mercoledì 6 marzo 2013

l’Unità 6.3.13
Pd, batti un colpo
La proposta Bersani alla prova della direzione. Renzi vede Monti: non farò strappi
La sfida di Bersani «Subito una svolta»
Oggi alla Direzione il segretario illustrerà gli otto punti su cui intende formare il suo governo
Le proposte saranno pubblicate on line per favorire una discussione pubblica
I temi scelti rappresentano già dei paletti nei confronti del centrodestra
di Simone Collini


Serve un governo per il cambiamento. E non può nascere da alchimie di Palazzo. Né tanto meno da un accordo con il Pdl. Oggi Pier Luigi Bersani ribadirà il no al governissimo, illustrerà gli otto punti con i quali intende presentarsi alle Camere per chiedere la fiducia e, mettendo ai voti la sua relazione, chiederà ai membri della Direzione del partito un mandato pieno ad andare a chiedere l’incarico al Quirinale. Il leader del Pd sa che il passaggio di oggi sarà fondamentale per poter affrontare al meglio le tappe successive. Avere alle spalle un partito unito è per Bersani la precondizione per poter poi proseguire su una strada che, a detta di tutti, è decisamente stretta. La strategia è quella di proporre alle forze parlamentari, e in primis al Movimento 5 Stelle che si presenta come una forza che lavora per il cambiamento, un programma qualificato composto per metà da norme riguardanti la legalità e la moralità pubblica, per metà misure utili ad affrontare la crisi economica e sociale.
Gli otto punti che Bersani illustrerà aprendo stamattina i lavori della Direzione (che saranno trasmessi in streaming su Youdem.tv) sono questi: Europa (serve una correzione delle politiche Ue: non solo rigore ma crescita), misure urgenti per il lavoro e il fronte sociale, riforma politica, leggi contro la corruzione e la mafia, conflitti di interesse, green economy ed efficienza energetica, diritti, istruzione e ricerca. «Otto punti dai quali partire», nell’intenzione del segretario Pd, e che «possono dare in tempi brevi il segno di una svolta, nel tentativo di colmare il divario che c’è tra cittadini e politica».
Quella di Bersani non è soltanto di una sfida lanciata a Beppe Grillo e ai senatori Cinquestelle, il cui voto è decisivo per avere la maggioranza a Palazzo Madama, ma anche un modo per fissare paletti ben precisi sulle leggi che il Pd vuole approvare. E quindi, di fatto, per escludere la possibilità di qualunque forma di governo insieme a Berlusconi. Le proposte di legge a cui quegli otto titoli si riferiscono verranno infatti pubblicate on-line già da domani, e inviate ad altre forze politiche, movimenti, associazioni.
L’obiettivo è quello di aprire una discussione pubblica e di mostrare che l’ipotesi di un governo sostenuto da Pd e Pdl non può neanche essere presa in considerazione. «Quegli otto punti affrontano le due questioni prioritarie spiega Bersani agli interlocutori che incontra alla vigilia della Direzione il fronte della legalità e della moralità e quello economico e sociale. Se quelle leggi venissero approvate in tempi rapidi si potrebbe ridurre la distanza tra politica e cittadini che anche queste elezioni hanno espresso, altre soluzioni invece non andrebbero nella direzione giusta». Ma per realizzare il piano, prima di tutto Bersani dovrà incassare il via libera dal gruppo dirigente del partito.
Nel giorno della vigilia della Direzione, caratterizzato da colloqui e incontri preparatori delle diverse componenti del partito, il sostegno alla linea annuncia da Bersani viene dato per scontato un po’ da tutti. E non è escluso che al netto di alcune astensioni e assenze al momento del voto (che però si farebbero certamente notare) il pronunciamento alla fine sia sotto il segno dell’unità.
È vero che Walter Veltroni, Paolo Gentiloni e anche Matteo Renzi (che oggi potrebbe intervenire per la prima volta da quando è sindaco di Firenze in una Direzione Pd) non hanno nascosto perplessità sulla linea proposta da Bersani e soprattutto sul’aut-aut governo di combattimento o urne anticipate evocato in qualche occasione dal segretario Pd. Ma oggi il segretario democratico si guarderà bene dall’evocare le elezioni anticipate. È infatti questa la condizione per non aprire lacerazioni nel partito. Ma nel ragionamento dovrebbe comunque emergere che qualunque ipotesi di governo che dipenda dai voti di Pd e Pdl è da escludere. Compresa quella che veda Renzi a guidare l’operazione. L’incontro di ieri a Palazzo Chigi tra il sindaco di Firenze e Mario Monti non sembra preoccupare il segretario democratico. Perché non è con alchimie di Palazzo, spiegano al Nazareno, che si può rispondere alla domanda di cambiamento che è emersa dal voto, perché in un momento di crisi come questo sarebbe impensabile che qualcuno lavorasse a dividere il primo partito e perché, conti alla mano, con il no di Bersani a governi col Pdl non potrebbe nascere una maggioranza al Senato. L’importante, viene spiegato al quartier generale del Pd, è non provocare ora strappi. E infatti oggi non verrà messo agli atti alcun aut-aut.
A frenare sulla linea «o Bersani premier o elezioni a giugno», sostenuta soprattutto dai cosiddetti Giovani turchi, non ci sono soltanto veltroniani e renziani ma anche chi, come Vannino Chiti, pensa che «andare al voto anticipato senza una nuova legge elettorale sarebbe un suicidio politico e un atto di irresponsabilità verso il Paese».
Ma è lo stesso vicepresidente del Senato a sottolineare come nei prossimi mesi ci sono temi troppo delicati dal punto di vista economico e sociale per essere affrontati da un governo tecnico. Lo studio di Bankitalia sulle difficoltà economiche delle famiglie italiane, verrà citato da Bersani proprio per sostenere la linea del «governo di combattimento». La linea rimane quella di sfidare i parlamentari Cinquestelle perché, come spiega Nico Stumpo, «bisogna ricordare che in quel 25% che li ha votati c’è gente che soffre e che ha problemi a mettere insieme il pranzo con la cena, e loro devono dargli risposta».

il Fatto 6.3.13
Bersani contro un muro con l’appoggio del Pd
Oggi la Direzione gli darà mandato di cercare l’accordo con Grillo
Ma Vendola: “Ci provi, poi lasci spazio a un altro”
di Fabrizio d’Esposito


Oggi ci sarà l’attesissima direzione del Pd e l’esito finale, molto probabilmente, sarà un paradosso: Bersani solo contro tutti ma che raccoglierà un voto unanime per andare al Quirinale e chiedere un mandato esplorativo, non pieno. Allo stesso tempo le manovre di Napolitano avrebbero aperto un varco nel bunker che rinchiude il segretario e i suoi fedelissimi. Così viene letta, all’interno del Pd, la mossa di Sel alla vigilia della direzione del Pd: un’alternativa a Bersani premier per dialogare con il Movimento 5 Stelle. Cioè, una figura di altissimo profilo (Stefano Rodotà) che possa portare avanti una “piattaforma con i grillini”. Per la serie: dopo l’incarico-suicidio a Bersani non c’è solo il voto.
La questione delle urne anticipate è destinata a rimanere in sospeso anche nella riunione democratica di oggi, e che sarà in diretta streaming per non essere da meno al M5S. Dovrebbe essere questo il punto di equilibrio tra il segretario e le varie anime del partito per evitare una drammatica conta. Almeno a parole, tutti dovrebbero essere d’accordo per consentire a “Pier Luigi di farsi il primo giro” e sottoporre ai grillini il fatidico programma da otto punti per il “cambiamento”. Dando per scontato il fallimento del mandato esplorativo, che cosa succederà dopo? Su questo il Pd è pronto a dividersi e spaccarsi, nonostante la tregua di oggi. La linea di “Bersani o morte”, propugnata dai Giovani Turchi, prevede il voto appena possibile, tra pochissimi mesi. Secondo alcuni calcoli fatti, ai primi di luglio, in piena estate.
Al contrario la linea dei veltroniani, tanto per citare i più esposti (dallo stesso Veltroni all’ex ministro Gentiloni), contempla un “governo del presidente”, cioè Napolitano, che mascheri in qualche modo la riedizione della strana maggioranza (Pd, Pdl e montiani) e porti il Paese alle urne entro ottobre. Insomma, un governo di scopo che assomiglia molto a un governo balneare, tipico della Prima Repubblica. Bersani quindi andrà sino in fondo, da candidato premier della coalizione politica che ha vinto alla Camera e al Senato ha la maggioranza relativa (come Pd, però). Questa l’unica certezza, di cortissimo respiro, che partorirà la direzione di oggi. Integrata da un altro slogan unanime: “Mai più con Berlusconi”. Quest’ultimo paletto è destinato a vacillare presto, nei fatti. Perché, per quante formule possano essere trovate, Pd e Pdl come maschereranno il loro eventuale sostegno a un esecutivo tecnico in caso di fallimento di Bersani? Sempre che Napolitano non tiri fuori un altro tipo di coniglio dal cilindro, per usare la metafora più gettonata. Tra il mandato a Bersani e l’orizzonte tecnico per evitare il voto (il governatore Visco?), il Colle potrebbe individuare una personalità gradita ai grillini (Barca, oltre al già citato Rodotà). È il cosiddetto piano B delineato alla direzione di Sel ieri e che aprirebbe una nuova fase. Il problema però è il tempo. Napolitano, che in queste ore è distante anni luce dal Pd versione Bersani, vuole evitare inutili manovre dilatorie e non rinviare il problema del governo al suo successore. Il suo incubo è questo: consegnare al prossimo inquilino del Colle uno “scenario apocalittico da Weimar”, quando in Germania il voto ravvicinato aprì la strada alla dittatura nazista.
In questa fase, un’incognita relativa è rappresentata da Matteo Renzi. Certo, ai bersaniani, ha dato molto fastidio l’incontro di ieri tra il sindaco di Firenze e il premier Mario Monti, che sta svolgendo una sorta di preconsultazioni (Bersani dovrebbe andare domani o venerdì). Il colloquio viene inquadrato nella strategia di Napolitano per trovare una via d’uscita alternativa alla linea bersaniana. In ogni caso, non sarà Renzi l’uomo di un governissimo. Manterrà la parola di non essere il “pugnalatore” di Bersani. È questo che lui stesso continua a ripetere ai suoi e oggi in direzione farà un intervento per ribadire che “non sono io l’anti-Bersani”. Non solo, il sindaco di Firenze non vuole confondersi con le manovre della nomenklatura, interessate al governissimo travestito anche per ambizioni personali. Quando sarà, deciderà lui come giocarsi la sua partita e c’è chi giura che non farà prigionieri, nemmeno fra quanti lo sostengono oggi. Oggi il match è solo tra Napolitano e Bersani, con il terzo incomodo del mister X gradito ai grillini.

La Stampa 6.3.13
Bersani tira dritto “Non c’è alternativa alla mia proposta”
Oggi la direzione del Pd: il segretario cercherà di convincere tutti i big dell’accordo con Grillo
Ribadirà il «no» all’intesa con il Pdl, ma nessun aut aut sul ritorno al voto: «La decisione spetta a Napolitano» Il faccia a faccia tra il premier e il rottamatore è stato visto come un’indebita ingerenza nelle questioni interne al Pd
di Carlo Bertini


«Io tiro dritto per andare fino in fondo, non esiste alternativa alla mia proposta di un governo di minoranza, perché se è vero che questa strada è difficile e complicata, altre ipotesi sono altrettanto difficili, se non di più». Chi ha parlato con Pierluigi Bersani in queste ore lo dipinge come ben determinato a non demordere e oggi in Direzione il leader Pd cercherà di compattare il partito con un voto se possibile unanime per arrivare alle consultazioni con Napolitano da una posizione di forza. Certo per riuscire a non complicare una riunione che altrimenti potrebbe trasformarsi in uno psicodramma, per evitare che si aprano dibattiti molto spinosi dagli esiti imprevedibili, Bersani starà ben attento a non porre l’aut aut che spaccherebbe il partito, evitando di evocare elezioni immediate come sbocco inevitabile in caso di fallimento della sua sfida a Grillo.
Consapevole che si tratta di un percorso già bocciato dal leader dei 5 Stelle, si limiterà a piantare sul terreno un paletto, dicendo no ad altre ipotesi di governo con Berlusconi, ma oltre questo non dovrebbe andare. Perché «siamo rispettosi del fatto che la scelta spetta comunque a Napolitano, ma è altrettanto evidente che chi ha la maggioranza assoluta alla Camera e quella relativa al Senato possa tentare una strada». E questa strada che altro non è se non una sfida a Grillo a dire di no verrà delineata indicando gli otto punti di questo «governo del cambiamento» che verranno presentati con precise proposte di legge di qui ai prossimi giorni: Europa, per una correzione delle politiche Ue; misure urgenti per il lavoro e il fronte sociale; riforma della politica; leggi contro corruzione e mafia; conflitti di interesse; green economy ed efficienza energetica; diritti; istruzione e ricerca. Una serie di punti programmatici con una «piattaforma che parta dal basso, raccogliendo contributi da associazioni e movimenti», per mettersi in sintonia con il mondo dei grillini.
Ecco, se il perimetro rimarrà questo, le cose dovrebbero filare via lisce, anche perché nessuno dei maggiorenti ha intenzione di aprire oggi una fronda contro il segretario, da cui tutti almeno si aspettano un’analisi del voto realistica, «come di una sconfitta e non certo una vittoria», fa notare un ex Dc. Ma dietro questo proscenio, tutto è in movimento: incontri e contatti ad ogni livello, pranzi tra bersaniani e renziani per sondarsi sul dopo e diplomazie di ogni sorta all’opera per evitare strappi.
Non è piaciuto affatto nel quartier generale di Bersani il colloquio di due ore tra il sindaco di Firenze e il premier Monti, vissuto come indebita ingerenza nelle questioni interne ad un altro partito. E sullo sfondo si muovono due diverse visioni nel caso, dato da molti per scontato, che il tentativo di fare un governo a guida Pd con i voti di Grillo non vada a buon fine: c’è chi come i giovani turchi e molti bersaniani immagina di andare a votare a giugno o luglio, magari addirittura con Bersani ancora al timone della coalizione; e chi pensa sia meglio tornare a votare non prima di un anno, dopo una parentesi di un governo del presidente che faccia poche essenziali riforme. E a questa categoria possono essere iscritti big come Veltroni, Gentiloni o Fioroni, ma anche Franceschini o Letta, che vogliono esser leali fino in fondo con Bersani ma sono convinti che prima di votare bisognerebbe comunque cambiare il porcellum che riporterebbe a una situazione di ingovernabilità con doppie maggioranze nelle due Camere.
«Mi auguro che la Direzione ribadisca l’importanza di dare un governo al paese e di porre Grillo di fronte alle sue responsabilità», la mette così Fioroni. «L’incarico a Bersani non posto come un aut aut al Colle», fa notare Gentiloni. Magari tra il leader e la pancia più dura dei 340 deputati, «di cui 290 non voterebbero niente con Razzi e Scilipoti», per dirla con un bersaniano, ci potrà essere un gioco delle parti: con i pasdaran alla Orfini o Fassina che potrebbero ripetere quanto vanno dicendo in queste ore: «Non rientra tra le prerogative del Colle definire la linea politica del Pd», avverte Orfini. «O governo di scopo o si vota», taglia corto Fassina. «Il Pd sarà unito su una proposta chiara: noi diciamo no a ipotesi di governissimi con Berlusconi», è la linea della Finocchiaro concordata con Bersani.

