismo. 4,9 milioni di voti sono di elettori che, in passato, avevano votato i partiti dell’«esperienza Monti», mentre più di tre milioni derivano da quell’asse Pdl-Lega che ha segnato le vicende dell’Italia nell’ultimo ventennio.
In qualsiasi modo si scomponga e ricomponga, il voto segnala la potenza dell’evento. Cos’altro serve per capire che non si tratta di un voto che può essere letto soltanto attraverso le lenti del consenso politico? Ogni paragone con il passato non ha termini adeguati. La crisi politica del ’92, che portò, nelle elezioni politiche di due anni dopo, all’affermazione di Forza Italia, non è confrontabile. Il partito di Berlusconi nacque improvvisamente, ma sul «ground zero» del pentapartito (Dc, Psi e alleati). Oggi, il Movimento 5 Stelle si fa spazio tra le forze politiche esistenti, nonostante queste siano comunque in campo, e ben attrezzate, con i loro apparati del consenso. Un elemento in più che dimostra che l’unità di misura ha una scala sociale prima ancora che politica.
D’altronde per troppo tempo, nel profondo del Paese, si è accumulata un’energia distruttiva.
Dal 2001 l’Italia è uno dei Paesi che, dal punto di vista economico e sociale, cresce meno. Non in Europa, ma nel mondo. Facciamo un uso dissennato del suolo, abbiamo costruito su tutto e inquinato di tutto. Anziché ferrovie e ponti, abbiamo costruito cattedrali nel deserto. Abbiamo condonato ogni nefandezza e sanato ogni reato contro il bene pubblico. Abbiamo trasformato grandi elusori in eroi, facendo, invece, guerre sante contro i commercianti e gli artigiani. Conserviamo, per alcune categorie, privilegi e retribuzioni (e pensioni) alte, e per pareggiare i conti condanniamo alla povertà i giovani. Da decenni non abbiamo una politica industriale, incolpando di questo sindacati e lavoratori. Anziché finanziare riconversioni, ricerca e innovazione, dissipiamo enormi risorse pubbliche per accanimenti terapeutici nei confronti di settori produttivi saturi, vecchi, senza futuro. Non si investe più in scuola, cultura, conoscenza.
Abbiamo un sistema politico inadeguato, deformato dalla seconda Repubblica, e al tempo inconcludente. La sfiducia verso la classe politica, oltre che da fattori soggettivi, è stata accentuata dal distacco del Porcellume e delle sue liste bloccate. Monti, all’esordio, è sembrato un gigante, non per le sue politiche economiche ma perché, dopo il decennio berlusconiano, non ha dato una rappresentazione ridicola del Paese.
Se Tangentopoli ha rappresentato il punto di caduta della prima Repubblica, la seconda è finita anzitutto per l’impotenza della sua politica a cambiare davvero il Paese. Nell’ultimo ventennio si sono susseguiti governi molto diversi tra loro per qualità e per strategie, alcuni di questi governi hanno anche compiuto scelte importanti per l’Italia, tuttavia sono stati tutti governi sostanzialmente deboli, sempre ostaggi di qualcosa o di qualcuno, incapaci di portare a compimento le riforme profonde. Abbiamo avviato un percorso costituzionale per disporci verso il federalismo, ma lo abbiamo interrotto a metà. Abbiamo trasferito competenze ai territori, sottraendogli però le risorse necessarie a esercitarle. Di conseguenza, il federalismo è diventato un moltiplicatore della spesa pubblica. Siamo rimasti un Paese incompiuto, come i cavalcavia sospesi a metà su campi incolti. Non siamo riusciti a fare una legge elettorale, nemmeno di fronte alla minaccia del baratro. Eppure, ogni giorno, si annunciava la soluzione del rebus. Oggi il Paese paga le drammatiche conseguenze. Ci fosse stato il doppio turno, come in Francia, probabilmente racconteremmo un’altra storia, almeno dal punto di vista istituzionale. E la storia sarebbe diversa, e forse non così drammatica, anche se avessimo sistemi simili a quello inglese, o tedesco, o svedese. Invece, qui in Italia è la paralisi. Non sappiamo se ci sarà un governo in grado di raccogliere la sfida sociale che viene dalle urne. E intanto la crisi imperversa, bruciando i posti di lavoro, i redditi delle famiglie e la capacità produttiva delle imprese.
L’anno zero è veramente arrivato. E abbiamo scoperto che la crisi non riguarda solo l’economia. Dire che quello di domenica scorsa è stato una protesta «antipartitica» significa non aver capito nulla di quanto è accaduto. Nelle urne, pur nelle sue contraddizioni, è stata rappresentata un’idea di società che si rafforza nelle sue vocazioni primarie: lo sviluppo di qualità, la sanità, l’assistenza ai più deboli, l’istruzione, l’attenzione al bene comune, la tensione a operare nella giustizia e a favore dell’interesse di tutti.
E la politica tutta la politica, anche quella nuova si aggira ora disorientata tra masse di elettori che esprimono una sofferente geografia del consenso. Mentre il voto esprime il bisogno di un nuovo patto, una rifondazione che ispiri le scelte e le azioni pubbliche. Non rispondere a questo bisogno rischia di far esplodere in maniera ancora più forte la frattura sociale che si è manifestata nel voto. Sarebbe un errore cercare, adesso, l’alibi della protesta.Rischia di essere un grave errore anche per Grillo, che pure ha alimentato e si è alimentato di questo sentimento diffuso. Non è la protesta che serve al Paese, ma un colpo d’ali. E il Parlamento, o è in grado di esprimere un governo forte in grado di dare risposte, oppure è meglio per tutti che si torni velocemente alle urne. Occorre una politica che sappia farsi carico di quella volontà di rifondazione morale, civile ed economica che è stata depositata nelle urne. Non è più il tempo di soluzioni intermedie, rinvii e alchimie tattiche. Del resto, anche i mercati non faranno sconti, perché l’incertezza rischia di accendere una crisi che può far crollare l’intero impianto europeo.
Mai come adesso il Paese è un osservato speciale, perché da noi può partire un’epidemia in grado di diffondersi in tutto il continente. Occorre la consapevolezza che non ci sarà un secondo tempo. E soprattutto bisogna farla finita con la favola delle scelte tecniche neutrali, perché nemmeno la tecnica è neutra nelmomentoincuiagiscein una determinata direzione. Occorre far tornare la politica alla responsabilità delle scelte perché anche i tanti piccoli rivoli sociali che hanno preso la forma della grillo-ribellione, ne sentono la mancanza. Le pratiche chesimoltiplicanoaspiranoa teorie in grado di spiegarle e darne un senso, così come le buone idee hanno bisogno di un’operatività pratica capace di renderle reali e concrete. Il «liquidismo» che traspare da alcune analisi è nemico del futuro del nostro Paese. E per contrastarlo non occorre un uomo forte ma la forza del pensiero, condiviso, responsabile. Qualcosa che solo la buona politica può offrire.

Corriere 4.3.13
Grande coalizione, un elettore su 3 dice sì
Democratici divisi: il 40% punta sui 5 Stelle
di Renato Mannheimer


Tutti i commentatori sottolineano come il nostro Paese si trovi oggi in una situazione drammatica. L'esito delle elezioni ha portato a un assetto parlamentare nel quale appare assai difficile, se non impossibile, la formazione di una maggioranza di governo. Al riguardo sono state ipotizzate negli ultimi giorni diverse alternative, tutte però caratterizzate da molti limiti e difficoltà.
Cosa ne pensano i cittadini? Quali sono le soluzioni più diffuse e apprezzate in questo momento dall'opinione pubblica? Quest'ultima appare al riguardo assai divisa: un terzo degli italiani pare approvare l'idea di formare un'altra «strana» maggioranza che veda nuovamente il Pd e il Pdl assieme per approvare alcune riforme essenziali e per andare poi a nuove elezioni. Ma una percentuale simile vede invece con maggior favore un'alleanza più o meno stabile tra il centrosinistra e il Movimento 5 Stelle per cercare, in qualche modo, di governare il Paese. Minore consenso trovano invece le proposte di formare un governo tecnico, capeggiato da una personalità esterna alla politica, ma appoggiato dai maggiori partiti e quella di un governo di minoranza del centrosinistra che, di volta in volta, cerchi degli accordi con gli altri partiti per approvare le leggi.
Naturalmente, queste diverse soluzioni ottengono differente consenso tra gli elettorati dei vari partiti. In particolare, come era facile aspettarsi, i votanti del centrodestra — e quelli del Pdl in particolare — appoggiano (al 72%) la proposta di un esecutivo di unità nazionale che veda il Pd e il Pdl assieme. Tra l'elettorato del Pd, una maggioranza relativa (40%) appoggia invece l'ipotesi di una alleanza, più o meno organica, tra il centrosinistra e il Movimento 5 Stelle. Ma una parte non piccola degli elettori del partito di Bersani (27%) preferirebbe invece un governo di minoranza formato principalmente dal loro partito. Si riconferma dunque l'esistenza di una accentuata pluralità di opinioni (se non di una vera e propria frattura) all'interno del Pd.
Ma è interessante notare come invece l'ipotesi di un diretto coinvolgimento dei 5 Stelle al governo, attraverso la partecipazione del M5S a un esecutivo col Pd sia, tra le alternative proposte, la preferita da una larga parte (70%) dello stesso elettorato grillino. Ciò potrebbe mostrare un qualche maggior grado di apertura dei votanti per il M5S rispetto al nucleo dei militanti. Si tratta di un fenomeno peraltro evidenziato da Biorcio e Natale nel loro ultimo saggio sul movimento di Grillo (Politica a 5 stelle, Feltrinelli). Al tempo stesso ciò potrebbe suggerire la possibilità, indicata da alcuni osservatori, che qualche eletto del movimento si possa, al momento della decisione di appoggiare o meno un governo, far convincere dallo «scouting» che Bersani certamente intraprenderà.
Si tratta però di una mera ipotesi, la cui realizzazione appare in questo momento piuttosto improbabile. La gran parte degli italiani è infatti convinta che il Movimento 5 Stelle — che ha ribadito anche in questi giorni la propria indisponibilità a partecipare a una alleanza di governo con i partiti tradizionali — non accetterà, almeno in una prima fase, una soluzione del genere. Tanto che alla domanda sui possibili futuri comportamenti degli eletti grillini, solo il 16% degli intervistati crede che essi acconsentiranno a stipulare un accordo con la coalizione di centrosinistra. La maggioranza (53%) degli italiani (e i due terzi degli elettori per il M5S) ritiene infatti che gli eletti di Grillo potranno collaborare all'approvazione di alcune riforme importanti, ma che si guarderanno bene dallo stringere alleanza organiche.
Insomma, gli italiani si rendono ben conto dell'impasse in cui siamo finiti. E rimangono profondamente divisi circa le possibili soluzioni.

