martedì 5 marzo 2013

l’Unità 5.3.13
Bersani chiama il Pd: nessun accordo col Pdl
Il Pd: il governo non lo nomina Grillo
Alla Direzione di domani (in diretta streaming) Bersani rilancerà gli otto punti
D’Alema, Letta, Franceschini d’accordo col segretario: niente intese col Pdl I dubbi di Veltroni e dei renziani
di Maria Zegarelli


Quello che dirà con molta chiarezza in Direzione è che per quanto lo riguarda non farà mai un governo con il Pdl di Silvio Berlusconi. Illustrerà gli otto punti programmatici su cui intende andare in Parlamento a chiedere la fiducia e a quel punto sarà la Direzione ad esprimersi. Pier Luigi Bersani non ha tentennamenti, ha tracciato la strada che intende percorrere e aspetta di sapere se il parlamentino democratico gli darà quell’appoggio di cui ha bisogno per salire al Quirinale e giocarsi l’unica carta che ha in mano: ottenere l’incarico e chiedere a Grillo (e a Monti) i voti di cui ha bisogno al Senato per dare vita ad un governo di scopo, ancorato attorno ai punti illustrati l’altra sera dal leader Pd da Fabio Fazio a Che tempo che fa. Massimo D’Alema appoggia la linea del segretario, «escludiamo qualsiasi accordo con il Pdl», idem Enrico Letta e Dario Franceschini, che «ha sempre condiviso le scelte del segretario ed è quello che farà anche mercoledì», dice uno dei suoi fedelissimi.
Ed è probabile che domani Bersani incassi un voto unitario o quasi (c’è chi ha messo nel conto delle astensioni, anche «eccellenti») ma molto dipenderà dalle cose che dirà. I lavori saranno «aperti», in diretta streaming sul sito del partito a partire dalle dieci, «per segnare la differenza tra una passerella e un confronto vero», dicono in aperta polemica con la diretta di Grillo.
Walter Veltroni, ad esempio, preferisce aspettare: è d’accordo con il segretario sul fatto che spetti al Pd fare una proposta in Parlamento per tentare di dar vita ad un governo ma è altrettanto convinto che non si debbano porre aut aut tali «da rendere ancora più stretta la via che può e deve percorrere il presidente della Repubblica». Veltroni non crede alla tenuta di un governo senza maggioranza precostituita e per questo ritiene che la strada non possa che essere un governo del presidente. Tace per ora Rosy Bindi, e ci sono malumori anche nell’Areadem di Franceschini (che si riunisce stasera), dove c’è chi suggerisce a Stefano Fassina di smetterla di evocare le urne come unica alternativa al governo Bersani, o «addirittura di prospettare nuove elezioni con lo stesso leader candidato», ma nessuno viene allo scoperto.
Gli stessi «perplessi» sanno che in questo momento aprire fronti interni di polemica potrebbe essere un errore fatale. Le voci fuori dal coro sono poche, arrivano soprattutto dal fronte renziano ma non da Renzi che domani potrebbe essere a Roma per la Direzione. Roberto Giachetti sul suo blog dice «meno male che c’è Napolitano, affidare oggi nelle sue mani la gestione di uno dei percorsi più delicati della vita politica e istituzionale non è solo l’unica possibilità per trovare una via d’uscita, ma anche un doveroso rispetto delle prerogative costituzionali alle quali sarebbe bene che tutti si attenessero». Ieri dopo l’incontro tra Beppe Grillo e i suoi eletti il capogruppo al Senato (deciso nella riunione ma non nelle sedi istituzionali, cioè il Parlamento), Vito Crimi ha lasciato intendere che sarebbero disposti a votare un governo guidato da una personalità esterna ai partiti. C’è chi ha fatto il nome di Stefano Rodotà (mentre Pippo Civati dal fronte democratico lancia il nome di Laura Puppato), chi del governatore Ignazio Visco, ma al Nazareno la ritengono un’altra provocazione: «Farebbero qualunque cosa pur di non far governare chi ha vinto le elezioni, il loro è solo un modo per continuare a non decidere». «Riteniamo che chi rappresenta il 25% dell’elettorato italiano debba mettere le mani in pasta. Non può dire “ho preso il 25% e sono problemi vostri”», replica Nico Stumpo, responsabile organizzazione del Pd. Nel Pdl, invece, salutano l’apertura di Crimi come una gran bella notizia, mentre c’è chi starebbe lavorando per creare canali di contatto con gli eletti M5S per porre le condizioni per un governo a guida Bersani. Uno degli ambasciatori sarebbe anche don Gallo, il sacerdote genovese amico di Grillo e molto vicino a Sel: impresa non facile, su questo sono in molti ad essere d’accordo. «Grillo non può dire che si tira fuori commenta Antonello Giacomelli i suoi parlamentari venissero in Aula a dire che le nostre proposte non sono il cambiamento e si assumano le loro responsabilità».
Bersani intende chiedere il mandato per un programma «tosto», volto a fare leggi contro la corruzione, la mafia, sul conflitto di interessi, sui costi della politica (riduzione del numero dei parlamentari, legge sui partiti), interventi volti alle fasce sociali più esposte alla crisi, sull’economia per la crescita, sul territorio per valorizzare l’esistente, diritti civili e di cittadinanza e infine, scuola e diritto allo studio. Evidente che molti dei punti sono di apertura soprattutto al M5S, una ricerca di contatto concreto sulle possibili convergenze, ma Grillo in questo momento non sembra avere alcun interesse a «mettere le mani in pasta», in un governo a guida di un leader politico. Ma i margini di manovra di Grillo dipenderanno anche dallo svolgimento della crisi e dalle scelte che compirà il Capo dello Stato.

l’Unità 5.3.13
I movimenti di Renzi Richetti: toccherà a lui
Il sindaco incerto sulla sua presenza domani
Il supporter emiliano: «Incarico non scontato»
di Osvaldo Sabato


Teme interpretazioni che in questo momento potrebbero dare adito a letture, che potrebbero metterlo in difficoltà agli occhi del segretario Pier Luigi Bersani e dell’intero Pd. Matteo Renzi ha annullato la riunione, già fissata per oggi, in un albergo fiorentino con la cinquantina di parlamentari vicini a lui. Ufficialmente per impegni del sindaco, ma l’incontro è stato cancellato perché poteva essere letto come una sorta di riunione di corrente, Renzi ha sempre detto che la sua non lo è, proprio il giorno prima della Direzione del Pd convocata per domani. Il rottamatore continua a non parlare dell’attuale quadro politico, quello che aveva da dire lo ha fatto con la sua lunga enews di qualche giorno fa, anche ieri a margine del consiglio comunale non ha voluto rispondere alle domande dei giornalisti, limitandosi a parlare solo dell’aeroporto di Firenze, come dire che lui pensa solo a fare il sindaco. Quanto alle faccende romane, Renzi, aspetta di capire che fine farà il tentativo di Bersani di formare il nuovo governo, prima di uscire definitivamente allo scoperto ed entrare in gioco nella partita per la premiership. Per ora si muove con i piedi di piombo, perché vuole evitare interferenze, ma osserva.
REBUS DIREZIONE
Non è sicura neanche la sua presenza domani alla direzione del Pd, dal suo entourage fanno sapere che ancora non ha deciso se andarci, o meno. Ma a sorpresa potrebbe anche esserci, sta cercando di cancellare tutti gli appuntamenti fiorentini per essere domani a Roma. Poi se prenderà la parola, lo deciderà dopo aver ascoltato la relazione di Bersani. Così mentre nel frattempo i grillini aprono ad un governo tecnico, senza i partiti, tocca al neo parlamentare, Matteo Richetti, dire chiaramente qual è la linea dei renziani «se si vota tra sei mesi, a quel punto penso sia legittimo che Matteo Renzi possa pensare di riproporsi agli elettori». Su Radio 24 il presidente dimissionario del consiglio regionale dell’Emilia Romagna esclude però che Renzi possa essere indicato premier già ora.
«Sarebbe sbagliato e poco rispettoso di ciò che è avvenuto in questi mesi in Italia, con le primarie. La nostra proposta non è stata ritenuta maggioranza nel centrosinistra» osserva Richetti, senza risparmiare qualche frecciatina al Pd su come ha gestito le primarie fra Bersani e Renzi «qualche albo degli elettori un po’ più aperto avrebbe aiutato a prendere qualche voto in più». Ma è il probabile incarico di Napolitano a Bersani, che a sorpresa viene messo in discussione da Richetti, tanto da non ritenere scontata la mossa del Quirinale: «Mi rassicura il fatto che un'eventuale intesa non sia nelle mani di Bersani e di Grillo ma nelle mani del Capo dello Stato», spiega «nessuno si può autoproclamare. I bracci di ferro si fanno in campagna elettorale, poi si guarda alle istituzioni». A chi si riferisce con quel «autoproclamare»? Per Richetti, Napolitano potrebbe addirittura pensare ad un nome diverso da Bersani «perché dovrebbe affidargli l’incarico nel momento in cui dovesse registrare in partenza la mancanza di numeri che lo sostengono?».
CAMPER ACCESI
Per l’esponente renziano «le consultazioni saranno centrali per capire se le altre forze politiche saranno disponibili a sostenere profili anche di centro-sinistra ma che non siano per forza il segretario del maggiore partito» e nel Pd «ci sono anche altre personalità che hanno competenze forti sul piano economico e sociale». A ridosso del voto politico, con la mancanza di una forte maggioranza del centro sinistra alla Camera e al Senato anche il sindaco di Bologna Virginio Merola e il suo assessore Luca Rizzo Nervo, avevano auspicato un passaggio di testimone fra Bersani e Renzi. Nel frattempo il Pd toscano appoggia la linea del leader democratico e ieri i segretari provinciali, riuniti a Firenze, c’era anche il presidente regionale Enrico Rossi, hanno approvato un documento con il quale si dicono favorevoli all’impostazione di Bersani sul tentativo di far nascere un governo inserendo nel programma temi e argomenti, sui quali i grillini dovranno uscire allo scoperto in Parlamento, come le riforme istituzionali, il costo della politica, la nuova legge elettorale, quella sui conflitti di interesse e sulla corruzione. Intanto chi è vicino a Bersani smentisce tentativi di «scouting» tra i senatori a cinque stelle. E nel Pd si continua a ripetere che non c’è nessuna possibilità per un governissimo Pd Pdl. «La priorità è rimettersi in sintonia con gli italiani, non giocare al contro-baratto e vendo dei seggi grillini» è la tesi di Renzi. «Pensiamo di uscirne vivi offrendo a Grillo la Camera e a Berlusconi il Senato, secondo gli schemi che hanno già fallito in passato?» spiega il sindaco a proposito della proposta di D’Alema. Ora resta da capire se il rottamatore continuerà nella sua strategia del cinese in riva al fiume, se considera il tentativo di Bersani senza una via di uscita. E se e quando rimetterà in moto i suoi camper.

l’Unità 5.3.13
Ha perso l’idea di partito, non solo Bersani
di Arturo Parisi


PIÙ CHE IL TRADIZIONALE UNANIMISMO, DELLA PROSSIMA DIREZIONE PD TEMO CHE, MAGARI SOLO IN CORRIDOIO, A FINIRE IMPUTATO PER LA MANCATA VITTORIA SIA SOPRATTUTTO BERSANI. Nulla sarebbe più ingiusto, nulla più fuorviante. Guai se qualcuno pensasse che ad uscire sconfitta dal voto sia stata la persona di Bersani e non invece la linea del Pd. Ancor peggio, se qualcuno pensasse che su questa linea il partito disponga di un segretario migliore di lui. Sento il dovere dirlo proprio perché di questa linea sono stato e resto un avversario convinto, un dovere ancora più esigente alla vigilia di una Direzione che segna per me la conclusione di una fase del mio rapporto col partito. Se sulle «politiche» Bersani ha preferito per onestà esprimersi con una voluta approssimazione, sulla «politica», sulla idea della democrazia e del partito mai nessuno prima di lui è stato così nitido e chiaro. L’identificazione della democrazia con i partiti, la rivendicazione del loro primato e protagonismo nella società e nelle istituzioni ha guidato le sue parole e i suoi passi come una stella cometa. Con questa idea Bersani ha conquistato nel 2009 la segreteria. Su questa linea ha guidato il partito, con coerenza e continuità, nella società e nelle istituzioni. Con questa linea si è contrapposto a Renzi nelle primarie per la premiership. Grazie a questa linea e all’imposizione delle regole che riteneva dovessero da essa derivare le ha vinte col sostegno convinto del corpo centrale del partito che, nella sua dorsale organizzativa e nel personale che la governa, è di questa linea prodotto e allo stesso tempo riproduttore. È a questa linea che Bersani ha prestato il suo volto amico. La stessa che, nonostante adattamenti e dissimulazioni, è stata ed è da lui perseguita con determinazione. Una determinazione guidata dall’intenzione di restaurare, dopo la stagione che lui intesta al populismo, il ruolo dell’intermediazione partitica e perciò la centralità del Parlamento e la rappresentanza proporzionale più o meno corretta. Una determinazione alimentata allo stesso tempo dall’illusione di poter contrastare la domanda di democrazia diretta delle nuove generazioni ad alta scolarizzazione, alle quali i nuovi «media» prospettano, per la prima volta nella storia a livello di massa, la possibilità di passare dall’esercizio di una competenza solo passiva ad una competenza politica attiva, rendendo quindi non più giustificata e sopportabile l’intermediazione estesa e costosa ereditata dal passato. Ma questa non è la linea di Bersani. È la linea che è da sempre la linea del partito. Il partito che Bersani dice di aver trovato. Lo stesso che assicura sarà dopo di lui. È appunto in nome della fedeltà al partito e alla sua linea che Bersani ha aperto le sue Feste, ma non appoggiato né sottoscritto il referendum contro il Porcellum. È per questo che, pur restando agli atti ufficiali la preferenza per il doppio turno, Violante ha perseguito a suo nome il disegno di una rappresentanza ad impianto proporzionale. È per questo che della Francia ha accettato tutto all’infuori del semipresidenzialismo. È per questo che ha introdotto il finanziamento pubblico ai partiti, mentre riduceva la quantità dei rimborsi elettorali. È per questo che ha accettato di correre il rischio di restare a quel proporzionale troppo corretto che si chiama Porcellum, dando ad intendere di aver ripulito le nomine con le dolorose primariette di fine d’anno. È solo una linea come questa, la linea del partito, che può spiegare la scelta che ha guidato Bersani alla mancata vittoria. Da dove può mai venire infatti una tattica del tipo «io organizzo i progressisti, voi organizzate i moderati» e poi ci incontreremo dopo il voto in Parlamento? Da dove la scelta di parlare solo ai «nostri» invece che a tutti, decidendo di lasciare una parte nelle mani dei centristi, e un’altra alle piazze di Grillo, col rischio che anche una parziale tenuta del Cavaliere trasformasse il sorpasso all’indietro del Pd da una mezza vittoria in una totale sconfitta? No. Con questa linea, la linea del partito, il Pd avrebbe potuto solo raggiungere il primato che ha cercato. Forse con misure diverse. Ma non di più che una vittoria di minoranza perché guidata da una ispirazione identitaria minoritaria. È infatti difficile trovare voti che non si sono cercati. Il problema non è quindi la scarsa comunicativa di Bersani o i limiti della sua leadership e perfomance, non i suoi difetti, ma la sua virtù. Non è Bersani il problema ma la linea del partito. Ma può questo Pd avere una linea diversa da questa? Questo è il problema. Dice bene Renzi e tutti quelli che ancora scommettono sul Pd: sfidare Grillo. Purché sia chiaro che sfidare Grillo significa raccogliere la sfida che viene dall’esterno, sfidando questo Pd dall’interno. Le scelte troppo a lungo rinviate sono ormai di fronte. Questa volta non è più consentito decidere di sbagliare assieme per paura di aver ragione da soli.

La Stampa 5.3.13
Il “governo senza partiti” manda in fibrillazione il Pd
Domani la direzione, Bersani va alla conta sulla linea dura
di Carlo Bertini


Finché il Pd si identifica in Bersani, si va avanti con più forza nel tentativo di stanare Grillo e poi si vede», dice Miguel Gotor, consigliere strettissimo del leader, alla vigilia della «conta» che domani andrà in scena alla Direzione nazionale. Ed è in quel «si vede» che si nascondono tutti i problemi del Pd, a partire dall’interrogativo che si fa sempre più incalzante: e cioè, anche dopo un mandato pieno della Direzione, cosa si farà se Bersani non potendo dare garanzie su una maggioranza assicurata in Senato non ricevesse l’incarico? Oppure se una figura diversa da lui, magari un tecnico super-partes, fosse in grado di avere i voti dei grillini in Parlamento come si comporterà il Pd?
Tutti i big formalmente ancora appoggiano Bersani e il suo tentativo di dar vita ad un esecutivo di minoranza su un programma ristretto di riforme. Renzi ha perfino rinviato una riunione dei suoi 54 parlamentari prevista oggi a Firenze per non dar l’idea di costruire una fronda interna e domani anzi si presenterà in Direzione. Quindi pur divisi sul «dopo», tutti, da Veltroni a Franceschini, da D’Alema alla Bindi, a Fioroni, lo sosterranno. Qualcuno di loro però ad una condizione: se il segretario non porrà l’aut aut «o con me o elezioni», ma sfumerà l’opzione B in «si vedrà», vedrà appoggiato il suo tentativo all’unanimità. Viceversa, nessuno assicura che il dibattito non si accenda per usare un eufemismo. Si spiegano solo così alcune forzature lessicali di personaggi altrimenti molto cauti come Enrico Letta: che si spinge a dire «quando riceveremo l’incarico presenteremo nuove norme anticorruzione, nuova legge elettorale con diminuzioni dei parlamentari, ma se i grillini si trincereranno dietro l’alibi della sfiducia, nulla di questo verrà realizzato». Come a dare l’idea che almeno l’incarico a Bersani bisogna portarlo a casa; anche se Letta è sulla linea del «no a una soluzione greca senza prima aver approvato riforme fondamentali, come la legge elettorale», come ha fatto dire l’altra sera ad un suo fedelissimo, Marco Meloni. E se il suo lealismo a Bersani, così come quello di Franceschini e dei suoi uomini, si ferma sulla diga del niente voto anticipato, è chiaro che le ricette divergono nel magico mondo del Pd. In queste ore l’attenzione di tutti è puntata sulle parole del capogruppo al Senato dei grillini Crimi: che ha aperto alla disponibilità di votare un governo non partitico, che assomiglia molto nei contorni al cosiddetto «governo del presidente» caldeggiato dai veltroniani. È la novità più significativa di ieri che già ha fatto entrare in fibrillazione le varie anime e lo stato maggiore. Dovendo fotografare i diversi posizionamenti, allo stato degli atti, a dispetto di quanto pensano i vari Veltroni, letta, Franceschini, ci sono i tanti bersaniani come Gotor e i giovani turchi come Fassina e Orfini, che affollano le fila dei gruppi parlamentari e che non vogliono saperne di dare i loro voti a qualsiasi governo sostenuto dal Pdl. Con una formula che potrebbe sembrare un’apertura, «non votiamo nessun governo che non abbia pure i voti di Grillo». In linea col segretario, anche D’Alema fa notare che «il Pd ha la maggioranza assoluta alla Camera, nessuna soluzione può prescindere dal Pd, quindi ha ragione Bersani». Il quale va ripetendo che «nessun governo con i voti del Pdl avrà i nostri voti», come a sgombrare il campo dall’inciucio con Berlusconi inviso a migliaia di militanti. Ma un ex Dc fa capire bene l’umore dei big: «Se Bersani, ormai bruciato, si assume l’onere di lasciare agli atti che Grillo dice no a tutto, ci fa un grande favore, perché ostacolare la sua missione generosa? ». Ma anche i renziani sono sul piede di guerra: «Napolitano può affidare l’incarico a una personalità diversa da Bersani. Se altre forze saranno disponibili a sostenere personalità diverse». E se si votasse tra sei mesi Renzi sarebbe in campo.

La Stampa 5.3.13
Il cortocircuito dei democratici tra Quirinale e dissidi interni
L’obbligo della prima mossa, le pressioni istituzionali e i sospetti reciproci
di Federico Geremicca


Diktat Pierluigi Bersani, segretario del Partito democratico, domani si misurerà con la direzione del suo partito

Che situazione è quella nella quale la presidenza della Repubblica si vede costretta a precisare (con una lettera a l’Unità) che dal giorno delle elezioni ad oggi nessun colloquio è mai intercorso tra il Capo dello Stato e i dirigenti del principale partito (il Pd) della coalizione che ha la maggioranza dei seggi alla Camera? O ancora: che situazione è quella nella quale la Direzione del Partito democratico si riunisce (domani) per dare il via libera ad una proposta politica - governo con Beppe Grillo o addirittura di minoranza - sulla cui praticabilità lo stesso organismo dirigente forse non scommetterebbe un euro? Una situazione insidiosa e pesante, naturalmente. E forse perfino peggio, considerato che partiti e istituzioni si trovano a dover dare un governo a quella che è gia stata frettolosamente definita Terza Repubblica, dopo un voto espresso con una legge elettorale (maggioritaria) da Seconda Repubblica e un esito (frammentato) addirittura da Prima Repubblica...
Il risultato di questo cortocircuito largamente prevedibile già prima del voto - è una sorta di rassegnata confusione nella quale ognuno avanza ipotesi di soluzione difficilmente praticabili, annuncia (o minaccia) ritorni alle urne e intanto spera che da qualche parte dal Quirinale, presumibilmente - qualcuno tiri fuori il classico coniglio dal cilindro: e poichè questo non avviene (o non avviene ancora) il nervosismo dilaga, e le tensioni paiono cominciare a mettere seriamente alla prova soprattutto la tenuta del Partito democratico, uscito già sufficientemente scosso dalla ultima tornata elettorale.
Quello in corso, infatti, è un dopovoto che non ha assolutamente nulla del post-elezioni degli ultimi 20 anni, dove leggi elettorali maggioritarie (il Mattarellum prima e il Porcellum poi) avevano sfornato risultati che si sono sempre (1994, 1996, 2001, 2005 e 2008) tradotti automaticamente in governi del Paese. Stavolta, invece, in presenza di un Senato non governabile, una soluzione va costruita: ed essendo diverse le ipotesi percorribili, trappole e tagliole sono già disseminate sul campo. Appunto come al tempo della Prima (famigerata e in parte rivalutata) Repubblica.
È del tutto ovvio che al centro del centro delle tensioni ci siano il Pd e il suo segretario, Bersani, ai quali tocca - come si dice - la prima mossa. E la prima mossa di Bersani, se per un verso convince il partito (governo con Grillo e mai con Berlusconi) per un altro verso, cioè nel suo sviluppo (in caso contrario si torna al voto) preoccupa e perfino insospettisce parte del Pd. Bersani - questo è l’interrogativo - intende forse dire “a Palazzo Chigi o io o nessuno”? Ed è una posizione vera oppure qualcuno - sempre a Largo del Nazareno - ha già pronta una subordinata? Ai tempi della Prima Repubblica, quasi mai la prima proposta di governo avanzata era quella “vera”, o comunque destinata al successo. E adesso?
«Adesso non vorremmo pasticci» - dice Matteo Orfini, tra i leader dei “giovani turchi” che hanno ripreso fitti contatti con Matteo Renzi, interessatissimo all’epilogo di questa crisi. «Il timore - confessa Orfini - è che se la proposta di Bersani non dovesse aver successo, il Pd potrebbe spaccarsi sulla seconda mossa da fare. Noi - e crediamo anche Renzi - siamo per il ritorno alle urne, piuttosto che per un pateracchio che ci rimetta al governo assieme al Pdl. Ma non escluderei affatto che ci possa essere chi insista per un “atto di responsabilità” che eviti le urne, lasciando ancora in Parlamento dopo l’abbandono di D’Alema e Veltroni un gruppo dirigente che abbiamo già cominciato a rinnovare».
E’ un possibile scontro generazionale, quello che teme Matteo Orfini. Un braccio di ferro che certamente non segnerà la Direzione di domani, però, impegnata a meglio definire la proposta-Bersani, piuttosto che ipotetici piani b. Intanto si proverà a ricostruire rapporti politici incrinati durante la campagna elettorale (con Monti, prima di tutto) e magari si valuteranno le obiezioni che, secondo alcuni, il Quirinale avrebbe già maturato di fronte alla rigida posizione che il Pd va definendo.
Per esempio: il leader dei democratici ritiene che il suo “governo del cambiamento” debba, tra l’altro, ridurre il numero dei parlamentari e modificare la legge elettorale. Bene. La prima è una riforma costituzionale: è pensabile farla senza i voti del centrodestra? E dopo i risultati dell’ultimo voto, è pensabile riformare la legge elettorale senza i voti di Grillo? E soprattutto: in un sistema politico fattosi almeno “tripolare”, è ipotizzabile - per chiunque - tornare alle urne e pensare di vincere con una legge che certamente non ridarebbe una maggioranza chiara al Senato?
Obiezioni non di poco conto; alle quali, naturalmente, fanno da contraltare difficoltà politiche concretissime. Occorrerà tempo, dunque: nel Pd lo sanno, e qualcuno lavora e qualcun altro - intanto - affila i coltelli. E se si pensa che in appena un mese dovranno essere eletti i presidenti di Camera e Senato, quello del Consiglio e il nuovo capo dello Stato, facile immaginare che sia il lavoro sia tanto e i coltelli forse ancor di più...

il Fatto 5.3.13
Bersani è fuori, ora nomi nuovi
di Antonello Caporale


Stiamo ruzzolando verso le urne. Giugno, ora si dice. un capitombolo ai confini dell’ignoto, una prova senz’appello di suicidio collettivo. Il vincitore, se mai dovesse accadere di vederne uno prevalere sugli altri, si troverebbe seduto sopra un cumulo di macerie. Pier Luigi Bersani dovrebbe guardare oltre la sua porta e la sua poltrona e valutare se non sia il caso, prima ancora di chiederlo a Grillo, di esibire un suo gesto di responsabilità. Come non comprendere che il proprio nome in campo, malgrado ogni buona volontà, edifica solo un muro di insulti, strangola la vita del Partito democratico dentro il rito consumato di una prova di forza inconcludente? Non è lo sconfitto che “stana” il vincitore di queste elezioni. E poi: perché mai il Movimento 5 stelle dovrebbe concedere la fiducia al capostipite dei suoi detrattori? Qual è la formuletta magica, la domandina finale: o così oppure a casa? Il tono padronale di questo aut aut, invece che ricomporre, allarga, dilata, chiama alla battaglia. Battaglia già persa, sconfitta annunciata. E se è impensabile per il Pd fare un governo della moralità pubblica col sostegno del più grande corruttore in circolazione, è indiscutibile che la sfida a cui è chiamato il maggior partito della sinistra è cercare, in ogni modo, un sistema che ponga l’Italia al riparo da una ulteriore prova elettorale che forse la manderebbe definitivamente in rovina. Servono occhi nuovi per guardare questo nuovo mondo. Esistono nomi di valore, personalità dal profilo adeguato a sollecitare nel variegato e caotico movimento grillino una riflessione, una prova di fiducia, magari tecnica, per segnare l’idea di un cambiamento possibile, da subito. Questo giornale ha già illustrato l’esperienza e le qualità di Stefano Rodotà. Altri, come per esempio Fabrizio Barca, potrebbero ugualmente essere chiamati a immaginare (servirà uno sforzo davvero creativo!) una via di fuga, una luce alla fine di questo tunnel.