Repubblica 6.3.13
Mugugni, dissensi e timori l’ipotesi nuove urne divide il Pd ma la resa dei conti è rinviata
Oggi in direzione via libera scontato al segretario
di Giovanna Casadio


ROMA — Quelli che scherzano: “Ora in streaming sul web, dobbiamo presentarci come hanno fatto i grillini?». Ironia amara alla vigilia della Direzione democratica, per la prima volta trasmessa in diretta. Quelli che prendono atto della «gravità del momento» e non hanno voglia neppure di una battuta. I fratellicoltelli, le correnti, le diverse anime ribollono nel “parlamentino” democratico. Siamo al punto di massima tensione. Però lo tsunami elettorale non consente vecchi copioni. Non ora, non oggi. Non più D’Alema e Veltroni contro, la musica è cambiata nelle urne.
Oggi c’è Renzi, che per la prima volta interverrà in Direzione. Non lascerà solo Bersani e appoggerà la linea di tentare un governo con i 5Stelle, anche se è la cosa che lo convince di meno: «Mollo il segretario solo dopo che l’ha lasciato Migliavacca...», scherza il sindaco “rottamatore”. Maurizio Migliavacca è il capo della segreteria bersaniana, piacentino, fedelissimo, l’uomo a cui Bersani affida le patate bollenti. La rotta l’hanno discussa di nuovo insieme, ieri. Con lui si è confrontato il leader per limare quegli otto punti di governo - correzione delle politiche Ue; misure urgenti per il lavoro; riforme della politica; conflitto d’interessi; diritti; green economy; scuola e ricerca - e per andare avanti nel tentativo di formare un governo con l’appoggio dei grillini.
Nella nuova geopolitica democratica sono i “giovani turchi” a fare la parte del leone. Sono loro a delimitare il perimetro di movimento del segretario; loro che alzano la voce e chiudono del tutto alla possibilità di un piano B. Stefano Fassina, Alessandra Moretti, Matteo Orfini, Andrea Orlando, il segretario dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini condividono la strategia di Bersani e anzi ne accentuano l’ultimatum: nessuna uscita secondaria, o si fa un governo con i 5Stelle o si va al voto. A guidare il tentativo non può che essere Bersani. Eventuali governi tecnici? «No», è la risposta secca. E soprattutto: «Mai con il Pdl, mai con Berlusconi». Nico Stumpo, un altro dei giovani bersaniani, lo ripete a muso duro. In vista di questo copione, ha deciso di disertare la riunione Marco Follini. Parla di disagio, di «un passo e mezzo indietro» per via di una linea in cui non si riconosce.
Follini è tra i più convinti sostenitori del governo del presidente. Spetta cioè a Napolitano decidere, e meglio sarebbe affidare l’incarico di governo a una figura terza. Al di là dell’assenza politica di Follini, quelli che - come Veltroni, Tonini, Gentiloni - condividono questa posizione, non andranno però alla resa dei conti. «Saremo tutti con Bersani e speriamo che Grillo non chiuda del tutto », annuncia Walter Verini, braccio destro dell’ex segretario. Non è al primo giro di giostra che il Pd si spaccherà. Potrebbe addirittura concludersi con l’unanimità la riunione di stamani. Poi, se Bersani dovesse fallire, si riapriranno anche i giochi dentro al partito.
Ieri sera si è riunita Areadem, la corrente di Franceschini, per fare il punto. Franceschini e Enrico Letta, il vice segretario, si muovono di concerto. «Siamo molto in sintonia» dicono entrambi. «Mandato pieno al segretario», dichiara Letta. «Un passo per volta», aggiunge. Cosa significa? «Non si può ragionare adesso su quello che accadrà dopo». Se l’impresa di Bersani fallisse, tutto andrebbe riconsiderato? Potrebbe essere indispensabile un appoggio a un governo tecnico, oppure si dovrebbe trovare la quadra con un esecutivo guidato da un altro esponente democratico. Insomma, un piano B ci deve essere per forza. Non è però questo il momento di fasciarsi la testa. «La situazione va gestita passo per passo», ragiona Letta. Così la pensa anche Beppe Fioroni.
I dissensi covano sotto la cenere. E D’Alema? Il “lider Maximo” per ora si è allineato. E pare che Orfini, ex dalemiano, lo abbia invitato a non esporsi a interviste, a dichiarazioni. Il vento del cambiamento soffia e soffia forte. Ivan Scalfarotto, renziano, chiederà di avviare al più presto le pratiche del congresso. E intanto potrebbe esserci una reggenza “pro tempore” del vice Letta. Non è tuttavia al proprio ombelico o alla punta delle proprie scarpe - citazioni bersaniane - che guarderà la direzione. Su questo i fratelli - rinfoderati i coltelli - sono tutti d’accordo. I più scettici su Grillo e sulla possibilità di coinvolgere un movimento antagonista nel governo del paese e nel rispetto degli impegni europei, staranno intanto a guardare.
Rosy Bindi afferma di essere tra i “non allineati”: considererà, valuterà. Si rischia un unanimismo di facciata? «È che tutto è molto fluido, e un tentativo politico va fatto assolutamente e affidato a Bersani. Con un accorgimento: il voto sarebbe il trauma definitivo per il paese», afferma Antonello Giacomelli. Non ci sarà una conta, non subito.

Repubblica 6.3.13
E il segretario apre al piano B
E Pierluigi ora rinuncia all’ultimatum “Dopo di me non ci sono solo le elezioni”
Per tenere unito il Pd, Bersani non minaccerà le elezioni a giugno, eviterà l’aut aut «o il mio governo o si torna a votare»
“Ma mai un governo con Berlusconi”. Le frizioni con il Quirinale
di Goffredo De Marchis


PER tenere unito il Pd, Bersani non minaccerà le elezioni a giugno, eviterà l’aut aut «o il mio governo o si torna a votare». Anche Giorgio Napolitano, con il quale i rapporti non sono idilliaci in questa fase, osserva le mosse della direzione democratica. Ma il segretario pianterà un paletto che sembra destinato a escludere qualsiasi forma di collaborazione con gli avversari di sempre. E quindi a restringere il campo di un’alternativa alla sua impresa.
«CHE sia tecnico, del presidente, di emergenza, per me non esiste alcun governo con Berlusconi ». Con il politico che «compra De Gregorio», che secondo la procura avrebbe avvicinato «anche Razzi e Scilipoti», non si tratta e non si vota la fiducia.
Il paletto può essere accettato da tutti e scongiurare una conta che, all’indomani della sconfitta, rischierebbe di spaccare il Partito democratico definitivamente seppellendolo sotto le macerie. Ognuno però ascolterà le parole del segretario con un retropensiero diverso, con orizzonti che non hanno lo stesso colore. Per i bersaniani di più
stretta osservanza la partita non è ancora persa. «Qualcosa si muoverà nel Movimento di Grillo. Noi dobbiamo proporci con umiltà e con senso di responsabilità. Dando la prova di un cambiamento radicale». Questa prova è affidata agli 8 punti del programma: Europa (correzione delle politiche Ue, non solo rigore ma crescita), misure urgenti per il lavoro e sul fronte sociale, riforma della politica, leggi contro corruzione e mafia, conflitti di interesse, green economy ed efficienza energetica, diritti, istruzione e ricerca. È la base di un corteggiamento che ha già registrato molti rifiuti netti dai grillini. Secondo Bersani, però, non sta in piedi una seconda scelta «e anche Napolitano deve discutere con noi», dice un collaboratore del leader.
Ma la linea oltranzista, nel corso di questi giorni, è stata abbandonata. Anche Bersani si chiede se non ci sia uno sbocco differente, anche senza Berlusconi, magari rinunciando a guidare in prima persona l’esecutivo. Il segretario ha perso
pezzi della sua maggioranza interna sulla trincea delle elezioni immediate. Da D’Alema a Enrico Letta, i suggerimenti di prudenza sono arrivati forti e chiari. I due dirigenti hanno garantito lealtà assoluta al tentativo bersaniano, ma avvertendolo: «Se non va in porto l’intesa con Grillo, si azzera tutto e si ricomincia daccapo». Cioè, la parola passa al capo dello Stato e si esaminano anche soluzioni nuove che non portino il Paese dritto dritto alle urne. Stavolta D’Alema e Matteo Renzi navigano nella stessa identica direzione. Il sindaco di Firenze conferma che «non pugnalerà Bersani» e che non gradisce le prese di distanza del giorno dopo. Ma è convinto che il segretario non ce la farà.
La direzione di oggi segnerà anche un passaggio importante per la storia futura del Partito democratico. Renzi infatti, seppure sulla posizione della lealtà estrema, prenderà la parola. È la prima volta che lo fa in quella sede, davanti alla nomenklatura del Pd che non lo ama. In altre occasioni si era sempre limitato a un’assenza giustificata (si fa per dire) o una breve visita prima di riprendere al volo il treno. Renzi non pugnala perciò, ma sente “l’odore del sangue”. «Non c’è dubbio, il suo discorso sarà uno spartiacque. Mette un piede dentro al partito per conquistarlo », è l’opinione di D’Alema e Letta. Quando alludono all’azzeramento, l’ex premier e il vicesegretario pensano del resto anche alla leadership del Pd, al ruolo di Bersani, che in caso di bocciatura del governo Pd-M5s, è destinato a lasciare la segreteria aprendo la corsa alla successione. Con Renzi grande favorito.
Bersani si gioca tutto, sul fronte del governo e sul fronte del Pd. A invocare le elezioni anticipate sono rimasti i giovani turchi di Matteo Orfini e Stefano Fassina. Non a caso, ieri, esclusi dalle consultazioni del segretario e del suo staff. Il segretario non li segue, preferisce giocarsi le sue carte in Parlamento e al Quirinale. Perché il suo obiettivo è far partire comunque un governo, presentandolo alle Camere, cercando lì i voti necessari ad andare avanti. «Un sentiero strettissimo, ma quello di una maggioranza con Berlusconi lo è anche di più».

l’Unità 6.3.13
I giovani turchi: intesa col Pdl sarebbe la fine
di Maria Zegarelli