Repubblica 4.3.13
L’illusione del Cavaliere e la rismonta del Pd
Il recupero del Cavaliere è soltanto una illusione E anche il Pd si è smontato
Insieme hanno perso nove milioni e mezzo di voti
di Ilvo Diamanti

AMMETTO di essermi sbagliato. L’ho già scritto alcune volte, di recente, nell’incipit delle mie Mappe, analizzando i cambiamenti politici in atto. Anche alcuni risultati delle elezioni appena avvenute mi hanno spiazzato. Ad eccezione di uno – peraltro importante. La prestazione del Centrodestra e del PdL, guidati da Silvio Berlusconi. Sostengo, infatti, da tempo, che il “berlusconismo” è finito. Ebbene, almeno su questo non mi sono sbagliato. A dispetto delle letture che parlano di “rimonta” e perfino di “miracolo” di Berlusconi.

IL PDL e il Centrodestra hanno toccato il punto più basso della loro storia elettorale, che coincide con la biografia della Seconda Repubblica. Partiamo dai dati (che ricavo dal Dossier Lapolis dell’Università di Urbino). Il PdL ha ottenuto il 21,6% dei voti validi. Il 23,6% se si considerano anche i “Fratelli d’Italia” (e del PdL). Circa 14 punti meno delle precedenti elezioni, quando aveva superato il 37%. Ma 11 punti e mezzo in meno anche rispetto alle europee del 2009. Quanto alla coalizione, il discorso cambia poco. Il Centrodestra, guidato da Berlusconi, in questa consultazione, ha ottenuto il 29%. Cioè: quasi 18 punti meno del 2008.
In valori assoluti, la distanza rispetto alle precedenti elezioni appare ancor più eloquente (come ha rilevato puntualmente l’Istituto Cattaneo). Abissale. Il PdL, infatti, ha subito un calo di 6.300.000 elettori. E si è ridotto a circa metà, rispetto al 2008. La coalizione di Centrodestra, da parte sua, ha perso oltre 7 milioni sui 17 ottenuti nel 2008. Cioè, oltre 4 elettori su 10.
Un arretramento così pesante ha prodotto conseguenze molto rilevanti e molto evidenti anche sul profilo territoriale. Basta guardare il posizionamento del PdL che emerge dalla geografia del voto nelle due ultime elezioni. Nel 2008 era il primo partito in 67 province, il secondo in altre 40. In pratica, era diffuso in tutta Italia. Forte, secondo tradizione, nel Nordovest, nel Centrosud e nelle Isole. Oggi, invece, il PdL è il primo partito in 17 province e il secondo in altre 26. Insomma, ha rarefatto – ridotto a meno di un terzo - la sua presenza sul territorio nazionale, concentrandola largamente nel Mezzogiorno.
D’altronde, se si ripercorre la parabola del voto del PdL e dei suoi antecedenti, è evidente come queste elezioni segnino il punto più basso del “partito personale” di Berlusconi, in quasi vent’anni di elezioni. Oggi, infatti, il PdL ha ottenuto pochi consensi più di FI, da sola, all’esordio, nel 1994.
Se questo è un “miracolo”, allora, è lecito attendersi, presto, un nuovo passaggio di Grillo attraverso lo stretto. Ma a piedi. Camminando sulle acque.
Anche la presunta “rimonta” è una leggenda. Se facciamo riferimento ai (vituperati) sondaggi, il PdL è effettivamente risalito negli ultimi due mesi. Nel corso del 2012, “abbandonato” da Berlusconi, era sceso al 17% (Demos). Secondo altri istituti, anche più in basso. Da dicembre a febbraio, è risalito, fino a superare il 20%. Merito di Berlusconi? Certo. Ma solo perché senza Berlusconi il PdL non esiste. Non ha “senso”. Il ritorno del Cavaliere ha permesso al PdL di ri-allinearsi sul livello precedente alle dimissioni, nel novembre 2011. Quando il declino del berlusconismo si era già consumato.
Non mi interessa, qui, partecipare alla ricerca dello “sconfitto più sconfitto” degli altri.
Perché in queste elezioni c’è un solo vincitore: Beppe Grillo insieme al Movimento 5 Stelle. Tutti gli altri sono stati sconfitti. Per primo, ex aequo con altri, Silvio Berlusconi.
L’uomo-che-rimonta per (de)meriti altrui più che propri. In effetti, il risultato del PdL e del Centrodestra non si è scostato di molto rispetto alle stime dei sondaggi. Al massimo 1-2%. Se Berlusconi ha rischiato il pareggio e perfino il sorpasso è perché il Centrosinistra e in particolare il PD lo hanno quasi raggiunto. In discesa. In caduta. È questo il vero miracolo. Che il PD e il Centrosinistra non siano riusciti a vincere neanche stavolta. D’altronde, neppure i sondaggi del Cavaliere immaginavano il PD così in basso. Poco sopra il 25%. Al punto di essere superato dal M5S. Così il Centrodestra è divenuto competitivo non per la “rimonta” del Cavaliere, ma per la “riSmonta” del PD. Il quale, rispetto al 2008, ha perduto 8 punti percentuali. In termini assoluti: quasi tre milioni e mezzo di voti – il 28% della propria base elettorale precedente.
La leggenda della “rimonta” del Cavaliere, in effetti, mi sembra auto-consolatoria. Non solo per Berlusconi e il Centrodestra. Ma anzitutto per il PD. Che ha ceduto pesantemente, quasi di schianto, proprio quando il PdL ha ottenuto il peggiore risultato della sua storia. Una coincidenza non casuale ma semmai “causale”. Perché il PD, come osservò Eddy Berselli proprio a commento delle elezioni del 2008, è rimasto un “partito ipotetico”. Senza una “chiara idea complessiva”. Ha, invece, coltivato con Berlusconi e il PdL un rapporto mimetico. Fino a diventarne quasi complementare. Il PD: ha perduto – o almeno: non ha vinto - perché, in fondo, si è progressivamente berlusconizzato. Per modello organizzativo, immagine, comunicazione. Senza, peraltro, proporre un leader come Berlusconi. Preferendo, invece, “l’usato sicuro”. Così Grillo e il M5S hanno sfondato nelle zone rosse, verdi e azzurre. Insomma, dovunque. Sfruttando la fine del berlusconismo, che ha trascinato con sé anche il PD. Un po’ come nei primi anni Novanta, quando il crollo del muro di Berlino travolse non solo il PCI e i post- comunisti, ma prima ancora la DC e l’anticomunismo.
Il centrosinistra, per ricominciare, non deve guardare gli altri, non deve guardare indietro. E neppure avanti. Deve guardarsi dentro.

l’Unità 4.3.13
Parma
Imbrattato bronzo antifascista: «Basta comunisti, viva M5S»


Nella notte di sabato, un ignoto provocatore ha imbrattato il monumento in bronzo dedicato a Guido Picelli, eroe antifascista, nell’omonimo piazzale di Parma, scrivendoci sopra: «Sei solo un comunista come Bersani. W Grillo». Ad accorgersene è stato proprio Giancarlo Bocchi, regista del documentario «Il Ribelle, Guido Picelli un eroe scomodo». «È molto grave che in una città Medaglia d'oro al valore militare per la Resistenza possa accadere una cosa del genere, ma non c’è da stupirsi, constatando l'accondiscendenza del sindaco Pizzarotti verso la sezione cittadina di Casa Pound», ha detto il regista.

l’Unità 4.3.13
Il capo: nessuno faccia come cazzo gli pare
Dalla sua villa il comico se la prende con l’articolo 67 della Costituzione sulla libertà di mandato
Il leader 5 Stelle ai suoi: farete quel che dico io
Chiusa alla stampa la prima riunione degli eletti. Oggi il vertice con i due big
Grillo attacca la Costituzione e dice: nessuno potrà fare come gli pare
di Andrea Carugati