Corriere 5.3.13
Napolitano, la via per uscire dall'impasse
Incarico esplorativo al leader pd, poi governo di scopo con missione limitata
di Marzio Breda


«Faccio appello alle mie energie e ovviamente cerco di mobilitarle», aveva confidato a Berlino Giorgio Napolitano, a poche ore dal rientro in Italia. Sapendo che avrebbe trovato una situazione difficilissima, si preparava ad assumere la regia del dopo-voto. Un compito per qualcuno «proibitivo» e di sicuro faticoso. Lo dimostrano le prime e frustranti prove di dialogo tra i partiti, ancora fondate più sulle sfide e sulle provocazioni reciproche che su un'autentica disponibilità a cercare qualche intesa. Tuttavia, mentre ci si concentra sulle ipotesi di governo, incombe già l'incognita delle elezioni dei presidenti di Camera e Senato, adempimenti preliminari per dare funzionalità al nuovo Parlamento. Ora, posto che il Pd dispone a Montecitorio di una maggioranza sicura e ampia e lì è dunque in grado di «chiudere la pratica» subito, per Palazzo Madama il discorso è più complesso. Perché senza un accordo si rischia che non passi nessuno e si sa che, dalla quarta votazione, si andrebbe al ballottaggio, con esiti molto incerti.
Ecco un nodo da sciogliere in fretta, individuando per la seconda carica dello Stato un indiscutibile nome di garanzia che non permetta a qualcuno — cioè al Movimento 5 Stelle — di gridare al compromesso di basso profilo, all'inciucio. A margine c'è l'altra trattativa, la più importante, sulle alleanze politiche possibili e sulle formule del prossimo esecutivo. E qui ci sono alcuni punti fermi su quello che Napolitano, alla cui «saggezza» ci si appella, potrebbe fare.
Il governo di minoranza (o «di cambiamento») evocato da Pier Luigi Bersani, ad esempio, resta una possibilità problematica. Durante le consultazioni, infatti, il presidente della Repubblica avrà bisogno di mettere a verbale risposte convincenti a un paio di questioni. In primo luogo dovrà avere la ragionevole certezza che l'aspirante premier possa assicurare il numero legale di 160 senatori, considerando che, se alcuni uscissero dall'aula per far passare la fiducia, altri potrebbero uscire per farla mancare. Servirà poi che i «sì» prevalgano sulla somma di «no» e di astensioni, calcolando che alcuni rientrino per garantire il numero legale votando «no» o astenendosi e che in quella fase potrebbero rientrare anche altri per mettere il «sì» in minoranza. Due subordinate che il capo dello Stato — e prima di lui il segretario del Partito democratico, com'è ovvio — deve cercare di risolvere in modo convincente lungo il proprio percorso.
Ma se pure Bersani non fosse del tutto sicuro dei numeri di cui dispone, poiché il suo partito ha la maggioranza alla Camera, ramo di maggiore rappresentatività del Parlamento, Napolitano potrebbe comunque concedergli un tentativo. Magari con un incarico «esplorativo», così che l'eventuale fallimento sia attutito e risulti meno compromettente e traumatico.
Anche l'ipotesi di una proroga a oltranza di Mario Monti a Palazzo Chigi non sembra praticabile, dal punto di vista costituzionale e quindi dello stesso presidente. Non a caso il professore oggi dispone solo di poteri di «ordinaria amministrazione», nulla che valga pleno jure. Pensare di farlo sopravvivere addirittura per qualche mese (ciò che richiederebbe un reinsediamento, attraverso un voto di fiducia delle Camere politicamente da escludere), sarebbe una forzatura.
In questo quadro lo sbocco che ha forse maggiori probabilità per uscire dall'impasse ed evitare un rapido ritorno alle urne, sarebbe quello in un certo senso quasi disperato. Ossia un governo di scopo, o comunque lo si battezzi, per il quale il capo dello Stato incarichi una figura di profilo istituzionale (e i nomi non sono moltissimi, ma quello del ministro dell'Interno ed ex prefetto, Anna Maria Cancellieri, vi rientra), cui affidare una missione limitata, dopo una fiducia tecnica, andando di volta in volta a cercarsi i voti in Parlamento e confidando nel buon senso dei partiti: riformare la legge elettorale e approntare qualche misura in campo economico che le performance dello spread e dei mercati rendessero indispensabile e urgente.
Scenari ai quali se ne aggiunge un altro, estremo, che citiamo per liquidarlo: quello di dimissioni anticipate dello stesso Napolitano, in modo che la gestione della nuova fase politica vada al successore. È un'ipotesi — circolata forse come wishful thinking di qualcuno a Montecitorio — dell'irrealtà, perché una simile scelta aumenterebbe i rischi di sfascio ed equivarrebbe ad una caduta di responsabilità inimmaginabile, da parte del capo dello Stato. Il quale tra l'altro, prima che il Parlamento elegga chi sarà destinato a sostituirlo, a norma di Costituzione dovrebbe passare la mano al suo naturale «supplente»: l'attuale presidente del Senato, Renato Schifani.
Mentre tutto è caoticamente in movimento, Napolitano si limita a seguire a distanza gli approcci tra i partiti. «Nessun contatto e nessun consulto né formale nè informale», precisa il Colle, smentendo con fastidio quanto alcuni insistono a scrivere.
L'unico confronto che finora il presidente si è concesso è un faccia a faccia con Mario Monti, ieri, per parlare di «questioni di governo in vista del Consiglio Europeo del 14 marzo». A lui, come aveva anticipato la settimana scorsa in Germania, ha suggerito di consultarsi subito con le forze politiche (tutte, non solo quelle della «strana maggioranza» che lo ha sostenuto per 13 mesi), così da poter presentare a Bruxelles una posizione italiana coerente e affidabile. In grado insomma di dimostrare che il nostro «non è un Paese allo sbando».

Corriere 5.3.13
Governo di convergenza per allontanare il voto
La sfida decisiva sulla presidenza della Repubblica e il rischio rottura del vaso di Pandora
di Francesco Verderami


Il balletto sulla maggioranza di governo continuerà per settimane, ma già oggi è chiaro che la disputa non è più su Palazzo Chigi bensì sul Colle, considerato lo snodo decisivo per gli assetti futuri di potere, l'àncora a cui i partiti intendono aggrapparsi prima di tornare al voto.
È sulla presidenza della Repubblica che si gioca insomma la vera sfida, e il rischio è che la delicata trattativa possa trasformarsi in un regolamento di conti, provocando la rottura del vaso di Pandora. Perché il Quirinale — diventato negli ultimi anni un motore attivo nell'indirizzo politico — è l'ultimo punto di equilibrio in un sistema andato ormai a pezzi: se saltasse, il conflitto non avrebbe più quartiere.
E il rischio esiste, è maggiore dello stallo sulla formazione di una maggioranza di governo. D'altronde l'esito del voto ha decretato che palazzo Chigi non è più «scalabile» dai partiti della Seconda Repubblica, a cui toccherebbe al massimo un ruolo precario in un contesto già proiettato verso le elezioni successive: questo sarebbe il destino dell'idea di Bersani, che si propone di varare un gabinetto di minoranza tenuto in vita dall'appoggio esterno dei grillini.
Si vedrà se e in che modo Napolitano — vista l'intransigenza di M5S ad un accordo con il Pd — riuscirà a trovare una soluzione alternativa. Se proverà la carta di un esecutivo tecnico-politico, oppure se attingerà a quella che è diventata ormai la «terza Camera», cioè Bankitalia, per un governo di «convergenza istituzionale» che — almeno nominalmente — non prevederebbe una «alleanza» tra Pd e Pdl ma solo un «appoggio» a un gabinetto guidato da un esponente di Palazzo Koch. Da giorni si fanno i nomi del governatore Visco e del direttore generale Saccomanni, che il centrosinistra accreditava come possibile ministro dell'Economia in caso di vittoria.
Questo governo — proiettato sul medio termine — avrebbe il compito di rassicurare i mercati, lavorare al rilancio dell'economia e garantire ai partiti il tempo necessario per varare le riforme in Parlamento, compresa la legge elettorale. La prospettiva al momento appare indigesta al Pd ma anche al Pdl, stanco di «governi dei banchieri». La soluzione — semmai si concretizzasse — sarebbe di sicuro più potabile di un Monti-bis, verso cui sono contrari le due forze politiche. Perciò le manovre fatte ieri dal Professore non avrebbero effetti.
L'incontro al Quirinale e la lettera che Monti ha inviato a Bersani, Berlusconi e al «signor Grillo» sono di certo un tentativo di annodare i fili del dialogo sotto l'ombrello europeo, in vista del vertice di Bruxelles. Ma sono vissuti come «espedienti tattici» dal segretario dei Democratici e dal leader del centrodestra, che li interpretano come un tentativo del Professore di rientrare in gioco. E non a caso il capo di M5S si pone in contrapposizione ai due avversari, evocando il nome di Monti come possibile successore di se stesso a palazzo Chigi. Il suo fine è scoperto: disarticolare ulteriormente il sistema imperniato su Pd e Pdl, agli occhi di un'opinione pubblica che ha bocciato alle elezioni l'alleanza di centro.
In ogni caso, qualsiasi soluzione di governo «tecnico» si realizzasse, i partiti avrebbero un ruolo marginale. Ecco perché è sul Quirinale che sono concentrate le attenzioni. E il tentativo del Pd di far pressione sul Colle per anticipare l'elezione del nuovo capo dello Stato è la prova di quanto cruenta si appresta ad essere la sfida e dei rischi che il vaso di Pandora vada in frantumi. È vero che Napolitano ha ribadito di non essere in corsa per una sua ricandidatura, sottolineando peraltro che un presidente della Repubblica «non è a termine», ma è altrettanto vero che al momento non appare facile la convergenza bipartisan su un altro candidato.
Anzi, a palazzo Chigi come nel Pdl viene accreditata la tesi che «una parte del Pd» sta lavorando ad una «operazione di maggioranza» per il Colle sul nome di Prodi, da rendere manifesta a ridosso delle votazioni per il Quirinale. Non è dato sapere se anche Casini sarebbe della partita. Per un centro che — dopo la sconfitta elettorale — sarà chiamato a scegliere da che parte stare, potrebbero contare i buoni rapporti tra concittadini. I due bolognesi infatti hanno rapporti frequenti, e prima che Monti diventasse presidente del Consiglio, Prodi tenne una dotta lezione di economia al leader dell'Udc.
Numeri alla mano, per l'operazione potrebbero non servire i voti di Grillo, che peraltro — dopo esser stato corteggiato — ha fatto capire che potrebbe convergere «sul nome di Rodotà». Ma è Prodi che Berlusconi vede come fumo negli occhi, ecco perché il Pdl già grida al golpe. Il fondatore dell'Ulivo potrebbe essere l'àncora del centrosinistra, in attesa di tentare la rivincita nelle urne. È scontato infatti che — dinnanzi a una simile operazione — il centrodestra salirebbe sulle barricate, interpreterebbe l'eventuale elezione dell'ex premier come un «fattore divisivo» e chiuderebbe al dialogo su tutto, compresa la legge elettorale.
La missione a favore di Prodi però non incontra i favori di tutto il Pd, dov'è iniziata una durissima battaglia. Il 18 marzo dovrebbero iniziare le consultazioni al Quirinale per il governo, ma il vero D-day sarà il 15 aprile, quando inizieranno le votazioni per il Quirinale. Con un sistema a pezzi, con un Parlamento che è la somma di tante impotenze, un passo falso nella partita per il Colle provocherebbe la rottura del vaso di Pandora.

La Stampa 5.3.13
Richiesta di dimissioni
di Massimo Gramellini


«Primache degenerasse, il fascismo aveva una dimensione nazionale di comunità attinta a piene mani dal socialismo, un altissimo senso dello Stato e la tutela della famiglia». Questo Paese senza memoria digerisce ormai qualsiasi oltraggio alla sua storia, ma se un politico di spicco della Casta avesse pronunciato parole simili, dubito che l’avrebbe passata liscia. Nemmeno Berlusconi, per citare un caso limite, si era mai spinto a tanto. I più sarcastici gli avrebbero chiesto in quale giorno, ora e minuto esatto un movimento giunto al potere con la violenza e la sospensione delle libertà fondamentali era degenerato in qualcosa di peggio. I più sensibili sarebbero sobbalzati davanti alla superficialità urticante di certe affermazioni. In particolare la seconda, perché per dire che il fascismo dei gerarchi corrotti e della retorica patriottica ammannita al popolo come una droga aveva «un altissimo senso dello Stato» bisogna avere un altissimo tasso di malafede o, peggio, di ignoranza. E non oso immaginare la reazione di Grillo. Gli avrebbe urlato da tutti i computer: sei morto, sei finito, sei circondato, arrenditi topo di fogna.
Purtroppo il pensiero sopra riportato è opera di Roberta Lombardi, neocapogruppo alla Camera dei Cinquestelle, che lo ha scritto su un blog non più tardi di un mese fa. Conosco tante persone che hanno votato Grillo per dare uno scossone al Palazzo. Ma nella lista degli scossoni desiderati dagli elettori non credo rientrasse l’apologia di fascismo. Perciò sono sicuro che la signora Lombardi presenterà entro stasera le sue scuse, seguite dalle sue dimissioni.

La Stampa 5.3.13
“I fascisti non ci tolsero i diritti” È già polemica sulla portavoce
Accuse di apologia alla neo-capogruppo dei deputati per una sua frase sul blog
di Andrea Malaguti


Il black out. Il buco nero del web, l’oscuramento de La Cosa - internet tv del MoVimento 5 Stelle decisa a trasmettere secondo per secondo questa prima giornata di gloria - coincide casualmente con l’unico momento di democrazia reale, con i cittadini-eletti presenti in carne e ossa e per la prima volta connessi senza passare da Skype, nella sala conferenze dell’hotel Universo di Roma, Best Western quattro stelle infilato in uno stradino a due passi dalla stazione, dove il traffico va in tilt poco dopo le nove, quando è chiaro che il Guru genovese del depistaggio ha deciso di spostare qui, tra venditori cinesi, bancarelle, auto della polizia, vigili nevrotici e turisti sgomenti, il quartiere generale della sua nuova classe dirigente. È il caos. Fuori e dentro l’albergo. La diretta streaming balbetta, salta, sparisce, mentre i 163 prescelti individuano per alzata di mano i loro capogruppo temporanei (tre mesi e poi avanti il prossimo) alla Camera e al Senato. Sono la romana Roberta Lombardi, una trentanovenne che non ha mai nascosto le simpatie per il centrodestra, e l’assistente giudiziario bresciano Vito Crimi. Applausi. Complimenti. E ora, come dice ieraticamente euforico il cittadino Andrea Cioffi, «demoliamo il nostro ego per metterlo al servizio dell’Idea». L’Idea. Favoloso. Chi pensa a sé è fuori dal gioco.
Eppure, in questo lunedì un po’ «Tre Giorni del Condor» un po’ «Cena dei Cretini», in cui ogni cosa accade attorno al verbo «sembrare», è proprio sulla neomamma romana che si scatena la prima tempesta di piombo. A innescarla è la rete. La nemesi inevitabile. L’impalpabile pianeta virtuale è pronto a fare l’esame del sangue non solo alla casta, ma anche alla rivoluzionaria costola del proprio corpo fluido. Sui siti, a metà pomeriggio, comincia a moltiplicarsi come un virus un blog del 21 gennaio vergato dalla capogruppo alla Camera. Un ragionamento a proposito della controversa apertura di Beppe Grillo a Casa Pound.
Secondo la Lombardi, il centro sociale di ispirazione fascista, dei supposti valori del Ventennio avrebbe «solo la parte folcloristica, razzista e sprangaiola». Un bel modo per prendere le distanze. Da loro. Ma non dalla dittatura mussoliniana. «Prima che degenerasse, il fascismo aveva una dimensione nazionale di comunità attinta a piene mani dal socialismo, un altissimo senso dello Stato e la tutela della famiglia». Chiara. Inequivocabile. Con una sensibilità curiosamente berlusconiana. Un post completato con la risposta preventiva alle critiche. «Sono 30 anni che fascismo e comunismo non esistono più. Invocarne lo spettro a targhe alterne è l’ennesimo tentativo di distrazione di massa. Non sono i fascisti o i comunisti che ci hanno impoverito, tolto i diritti e precarizzato l’esistenza». Va bene. Ma allora perché l’assoluzione postuma?
Un danno di cui, adesso, qui, con i colleghi che le danno fiducia (37 voti su 109), la Lombardi, occhiali eleganti e giacca indossata sopra i jeans (come a voler sottolineare la sua doppia anima modernamente retrò) non percepisce la portata. Troppe le emozioni che si sono accavallate. Compreso, poco prima di pranzo, l’arrivo di Beppe Grillo, che nonostante un lutto famigliare, decide di aprire assieme a Gianroberto Casaleggio (l’unico impeccabilmente in cravatta) il primo non decisivo conclave Cinque Stelle. Nessuna indicazione politica (la linea nasce in altre stanze), ma la benedizione urbi et orbi per il viaggio. La Lombardi lo bacia e lo abbraccia, lui ricambia, poi si ferma con la venticinquenne Marta Grande. «Non ho mai visto i giornalisti così assatanati», le dice. E guida il corteo di amici-devoti-fedelicolleghi all’interno della sala conferenze. Spiega cose note («Nessuna alleanza») saluta e va. O almeno ci prova. Imboccando una porta secondaria. Nuovo depistaggio fallito. La calca lo travolge, i giornalisti lo pressano, si spingono, si insultano, mentre il disturbatore Paolini grida: «W Beppeeeeee, W l’Italia pulita». Tensione. Grida. E persino una turista americana che recita Wal Whitman: «Fermati con me, fermati questa notte, e tu capirai l’origine di tutte le poesie». L’auto del papa ligure si allontana. Calma. Dentro l’hotel gli eletti sfilano per presentarsi uno a uno. «Monica Casaletto, ho sempre fatto controinformazione e continuerò a farla». «Silvia Chimienti, 27 anni, laureata in filologia. Vorrei occuparmi di cultura e scuola». «Manlio Di Stefano, parlo tre lingue, studio la quarta e mi candido automaticamente alla commissione esteri». Automaticamente. Un’ora e mezzo di libro delle intenzioni generiche. Quindi la conferenza stampa e liberi tutti. Il cittadino avvocato Bonafede spiega che hasensazioni bellissime. «Gli italiani stiano sereni. Sia quelli che ci hanno votato sia quelli che non ci hanno votato. Vogliamo portare la buona politica in Parlamento».
La Lombardi affronta la notte apparentemente serena, un ragazzo urla impazzito: «Arriva la vedova neraaaa!!!! ». Lei non sente. L’ululato dei cani risponde dai cortili all’inferno dei clacson in mezzo alla strada. Omnia munda mundis. Tutto è puro per i puri.