Una serata densa di incontri quella di ieri in vista della direzione di questa mattina al Nazareno. Nessuna convocazione formale, per evitare rischi di fraintendimenti sulle invise (alla luce dell’ondata di insofferenza traboccata dalle urne) riunioni di corrente, piuttosto «un’occasione per fare il punto della situazione». Dario Franceschini ieri sera ha incontrato i suoi deputati e senatori più vicini, la linea è quella dell’appoggio forte al segretario, con la speranza che Bersani non imponga aut aut che potrebbero rendere ancora più impervia la via al Colle, mentre i «giovani Turchi» si sono incontrati al Nazareno, nel tardo pomeriggio.
C’erano, tra gli altri, Andrea Orlando, Stefano Fassina, Matteo Orfini, Francesco Verducci, Andrea De Maria, la governatrice dell’Umbria Catiuscia Marini, il sindaco di Perugia, Wladimiro Boccali, il presidente della Provincia di Pesaro, Matteo Ricci, l’assessore alla Provincia di Torino, Carlo Chiano. La loro posizione è chiara, la stessa che Fassina, Orfini e Orlando hanno esposto ad urne appena chiuse e risultato spietatamente chiaro: o si va ad un governo di cambiamento con gli otto punti illustrati da Bersani con la fiducia del M5s o non c’è altra alternativa che il voto. Sono la classe dirigente più vicina al segretario, hanno chiesto come Matteo Renzi che si aprisse un vero processo di rinnovamento nel partito, hanno voluto le primarie e si sono messi in gioco. Sono stati critici con l’agenda Monti e con molte delle riforme varate dal governo del Professore, oggi di fronte ai risultati elettorali ritengono che quell’appoggio e quei voti hanno avuto un peso enorme nel giudizio espresso dagli elettori. «Ma commenta Verducci adesso dobbiamo pensare a dare un governo al Paese e non può che essere un governo di cambiamento e di rottura come ci hanno chiesto gli italiani che sono andati a votare». Vedono come «la rovina del Pd» l’ipotesi di un esecutivo tenuto su da democratici e Pdl, «sarebbe la fine per il nostro partito», dicono convinti.
Posizioni distanti da Beppe Fioroni, che pesa le parole e manda un segnale chiaro al segretario quando dice: «Ci aspettiamo di decidere che il Pd ritiene il ricorso alle elezioni anticipate sbagliato per il bene del Paese, in virtù di questa considerazione riteniamo che il tentativo di Bersani di dare un governo al paese, di innovazione e di cambiamento, chiamando ad un senso di responsabilità dal primo partito al Movimento 5 Stelle, è una metodologia corretta». Tradotto: caro segretario non dire che se fallisce il tuo tentativo si va al voto perché su questo non siamo tutti d’accordo. Posizione condivisa anche dall’area veltroniana che già guarda al piano «B». «Saremo tutti d'accordo nell'accogliere la proposta di Bersani nell'avere la prima parola nelle consultazioni. Non vogliamo un accordo politico con Berlusconi ma tornare a votare a giugno con questa legge elettorale sarebbe un suicidio», dice infatti Walter Verini, molto vicino a Veltroni. Idem sentire Paolo Gentiloni, grande supporter di Matteo Renzi: «Un conto è dire che il partito ha legittimamente il diritto di avanzare una proposta, e un conto è vincolare il compito già complicatissimo del presidente della Repubblica a dire o c'è un governo di minoranza di Bersani appoggiato da Grillo (che peraltro non lo appoggerà) oppure si torna a votare tra due mesi».
Dunque, se Bersani vorrà l’appoggio unanime del suo partito per salire al Colle e lavorare ad un governo che possa ottenere la maggioranza al Senato, non dovrà porre aut aut, come sembrano suggerirgli alcune delle «anime» del Pd. Grande attesa per quello che dirà o non dirà il sindaco di Firenze, Matteo Renzi, che ieri ha incontrato a Palazzo Chigi Mario Monti e che oggi prenderà parte ai lavori. «Dalla direzione uscirà una posizione unitaria» dicono i Giovani turchi, nessuno si aspetta sorprese. Tutti sanno che il partito sta vivendo la sua fase più delicata da quando è nato e che proprio l’alleato a cui guardano, Grillo, lavora per disintegrarli. Per questo la convinzione comune è che vada stanato in Parlamento, dove dovrà dire dei sì o dei no ed assumersene la responsabilità davanti agli elettori.
«Bersani presenterà gli otto punti per dare un governo di cambiamento. Saranno i punti con cui andrà dal Presidente della Repubblica per chiedere l'incarico», ribadisce Nico Stumpo, neoeletto, uno dei più fidati dirigenti del segretario.

il Fatto 6.3.13
Matteo Orfini Il Giovane Turco
Se non c’è il M5S nessun governo
di Wanda Marra


La direzione darà mandato a Bersani di portare avanti la sua linea di un governo di cambiamento. Che è anche una sfida a Grillo. Non credo ci sarà una differenziazione interna al partito”. Matteo Orfini è un dirigente del partito appena eletti, un Giovane Turco che dal primo momento dopo le elezioni lo ha detto chiaramente: nessun governo Pd- Pdl, meglio rivotare.
Lei parla di sfidare Grillo. Ma se lui non fa altro che mandare a quel paese Bersani...
Mi sembrano segni di grandissima debolezza. Una volta eletto cambia il suo compito: non può solo continuare a strillare nelle piazze. Noi siamo alternativi a Grillo, ma su alcuni punti possiamo incontrarci. Sta a lui decidere se si assume le sue responsabilità.
Tra questi punti c’è l’abolizione del finanziamento dei partiti, che è una delle cose che Grillo potrebbe porre come condizione?
Un’idea di democrazia non si può barattare con una fiducia. Il finanziamento ai partiti serve perché possa far politica anche chi è debole, povero, e non conosce un miliardario, si chiami Grillo o Berlusconi. Anche se com’è adesso non è difendibile. I partiti devono cambiare, ma anche il Movimento.
Esiste un piano B nel caso in cui Bersani non riesca a realizzare il suo obiettivo?
Il Colle indicherà un’altra strada. Ma noi non siamo disponibili a una maggioranza senza l’M5S. Comunque lo vogliamo chiamare: governo del Presidente, istituzionale, di scopo, e via dicendo.
Quindi dite no al governo tecnico?
A meno che non ci siano anche i 5 Stelle.
Vendola ha detto che se Bersani non riesce a realizzare un governo con l’M5S, dovrebbe lasciare spazio a un outsider che ci provi. È d’accordo?
Ho già risposto: noi siamo per un governo in cui ci sia anche l’M5S.
Esiste la possibilità che Grillo accetti uno che non è Bersani?
Grillo continua a dire di no a tutto. Se non accetta Bersani, non vedo perché dovrebbe accettare qualcun altro.
Se si andasse alle elezioni, si vota con Bersani candidato come ha detto Fassina l’altro giorno?
Penso di no. Bisogna rifare le primarie. Non ci sono automatismi .
Tutti acclamano Renzi a gran voce.
Io penso a un partito un po’ più a sinistra. Noi eravamo contro Renzi non perché ci stava antipatico, anzi a me sta anche piuttosto simpatico, ma perché non eravamo d’accordo sulla sua linea. Zingales - rappresentante di quelle idee - alle elezioni ha preso l’1%.
Dopo di lui chi c’è allora per voi? Barca?
Inutile fare nomi.
E invece il dopo nel Pd?
Per com’è il nostro Statuto, ci vuole un anno per compiere il congresso. Prima dobbiamo risolvere la crisi politica.
Quindi Bersani resta segretario?
Il Pd comunque non potrà andare avanti così. Ci vuole un rinnovamento. Alcune facce la gente non vuole proprio più vederle: anche da questo è dipeso il risultato elettorale.

Repubblica 6.3.13
Matteo Orfini: inimmaginabile un altro “tecnico”
È a noi, al Pd che spetta una proposta per il Paese e non possiamo fare un governo quale che sia
“Alleati solo con i 5Stelle o meglio tornare al voto”


ROMA — «Grillo e Berlusconi sognano la stessa cosa».
E quale sarebbe il sogno, Matteo Orfini?
«Sognano entrambi un governo di Pd e Pdl. Ci dispiace, resteranno delusi. Non lo faremo mai».
O con il M5S oppure al voto?
«Sì. La Direzione dovrà dare pieno mandato a Bersani per verificare la possibilità di un governo che riesca a cambiare le cose, che sfidi i 5Stelle a prendere atto del loro nuovo ruolo: non possono più solo criticare, devono risolvere i problemi».
Non è una strategia suicida non avere un “piano B”?
«È evidente che la gestione della crisi è nelle mani del presidente Napolitano. Però è a noi, al Pd che spetta una proposta per il paese e non possiamo fare un governo quale che sia».
Un governo tecnico è impensabile?
«Non è neppure immaginabile la riedizione di una maggioranza come quella che ha sostenuto il governo Monti, perché quel governo ha mostrato di non migliorare la
condizione di vita degli italiani».
Niente governo tecnico. Ma se Bersani fallisse, si potrebbe immaginare l’incarico a un altro leader?
«Si può immaginare tutto. Ma il Pd dovrà stare solo in maggioranze dove ci sia il MoVimento 5Stelle. Grillo non si sottragga».
E il Pd anticipa il congresso?
«Per ora pensiamo alla prospettiva di salvezza per il paese con il “lodo” Bersani. Dalle elezioni emerge un dato dolorosissimo: non prendiamo più i voti dei ceti popolari. Il congresso si farà il prima possibile e tutto deve cambiare».
(g.c.)

l’Unità 6.3.13
Maurizio Landini
«Bocciata l’austerità Tanti iscritti Fiom hanno votato 5 Stelle, ma il loro programma su sindacato e cassa integrazione è inaccettabile»
«Dal voto l’urgenza del cambiamento. Adesso Grillo accetti il confronto»
«Il sindacato va democratizzato, o verrà percepito come una casta»
di Massimo Franchi


ROMA Maurizio Landini oggi è in Germania per incontrare, assieme ai segretari di Fim e Uilm, il capo della Ig Metall, il sindacato tedesco dei metalmeccanici «che vuole sapere delle elezioni in Italia». Qui per la prima volta il segretario Fiom Cgil commenta il voto e le prospettive di governo. Landini, si aspettava un esito di questo tipo? Come lo giudica?
«Vedo due punti. Il primo è che il voto boccia in esplicito, come in altri Paesi europei, le politiche di austerità. Il vero sconfitto è Monti e non a caso tutti quelli che ne hanno sostenuto il governo pagano in termini di voti. Il vero vincitore è Grillo e la domanda di cambiamento molto forte. Poi però c’è un secondo punto, di cui parlano in pochi. Il 30% di italiani non ha votato o ha votato scheda bianca o nulla: non era mai successo. I due punti assieme rendono necessario un cambiamento forte di politiche e di ascolto».
La sua analisi però non spiega il cattivo risultato di Sel e di Rivoluzione civile... «Anche loro sono stati percepiti come il vecchio, quelli che si alleano o che non sono in grado di far cambiare le cose. Grillo è stato molto bravo a semplificare il quadro politico: noi siamo il cambiamento, tutti gli altri no. Un quadro politico che sarebbe stato molto diverso se, come mi permetto di dire chiesi al tempo e quindi non con il senno di poi, fossimo andati alle elezioni dopo le dimissioni di Berlusconi: ci saremmo risparmiati tutte le cattive riforme di Monti che non ci hanno fatto uscire dalla crisi e che invece hanno aumentato le disuguaglianze nel Paese. In questo anno di governo Monti la crisi delle forze politiche, che lo sostenevano mentre toglieva diritti e tagliava le pensioni, è scoppiata ed è stata sfruttata molto bene da Grillo».
Per Grillo hanno votato moltissimi lavoratori e moltissimi iscritti Fiom. È in grado di fare una percentuale?
«Si percepiva con chiarezza partecipando alle assemblee nelle fabbriche. Alla delusione e alla rabbia tutti i partiti tradizionali non hanno saputo rispondere. Di sicuro in tanti hanno votato Grillo, quanti non sono in grado di dirlo e non mi interessa neanche anche perché noi non abbiamo mai dato indicazione di voto. I metalmeccanici sono persone intelligenti». Ma Grillo propone l’abolizione dei sindacati. Perché i vostri iscritti lo votano? «Non lo hanno votato per quello, anche perché le persone continuano ad iscriversi e a sostenerci nelle nostre battaglie. Il ragionamento degli elettori sia stato più semplice: non hanno votato questo o quel punto del programma di Grillo, hanno votato per il cambiamento. Grillo ha colmato un vuoto sempre più grande di rappresentanza politica e sociale».
Ma quello che viene definito il guru economico di Grillo, il professor Mauro Gallegati, professore ad Ancona, sostiene che la cassa integrazione va sostituita da un reddito di cittadinanza, che bisogna proteggere il lavoratore, non il posto... «È una sciocchezza. La cassa integrazione è lo strumento che ha evitato milioni di licenziamenti ed è finanziata da lavoratori e imprese. Vanno tutelati tutte e due: posti e lavoratori. Il problema è estendere la cassa integrazione a tutti, precari e falsi lavoratori autonomi compresi. E si può fare prevedendo che tutti i lavoratori e tutte le imprese paghino un contributo in questo senso. E se non basta io propongo una patrimoniale e un tetto alle pensioni alte. Altro discorso è un reddito di cittadinanza che serva per garantire il diritto allo studio per i figli dei lavoratori e che aiuti chi il lavoro lo perde. Ecco, credo che in questo senso la priorità di una legge sulla rappresentanza, oltre a riportare la democrazia nelle fabbriche e a stabilire quando i contratti sono validi, debba prevedere che i minimi contrattuali siano garantiti a tutti i lavoratori».
In tanti a sinistra, primo fra tutti Dario Fo, chiedono a Grillo di dialogare con Bersani e il Pd. Lei si sente di fare lo stesso? Un sondaggio di Servizo pubblico la vuole persino ministro di un governo Rodotà. «Io faccio il sindacalista e rimarrò a farlo. C’è un Parlamento e c’è un presidente della Repubblica ed è giusto che ognuno si prenda le sue responsabilità. Detto questo, io non sono spaventato dall’esito elettorale, quando le persone votano; lo sono quando non votano, come in fabbrica, perché è la non democrazia che porta all’autoritarismo. Non sono spaventato da Grillo e dai suoi parlamentari, credo che debba esserci un confronto di merito, come noi abbiamo già avuto con il Movimento 5 stelle. Di certo c’è l’urgenza di avere un governo per affrontare le emergenze del lavoro, per rifinanziare la cassa in deroga, per fare una vera politica industriale a partire dall’Ilva. Come Fiom lunedì abbiamo deciso di inviare subito a tutti i gruppi parlamentari e a tutti i parlamentari sul territorio una lettera per spiegare quali sono le nostre priorità». Landini, parlava di vuoto di rappresentanza sociale. Pierre Carniti ha sostenuto che anche il sindacato rischia molto... «Sono d’accordissimo e vado oltre. Se il sindacato non cambia verrà percepito come una casta. Per evitarlo bisogna democratizzarlo: bisogna ridare voto e democrazia ai lavoratori che hanno scelto i loro parlamentari ma non possono scegliere i loro rappresentanti sindacali. Questa è l’unica strada per riconquistare l’unità sindacale, che è un diritto per i lavoratori. In più il sindacato deve recuperare la rappresentanza di tutte le forme di lavoro: precari, false partite Iva, falsi autonomi. E qui io vedo una responsabilità fortissima per la Fiom e la Cgil di proposta e iniziativa. A partire dal vero spread con la Germania, quello fra i salari che è più alto di quello fra i tassi di interesse, per passare ad una diminuzione generalizzata dell’orario di lavoro, il più alto d’Europa, ad una politica industriale».
Sta parlando da candidato alla segreteria della Cgil?
«Rimango segretario della Fiom. Ma penso che, specie dopo il voto, la Cgil ha bisogno di una discussione strategica, di un percorso democratico, anche senza modificare lo statuto. Vedremo quali sono le risposte. Io ho intenzione di muovermi in questo quadro, senza escludere nulla».