ROMA Nel giorno dello sbarco a Roma della truppa di eletti grillini, il loro «megafono Beppe», come sono soliti chiamarlo, lancia un avvertimento dai toni perentori: nessuno pensi di fare «come cazzo gli pare».
Mentre una settantina di neoeletti su 162 arriva alla spicciolata all’hotel Saint John, a due passi da San Giovanni, ormai diventato il quartier generale grillino, il comico dal suo blog dà la linea. O meglio: avverte chi avesse in mente di fare scherzi in Parlamento. «È ritenuto del tutto legittimo il cambio in corsa di idee, opinioni, partiti. Si può passare dalla destra alla sinistra, dal centro al gruppo misto, si può votare una legge contraria al programma. Insomma, dopo il voto il cittadino può essere gabbato a termini di Costituzione». Grillo cita l’articolo 67 (i parlamentari non hanno vincolo di mandato). «Consente la libertà più assoluta ai parlamentari che non sono vincolati né verso il partito in cui si sono candidati, né verso il programma elettorale, né verso gli elettori. Insomma, l'eletto può fare, usando un eufemismo, il cazzo che gli pare». Eppure, tutti gli eletti «hanno liberamente sottoscritto degli impegni, nessuno li ha costretti con una pistola alla tempia a farsi inserire nelle liste». «La circonvenzione di elettore è così praticata da essere diventata scontata, legittima, la norma», conclude il comico. «Il parlamentare può mentire al suo datore di lavoro senza essere perseguito penalmente e cacciato a calci dalla Camera e dal Senato».
Grillo cita i casi di Scilipoti e De Gregorio, strapazza l’articolo 67 della Costituzione senza alcun apparente motivo, visto che le Camere ancora non si sono insediate. Poi si concede una corsa sulla spiaggia con il solito piumino blu col cappuccio calato a coprire il viso. Intanto, i suoi eletti si riuniscono nel seminterrato del Saint John, dove già avevano atteso i risultati delle urne. Salone spoglio e senza finestre, clima da riunione studentesca, molti seduti per terra, look casual vista anche la giovane età di molti dei presenti. Si discute di forme di comunicazione interna, che tanto per quella verso l’esterno «faremo quello che dirà Casaleggio, lui su questo ha costruito un impero e ne sa più di noi...». Non si respira certo aria di ribellione verso i due guru, che gli eletti chiamano più semplicemente «lo staff». Quello staff che, con le sue scomuniche via blog, ha già creato tanti malumori in Emilia, con le espulsioni di Tavolazzi, Favia e Salsi.
Dopo alcune ore di riunione, due portavoce sono usciti per spiegare ai cronisti assiepati che «non stiamo prendendo nessuna decisione per il Paese». Una consapevolezza che si era fatta strada anche dentro la riunione, dove qualcuno è sbottato: «Ma qui non si decide niente!». Del resto, moltissimi degli eletti fino a ieri non si erano mai neppure visti in faccia. E, durante la riunione, ognuno ha dovuto dichiarare le proprie generalità, prima dei tre minuti a disposizione per dire la sua a proposito delle forme di comunicazione interna: facebook, sms o google group? A maggioranza passa l’ultima ipotesi. Così come l’idea di tenere ogni settimana riunioni congiunte di deputati e senatori, «visto che la linea deve essere una sola». I temi veri, quelli che stanno tenendo sulle spine il Paese, sono solo accennati. Come quando il depu-
tato Vincenzo viene chiamato al microfono e non si presenta. «È già passato col Pd», è la battuta che risuona nello stanzone. C’è chi, dopo anni di lotta contro la Casta, ne scopre anche i lati positivi: «Dovremo lavorare solo da martedì a giovedì!». E un altro avverte: «Su col morale, lavorare nel Sulcis è peggio che stare qui...».
Una senatrice, Paola Taverna, eletta nel Lazio, avanza invece un dubbio: «Tutti mi chiedono cosa faremo. A me la chiusura non piace: da una parte siamo un modello di apertura, e poi ci chiudiamo? Dobbiamo dire qualcosa ai milioni che ci hanno portato qui, non possiamo perderle, altrimenti moriamo in tre mesi...». Tema spinoso, perché in effetti la riunione carbonara, per i profeti della trasparenza su Internet, appare già come una contraddizione. Ma del resto è lo stesso film della primavera scorsa a Parma, quando i vincitori grillini del Comune giocavano a nascondino coi cronisti, fuggendo per poi assicurare che «metteremo tutto in Rete».
Stessa scena anche ieri. «Tutta l’Italia è da rifare, lasciateci lavorare», è stato uno dei ritornelli biascicati dai grillini mentre entravano nell’hotel fuggendo alla vista dei cronisti. Che spesso si gettavano su malcapitati turisti, scambiati per onorevoli. «Oggi da qui non uscirà nessun tipo di comunicazione», è il laconico messaggio che il senatore lombardo Vito Crimi s’incarica di riferire a metà pomeriggio, avvolta dai flash come se fosse un Capo di Stato. Lo stesso Crimi assicura che «Grillo e Casaleggio non verranno». Ma pare solo l’ennesimo depistaggio. I due non solo arriveranno oggi a Roma. Ma prenderanno le redini della classe, che ieri si è concessa le ultime ore di ricreazione.

La Stampa 4.3.13
Grillo: riscrivere la Carta sul vincolo di mandato
“L’articolo 67 della Costituzione consente di mentire agli elettori”
di Andrea Malaguti


Dunque ce l’ha fatta. Giuseppe Piero Grillo ha strappato il Paese alla commedia dell’arte per trascinarlo mani e piedi nella commedia goldoniana, un’ininterrotta serie di situazioni contraddittorie intrise da illuminismo polare. La terra di confine tra la rivoluzione e il caos. Così, mentre sulla spettacolare battigia di Marina di Bibbona il papa ligure calamita l’attenzione della stampa facendo jogging vestito da uomo mascherato in versione high tech (piumino ergonomico blu con cappuccio e occhiali incorporati), a qualche centinaio di chilometri di distanza, nel pieno centro di Roma, a un passo dalla mitica piazza San Giovanni, i neoeletti cittadini del MoVimento 5 Stelle arrivano disorientati al ritrovo stabilito per organizzare il futuro. Silenziosi, agguerriti, evidentemente travolti dalla pressione di queste prime ore da classe dirigente. In tasca due suggerimenti che sembrano ordini. Nessuna dichiarazione. E se proprio dovete dire qualcosa verga Grillo di suo pugno - «la stampa prendetela per il culo». Giusto. Loro eseguono. Filmando chi li filma. Ma se tutti stanno dietro telecamere e computer, chi sta davanti? Nel dubbio è Casaleggio che sceglie le parole ufficiali. La musica di fondo della nuova era 2.0. Il MoVimento è lì per comunicare. Non per informare. Per quello serve il confronto. E i cittadini futuristicamente-goldoniani non sono ancora disponibili. Non tutti almeno. Perché anche tra di loro le differenze sono vistose. Verranno fuori. Restituendo ad alcuni una qualità forse superiore a quella del loro megafono. Ma al momento la voce a Cinque Stelle è un coro. Scelta di buon senso?
In questa domenica di marzo, mentre i neoeletti fanno le presentazioni e aspettano l’arrivo del leader (previsto per stamattina), per capire se chiederanno il governo per sé, per Monti o per un Pd senza Bersani e i suoi più stretti collaboratori, il papa ligure mette in agenda un’intervista con un inviato del «Time» - la stampa americana è meglio non prenderla per i fondelli - e poi decide di puntare il dito contro il suo nuovo nemico giurato. Un articolo subdolo della Costituzione che rende più fragile la possibilità di controllare i suoi uomini come un Cesare la sua falange. E’ il numero 67: «Ogni membro del Parlamento rappresenta la nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato». Che nella sofisticata esegesi del Marziano Blu - ispirato oggi da eleganti metafore anatomiche - significa consentire a onorevoli e senatori «di fare come cazzo gli pare». E dunque, scrive ancora Grillo, «viene concessa al parlamentare la libertà preventiva di menzogna». La chiama circonvenzione di elettore. Il suono delle parole che usa è sempre irresistibile. Il senso più opinabile. «L’eletto può mentire al suo elettore, al suo datore di lavoro, senza nessuna conseguenza, invece di essere perseguito penalmente ed essere cacciato a calci dalla Camera e dal Senato». Istituzioni di cui lui non fa parte. Ma davvero l’articolo 67 protegge «voltagabbana, opportunisti, corruttibili, cambiacasacca»? Va da sé che la medaglia ha due facce.
Il principio del libero mandato fu formulato da Edmund Burke prima della Rivoluzione Francese, esiste in quasi tutte le democrazie rappresentative e aveva come ratio quella di garantire agli eletti la possibilità di sentirsi autorizzati a tutelare in coscienza gli interessi dell’intera nazione e non solo quelli del proprio gruppo. Visioni preinternettiane, dove curiosamente si supponeva che uno valesse uno. Diversamente - è la teoria - sarebbe sufficiente eleggere cinque leader di partito che si mettono a un tavolo e fine delle riflessioni per il resto della nazione. Sarebbe un mondo migliore? Per proteggersi dal voltagabbanismo, in ogni caso, il MoVimento ha fatto firmare un regolamento ai suoi per cui chi non è fedele non è. E viene messo alla porta.
Mentre il dibattito costituzionale infuria i cittadini Cinque Stelle fendono la folla di giornalisti che li aspettano davanti all’hotel St. Johns, le domande che gli piovono addosso sembrano spilli che bucano le guance. Così loro tacciono, non salutano, ma accennano qualcosa con l’angolo della bocca che sembra una specie di smorfia. Fraternité. Ma soprattutto liberté ed egalité. Non è così che dovrebbe essere?
"Lo scopo è inserire una norma per evitare cambi di casacca e controllare gli eletti Il Movimento ha fatto firmare ai candidati un esplicito regolamento contro i voltagabbana"

il Fatto 4.3.13
Ora Grillo ha paura dei voltagabbana
di Emiliano Liuzzi


Lo ha detto più di una volta, anche se non in maniera ufficiale: “Nei cinque anni di legislatura potrebbe accadere di perdere per strada anche un venti per cento di parlamentari. Mi fido dei miei, non accadrà perché siamo fatti di un'altra pasta, ma sono incidenti che potrebbero verificarsi”. Ieri Beppe Grillo ha esternato sul blog quello che era un suo remoto timore, e ha citato l'articolo 67 della Costituzione, quello che recita come ogni “membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”. E che, a quanto pare che a Grillo non piaccia per niente, tanto da definirla una circonvenzione d'elettore: “Questo consente la libertà più assoluta ai parlamentari che non sono vincolati né verso il partito in cui si sono candidati né verso il programma elettorale né verso gli elettori. Insomma, l'eletto può fare, usando un eufemismo, il cazzo che gli pare senza rispondere a nessuno. Una pratica molto comune nel Parlamento Italiano, adottata da voltagabbana, opportunisti, corruttibili, cambiacasacca”.
“L'elettore, al momento del voto, crede in buona fede alle dichiarazioni di Tizio o Caio, di Scilipoti o De Gregorio – prosegue – lo sceglie per la linea politica espressa dal suo partito e per il programma. Gli affida un mandato di un lustro, un tempo lunghissimo, per rappresentarlo in Parlamento e per attuare i punti del programma. Gli paga lo stipendio attraverso le sue tasse perché mantenga le sue promesse. Il voto è un contratto tra elettore ed eletto ed è più importante di un contratto commerciale, riguarda infatti la gestione dello Stato. Se chi disattende un contratto commerciale può essere denunciato, chi ignora un contratto elettorale non rischia nulla, anzi di solito ci guadagna”.
PERCHÉ OGGI Grillo dice queste cose? E perché lo fa alla Grillo, appunto, con molta veemenza? Intanto ha il timore di perdere gente per strada, lo ha sempre avuto. E in questa fase i corteggiamenti nei confronti di tutti quelli che sono entrati in parlamento con la casacca a Cinque stelle non saranno mancati. Gli eletti hanno risposto con una riunione all'hotel Saint John di Roma dove hanno dimostrato compattezza. Ma il loro mandato non è neanche iniziato, Montecitorio lo hanno visitato da turisti, una volta chiusi là e nel corso dei mesi non è escluso che emergano contraddizioni. E' sempre accaduto, anche nelle migliori famiglie.
Ma il contesto storico Grillo lo rifiuta. E rifiuta anche l'articolo 67 della Costituzione: “È ritenuto del tutto legittimo il cambio in corsa di idee, opinioni, partiti. Si può passare dalla destra alla sinistra, dal centro al gruppo misto, si può votare una legge contraria al programma. Insomma – si sottolinea nel blog – dopo il voto il cittadino può essere gabbato a termini di Costituzione. Questo consente la libertà più assoluta ai parlamentari che non sono vinco-lati. Per cinque anni il parlamentare vive così in un Eden, in un mondo a parte senza obblighi, senza vincoli, senza dover rispettare gli impegni, impegni del resto liberamente sottoscritti per farsi votare, nessuno lo ha costretto con una pistola alla tempia a farsi inserire nelle liste elettorali. La circonvenzione di elettore è così praticata da essere diventata scontata, legittima, la norma. Non dà più scandalo”.
Se non potesse bastare, Grillo ribadisce: “Viene concesso al parlamentare libertà preventiva di menzogna - conclude - può mentire al suo elettore, al suo datore di lavoro, senza alcuna conseguenza invece di essere perseguito penalmente e cacciato a calci dalla Camera e dal Senato”.