Corriere 5.3.13
La mamma capogruppo contestata al debutto per l'elogio del fascismo
Lombardi: ho difeso la destra sociale
di Emanuele Buzzi


MILANO — Primo giorno da capogruppo alla Camera dei Cinque Stelle e prima polemica. Roberta Lombardi, romana, 39 anni, eletta (temporaneamente) con 37 voti a favore su 109 deputati, è già finita nell'occhio del ciclone. Lei, attivista dal 2007, mamma di un bimbo di tredici mesi, ha già suscitato clamore per alcune frasi scritte sul suo blog (robertalombardi.wordpress.com). «Da quello che conosco di CasaPound, del fascismo hanno conservato solo la parte folcloristica (se vogliamo dire così), razzista e sprangaiola — commenta in un post del 21 gennaio —. Che non comprende l'ideologia del fascismo, che prima che degenerasse aveva una dimensione nazionale di comunità attinta a piene mani dal socialismo, un altissimo senso dello stato e la tutela della famiglia». L'intervento — ripreso dalle agenzie dopo la notizia della nomina — ha dato il via alle reazioni del web e della politica.
«Il primo fascismo aveva un altissimo senso delle sprangate e delle bastonate», le ricorda il parlamentare pd Emanuele Fiano. Lombardi si difende: «Sono polemiche strumentali. Il mio era un riferimento storico non certo al fascismo delle leggi razziali e della dittatura che tutti aborriamo, ma al periodo della destra sociale, della scuola per tutti, della sanità per tutti». E poi contrattacca: «Non si può iniziare questo gioco ad estrapolare frasi».
È contenta della nomina «pro-tempore»: «Sì, è stato un bell'attestato di stima da parte dei colleghi. Farò la parlamentare solo per amore di mio figlio e delle future generazioni, per evitare lo sfacelo». La neo-capogruppo vanta una laurea in Giurisprudenza con tesi in diritto commerciale internazionale conseguita alla Sapienza di Roma e un corso post laurea in Sviluppo manageriale frequentato presso la Luiss Management. Lavora da quando aveva 19 anni, parla «correntemente l'inglese», è una «smanettona» al computer. Ora è impegnata «da poco più di 9 anni in un'azienda italiana, anzi romana, che fa arredamento d'interni chiavi in mano per clienti Top Spender (emiri, miliardari vari, oligarchi russi etc etc) in tutto il mondo». «Mi occupo del commerciale — racconta —. Ed è stupefacente vedere quanto siano apprezzati all'estero i nostri prodotti italiani: vedendo la stima che hanno di noi, ti chiedi cosa non funzioni in questo Paese».
La scintilla con i Cinque Stelle è scoccata, come dichiara sul suo sito, «il 30 gennaio 2007 quando, a casa a riposo forzato, causa orecchioni, mi misi ad esplorare con attenzione il blog di Grillo che di solito leggevo velocemente la mattina prima di mettermi a lavorare». Da allora, un percorso in crescendo, passando fin da subito per la forca caudina delle elezioni. Nel 2008 è stata candidata per il Campidoglio con la lista civica Amici di Beppe Grillo, ottenendo 191 preferenze.
Ieri, le prime dichiarazioni da capogruppo Cinque Stelle alla Camera: «Alcuni strumenti, come l'assenza di vincolo di mandato o i rimborsi elettorali, che nascono come garanzia per tutelare la libertà sono diventati strumenti perversi», ha detto. E ha spiegato: «Le prime cose da fare secondo me sono la legge sul conflitto d'interessi, quella sulla corruzione e una nuova legge elettorale. Inoltre bisogna abolire il finanziamento pubblico ai partiti e ai giornali». E su Twitter tuona: «É partito l'assalto mediatico: Prima c'erano solo Beppe Grillo e Casaleggio da distruggere, ora hanno me e Vito Crimi. Venghino signori...».

l’Unità 5.3,13
Casaleggio, il manager-guru con il buco di bilancio intorno
Cadute e ascesa dell’uomo che si è arricchito col Web ma soprattutto con la politica (da Di Pietro a Grillo) in attesa della «terza guerra mondiale» del 2040
di Roberto Rossi


Per capire chi davvero è Gianroberto Casaleggio, nato a Milano 59 anni fa, il perito informatico che con Beppe Grillo ha dato vita al Movimento 5 Stelle, si deve fare come il gambero: andare lentamente a ritroso. E seguire l’unica traccia visibile: il business.
L’abbrivio per questo percorso lo fornisce uno dei punti delle “tavole della legge”, il manuale di comportamento che gli aspiranti candidati grillini hanno sottoscritto prima di sbarcare a Roma. Uno dei punti tratta di comunicazione politica. Si legge: «...la concreta destinazione delle risorse del gruppo parlamentare (andrà, ndr) a una struttura di comunicazione a supporto delle attività di Camera e Senato su designazione di Beppe Grillo...». Secondo il manuale, dunque, la comunicazione dei 5 Stelle sarà affidata a una società esterna. Che avrà fra le mani circa sedici milioni di euro l’anno, 80 in tutta la legislatura, per due terzi provenienti dalla Camera visto che il Movimento 5 Stelle ha circa 100 parlamentari.
Chi gestirà tutto questo denaro? Ieri il capogruppo al Senato dei 5 Stelle, Vito Crimi, ha fatto sapere che solo metà di quei soldi sarà impiegata ma che la decisione spetterà sempre a Grillo. Il quale difficilmente proporrà una gara d’appalto. Anche perché da molti anni questo è il core business proprio di Casaleggio, come ha documentato Antonio Amorosi, che ha pubblicato per Affaritaliani.it, una video inchiesta ben riuscita. Tra l’altro non tutti sanno che Casaleggio ha gestito per tre anni, a partire dal 2006, anche la comunicazione in Rete per l’Italia dei Valori. Con risultati confortanti in termini di visibilità per Antonio Di Pietro, ma meno per il bilancio del partito arrivato a spendere per la comunicazione Internet oltre mezzo milione di euro (nel 2008).
Ma l’Idv è stato solo un diversivo, un passatempo. Il vero cavallo vincente è Beppe e il suo Movimento al quale Casaleggio applica un sistema di strategia comunicativa. Quale? Quello che aveva sperimentato con la sua prima creatura: la Webegg. Qui occorre fare un salto all’indietro fino al 2000. Sono gli anni del boom Internet e il manager-guru è amministratore delegato proprio della Webegg, società che fa capo alla Olivetti (e nel 2002 passerà sotto Telecom). Che fa? Si tratta di un gruppo multidisciplinare per la consulenza delle aziende e della pubblica amministrazione in Rete, efficienza aziendale, Internet, capacità di penetrazione dei prodotti sul mercato attraverso il web marketing e, per le pubbliche amministrazioni, sistemi di efficienza mirati all’e-governance. In sostanza applica software e modelli di business americani a società italiane.
Come vanno gli affari? Male. Nel 2001 la società chiude con un passivo di 1,5 milioni, nel 2002 sale a 15. Casaleggio sarebbe stato un manager perfetto per gli sberleffi di Grillo. Tant’è. La sua società è, però, piena di giovani. Anche senza esperienza, ma caricati di responsabilità. All’interno delle tre sedi di Milano, Torino e Bologna fa costruire una stanza a forma di uovo per dare una sensazione futurista. Organizza viaggi, tutti gratuiti, convention, e stila una lista di comandamenti aziendali. I principi sono molto simili a quelli del Movimento grillino: assenza di competitività interna (uno vale uno), responsabilità sul risultato (che ricorda le “semestrali” a cui sono sottoposti i consiglieri Movimento 5 Stelle che ogni sei mesi devono avere la conferma dei cittadini), il divertimento come forma creativa (il movimento è affidato a un comico). Il punto più importante è però l’ottavo: l’invenzione continua del business.
Casaleggio e Telecom divorziano. Lui, insieme ad altri 4 dipendenti dell’azienda della galassia del colosso telefonico (Enrico Sassoon, Luca Eleuteri, il figlio Davide Casaleggio e Mario Bucchich), fondano nel 2004 la Casaleggio & Associati.
Da allora diventa un personaggio pubblico suo malgrado. Fonda il blog di Beppe Grillo, organizza i Meetup (gli incontri) dei 5 Stelle. Spiega ancora Amorosi: «Il Movimento non è spontaneo, dal basso, ma è creato dalla strategia di Casaleggio. Ad esempio anche il Meetup numero 1, la piattaforma di aggregazione del Movimento nella città di Milano, nasce il 10 giugno 2005 da un ex dipendente Webegg Maurizio Benzi, poi assunto da Casaleggio, un mese prima che Grillo stesso proponga ai suoi fan, il 16 luglio 2005, di usare i Meetup come piattaforma di aggregazione». Oggi Benzi è alla Camera.
Quindi, Casaleggio applica un modello di business sperimentato alla politica. E individua una nuova figura di venditore propagandista: l’influencer. Si sa che nella Rete il 90 per cento dei contenuti è creato dal 10 per cento degli utenti, gli influencer appunto. «L’influencer scrive Casaleggio nel 2004 è un asset aziendale, senza l’influencer non si può vendere, c’è una statistica molto interessante per le cosiddette mamme online, il 96% di tutte le mamme online che effettuano un acquisto negli Stati Uniti, è influenzato dalle opinioni di altre mamme online che sono le mamme online influencer». In politica è lo stesso. I cittadini si aggregano su piattaforme già pianificate e regolate ma, soprattutto, imposte e controllate dall’alto. Consapevolmente o meno diventano influencer anche loro.
Ma per fare business in Rete si deve dare alla stessa anche una dimensione culturale. La Rete viene investita di un compito messianico. Casaleggio allora ipotizza, per il 2040, un nuovo ordine mondiale dominato dalla Rete e scaturito, però, da una sanguinosa guerra mondiale (nel 2020) tra un Ovest con libero accesso a Internet e un Est senza libertà di navigazione (capeggiato dalla Cina). Poco resterà in piedi dei simboli del passato, ma tutti avremo una nuova identità su Google. Nel 2054, infine, ci sarà la prima votazione mondiale on line.
Ma per quella data Casaleggio non ci sarà. E fino ad allora si deve pur vivere. Magari ripianando il buco che la Casaleggio & Associati ha registrato nel 2011, ultimo bilancio disponibile (-57mila euro). Si inizia con i soldi, pubblici, del Movimento 5 Stelle. Per fare business ci si butta in politica.

l’Unità 5.3,13
Primi contrasti tra il guru, il comico e la Costituzione
di Vittorio Emiliani


BEPPE GRILLO E GIANROBERTO CASALEGGIO SOSTENGONO CHE LA LORO DEMOCRAZIA DIRETTA VIA WEB È L’UNICA VERA DEMOCRAZIA. Per questo il primo passaggio stretto in cui si sono imbattuti, e in qualche modo incastrati, è l’articolo 67 della Costituzione che, giustamente, in una democrazia invece rappresentativa, prevede: «Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato». Per ovviarvi stanno cercando di cucire addosso agli eletti del Movimento Cinquestelle una sorta di camicia di forza in 18 punti «disciplinari». Per cui chiunque eventual-
mente dissenta, diventa traditore e voltagabbana. All’Assemblea Costituente il dibattito su questa materia risultò, a differenza di altri casi, brevissimo. Si propendeva a credere che quei concetti fossero già impliciti e che una norma scritta non fosse quindi necessaria. In commissione lo stesso Umberto Terracini il vero e lucido regista tecnico dei lavori per il Partito Comunista Italiano osservò che la disposizione sarebbe stata più attuale ai tempi del collegio uninominale pre-fascista, quando uno stretto legame saldava il notabile locale al proprio elettorato di collegio. O quando l’eletto sentiva di rappresentare la classe sociale da cui proveniva.
Ma il costituente liberale Aldo Bozzi argomentò efficacemente che l’eventuale silenzio della Carta costituzionale in materia di mandato e di rappresentanza poteva avere un significato ambiguo, di sostanziale sottovalutazione. A quel punto tutti riconobbero la validità di mettere la norma per iscritto. I costituenti furono infatti unanimi nel votare la prima parte dell’articolo 67, e cioè: «Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione» (la Nazione, non Grillo o Casaleggio e i loro 18 punti vincolanti di comportamento, palesemente incostituzionali). Per la seconda parte («senza vincoli di mandato») qualcuno, isolatamente, obiettò che i deputati hanno già come mandato di sostenere «un programma, un orientamento politico particolare» (Ruggero Grieco).
L’argomentazione tuttavia non convinse. Alla fine, tutti i costituenti scelsero di convergere sul testo che tanto spiace a Grillo e a Casaleggio: l’eletto «rappresenta la Nazione» (non è quindi un cittadino qualunque come vorrebbero certi neo-parlamentari del M5s) «ed esercita le sue funzioni senza vincoli di mandato». A garanzia dell’intero Paese e della propria autonomia, di un possibile, onesto dissenso rispetto a chi magari ne vorrebbe fare un «signorsì», allineato sempre e comunque alle direttive «superiori».
È il primo scontro fra la strana democrazia diretta del M5S (o della rete), senza organismi di garanzia, e la democrazia rappresentativa della Costituzione (la quale pure prevede strumenti certi di partecipazione), e non sarà certo l’ultimo. Siamo soltanto all’inizio.

l’Unità 5.3.13
«La mia Italia senza bussola Non la salverà un comico»
Parla il grande scrittore balcanico per anni esule nel nostro Paese: «Attenti ai populisti che vedono nell’Europa il male e non la soluzione»
di Predrag Matvejevic


«Alcune settimane prima del voto sono tornato in Italia, un Paese che ho imparato ad amare negli anni dell’inferno nella ex Jugoslavia, la martoriata terra da cui provenivo. L’immagine che in quei giorni ho avuto del Paese, era di una Italia sospesa, senza bussola, impaurita dal presente e in cerca di una speranza per il futuro. Questa Italia non può essere salvata da un comico innalzato a leader politico». L’Italia investita dallo «tsunami Grillo» vista attraverso la sensibilità culturale e la lucidità intellettuale di Predrag Matvejevic, scrittore, saggista, docente universitario i cui libri sono tradotti in tutto il mondo. Il suo percorso culturale e umano (nato a Mostar, da madre croata e padre russo) è quello di un intellettuale che ha cercato nel cuore dell’«inferno balcanico» di costruire «ponti» di dialogo tra identità, etniche e religiose, diverse e spesso violentemente contrapposte. «L’Italia dice a l’Unità Matvejevic non può pensare di potere uscire dalla crisi che non è solo economica o politica, ma anche etica, valoriale da sola. Certo, l’Europa che si riavvicina ai suoi popoli, che si fa amare, non può essere l’Europa degli speculatori finanziari, un’Europa che non sa parlare né al cuore né alla mente delle persone. L’Europa dell’iper austerità alimenta solo il malessere sociale, ma l’Europa in quanto tale non è il problema, è semmai una soluzione. Che va costruita assieme, il più forte con il più debole, perché nessuno, da solo, ha un futuro». Di una cosa il grande scrittore si dice certo: «L’Italia non potrà essere salvata da un comico».
Professor Matvejevic, iniziamo dal suo rapporto con l’Italia...
«Ho trascorso quattordici anni in Italia, fra asilo ed esilio. E come tanti intellettuali dissidenti dell’Est Europa, mi ha pesato essere “fra”. Ma in Italia ho trovato una straordinaria accoglienza in quegli anni terribili in cui a pochi chilometri dalle vostre frontiere a Est, un Paese, la Jugoslavia si frantumava tra odio, pulizia etnica, fosse comuni... Questa Italia, dove per anni ho insegnato alla Sapienza di Roma, mi è rimasta nel cuore. Ed è con questo sentimento che anche oggi che non vivo più in quello che considero ancora il “mio” Paese, mi accosto alle vicende italiane. con un misto di speranza e di apprensione». Quando è stato per l’ultima volta nel nostro Paese e che impressione ne ha ricavato?
«Sono tornato in Italia in piena campagna elettorale, per un ciclo di conferenze e per incontrare amici di una vita. Ho visto un’Italia che facevo fatica a riconoscere. Un Paese piegato su se stesso, senza bussola. Quello che riusciva a trasmettermi è un senso di angoscia, di sospensione. Non è stato così nel passato. Penso agli anni difficili del dopoguerra, quelli che imparai a conoscere soprattutto grazie alla straordinaria stagione del neorealismo nel cinema. Allora c’era una classe dirigente che seppe portare su di sé il fardello della ricostruzione, una classe dirigente che seppur da fronti opposti si faceva carico del destino del Paese. Oggi non è più così. Ciò che più mi ha colpito è stato l’incontro con diversi miei studenti alla Sapienza. Quasi tutti erano alla ricerca di un lavoro. Ecco, il lavoro. La prima tra le emergenze. In quei giovani c’era tanto dolore, rabbia, e allora mi sono detto che chi avrebbe intercettato quel malessere sarebbe uscito vincitore dalle urne...».
E quel vincitore è stato Beppe Grillo.
«Avevo una simpatia per il comico, ma non per il politico. Da politico il suo “vestito” naturale, il suo abito mentale, è quello dell’oppositore, di chi è bravissimo a distruggere come è incapace a costruire. Grillo ha saputo mettere all’indice i vizi e le malefatte della vecchia politica, ma non è nelle sue corde avanzare progetti. Chi ambisce a guidare un Paese non può limitarsi alla denuncia, deve avere anche il coraggio e l’onestà intellettuale di prospettare soluzioni, “sporcarsi le mani”, dire con chi intende governare. L’Italia non può essere salvata da un comico incapace di trasformarsi in uno statista. E invece proprio di uno statista che l’Italia avrebbe bisogno: uno statista che, è bene sottolinearlo, non ha nulla a che vedere con l’”uomo della provvidenza”».
Lei ha insegnato anche alla Sorbona...
«Ecco, la Francia dovrebbe servire da esempio. E non mi riferisco alla Francia che pure ha cercato di porre fine al ciclo conservatore votando Francois Hollande. Penso anzitutto alla Francia che nei momenti di maggiori difficoltà seppe anteporre l’interesse nazionale a quelli di parte. È la Francia dei “comitati di salute pubblica”. L’Italia dovrebbe trarne insegnamenti...».
Grillo ha intercettato anche un sentimento di diffidenza, se non di aperta ostilità, verso l’Europa.
«Ed è un fatto inquietante. Perché con tutti i suoi limiti e le sue contraddizioni, l’Europa non è il “problema” ma può essere la “soluzione”. C’è bisogno di più Europa ma anche di un’altra Europa. L’Europa che sappia riconquistare le sue genti, che metta al primo posto il lavoro, l’istruzione, un futuro per i giovani. Una Europa solidale, sociale, che costruisce ponti di dialogo e infrange i “muri” di odio e di diffidenza. Guai a sacrificare l’ideale europeista sull’altare di nuovi populismi nazionalisti. Ho ancora su di me, nel mio cuore, nella mente, le ferite delle guerre nella ex Jugoslavia. So che significa additare l’altro da sé come il Nemico mortale, usare la fede religiosa come arma ideologica, l’appartenenza etnica come l’assoluto identitario. L’Italia non deve cadere in questa trappola, sarebbe una trappola mortale. Spero molto nella saggezza di un grande europeista italiano: Giorgio Napolitano».
Grillo ha rilanciato l’idea di un referendum «via internet» sull’uscita dall’Euro. «L’Europa non può essere solo una moneta unica, deve essere molto di più. Una visione, una politica. Una speranza. Ma il comico che sa distruggere non è anche un grande costruttore».

il Fatto 5.3.13
La versione di Casaleggio
Dizionario del guru di 5Stelle: dal supercapitalismo alla rete e ai sogni
di Andrea Scanzi


Gianroberto Casaleggio è l’uomo più inseguito d’Italia. Per alcuni un “cazzaro di talento”, per altri “un dittatore efferato”. I capelli di Patti Smith, il viso di Yoko Ono, l’allegrezza del tizio che ricordava a Troisi che tutti dobbiamo morire. I suoi video apocalittici – Gaia, Prometeus – rimbalzano da anni in Rete. Di recente, con Beppe Grillo e Dario Fo, ha firmato Il Grillo canta sempre al tramonto, pubblicato da Chiarelettere e fonte decisiva di questo bignami.
Io sono io. “Dietro Gianroberto Casaleggio c’è solo Gianroberto Casaleggio. Un comune cittadino che con il suo lavoro e i suoi (pochi) mezzi cerca, senza alcun contributo pubblico o privato, forse illudendosi, talvolta forse anche sbagliando, di migliorare la società in cui vive”.
Allegria portami via. “Nel 2018 il mondo sarà diviso in due blocchi: a ovest con Internet e a Est con una dittatura orwelliana. Nel 2020 ci sarà la Terza Guerra Mondiale (durerà vent’anni). Nel 2040 trionferà la rete democratica (Internet) ”.
Brain trust. “Nel 2050 un brain trust collettivo risolverà ogni problema mentre nel 2054 ci saranno le prime elezioni mondiali in Rete. Spariranno religioni, partiti e governi nazionali”.
Noi guardiamo. “Se un governo verrà messo assieme, il M5S voterà per tutto ciò che è parte integrante del suo programma. Sarà il presidente della Repubblica che deciderà a chi affidare il mandato. Noi non vogliamo entrare in questo processo".
Look. “I miei capelli? Rappresentano il caos primordiale” (questa è inventata, ma verosimile).
In croce. “I ragazzi eletti possono essere controllati sulla rete ogni giorno. E se qualcosa non funziona perché va contro le linee del MoVimento vengono messi sotto osservazione e, nel caso, in croce”. Volgarità. “Noi applichiamo la corruzione sarcastica delle parole alla politica incrociando volutamente campi espressivi diversi. In questo modo ci facciamo capire meglio”.
No-leader. “Leader per il M5S è una parola del passato, una parola sporca, deviata”.
Disorganizzazione organizzata. “L’organizzazione del disordine è molto importante. La creatività spontanea dei ragazzi va combinata con un’organizzazione curata nel dettaglio”.
Parlamentarie. “Il voto è stato libero, le persone che si sono candidate erano cittadini normali, io e Grillo ne conoscevamo cinque o sei su 1400”.
Epurazioni. “L’unica cosa che ha fatto Beppe è negare l’utilizzo del simbolo a chi andava contro le regole. (..) Il Pd ha espulso decine di suoi rappresentanti nel più assoluto silenzio dei media”.
Tivù. “Se vengono a intervistarti sulla tua attività di sindaco a Parma è giusto che tu faccia l’intervista. Anzi, è positivo. Diverso è un talk show dove si discute del nulla. ”
Grillo (non) è Gesù. “Al Guardian citavo il messaggio evangelico e la sua diffusione attraverso gli apostoli, la sua viralità, simile a quella possibile attraverso la rete. Nella traduzione è stato riportato che per me Grillo era come Gesù”.
Supercapitalismo. “È la remunerazione selvaggia che sta mandando tutto a puttane, il supercapitalismo. (..) Il capitale vince sulla democrazia che sembra essere solo un intralcio”.
Verità. “Su Internet non trovi la verità, ma una forte approssimazione della verità”.
Portavoce. “Il MoVimento non deve avere un leader che presuppone un’idea di potere fine a se stesso. Le idee del MoVimento sono in costante evoluzione, noi siamo i portavoce di un movimento che si sta formando. (...) Noi vorremmo che i partiti scomparissero radicalmente. ”
Nell’immediato. “Quello che vogliamo fare è dare la possibilità alle piccole e medie imprese di svilupparsi, diminuire l’inefficienza dello Stato, ridurre gradualmente il peso fiscale attraverso il taglio delle spese inutili per le quali c’è solo l’imbarazzo della scelta”.
I cambiamentidel M5S. “Trasparenza, informazione, collegamento con i cittadini. ”
Cappelli. “Non è importante mettere il cappello su una proposta, importante è l’obiettivo”.
Giustizia. “Noi oggi abbiamo la certezza che non c’è nessuna pena. Vuoi chiamare ‘pena’ i domiciliari per uno stupro? Non è una pena, è una presa per i fondelli! ”
Paura. “Il MoVimento fa paura perché è un forte agente di cambiamento (..) La rete elimina l’intermediazione”.
Orti e alveari. “Si può adottare a distanza persino un alveare, controllandolo attraverso una webcam. (..) Vedere ciò che si mangia e comprare i prodotti direttamente da chi li coltiva è un’altra rivoluzione. Lo stesso sta avvenendo per gli orti”.
La Rete ci salverà. “Matteo Dall’Osso (è) un ragazzo avvelenato dai metalli pesanti che si era rivolto più volte ai medici senza risultati. Disperato, ha cercato in rete. Alla fine ha trovato da solo la cura ed è guarito. Viveva su una sedia a rotelle e ora ha pubblicato in rete un filmato che lo ritrae mentre si getta con il paracadute”.
Beati gli irochesi. “La vita non è lavorare 40 ore alla settimana in un ufficio per 45 anni. Stavano meglio gli irochesi e i boscimani che dovevano lavorare un’ora al giorno per nutrirsi. ”
Credeteci. “Quello che va detto agli italiani è che riformare la politica si può fare”.
Il sogno. “Il sogno è che la democrazia diretta si affermi e che il M5S, raggiunti i suoi obiettivi, non abbia più ragione di essere.. (..) Noi non vogliamo sostituirci alle decisioni dei cittadini. Vogliamo che i cittadini decidano”.