il Fatto 6.3.13
Graziano Delrio Il renziano
Il voto subito? Una disgrazia
Twitter @wandamarra


Bersani ha il diritto di provarci”. Graziano Delrio, presidente dell’Anci, sindaco di Reggio Emilia, vicinissimo a Matteo Renzi (era dato in pole position per un posto nel governo in quota Sindaco, quando il Pd studiava gli organigrammi, convinto di vincere le elezioni), la mette così. E se non andasse? “Dopo sarà Napolitano a decidere”.
Presidente, qual è la linea dei renziani?
Io vorrei intanto esprimere una linea da sindaco: il problema non è il Pd. Sono i cassintegrati, le imprese, che non riescono a farsi pagare dalla Pubblica amministrazione. A loro bisogna dare risposte urgenti.
Ma non c’è un governo. Come si fa?
Intanto c’è un governo in carica che delle risposte può e deve darcele. Per esempio la Tarsu la possiamo riscuotere o no? Se non si cambia la scadenza di luglio per il pagamento si rischia fra due mesi che nelle nostre città ci sia l’immondizia nelle strade. Non è che io posso stare qui ad aspettare che qualcuno mi dia la linea attraverso un’intervista a qualche quotidiano internazionale.
Voi oggi comunque sosterrete Bersani?
Sì. Mette al centro un’agenda. E un giro deve farlo.
Esiste un piano B nel caso Bersani dovesse fallire?
Riguarda le valutazioni del Colle, che dovrà consultare tutti.
Pensa che ci sia un’altra personalità che possa dialogare con Grillo dopo Bersani? Vendola ha tirato fuori la possibilità di un outsider.
Non credo che Grillo sarà d’accordo: mi pare che il suo obiettivo sia solo lo sfascio dei partiti.
Quindi non resterebbe che un governo tecnico...
Io su un punto non discuto: bisogna garantire la pura emergenza.
Anche se questo vuol dire votare con il Pdl?
Sono contrario a un’alleanza col Pdl.
Ma un governo tecnico con Pd e Pdl sempre sarebbe un governo col Pdl....
Anche Grillo a un certo punto ha parlato di governo tecnico. Non sarebbe un governo col Pdl.
Quindi niente voto subito?
Il voto a giugno sarebbe una disgrazia vera. Tanto per dirne una c’è il patto stabilità, che vale 9 miliardi, un punto e mezzo di Pil.
Con le prossime elezioni entra in campo Renzi?
Se fosse stato per noi, sarebbe dovuto entrare in campo anche subito. E l’esito elettorale ci ha dato ragione. Dopodiché le candidature e le modalità delle candidature si capiranno dopo.
L’ipotesi di Renzi alla guida di un governo tecnico esiste?
Se Napolitano lo chiede, non credo che nessuno si tiri indietro. Ma non credo ci siano le condizioni.
Renzi però è andato da Monti. Che si sono detti?
Hanno parlato, ma nulla che cambi la sostanza dei fatti.

Repubblica 6.3.13
Paolo Gentiloni: non abbiamo i numeri per imporre soluzioni
Andando a votare immediatamente con la stessa legge elettorale pensiamo a un risultato migliore e più stabile?
“Se il segretario fallisce esecutivo del presidente”


ROMA — Paolo Gentiloni è convinto che la strada di Bersani sia strettissima e che esista lo spazio per un governo del presidente.
Quindi esiste un’alternativa al ritorno immediato al voto se non va in porto la maggioranza con i 5Stelle?
«Certamente non siamo noi a doverla escludere perché accertare una via d’uscita è esattamente il compito che spetta al capo dello Stato. La coalizione che ha avuto più voti con una forte maggioranza alla Camera ha il diritto-dovere di fare una proposta, ma non ha i numeri per imporla e farebbe un errore se la presentasse come un aut aut ossia se individuasse solo nelle elezioni immediate l’alternativa».
Perché in una tale confusione non si dovrebbe restituire la parola ai cittadini?
«L’Italia ha bisogno di un governo. Ci sono difficoltà a trovare i soldi per la cassa integrazione, incombe il dramma degli esodati, la procedura per gli acquisti dei titoli di Stato da parte della Bce non è più automatica. Bastano come motivi per non tenere il Paese senza un governo? Se non bastano aggiungo: andando a votare immediatamente con la stessa legge elettorale pensiamo a un risultato migliore e più stabile?».
Come fa il Pd a stringere una maggioranza qualsiasi col Pdl?
«Non ho sentito nessuno nel Pd dire una cosa diversa da quella che io stesso ripeto da giorni: no a una coalizione politica con Berlusconi. Questa nostra scelta è chiara e arcinota. Sarà il presidente Napolitano a tentare di risolvere il rebus uscito dalle elezioni. Cerchiamo di non complicargli un compito già estremamente difficile ».
(g.d.m.)

Repubblica 6.3.13
Renzi: “Un errore inseguire Grillo sarebbe stato meglio rottamare di più corro alle primarie, ecco i 4 punti”
Vendola e il “piano B” senza Bersani. Spunta Saccomanni
di Carmelo Lopapa


ROMA — «La mia strada è dentro il partito, non sono interessato a scorciatoie e non ho intenzione di mollare Pierluigi». Matteo Renzi si presenterà stamattina alla direzione del Pd. È il D-day delle decisioni importanti, dopo la vittoria che sa di sconfitta, giorno dell’atteso discorso del segretario Bersani a caccia di una via d’uscita dall’impasse. Il sindaco di Firenze è arrivato già ieri a Roma, in treno, ha raggiunto in taxi Palazzo Chigi per incontrare il premier Mario Monti, discutere del bilancio dei comuni ma inevitabilmente anche degli scenari. Oggi ascolterà il leader come gli altri dirigenti, il suo intervento è altrettanto atteso, in un partito confuso e che per certi versi guarda già avanti. «Noi non dobbiamo inseguire Grillo, dobbiamo sfidarlo sul suo terreno, quello dell’innovazione — è la convinzione maturata in queste ore da Renzi — In tutta la campagna elettorale ci siamo fatti dettare l’agenda da Berlusconi. Ora, con la campagna finita, non possiamo farcela imporre da Grillo». Bisogna uscire dall’angolo e per farlo l’ex “rottamatore” proporrà oggi una ricetta di riforme pesanti in quattro step. «Primo, abolire il finanziamento pubblico ai partiti. Secondo, cancellare i vitalizi ai parlamentari. Terzo, trasformare il Senato in Camera delle autonomie, i cui componenti verrebbero designati e dunque retribuiti dagli stessi enti locali, comuni e regioni. Quarto, l’abolizione delle Province».
Sul piano interno, Renzi in questa fase resta al fianco del segretario, a dispetto di tutte le congetture. «Non ho alcuna intenzione di mollare Bersani — ha confidato agli interlocutori romani della vigilia — Lo potrei lasciare solo un minuto dopo che lo abbiano fatto Migliavacca ed Errani». I suoi fedelissimi di sempre, come dire: mai. E rincara: «Vergognoso chi vuole fare la pelle al leader in questo momento. Per quanto mi riguarda, io non sono interessato a scorciatoie. La mia strada è dentro il partito e attraverso nuove primarie, semmai, sarei pronto a ripropormi». Nuove «primarie vere», le uniche attraverso le quali può immaginare un approdo a Palazzo Chigi. Nessuna cooptazione. Voto in autunno? E allora primarie a giugno-luglio. Voto tra un anno? Primarie e congresso a ottobre- novembre. È il calendario virtuale di un sindaco che esclude invece qualsiasi intesa col Pdl di Berlusconi, come pure le offerte di Corrado Passera: «Non esiste che io vada con l’ex ministro, tanto meno mi faccio schiacciare a destra, io sto dentro il Pd e ci resto». La scalata, se ci sarà, dovrà essere tutta interna. «Se invece perdo, lascio tutto, a quel punto lascio anche Firenze». Poi, la sera, intervenendo a Ballarò, Renzi ha ammesso: «Se avessimo rottamato di più, il Pd sarebbe andato meglio» alle elezioni.
Fuori dal Pd adesso anche Nichi Vendola, pontiere virtuale coi grillini, non dà più per scontato un esecutivo a guida Bersani, pur premettendo che al segretario spetti la «prima mossa». Parla alla direzione di Sel e ipotizza un “piano B”, un «governo di cambiamento, di antitecnici, con incarichi a personalità che tutelino il bene comune e le esigenze del paese». Magari, più facile dopo l’elezione del capo dello Stato. Intanto, un primo incarico esplorativo a Bersani resta l’ipotesi più probabile. È sul dopo che si moltiplicano già ipotesi e scenari. Accanto al nome dell’attuale ministro degli Interni Anna Maria Cancellieri, sullo scacchiere prende già quota la pedina del direttore generale della Banca d’Italia, Fabrizio Saccomanni: l’uomo forte di via Nazionale che due anni fa è stato frenato nella corsa alla poltrona di governatore solo dal braccio di ferro tutto interno al governo Berlusconi. Per un esecutivo di corto respiro, sei mesi o un anno, nessuno si sente di spendere la carta dell’attuale governatore Ignazio Visco.


l’Unità 6.3.13
«Fascismo buono» Bufera su Lombardi
La neocapogruppo M5S alla Camera «allibita» per le strumentalizzazioni
L’Anpi protesta
di Toni Jop


ROMA Adesso, investita da un'onda di critiche per quel che ha scritto a proposito del lato buono del fascismo, lamenta sorpresa: «Rimango allibita dalle strumentalizzazioni in atto su una frase estrapolata da un post sul mio blog. Quella espressa era una analisi esclusivamente storica di questo periodo politico, che naturalmente condanno. In Italia il fascismo così come il comunismo è morto e sepolto da almeno trent`anni». Meraviglia della presidente del gruppo Cinque Stelle alla Camera che, se non si attendeva quel che è accaduto e quello stupore è genuino, minaccia di regalare altre perle della sua saggezza alla tormentata cultura di questo Paese.
Roberta Lombardi, trentanovenne deputata, laurea in giurisprudenza, uscita da uno studio d'arredo di interni per miliardari, aveva depositato questa riflessione sul suo sito a proposito del nascente fascismo: il futuro regime aveva «un altissimo senso dello Stato». In questo modo, benché abbia rispettato la consegna del silenzio, è riuscita a conquistarsi ugualmente un formidabile gancio di cronaca e una stima universale (!!). Promette bene, e il web, grato, l'ha intuito: il fiuto messo in campo dai parlamentari di Grillo è più originale di un deodorante per muratori. Hanno seguitato a ripetere che avrebbero fatto pulizie generali in Parlamento, lo avrebbero liberato degli odori di cadaveri putrefatti, i cadaveri di tutti i parlamentari che non sono Cinque Stelle. Ma Roberta Lombardi non ha avvertito odori particolari nell'avvicinarsi al fascismo, anzi. Secondo il suo fiuto, quel fascismo cui lei fa riferimento, sprigionava un profumo di buono e pulito sparso per l'aere da una bomboletta di «altissimo senso dello Stato», acqua di colonie. Choc: se questo è il deodorante dei tempi nuovi stiamo freschi.
Non c'è contraddizione tra queste parole e ciò che nei mesi scorsi aveva detto il Portavoce del movimento. Grillo, si ricorderà, di fronte ai ragazzi di Casa Pound aveva precisato che a lui «l'antifascismo non compete». L'uomo, tuttavia, è un privato cittadino, non un parlamentare, non siede nel cuore dello Stato. Non si hanno, coerentemente, notizie che Grillo abbia rimproverato, richiamato la sua deputata per quelle affermazioni. Ma il web non perdona. Gira e rigira una petizione, ad esempio, affinché la signora Lombardi dia serenamente le dimissioni dal suo delicato incarico.
Lei assicura di non essere fascista e di avere a cuore la democrazia anche se nel frattempo tra i suoi punti di programma si propone di spazzare via le organizzazioni sindacali che oramai, dopo aver assolto al loro compito storico, non servono più, anzi ammorbano l'aria anche loro e sarà il caso di inventare qualche cosa di nuovo.
Spunti interessanti per una teoria rivoluzionaria dell'arredo di interni istituzionali. Di buono c'è che, in coda a quel «Sono allibita», non smentisce, circoscrive: si riferiva, risponde, al primo programma del fascismo, quello del 1919, quando, cioè, il brutto-brutto non si era ancora, secondo lei, manifestato. Ha spiegato infatti sul suo blog che si riferiva «facendo una analisi, al primo programma del 1919, basato su voto alle donne, elezioni e altre riforme sociali che sembravano prettamente socialiste rivoluzionarie e non certamente il preludio di una futura dittatura. Tutte proposte che poi Mussolini smentì già dall’anno seguente, in quello che fu un continuo delirio di contraddizioni».
LA FIOM CONDANNA
Che ne sa dello squadrismo che proprio da quell'anno iniziò a insanguinare sistematicamente interni ed esterni d'Italia? E se il web non la perdona, la Fiom nemmeno. Il grande sindacato dei metalmeccanici definisce, da Bologna, quella lettura «corbellerie e stupidaggini storiche». «Non c'è bisogno di sfinire ulteriormente i lavoratori – proseguono rivolti al Movimento Cinque Stelle – insultando la loro intelligenza con simili amenità»: in questa precisazione, che chiude con l'augurio che Roberta Lombardi sia presto sostituita là dove ora si trova, primi segnali di crisi nel rapporto fin qui più che gioviale tra questo sindacato e i Cinque Stelle.
Interviene con forza anche Carlo Smuraglia, presidente dell'Associazione nazionale partigiani. «Sarei curioso di sapere – scrive in che modo e quando il fascismo avrebbe dimostrato 'altissimo senso dello Stato» ; parimenti, sarei curioso di sapere quando sarebbe sempre secondo l'On. Lombardi cominciata le 'degenerazione', se prima o dopo gli incendi delle Case del popolo, le aggressioni, le botte e le purghe a chi veniva considerato antifascista, la marcia su Roma, la progettata occupazione del Parlamento, gli omicidi compiuti già prima che il fascismo salisse al potere; e, magari, se prima o dopo le leggi razziali. Se quella del 'fascismo buono' può essere ancora considerata una tesi proponibile, c'è da chiedersi cosa si insegni nelle scuole e su quali fondamenta riposi la cultura di certi esponenti politici». Ma com'è che si fanno capire anche se stanno zitti?