Corriere 4.3.13
«Mandare via a calci chi cambia casacca»
Grillo: nella Costituzione non c'è vincolo di mandato. E ognuno fa ciò che vuole
di Alessandro Capponi


ROMA — La giornalista televisiva domanda sarcastica al neodeputato a 5 Stelle: «Quanti Scilipoti quotate tra voi?». Quello va via quasi correndo — si infila nell'albergo a due passi da piazza San Giovanni scelto per la prima riunione di neoparlamentari grillini — e non dice nulla, un po' sorride, metà infastidito, metà lusingato per l'attenzione. Invece Beppe Grillo, nella sua villa in Toscana, pubblica un post che pare fatto apposta: bisognerebbe «cacciare a calci» i parlamentari che cambiano casacca. Il titolo è emblematico: «Circonvenzione d'elettore». E spiega, con i toni consueti: gli eletti possono fare, «usando un eufemismo, il cazzo che gli pare senza rispondere a nessuno. Al momento del voto, l'elettore crede in buona fede alle dichiarazioni di Scilipoti o De Gregorio. Gli affida un mandato di un lustro, un tempo lunghissimo, per rappresentarlo in Parlamento e per attuare il programma. Gli paga lo stipendio con le sue tasse perché mantenga le promesse». Così, scrive sempre Grillo, ecco la «circonvenzione di elettore: se chi disattende un contratto commerciale può essere denunciato, chi ignora un contratto elettorale non rischia nulla, anzi di solito ci guadagna. È ritenuto del tutto legittimo il cambio in corsa di idee, opinioni, partiti. Si può passare dalla destra alla sinistra, dal centro al gruppo misto, si può votare una legge contraria al programma. Insomma, dopo il voto il cittadino può essere gabbato a termini di Costituzione». Ed è «una pratica molto comune nel parlamento, adottata da voltagabbana, opportunisti, corruttibili, cambiacasacca». Per lui, «per cinque anni il parlamentare vive in un Eden, in un mondo a parte senza obblighi, vincoli». Riporta l'articolo 67 della Costituzione: «Ogni membro del parlamento rappresenta la nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato». E aggiunge: «Questo consente la libertà più assoluta ai parlamentari...». Quelli eletti nel suo Movimento, arrivati a Roma per la prima riunione fuori dalla Rete, si danno regole interne, decidono di comunicare tra loro — e non con l'esterno — grazie ai gruppi di Google, «niente sms che costano cari». Ma la fedeltà a Grillo, per loro, non è in discussione: anzi saranno lui e Casaleggio a dettare la linea per le comunicazioni con l'esterno. E perché? «Decidono loro, Casaleggio ha costruito un impero». Accessi blindati come fosse un bunker, ma entrare si può: la sala è alla fine delle scale, ci sono sedie in circolo, oltre cento parlamentari, alcuni in piedi, in jeans neri e giacca di pelle (Stefano Vignaroli), con l'eskimo (Alessandro Di Battista), alcuni seduti in terra. Sono arrivati a Roma fin dal mattino, alcuni raccontano di essere andati a Montecitorio, dove c'erano porte aperte ai cittadini e il doppio della solita fila, colma di simpatizzanti, alcuni convinti di «aver visto due neodeputati entrare e scattarsi foto». Ma vai a sapere se è vero: del resto, nell'assemblea, c'è chi incoraggia gli altri a «prendere in giro i giornalisti». Dicono di essere qui per «cambiare tutto», per «dare risposte alla gente che soffre»: ma non rispondono ad argomenti politici, né governissimo, né alleanze. «Alla gente non importa il mio parere sulla politica, non parlo a titolo personale», dice il neodeputato Alfonso Bonafede. Amano gli slogan: «Abbiamo molto da fare e niente da dire», ripete Stefano Cioffi. Stefano Vignaroli, tecnico Rai ora parlamentare, è certo: «Qui non parliamo del Paese ma solo delle regole da darci, lo giuro sulla Roma». E la petizione per dare la fiducia al Pd? Non rispondono, alcuni evitano anche di presentarsi, dicono solo il nome di battesimo, a volte si affacciano dalle finestre dell'albergo e scattano foto col telefono ai cameraman in attesa. Una neoeletta sorride a un collega appena conosciuto: «Tra dieci giorni saremo nel Grande fratello, vivremo cinque anni tutti assieme, tra tutti noi nascerà l'odio, nasceranno amori». Tradimenti no, non sono contemplati.

Corriere 4.3.13
Augusto Barbera, costituzionalista e professore ordinario di Diritto costituzionale
«Una norma-pilastro della democrazia per sottrarre il ruolo ai ricatti di partito»
di Angela Frenda


MILANO — Professore, mi scusi, come commenta il fatto che Beppe Grillo critica l'articolo 67 della Costituzione, quello sul «non vincolo» di mandato per i parlamentari?
Augusto Barbera, costituzionalista e professore ordinario di Diritto costituzionale all'Università di Bologna dal 1994, è sul pianerottolo di casa di amici. «Sto per entrare a cena...». Pausa. «Perché, Grillo ora ce l'ha con la Costituzione?»
Sostiene che la norma consenta ai parlamentari di fare quello che vogliono. In realtà lui usa un termine più colorito...
«Mah, questa critica non mi è certo nuova, sa?».
In che senso?
«Beh, l'ho sentita muovere anche da forze politiche tradizionali. Per intenderci, anche dal centrodestra e dal centrosinistra. Ad esempio, quando ci fu la storia degli oramai famosi ribaltonisti, si scagliarono molte critiche all'articolo 67. E arrivarono, lo ribadisco, sia dal centrosinistra, sia dal centrodestra. Insomma, questo povero articolo della Costituzione è stato messo in discussione a fasi alterne».
Però ha retto. Perché?
«È uno dei fondamenti della democrazia parlamentare. Anche se a volte può provocare, come ha provocato, tutta una serie di problematiche».
Una peculiarità italiana?
«Ma si figuri. Rientra tra i fondamenti delle democrazie in tutto l'Occidente liberaldemocratico».
Tutte?
«Ah, no, ora che mi ci fa pensare... Manca solo in Russia».
E se non lo avessimo, cosa succederebbe alla vita parlamentare secondo lei?
«Deputati e senatori sarebbero in mano alle segreterie dei partiti e a gruppi di pressione. Non sarebbero liberi di votare quello che ritengono più giusto».
Eppure a Grillo questo articolo 67 non sta bene. Sostiene che fa venir meno il «contratto» tra elettore ed eletto.
«Io credo che Grillo abbia la stessa paura che ha accomunato in passato centrodestra e centrosinistra. E cioè che gli scappino di mano, sfuggano al suo controllo, i suoi eletti, i cosiddetti "grillini"».
Lei ritiene che questa norma andrebbe modificata?
«Secondo me va bene così. Anche volendo, non saprei neanche come riscriverla. Quanto al grillismo, c'è una patologia in corso. Tocca alla politica trovare le terapie più adeguate».

Corriere 4.3.13
Travestimenti e caccia agli «infiltrati»
Gli onorevoli cinquestelle debuttano a Roma
di Aldo Cazzullo


«Sono un militante del Movimento 5 Stelle e non ho nulla da dichiarare». Ma lei è deputato o senatore? «No comment». Ci dica come si chiama... «No. Potreste strumentalizzare il mio nome contro di me».
Nella domenica in cui i cardinali che devono eleggere il successore di Pietro girano per Roma conversando amabilmente con le troupe televisive, i grillini che devono decidere se partecipare all'elezione del successore di Schifani rifiutano anche solo di declinare le generalità. Il risultato, fuori dell'Hotel Saint John accanto a via Merulana — «è del Vaticano e non paga l'Imu, dovete scegliervi un altro posto!» reclama un militante —, è un bel pasticciaccio, anche divertente. Turisti americani increduli tentano di farsi largo in una folla di reporter. Due cronisti prendono una camera pur di non essere cacciati. A un tratto, il grido: «C'è Vignaroli!». E gli inviati anche stranieri si accalcano attorno a un bel ragazzo con l'orecchino dall'aria simpatica, tecnico Rai, che da dietro la vetrata fa ciao con la mano agli ex colleghi. Un passante rilascia un'intervista pensosa sul nuovo assetto delle istituzioni, fino a quando non gli scappa da ridere.
In realtà, siccome neppure i grillini si conoscono tra loro, non è impossibile scendere nel seminterrato dell'hotel, superare il banchetto di riconoscimento nuovi deputati e seguire per un poco la discussione, che verte sull'opportunità di aprire o meno un «Google group», un forum per consultazioni interne. «È solo una riunione organizzativa, così per presentarci l'uno all'altro», sorride Silvia Giordano. Dentro ci sono una settantina di persone, che hanno messo le sedie in circolo. Ognuno si alza, dice il suo nome e ha tre minuti per parlare. Cose tipo: «Occhio a quelli che adesso cercheranno di infiltrarsi nel movimento, nel Lazio sta già arrivando di tutto...». Il senatore Vito Crimi, considerato il capo in quanto amico di Casaleggio, esce per tranquillizzare: «Non stiamo prendendo decisioni per il Paese, stiamo solo vedendo come darci gli strumenti per decidere». La ressa comunque non si placa, ogni tanto una neodeputata si affaccia a fotografare con il telefonino i reporter che fotografano lei. Ci sono anche Massimiliano Sorge e Riccardo Retica, ultimi epigoni della grande scuola dei paparazzi romani, qui venuti con una missione: beccare — possibilmente con fidanzato — Marta Grande, la venticinquenne che il Pd è pronto a eleggere presidente della Camera nel patetico tentativo di agganciare i 5 Stelle. Un collega americano all'inizio divertito poi sempre più seccato chiede: «Where is Beppe Grillo?».
«Grillo e Casaleggio non verranno», assicura Crimi, come a dire: tornate a casa, non c'è niente da vedere. Passa un tipo travestito come il capo, con cappuccio e tutto; ma è un falso allarme. Siccome il disturbatore ufficiale Paolini sta marcando stretto Beppe fuori dalla villa in Toscana, qui è venuto l'aspirante erede, un ragazzo che si fa chiamare Er Roscio e finge di prendere appunti su un taccuino vuoto per guadagnare l'inquadratura. Nel seminterrato un eletto propone: «La linea ce la darà Beppe quando arriva, nell'attesa i giornalisti prendeteli per il culo». I fotografi stanno al gioco e provocano: «Onorevole sorrida! Onorevoli uscite, siete circondati!». Diego Bianchi detto Zoro: «Questi so' matti...».
In realtà, vedere tante facce nuove dà anche un po' di sollievo. Volti di persone normali, come l'avvocato catanese Mario Giarrusso, senatore, che ai colleghi dice: «Sono emozionato, felice, orgoglioso di stare con voi. Ce la faremo. Siamo parlamentari pagati per lavorare in assemblea e saremo a Roma dal martedì al venerdì». O come Massimo Artini, imprenditore toscano, che tiene a precisare: «Io lo pago, l'Irap». Un'altra voce: «Siamo positivi, lavorare nel Sulcis è peggio... passata la sbornia arriveranno le responsabilità, ma questi sono giorni belli». Chi si affaccia fuori però si limita a mormorare «non ho nessun commento da fare», «alla gente non interessa quello che penso», «chiacchierare poco fare tanto». Esasperato, un reporter grida in romanesco: «Avete da parlà!» («e che tte devono dì» cerca di calmarlo un amico). Quando la zuffa si fa eccessiva esce Crimi: «Oggi è troppo presto. Le nostre decisioni saranno collegiali». Si attende insomma l'arrivo di Grillo e soprattutto di Casaleggio, che tutti qui percepiscono come il vero capo.
«Io sono venuta in aereo, anche se sono contro l'aereo perché inquina troppo. Però costava meno del treno...», dice Laura Castelli, 26 anni, deputata di Torino. La zuffa è al massimo, la neosenatrice Laura Bottici la riprende compiaciuta con l'iPad. Andrea Cioffi, ingegnere e senatore di Salerno: «Lasciateci respirare!». Ornella Bertorotta, imprenditrice e ora parlamentare, una tra le più gentili, alla fine quasi grida con l'accento siciliano: «Ora basta! Siete stressanti! Già l'ho detto tre volte: ci siamo solo organizzati!». D'un tratto i fotografi la mollano e corrono verso l'uscita secondaria: è appena andata via Marta Grande, su una Opel Astra guidata da un uomo, forse l'atteso fidanzato. Oggi arriva il comico, e si fa sul serio.