Corriere 5.3.13
Il timore del capo: perdere i pezzi alla prova dell'Aula
Il successo imprevisto e le pressioni rischiano di dividere la squadra: «Il 15% di voi potrebbe tradirmi»
di Alessandro Trocino


ROMA — Davanti ai suoi parlamentari appare più mogio del solito, per comprensibili ragioni familiari. «È teso anche perché sente molto la responsabilità del momento», dice uno degli intervenuti. Ma sono molto le ragioni che mettono a dura prova l'abituale verve di Beppe Grillo. Il difficile momento politico, un successo imprevisto che rischia di rendere incontrollabile il movimento e una compattezza tutta da costruire per uno dei gruppi più eterogenei mai visti in Parlamento. Lo dice lo stesso Grillo ad alcuni dei suoi parlamentari: «Almeno il 15 per cento di voi potrebbe tradirmi, l'ho già messo nel conto».
Timori più che giustificati, visto che la pressione, anche degli stessi elettori del Movimento a 5 Stelle, chiama a un'assunzione di responsabilità che Grillo e Casaleggio vogliono assolutamente rimandare. La strategia prevede il lento logoramento del Pd. Il tentativo iniziale era quello di farlo cadere nell'imbuto di alleanze sgradite al suo elettorato, per poi lucrare consenso elettorale. Strategia che sarebbe stata più efficace se il movimento non fosse stato travolto da una valanga di voti, rendendolo sostanzialmente indispensabile a un qualunque governo. Dalla segreteria del Pd negano con veemenza qualunque «inciucio»: «Mai e poi mai ci sarà un accordo con il Pdl, Grillo se lo metta bene in testa: la responsabilità di dire no se l'assume lui di fronte al Paese».
Per questo, i grillini hanno cambiato tattica in corsa. Ieri hanno puntato a rendere ininfluente Bersani e il suo Pd, escludendo dal novero delle ipotesi un «governo dei partiti». E condendo il tutto con un'apertura, tutta da verificare, al «governo tecnico», fatta dal nuovo capogruppo del Senato Vito Crimi. Proprio ieri Claudio Messora, blogger vicino al Movimento, ha suggerito il nome di Stefano Rodotà come premier. Ma Crimi va oltre e si spinge fino a non escludere un Monti bis: «Valuteremo». Chiaramente una boutade, visto che il Movimento nasce in radicale alternativa a Monti, non solo al «governo dei partiti». False aperture che, secondo molti, hanno lo scopo di attirare i partiti nella trappola del logoramento.
Se il capo dello Stato desse comunque un incarico, di fronte a un no ufficiale dei leader, i parlamentari a 5 Stelle si potrebbero spaccare. È l'ossessione di Grillo di questi giorni. Che non basti «la demolizione dell'ego», come la definisce un «cittadino» parlamentare. Non a caso, l'altro giorno Grillo ha messo sotto accusa l'articolo 67 della Costituzione, quello sul vincolo di mandato, considerato il padre di ogni trasformismo: chi tradisce deve essere «perseguito penalmente e cacciato a calci». E non è un caso che pochi giorni fa lo stesso Grillo abbia accusato preventivamente i Democratici di «mercato delle vacche»: «Sono volgari adescatori».
Tutti i neoparlamentari giurano che non accadrà, che nessuno tradirà il mandato popolare. Ma il popolo grillino è diviso e nessuno sa cosa può accadere nella testa e nel cuore dei 163 parlamentari, quasi tutti personalmente sconosciuti a Grillo e Casaleggio. Ma anche il pacchetto proposto dal Pd non soddisfa. Per l'avvocato Mario Giarrusso si tratta di «otto punti scarsi, se non provocatori».
Se la compattezza dei parlamentari è una delle preoccupazioni maggiori per Grillo, l'altra riguarda l'appeal nei confronti degli elettori. Presto si tornerà a votare e il M5S rischia di dilapidare il suo patrimonio di credibilità. Per questo Grillo, di fronte alla rincorsa del Pd sui suoi temi, vuole alzare l'asticella. E ieri diceva ai parlamentari: «Non bastano i 2.500 euro che vi siete tagliati dall'indennità, dovrete rinunciare anche a una parte di rimborsi e diaria». Che fanno comunque schizzare lo «stipendio» dei neoparlamentari a oltre 11 mila euro.
Quanto all'immagine, ci penserà Gianroberto Casaleggio a comunicare. Anche se in assemblea ha spiegato: «Io non prenderò un euro, sia chiaro. Ho già querelato otto giornalisti che lo hanno scritto. Aiuterò gratis nella start up e creerò uno staff che sarà a disposizione dei capigruppo. Poi mi farò da parte».

Corriere 5.3.13
Anatomia del populismo
Nascita, evoluzione destino
risponde Sergio Romano


Lei ha definito recentemente il populismo un pericolo per la democrazia nazionale. È dunque populista l'esigenza dei cittadini di vedere una politica nuova al di là degli steccati e magari privata dei suoi troppi privilegi? È populista il dramma delle famiglie strette dalla crisi e desiderose di sperare in qualcosa per il futuro? Forse l'Italia populista dovrebbe essere considerata un guadagno per la democrazia e non una perdita, e le ultime elezioni politiche hanno chiarito il giusto significato di questa parola molto bistrattata.
PierAngelo Scurati

Caro Scurati,
La parola populismo viene spesso usata con significati diversi. Una buona definizione è quella di Ludovico Incisa nel Dizionario di politica diretto da Norberto Bobbio, Nicola Matteucci, Gianfranco Pasquino (ora edito dalla Tea): «Possono essere considerate populiste quelle formule politiche per le quali fonte precipua d'ispirazione e termine costante di riferimento è il popolo, considerato come aggregato sociale omogeneo e come depositario esclusivo di valori positivi, specifici e permanenti». Ma il popolo, malauguratamente, non è omogeneo e non è necessariamente «depositario esclusivo di valori positivi». Più recentemente, nel corso di un convegno organizzato da Osservatorio sul mondo, Riccardo Perissich ha proposto una definizione efficace dicendo che il populismo presenta almeno tre caratteristiche. Rifiuta la mediazione della classe politica. Crede che tutti i problemi siano di facile soluzione. Ha un leader che parla alla pancia della gente piuttosto che ai cervelli.
Questo non significa che all'origine dei voti raccolti dal Movimento di Beppe Grillo manchino reali motivi d'insoddisfazione. Significa tuttavia che i movimenti populisti, soprattutto nella fase iniziale del loro successo, non hanno un concreto e realizzabile programma politico. Vogliono cacciare la classe politica dalle loro poltrone, ma non diranno mai con quali mezzi e strumenti sia possibile appianare il debito pubblico e rilanciare la crescita. Possono essere utili nella fase della moralizzazione e delle riforme istituzionali. Sono molto meno utili quando occorre affrontare quotidianamente i molti problemi difficilmente prevedibili della politica nazionale e internazionale.
Nel loro futuro vi sono generalmente due prospettive. Possono dissolversi gradualmente, soprattutto se la classe politica tradizionale è capace di correggere i propri errori e riprendere il controllo della situazione. Possono diventare movimenti autoritari retti da un leader carismatico che si considera interprete della volontà popolare e impone le proprie strategie. La vecchia classe politica, a sua volta, ha di fronte a sé due strade. Può cercarle di blandirli, corteggiarli, invitarli alla mensa del potere: è la vecchia formula trasformista che sembra circolare come il sangue nel corpo politico della nazione, ed è quella che sembrava maggiormente piacere, negli scorsi giorni, al leader del Partito democratico. Oppure può rilanciare se stessa con un programma in cui si tenga conto dei motivi che sono all'origine dell'ondata populista. Ai parlamentari eletti con il Movimento di Beppe Grillo verrebbe riservato un ruolo importante: quello di pungolare e criticare il governo. L'opposizione, per chi non ha ancora una esperienza politica, è un'ottima scuola. Molti impareranno a discutere, negoziare, scrivere risoluzioni, proporre leggi. E contribuiranno al rinnovo della classe politica.

Repubblica 5.3.13
Il vento anti-sistema
di Ian Buruma


Avendo dimostrato di non avere alcuna fiducia nella classe politica, l’Italia potrebbe diventare ingovernabile.
Gli italiani però non sono soli: la rabbia contro l’establishment politico infatti è diventata ormai un fenomeno globale. I blogger cinesi, gli attivisti del Tea Party negli Usa, gli eurofobi britannici, gli islamisti egiziani, i populisti olandesi, i sostenitori dell’estrema destra in Grecia e le “camicie rosse” tailandesi sono tutti accomunati dall’odio per lo status quo e il disprezzo per le élite dei loro rispettivi Paesi. Viviamo in un’epoca di populismo. L’autorità dei politici convenzionali e dei mezzi di comunicazione tradizionali si sta erodendo rapidamente.
Quando i partiti politici si sclerotizzano, i mezzi di comunicazione divengono troppo compiacenti (o troppo vicini al potere) e le burocrazie si dimostrano indifferenti alle esigenze della popolazione, il populismo può rappresentare una correzione necessaria. In un mondo globalizzato, gestito da banchieri e tecnocrati, molti hanno l’impressione di non avere alcuna voce in capitolo nell’ambito degli affari pubblici; si sentono abbandonati.
I nostri politici, sempre più incapaci di far fronte a delle gravi crisi, sono sospettati, e spesso a ragione, di curarsi esclusivamente dei propri interessi. L’unica cosa che possiamo fare è di cacciare i farabutti a colpi di voto, preferendogli in alcuni casi dei candidati che in circostanze più normali non saremmo disposti a prendere seriamente in considerazione.
Le élite italiane non sono le sole ad aver bisogno di uno scossone. Raramente però il populismo è un fenomeno benigno: negli anni Trenta, ad esempio, sfociò in movimenti violenti, guidati da uomini pericolosi in uniforme. I populisti di oggi sono diversi, e di norma non promuovono la violenza: alcuni di loro sostengono che i musulmani stiano distruggendo la civilizzazione occidentale; altri ritengono che il presidente Obama sia una sorta di comunista, votato alla distruzione dell’America.
Tra i populisti dei nostri giorni spiccano tuttavia due tipologie: i magnati super-ricchi e i clown. Nel mondo dei media anglosassoni Rupert Murdoch, proprietario di un numero eccessivo di testate giornalistiche, stazioni televisive e studi cinematografici, è un tipico magnate populista. Ma non ha mai aspirato a guidare una nazione. A differenza di Silvio Berlusconi e dell’ex primo ministro tailandese, Thaksin Shinawatra, che ancora vorrebbero poterlo fare.
Né i comici né i magnati sono adatti a diventare dei leader democratici. Si tratterebbe semmai di stabilire chi tra loro rappresenterebbe il male minore.
I pagliacci hanno sempre giocato un ruolo nelle questioni politiche: nel Medioevo i buffoni di corte erano spesso gli unici a poter dire la verità ai sovrani dispotici. E oggi molte volte sono i comici che affermano di dire la verità a chi è al potere e al pubblico.
Negli Stati Uniti i liberali ascoltano i commenti politici di comici televisivi quali Jon Stewart e Stephen Colbert, considerati oggi più affidabili dei tradizionali commentatori televisivi, mentre i ridicoli presentatori dei talk show radiofonici di destra esercitano su molti elettori conservatori un’influenza maggiore rispetto ai più sobri giornalisti della stampa tradizionale.
Qualche anno fa in Messico il più popolare commentatore politico televisivo era un comico di nome Brozo, che con il suo grande naso rosso e una parrucca color verde squillante era corteggiatissimo da chiunque fosse in lizza per una carica pubblica. Nel 1980 il clown francese Coluche si ritirò dalla campagna presidenziale quando un giornale annunciò che il suo sostegno popolare era del 16 per cento: aveva paura di influenzare eccessivamente gli esiti del voto.
Il prototipo del populismo europeo moderno era un appariscente uomo di spettacolo olandese di nome Pim Fortuyn, assassinato nel 2002 da un fanatico. La sua originalità era deliberatamente provocatoria e immancabilmente avvincente. Le sue invettive contro le élite apparivano spesso confuse, ma lui era divertente, e faceva apparire i vecchi politici dell’élite come delle mummie scorbutiche e retrograde, quali molti di loro erano.
E adesso l’Italia ha Beppe Grillo, che in seguito al successo riportato nelle recenti elezioni nazionali è divenuto il primo comico di professione a capo di un grande partito politico europeo.
Sono pochi i clown che aspirano a guidare il proprio Paese. Pare che Fortuyn fosse terrorizzato dall’idea di diventare primo ministro. Ma cercano soprattutto di provocare, e in questo possono essere utili. A differenza di quanto accade ai politici di professione, le loro opinioni solitamente non sono influenzate da calcoli personali. E talvolta affermano cose scomode ma vere, che devono essere dette.
Ad animare i magnati che si danno alla politica sono invece ambizioni di tipo diverso. Attaccano le vecchie élite non per scuoterle, ma per assumerne il potere. Con la promessa di diffondere le ricchezze accumulate per se stessi sfruttando le speranze di chi ha poco e vorrebbe di più. Berlusconi ha compreso i sogni di molti italiani. La sua eccentricità, la sua comicità, e persino le sue ragazze fanno parte del fascino che esercita sul popolo.
In Tailandia il miliardario di origini cinesi Thaksin Shinawatra, un magnate del mondo dei media che si è fatto da sé, era ammirato soprattutto dai poveri delle zone rurali. Al pari di un sovrano munifico, distribuiva loro denaro e prometteva di sfidare le vecchie élite di Bangkok: i banchieri, i generali, i giudici, e persino i cortigiani che circondavano il re.
Ma i magnati non sono innatamente democratici: il loro principale interesse risiede nei propri affari. E quando i loro interessi commerciali sono a rischio, non esitano ad attaccare la stampa o la magistratura indipendenti. Benché il potere sia ormai nelle mani di sua sorella Yingluck, Thaksin continua a tentare di sottrarsi a dei processi per numerosi reati finanziari.
A detronizzare Thaksin nel 2006 è stato, guarda caso, un golpe militare sostenuto per lo più dalle élite di Bangkok. Berlusconi è stato rimpiazzato da un governo guidato da dei tecnocrati appartenenti all’élite, le cui linee politiche erano soggette all’approvazione dei banchieri europei e dei burocrati dell’Unione Europea.
È improbabile che simili reazioni al populismo possano promuovere la democrazia. Al contrario: potrebbero peggiorare la situazione. Vi è bisogno invece di politici tradizionali, in grado di capire cos’è che alimenta la rabbia popolare, e porvi rimedio. Mettersi all’ascolto dei clown potrebbe rappresentare un primo passo nella direzione giusta.
(Traduzione di Marzia Porta)

Repubblica 5.3.13
Capitalismo e democrazia
di Giorgio Ruffolo


Due grandi forze si contendono la storia dell’Occidente: il capitalismo e la democrazia. Esse si alternano nell’egemonia prevalendo volta per volta l’una sull’altra e dando così luogo a cicli storici, l’ultimo dei quali è quello che viviamo dall’inizio del secolo passato e che comprende tre fasi: l’età dei torbidi, l’età dell’oro e l’età della controffensiva capitalistica.
L’età dei torbidi è caratterizzata da forti conflitti tra i capitalismi nazionali ciascuno dei quali cerca di assicurarsi vantaggi decisivi sui rivali. Il risultato è una competizione selvaggia che ostacola la crescita comune.
Età dell’oro. La definizione è di Hobsbawm. La caratteristica principale sta nel tentativo di raggiungere un “compromesso storico” tra capitalismo e democrazia che esalti le capacità di sviluppo di queste due forze senza provocare contraddizioni strutturali. Il principio fondamentale che regge il sistema è quello del libero scambio. Delle merci ma non dei capitali che sono assoggettati a controlli severi da parte dei governi nazionali. Questo sistema lascia ampie autonomie alle politiche nazionali e assicura quindi un relativo equilibrio tra le forze del capitalismo e le capacità regolatrici dello Stato. Tuttavia l’equilibrio che ne deriva si rivela tutt’altro che “storico”. Esso è costantemente messo in dubbio dai tentativi delle forze capitalistiche di sottrarsi agli obblighi costituiti dai controlli statali. Questi tentativi conseguono un decisivo successo negli anni Ottanta del secolo scorso con la decisiva eliminazione in Gran Bretagna e negli Stati Uniti di ogni controllo sui movimenti internazionali di capitale che assicura a quest’ultimo una superiorità decisiva sugli altri fattori della produzione. La superiorità è realizzata attraverso la sua possibilità di spostarsi nello spazio secondo le convenienze assicurate dagli investimenti. Si potrebbe dire che l’arma fondamentale del capitale è la valigia. La sola minaccia di uno spostamento blocca le possibilità di far valere l’autonomia della politica. L’eliminazione di ogni ostacolo al movimento dei capitali determina un vantaggio decisivo del capitalismo sulla democrazia pregiudicando il relativo equilibrio che si era raggiunto tra queste due forze. Questo vantaggio si traduce in una forte diseguaglianza tra i redditi del capitale e quelli del lavoro. Una diseguaglianza che potrebbe tradursi in una debolezza della domanda, costituita soprattutto dai redditi di lavoro. A questa minaccia il capitalismo reagisce con una “mossa” decisiva: l’indebitamento, che permette di compensare il minore aumento dei redditi di lavoro. L’indebitamento diventa un fenomeno generale e sistematico al punto che il capitalismo viene definito da un economista come quel sistema nel quale i debiti non si pagano mai. Una caratteristica chiaramente insostenibile alla lunga e che si traduce prima o poi in una inevitabile crisi determinata da insolvenze, come nel caso dei cosiddetti subprime. Originate negli Stati Uniti, ed estese all’Europa e a tutto il mondo determinando la condizione di crisi della crescita economica nella quale siamo oggi immersi. Questa condizione è affrontata, diversamente da ciò che accadde negli anni Trenta, con un colossale salvataggio finanziario dello Stato. Da fattore di perturbazione dei mercati — così definito dalla retorica liberistica — lo Stato diventa il salvatore del capitalismo. La logica del sistema tuttavia non muta. Esaurito il “salvataggio” il sistema torna alla logica dell’indebitamento, raffigurata scherzosamente nel dialogo fra Totò e il suo cameriere. Cameriere: «Mi avete detto ieri che mi avreste pagato domani». Totò: «E te lo confermo». Cameriere: «Ma domani è oggi». Totò: «Giovanotto non scherziamo, oggi è oggi e domani è domani».
La soluzione che l’ideologia liberistica imporrebbe, di lasciare che i fallimenti si compiano secondo l’inflessibile regola dei mercati, naufraga nella vicenda della Lehman Brothers: un fallimento che, se esteso all’intero contesto capitalistico, ne determinerebbe il crollo. La verità si crea alla fine il suo spazio. I debiti si pagano. Come si chiude la vicenda? Chi paga alla fine?
Pagano i contribuenti e i lavoratori, sotto forma di aumento delle tasse e/o di contrazione dei salari. Al fenomeno dell’indebitamento si somma quello della “finanziarizzazione”. La ricchezza è rappresentata dall’emissione di “titoli” che da semplici indicatori della ricchezza finiscono per diventare ricchezza essi stessi. Una ricchezza letteralmente inesistente ma che costituisce la base di una “taglia” imposta alla comunità dal potere finanziario. Questa taglia è percepita dalle banche e soprattutto da una classe di intermediari finanziari che approfitta della sua posizione“strategica” nelle transazioni finanziarie. È così che il capitalismo industriale basato sulla realtà delle “cose” diventa capitalismo finanziario basato sulla rappresentazione dei “titoli”. Il grande salvataggio si traduce ovviamente in un peggioramento della finanza pubblica. Ma diversamente da quello del finanziamento privato. Quest’ultimo è punito dalle politiche economiche e finanziarie che colpiscono i “salvatori”. Il capitalismo non ammette infatti che il settore pubblico diventi un elemento decisivo dell’economia. Si profila una condizione nella quale il rallentamento della crescita determinato da politiche repressive della finanza pubblica si accoppia con l’iniquità. Due elementi che rischiano di suscitare una depressione di lungo periodo.

La Stampa 5.3.13
Le radici del libero pensiero
di Ugo Magri


Mancano 36 anni e 9 mesi al 2050 quando, scommette il profeta grillino Casaleggio, «l’intelligenza sociale collettiva permetterà di risolvere i problemi complicati del mondo». Quel giorno basterà un clic per decidere, facile come dire su Facebook «mi piace». Non servirà più eleggere rappresentanti, provvederà la «web-democrazia». Ma già oggi, che siamo nel 2013, al Movimento 5 stelle questo Parlamento appare giurassico.
E’ obsoleta la Costituzione che autorizza gli eletti a decidere di testa loro. Secondo Grillo è una «circonvenzione di elettore», poiché l’onorevole può fare quanto gli aggrada, perfino «votare una legge contraria al programma». Per cinque anni, il fortunato se la spassa e nessuno gli chiede conto. Viceversa il voto, protesta Grillo, dovrebbe essere «un contratto tra elettore ed eletto». Non è l’unico a pensarla così.
Berlusconi ha fatto firmare ai candidati un contratto, appunto, dove gli promettono di «non tradire il mandato». E di astenersi dai cambi di casacca. «Voltagabbana», «opportunisti», «saltafossi»... Quanti epiteti vennero lanciati da destra contro Fini, dopo il celebre «mi cacci». Come in altri campi, il berlusconismo ha stravolto costume e politica, cosicché adesso sembra scontato che il deputato sia messo lì a pigiare i bottoni. Invece per la Costituzione tanto normale non è. L’articolo 67 stabilisce che «ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione», con la maiuscola, «ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato». I padri della patria repubblicana ebbero zero dubbi in proposito. All’Assemblea costituente, la norma fu approvata in tre minuti, Terracini la lesse e nessuno si alzò per obiettare. Eravamo nel marzo 1947. Qualche mese prima se n’era discusso in commissione. Anche lì, tutti d’accordo con l’eccezione del comunista Grieco, ostilissimo alla formula «senza vincoli di mandato» in quanto i deputati «sono tutti vincolati: si presentano infatti alle elezioni sostenendo un programma»... Proprio gli argomenti odierni di Grillo (e di Berlusconi). Aggiunse l’uomo di Mosca: «Sorgerà il malcostume politico». Ma nemmeno il suo partito gli diede retta, sebbene il «mandato imperativo» fosse la regola all’Est nelle cosiddette democrazie popolari, canonizzato dalla Costituzione sovietica e perpetuato in Ucraina perfino dopo la caduta del Muro: lo rispolverò nel 2007 il presidente Yushenko per far sciogliere il Parlamento, dopo che un gruppo di deputati l’aveva piantato in asso.
Meglio la disciplina o meglio il libero pensiero? Nobile diatriba, che risale all’epoca dei Lumi. Fu primo il britannico Burke a teorizzare che chi viene eletto rappresenta l’intera nazione e non soltanto i propri sostenitori. Dunque conserva il sacrosanto diritto di mutare idea, di cercare compromessi con gli avversari senza per questo essere disprezzato, anzi. Rousseau, il filosofo, la vedeva esattamente al rovescio. L’Ancien Régime ammetteva solo il mandato «imperativo», invece i rivoluzionari francesi lo vollero libero, e così pure lo Statuto Albertino. Ci sono Paesi dove chi delude può essere sostituito con nuove elezioni, e forse proprio questo congegno ha in mente Grillo, sul suo blog se n’è molto discusso. Negli Usa si chiama «recall», permette di mandare a casa perfino i governatori degli Stati (è accaduto due volte). Stessa storia in sei cantoni svizzeri. In Venezuela ci hanno provato per scalzare Chavez, ma senza successo. Nella vecchia Europa è diverso. Regna la democrazia rappresentativa, l’autonomia di giudizio è considerata un bene prezioso, il dissenso viene tutelato in ogni Parlamento, da noi perfino troppo come fa osservare il costituzionalista Ceccanti: al punto che si scade nel trasformismo o peggio (vedi De Gregorio).

l’Unità 5.3,13
I cardinali vogliono sapere tutto di Vatileaks
di Roberto Monteforte


Ci sarà un messaggio «di saluto e gratitudine» dei cardinali riuniti in «Congregazione generale» al Papa «emerito» Benedetto XVI. È stata accolta la proposta presentata ieri dal «Decano» del collegio, il cardinale Angelo Sodano durante la prima sessione, tenutasi ieri mattina alle ore 9,30 nell’Aula Nuova del Sinodo, in Vaticano. Ai lavori che sono stati aperti dalla preghiera «Veni sanctus Spiritus» erano presenti 142 sui 207 del collegio cardinalizio. Di questi un buon numero, «103» ( 107 nel pomeriggio) erano gli elettori, quelli con meno di 80 anni che entreranno in Conclave per leggere il pontefice. All’appello ne sono mancati alla fine 8, ma entro domani dovrebbero essere presenti.
Ieri non è stata soltanto la giornata degli «adempimenti» formali: dall’elezione dei tre porporati, uno per ciascun ordine dei cardinali (vescovi, presbiteri e diaconi), che compongono la «Congregazione particolare» che affianca il Camerlengo durante la «Sede vacante», sino al giuramento che impegna tutti alla segretezza sui lavori delle Congregazioni generali. È stato anche il giorno della chiarezza. Si vuole arrivare presto all’elezione del nuovo pontefice. Tanti i segnali, come la richiesta del camerlengo, cardinale Bertone di far tenere già ieri pomeriggio, nella seconda congregazione, la «meditazione» del predicatore della Casa Pontificia, padre Cantalamessa. I lavori procedono rapidamente.
Ma sarà possibile a condizione che ai cardinali «non curiali» siano fornite tutte le informazioni necessarie per avere un quadro preciso sulla situazione della Curia romana. Pesano i problemi legati allo Ior e alla scandalo Vatileaks. Certo, vi sono anche altri nodi, come quello dell’evangelizzazione o il «dossier» pedofilia. Ma pare essere centrale il nodo della riforma della Curia romana. È stato esplicito l’arcivescovo di Durban, il francescano Wilfrid Napier che ha invocato una «ricostruzione della credibilità» sottolineando come la maggior parte dei porporati arrivati a Roma «vuole approfondire i problemi senza fretta».
«OGNI COSA VERRÀ FUORI»
Espliciti sono stati anche i cardinali statunitensi che dal Collegio Nord americano sul Gianicolo, la loro «base» in questi giorni di pre-Conclave, hanno incontrato la stampa. «Per quanto riguarda lo stato della Chiesa immagino che porremo le domande ai cardinali della Curia e ogni cosa potrà venire fuori» ha dichiarato l’arcivescovo di Chicago, cardinal Francis George. Assieme all’arcivescovo di Washington, Donald William Wuerl ha chiarito che il nodo Vatileaks sarà argomento di questi giorni, perché saranno poste domande ai cardinali coinvolti. «Il futuro Papa hanno aggiunto dovrà ancora affrontare la questione pedofilia, anche se la linea “tolleranza zero” è ormai acquisita e non si sono più verificati abusi, perché le vittime sono ancora in vita e la Chiesa deve prendersi cura di loro». Sui tempi del Conclave hanno assicurato che la discussione sarà approfondita e richiederà i suoi tempi, ma la decisione sarà «rapida». I due cardinali si sono quindi detti «abbastanza sicuri» che la Pasqua sarà celebrata dal nuovo Papa.
È probabile che sui punti più caldi saranno presentate «relazioni» alle Congregazioni dei cardinali da parte dei responsabili di Curia. Per ora l’arcivescovo Claudio Maria Celli, presidente del Pontificio Consiglio per le comunicazioni assicura che la Segreteria di Stato consegni ai porporati una sintesi di problematiche varie da prendere in esame: dalla situazione economica alla condizione della Chiesa nei vari Continenti; sia questioni interne sia quelle legate al dialogo Chiesa-mondo e su queste problematiche i cardinali saranno chiamati a intervenire. «Dovrebbe servire spiega Celli per approfondire le varie tematiche e decidere che atteggiamento assumere; dall’altro, consentirà ai singoli cardinali di ascoltarsi, di conoscersi, di scambiarsi reciproca-
mente opinioni ed esperienze».
Si vedrà. Intanto non è stata ancora presa la decisione sulla convocazione del Conclave. Viene data per imminente. Si pensa a lunedì 11 marzo. Si vedrà in questi giorni. È evidente che le ragioni della «rinuncia» di Papa Ratzinger pesano sul Conclave.