da La Stampa: ...Anche lo storico Giovanni Sabbatucci entra nel dibattito: «Le parole della Lombardi mi hanno suscitato la stessa impressione di quelle di Berlusconi poco tempo fa. Il discorso è sempre lo stesso: si parla di un fascismo in origine buono che poi avrebbe preso una strada sbagliata. Da storico posso dire che affermazioni del genere non stanno né in cielo né in terra». Quasi contemporanea le agenzie registrano anche la condanna dell’Associazione Nazionale Partigiani. «La degenerazione comincia prima o dopo gli incendi delle Case del popolo, le aggressioni, le botte e le purghe? C’è da chiedersi che cosa si insegni nelle scuole dove hanno studiato certi politici».

il Fatto 6.3.13
Torna il fascismo buono
risponde Furio Colombo


CARO COLOMBO, sono disorientato oltre che stupito. Come fa una persona “nuova”, che viene direttamente dalla tanto desiderata società civile, a dire che il fascismo aveva “un altissimo senso dello Stato e la tutela della famiglia”? Intendeva anche le famiglie Matteotti e Rosselli e (poco dopo) le migliaia di famiglie ebree?
Ernesto

IL LETTORE si riferisce alla dottoressa Roberta Lombardi, deputata, appena eletta “capo gruppo pro tempore” (sua definizione) dei giovani deputati M5S, che ha scritto nel suo blog (come riferisce anche il Fatto Quotidiano del 5 marzo) “CasaPound del fascismo ha conservato solo la parte folkloristica, razzista e sprangaiola... Il fascismo, prima che degenerasse, aveva una dimensione nazionale di comunità attinta a piene mani dal socialismo, un altissimo senso dello Stato e la tutela della famiglia”. L'affermazione è strana e disturbante. Infatti dire con benevola tolleranza che quelli di Casa-Pound sono “razzisti e sprangaioli”, e classificare questi piccoli difetti come una forma (tollerabile, sembra di capire) di folklore, è un’affermazione che sta fuori dalle esperienze di vita e dalle categorie di giudizio che conosciamo. Come ci insegnano i sondaggisti, o sai o non sai o non hai una opinione. Ma avere una opinione, stranamente sbadata e infondata (credo anche per gli interessati) nel momento in cui assumi un ruolo politico che (la Lombardi non può non saperlo) è importante, lascia perplessi sulle qualità critiche della nuova persona che si fa avanti. La Lombardi mostra di sapere che c'è, prima di degenerare, un buon fascismo, che si cura della famiglia e ha alto senso dello Stato. E qui c'è una sola triste domanda: ma a 39 anni la dott. Roberta Lombardi, laureata in giurisprudenza alla Sapienza di Roma, arredatrice di interni, non ha mai incontrato, magari per sbaglio, magari in casa di amici, magari al liceo, all'università, un collega, un amico, una conoscenza casuale, un insegnante, un compagno di viaggio, qualcuno che buttasse li il nome dei fratelli Rosselli (c'è anche un gran film di Bertolucci, pieno di interni bellissimi, sull'argomento), di Gobetti ammazzato di botte, di Matteotti gettato già morto nel Tevere, di Gramsci pensatore italiano che ormai tutti conoscono nel mondo, morto in prigione, bloccato per sempre nel gulag di Mussolini? Ecco la desolazione, lo sconforto immenso che le parole della brava arredatrice prestata alla politica: passare una giovane vita non incolta e non periferica riuscendo a portarsi addosso per 39 anni, pochi squallidi luoghi comuni di gente vecchia del vecchio fascismo che, ci giurerei, non vanno più bene neppure per CasaPound.

Repubblica 6.3.13
Rivolta web contro la Lombardi “Deve dichiarare di essere antifascista”
I neoeletti: un complotto contro di noi. Forza Nuova solidale
di Annalisa Cuzzocrea


ROMA — Prova a difendersi, Roberta Lombardi. La capogruppo in pectore dei 5 stelle alla Camera aveva scritto sul suo blog - un mese fa - che Casapound del fascismo conserva solo la parte «folcloristica, razzista e sprangaiola. Che non comprende l’ideologia del fascismo, che prima che degenerasse aveva una dimensione nazionale di comunità attinta a piene mani dal socialismo, un altissimo senso dello Stato e la tutela della famiglia». Ripescate oggi, queste parole le sono valse una marea di critiche. E richieste di dimissioni, anche sul sito di Beppe Grillo. Lei parla di strumentalizzazioni. E precisa, con un post dal titolo «Filofascista a chi?»: «Mi riferivo al primo programma del 1919, basato su voto alle donne, elezioni e altre riforme sociali che sembravano prettamente socialiste rivoluzionarie. Tutte proposte che poi Mussolini smentì già dall’anno seguente». Parla di «contraddizioni», di un «potere che divenne dittatura», di un «crescendo di violenza». Allega un link, i suoi la difendono dalla «solita stampa che travisa», ma in Rete sono in molti a non crederle. Tra i commenti del blog, c’è Sandro: «Lei si sta arrampicando sugli specchi. Che cosa ha scritto è qui sopra, Casapound invece sappiamo tutti che cosa rappresenta. Invece potrebbe rispondermi a una singola domandina.
Lei è antifascista? (E se sì, da quello che ha scritto sopra, da che cosa si evince?)». Oppure Dina: «Il fascismo non ci ha tolto i diritti, come scrive in fondo? Sì che li ha tolti. Solo che poi con la Resistenza degli idioti che so’ morti per far parlare Lei – e pure darLe il voto, studi la storia - se li so’ ripresi. Dichiari di essere antifascista! Ma lo dichiari in modo netto e pubblico ». Forza nuova ne approfitta: «Solidarietà a Roberta Lombardi che ha sperimentato sulla sua pelle la libertà di pensiero che vige in Italia. Dire quello che tutti pensano, ma pochi hanno il coraggio di esternare, è vietato». Fortuna che c’è l’Anpi, a fare un ripasso di storia: «Sarei curioso di sapere in che modo e quando il fascismo avrebbe dimostrato un “altissimo senso dello Stato” chiede il presidente dei partigiani Carlo Smuraglia - e quando sarebbe cominciata la “degenerazione”. Se prima o dopo gli incendi delle Case del popolo, le aggressioni, le botte e le purghe a chi veniva considerato antifascista, la marcia su Roma, la progettata occupazione del Parlamento, gli omicidi compiuti già prima che il fascismo salisse al potere; e, magari, se prima o dopo le leggi razziali». Si aggiunge la Fiom di Bologna: «Ricordiamo che il fascismo salì al potere grazie al finanziamento di grossi potentati economici e, non ultimo, bruciando e devastando innumerevoli Camere del lavoro e picchiando i lavoratori». Roberto Fico - neoeletto alla Camera, figura storica dei 5 stelle - prova a spiegare: «Forza Nuova strumentalizza in modo stupido, visto che Roberta ha definito Casapound “sprangaioli e razzisti”. Lei ha fatto un’analisi puramente storica, ma - come tutti noi - è lontanissima dal fascismo». E Beppe Grillo, che dopo il suo dialogo al Viminale non ha mai preso le distanze da Casapound? «Beppe non ha voluto giustificarsi perché a 65 anni la sua storia parla per lui. Sfido chiunque a trovare tra noi idee violente o xenofobe, simili a movimenti come Alba dorata. Noi siamo il cuscinetto tra la rivoluzione violenta e quella pacifica, fatta di contenuti. È un mondo contro un altro mondo». Quanto a lei, Roberta Lombardi non risponde. Il suo telefono squilla a vuoto. Il primo giorno da capogruppo, non è stato dei migliori.

il Fatto 6.3.13
L’esercito va a scuola dal fascista Merlino


MARIO Merlino, classe 1944, apologeta del fascismo, amico dell’ex terrorista nero Stefano Delle Chiaie e del capitano delle SS Erich Priebke, ha tenuto una lezione alla Scuola di Fanteria di Cesano (Roma) a fine febbraio. A darne notizia è Il Messaggero. Per l’Esercito si è trattato di una “conferenza storica, che verteva su eventi bellici della Seconda guerra mondiale”. Diverso il parere di Jean Leonard Touadi, responsabile Sicurezza e legalità del Pd Lazio: “È inammissibile consentire che venga fatta apologia di fascismo all’interno di una struttura dello Stato”. Incredulo anche Vi-to Francesco Polcaro, presidente del comitato provinciale dell’Anpi romano, che vuole proporre una manifestazione di protesta a Cesano e chiede alla scuola “un incontro con storici competenti, per spiegare agli allievi che cosa ha significato il fascismo per l’Italia”.

il Fatto 6.3.13
La nuova Ferrari
Ibrida da Formula Uno


Presentata a Ginevra “La Ferrari”, nuova serie speciale, prima ibrida prodotta a Maranello. Per i 499 esemplari (al prezzo di listino di 1,5 milioni) sono state ricevute più di 1000 richieste scritte Ansa

il Fatto 6.3.13
Le Monde scrive all’Italia: davvero scegliete Grillo?


PHILIPPE RIDET corrispondente dall’Italia di Le Monde, ha scritto una lettera ai “carissimi italiani”. Per lui, un vero “enigma”. “Quando sono certo di avervi capito, quando sono sicuro di amarvi, immancabile arriva la delusione” scrive Ridet. Le elezioni? Gli italiani potevano scegliere tra un imprenditore che rischia tre condanne penali per evasione fiscale, prostituzione minorile e abuso di potere e violazione del segreto istruttorio, un ex comico che intende “fare pulizia della classe politica”, uno stimato economista, già commissario europeo e un candidato di sinistra sufficientemente moderato da piacere a tutti. Alla fine, otto milioni e mezzo di elettori hanno votato Beppe Grillo facendo saltare il banco. L’Italia appare ingovernabile, ma questa volta – ricorda Ridet – nel mezzo di una crisi economica che non accenna a mollare la presa. “Il malessere lo vedevamo tutti, era proprio necessario rovesciare il tavolo?” chiede Ridet. Come tutti – aggiunge – ammiro la bellezza dell’Italia, la cultura, la ricchezza e la vivacità delle città, l’eleganza, la gentilezza e il tratto umano. “Ma questa volta sono in collera: veramente volete consegnare le chiavi del Paese a Grillo?”.

Repubblica 6.3.13
La lunga marcia nelle istituzioni
di Barbara Spinelli


NESSUNO può dire di cosa parleranno Bersani e Grillo, se mai si parleranno. Tante voci, tante forze impaurite sono coalizzate contro questo tentativo – del tutto inedito, sgradito a chi resta appeso alle proprie abitudini – di immaginare non solo un’Italia ma un’Europa diversa, dove trovino spazio iniziative cittadine, proposte che circolano da anni nella società.