l’Unità 4.3.13
E il Corriere ora «scarica» il comico
di Michele Prospero


Contrordine immediato al Corriere. Solo alcuni giorni fa compariva sul quotidiano un inno al «cosiddetto» populismo di Grillo.
Che veniva esaltato per la sua sublime capacità «di stare dalla parte dei concittadini». Lo scritto di Ernesto Galli della Loggia era la logica conseguenza di un lungo corteggiamento che aveva scaldato i cuori a via Solferino. Grillo, scrutato con la lente dello storico, che si sa conosce la lunga durata, appariva in dignità al pari dei sovrani inglesi durante la guerra, cioè come un ammirevole leader capace nell’emergenza di «mettersi allo stesso livello della gente comune». Quell’innamoramento per l’eroe genovese, che pareva struggente, ora si rivela solo un piccolo matrimonio di convenienza. E volano già gli stracci. Il direttore Ferruccio de Bortoli se la prende con la sinistra che nientemeno tenta di sdoganare Grillo e non lo denigra più come faceva prima, quando al Corriere c’era qualcuno che il comico lo amava davvero. Ma come è possibile prendersela con la sinistra che «corteggia l’avversario» dopo il rapimento totale per il comico che ha scaldato la estasiata penna di Galli Della Loggia?
Lo storico aveva reciso ogni dubbio circa la povertà propositiva del programma di Grillo e aveva cantato la soave bellezza del desiderio «di voler mandare a casa un’intera classe politica». Il voto a Grillo per Della Loggia era un sostegno meritorio a questo «ambizioso programma elettorale». Il rifiuto della classe politica appariva, in quanto tale, come un evento straordinario, da osannare. Ora però che ha centrato l’obiettivo e il caos è realtà tangibile, De Bortoli scopre che la ricetta di Grillo è solo «una straordinaria scorciatoia alla povertà». E allora, contro intellettuali e imprenditori già saliti sul carro del vincitore, via alla denuncia della «pericolosità» delle proposte, botte da orbi contro il consenso dato ad un movimento «millenarista» che porta solo alla rovina o «decrescita infelice». E quello che ha scritto Della Loggia sulla bella follia liberatoria del comico?
Dopo aver sostenuto Grillo come un argine al «neosocialdemocratico» Bersani, e dopo averlo aiutato come guastatore in grado di sparigliare le carte per favorire un nuovo governo di tregua, il Corriere ora lo strattona perché la sua forza è cresciuta in un modo non previsto, cioè esagerato nelle dimensioni. Hanno lavorato perché il dramma si compisse (l’ingovernabilità al senato come un progetto lucido) e ora che è davanti agli occhi la foto della tragedia si spaventano della loro stessa creatura mostruosa.
Fa tenerezza che dopo aver puntato tutto sulla ingovernabilità e quindi sul rischio di uno sfascio dello Stato come una eventualità accettabile, al Corriere si rimpianga ora l’interesse generale. E De Bortoli auspica la resurrezione della strana maggioranza. Cioè di quella formula, sono le sue stesse parole, che si è caratterizzata in lunghi mesi per «una testarda miopia», per una volontà di «non fare». Tutto vero. Ma in che senso allora è nell’interesse generale invocare il ritorno al potere della testarda miopia e dello sfacciato non fare? E come è pensabile che, «in questa sciagurata congiuntura», nella quale sopravvivere è già un miracolo, sia possibile addirittura varare lo «scambio virtuoso» (che richiederebbe anni) tra doppio turno e presidenzialismo? A furia di corteggiare i buffoni in senso shakespeariano si diventa ridicoli in senso non shakespeariano però.

Corriere 4.3.13
La maschera e le macerie
di Beppe Severgnini


Beppe Grillo sembra affezionato alla parola «macerie». L'ha usata più volte, per descrivere la situazione italiana attuale e quella che verrà. In una intervista alla Bbc sostiene che «destra e sinistra si metteranno insieme e governeranno un Paese di macerie di cui sono responsabili». Ma durerà poco, prevede: un anno, al massimo. Poi «ci saranno nuove elezioni e una volta ancora il Movimento 5 Stelle cambierà il mondo».
In attesa di cambiare il mondo, vien da dire, proviamo a cambiare l'Italia? La demolizione talvolta è necessaria, per poter ricostruire; e Grillo certamente non s'è tirato indietro, quando si trattava di manovrare la benna. L'hanno aiutato, nell'operazione, i partiti tradizionali, incapaci di recepire la richiesta — anzi, la supplica — di cambiamento che saliva dalla Nazione. Abbiamo cominciato vent'anni fa, con il voto alla Lega iconoclasta e il plebiscito nei referendum di Mario Segni; poi l'apertura di credito verso Silvio Berlusconi e la speranza nell'Ulivo nascente. Ogni volta, all'illusione, è seguita la delusione.
Perché non finisca così anche stavolta — il tempo passa, la stanchezza cresce, l'Italia scivola indietro in ogni classifica internazionale — il Movimento 5 Stelle deve fare la sua parte. Nessuno può imporgli di governare; nessuno deve suggerirgli se allearsi e con chi allearsi. Ma tutti possiamo ricordargli questo: non ha solo diritti, ormai. Ha anche qualche dovere.
Incassare il successo elettorale significa legittimare le regole e le istituzioni attraverso cui quel successo è arrivato. Opposizione, governo, appoggio esterno: il Movimento ora deve cambiare passo. Non è tollerabile giocare con il futuro del Paese, che è il futuro di tutti. Siamo legati all'Europa, abbiamo obblighi precisi. L'incertezza ha un costo, e lo stiamo già pagando. Se la strategia di Grillo è aumentare quest'incertezza, far crescere quei costi, provocare altre macerie economiche e politiche, lo dica. Chi ci rimarrà sotto, almeno, saprà chi ringraziare.
Sono materie, queste, su cui il leader — non eletto, ricordiamolo — ha il dovere di consultare i suoi 163 parlamentari (109 deputati, 54 senatori). Non sono automi; non li può «cacciare a calci», come ieri ha minacciato di fare «se cambiano casacca» (alla faccia dell'articolo 67 della Costituzione, secondo cui «ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato»). Hanno in media 39 anni (32 alla Camera, 46 al Senato); le donne sono il 36 per cento; i laureati l'88 per cento. Molti appartengono alla generazione Erasmus, che conosce e rispetta l'Europa. È difficile credere che vogliano le macerie, come biglietto da visita internazionale.
Per finire, una preghiera. Il Movimento 5 Stelle è ormai un protagonista della vita italiana. Deve mostrarsi e spiegarsi in Italia. Le riunioni segrete e le mascherate — letterali — del capo possono far sorridere, all'inizio; ma poi diventano patetiche. L'insulto come metodo di discussione non è liberatorio: è imbarazzante e volgare. L'abitudine a parlare solo con i media stranieri non è sofisticata, ma provinciale. Sapere quali sono le intenzioni di un sesto del Parlamento italiano leggendo le anticipazioni di un'intervista di Beppe Grillo alla rivista tedesca Focus è umiliante: per lui, per noi, per tutti.