Repubblica 5.3.13
I cardinali stranieri all’attacco “Subito la verità su Vatileaks ma da Herranz risposte vaghe”
Tensione alle Congregazioni. Sodano difende la Curia
di Marco Ansaldo


CITTÀ DEL VATICANO — La richiesta di sapere finalmente che cosa c’è nel dossier segreto sul caso Vatileaks arriva subito, nel primo giorno di riunione fra i cardinali convenuti nell’Aula nuova del Sinodo. La curiosità tra le eminenze straniere, scioccate dalle rivelazioni contenute nei documenti trafugati dall’Appartamento papale, è forte e sono in molti a chiedere di capire. Ma la risposta del cardinale Julian Herranz Casado, il giurista dell’Opus Dei che è a capo della commissione di inchiesta fondata da Benedetto XVI sul caso, è del tutto evasiva.
È invece il cardinale decano Angelo Sodano a prendere la parola. La sua è una difesa a spada tratta della macchina del governo vaticano. A dargli manforte, prima di sera, arriva anche il predicatore pontificio Raniero Cantalamessa: la Chiesa di oggi — è la sostanza del suo intervento — è migliore di quella dei primi tempi.
Così la Curia si ricompatta, sostenendo di avere fatto il proprio dovere. Herranz, il leader dei tre porporati ispettori (gli altri sono Tomko e De Giorgi), minimizza il portato dei documenti portati fuori dalla Santa Sede dal maggiordomo del Papa. Tutti gli altri si limitano ad ascoltare. Perché questo comportamento? — si chiedono alcuni cardinali — Herranz ha ricevuto una consegna precisa dal Papa di non parlare, oppure la sua è solo una strategia?
E allora è possibile che oggi, nella seconda riunione delle Congregazioni generali, gli incontri pre-Conclave, le eminenze americane come O’Malley e Dolan che si battono per la trasparenza, aprendo persino le porte delle loro dimore a Roma per inedite conferenze stampa, chiedano che la verità venga a galla.
In molti si battono perché le discussioni siano, quantomeno, approfondite, e non ci si rinchiuda subito in Conclave a votare. Specie gli stranieri non sembrano intenzionati a confronti superficiali. In tanti sono al loro primo Conclave, e vogliono affrontarlo come si deve. «Per conoscersi c’è bisogno di tempo — sbotta anche il cardinale Walter Kasper — un’elezione del Papa non può svolgersi in fretta e furia». Con le sue 80 primavere, e un’intelligenza lucidissima, il cardinale tedesco che sarà l’elettore più anziano nella Cappella Sistina, fotografa perfettamente la spaccatura fra porporati. C’è chi frena i confronti e preme per andare presto agli scrutini, e chi invece preferisce Congregazioni lunghe, con posizioni chiare e definite. E dunque un Conclave breve e mirato.
Aggiunge il suo collega del Sud Africa, il cardinale Wilfrid Fox Napier, arcivescovo di Durban: «La mia sensazione è che i più direbbero: prendiamoci tutto il tempo per dibattere le questioni, illuminarci l’un l’altro, informarci, e poi possiamo procedere verso il Conclave ».
I temi sul tappeto? Lo scandalo della pedofilia. Che «è una questione importante nella mente e nel cuore di molti di noi», spiegano gli americani Francis George (Chicago) e Donald Wuerl (Washington).
«Ci sono stati abusi compiuti da sacerdoti, a volte da vescovi, e vescovi che non hanno affrontato il problema. Abbiamo adottato una linea di “tolleranza zero”, ci abbiamo messo un po’ di tempo ad applicarla, ma adesso è pacifica non solo nelle norme degli Stati Uniti ma in tutta la Chiesa. Questo tema va continuamente affrontato, e il prossimo Pontefice se ne dovrà occupare». E poi l’argomento della governance: «Porremo questioni ai cardinali coinvolti nel governo della Curia, e in questo contesto ogni cosa può emergere».
«Ci stiamo conoscendo, stiamo fraternizzando — aggiunge il cardinale francese Philippe Xavier
Ignace Barbarin — c’è bisogno di questo confronto». Sono 13 in tutto gli interventi che avvengono nelle due sessioni, quella delle 9,30, e quella dalle 5 alle 7 di sera. I porporati si contano in 142, su un totale di 207. Assenti 65: e 12 elettori devono ancora arrivare a Roma. Solo quando saranno tutti, si potrà decidere la data di inizio del Conclave. Quella ipotizzata dell’11 marzo potrebbe allora slittare. L’importante adesso è parlare e capire, prima di chiudersi a scegliere il nome del nuovo Papa.
All’uscita, nella piazza del Sant’Uffizio, dietro il colonnato della Basilica di San Pietro, c’è una gran ressa. I cardinali sono inseguiti da telecamere, registratori e taccuini. Dionigi Tettamanzi e Crescenzio Sepe arrivano a piedi. Il primo rimanda al briefing del portavoce papale padre Federico Lombardi, il secondo sorride: «Non ricordo niente». Severino Poletto è preso d’assalto, e reagisce: «Questo è un assalto alla libertà della persona». Camillo Ruini esce con la sua auto guidandola egli stesso. Il filippino Luis Tagle ha l’autista, sorride e saluta la folla. I più organizzati sono i cardinali americani, tutti insieme a bordo di un pulmino.
Si ferma invece sereno a conversare con i giornalisti il sudafricano Fox Napier, che passeggiando di fianco al colonnato, con una ressa di microfoni e telecamere, si spinge a tracciare l’identikit del nuovo Papa: età fra i 60 e i 65 anni, proveniente da «una Chiesa fervida, viva» e in grado di continuare le riforme avviate da Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Le Congregazioni generali — dice — devono affrontare tutte le questioni sul tappeto per la Chiesa cattolica: la ricostruzione della credibi-lità, la riforma della Curia romana, e la vicenda Vatileaks.

l’Unità 5.3,13
Telecom cede La7 a Cairo con una dote milionaria
L’editore piemontese acquista l’emittente per un milione di euro, ma previa ricapitalizzazione e azzeramento dei debiti
Ti Media perde 240 milioni e ha debiti per 260 milioni di euro
di Luigina Venturelli


«Non si vende a qualsiasi prezzo» aveva assicurato mesi fa il presidente esecutivo di Telecom, Franco Bernabè, quando il percorso per cedere La7 era ancora alle battute iniziali. Eppure quello con cui Urbano Cairo si è aggiudicato ieri la rete televisiva, o «la patata bollente» come lui stesso l’ha definita, è sicuramente un prezzo d’occasione. Un milione di euro tondo tondo, è il prezzo con cui l’editore ha acquistato la testata intorno alla quale si attaccano da anni tutte le speranze italiane di un terzo polo televisivo in chiaro.
Una testata che passerà di mano corredata di preventiva ricapitalizzazione per arrivare a una posizione finanziaria netta di almeno 88 milioni. Più la sottoscrizione a favore di Cairo di un contratto di fornitura di capacità trasmissiva di durata pluriennale. Più la rinuncia da parte di Telecom ai crediti finanziari vantati nei confronti di Ti Media per un importo complessivo pari a 100 milioni.
LE CONDIZIONI D’ACQUISTO
Le condizioni accettate dal consiglio d’amministrazione di Telecom Italia per portare a termine l’operazione rettificano l’impegno di Bernabè. La7 doveva essere ceduta a qualsiasi costo, anche se le fasi finali della vendita hanno coinciso con le conclusioni della campagna elettorale, visto che tenerla accesa costava al gruppo perdite da 100 milioni di euro all’anno. Ti Media, la società del gruppo che controlla l’emittente, ha infatti chiuso l’esercizio 2012 con una perdita netta di 240,9 milioni di euro, in peggioramento di 157,1 milioni rispetto al rosso di 83,8 milioni del 2011. L’indebitamento è salito a 260 milioni. La Borsa non ha apprezzato i dettagli dell’operazione, visto che Ti Media ha chiuso in profondo rosso, in flessione del 6,4% a 0,157 euro. Piatta invece la controllante Telecom (più 0,09%), giù Cairo Communication (meno 0,65%) in linea con l’andamento del listino.
Il neoproprietario l’ex assistente di Berlusconi diventato editore con la passione per il calcio, presidente e proprietario anche della squadra del Torino si è limitato a commentare l’affare con una battuta: «Mi sono preso una bella patata bollente». Si è così conclusa la gara per la tv che alla fine rifiutata l’offerta fuori tempo massimo di Diego Della Valle si era ristretta a una corsa tra il fondo di private equity Clessidra, guidato da Claudio Sposito, e l’editore di magazine e concessionario della pubblicità Urbano Cairo, il favorito, benchè a lungo incerto (a fine anno mancava ancora un’offerta vincolante).
«È importante mettersi velocemente al lavoro per dare slancio alla rete, che ha dei punti di forza notevoli ma anche costi notevoli. Bisogna trovare un equilibrio» aveva preannunciato Cairo a metà febbraio, all’indomani della scelta di Telecom di proseguire le trattative in esclusiva con l’editore piemontese. Ristrutturazione in vista, dunque, per l’emittente televisiva che un tempo si chiamava Telemontecarlo e che nel 2001 diventò La7 dopo l’acquisizione da parte dell’allora Seat-Pagine Gialle. Prima del trasferimento della partecipazione del 100% de La7 (con l’esclusione della quota del 51% di Mtv Italia), la televisione sarà ricapitalizzata «per un importo tale per cui la società avrà, a quella data, una posizione finanziaria netta positiva non inferiore a 88 milioni di euro» e un livello di patrimonio netto pari a 138 milioni. Gli accordi prevedono, inoltre, la sottoscrizione di un contratto di fornitura di capacità trasmissiva di durata pluriennale tra La7 Srl e Ti Media Broadcasting. Infine, Telecom Italia è tenuta a rinunciare al momento dell’intervenuta sottoscrizione del contratto di cessione ai crediti finanziari vantati nei confronti di Ti Media per un importo complessivo pari a 100 milioni. Mentre Cairo, dal canto suo, si è impegnato a non cedere la rete tv per almeno 24 mesi.
FREQUENZE E ANTENNE
Non saranno invece vendute le frequenze digitali e le antenne di trasmissione detenute da Telecom. Il gruppo presieduto da Franco Bernabè ha dunque scommesso che i multiplex digitali abbiano più valore di quello attualmente riconosciuto dal mercato, e che se un giorno dovessero essere espropriati per mettere all’asta le frequenze, il governo dovrà riconoscere a TiMedia almeno quei 350 milioni investiti dalla società nelle frequenze e nell’infrastruttura delle piattaforme digitali.

La Stampa 5.3.13
Reggio Emilia, il giudice: il loro legame è intenso
Lo sposo cambia sesso? Il matrimonio resta valido
di Franco Giubilei


Sentenza storica Il tribunale di Reggio Emilia ha accolto il ricorso di un brasiliano transessuale, sposato con una donna italiana
Se marito e moglie si vogliono bene, non c’è cambio di sesso che tenga: sposi erano prima e sposi restano anche dopo l’intervento chirurgico che ha mutato il genere di uno di loro.
E’ il senso della storica decisione del tribunale di Reggio Emilia, che ha accolto il ricorso di un brasiliano transessuale, sposato con una donna italiana. All’anagrafe risulta ancora maschio, ma durante i sei anni di convivenza con la moglie ha deciso di sottoporsi all’operazione: una rettificazione del sesso che lo ha reso del tutto simile a una donna nell’aspetto e negli atteggiamenti. All’inizio di questa storia, che sembra scardinare una volta di più il concetto tradizionale di famiglia (ma resta determinante l’elemento dell’iscrizione all’anagrafe come uomo), c’è l’iniziativa della questura di Reggio: quando i funzionari vennero a sapere che il brasiliano aveva cambiato sesso, respinsero la sua domanda di rinnovo del permesso di soggiorno per ricongiungimento familiare. Secondo la polizia il matrimonio sarebbe stato contratto per stabilirsi in Italia, di qui il rifiuto dell’autorizzazione e l’espulsione.
Lo scorso 23 novembre però il transessuale ha presentato ricorso in tribunale e il giudice civile Annamaria Casadonte, gli ha dato ragione. Il magistrato esprime certezza sulla validità del matrimonio: «E’ pacifico che il ricorrente sia legalmente coniugato con la cittadina italiana, non sussistendo dubbi in ordine alla celebrazione del loro matrimonio». Quindi aggiunge: «Nel nostro ordinamento è certamente consentita la permanenza del matrimonio pregresso anche dopo l’avvenuta rettificazione del sesso con intervento chirurgico. Soltanto la rettificazione anagrafica di attribuzione di sesso, disposta con sentenza passata in giudicato, può essere causa di divorzio». A convincere il giudice è stato il «rapporto affettivo evidente e intenso» della coppia e «la convivenza fra i coniugi», come confermato dai testimoni sentiti.
C’è poi un precedente: la Corte Costituzionale tedesca nel 2008 definì illegittima la norma che imponeva lo scioglimento del matrimonio prima del cambio di sesso. Il giudice parla anche dell’ipotesi non infrequente di soggetti che, «pur identificandosi nel genere opposto, mantengano orientamento sessuale nei confronti dello stesso genere opposto». Cioè il caso dell’uomo diventato donna che continua a essere attratto da una donna, com’è accaduto al transessuale brasiliano. «Ne consegue che se la relazione affettiva è condivisa da coniuge, non si può affermare la carenza di convivenza more uxorio». Elencando i precedenti internazionali – per cui è incostituzionale lo scioglimento del matrimonio in conseguenza del mutamento di sesso -, il giudice reggiano afferma un principio preciso: se i coniugi si amano, la moglie non vuole separarsi e il trans non ha cambiato sesso sui documenti, la famiglia resta intatta. Con un avvertimento alla polizia: ogni ulteriore indagine sui coniugi e sulla loro relazione sarebbe poco compatibile con la tutela che la Costituzione assicura loro nel matrimonio.

Repubblica 5.3.13
A Napoli sulla sedia della santa l’ultimo rito per avere un figlio
di Marino Niola


Il 6 di ogni mese centinaia di donne in cerca di gravidanza vanno a casa di Maria Francesca delle Cinque Piaghe Persino i croceristi fanno tappa lì. Tra i pellegrini anche Sergio di Jugoslavia, figlio di Maria Pia di Savoia

NAPOLI L’ultimo rito di fertilità dell’Occidente si celebra nel cuore di Napoli. Dove migliaia di donne accorrono da ogni parte del mondo per chiedere un figlio alla santa delle gravidanze impossibili. Il sei di ogni mese si mettono in fila sin dalle prime ore del mattino per entrare nella casa dove abitò Santa Maria Francesca delle Cinque Piaghe. Al numero tredici di Vico Tre Re, nei Quartieri Spagnoli, a due passi da quella via Toledo che Stendhal definì la strada più animata della terra.
Salgono una per volta la scala stretta che conduce al sancta sanctorum della procreazione. Per sedersi sulla sedia dei miracoli. Quella dove la santa ha trascorso la   ua vita a pregare e ricamare. E consegnano le loro ansie e le loro preoccupazioni a suor Giuliana che ascolta con attenzione confessioni, sfoghi, richieste. Storie di tentativi falliti, odissee di donne che le hanno provate tutte per riuscire a restare incinte. Poi la suora sfiora il loro ventre con un reliquiario che contiene una vertebra e una ciocca di capelli di Maria Francesca. Molte dicono di avvertire una vampata di calore alla pancia, una specie di formicolio. Come una corrente di energia positiva che le attraversa improvvisamente, lasciandole attonite, ma piene di forza e di speranza.
Sarà la suggestione, sarà un inspiegabile effetto placebo, sarà una reazione psicosomatica, certo è che moltissime tornano un anno dopo a ringraziare la santa con il figlio in braccio. I nomi più gettonati, inutile dirlo, sono Maria Francesca e Francesco.
Così se la medicina non fa il miracolo si ricorre a chi i miracoli li fa da almeno tre secoli. E precisamente dal 6 ottobre 1791, giorno della morte della santa francescana. Anzi la santarella come la chiamano affettuosamente gli abitanti dei Quartieri spagnoli che la considerano una di loro. E in realtà l’unica donna meridionale salita alla gloria degli altari era a tutti gli effetti una figlia del popolo. Tessitrice a domicilio, supersfruttata da un padre padrone che la costringeva a lavorare h24 e voleva impedirle perfino di entrare in convento per non perdere mano d’opera a costo zero. Un’esistenza da martire del lavoro nero. Profondamente segnata da una sorta di chiamata soprannaturale che si era manifestata già durante gli ultimi anni di vita. Aveva il dono della profezia tanto da predire la Rivoluzione francese con molti anni di anticipo. Tra i prodigi che le vengono attribuiti c’era anche quello di aver convinto una statua di Gesù bambino ad animarsi per farsi vestire con gli abitini che lei stessa gli aveva cucito.
La fama crescente dei suoi miracoli ha fatto letteralmente esplodere questo culto. Nato come devozione locale è ormai diventato una liturgia glocal, una religione della maternità che adatta forme e parole del nostro tempo a un fondo misteriosamente arcaico. Che rimanda ai culti della fertilità del mondo antico. Soprattutto quelli delle Grandi madri, le dèe che propiziavano le gravidanze. Signore della fertilità, come le greche Demetra e Artemide. O le romane Giunone Lucina e soprattutto Anna Perenna, la nutrice del mondo, che veniva invocata dalle donne senza figli. In questi riti il contatto fisico, spesso per sfregamento, tra il simulacro della divinità e il corpo della donna era ritenuto indispensabile per la concessione dell’agognata gravidanza. Esattamente come nel caso della sedia prodigiosa di Maria Francesca che le devote considerano fondamentale per il buon esito della richiesta. Un meccanismo semplice, quasi un automatismo simbolico di sicuro effetto emotivo. E anche qualcosa di più visto il numero elevatissimo di nascite attribuite alla santarella. Si spiega così la processione continua di donne e uomini che risalgono vico Tre Re in un pellegrinaggio della speranza. Arrivano da Milano, da Bolzano ma anche da Madrid, da Berlino, dall’America Latina, dagli Usa. C’è perfino chi approfitta della pausa pranzo per una preghiera last minute davanti al corpo della santa sepolto nella cappella accanto alla casa-sacrario. Piena fino all’inverosimile di fiocchi rosa, azzurri, di bomboniere donati dalle neomamme in segno di ringraziamento.
E da qualche tempo si è aggiunto il flusso dei crocieristi che approfittano dello scalo napoletano per compiere il loro rito propiziatorio. Viaggio di nozze e turismo concezionale. E se fino a qualche decennio fa i maschi si limitavano a scortare le loro compagne, adesso si sottopongono anche loro al rituale di fecondità in un’ottica assolutamente paritaria di condivisione dei compiti genitoriali. Anche di quelli simbolici.
Tre anni fa è venuto a rendere omaggio alla santa dei Quartieri spagnoli anche sua altezza reale Sergio di Jugoslavia, figlio di Maria Pia di Savoia che è nata a Napoli, accolto in pompa magna dalla madre superiora e dalle consorelle tra squilli di campane a festa. E chi non può andare di persona a visitare il santuario frequenta i siti, sempre più numerosi, che celebrano il culto sul web. Alfemminile.com, gravidanzaonline.it, amando.it, pianetamamma.it, maternita.forumattivo.com. Dove è anche possibile scaricare l’accorata Preghiera per chiedere la grazia di una creatura. Scritta in un improbabile italiano ottocentesco. Così il mormorio dei rosari è sostituito dall’unisono digitale dei forum. Non mancano nemmeno i miracoli on line. Una forumina racconta di aver partecipato ad una preghiera della community. Stesso giorno stessa ora, tutte insieme davanti allo schermo. Risultato, un maschietto in arrivo.

l’Unità 5.3,13
Apartheid in Israele: bus per soli palestinesi
di Umberto De Giovannangeli