Ad esempio, reddito di cittadinanza, leggi anti-corruzione, nuove definizioni del prodotto interno lordo, diritti civili non negoziati con la Chiesa. Sono le idee che un quarto degli italiani ha cercato in 5 Stelle. Non sappiamo se Bersani saprà udirle – e quanto sarà condizionato dalle riluttanze dentro il Pd – ma neppure sappiamo se Grillo e Casaleggio desiderino davvero farsi udire.
Quel che è certo, è che in queste ore comincia per il movimento di Grillo qualcosa che lui stesso non aveva previsto: comincia quella lunga marcia attraverso le istituzioni, che per forza porterà il M5S – forte ancor ieri della sua natura extraparlamentare – ad assumersi responsabilità nella Repubblica.
Di Lunga marcia attraverso le istituzioni parlò nel 1967 Rudi Dutschke, il leader degli extraparlamentari tedeschi che auspicava una democrazia diretta e che subì una campagna diffamatrice, ordita dall’editore Axel Springer, simile a quella inflitta oggi a Grillo. Ferito da una rivoltellata l’11 aprile ’68, Dutschke non si riprese più: morì nel ’79. Ma il suo appello a conquistare un'egemonia culturale (una sovranità discorsiva, disse) facendo leva sulle istituzioni mise radici: il partito dei Verdi, nato grazie a lui, fu l’approdo di quella marcia. Oggi siamo nel mezzo di una mutazione, i paesi industrializzati perdono forza e ricchezze, ma la sfida resta quella. Specie nel nostro continente, siamo immersi in una depressione da cui non usciremo senza radicali reinvenzioni, e la reinvenzione più grande riguarda l’Europa, che il ’68 ignorava.
L’Europa quindi non dovrebbe essere uno degli argomenti trattati da Bersani o da chi proverà dopo di lui con 5 Stelle: è il punto decisivo, da cui tutto il resto discende. Il tema è schivato da Grillo, come dal Pd. L’idea-forza del suo Movimento è che di fronte all’impotenza degli Stati, i cittadini devono sollevarsi e dire: «Lo Stato siamo noi». Ma l’idea è troppo poco ambiziosa. Forse è venuta l’ora di mirare molto più in alto, e di affermare: «L’Europa siamo noi», cittadini inascoltati in casa e nell’Unione. Dobbiamo darci una vera costituzione europea, che inizi come quella americana: «Noi, il popolo.... ». Questo diceva l’appello di Daniel Cohn-Bendit e Ulrich Beck, il 3 maggio 2012 su Repubblica: se tanti s’indignano, se la crisi sgretola un’intera generazione, è perché «incombe una bancarotta degli Stati-nazione». L’Europa fatta dall’alto va riedificata dal basso. L’appello reclamava un «nuovo contratto fra Stati, Unione europea, strutture politiche nella società civile, mercato, previdenza sociale, sostenibilità ambientale».
Certamente ci sono, nelle 5 Stelle, avversari dell’Europa unita: considerata un’utopia, quando la sola chimera è la sovranità assoluta degli Stati. Ma essere scettici non è sinonimo di anti-europeismo. I federalisti stessi sono scettici, sull’Unione che non è all’altezza della crisi. Essere scettici – non contentarsi delle apparenze – è d’obbligo anche per chi esige oggi un’altra Europa. Per Martin Schulz, presidente del Parlamento europeo, il voto italiano segnala la voglia di rinnovare la politica, e un rifiuto dell'austerità e della mancanza di risposte europee: «L’Europa ha le sue responsabilità, non può permettersi di fare lo struzzo mettendo la testa sotto la sabbia. Deve chiedersi fino a che punto una strategia di solo rigore, senza forti misure per la crescita, abbia spinto in Italia a un voto di protesta» (Corriere, 1 marzo 2013).
La risposta non sarà il referendum di Grillo sull’euro: referendum online, riservato solo a chi padroneggia Internet (come superare il divario digitale fra chi accede e chi no, tra anziani e no?). Se M5S vuol marciare attraverso le istituzioni europee oltre che nazionali, non potrà fare a meno di pensare l’Unione da capo, come formidabile opportunità per recuperare la sovranità perduta dagli Stati-nazione. Non potrà non guardare la realtà: 6 Stati d’Europa sono di fatto «commissariati» dall’Unione e spesso dal Fondo monetario (Grecia, Irlanda, Spagna, Portogallo, Italia, Cipro). Non è lontano il giorno in cui anche l’Italia, con un debito pubblico non riducibile tagliando solo i costi della politica, dovrà rivolgersi al Fondo salva-Stati, e negoziare il Protocollo d’Intesa previsto dalle sue regole.
Di questo dovrebbe parlare Grillo con le controparti: che faremo, se avremo bisogno del Fondo? Come operare perché l’Unione si accolli parte dei debiti (un piano esiste già, elaborato in Germania: il cosiddetto Fondo di redenzione) e imbocchi finalmente la via di Hamilton, quando accelerò la nascita in America di un potere federale forte, con poteri impositivi e un proprio bilancio, e su questa base assunse i debiti di Stati stremati dalla guerra d’indipendenza? Lo fece perché il paese usciva da una guerra, è vero. Ma l’Europa traversa una guerra, oggi, tra Stati e mercati. È utile ripercorrere il tracollo greco. Quando si trovò sull’orlo del default, il Premier Papandreou scelse come consigliere Tommaso Padoa-Schioppa, ex ministro dell’economia nel secondo governo Prodi, e Padoa-Schioppa suggerì questo: sarà inevitabile ridurre il debito, ma come condizione chiedete che l’Europa si dia i mezzi per ri-crescere e sostenervi. La formula era: «Agli Stati il rigore – all’Europa lo sviluppo». Papandreou divenne un pariah, quando su quest’idea volle indire un referendum. Joseph Stiglitz, il premio Nobel, ha scritto che il male non è negli Stati, ma nell’Unione restata a metà strada: «L’austerità è una strategia anti-crescita ». L’Europa ha bisogno di un’unione bancaria vera, e di comuni risorse ben più consistenti del «minuscolo bilancio appena decurtato dagli avvocati dell’austerità». Grillo ammira Stiglitz. Ma per ascoltarlo non dovrà accettare di governare in qualche modo?
Si diceva nel ’68 che l’immaginazione era andata al potere. Oggi deve andare al potere anche in Europa, perché lì si deciderà quel che saremo. Si dovrà decidere la politica estera e di difesa, che non potrà più dipendere dagli Usa. Si deciderà l’impoverimento o la ripresa. I militanti M5S sono addestrati a pensare assieme il globale e il locale. Manca loro il cruciale anello europeo. Lo fa capire un articolo pubblicato su Eurobull.com dal federalista Antonio Longo: lo Stato-nazione «non offre oggi che briciole». Non basterà combattere la corruzione, per una nuova crescita sostenibile. Solo uno sviluppo europeo potrà controbilanciare le austerità nazionali, perché «garantirebbe costi complessivi più bassi, maggiore efficienza grazie alle economie di scala e benefici per tutti». Solo la Federazione salverà l’Italia.
Chiunque parlerà con Grillo avrà davanti a sé qualcuno che esecra i partiti, ma spesso guarda lontano. Grillo vede arrivare banche statali molto plausibili. Invita a scommettere tutto sulla ricerca scientifica (intervista a New Scientist, 27-2-13). Malandata com’è, l’Europa non è nel suo campo visivo. Vale la pena che la faccia entrare. L’occasione è ora. Se torneremo alle urne, l’Italia impaurita sceglierebbe la destra forgiata da Berlusconi. Stesso disastro con un governo tecnico appoggiato dal Pdl (un governo di partiti camuffati): sarebbe l'esplicito riconoscimento che il malcostume, la frode, la compravendita del consenso in Parlamento non sono un crimine. Convaliderebbe l’idea più che mai incongrua che i politici siano «tutti eguali », «tutti ladri». Potrebbe ferire a morte la nostra democrazia, e con essa la cittadinanza attiva voluta da Grillo.

Repubblica 6.3.13
Destra e sinistra sotto il peso di Edipo
di Massimo Recalcati


COSA è accaduto nella sinistra italiana in questa ennesima sconfitta elettorale? Un evidente problema nella trasmissione dell’eredità.
Essa ha voluto aggirare il tempo fatale dell’avvicendamento, del lasciare il posto al nuovo, del rendere possibile il trauma necessario del rinnovamento. Il padre non ha voluto lasciare il suo posto. Non ha saputo vedere che il solo argine nei confronti del rifiuto socialmente diffuso della “politica” era animare un cambiamento interno della politica che esigeva la forza unica di un simbolo. Tale era la candidatura di Renzi dal punto di vista simbolico, al di là del giudizio politico che si può dare di lui. Ma per quale ragione questo avvicendamento non si è realizzato? Esiste anche una responsabilità del nuovo, non solo del vecchio. Lo slogan della “rottamazione” è stato infelice quanto quello dell’“usato sicuro”. Se la metafora dell’usato sicuro era sintomatica di una difficoltà ad immaginare il trauma necessario del cambiamento – tenere quello che si ha ad ogni costo -, quella della rottamazione fallisce il senso autentico dell’ereditare. Il vecchio padre si è irrigidito nella sua posizione perché non si è sentito riconosciuto dal figlio. L’ideologia della rottamazione voleva fare a meno dei padri senza servirsi di loro. Impraticabile: l’anima necessariamente conservatrice del partito e dei suoi organi istituzionali ha reagito emarginando il nuovo e uccidendo il figlio ribelle.
Illustrando il complesso di Edipo, Freud aveva messo in luce come la relazione tra i figli e i padri sia marcata da una ambivalenza profonda: il padre non è solo la rappresentazione eroica di un Ideale ineguagliabile, ma è anche un rivale con il quale si combatte un duello all’ultimo sangue. La dimensione conflittuale dell’Edipo si risolve solo se le armi vengono deposte e si sancisce un armistizio: il padre deve riconoscere il suo inevitabile tramonto lasciando il suo posto al figlio, mentre il figlio deve riconoscere al padre il debito simbolico del dono della vita. Il padre diventa così una funzione indispensabile nella trasmissione dell’eredità e il figlio, in quanto erede, avrà il compito di realizzare in una forma nuova ciò che ha ricevuto. Se il padre o il figlio non riconoscono questa discendenza simbolica, la dialettica edipica può incancrenirsi in una rivendicazione sterile: il padre impedisce al figlio di avere un suo posto nel mondo rifiutando di tramontare; mentre il figlio esige la morte del padre e il rinnegamento della sua provenienza e del debito che essa implica. Il conflitto si imbarbarisce: il nuovo vuole uccidere il vecchio perché il vecchio non lascia posto al nuovo e il vecchio non lascia posto al nuovo perché il nuovo non vuole riconoscere il suo debito nei confronti del vecchio.
Se il partito di Berlusconi è immune dalle dissonanze dell’eredità perché è strutturalmente privo di possibili eredi in quanto il padre è un Duce - senza discendenza, politicamente sterile - che fa coincidere la sua esistenza con quella del partito, dunque che esclude l’orizzonte della trasmissione della leadership, il problema dell’eredità già oggi sta attraversando e attraverserà fatalmente il movimento dei grillini.
Il padre di questo movimento non rappresenta per nulla il vecchio, la provenienza, la radice, la memoria, l’istituzione. Questo nuovo padre si propone come senza storia, senza memoria, senza provenienza, senza un volto politicamente riconoscibile, mascherato, radicalmente post-ideologico. Non ha mai voluto entrare sulla scena edipica della politica, ma si è sempre mantenuto fuori (Lacan gli direbbe; ma “fuori” da cosa? Tu pensi davvero che esista un “fuori”?). Il rifiuto del confronto con gli altri è una cifra essenziale di questa posizione che si propone come sorretta da un ideale di incontaminazione.
La dialettica democratica lascia allora il posto all’insulto dell’Altro che si mescola, come spesso accade in ogni fondamentalismo, con un fantasma di purezza: da una parte i puri, i redentori, dall’altra gli impuri, gli indegni. Di qui la sua forza anarchica e sovversiva e il potere straordinario di aggregazione di fronte ad un mondo politico drammaticamente corrotto e incapace di rinnovarsi dall’interno. La saggezza del nostro presidente della Repubblica che difende giustamente il diritto del popolo italiano di scegliere i suoi rappresentanti, urta drasticamente contro l’uso violento dell’insulto con il quale il padre del nuovo movimento insiste nel praticare il non-confronto con gli altri.
Ma che padre è quello che si manifesta attraverso l’insulto? Si tratta di un padre che non ricalca più in alcun modo il modello edipico del Padre come simbolo della Legge. Si tratta di un padre-adolescente, di un padre-ragazzo, che parla, si esprime e si veste come fanno i suoi figli. Si tratta di un padre che rivela sintomaticamente quella alterazione profonda della differenza generazionale che è una grande tema, anche psicopatologico, del nostro tempo. Nondimeno questo padre che si maschera con gli abiti dei figli è un padre che non vuole rinunciare ad esercitare il suo diritto assoluto di proprietà sui suoi figli. Si provi a mettere questo padre di fronte alla critica o al dissenso e si vedrà in che cosa consiste la sua pasta. Dietro ogni leader totalitario che reclama la democrazia si cela una insofferenza congenita verso il tempo lungo della mediazione che la pratica della democrazia impone.
Il problema dell’eredità sembra allora rovesciarsi rispetto a quello che è accaduto alla sinistra: non è il padre come simbolo del vecchio che non vuole abbandonare il suo posto di fronte alla minaccia edipica della rottamazione, ma saranno probabilmente i figli che dovranno assumersi la responsabilità di non essere più “fuori” dalle istituzioni essendone diventati invece dei diretti rappresentanti. Saranno allora i figli a esigere il dialogo politico – rifiutato dal loro padre come segno di indegnità – come unica condizione per assicurare ad un paese in gravi difficoltà un governo possibile.
A questi nuovi figli dal viso pulito e dagli ideali forti dobbiamo affidare il compito di far ragionare un padre che sembra – almeno sino a questo momento – rifiutare la responsabilità che sempre comporta la sua funzione e a mascherarsi da “anima bella” che per Hegel era quella figura della Fenomenologia dello spirito che pretendeva di giudicare la storia dall’alto della sua beata innocenza senza considerare che nessuno mai può giudicare la storia senza considerare di farne parte.

l’Unità 6.3.13
Articolo 67, viva la libertà di ogni singolo parlamentare
di Gian Giacomo Migone