il Fatto 4.3.13
Una primavera lunga un giorno
di Ferruccio Sansa


E se fosse una grande occasione? Eppure pochi sembrano rendersene conto, compreso chi ne è stato il propiziatore.
Le elezioni che dovevano ridare slancio ci hanno portato un senso di impotenza. L’impasse riguarda il Governo, ma prima ancora noi cittadini. “Sono ottimista, vedo il bicchiere mezzo pieno. Di merda”, diceva una vignetta di Altan. Oggi, però, non è così. Tra pochi giorni a Roma arriveranno centinaia di nuovi parlamentari: medici, professionisti, impiegati, operai. Parliamo del Cinque Stelle, ma anche del centrosinistra o di Monti. Sono incensurati, non hanno conflitti di interesse. Gente comune nel senso migliore del termine. Potrebbero rifare del Parlamento il cuore della nostra democrazia, non il passacarte di governi e partiti. Hanno una responsabilità enorme: governarci, ma soprattutto ridarci la fiducia che servirà come motore della vita civile, del lavoro e dell’impresa. Sono inesperti, ma difficilmente faranno peggio di chi li ha preceduti.
Chi dall’estero ci osserva con affettuoso timore o arroganza ne tenga conto: in nessun Paese d’Europa si è assistito a un tale rinnovamento della classe dirigente.
Davvero questi giorni di travaglio potrebbero preludere a una primavera. Chi scrive non intende suggerire maggioranze, né sostenere la necessità di formare governi purché siano. Salvo la speranza che si faccia da parte chi - Berlusconi, ma non solo - ha coltivato i propri interessi a spese di 60 milioni di italiani. Però un dubbio ci sentiamo di esprimerlo: che molti non si rendano conto dell’occasione. E dei rischi di un fallimento. Certo il compito è arduo: conciliare le proprie ragioni con quelle del Paese. Trovare un compromesso che non intacchi gli ideali. Possibile? Il Cinque Stelle deve fare i conti con un elettorato unito dalla protesta, ma di provenienza diversa. Se si votasse ancora, però, gli elettori spaventati dalla mancanza di governo potrebbero abbandonarlo. Non solo: se anche ottenesse la maggioranza, è sicuro di essere già pronto a guidare un Paese?
E il centrosinistra? Pare avere tutto da perdere, ma ha un’occasione irripetibile per rinnovarsi. Le alleanze si fanno sui programmi e sugli uomini. Non si può chiedere a Grillo di appoggiare una classe dirigente minata dagli scandali, che prendeva soldi da Riva, che andava a braccetto con la finanza, che ha lottizzato e coperto di cemento l’Italia. Ecco, prima di proporre programmi il Pd dovrebbe cambiare gli uomini. Un’opportunità unica per un partito che pare diviso tra vertici assai logori e una base che coltiva ancora grandi ideali.
Vero, siamo come sospesi nel vuoto. Ma ricordiamoci le parole di Saint Exupéry, pilota e scrittore, in Volo di notte: “Il buio saliva, ogni casa accendeva la sua stella luminosa in faccia alla notte immensa. E lui era incantato che l’ingresso nella notte somigliasse questa volta all’arrivo in un porto, lento e bello”.

Corriere 4.3.13
E Grillo prova a «intestarsi» il disagio sociale
Le ragioni degli attacchi al sindacato
di Dario Di Vico


Anche per la società di mezzo fare i conti con i recenti risultati elettorali non sarà facile. Perché mentre la politica tenterà di costruire nuovi/più complicati equilibri politici e di assicurare una governabilità seppur a tempo, l'associazionismo e la rappresentanza si dovranno misurare con i mutamenti indotti nella dialettica sociale dal successo del Movimento 5 Stelle. Si è ripetuto in questi mesi che la profondità della crisi non si era (fortunatamente) sommata a un'esplosione di conflitto sociale e che gli italiani avevano saputo sviluppare una grande capacità di adattamento alla riduzione di taglia della nostra economia. Più che riempire le piazze avevano saputo stringere la cinghia o tutt'al più sviluppare la contrattazione aziendale. Ma tutto il potenziale che non si è espresso in termini di conflitto sociale aspro, anche solo con le forme che abbiamo conosciuto nel Novecento o che possiamo osservare nelle cronache greche e spagnole, alla fine è sfociato in un clamoroso caso di conflitto politico che ha portato un movimento outsider a scalare il Parlamento. L'Opa lanciata da Beppe Grillo è riuscita e, vista dal basso, c'è il rischio che in virtù di quest'operazione gli venga intestata de facto la totalità della rappresentanza del «disagio» sociale. La prima dimostrazione che per sindacati, Confindustria, Rete Imprese Italia, cooperative sarà arduo difendere gli spazi di protagonismo che avevano tradizionalmente occupato viene anche dal dibattito di questi giorni. Le priorità programmatiche individuate per costruire gli equilibri di governo poggiano quasi integralmente su misure che attengono alla riforma della politica e relegano più indietro i temi dell'economia reale e della crescita.
Negli ultimi giorni di campagna elettorale Grillo si era lanciato in un attacco ai corpi intermedi di non facile decrittazione. E' parso di capire che ce l'avesse esclusivamente con i sindacati confederali più che con le organizzazioni della rappresentanza d'impresa, visto che in Veneto una piccola sigla aveva radunato per lui un parterre di artigiani e a Parma l'assessore alle Attività produttive viene da un'altra associazione di Pmi. Quale che sia l'interpretazione giusta della sua sparata, Grillo ha però voluto ribadire un'idea della democrazia in cui sembra esserci poco spazio per la società di mezzo. La sua è una proposta top down e tende ad azzerare gli organismi intermedi di ascolto e di canalizzazione del consenso. Se pensiamo come in campagna elettorale la Cgil avesse reinvestito moltissimo sulla nascita di un governo amico, e come già fossero in corso timidi tentativi per aggiungere al blocco laburista un'interlocuzione privilegiata con la Confindustria, si capisce facilmente qual è la portata della discontinuità che le parti sociali si trovano davanti. Equivale a un cambio di paradigma. Grillo per la Cgil è un avversario più temibile della stessa «bestia nera» Maurizio Sacconi, che pure aveva puntato ad isolarla, perché la pressione del Movimento 5 Stelle agisce anche dall'interno. E' un cavallo di Troia parcheggiato nella cittadella della rappresentanza sociale.
E qui si inserisce un altro tema con il quale confrontarsi, l'evoluzione della Rete. Per come ha saputo usarla il duo Casaleggio-Grillo assomiglia non solo a uno straordinario strumento di comunicazione ma anche a una sorta di infrastruttura del consenso. Rete e società civile tendono a rispecchiarsi l'una nell'altra e con il tempo cercano di assomigliarsi. Se pensiamo al sostanziale analfabetismo digitale della società di mezzo non possiamo non cogliere la preoccupante asimmetria delle forze in campo. Quando a suo tempo un altro partito outsider, la Lega Nord, volle sfidare il sindacato anche «dal basso» mise in campo il Sin.pa. di Rosi Mauro e un insieme di associazioni raccogliticce. Poca roba e sappiamo come è andata a finire. Stavolta la competizione si presenta più ardua e se, di conseguenza, la rappresentanza vorrà resistere dovrà chiedere non solo la riforma della politica ma anche implementare la sua. Sarebbe maramaldesco elencare, qui e adesso, tutti i vizi e le pigrizie della società di mezzo ma di lavoro da fare ce n'è a volontà. Si tratta decidere solo da dove cominciare.

Corriere 4.3.13
L'ascesa di Grillo tra anatemi e gaffe
di Pierluigi Battista


Dagli insulti a Levi Montalcini e Veronesi alla campagna contro il latte di mucca
A quelli che vogliono blandire, coinvolgere, includere, integrare Beppe Grillo, razionalizzarlo e condurlo a più miti consigli governativi, ai giornalisti già pronti alla laudatio, ai teorici del bisogna «capire, comprendere, ascoltare» le sacrosante ragioni del movimento di Grillo, a tutti e per tutti ecco un breve e succinto elenco di cose che sarebbe il caso di ricordare, così, tanto per rendersi conto di qual è il linguaggio di Grilloville e cosa bisogna capire, comprendere, ascoltare.
Un florilegio che non può non cominciare con una nefandezza che oggi si dimentica con troppo facilità e cioè con la «vecchia puttana» con cui il sempre elegante Grillo insultò Rita Levi Montalcini, accusata di aver ottenuto il Nobel «grazie a una ditta farmaceutica amica che le aveva comprato il Nobel» (condannato per diffamazione). Si passa alla negazione dell'esistenza dell'Aids, considerata una creatura delle case farmaceutiche interessate a fare dell'allarmismo per incrementare i loro profitti. Si continua con il «Cancronesi» con cui Grillo, paladino della cosiddetta «cura di Bella», bollò con disprezzo Umberto Veronesi, accusato di boicottare non meglio precisate cure alternative nella guerra contro i tumori. Ci si inoltra poi nei meandri di uno spettacolo in cui Grillo esorta a trattare con «due schiaffetti» in caserma, lontano da occhi indiscreti «i marocchini che rompono i coglioni» (i suoi adepti dicono che era «ironia»: non era «ironia»): una «costola della sinistra» Beppe Grillo e il suo movimento da blandire e inseguire e corteggiare? E il Grillo che, per demonizzare una militante che aveva osato dissentire dal capo della setta, la insulta beffardamente con riferimenti obliqui al «punto G» di cui lei sarebbe smaniosamente alla ricerca?
Poi ci sono le, per così dire, eccentricità che passano dalla dimensione simpaticamente pazzotica di un picchiatello di piazza a quella della proposta politica destinata a raccogliere, come si è visto, un vasto consenso popolare. Radio Radicale ha appena mandato in onda un'intervista dei primi anni Novanta in cui Grillo demonizzava le bottiglie di vetro per magnificare quelle in plastica: tutto il contrario di ciò che si dice oggi. In uno spettacolo propose di distruggere i computer. In Sicilia esorta il suo movimento a scatenare la guerra santa contro il latte di mucca per favorire con apposite politiche il latte d'asina. Naturalmente è contro il latte pastorizzato, e chissà quale nomignolo Grillo vorrebbe affibbiare a quel bugiardo di Pasteur. E le donne saranno contente di sapere (ha scritto Serena Sileoni dell'Istituto Bruno Leoni) che nell'ideologia grillina gli assorbenti femminili sono il demonio che inquina il mondo mentre si dovrebbe imporre l'uso della «mooncup» da lavare ogni volta e prestare alle amiche per risparmiare. Grillo ha anche detto che la stampa mondiale è controllata da una «lobby ebraica» e che tifa per Ahmadinejad. Bisogna capire, comprendere, ascoltare.