Non bastavano le bypass road, i check point all’interno della Cisgiordania e lungo la Linea Verde e i gate agricoli controllati dall’esercito israeliano e che separano i villaggi palestinesi dalle proprie terre al di là del Muro. Non bastava quella «Barriera di sicurezza» che per i palestinesi della West Bank è il «muro dell’apartheid». Non bastavano. Perché da ieri Israele ha dato vita agli autobus per soli palestinesi. Gli autobus «segregazionisti». Una vicenda che racconta lo spirito di una nazione molto più delle trame politiche legate alla formazione del nuovo governo.
Israele, lo Stato nato dalle ceneri della follia razzista nazista e vittima dell’odio degli integralisti islamici di tutto il mondo, sembra fare propri i principi segregazionisti. Il governo ha creato linee di autobus riservate solo ai palestinesi in Cisgiordania, di fatto escludendoli dalle linee «normali», che saranno riservate ai coloni ebrei. Il piano è stato messo a punto dal ministero dei Trasporti israeliano ed è entrato in vigore da ieri. A rivelarlo è il sito del quotidiano Yedioth Ahronoth (Ynet) che per primo si pone la domanda se si tratti di una caso di «segregazione razziale». Ipotesi smentita dal Ministero, come riporta Nena News: «Le nuove linee si legge in un comunicato ufficiale non sono linee separate per palestinesi, ma piuttosto due diverse linee per migliorare i servizi offerti ai lavoratori arabi che entrano in Israele dal checkpoint di Eyal. Il Ministero non è autorizzato a impedire a nessun passeggero di salire a bordo di un mezzo di trasporto pubblico: la creazione delle nuove linee è stata fatta con il completo accordo dei palestinesi». Ma alcuni autisti citati da Ynet hanno rivelato che è stato loro ordinato di chiedere di scendere ai palestinesi che tenteranno di salire sui bus misti.
«È RAZZISMO»
Il quotidiano progressista Haaretz scrive che il ministero ha avviato le due linee, dopo che alcuni coloni israeliani hanno lamentato che i palestinesi rappresentavano un rischio per la sicurezza. «Creare linee di bus separate per ebrei israeliani e palestinesi è un piano disgustoso ha detto a Radio Esercito Jessica Montell, direttore dell’associazione B’Tselem È semplicemente razzismo. Un piano del genere non può essere giustificato con reclami sulla sicurezza o sul sovraffollamento».
Gli autobus della compagnia israeliana Afikim, che opera in Cisgiordania e collega i Territori a Israele, vengono utilizzati anche dai lavoratori palestinesi diretti al di là del Muro e con in mano un permesso di lavoro dal check point di Eyal, nella città di Qalqiliya, un mix non gradito ai coloni. Da cui l’idea di separare i fruitori in base all’etnia.
Quei bus della discordia irrompono sulla scena politica. La leader del Meretz (sinistra pacifista), Zahava Gal-On, si è rivolta al ministro dei Trasporti, Yisrael Katz, chiedendogli di «annullare immediatamente le linee separate in Cisgiordania. Linee di autobus separati per i palestinesi dimostrano che l’occupazione e la democrazia non possono coesistere». «La separazione sugli autobus su base etnica rimarca Gal-On era consuetudine in passato regimi razzisti di tutto il mondo ed è inaccettabile in un Paese democratico». Durissima è anche Shulamit Aloni, fondatrice di «Peace Now», più volte ministra nei governi guidati da Yitzhak Rabin e Shimon Peres: «La decisione di creare linee di autobus separate nei Territori dice Aloni a l’Unità è scioccante e trasforma il razzismo in norma». Di certo, sono il segno, ulteriore, di un’occupazione che marchia la quotidianità di centinaia di migliaia di palestinesi. Come le cosiddette bypass road, strade di collegamento all’interno della Cisgiordania il cui accesso è vietato ai palestinesi. Strade che rompono fisicamente la continuità territoriale del territorio palestinese, obbligando lavoratori, studenti e famiglie a utilizzare strade secondarie per raggiungere posti di lavoro e scuole. E spezzando anche la formazione di un’economia interna e di un mercato indipendenti.

il Fatto 5.3.13
Cisgiordania: Obama vuole il ritiro israeliano


Il ritiro di Israele dalla Cisgiordania con una “tabella di marcia” precisa e un piano dettagliato al riguardo. Sarebbe questa - secondo indiscrezioni pubblicate dal giornale americano on line The World Tribune e riprese dai media israeliani - la richiesta che Obama ha presentato al premier israeliano Netanyahu alla vigilia della sua missione in Israele a marzo. Citando fonti israeliane, il giornale ha spiegato che il piano dovrebbe essere considerato parte dell’iniziativa Usa per stabilire uno stato palestinese in Cisgiordania nel 2014. Conferme ufficiali non se ne sono avute. Ma Netanyahu ieri - senza mai citare la presunta richiesta di Obama - ha affermato che Israele è “disponibile a compromessi”, ma “mai sulla sicurezza nazionale”. “Obama - secondo il giornale - ha chiarito a Netanyahu che lasuavisitanonèun’occasioneperfarsifotografarema una missione di lavoro sull'Iran e sullo Stato palestinese”. “L'implicazione - hanno proseguito le fonti - è che se Israele non darà al presidente qualcosa su cui lavorare, lui agirà per proprio conto”


il Fatto 5.3.13
I conti con l’orrore: “Shoah, le vittime furono 20 milioni”
Il museo dell’Olocausto di Washington “raddoppia” il bilancio
di Roberta Zunini


Sei milioni, un numero spaventoso ma noto. In realtà non furono sei i milioni di ebrei sterminati dai nazisti, ma molti, molti di più. Secondo uno studio del Museo dell'Olocausto di Washington, che verrà pubblicato in una serie di volumi nel 2015, “da 15 a venti milioni di persone furono uccise o detenute nei campi creati dai tedeschi o da regimi fantoccio europei, dalla Francia alla Romania”. Ciò che è emerso dallo studio ha una portata enorme e riscrive la storia della Shoah. Perché non fa luce solo sulle reali proporzioni dello sterminio bensì sulla vasta e spietata rete intessuta dai nazisti per eliminare quanti più ebrei possibile in Germania e nell'Europa dei regimi fantoccio, dalla Francia alla Romania. Dalla ricerca, intitolata “enciclopedia dei lager”, risulta che il numero dei campi nazisti in cui furono rinchiusi gli ebrei prima e durante la Seconda Guerra Mondiale fu almeno “il doppio di quanto finora calcolato”.
SULLE COLONNE del quotidiano inglese The Independent che ha pubblicato una sintesi del lavoro, la lista della follia nazista è lunghissima. I ricercatori hanno individuato e catalogato oltre 42mila siti usati dai nazisti per realizzare il loro disegno di cancellare dal pianeta la “razza” ebraica. Le dimensioni della macchina dello sterminio ha stupito gli stessi autori dello studio che avevano già scoperto 20mila siti dove gli ebrei erano tenuti segregati e costretti ai lavori forzati. “Il numero è molto più elevato di quanto si pensasse”, ha detto Hartmut Berghoff, direttore del museo. I siti non includono solo i famigerati campi di concentramento come Dachau, Auschwitz o Bergen-Belsen ma anche 30 mila impianti dove ebrei-schiavi lavoravano giorno e notte per produrre le scorte militari per coloro che li stavano massacrando, oltre a 1150 ghetti, mille campi di prigionieri di guerra e 500 bordelli per soldati nazisti. Il massimo dell'abominio è la definizione data agli edifici dove le donne ebree venivano portate e costrette ad abortire o dove i loro neonati venivano uccisi pochi minuti dopo essere stati partoriti: “case di cura”. Solo a Berlino i ricercatori hanno documentato 3mila tra campi e cosiddette “case di ebrei”, mentre Amburgo aveva 1300 siti. Prima di finire in un campo di concentramento molti ebrei dovevano sopportare una trafila di umiliazioni e torture spaventose lavorando senza poter mai riposare, fino alla morte per sfinimento, nelle fabbriche. Altri invece finivano direttamente dai ghetti agli orrori di Treblinka o Sobibor.
L'importanza di questo studio è enorme perché ha il merito di aver accertato un'altra verità che renderà inutilizzabile una delle peggiori ipocrisie pensate da una mente umana, cioè il noto “noi non sapevamo”, dietro a cui si sono nascosti milioni di tedeschi ed europei. “I posti dove si è compiuto l’Olocausto erano tantissimi, sparsi ovunque, e pertanto non si può più pensare che un tedesco dell’epoca fosse ignaro di quanto stava succedendo”, ha commentato Martin Dean, uno dei coautori della ricerca. Lo studio ha anche potenziali ripercussioni legali: “Molte richieste di risarcimento sono state re-spinte - ha spiegato Sam Dubbin, un avvocato della Florida che rappresenta gruppi di ebrei sopravvissuti allo sterminio che hanno tentato di far causa alle società di assicurazioni europee - perchè le vittime erano in campi di cui non si sospettava neanche l’esistenza”. Ora i familiari, molti dei sopravvissuti all’Olocausto nel frattempo sono morti di vecchiaia, potranno chiedere giustizia perché oltre alla sofferenza personale, i sopravvissuti alla Shoah hanno dovuto sopportare una vita di stenti e fatica visto che per colpa del nazismo erano stati privati di tutte le loro proprietà e dunque di un futuro stabile per i loro figli.

La Stampa 5.3.13
Cina, segreto di Stato sulle spese militari
di Ilaria Maria Sala


Quest’anno niente cifre: che cosa teme Pechino? Apre oggi a Pechino l’Assemblea Nazionale del Popolo cinese, l’incontro legislativo annuale che, quest’anno, sancirà il passaggio dei poteri alla nuova amministrazione, guidata da Xi Jinping, nuovo Presidente cinese, e Li Keqiang, il nuovo premier. Le novità non finiscono qui. Prima di tutto sarà creato un organismo unico che si occupi della sicurezza alimentare nel Paese, per cercare di mettere un freno agli scandali, costanti, spesso pericolosi, e che hanno contribuito a creare un clima di sfiducia nel Paese. L’organismo assorbirà le 13 agenzie governative che si occupano attualmente della questione, riflettendo anche in questo la tendenza a una ricentralizzazione che sembra essere in atto in Cina. La seconda novità riguarda invece l’esercito: contrariamente a quanto avviene di solito, nella conferenza stampa di apertura la portavoce dell’Assemblea ha rifiutato di annunciare il budget militare. «Sembra che la Cina debba spiegare ogni anno al mondo intero i motivi per i quali dobbiamo rafforzare la difesa nazionale aumentandone il bidget», ha detto seccata Fu Ying, rifiutandosi di rispondere alla domanda. Da molti anni il budget militare cinese ufficiale aumenta di più del 10 per cento annuo, ma a ogni annuncio seguono le analisi degli esperti militari che ripetono che le cifre dichiarate e quelle stimate dall’esterno sono in grossa discrepanza, e che la Cina spenderebbe molto più in difesa di quanto non voglia riconoscere. Per l’anno scorso, la spesa ufficiale sarebbe stata di 107 miliardi di dollari, un incremento di più dell’11 per cento rispetto all’anno precedente. Non si tratta solo di rendere pubblica una cifra, naturalmente, dato che negli ultimi tempi la Cina si è fatta via via più aggressiva nelle sue pretese territoriali (in particolare rispetto alle isole contese con il Giappone, il Vietnam e le Filippine). Ma Fu Ying ha solo aggiunto che «non sarebbe una buona notizia per il mondo se un Paese grande come la Cina non è in grado di proteggere la sua sicurezza nazionale. Rafforzare la capacità difensiva cinese sarà in grado di portare a maggior stabilità nella regione e ad avanzare la pace nel mondo». Il budget dunque sarà, con ogni probabilità, annunciato assieme al resto delle spese nazionali. Starà agli analisti cercare di dividere le spese militari dalle altre, per farsi un’idea del vero investimento cinese nella difesa.

il fatto 5.3.13
Coerenza poco british
L’ateo Clegg sceglie la scuola cattolica
di Cat. Sof.


E alla fine anche Nick Clegg ci è cascato. “Do as I say, not as I do” si dice per i politici che predicano bene e razzolano male. Fai quello che ti dico, non quello che faccio io. Ecco, tenendo fede alla migliore tradizione dei voltagabbana anche Nick Clegg, ateo dichiarato a capo di un partito, quello liberaldemocratico, che si dichiara laico per definizione, ha iscritto il figlio maggiore Antonio al London Oratory. È una delle migliori scuole maschili di Londra, fornisce una “educazione strettamente cattolica” e lì (sempre tra le polemiche) aveva educato la prole anche l’ex leader laburista Tony Blair. La cosa potrebbe essere marginale se non si inquadra nella situazione tragica di uno Stato dove l’istruzione pubblica è indecente. Le scuole statali sono pessime e le private sono eccellenti ma carissime (rette da 15-20mila sterline l’anno). Le cattoliche sono sovvenzionate dallo Stato, quindi gratis e pubbliche e generalmente buone rispetto alle altre statali. Blair almeno era cattolico dichiarato. L’ateo Clegg invece si cela dietro la fede della moglie, spagnola e cattolica. Tutto il mondo è paese.

Repubblica 5.3.13
Neruda, la salma sarà riesumata ad aprile


SANTIAGO DEL CILE — Saranno riesumati a inizio aprile i resti del poeta cileno, premio Nobel per la letteratura nel 1971, Pablo Neruda. Lo ha reso noto il giudice Mario Carroza, che a gennaio ha ordinato l’autopsia del cadavere dopo le dichiarazioni rilasciate dall’assistente e autista del poeta Manuel Araya. L’uomo, già nel 2011, aveva dichiarato che a uccidere il Nobel sarebbero stati dei sicari di Pinochet. Lo avrebbero raggiunto nella clinica di Santiago in cui era ricoverato e lì, approfittando della malattia,
gli avrebbero iniettato del veleno nello stomaco. Una verità opposta a quella ufficiale. Per anni si è pensato a un cancro alla prostata come riporta il certificato di morte, datato 23 settembre del 1973, solo 12 giorni dopo il golpe di Augusto Pinochet che rovesciò il governo di Salvador Allende. Membro del partito comunista cileno, Neruda vide bandite le sue poesie durante il regime del generale. Ora è sepolto vicino alla moglie Matilde Urrutia a Isla Negra, a 120 chilometri dalla capitale.

l’Unità 5.3,13
Ospedali giudiziari, gli ultimi lager
Dovrebbero venir chiusi il 31 marzo Ma mancano le nuove strutture
Un saggio pubblicato in Brasile racconta come superare la realtà degli Opg:
giudicare l’imputato e rivedere il concetto di pericolosità
In Italia, alla vigilia della chiusura, siamo ancora indietro
di Oreste Pivetta


NON ERA QUESTIONE NEI PROGRAMMI ELETTORALI, PERCHÉ UNA LEGGE C’È. MA POTREBBE ESSERE QUESTIONE PER IL PROSSIMO GOVERNO, UN PROVA A PROPOSITO DI DIRITTI, DEMOCRAZIA, RISPETTO DELLA COSTITUZIONE, CIVILTÀ. Il tempo a disposizione è breve. Sembra un paradosso la fretta che entra in una istituzione immobile, chiusa attorno a persone che hanno perso ogni diritto, anche quello di contare, cioè misurare, il proprio tempo.
Peggio di un ergastolo: esseri umani a disposizione di un ordine superiore, il magistrato e lo psichiatra, per una attesa che troppe volte si chiude con la morte, naturale o violenta, per suicidio (quarantaquattro suicidi negli ultimi dieci anni) o per sfinimento, talvolta solo per la consapevolezza di essere gli ultimi tra gli ultimi, più a fondo di tutti nel pozzo dei derelitti.
Il 31 marzo scade il termine: come prevede la legge 9/2012 (firmatari Ignazio Marino, Daniele Bosone, Michele Saccomanno), gli Opg, cioè gli ospedali psichiatrici giudiziari, dovranno chiudere, liberare la varia umanità dolente che imprigionano, la varia umanità che dovrebbe trovare altre strade per vivere, cambiare, progredire. Quali strade ancora non si sa.
Una volta gli Opg erano soltanto «manicomi criminali». Il nuovo nome è una maschera d’ambiguità e d’ipocrisia: «ospedali» fa pensare a una organizzazione sanitaria, «psichiatrici» dovrebbe indicare qualcosa che riguarda malattia e cura, «giudiziario» lascia cedere a una tribunale, a un codice, alle norme. L’unico tribunale è quello che ha sottratto al «folle reo» anche la possibilità di essere giudicato come ogni altra persona, colpevole o innocente; la psichiatria è debole di per sé e per la debolezza delle strutture e pronta a cedere, per pigrizia o per insipienza, di fronte alla gravità della colpa, all’idea che quella condizione di segregazione sia ineluttabile e tutto sommato la più comoda per la società; l’ospedale è materialmente peggio di un carcere e le sbarre e i chiavistelli semplicemente «custodiscono» l’abbandono.
Sarebbero bastate le poche immagini diffuse dalla televisione, dopo la visita nei nostri manicomi criminali della commissione d’inchiesta guidata da Ignazio Marino, per muovere lo sdegno, suscitare lo scandalo. Dopo la prima riprovazione sembra che tutto si sia spento. Prevale il senso comune di un Paese di poca cultura, che s’indigna a momenti, di fronte a uomini aggrappati alle inferriate di una prigione o stesi legati ad un letto di contenzione, ed è pronto a dimenticare la propria indignazione, quando una diversità qualsiasi minaccia la tranquillità, un paese che sempre considera il matto «delinquente» doppiamente pericoloso, perché è matto e perché delinque.
Pazienza se il reato è un nonnulla, una reazione eccessiva, una collera, un pugno, magari soltanto «ubriachezza molesta»... Il giudizio di infermità mentale, di incapacità ad intendere e volere sottrae il «folle reo» al diritto di un processo, alla considerazione delle responsabilità e delle attenuanti e lo condanna al rischio di «fine pena mai», a un destino da dimenticati (dalla stessa famiglia).
Succede che uno qualsiasi uccida qualcuno, succede che venga giudicato, che debba scontare una pena, ma che possa godere di patteggiamenti e di sconti di pena e dopo dieci anni possa ritrovare la libertà. Così non accade a un matto, la cui «pericolosità sociale» è un’ipoteca sul futuro, una croce che nessun altro si porta addosso, una sanzione preventiva, una mostruosità.
Un bel saggio, di un criminologo brasiliano, Virgilio de Mattos, analizza con grande chiarezza questi temi (presentandoci anche un’esperienza di superamento del manicomio criminale, nello stato di Minas Gerais). Scrive de Mattos: «In primo luogo deve essere assicurato il diritto alla responsabilità dell’imputato, essendo inaccettabile ritenere che un soggetto affetto da disagio psichiatrico non debba rispondere dei suoi atti. Non vi deve essere correlazione alcuna tra il disturbo mentale e il reato commesso. In secondo luogo occorre comprendere che il concetto di pericolosità non possiede alcun fondamento scientifico, essendo frutto più di un pregiudizio che di una situazione concreta riferito al futuro comportamento del paziente».
Una via d’uscita, questo il titolo del libro, pubblicato da Edizioni Alphabeta Verlag nell’Archivio critico della salute mentale, è una storia brasiliana (e molto italiana: basti pensare ai rapporti tra Franco Basaglia e il Brasile, documentati in uno splendido libro, Conferenze brasiliane), che rappresenta una condizione diffusa, universale e realtà diverse, in alcuni casi più crude che in altri, che racconta infine una stessa croce imposta in tutti i manicomi giudiziari del mondo: l’esclusione fino alla sparizione dietro le sbarre, materiali e metaforiche, di chi non riuscirà mai a liberarsi dallo stigma di matto e criminale. Per de Mattos tutti i cittadini devono essere considerati imputabili e penalmente giudicabili, mantenendo tutte le previste garanzie: un processo cioè che permetta di ricostruire i fatti, la possibilità di un contradditorio e di un’ampia difesa legale. A tutti deve essere inflitta, in caso di responsabilità accertata, una pena secondo i limiti fissati dalla legge, con la possibilità di patteggiamenti, di cambiamento di regime, di libertà condizionata. Se sussiste il disturbo mentale e se si accerta la relazione tra la patologia e il reato, si potranno considerare attenuanti. Si dovrà soprattutto considerare un percorso di cura e poi, scontata la pena, un modo per tornare alla società.
«La magia del diritto penale scrive de Mattos è molto semplice: se c’è una compromissione psichica non esiste reato. Ma ci può essere una sanzione anche se non c’è reato. Basta che la sanzione si travesta da misura di sicurezza. Lo farà per difendere la società e l’autore stesso del reato, affetto dall’incapacità di intendere e di volere». In Brasile, come racconta il libro, un’esperienza diversa si è provata. Qui si chiamano in causa sensibilità nuove, attenzione e disponibilità: seguire il malato, accompagnare il folle reo, contro la scappatoia della segregazione. «I dati sono eloquenti: oltre mille malati di mente autori di reato sono stati seguiti in poco più di cinque anni ... e la percentuale di recidive è stata prossima allo zero, principalmente per i reati contro la persona». Con costi, aggiunge il criminologo brasiliano, decisamente inferiore a quelli conseguenti all’internamento.
Alla scadenza del 31 marzo i sei ospedali psichiatrici giudiziari in Italia (Montelupo Fiorentino, Aversa, Napoli, Reggio Emilia, Castiglione delle Stiviere, Barcellona Pozzo di Gotto) non dovrebbero esistere più. I loro millecinquecento ospiti dovrebbero essere trasferiti in parte in sezioni carcerarie in parte in speciali case di cura (da venti posti letto ciascuna), affidate alle Asl. La legge subirà probabilmente un rinvio: vi sono incertezze nell’interpretazione e le strutture non sono pronte. Ma soprattutto, nella fretta di allestire camerate e infermerie, un’altra volta ci si è dimenticati del «soggetto», cioè del malato, di quel «pazzo criminale», tanto pazzo e tanto criminale, che non lo si punisce neppure per il reato che ha commesso, lo si seppellisce per la sua futura pericolosità, per la sua imprevedibilità, per la sua insuperabile cronicità. La sanzione è l’esclusione. Con l’obbligo della cura. Quale cura? Dentro stanzoni lerci, freddi, in condizioni igieniche penose, tra muri cadenti e marci per la muffa, tra poche suppellettili consunte dall’uso e dalla sporcizia, gente solitaria, mai raggiunta da un piano terapeutico o riabilitativo.
Per ora, se va bene, cadranno le mura di Aversa o di Barcellona Pozzo di Gotto o di Montelupo Fiorentino. C’è il rischio che altre mura si alzino, fresche d’intonaci e vernici, senza niente attorno, senza cure e senza diritti per chi è destinato, senza condanne, a viverci dentro.

l’Unità 5.3,13
Mercoledì a Milano la presentazione di «Una via d’uscita»


A tre settimane dall’entrata in vigore della legge che prevede la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari, gli ex manicomi criminali, domani, nella Sala Buozzi della Camera del lavoro di Milano, alle ore 10, verrà presentato il libro Una via d’uscita (Edizioni Alphabeta Verlag, pagine 200, euro 14) di Virgilio de Mattos, professore di Criminologia e Scienze Politiche all’Università di Belo Horizonte (Stato di Minas Gerais, Brasile), dedicato appunto al tema degli opg e del superamento delle struttura manicomiale nel Minas Gerais. Con de Mattos (che fa parte anche del “Forum Mineiro di Salute Mentale”), interverranno Francesco Maisto, giudice di sorveglianza del Tribunale di Bologna, Franco Rotelli, psichiatra e presidente della Conferenza per la salute mentale nel mondo, Antonella Calcaterra, avvocato Camera penale di Milano, Ernesto Venturini, psichiatra che ha tradotto e introdotto il libro. Una via d’uscita appare nella collana Archivio critico della salute mentale, dopo Guarire si può di Izabel Marin e Silvia Bon, Salute/ malattia di Franca Ongaro Basaglia, Marco Cavallo di Giuliano Scabia, C’era una volta la città dei matti, sceneggiatura e soggetto del film per la tv di Marco Turco, con Fabrizio Gifuni, dedicato alla vita di Franco Basaglia.