LA SITUAZIONE PARE SENZA VIE D’USCITA. INCOMBONO NUOVE ELEZIONI, FORSE PRECEDUTE DA UN GOVERNO SIMILE A QUELLO ATTUALE. Eppure c’è una speranza nell’aria. Speranza di un’autentica svolta nella vita collettiva degli Italiani, della nostra capacità di autogoverno attraverso un Parlamento che riacquisti il valore che aveva perso. Nei momenti di crisi più acuta si ripresenta l’alternativa che contrappone continuità e una rinnovata capacità di autogoverno: la fine delle guerre mondiali, la caduta del Muro di Berlino e la prima Tangentopoli. E ora una crisi economica pari a quella del 1929, con un drastico indebolimento della politica, accentuato nel nostro Paese da un’altrettanto drastica caduta dell’etica pubblica e privata.
Fa sperare il fatto che, per la prima volta dopo molti anni, i programmi di governo abbiano trovato posto in un dibattito pubblico da sempre inchiodato in maniera ossessiva ai giochi di schieramento. A ciò ha contribuito, bisogna riconoscerlo, il breve interludio del governo Monti, in maniera pur distorta dai diktat della crisi finanziaria di cui era portatore. Si diffonde il consenso su alcuni contenuti programmatici, possibile incontro tra rinnovamento della politica, che può soltanto avvenire nella riduzione dei suoi costi e nella sanzione delle sue degenerazioni, e impegno europeo, inteso come rispetto degli impegni assunti, ma anche mutamento di rotta economico, soprattutto accelerazione del processo d’integrazione democratica. Questa sintesi non si ritrova nelle ragioni di partito come formulati da Grillo per conto di Cinque Stelle, da Berlusconi e serpeggianti nel fatidico caminetto del Pd con Renzi quale convitato di pietra – ma in quelle diffuse da un leader all’attacco e sotto attacco (Bersani), con una disponibilità autocritica da accentuare, e che alberga nelle coscienze di molti neoparlamentari dalle collocazioni più svariate.
Qui emerge la condizione, ma anche l’estrema difficoltà per una svolta autentica. La nostra Costituzione prevede la libertà del parlamentare in quanto esclude ogni vincolo di mandato. Ciò non significa che sia politicamente e moralmente legittimo che egli prescinda dalla volontà degli elettori che il cosiddetto Porcellum ha ulteriormente concentrato in un simbolo di lista. Tuttavia l’essenza della democrazia parlamentare, non a caso sancita da costituenti pur ispirati da una profonda fede di appartenenza partitica, sta nella libertà ultima delle scelte dei membri del Parlamento come ispirate da convinzioni emerse dalle libere discussioni che in esso dovrebbero avvenire. Per questo l’articolo 67 della Costituzione esclude il vincolo di mandato, come ha spiegato Vittorio Emiliani su l’Unità d’ieri. Ovviamente, ciò non vale soltanto per gli eletti di Cinque Stelle poiché «Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione...».
Ipotesi di governo di minoranza con maggioranze flessibili nulla hanno di sovversivo rispetto al dettato costituzionale o a quanto è avvenuto e avviene in altri parlamenti occidentali. Quando lo ritenesse necessario, in presenza di una condizione irrinunciabile per continuare a vivere, un simile governo, dopo averla ottenuta nel momento della sua costituzione, potrebbe riporre la questione di fiducia. Occorre, tuttavia, aggiungere che una prassi storicamente consolidata nel nostro Paese ha eroso tali principi e ipotesi al punto di consegnare ai partiti ogni potere decisionale anche a scapito della sovranità che scaturisce dal libero esercizio del mandato parlamentare. Le scelte in dissenso sono state rare, qualche volta frutto di corruttela, come nel caso De Gregorio, e soltanto tollerate nei così detti casi di coscienza, quasi che essa tocchi la vita e la morte individuale e non ogni questione riguardante la salute pubblica. Gli stessi presidenti della Repubblica, salvo in casi rari, sono stati o si sono confinati all’interno dei troppo angusti limiti dettati dalla sommatoria delle discipline di partito. Qualcuno ricorda il brutale «Hai moneta?» con cui Giuseppe Saragat fronteggiò un Aldo Moro in procinto di formare un governo ma non ancora certo dei consensi dettati da logiche di schieramento.
Michele Serra (LaRepubblica, 3 marzo) si chiede se l’invito del presidente Napolitano a senso di responsabilità e misura sia da intendersi «come richiamo di un padre rispettato oppure come l’estremo appello di un potere assediato, quello della Repubblica come la conosciamo, fondata sui partiti, sulla concertazione politica?». Se ne può concludere che, in questa circostanza, o questi confini saranno travalicati con l’esito di un’innovazione sia di programma che di prassi parlamentare, tale da restituire al Parlamento la sua dignità originaria, oppure prevarrà una continuità sempre più logora prima di essere spazzata via da rivolgimenti sociali, prima che politici, dall’esito incerto.

Corriere 6.3.13
l'Illusione della Democrazia diretta
I rischi di una democrazia fondata sulla «volontà del web»
di Giovanni Belardelli


Se la democrazia consiste nel dare voce ai sentimenti popolari, nell'incanalare anche la protesta attraverso il voto, il Movimento 5 Stelle precisamente questa funzione ha svolto nelle ultime elezioni. Come poi riuscirà a proseguire su questa via dentro le aule del Parlamento credo sia un'incognita per tutti, anche per Grillo. Ma questa incognita non ha tanto a che fare con l'inesperienza dei grillini, analoga a quella dei primi leghisti e di tanti deputati berlusconiani delle origini. Riguarda piuttosto il fatto che il M5S è portatore di un'idea di democrazia diretta, fondata sul web e sull'eguaglianza assoluta di rappresentanti e rappresentati («uno vale uno»), che è difficilmente compatibile con le istituzioni della democrazia rappresentativa.
Qualunque «mediazione di organismi rappresentativi» è espressamente esclusa dallo statuto — anzi, «non-statuto» — di un Movimento per il quale il governo (si badi il governo, cioè il potere esecutivo, non la sovranità, cioè la titolarità del potere) dovrebbe spettare alla «totalità dei cittadini». È anche esclusa ogni gerarchia interna, tanto che si annuncia l'intenzione di cambiare i capigruppo di Camera e Senato ogni tre mesi. Neppure viene ammessa una qualche gerarchia fondata sulle competenze: secondo Grillo «una madre che ha tirato su tre figli» sarebbe del tutto in grado di gestire anche l'economia del Paese.
Sono affermazioni nelle quali si percepisce l'eco di suggestioni e utopie non nuove. È nientemeno a Rousseau che può esser fatta risalire l'idea secondo la quale «ogni legge che il popolo in persona non ha ratificato è nulla». Grillo e i suoi seguaci possono anche non aver mai letto il Contratto sociale. Ma l'aspirazione a costruire una democrazia priva di partiti e di ogni gerarchia ha attraversato la storia europea degli ultimi duecento anni e più: dai militanti dei club giacobini che vigilavano su ciò che alla Convenzione facevano i «cittadini» eletti (così annunciano di voler essere chiamati anche gli eletti grillini) alla fiducia di Proudhon o di Bakunin sulla capacità della società di autogovernarsi. Oggi Grillo vi aggiunge l'idea che tutto questo sia diventato finalmente possibile grazie alla Rete dove, come in un'assemblea globale perennemente riunita, tutti potremo pronunciarci su tutto, e gli eletti in Parlamento si limiteranno ad applicare le nostre decisioni. Da qui deriva la richiesta di reintrodurre il vincolo di mandato per gli eletti alle Camere: una richiesta che è sconosciuta alle democrazie moderne, che sono nate proprio superando quel mandato imperativo che oggi Grillo vorrebbe riesumare. Anche in questo, con una strana miscela di modernità internettiana e archeologia politica, ci si rifà inconsapevolmente a Rousseau, per il quale i deputati non erano i rappresentanti del popolo, ma solo i suoi «commissari», privi di volontà e iniziativa proprie.
Si è discusso a lungo sulle illusioni nate attorno alla democrazia del web, della quale finisce con l'essere protagonista un popolo senza volto, composto da dei «tutti» che rischiano di essere sostituiti — come spesso avviene nelle democrazie assembleari, anche in quella di Internet — dai gruppi dei militanti o cittadini più attivi, da minoranze insomma. Ma nella nuova democrazia diretta proposta da Grillo ci sono anche un'altra contraddizione e un altro pericolo che dovrebbero essere sotto gli occhi di tutti. La contraddizione e il pericolo risiedono nel fatto che un movimento che esalta l'assenza di strutture intermedie e di dirigenti, ha poi un leader che richiede obbedienza assoluta. Il punto non è in realtà che Grillo sia il capo indiscusso (e chi altro mai potrebbe essere, visto che a lui si deve il successo strepitoso del M5S?). È piuttosto che lo sia senza alcuna carica formale e perciò contendibile, nella quale possa venire sfidato da un eventuale oppositore interno.
Non sappiamo quanto questa paradossale (e poco rassicurante) idea di una democrazia diretta a guida autocratica potrà resistere una volta che il nuovo Parlamento si sia insediato. Possiamo immaginare, dalla decisione di costituire alla Camera e al Senato due strutture di comunicazione in costante contatto con Grillo, che all'inizio i suoi deputati e senatori saranno semplici esecutori di una «volontà del web» costantemente interpretata da Grillo stesso (e da Gianroberto Casaleggio). C'è chi ritiene che, come altre volte è avvenuto per i movimenti portatori di un'opposizione di sistema, la partecipazione al lavoro parlamentare — fatta di discussioni in Aula e in commissione, ma anche di contatti informali con i rappresentanti degli altri partiti — finirà presto per costituzionalizzare almeno una parte dei grillini. È possibile, ma credo che una tale previsione sottovaluti sia la capacità di controllo di Grillo sui suoi eletti (tanto più forte nella prospettiva, che nessuno può escludere, di nuove elezioni in tempi brevi); sia la forza che l'idea-mito di una democrazia del web — pur con tutte le sue ambiguità e i suoi pericoli — esercita sul Movimento 5 Stelle come fondamentale elemento identitario.

Corriere 6.3.13
Il centro precipita nel proprio vuoto
di Pierluigi Battista


Dopo la sconfitta elettorale, il centro moderato, quello che voleva e doveva diventare il terzo polo riequilibratore della politica italiana, è scomparso. Silente. Stordito. Incapace di indicare un sia pur minimo segnale di riscossa a beneficio almeno di quel 10 per cento di italiani che lo aveva scelto. L'ago della bilancia si è spezzato. Il terzo polo è emerso fragorosamente, ma sventola come icona quella di Beppe Grillo: altro che riequilibrio. I postumi di una sconfitta sono dolorosi. Ma il senso di lutto, se si è responsabili verso quella parte anche se minoritaria di elettorato che ha optato per i perdenti, non può essere l'unica risposta. Se le idee «riformiste» erano buone, è giusto non dismetterle anche nel caos post-elettorale che rischia di precipitare l'Italia nell'ingovernabilità.
Si cerca una via d'uscita al marasma scaturito dalle urne. L'attenzione pubblica è concentrata sull'oggetto misterioso che il movimento di Grillo ha portato in Parlamento. Ma il Pd e il Pdl sembrano inghiottiti dagli identici schemi del passato. Il bipolarismo che l'area capeggiata da Mario Monti bollava come primitivo e in balia delle rispettive spinte estremiste o massimaliste, è stato travolto da un pareggio che non prevede soluzioni di governo che non passino attraverso il bagno in una qualche trasversalità. Le forze che si sono combattute in campagna elettorale devono trovare una qualche intesa se non si vuole il ritorno il più celere possibile alle urne. Manca però la voce di quel «centro» che fino a pochi giorni fa sembrava il pilastro essenziale della governabilità futura. Il Fli di Fini è stato annichilito, l'Udc di Casini è ridotto al minimo, la «Scelta civica» di Monti vive un risultato deludente, asfittico, di gran lunga inferiore anche alle meno rosee previsioni. Ma gli sconfitti non possono diventare improvvisamente afoni. Se ritenevano la loro «agenda» essenziale per salvare l'Italia dal baratro della crisi, a maggior ragione oggi, anche se i numeri parlamentari non consentono di svolgere un ruolo determinante, quella certezza non può essere abbandonata, annientata dal dibattito politico. Le forze che si sono coalizzate per un progetto evidentemente non gradito all'elettorato devono seriamente ragionare sui motivi di una sconfitta tanto cocente, ma non possono consentirsi di svanire nel nulla, di condannarsi all'irrilevanza, di mettere il silenziatore su tutte le proposte sostenute con tanta veemenza in campagna elettorale. Se la linea di Pietro Ichino sul mercato del lavoro era considerata indispensabile alla vigilia delle elezioni, non può essere sradicata dall'ordine delle cose possibili dopo una disfatta elettorale. Se una parte della «società civile» ha ritenuto utile e urgente «salire» in politica, non è possibile che la salita venga seguita da una repentina e amara ridiscesa, a seguito di un verdetto elettorale molto negativo.
Se continuerà la linea depressiva del silenzio e dello sbigottimento post-traumatico, si regaleranno argomenti a chi considerava la coalizione centrista un mero espediente elettorale. In politica si può perdere, ma non si può sparire dopo aver perduto. Non ci si scioglie, non si lascia senza guida un 10 per cento di elettori, senza una prospettiva, senza l'idea di qualcosa per cui valga la pena combattere anche se le cose vanno in senso contrario. Qualcosa che vada oltre gli incontri istituzionali di routine. E che abbia l'ambizione di restare nel tempo.