Repubblica 4.3.13
L’industria tedesca vede l’Italia fuori dall’euro
E a Berlino nasce il partito della valuta del Nord. Bruxelles: nessuno abbassi la guardia
di Andrea Tarquini


BERLINO — In Germania falchi euroscettici, economisti e ambienti delle industrie esportatrici accennano all’ipotesi che l’Italia possa uscire dall’euro. Lo scenario di un abbandono della moneta unica da parte della terza economia dell’Eurozona non viene escluso e anzi viene delineato con sempre maggiore convinzione da una parte delle istituzioni economiche e politiche tedesche. Anche se per adesso minoritarie. La nuova levata di scudi anti-italiana va in scena proprio mentre il commissario europeo Olli Rehn ammonisce nuovamente tutti i paesi membri dell’Eurozona che soprattutto in questo momento è vitale che nessun paese membro dell’Unione monetaria abbassi la guardia del rigore e del consolidamento. Ogni Paese dell’Eurozona è rilevante, anche Cipro, ha detto Rehn replicando al ministro delle Finanze tedesco Schaeuble secondo cui Cipro è di dimensioni trascurabili.
A Berlino, in vista delle elezioni politiche di settembre, la lobby euroscettica e nostalgica del marco si sta riorganizzando in corsa per fondare un nuovo partito, dal chiaro nome
“Alternative fuer Deutschland”, Alternativa per la Germania.
La loro richiesta: ripensare l’euro come moneta “dura” dei soli Paesi forti, o abbandonarlo. Intanto, a Roma, Beppe Grillo propone un referendum online sulla permanenza o meno nella moneta unica. Ovviamente senza alcun valore istituzionale.
A sorpresa, l’ipotesi di un’uscita dell’Italia dall’euro è fatta propria, come strumento negoziale, dall’economista Paolo Savona. In dichiarazioni al settimanale Focus, l’ex ministro dei governi che hanno portato il nostro paese nell’euro ha lanciato un allarme sulla situazione italiana, schiacciata da una politica basata esclusivamente sull’austerità e sul rigore contabile: «Se la politica europea non cambia - ha detto Savona - avremo di fronte a noi due possibilità. O un tasso di disoccupazione pari al 20 per cento della popolazione attiva, tenendoci l’euro, oppure rinunciando all’euro un tasso d’inflazione del 20 per cento ma con la speranza di una ripresa. Io preferirei la seconda variante. Soltanto la paura di un salto nel vuoto ci trattiene… un paese serio deve disporre di un Piano B di questo genere; altrimenti, la sua posizione negoziale diventa più debole».
Da qualche giorno, appoggiato da voci euroscettiche nel centrodestra della cancelliera Angela Merkel, parla a favore di Piani B per l’Italia Anton Boerner, cioè il presidente dell’Associazione degli esportatori tedeschi (Bga). «I Paesi del Nord — dice Boerner — dovrebbero riflettere a porte chiuse sugli scenari d’esecuzione, altrimenti gli italiani possono ricattarci con la minaccia di uscire dall’euro ». Il sessanta per cento degli elettori italiani, dice ancora Boerner, è contrario alla moneta unica nella sua forma attuale, bisogna rispettare gli elettori italiani e spiegare loro che non c’è alternativa alla disoccupazione. Boerner insiste nel chiedere a Berlino l’elaborazione d’un Piano B, con la previsione di un crollo dell’euro o di nuovi confini dell’eurozona, e si dice contrario ad aiuti all’Italia, «perché gli italiani sono più benestanti dei tedeschi».

Corriere Economia 4.3.13
Nel nuovo Parlamento c'è una riserva indiana
Dieci ex sindacalisti. Eletti con Pd e Sel
di Enrico Marro


Nei giorni scorsi sono stati avvistati entrambi a via Po, sede della Cisl. Tutti e due per liberare le stanze, ma l'uno da vincitore, l'altro da perdente. Il primo è Giorgio Santini, ex segretario confederale eletto al Senato per il Pd. Il secondo è Gianni Baratta, anche lui ex membro della segreteria e anche lui candidato, ma con la lista Monti. Baratta evidentemente la fatto male i calcoli perché, a causa di un risultato elettorale del premier inferiore alle attese, non è riuscito ad entrare in Parlamento.
Stessa sorte toccata anche a Benedetto Adragna, ex segretario della Cisl Sicilia, che aveva già fatto una legislatura col Pd, ma questa volta aveva cambiato per Monti, con soddisfazione del leader della Cisl, Raffaele Bonanni, grande sponsor dell'operazione centrista. Baratta, che, candidandosi, si era dovuto dimettere da segretario confederale, ma aveva preso l'aspettativa quale dipendente del sindacato, rientrerà in Cisl in attesa che Bonanni gli affidi un incarico.
Tra i promossi eccellenti ci sono sicuramente Guglielmo Epifani, ex leader della Cgil, e Valeria Fedeli, già segretario dei tessili Cgil. Entrambi eletti col Pd. Ma, sopratutto il primo, correva per un obiettivo più ambizioso, quello di diventare ministro di un governo Bersani, che prima del voto veniva dato per scontato nel sindacato rosso. Obiettivo che ora si allontana. Considerando anche Anna Maria Parente e Pier Paolo Baretta, entrambi ex Cisl, Antonio Boccuzzi (ex Uilm), Cesare Damiano (ex Fiom) e Onorio Rosati, ex segretario Cgil di Milano eletto alla Regione Lombardia, si può dire che tutti gli ex sindacalisti messi in lista dal Pd sono stati eletti o rieletti (con l'eccezione di Franco Marini).
Si è rivelato un treno sbagliato, invece, oltre quello di Monti, anche quello di Ingroia. Rivoluzione civile, infatti, non sarà presente in Parlamento e quindi non entreranno Maurizio Zipponi, ex Fiom e già responsabile Lavoro dell'Italia dei Valori, né Antonio Di Luca, uno dei 19 operai Fiom che secondo sentenza devono essere riassunti a Pomigliano, né Giovanna Marano, ex segretario Fiom della Sicilia. È andata bene, invece, a chi ha scelto Sel. Entrano in Parlamento Giorgio Airaudo, già membro della segreteria Fiom, Giovanni Barozzino, uno dei tre delegati alla Fiat di Melfi licenziati e poi fatti riassumere dal giudice, e Ciccio Ferrara, ex segretario nazionale della Fiom ai tempi di Claudio Sabattini. Non ce l'hanno fatta invece i due sindacalisti Uil che correvano col partito socialista: l'ex segretario Pietro Larizza, capolista in Campania per il Senato, e Luigi Scardaone, già segretario di Roma e Lazio che correva per le regionali.
Ricapitolando: una decina di sindacalisti entra in Parlamento solo sotto le insegne del centrosinistra (Pd+Sel). Un risultato che avrebbe fatto contenta la Cgil e generato timore nella Cisl e nella Uil, se non fosse che lo tsunami elettorale ha distrutto le vecchie prospettive, aprendo uno scenario del tutto nuovo anche per i sindacati. Rischiando di rendere inutile perfino la pattuglia mandata in Parlamento. Ormai una riserva indiana.

Pedofilia cattolica
La Stampa 4.3.13
Mahony: “Il Vaticano mi ha chiesto di venire al Conclave”

qui

Repubblica 4.3.13
Vatileaks
Cadono i veli sul dossier segreto resta il divieto di fare nomi


I TRE porporati ultraottantenni Julián Herranz, Jozef Tomko e Salvatore De Giorgi, sono pronti a fornire al collegio cardinalizio gli «elementi utili per valutare la situazione e scegliere il nuovo Papa». Il dossier riservato su Vatileaks è nelle loro mani e in quelle del Papa.
Non potranno svelare i nomi dei testimoni interrogati né i nomi di coloro che dentro il Vaticano sono stati considerati colpevoli di aver favorito il furto dei documenti e di aver condotto campagne denigratorie contro diverse personalità della Chiesa fuori e dentro il Vaticano. Ma le loro indicazioni, seppur generiche, dovrebbero bastare per aiutare i cardinali a scegliere nel modo migliore. L’impressione è che del marcio – monsignor Carlo Maria Viganò parlò di corruzione – si sia annidato dentro la Curia romana e in alcuni dei suoi componenti. Su questo marcio sono soprattutto i cardinali stranieri a chiedere che si faccia luce. In questo senso le cordate che stanno nascendo in queste ore internamente alla Santa Sede per portare all’elezione e alla segreteria di Stato cardinali vicini al gruppo di potere che ha regnato negli ultimi sette anni e mezzo non convincono i più.

il Fatto 4.3.13
L’ozio creativo: il lavoro che costruisce una vita
di Domenico De Masi


Ho 75 anni. Dunque, ho vissuto 657.000 ore. Dopo la laurea ho lavorato come praticante notaio per cinque mesi, cioè dieci ore al giorno, per ventidue giorni al mese. In complesso, 1.100 ore di lavoro. Dopo la specializzazione in Sociologia, ho lavorato per quattro anni – cioè per 8.000 ore – come dipendente di una società milanese. Quindi, mi sono trasferito a Roma, dove ho lavorato in una scuola di management per dieci anni, pari a 20.000 ore. Insomma, in tutta la mia vita ho lavorato 29.100 ore e ho oziato per 627.900 ore.
PARLO di ozio in senso di “ozio creativo”, cioè quel tipo di attività intellettuale in cui non si capisce mai bene cosa si sta facendo perché vi confluisce, in modo inestricabile, qualcosa che somiglia al lavoro, qualcosa che somiglia allo studio e qualcosa che somiglia al gioco.
Il concetto di lavoro è molto ambiguo e noi, con l’unica parola “lavoro”, indichiamo attività diversissime tra loro. Diciamo che un minatore lavora, che un metalmeccanico alla catena di montaggio lavora, che un giornalista lavora, che un artista o uno scienziato lavorano. Giustamente lo scrittore Joseph Conrad diceva: “Come faccio a spiegare a mia moglie che, quando guardo dalla finestra, io sto lavorando? ”.
Riflettendo su queste differenze, decisi anni fa di chiamare “lavoro” quello che fanno il minatore e il metalmeccanico; ma di chiamare “ozio creativo” quello che fanno il poeta, il giornalista, il sociologo, l’artista. Nel lavoro, tutto è programmato dall’alto, nei minimi particolari e il lavoratore è schiacciato dalla grande macchina organizzativa. Nel suo delirio di onnipotenza, Alfred Krupp, il mitico imprenditore siderurgico tedesco, diceva: “Voglio che chiunque possa sapere cosa succede in qualsiasi momento e in qualunque posto della nostra azienda senza nulla chiedere a nessun mortale, ma semplicemente consultando i libri aziendali”. Il lavoro, fatto per produrre oggetti materiali e servizi ripetitivi, fiacca il corpo, frustra lo spirito, è separato innaturalmente dalla vita. Henry Ford, il padre della catena di montaggio, nella sua Autobiografia scrive: “Quando lavoriamo dobbiamo lavorare. Quando giochiamo dobbiamo giocare. Non serve a nulla cercare di mescolare le due cose. L’unico obiettivo deve essere quello di svolgere il lavoro e di essere pagati per averlo svolto. Quando il lavoro è finito, allora può venire il gioco, ma non prima”.
INVECE l’ozio creativo, con cui produciamo idee, stanca la mente ma esalta lo spirito e non ammette separazione tra lavoro e vita. Come dice in modo ineffabile questo pensiero Zen: “Chi è maestro dell’arte di vivere distingue poco fra il lavoro e il suo tempo libero, fra la sua mente e il suo corpo, la sua educazione e la sua religione. Con difficoltà sa cos’è che cosa. Persegue semplicemente la sua visione dell’eccellenza in qualunque cosa egli faccia, lasciando agli altri decidere se stia lavorando o giocando. Lui, pensa sempre di fare entrambe le cose insieme”.
Decidete voi cosa ho fatto nella vita. Io penso di aver lavorato poco e vissuto molto.
Professore ordinario di Sociologia del Lavoro presso l'Università "La Sapienza" di Roma, ha fondato e dirige la S3. Studium, società di ricerca e formazione in materie organizzative. Studia prevalentemente i lavori di natura creativa. Lavora in Italia e in Brasile. E' cittadino onorario di Rio de Janeiro. Tra i suoi libri: “Le parole nel tempo” (Guerini 2011), “La felicità” (La Sterpaia 2009), Non c’è progresso senza felicità (Rizzoli 2004), L’ozio creativo (Rizzoli 2000)