Repubblica 5.3.13
Fuori mercato
L’ultimo libro di Joseph Stiglitz affronta i danni provocati dalla disuguaglianza
Una piaga delle società contemporanee che mette a rischio la democrazia
Perché l’economia ha bisogno della politica
di Joseph E. Stiglitz


Anticipiamo un brano della prefazione del libro Il prezzo della disuguaglianza di Joseph E. Stiglitz (Einaudi, pagg. 474, euro 23) in uscita oggi

Vi sono momenti, nella storia, in cui sembra che tutti i cittadini del mondo insorgano per dire che c’è qualcosa di sbagliato, per chiedere un cambiamento. È accaduto con i tumulti del 1848 e del 1968, quando la sollevazione segnò l’inizio di una nuova era. E il 2011 potrebbe rivelarsi un altro di tali momenti. Una rivolta giovanile iniziata in Tunisia, piccolo paese sulla costa del Nord Africa, si è estesa al vicino Egitto e poi ad altri paesi del Medio Oriente. Nel giro di breve tempo i popoli di Spagna e Grecia, Regno Unito e Stati Uniti, come quelli di altri paesi del mondo, hanno avuto anch’essi i loro motivi per scendere nelle strade. I manifestanti avevano ragione nel sostenere che c’era qualcosa di sbagliato. Il divario tra ciò che i nostri sistemi economici e politici dovrebbero fare — e che ci avevano fatto credere facessero — e ciò che effettivamente fanno è diventato troppo ampio per poterlo ignorare. I governi del mondo non stavano affrontando problemi economici cruciali come la persistente disoccupazione e, mentre i valori universali dell’equità venivano sacrificati all’avidità di pochi, nonostante la retorica del contrario, il senso di ingiustizia si è trasformato nella sensazione di essere stati traditi.
È evidente che i mercati non hanno funzionato nel modo previsto dai loro fautori. I mercati dovrebbero essere stabili, ma la crisi finanziaria globale ha mostrato che possono essere molto instabili e scatenare conseguenze drammatiche. I banchieri, infatti, avevano azzardato scommesse da cui, se non fosse stato per l’assistenza del governo, sarebbero stati travolti insieme all’intera economia. Ma uno sguardo più ravvicinato al sistema ha rivelato che non si trattò di un incidente: i banchieri erano incentivati a comportarsi in quel modo. La virtù del mercato dovrebbe essere l’efficienza. Ma chiaramente il mercato non è efficiente. La prima legge della teoria economica — necessaria perché l’economia sia efficiente — è che la domanda sia pari all’offerta. Ma viviamo in un mondo in cui enormi bisogni rimangono insoddisfatti: mancano investimenti che facciano uscire i poveri dalla povertà, che promuovano lo sviluppo nei paesi meno sviluppati dell’Africa e degli altri continenti del mondo, che adeguino l’economia globale alle sfide poste dal riscaldamento della Terra. Contemporaneamente abbiamo ampie risorse inutilizzate, come lavoratori e macchinari improduttivi o impiegati al di sotto delle loro capacità. E la disoccupazione — l’incapacità del mercato di generare posti di lavoro per tanti cittadini — è il fallimento peggiore, la fonte di inefficienza più grave, oltre che una delle cause principali della disuguaglianza.
Nel marzo 2012, circa 24 milioni di americani che avrebbero voluto un lavoro full-time non riuscivano a trovarlo. Negli Stati Uniti, stiamo privando milioni di persone della loro casa. Abbiamo abitazioni vuote e gente che vive per la strada. Ma anche prima della crisi, l’economia americana non stava facendo quello che era stato promesso: nonostante la crescita del Pil, la maggior parte dei cittadini assisteva all’erosione del proprio tenore di vita. Per la maggior parte delle famiglie americane, anche prima dell’inizio della recessione i redditi, tenuto conto dell’inflazione, erano più bassi di quelli di un decennio prima. L’America aveva creato una macchina economica meravigliosa, ma che palesemente aveva lavorato soltanto per chi stava molto in alto.
Stiamo pagando assai cara la nostra disuguaglianza e il prezzo è un sistema economico meno stabile e meno efficiente, con meno crescita, nonché una democrazia che è stata messa in pericolo. Ma la posta in gioco è anche più alta: dal momento che il nostro sistema economico sembra aver fallito rispetto al benessere di moltissimi cittadini, e dal momento che il nostro sistema politico sembra ormai preda degli interessi del denaro, la fiducia nella nostra democrazia e nella nostra economia di mercato ne usciranno sminuite insieme alla nostra influenza a livello globale.
Nella misura in cui non siamo più percepiti come un paese di opportunità e il nostro tanto decantato Stato di diritto, insieme a un sistema giudiziario di cui siamo sempre andati fieri, appaiono compromessi, anche il nostro senso di identità nazionale potrebbe uscirne minacciato.
In alcuni paesi, il movimento Occupy Wall Street è diventato stretto alleato del movimento contro la globalizzazione. In effetti i due hanno qualcosa in comune: la convinzione non soltanto che ci sia qualcosa di sbagliato, ma anche che un cambiamento sia possibile. Il problema tuttavia non è se la globalizzazione sia buona o cattiva, ma che i governi la stanno gestendo molto male, per lo più a beneficio di interessi particolari. L’interconnessione tra i popoli, i paesi e le economie del pianeta è uno sviluppo che può essere usato in modo efficace tanto per promuovere la prosperità quanto per diffondere avidità e sofferenza. Lo stesso vale per l’economia di mercato: il potere dei mercati è enorme, ma essi non hanno alcuna caratteristica morale intrinseca. Dobbiamo decidere noi come gestirli.
Nei loro momenti migliori, i mercati hanno avuto un ruolo cruciale, per gli straordinari aumenti di produttività e la crescita del tenore di vita degli ultimi due secoli, incrementi di gran lunga superiori a quelli dei precedenti duemila anni. Ma anche i governi hanno avuto un ruolo importante in questi avanzamenti, un fatto che i sostenitori del libero
mercato solitamente mancano di riconoscere. D’altra parte, i mercati possono lavorare altrettanto bene a favore della concentrazione di ricchezza, possono trasferire i costi ambientali sulla società e abusare dei lavoratori e consumatori. Per tutte queste ragioni è chiaro che i mercati vanno domati e temperati, se si vuole essere sicuri che lavorino a beneficio della maggioranza dei cittadini. E occorre ripetere tali interventi più volte, per garantire la continuità dei risultati. L’abbiamo fatto negli Stati Uniti durante l’“era progressista” quando furono promulgate per la prima volta le leggi sulla concorrenza. L’abbiamo fatto anche con il New Deal, quando vennero varate le leggi sul sistema pensionistico previdenziale (Social Security), l’occupazione e il minimo salariale. Il messaggio di Occupy Wall Street, e di tanti altri dimostranti nel mondo, è che i mercati devono essere domati e temperati ancora una volta. Le conseguenze, altrimenti, saranno serie: in una democrazia che voglia essere tale, dove le voci dei comuni cittadini vengono ascoltate, non possiamo mantenere un sistema di mercato aperto e globalizzato, per lo meno non nella forma che conosciamo, se anno per anno quegli stessi cittadini si impoveriscono. Una delle due, la politica o l’economia, dovrà dare
qualcosa.
Traduzione di Maria Lorenza Chiesara © 2012 . All rights reserved © 2013 Giulio Einaudi editore Spa, Torino Per gentile concessione di Roberto Sanchiara Literary Agency

Corriere 5.3.13
Gli studenti interventisti antenati del Sessantotto
I giovani contro il Parlamento per la guerra all'Austria
di Paolo Mieli


Sessant'anni prima del 1968 si affacciò sulla scena politico-sociale del nostro Paese un movimento giovanile con caratteristiche quasi identiche a quelle che avremmo ritrovato verso la fine del secolo, all'epoca di Adriano Sofri, Oreste Scalzone e Mario Capanna. Nel 1908 si ebbe un'ondata di agitazioni studentesche a carattere irredentista, che si concluse a fine anno con un moto di solidarietà e di soccorso alle popolazioni colpite dal sisma che aveva devastato la costa della Sicilia orientale e quella calabrese. Come ha ben messo in evidenza John Dickie in Una catastrofe patriottica. 1908: il terremoto di Messina (Laterza), quegli aiuti furono portati nel quadro di uno schema retorico che proponeva uno stretto parallelismo tra la tragedia naturale e la guerra. Schema che, di lì a breve, ebbe occasione di ripresentarsi per l'aggressione coloniale alla Libia (1911) e, poco tempo dopo, per l'ingresso dell'Italia nel primo grande conflitto mondiale (1915). Ma è nel 1908 che tutto si mette in moto, come spiega Catia Papa in un interessantissimo libro che sta per essere pubblicato da Laterza: L'Italia giovane dall'Unità al fascismo.
L'occasione che diede il la al movimento fu il pellegrinaggio studentesco alla tomba di Giosuè Carducci in un fine settimana a metà febbraio, nel primo anniversario della morte del poeta. «Dimenticate o rimosse le contestazioni degli studenti bolognesi a Carducci del 1891, quando la sua adesione alla politica crispina aveva generato un autentico tumulto nell'ateneo emiliano», scrive Papa, «l'Associazione degli studenti milanesi redasse un manifesto affisso negli istituti scolastici e pubblicato su "L'Azione studentesca", nel quale celebrava il "Maestro che insegnò la religione della Patria e del Dovere", invitando tutti gli studenti ad andare a deporre una corona di fiori sulla tomba eretta ad "Altare della Patria"». L'irredentismo, Carducci e Messina erano in realtà poco più che pretesti per dar sfogo a una rivolta dei figli contro i padri appartenenti alla «generazione di mezzo» (di mezzo tra quella che aveva fatto l'Italia e quella che avrebbe combattuto la Prima Guerra Mondiale), accusati di essere privi di ideali e inadatti a raccogliere le bandiere affidate loro dai genitori che avevano animato il Risorgimento.
In realtà la storia delle ribellioni giovanili era iniziata molto tempo prima. Philippe Ariès, in Padri e figli nell'Europa medievale e moderna (Laterza), ha reso evidente come, già alla vigilia del 1789, la deruralizzazione, l'urbanizzazione e la trasformazione dei mestieri avevano progressivamente infranto i vecchi vincoli comunitari e familiari, rendendo obsoleti modelli di comportamento e antichi rituali di accesso all'età adulta. La Rivoluzione Francese fece il resto.
Sergio Luzzatto — nel saggio «Giovani e ribelli rivoluzionari (1789-1917)», pubblicato nella Storia dei giovani a cura di Giovanni Levi e Jean-Claude Schmitt (Laterza) — spiega in maniera convincente che l'«irruzione» dei giovani nella storia non fu un fenomeno novecentesco. Già con la Rivoluzione Francese si era affacciata l'idea di una gioventù in rivolta contro l'autoritarismo del vecchio ordinamento sociale rappresentato dai padri. Poco più che ragazzi furono sia i rivoluzionari sia, poi, quelli che seguirono Bonaparte nelle sue imprese. E giovanissimi del tipo di quelli formati nel Turnplatz, la palestra all'aperto creata nel 1811 dal professore berlinese Friedrich Ludwig Jahn, furono coloro che accorsero volontariamente a difendere la patria prussiana nelle battaglie antinapoleoniche. Poi, nell'età della Restaurazione, come ben descrive Arianna Arisi Rota in I piccoli cospiratori. Politica ed emozioni nei primi mazziniani (Il Mulino), il movimento nazionale italiano fu reso forte proprio dall'idea di una «missione storica generazionale». Ma furono i tedeschi a esportare le modalità del nuovo protagonismo giovanile. Anche in campo avverso: dopo la sconfitta inflittale nel 1870 dall'esercito prussiano, la Francia, diventata Repubblica, abbracciò quel modello ginnico-militare di educazione dei giovani che aveva innervato il processo di unificazione nazionale della Germania.
Da metà Ottocento al Novecento, ricorda Catia Papa, la popolazione europea era cresciuta di quasi il 60 per cento. A questo «vistoso aumento, generato dai progressi della medicina e dell'igiene, aveva però corrisposto un generale calo della natalità, dovuto a un progressivo cambiamento dei comportamenti sessuali e dei modelli familiari… Più che un boom di nuovi nati, dunque, si ebbe un sensibile allungamento della vita, a cui poteva seguire un'estensione nel tempo dell'età giovanile e la prevedibile emersione di una tensione generazionale». Ovvero, in altri termini, si annunciò «un prossimo futuro di "vecchiaia" delle società europee, incalzate da una schiera di ventenni frustrati nelle loro aspettative e potenzialità». Fu così che all'inizio del Novecento in molti Paesi europei si diffusero associazioni promosse e gestite per dare un orizzonte ideale agli adolescenti.
La più famosa fu quella tedesca dei Wandervoegel (uccelli migratori) che George Mosse nel saggio Le origini culturali del Terzo Reich (Il Saggiatore) ha definito «il simbolo della rivolta delle nuove generazioni contro la vecchia». Winfried Mogge, che se n'è approfonditamente occupato in I Wandervoegel: una generazione perduta (Socrates), ha messo in evidenza come nell'estate del 1914 molti ragazzi appartenenti a questa associazione risposero volontariamente all'appello della Patria in guerra, immolandosi a migliaia nei campi di Langemark, la cittadina delle Fiandre teatro della prima grande battaglia seguita all'invasione tedesca del Belgio. In Italia invece le cose sembravano andare in modo diverso. A uno sguardo d'insieme, scrive Papa, «la gioventù studiosa italiana d'inizio Novecento sembrava positivamente incanalata sulla via di un'integrazione responsabile, laica e patriottica, alla vita associata con le sue regole e i suoi valori… Un processo di responsabilizzazione nazionale del ceto studentesco che rispondeva all'investimento pedagogico, culturale e politico degli adulti, di cui le comunità studentesche erano state le prime artefici e promotrici». Ma, nella pur breve tradizione unitaria, esisteva già un passato di segno diverso.
I primi decenni successivi al 1861 erano stati caratterizzati da «tumulti» universitari locali «contro l'applicazione dei regolamenti nazionali che sopprimevano le antiche prerogative dell'autonomia universitaria riguardo la scelta dei programmi, il sistema d'esami, le tasse o anche la durata delle vacanze e la possibilità per gli studenti di costituirsi in associazioni». Dalla metà degli anni Ottanta, prosegue Papa, «i moti studenteschi avevano preso una diversa coloritura perché volti a ottenere una riforma dell'istituzione che le conferisse maggiore razionalità e professionalità e, dunque, perché rivestiti di un carattere di protesta contro il governo nazionale che li faceva convergere con le piattaforme delle forze politiche di opposizione, dell'estrema sinistra come dei cattolici». Mai però le agitazioni ebbero a fine Ottocento quel carattere eversivo paventato già allora dai moderati. Neanche quando, al principio degli anni Novanta, i circoli universitari democratici provarono a guidare un movimento più ampio. Semmai qualcosa di insolito si intravide nella seconda metà di quel decennio, allorché, nel corso della crisi politica e istituzionale di fine secolo, larga parte del corpo studentesco si schierò contro le degenerazioni autoritarie della classe dirigente. Tra la fine del 1897 e il 1898, in molte università dell'Italia settentrionale sorsero circoli universitari monarchici che si proponevano di «contrastare la propaganda socialista e, al contempo, di rinnovare le basi dello Stato liberale». Al favore di questi circoli si dovette la nascita e la diffusione del movimento dei Giovani liberali, la cui idea originaria era stata lanciata nel 1897 da Giovanni Borelli, ex maestro elementare, ora direttore della rivista milanese «L'idea liberale», dalla quale si auspicava una rifondazione del liberalismo italiano che si accompagnasse a una decisa azione di contrasto ai gruppi dell'estrema sinistra e al Partito socialista.
Nel marzo del 1901 molte comunità universitarie scendono in piazza per attestare solidarietà al movimento studentesco russo, violentemente represso dalla polizia zarista. A Roma in quattrocento si danno appuntamento alla Sapienza per votare un ordine del giorno di protesta contro il regime di San Pietroburgo e chiamare tutti gli atenei del Regno alla mobilitazione. Altre manifestazioni si svolgono a giugno per chiedere la proroga della sessione di esami a favore degli studenti che hanno partecipato ai cortei di marzo. Contro di loro scendono in campo gli studenti socialisti, i quali si scagliano contro il «volgarissimo contegno di quei giovani universitari che hanno cercato di affermare un loro particolare interesse in modo tanto indecoroso». Alla fine di quello stesso 1901 il socialista Enrico Ferri, docente di Diritto nell'ateneo romano, pronuncia alla Camera un discorso che gli studenti nazionalisti giudicano «offensivo dell'onore nazionale». In vista della ripresa delle lezioni di Ferri, nel gennaio del 1902, il circolo universitario monarchico fa circolare appelli affinché gli studenti facciano valere le loro ragioni contro il professore. Il rettore rinvia l'inizio del corso, ma sostenitori e detrattori di Ferri si affrontano più volte anche in modo violento, finché il rettore decide di chiudere l'Università e di farla piantonare dai carabinieri. Segno che qualcosa stava cambiando.
Fu in quel clima che nacque, ad opera di Efisio Giglio Tos, uno dei più importanti sodalizi studenteschi dell'epoca: i «Corda Fratres», il cui primo congresso si tenne a Roma nell'aprile del 1902, alla presenza del ministro dell'Istruzione Nunzio Nasi nonché di molti professori e rettori. «In assenza di un movimento giovanile di contestazione dell'autoritarismo paterno e degli adulti in genere in famiglia o tra le aule scolastiche», scrive Papa, «la retorica generazionale rappresentò uno strumento di promozione sociale e politica di un'élite intellettuale che seppe fare dell'Italia una patria d'elezione del "ribellismo giovanile" a fini patriottici». Dopo la guerra di Libia, che pure viene parzialmente criticata («fatalmente inutile») perché avrebbe potuto distrarre dagli obiettivi dell'irredentismo, prosegue Catia Papa, dai circoli alle piazze, durante la mobilitazione per la «vera guerra» dell'Italia (quella per Trento e Trieste) «l'immagine dell'élite studentesca custode e garante delle tradizioni nazionali, il culto della patria come fattore identitario, quindi ancora l'etica e l'estetica del sacrificio poterono più di qualsiasi distinzione partitica». L'unità delle varie anime dell'interventismo italiano «fu sperimentata con successo in primo luogo nel mondo studentesco, ancora una volta sotto l'egida delle società nazionali, largamente egemonizzate dai nazionalisti, ma formalmente apolitiche e tradizionalmente votate a far da cerniera tra sensibilità patriottiche anche divergenti». È il contesto di «rivolta giovanile» nel quale, ad opera di Giovanni Papini e Giuseppe Prezzolini, nascono il «Leonardo» e poi «Il Regno», il primo periodico nazionalista italiano ideato assieme a Enrico Corradini e ad alcuni esponenti dei Giovani liberali di Giovanni Borelli. E ancora di Filippo Tommaso Marinetti con i futuristi, di cui ha efficacemente trattato Emilio Gentile in La nostra sfida alle stelle (Laterza), che glorificavano la giovinezza come principio guida della storia, con tanto di esaltazione della guerra quale «rito di iniziazione primitivo e necessario di una gioventù votata alla grandezza nazionale». Altre e più importanti riviste furono «La Voce» dello stesso Prezzolini e «Lacerba» di Papini e Ardengo Soffici, che si proponevano di rifondare l'Italia sotto la guida di «minoranze coscienti e volitive», capaci di orientare le masse. «Percepirsi parte di una generazione, rivendicare il primato sociale dell'intellettuale e autocandidarsi alla leadership culturale e politica del Paese erano in sostanza tre momenti di un'unica partitura». Partitura destinata a riproporsi più volte nel corso del Novecento.
Nel 1914-15 la piazza interventista italiana venne «animata da questi giovani ormai trentenni e dai loro fratelli minori, dagli studenti universitari e secondari». Come hanno più volte messo in luce Mario Isnenghi e Silvio Lanaro, forte di un clima culturale e politico ampiamente dissodato, il «codice generazionale assorbì larga parte della propaganda per l'entrata in guerra dell'Italia». La guerra, scrive Papa, «come impeto di eroismo giovanile, come occasione di rigenerazione del "corpo" nazionale infiacchito da un ceto dirigente senile e da egoistiche tensioni sociali, come opportunità per far saltare i vecchi equilibri di potere e promuovere l'ascesa di nuove e virili aristocrazie nazionali». La guerra «nobile voluta dai giovani, per un'Italia destinata a nuova grandezza, contro la guerra ignobile delle classi che nei decenni precedenti aveva rischiato di logorare l'organismo nazionale». Tanto più che quelle guerre erano state perse.
In un saggio dedicato alle «radiose giornate» del '15 (pubblicato da Il Mulino nel volume a più voci Miti e storia dell'Italia unita) Giovanni Sabbatucci, qualche anno fa, ha ben spiegato come questa «piazza» giovanile esercitò una pesante pressione sulle scelte della classe dirigente, al fine di determinare la nostra entrata in guerra a fianco dell'Intesa: «O meglio di impedire che la decisione in tal senso, già presa dai responsabili della politica estera italiana (Salandra, Sonnino, Vittorio Emanuele III) e ufficialmente sancita il 26 aprile dalla firma (peraltro segreta) del Patto di Londra, potesse essere sconfessata da un pronunciamento in senso contrario della Camera elettiva». Democratici intemerati come Bissolati e Salvemini, osservava Sabbatucci, non seppero riconoscere «le valenze antidemocratiche (oltre che antiliberali) implicite in una mobilitazione diretta contro il primo Parlamento eletto in Italia a suffragio (quasi) universale maschile». Personalità di grande spessore civile non avvertirono l'esigenza di dissociarsi dagli «aspetti più beceri e più violenti della campagna interventista»: dalla «ripetuta minaccia (a volte attuata) di passare a vie di fatto contro gli avversari, alla denuncia isterica delle presunte infiltrazioni tedesche nel mondo dell'economia e della cultura (compresa la campagna, di sapore vagamente razzista, contro le "mogli tedesche"), agli insulti distribuiti a piene mani contro la "falsa" rappresentanza elettiva».
È in quel momento che nascono l'idea della «contrapposizione di un Paese reale supposto buono a una rappresentanza giudicata falsa e corrotta», «l'attribuzione alla propria parte del ruolo di autentica interprete degli interessi nazionali», «la rivendicazione della guida del Paese alle minoranze eroiche e alle autodesignatesi élite consapevoli». Sono temi, questi, messi molto bene a fuoco da un altro libro appena pubblicato da Il Mulino: Di padre in figlio. La generazione del 1915 di Elena Papadia. Che quella di cui stiamo parlando sia una generazione esistita come tale è dimostrato dal fatto che essa, ha scritto Papadia, «soddisfa tutti i criteri chiamati in causa di volta in volta per definire un'identità generazionale»: ebbe «una forte coscienza di sé, instaurò un rapporto dialettico/antagonistico con la generazione precedente (e si autoinvestì dunque, letteralmente, di un compito di rigenerazione), si costruì attorno a un evento specifico e per di più altamente perturbante, in grado cioè di interrompere con uno stacco netto il lento fluire degli eventi». La mobilitazione di questi giovani «espresse un rifiuto violento del mondo ereditato dai propri padri (i "figli dei liberatori", ovvero degli eroi del Risorgimento) che appariva corrotto da mercanti e politicanti, estenuato dalla perdita di ogni slancio vitale, dominato dalla gelida logica delle "cose"».
Giovanni Giolitti (grande statista, ma, all'epoca, sottoposto a una campagna ostracizzante: «male nazionale», lo definì Adolfo Omodeo; «ministro della malavita», Gaetano Salvemini) fu eretto a simbolo della generazione dei «figli dei liberatori», dimostratasi «indegna dei propri padri», talché toccava adesso ai ventenni il compito di «redimere la mediocrità della generazione di mezzo, rinnovando appena possibile i fasti della nazione». Di qui «la sovrapposizione continuamente ribadita, anche negli anni del primo dopoguerra, tra i caduti del '15-18 e i martiri e i volontari del Risorgimento che stringeva esplicitamente il nesso tra nonni e nipoti, i quali, diventati "fratelli" nel nome delle comuni idealità e della loro giovinezza, rendevano la posizione della generazione di mezzo sempre più pericolante». Nella generazione dei padri, dopo il 1918, si diffuse, secondo Papadia, un senso di smarrimento nonché di «umiliante subalternità psicologica nei confronti dei giovani artefici della guerra e della vittoria». Sentimenti che diedero un notevole contributo alla riduzione in frantumi della democrazia e allo spalancamento delle porte al fascismo. Fascismo di fronte al quale la «generazione di mezzo» si trovò al cospetto dei suoi figli «in una posizione di drammatica subalternità psicologica e generazionale».
Per tornare al parallelo iniziale con il '68, va notato che se maggio fu il mese clou della rivolta studentesca di fine anni Sessanta, fu nel maggio del 1915 — quando i movimenti giovanili scesero in piazza per imporre l'entrata in guerra — che la «generazione dei figli» occupò definitivamente la scena. E la occupò, sottolinea Papadia, «con una particolare concezione della democrazia che continuò per un certo tratto a caratterizzare anche il campo dell'antifascismo… Democrazia sostantiva e non procedurale, che, in nome di un principio etico superiore, poteva coesistere con il disprezzo del Parlamento, dei partiti e delle maggioranze». E che, soprattutto, «legittimava l'azione di una minoranza virtuosa, convinta di tenere nelle proprie mani il destino della nazione». Del resto tutto può essere ricondotto, secondo Papadia, al «mito di derivazione mazziniana dello Stato nuovo come forma di protesta permanente contro la realtà delle cose, che divenne un tratto identitario di lungo periodo del ceto dei colti».
La storica mette l'accento sulla «reversibilità ideologica di alcuni elementi costitutivi del mazzinianesimo», reversibilità «ampiamente dimostrata dalla fede mazziniana di personaggi di spicco del fascismo e dell'antifascismo, da Giuseppe Bottai a Nello e Carlo Rosselli, da Italo Balbo a Ferruccio Parri, dal Delio Cantimori fascista a quello comunista». Più volte nel nostro Paese ci sarà una minoranza che si autoinvestirà di una missione salvifica nel nome della quale porsi a contrasto delle maggioranze prodotte dalle elezioni. Minoranze eredi inconsapevoli di quella del 1915, caratterizzata da una notevole «carica antiparlamentare e dall'apologia della violenza quale strumento risolutivo della presunta impasse politico-istituzionale in cui versava il Paese».
La presenza di corpose sezioni giovanili della Trento-Trieste e della Dante Alighieri, della Corda Fratres e della Terza Italia, «rese superflua la creazione di veri e propri comitati studenteschi di propaganda interventista». Piuttosto si formarono battaglioni volontari studenteschi più o meno federati alla Sursum Corda, un'altra associazione giovanile, nata a Milano nel 1910, di spiccata matrice irredentista. Battaglioni «che non avevano e non potevano avere alcuna reale aspettativa di partecipare alle operazioni belliche, appagando piuttosto il desiderio dei giovani studenti di esibire pubblicamente la loro volontà guerriera». Volontà guerriera che andò a sfogarsi «con un uso spregiudicato della violenza» contro i neutralisti e, in particolar modo, i socialisti.
Il tono di questi giovani si configura in queste parole pubblicate su «L'ora presente» nel gennaio del 1915: «E poi ché saremo proprio noi giovani che daremo il sangue per questa guerra lungamente attesa, poi ché saremo proprio noi i primi a pagare di persona, si degnino i benpensanti d'Italia di fare qualche inevitabile sacrificio di denaro… Se ritorneremo con le gambe sane ci concederemo l'impagabile gusto di indennizzarli a calci nel sedere». E, in quello stesso gennaio, così scriveva «L'appello dei giovani»: voi socialisti «siete guasti e corrosi dal malor civile, non avete più una speranza, avete perduto tutto ciò che significa conquista, ideale, abnegazione, siete diventati dei bruti tuffati nello sterco, come i dannati nella bolgia infernale… Quando si arriva a tal punto di pervertimento è consigliabile un bel colpo di rivoltella». La campagna contro i professori germanofili e pacifisti reclutò adepti sia nella destra che nella sinistra dello schieramento interventista. All'Università di Roma furono aggrediti i professori Giuseppe Chiovenda e Cesare De Lollis, impedendo a entrambi per giorni e giorni di tenere lezione. Il 20 febbraio del 1915 il rettore decise di chiudere La Sapienza per evitare che fosse occupata dagli interventisti. Subito partirono agitazioni in molti atenei e, sei giorni dopo quel divieto, gli studenti, ricostruisce Catia Papa, si ritrovarono a Bologna per protestare contro «quei professori che calpestano gli ideali di grandezza patria». La sera di quel 26 febbraio si riversarono per le strade con intenzioni — a detta del prefetto — «tutt'altro che pacifiche poiché nella maggior parte erano armati di nodosi bastoni che nascondevano sotto i soprabiti». Le manifestazioni proseguirono fino ad aprile e colpirono ancora De Lollis e, a Milano, il docente del Politecnico Max Abraham, indicato da Benito Mussolini come un «nemico» da espellere «con ogni mezzo» dalla comunità accademica italiana. De Lollis decise di reagire e si rivolse alle autorità, offrendo la sua versione dell'accaduto: «Improperi, minacce, vie di fatto, nulla mancò… Fra quelli dell'uditorio che insorsero a protestare in mio favore e i dimostranti vi furono colluttazioni, dalle quali qualcuno uscì malamente e ben visibilmente contuso». Ma le forze dell'ordine fecero finta di niente e le manifestazioni a lui ostili si intensificarono. Qualche giorno dopo De Lollis incontrò a Villa Borghese uno dei suoi contestatori e lo schiaffeggiò. Ne scaturirono altre agitazioni. Alcune manifestazioni ebbero come meta l'«Avanti!» la cui sede fu fatta oggetto di una sassaiola. Ai primi di maggio il professor Abraham lasciò «volontariamente» il Politecnico, ma gli studenti avevano già obiettivi più ambiziosi e a metà mese assalirono Montecitorio, riuscendo a imporre la guerra a un Parlamento a maggioranza non interventista.
Una volta che l'Italia fu in guerra, le manifestazioni, anziché cessare, ebbero un'intensificazione. A La Spezia si distinse l'associazione Giovane Italia, promossa dal poeta Ettore Cozzani, che incitava contro la «generazione di mezzo», «parassiti ignobili d'un albero nato dal patimento dei padri e nutrito dal sangue dei fratelli maggiori». Nel 1917 la rotta di Caporetto riattivò su larga scala il «corpo studentesco»: all'indomani della disfatta non si contarono gli appelli all'espulsione o all'internamento dei nati nei territori nemici, fu imposta la chiusura degli esercizi commerciali gestiti da tedeschi e furono più volte aggredite le sedi dell'«Avanti!». Comportamenti che si riprodussero negli anni del primo dopoguerra, offrendo un fertile retroterra al movimento mussoliniano. Ma che — ed è questa la suggestione più interessante di Catia Papa — si riproposero anche nel secondo dopoguerra e non solo nel 1968.

Corriere 5.3.13
Pontormo, un diario di follia
di Pierluigi Panza


La misantropia del grande manierista Pontormo corrisponde a quello che oggi il Dsm (Manuale statistico diagnostico dei disturbi mentali) classificherebbe come «disturbo evitante di personalità». Un'ossessione, quasi una fobia, a star solo o solo con chi non ci crea tensioni o malanimo che, nel suo caso, era l'allievo Bronzino e pochi altri. La nuova edizione di L'orologio di Pontormo. Invenzione di un pittore manierista (Bompiani, pp.214, 12,50), arricchita di molti apparati e, in particolare, della riproduzione anastatica del manoscritto «Il libro mio», ovvero il diario che il pittore tenne dal 1554 al 1556, racconta la dura malinconia che portò alla morte il pittore.
Con lessico e perizia letteraria da studioso e scrittore rara avis, Nigro ricostruisce l'ossessione fatta di elenchi di cibi, malesseri intestinali e d'animo, rari incontri e solitudini dell'artista del gigantesco Giudizio Universale in San Lorenzo, che doveva rivaleggiare con Michelangelo ma venne abraso. Il diario sembra quello di un anoressico: minestraccia, carnaccia, castrone, cacio, pane e frattaglie di faine sono enumerati tra notazioni sul maltempo, osservazioni da collezionista dei rumori («gorgoglio della bile», il «rugghio delle viscere»…) e l'eterno tentativo di fingere di non essere in casa per non incontrare nessuno. La follia di Pontormo (nella foto Santa Felicita dall'Annunciazione) emergeva fin dalle secentesche pagine di Giovanni Cinelli: «Il Pontormo diede in un eccesso di melanconia, e per fare al naturale quelle figure del coro di San Lorenzo state sotto l'acque del Diluvio, teneva i cadaveri ne' trogoli d'acqua per farli gonfiare, ed appestar dal puzzo tutto il vicinato». Quello che emerge con chiarezza, ed è sideralmente lontano dalla contemporanea concezione dell'arte e della letteratura alla moda, è che dipingere e scrivere sono condizioni prossime al dolore.
Al diario di Pontormo s'ispirò anche il romanzo di Ingmaj Beck, Dopo Pontormo del 1991; ma qui, nell'indagine sulle pieghe del diario, è descritta espressionisticamente la vita nel suo ruinoso precipitare verso la fine. L'edizione attuale è arricchita di uno scritto di Varchi, uno di Bronzino e un articolo di Giorgio Manganelli apparso sul «Corriere» nel 1985 e nell'introduzione all'edizione tedesca del libro.

Corriere 5.3.13
Il talento di Tiziano
Quaranta capolavori da tutto il mondo Così fu ai vertici nel sacro e nel profano
di Edoardo Sassi


In secoli e secoli di esegesi delle sue opere, su di lui, per provare a descriverne la grandezza, si è detto di tutto: perfino che la storia della pittura si divide in due grandi periodi, prima e dopo Tiziano. Ed è proprio a Tiziano che è dedicata l'esposizione che apre al pubblico oggi, fino al 16 giugno, presso le Scuderie del Quirinale a Roma, a cura di Giovanni Carlo Federico Villa.
Quaranta le opere in mostra, selezionate nella vastissima produzione del pittore natio di Pieve di Cadore, morto a Venezia nel 1576 e protagonista assoluto del secolo «aureo» della pittura italiana («Tiziano è colui che porta la bandiera...» ebbe a dire il genio di Velázquez, e «Siamo tutti carne e sangue di Tiziano» dirà un giorno Delacroix). Tra le altre, il magnifico Concerto — tela tanto a lungo e in parte ancora oggi attribuita al suo maestro Giorgione — e la celeberrima Bella di Palazzo Pitti, uno dei principali prestatori di questa rassegna (da lì arrivano anche la Maddalena, 1531-1535, e il Ritratto di Tommaso Mosti, 1520 circa).
Emozionanti le sale al secondo piano del percorso espositivo, dove il visitatore si trova immerso tra i vertici «profani» della pittura tizianesca, ritrattistica in particolare: la Flora degli Uffizi — massima notorietà per lei fra le tante figure femminili dipinte dall'artista nel secondo decennio del Cinquecento — il Ritratto di Francesco Maria della Rovere duca di Urbino, quello di Giulio Romano e quel capolavoro universale che è il Ritratto di Ranuccio Farnese dodicenne, uno dei prestiti internazionali forti dell'esposizione romana (in arrivo dalla National Gallery di Washington) insieme con il bellissimo Uomo col guanto, giunto dal Louvre e appartenuto in passato alla collezione privata del Re Sole.
Delle celebri Veneri tizianesche è presente in mostra la sola Venere che benda Amore della Galleria Borghese, uno dei quattro pezzi trasportati «Roma su Roma»; gli altri sono il Battesimo di Cristo, dalla Pinacoteca Capitolina, la monumentale Apparizione della Madonna con il Bambino ai santi dei Musei Vaticani e la Salomè con la testa del Battista della Galleria Doria Pamphilij, giustamente affiancata alla Flora, alla quale è iconograficamente affine, per uno dei confronti diretti proposti dal curatore lungo il percorso. E considerata l'inamovibilità della Venere di Urbino, l'oggettiva difficoltà di trasferire opere gigantesche quali Carlo V nella battaglia di Mühlberg, nonché la smisurata produzione dell'artista, la mostra, nonostante alcune assenze (la serie dei «Baccanali», ad esempio) allinea comunque un buon numero di capolavori già a partire dall'Autoritratto del Prado del 1565-1566 circa che apre, idealmente ma anche oggettivamente, il percorso.
Dal museo spagnolo, che detiene una delle collezioni più importanti al mondo di opere di Tiziano, artista di corte prediletto dall'imperatore (oltre che dai Dogi e dai regnanti e nobili di tutta Europa), arrivano inoltre il Ritratto di Carlo V con il cane, del 1533, e la Deposizione di Cristo nel sepolcro (1559), cui si aggiungono altre due opere sempre di provenienza spagnola, il Ritratto del doge Francesco Venier, Museo Thyssen-Bornemisza, e il Cristo Crocifisso dell'Escorial.
Un altro Autoritratto, prestato stavolta da Berlino (Gemäldegalerie) — tela che con il suo non-finito delle mani mostra un grado di espressività moderna davvero stupefacente per l'epoca — quasi chiude una mostra (catalogo Silvana Editoriale, con saggi, tra gli altri, del curatore e di Antonio Paolucci) che si congeda definitivamente dal visitatore con il Supplizio di Marsia, una delle opere più angoscianti della storia della pittura d'ogni tempo sulla quale scrisse pagine illuminanti Erwin Panofsky, con scene di tortura e il dettaglio del cagnolino che lecca il sangue del protagonista legato a un albero e scorticato vivo per volere del dio Apollo a causa del suo peccato di hybris, ovvero della sua superbia.
Al pianoterra, dove l'allestimento si apre con una citazione del grande storico dell'arte veneta Rodolfo Pallucchini, le opere di carattere religioso, molte di grandi dimensioni. Tra queste, la Pala Gozzi di Ancona. Mentre a far da «cerniera» tra prima e seconda parte del percorso c'è lo strabiliante Ritratto di Paolo III senza camauro, da Capodimonte, stesso museo che ha prestato anche la famosa Danae e la pioggia d'oro.
«Dopo la fondamentale retrospettiva a Cà Pesaro del 1935 — spiega Villa — e trascorsi più di vent'anni dall'ultima monografica di rilievo, nonché dopo tante esposizioni che hanno indagato e indagano le diverse fasi della carriera del pittore, questa mostra alle Scuderie intende invece ripercorrere l'intero arco di attività dell'artista, cogliendo i tratti salienti della sua inarrestabile ascesa, dagli esordi veneziani in seno alle botteghe di Giovanni Bellini e Giorgione, all'autonomia acquisita con le grandi tele per i dogi, gli Este e i Della Rovere, fino ad arrivare alle committenze imperiali di Carlo V e poi del figlio Filippo II».

Repubblica 5.3.13
Alle Scuderie del Quirinale la grande mostra sul maestro che aprì una nuova via nell’arte
Fu descritto come “il ponte tra la civiltà dell’Ariosto e quella di Shakespeare”
Il signore della luce e l’essenza della pittura
di Lea Mattarella


ROMA «Siamo tutti carne e sangue di Tiziano», ha affermato Eugène Delacroix. E questo la dice lunga sulla modernità insuperabile del pittore, che ha attraversato il Cinquecento (muore nel 1576) rivoluzionando il proprio linguaggio e restando però saldamente all’interno della tradizione pittorica veneziana.
La mostra aperta alle Scuderie del Quirinale di Roma da domani e fino al 16 giugno (catalogo Silvana) è l’ultima tappa del viaggio attraverso la grande pittura veneta che ha visto in precedenza, in questi stessi spazi, le esposizioni monografiche di Giovanni Bellini, Lorenzo Lotto, Tintoretto alle quali si può aggiungere anche quella di Antonello da Messina che giunge in laguna dalla Sicilia. «Abbiamo voluto dimostrare – spiega Giovanni Carlo Federico Villa, curatore di questa bella rassegna – che tra il 1460 e il 1570 Venezia è stata il luogo di incubazione del linguaggio pittorico moderno che si nutre di un umanesimo “repubblicano” e di un primato del colore capace di irradiare non soltanto la costruzione dei quadri, ma anche il mosaico, i vetri, i tessuti».
Questo appare chiaro fin dal tenebroso Martirio di san Lorenzo, superba pala d’altare che apre l’esposizione. Arriva dalla cappella di Lorenzo Pezzana nella chiesa dei Gesuiti di Venezia, che proprio in questa occasione sarà restaurata. Si tratta di un’opera drammatica, piena di agitazione e di pathos in cui la notte e il fuoco della graticola su cui è stato trascinato il giovane diacono e delle fiaccole tenute dai suoi torturatori mettono in scena una vera e propria lotta, basata su un audacissimo contrasto luministico. Siamo in una data compresa tra il 1547 e il 1559 e Tiziano è diventato da tempo uno dei pittori più ambiti del suo tempo. Ha lavorato per corti importanti come Mantova e Ferrara, ma anche per Carlo V che conquisterà dopo aver realizzato la copia del suo ritratto con il cane dipinto da Jacob Seisenegger nel 1532, trasformando un’opera dominata dal disegno in un evento cromatico.
Era nato a Pieve di Cadore, probabilmente nei primi anni novanta del Quattrocento, ed era arrivato a Venezia intorno ai 13 anni. Da Giovanni Bellini e da Giorgione aveva appreso il “tonalismo”, ovvero il modo di dipingere tipico della pittura veneziana, basato sul protagonismo della luce, in contrapposizione a quello fiorentino governato dal disegno. Ciò non impedirà a Tiziano di guardare con grande attenzione Michelangelo, colui che più di tutti incarna questa esaltazione della linea di contorno. Tanto da far dire al letterato suo contemporaneo Ludovico Dolce che in lui si poteva ritrovare «la grandezza, e terribilità di Michelangelo, la piacevolezza e venustà di Raffaello, ed il colorito proprio della natura ». Ma come sottolineato da Erwin Panofsky per Tiziano tutte le influenze «servirono soltanto a nutrire la sua originalità. Nessun altro grande artista si appropriò di tanto facendo così poche concessioni; nessun altro grande artista fu tanto flessibile pur restando completamente se stesso».
La mostra racconta in 40 opere la sua geniale duttilità. Ad abbracciare questa costellazione di dipinti nella prima e nell’ultima sala ci sono due autoritratti dell’ultimo periodo. Il primo è una sinfonia in nero da cui emergono il volto affilato dalla vecchiaia e la mano che tiene ancora saldamente il pennello. Il secondo è impressionante per la qualità della pittura scabra e per lo sguardo vivace e imperioso che guarda lontano. Le mani appena accennate e la posizione assertiva rivelano la grande considerazione di sé e della sua pittura.
La mostra segue poi un ordine cronologico e una divisione in pittura sacra, ritrattistica e pittura profana. Si assiste così al suo lungo cammino artistico attraverso icone celeberrime come il Ritratto di papa Paolo III, il Concerto, la Flora, una delle opere più copiate della storia dell’arte. Tanto da indurre alla fine dell’Ottocento il direttore degli Uffizi a fare un decreto che vietava che ci fossero più di 5 copisti davanti al quadro. Se Flora rivela una sensualità quasi involontaria, è Danae a suggerire una carnalità quasi sfacciata. L’esposizione presenta anche opere più rare come la pala, già a San Nicolò dei Frari a Venezia e ora nella Pinacoteca Vaticana, ammirata da Goethe come un quadro perfetto che “risplendeva ai miei occhi”, o il Ri- tratto del cardinal Pietro Bembo, un mosaico eseguito da Valerio Zuccato su cartone di Tiziano che l’artista portò a Roma in dono all’alto prelato per ingraziarsene i favori. «La scelta di questa tecnica si ricollega alla profonda conoscenza della cultura greca da parte di Bembo», sottolinea Villa. Tra le rarità c’è anche il Cristo crocifisso che si conserva nella sacrestia dell’Escorial, dove lo si può vedere solo una volta l’anno. Una forte componente belliniana si rivela tra i dipinti giovanili come Il vescovo Jacopo Pesaro presentato a san Pietro da papa Alessandro VII e la Madonna con il bambino e i santi Caterina, Domenico e il donatore costruito per masse cromatiche luminose. Bellissima la carrellata di ritratti: da quello di Paolo III con lo sguardo di brace e le mani che parlano, di cui Vasari racconta che quando fu messo su un terrazzo per “verniciarsi” i passanti «credendolo vivo gli facevon di capo», all’Uomo col guanto, giovane malinconico e misterioso, fino a quello di Ranuccio Farnese, bambino impacciato sotto un manto per lui troppo grande. L’imperatore, cortigiani, dogi, dame, artisti: tutti volevano farsi effigiare da Tiziano.
E la sua pittura nel frattempo mutava: la tavolozza si scuriva e la pennellata diventava sempre più essenziale e fluida. «Tiziano non dipinge con la materia, lo si è creduto perché spesso è stato studiato sulle fotografie, ma in realtà tutta la sua pittura è a risparmio, scarna, semplificata, costruita per velature molto sottili sovrapposte, proprio come faceva Bellini », sostiene ancora Villa. Ed è proprio questo modo di dipingere del Tiziano maturo che ne fa il pioniere di un modo nuovo di afferrare il mondo con lo sguardo. Rembrandt, Velázquez, Rubens, Goya ne faranno tesoro. Tiziano è punto di passaggio tra due mondi, o meglio, come affermava Rodolfo Pallucchini, «tra due civiltà, quella dell’Ariosto e l’altra dello Shakespeare».

Repubblica 5.3.13
Il supplizio che sconvolse l’Occidente
La punizione di Marsia arrivò a Londra per la prima volta nell’83
di Carlo Alberto Bucci


Nel 1983 l’arrivo a Londra dall’allora Cecoslovacchia della Punizione di Marsia fu uno shock per il pubblico della mostra The Genius of Venice.
Bellezza e orrore apparvero inscindibili in questa tela che per la prima volta superava la cortina di ferro e in cui carne e colore, sangue e dolore, si mischiano ed esaltano nel tocco “digitale” dell’ultimo, grandissimo Tiziano. Per i Nuovi selvaggi tedeschi e per gli artisti della Transavanguardia fu un piacere scoprire che il loro ritorno alla pittura poteva trovare una radice nobile nei tocchi con le dita del maestro vissuto 400 anni prima. Baselitz, in particolare, poteva specchiare i suoi uomini dipinti a testa in giù nel corpo rovesciato del satiro martoriato in un Pulp fiction ante litteram.
Dall’ormai lontano 1983 il La Punizione di Marsia ha molto viaggiato inseguendo le esposizioni su Tiziano poiché è opera fondamentale nel percorso artistico, ed esistenziale, del pittore. Dipinta tra il 1570 e l’anno della morte del maestro (1576), la grande tela è oggi conservata nel museo di Kromeríz, nella Repubblica Ceca. Di difficile fruizione negli anni della guerra fredda, l’opera è stata studiata dal vivo da Augusto Gentili per il suo libro del 1980 Da Tiziano a Tiziano (Feltrinelli). Lo studioso italiano ha inserito questa raffigurazione capitale di “martirio” – che ricorda quello di san Pietro – nella riflessione che il pittore fa negli ultimi suoi anni intorno al potere: Apollo, solare divinità delle arti, si trasforma in belva feroce e scortica vivo il satiro dopo averlo sconfitto nell’impossibile sfida di una gara musicale. Il quadro di Tiziano è copia fedele di uno scolorito affresco di Giulio Romano a Mantova, noto da un disegno oggi al Louvre. In entrambe le opere alla base ci sono le Metamorfosi e i Fasti di Ovidio con l’intreccio tra due favole: quella di Apollo e Marsia e l’altra del giudizio di Mida nella gara di Apollo e Pan. Nell’affresco di Giulio Romano Mida – condannato a morire di fame dopo che si vide esaudito il desiderio di trasformare in oro tutto ciò che toccava – si copre gli occhi per non vedere. Nella Punizione di Marsia di Tiziano, invece, Mida è nella posizione del melanconico e medita sul proprio errore. Ed è ormai opinione condivisa vedere nei lineamenti del re pentito i tratti inconfondibili del viso di Tiziano, il vecchio pittore “dal tocco d’oro” ritrattosi nei panni dell’uomo che osò giudicare gli dei.
Testo pittorico sublime, il dipinto che, come ha sottolineato Michele Di Monte nel 1999, pone Marsia (esattamente l’ombelico del satiro) al centro della scena e lo fa dialogare con noi attraverso lo sguardo, è stato frutto di numerose e opposte interpretazioni: è un atto d’accusa verso il potere estremo e capriccioso degli dei o è invece un’allegoria del percorso artistico che deve sacrificarsi e scarnificarsi per raggiungere la purezza del canto? Ci pensa Luisa Attardi a riepilogare le molte letture nella corposa scheda nel catalogo della mostra. La critica è anche divisa sulla completa autografia del dipinto: il musico con la lira e il bambino con il grosso cane quasi certamente sono stati aggiunti da seguaci di Tiziano alla sua morte anche se per altri studiosi il quadro è tutta farina del suo sacco. A noi rimane l’incanto di una tragedia che, nei contenuti come nella forma, incarna l’eterno: il “non finito” di Tiziano da leggersi, sulla scorta di Jérémie Koering, come “pittura infinita”.