La Stampa 4.3.13
Tiziano
Così un genio stregonesco inventa la classicità
S’inaugura domani a Roma la grande mostra dedicata al maestro veneto
Viaggio in anteprima tra i capolavori che hanno segnato il Rinascimento
di Marco Vallora


Avercelo lì, a sommità della scalinata delle Scuderie, è quasi un’esplosione incontenibile di tran-secolarità dell’intera storia dell’arte. Deflagra dolcemente, in fragoroso, notturno «ralenti», come una morbida, franante granata di sensuale e vellutata bellezza, e di terribilità tutta veneta, ma di pur universale monumentalità (pare la Fenice che s’infiamma. In un vortice di terrestre burrasca del Sublime incendiato). Riavercelo, come tra le braccia dello sguardo, questo estremo e potentissimo Martirio di San Lorenzo, che nella sua chiesastica sede veneziana era pressoché invedibile: per lo scurore del tempo e del tempio, ed i capricci del sagrestano. Ora restituito ad un originario splendore di lapilli eruttivi, grazie anche al sapiente restauro «piemontese», firmato Nicola, che ci offre in adorazione questo telero, superbo e «accadente» (in senso sartriano). Che continua a profondere la sua incandescente lava materica imbronciata di paure, riverberando l’incanto sinistro di questa notte, furiosa, della fede. Il braccio levato del santo lessato, ma in panni aulicissimi, come a fermare il Tempo ed il visitatore pellegrino, sulla soglia di questa sontuosa Via Crucis, redentrice della magnificenza materica, translucida. E quasi va illusivamente a fuoco, nell’incandescenza tremula delle braci assassine, stipate sotto quella levitante graticola, che slitta verso di noi, sfuggendo ai binari dello scenario palladiano, ed ufficia insieme barlumi manieristi e tensioni già barocche. Con i monumenti intorno che intanto si fanno stretti e trafelati, come sinistri tifosi: uomini, torturatori, architetture tortili, che paiono incendiarsi ed assottigliarsi, quasi fragili ceri, fusi stregati, nutrendo nel grasso fumigante tutto uno stuolo di seguaci visionari, da El Greco a Mastelletta, da Tintoretto, a Bassano, da Fuessli a Daumier.
Certo, il rischio e la tentazione è di fermarsi qui, anche con il commento: come cavalli imbizzarriti e indomiti, sotto gli occhi fieri ed irrequieti di Tiziano stesso, che in questo suo Autoritratto di maturità, fa la spola di pupille, tra noi ed il suo orgoglioso capolavoro di nonagenario (altro che cecità, altro che lavorare di solo polpastrelli o colpi di straccio!). Con una sprezzatura quieta e saggiamente dolente, gli occhi rugosi d’esperienza, che si fissano poi nel vuoto luminoso della sua gloria temporale, incarnata e calamitata in quel silenzioso pennello: ago di raggiante energia. Noi, che sappiamo e sentiamo che è pressoché impossibile varcare questa maestria intemporale e tellurica: eppure di lì a poco, ecco che prendono ad inseguirsi, per le sale, e a decantarsi, un numero sparato di capolavori, senza eguali, che è difficile persino elencare, nella loro dovizia, e stupido scegliere, come qui facciamo, quasi a caso. Dalla Madonna Magnani, ancora pregna di rugiadosi umori giorgioneschi, a quella in dialogo con san Biagio, e quell’assolo tenorile della foglia di fico, che si erge come un paraffo delirante, nel paonazzo albeggiare di laguna (ma dai colori danubiani all’Altdorfer, in attesa della reprimenda furente del Cristo maturo). All’altro angiolone nella Sacra Conversazione accanto, cerosamente sciolto nel suo santo grembiule liliale, infetto d’un bianco, che ha assaggiato tutti i possibili gusti del colore sfatto e già renoiriano. Per passare poi ai ritratti «laici» del secondo piano, dal ritratto di Ranuccio, adolescente ferito dall’infelicità più acerba e smarrita, al grigio umorale del bel galantuomo, dal guanto gaté, color di piccione, che congiunge Pontormo con Goya. Dalla Maddalena prorompente sensualità, all’intensissimo Giulio Romano che progetta: terribilità michelangiolesca e virtuosismo raffaellesco, stemperati nella naturalezza più divina, come sosteneva il Dolce. Schiocco e choc della sorpresa che dipinge. E poi il lottesco cantore, dalla giugulare fremente, che doppia con i suoi melismi il rimpallarsi Dies Irae delle tre crepuscolari Crocefissioni, a squassare cieli pochissimo frequentati: quelli chiusi alla devozione «verdiana» di Filippo II, negli avelli dell’Escurial; l’altro ancora sottoposto alle ubbie delle battaglie attributive; ed infine quello, irraggiungibile nella cattedrale di Ancona, divampante e scuro, ravvicinato qui e crollante, come per una zoomata miracolosa.
Certo, ci sarà chi discuterà acribicamente la data di nascita (qui assai avvicinata) chi troverà opere mancanti, la recente e discussa «ritrovata» Fuga in Egitto per esempio, o qualche «poesia» in più, da sottrarre al monarca di Spagna, o un baccanale post-belliniano. Ma (a parte problemi di prestiti ovvii e d’inevitabili indisponibilità) è chiaro che pensare di poter riassumere Tiziano in tutti i suoi variegati aspetti e render conto della sua ineguagliabile grandezza, è pretesa illusoria e sciocca. Diverso domandarsi se in un luogo così prestigioso ma difficile, questa sorta di «open space» processionale delle Scuderie, sia davvero poi possibile preservare e appoggiare la sua mutevole genialità proteiforme, quel suo nevrile nitrire di purosangue indomato delle cromie scosse, degno d’un Picasso rinascimentale. Che ogni volta reinventa i suoi cammini imprevedibili, come se tela dopo tela dovesse ri-materializzare, per scommessa, il fervente respiro della vita, che rilutta a lasciarsi imbalsamare. Arte stregonesca che incantava l’amico Aretino, e che innervosiva il fiorentino Vasari, che quando Tiziano giungerà, buon ultimo a Roma - il papa gli ha preferito Sebastiano del Piombo, come pittore ufficiale - lo tratterà con una certa sufficienza medicea, come un valligiano un po’ rozzo, che viene dal Cadore e dipinge «alla prima», perché non ha uso di disegno accademico. E se non ci fossero lui e un Michelangelo, paradossalmente più bonario, ma che mai capirebbe della Classicità?). Ed invece, come spiega il curatore Giovanni Villa, è proprio questo suo classicismo, naturale, spontaneo, innervato di carne e di sangue, rivitalizzato, che ci conquista e rapisce, sterzata dopo invenzione, reinvenzione dopo nuovi rapinosi scatti di reni. Useremo la formula di Longhi: «consonanza cromatica», per affidarci a questo flusso. E fermarci di fronte all’ultimo autoritratto, che è già Rembrandt ormai, che guarda a Manet, ed intanto getta i suoi strali al vorticante Apollo spella Marsia, col cagnino che lappa il sangue, come se fosse già la «firma» di Caravaggio nella pozza della Decollazione di Malta.

TIZIANO ROMA, SCUDERIE DEL QUIRINALE FINO AL 16 GIUGNO
"Alle Scuderie del Quirinale l’artista amato dall’Aretino e snobbato dal Vasari"

Corriere 4.3.13
Nuovi studi aiutano a capire meglio, ma resta l’unicità dell'Olocausto
di Stefano Jesurum


«The Holocaust just got more shocking» (l'olocausto è diventato più scioccante) è il titolo con cui il New York Times presenta il risultato di un lavoro iniziato tredici anni fa dall'United States Holocaust Memorial Museum. Una ricatalogazione documentata di tutti i «siti» nazisti funzionanti in Europa tra il 1933 e il 1945, circa 42.500 tra ghetti, campi di concentramento e lavoro forzato, bordelli, luoghi per l'eliminazione di anziani e infermi, aborti, esperimenti, lager per lo sterminio scientifico. Il tutto in nome della eliminazione del popolo ebraico e della germanizzazione. Vittime sei milioni di ebrei più i milioni di oppositori politici, omosessuali, zingari, polacchi, russi e altri gruppi etnici.
Il lavoro, che ha già scatenato bande di negazionisti, scuote gli studiosi «fermi» alla catalogazione dello sterminio compiuta una quindicina di anni fa dalla Croce Rossa. Ora la domanda è se quel titolo del NYT sia corretto e se la Shoah possa essere o meno «più scioccante». Il raffinarsi della ricerca aiuta senz'altro la comprensione del fenomeno ma mette paradossalmente in luce l'ignoranza della reale essenza del fenomeno stesso. Ci può essere qualcosa di più «scioccante» di ciò che nel nostro pensare collettivo evocano Auschwitz o il Ghetto di Varsavia? Può esistere qualcosa di «peggio» di quanto è stato trasformato in metafora del male assoluto e radicale? La risposta è che sì, può senz'altro esistere, anzi esiste, qualcosa di more shocking. È ciò che si sta facendo, «memorializzare» la Shoah, ovvero, come non si stanca di ripetere Georges Bensoussan, il cocciuto storico che tra l'altro dirige la Revue d'histoire de la Shoah, renderla un evento culturale, così facendo isolandola dalle sue radici geografiche, demografiche e, appunto, storiche. Ben vengano nuovi studi sugli assassinii compiuti dalla Germania hitleriana, sui milioni di morti, che sono tutti uguali. Ma si faccia attenzione alla (conscia o inconscia) ondata autoconsolatoria per cui Auschwitz e Varsavia e le infinite realtà documentate dai ricercatori americani diventano sinonimo, in parte autoassolutorio, dei delitti contro l'umanità. No, la Shoah (e qui sta l'errore del NYT) non può essere più scioccante di quanto è stata. Sempre che la si prenda per ciò che fu: un crimine contro gli ebrei, non contro una generica entità umana.