Repubblica 6.3.13
Umberto Eco “L’illusione democratica del Sovrano online”
intervista di Stefano Bartezzaghi


“La chiave del successo di M5S è non apparire mai in televisione”
“Grillo ha successo perché non va in tv ma l’aristocrazia dei blog ora non basta”
Eco: quando la sinistra si dice vincente gli italiani votano a destra

SONO passati pochi anni, professor Umberto Eco, da quando ha detto che a volte avanziamo, ma «a passo di gambero». Parlava di «populismo mediatico» e di paradossi della civiltà tecnologica. Con il successo elettorale del Movimento 5 Stelle il gambero è ulteriormente arretrato?
«No, non è arretrato perché siamo di fronte a un cambiamento epocale. Arretrerebbe se Grillo insistesse a suggerire “faremo di quest’aula sorda e grigia un bivacco per i nostri manipoli”, perché lo aveva già detto Mussolini. Ma se ho delle esitazioni nei confronti di Grillo (che evidentemente si trova in un momento di stallo perché sta passando dalla protesta, in cui eccelle, alla gestione in positivo della sua rappresentanza parlamentare) ho invece una certa speranza nei confronti dei grillini anche se, non per colpa mia, non so ancora chi siano e cosa esattamente pensino sul come gestire la cosa pubblica. Se non altro non hanno ancora rubato».
Che cosa pensa della strategia che consente a Grillo di essere sempre in tv senza mai andarci?
«Io una volta avevo detto “la chiave del successo è non apparire mai in televisione”. Io non sono presente né su Facebook né su Twitter eppure vedo che qualsiasi cosa scriva viene ripreso su vari siti, e non posso fare un intervento nel più remoto seminario universitario che subito vado su YouTube. Dunque complimenti a Grillo che ha capito questo principio fondamentale: la comunicazione non è più diretta ma va come una palla di biliardo, ovvero si parla a nuora perché suocera intenda (o viceversa)».
L’insufficiente vittoria di Bersani è dovuta soprattutto a errori di comunicazione?
«Credo di sì e proprio nella Bustina di Minerva per il prossimo numero dell’Espresso dirò in sintesi che, quando Occhetto aveva annunciato di aver messo in piedi una gioiosa macchina da guerra, è iniziata l’epoca berlusconiana. E nel corso della scorsa campagna elettorale Bersani asseriva che avrebbe vinto e governato. Tutti abbiamo pensato che Bersani conducesse una campagna da gran signore, senza svaccare come i suoi avversari (ed era vero), ma non abbiamo tenuto conto che ogni volta che la sinistra si presenta come sicuramente vincente, perde. In un talk show Paolo Mieli aveva detto che da almeno sessant’anni in Italia il cinquanta per cento dei votanti non vuole un governo di sinistra o di centrosinistra. Non chiediamoci ora perché, è un fatto che per evitare un governo di sinistra (anche se l’aumento delle tasse è stato finora fatto solo da governi di centrodestra) una consistente porzione di elettori si è rivolta per cinquant’anni alla DC e per venti al berlusconismo. Forse la proposta alternativa poteva essere Monti ma (e anche questo è un fatto) non ha funzionato. Dunque la destra vince quando la sinistra convince l’elettorato moderato che sarà essa a salire al potere. Ne concludo che una dose di vittimismo è indispensabile per non galvanizzare gli avversari. Ovvero, per vincere devi seguire il principio (attuato da Berlusconi) del “chiagne e fotti”. Senza arrivare a tanto il PD poteva seguire il principio del “keep a low profile”, tieni sempre un “profilo basso”».
Tutti i partiti già esistenti hanno perso terreno.
«Credo che i partiti siano restii ad accettare il cambiamento epocale, e quindi danno ragione a Grillo quando usa l’appello (certamente populistico) del tutti a casa. Naturalmente non si ha democrazia dicendo che tutti i politici sono dei mascalzoni, ma che molti abbiano votato secondo questa persuasione, ecco un altro fatto, e coi fatti non si discute. Anche gli tsunami e le alluvioni sono un fatto, mentre chi fa le processioni per far piovere di solito rischia la siccità».
Sembra che Internet ormai possa giocare un ruolo preminente nella vita politica italiana, ma l'Italia è ancora molto arretrata nell'alfabetizzazione informatica e telematica.
«Questo è un problema capitale. Mi sono ricordato di alcune pagine del Contratto Sociale di Rousseau, che avevo studiato quando avevo dato con Norberto Bobbio l’esame di filosofia del diritto. Ora Rousseau distingue, in parole povere, tra il Sovrano (che non è il re bensì rappresenta la volontà genera-le), il popolo che lo incarna e il governo che mette in opera le leggi volute dal popolo. Ma sa benissimo che, se l’ideale della democrazia è l’agorà greca, dove tutto il popolo, e cioè la totalità degli individui, partecipa alla cosa pubblica senza mediazione, e vi debbono essere “più cittadini magistrati che cittadini semplici privati”, il principio vale per gli stati piccoli ma non può valere per gli stati troppo grandi “perché non è pensabile che il popolo rimanga in perpetua assemblea per disimpegnare i pubblici affari”. Rousseau è molto scettico circa le assemblee rappresentative (e dunque i parlamenti) e pertanto ritiene che “più ingrandisce lo Stato e più il governo dovrebbe restringersi in modo che il numero dei governanti diminuisca con l’aumento della popolazione”. Sono idee sue, che non discuteremo».
Rousseau confuta Grillo o Grillo confuta Rousseau?
«Il grillismo parlamentare è una contraddizione, di qui gli imbarazzi di Grillo, perché la sua idea era quella di un grillismo informatico. Cioè, se è impossibile riunire a legiferare i cittadini su una piazza, si crea la piazza informatica e mediante Internet in cui tutti parlano con tutti si ricrea l’agorà ateniese, per cui il Sovrano è “on line”. Ma l’idea non tiene conto del fatto che gli utenti del Web non sono tutti i cittadini (e per lungo tempo non lo saranno) per cui le decisioni non vengono prese dal popolo sovrano ma da un’aristocrazia di blogghisti. Pertanto non avremo mai il popolo in perpetua assemblea. Questo è l’impasse del grillismo che deve scegliere tra democrazia parlamentare (che esiste, e che lui ha accettato partecipando alle elezioni) e agorà, che non esiste più o non ancora. Una democrazia informatica è parsa esistere nella cosiddetta primavera araba, e ora vediamo chi poi ne ha approfittato».
Una rilevante quantità di intervistati ha mentito, come sempre: ma questa volta hanno favorito in segreto un movimento che predica la trasparenza. Sono i paradossi della «sondocrazia» ?
«C’è la barzelletta di quel bambino a cui chiedevano sempre se era un bambino e lui rispondeva una bambina, piombando nello sconforto i suoi genitori, che evidentemente erano all’antica. Poi quando da adolescente ha cominciato ad andare a ragazze i genitori gli hanno chiesto perché allora diceva di essere una bambina. E lui ha risposto: “quando mi fanno domande stupide do sempre risposte stupide”. Ecco, se qualcuno viene a chiedermi per telefono per chi voterò (o anche che cosa penso del tal prodotto) mi sento autorizzato a raccontargli una qualsiasi panzana».
Anche in politica, come in letteratura e nella comunicazione massmediale, sembra che il pathos oramai predomini sul logos. È altrimenti difficile spiegare certi flussi che hanno portato per esempio sostenitori di Renzi a votare per Grillo. È l'entertainment, o il “politainment”, che batte la politica? La politica è diventata anch'essa soggetta alla legge consumistica per cui tutto ciò che è nuovo è più attraente?
«In tempi in cui il vecchio non suscita più passioni anche il nuovo può diventare attraente. Ma il problema è che Nixon è stato battuto da Kennedy perché si è mostrato in TV con la barba malfatta. Nixon doveva ispirare sfiducia per ben altre ragioni, ma ha perso a causa del suo barbiere. Il Sovrano di Rousseau non sempre ragiona con la testa ma (a essere indulgenti) col cuore, e il cuore può fare brutti scherzi, come prova il numero di divorziati e il prurito del settimo anno».
I “tecnici” in politica non hanno avuto più successo degli intellettuali éngagés di una volta. È una sconfitta della cultura e della competenza, proprio in tempi che si vorrebbero meritocratici?
«Ma se hanno ammazzato Socrate, perché fa domande del genere? E, francamente, perché e per chi facciamo questa intervista? Ma in fondo siamo ancora gramsciani, pessimismo della ragione e ottimismo della volontà».

Corriere 6.3.13
Il trionfo a rovescio dei partiti microbo
di Gian Antonio Stella


Il record planetario è probabilmente di Democrazia atea, il nano-partitino che schierando nel Lazio non solo il leader dei Bambini di Satana Marco Dimitri ma addirittura la scienziata Margherita Hack (che pochi giorni prima delle elezioni scrisse a Lettera43.it di aver «saputo solo ora di questa presenza in lista») è riuscito a raccogliere per la Camera in totale, stando ai dati del Viminale, 556 voti. Presumibilmente quello della leader nazionale Carla Corsetti più un po' di amici, mariti, mogli, zie, cognate, cugini di primo grado e compagni di banco alle elementari.
Il trionfo a rovescio, una specie di «ciapa no» elettorale, della minuscola formazione capace di raccogliere lo 0,0% dei votanti (wow!), rischia di occultare un altro dato interessante. Ricordate tutta la polemica intorno alle firme necessarie per presentare le liste elettorali? Stando alle regole della legge in vigore, la 361 del 30 marzo 1957, per concorrere alle politiche occorreva un numero piuttosto alto di sottoscrizioni. Talmente alto da spingere perfino Beppe Grillo a preoccuparsi dei tempi stretti imposti dalle elezioni anticipate. Tempi che preoccupavano anche altri partiti che venivano costretti a una corsa forsennata e forse perdente. Ad esempio la Scelta civica dello stesso premier uscente Mario Monti. Il quale a un certo punto, facendo un favore a se stesso oltre che ad altri, aveva varato un decreto che dimezzava le firme necessarie in caso di elezioni anticipate. Firme poi ulteriormente dimezzate, quindi ridotte a un quarto. Con il risultato che un po' tutti i giornali riassunsero così: «Basteranno trentamila firme per la presentazione di una lista elettorale di una forza oggi extraparlamentare. Un'ulteriore riduzione del 60% è prevista per i partiti che — alla data d'entrata in vigore del decreto — sono costituiti in gruppo parlamentare almeno in una Camera, come l'Udc». Bene: i partiti che hanno preso addirittura meno voti delle firme necessarie per presentare la lista e portare qualche deputato a Montecitorio sono un'infinità. In ordine decrescente: i Liberali per l'Italia (28.026), Intesa popolare (25.680 voti), il Partito sardo d'azione (18.585), la Liga veneta Repubblica (15.838), il Voto di protesta (12.744), Veneto stato (11.378), i Riformisti italiani di Stefania Craxi (8.233), Indipendenza per la Sardegna (7.598), ciò che resta del glorioso Partito repubblicano italiano (7.143), il Partito di alternativa comunista (5.119), la Lista Meris (5.901), il Movimento progetto Italia (4.786), i Pirati (4.557), Rifondazione missina italiana (3.178), i Popolari uniti (2.992), il Progetto nazionale (2.865), il movimento Ppa (1.526), l'Unione popolare (1.513), Tutti insieme per l'Italia (1.452), Staminali d'Italia (598) e appunto Democrazia atea: 556.
Ora, è ovvio che alcuni di quei microbi in forma di «partito» si sono presentati solo a livello locale e bisogna tenerne conto. È fuori discussione, però, che mai come in questo caso non vale l'equazione «più partiti, più democrazia». Un minimo di senso del limite dovrebbe essere richiesto anche ai più strampalati megalomani.

il Fatto 6.3.13
Marchini: “Farò il sindaco da Corviale”
di Luca De Carolis


LA PROMESSA DEL CANDIDATO AL CAMPIDOGLIO: “SPOSTERÒ LA SEDE NEL PALAZZONE IN PERIFERIA”

Il candidato che ha diviso il Pd promette di fare il sindaco da Corviale, simbolo delle periferie romane. Ma prima vuole correre alle primarie, “purché siano realmente aperte”. Intervistato dalla tv del Fatto Quotidiano, Alfio Marchini, imprenditore in corsa per il Comune di Roma, ha distribuito annunci e precisato posizioni. La promessa riguarda la nuova, possibile casa dell’amministrazione: “Qualora diventassi sindaco, trasferirò la sede a Corviale”. Ovvero, nel serpentone in cemento creato negli anni ‘70 nei pressi della Portuense.
DUE PALAZZI congiunti di nove piani, lunghi un chilometro, che dovevano essere un modello di nuova edilizia, ma che sono diventati un lembo di periferia difficile. Marchini assicura che governerà da lì: “Trasferiremo la sede nella testata del corpo diagonale, uno spazio ora inutilizzato”. E il Campidoglio? Il terzo piano del Palazzo senatorio dovrebbe diventare “una biblioteca per studenti”, mentre parte dei servizi comunali verrebbe spostata nell’ex Ospedale Germanico. Ha voglia di cambiamenti rumorosi, l’erede della dinastia di costruttori rossi: freddo sul nuovo stadio della Roma (“non è una priorità”), deciso nel negare nuovi piani edilizi: “L’ultima cosa di cui ha bisogno la città è nuovo consumo del territorio”. Così scandisce, il Marchini amico intimo di Francesco Gaetano Caltagirone, costruttore dei costruttori. Cattolico, ben introdotto in Curia. “Ma non farò il giro delle sette chiese per avere la benedizione urbi et orbi” afferma Mar-chini. Il nodo più urgente però rimangono le primarie del centrosinistra, fissate per il 7 aprile. “Parteciperò, se saranno realmente aperte e non condizionate da meccanismi partitocratici” precisa Marchini. Proprio lui, che annunciando di volersi sottoporre ai gazebo aveva seminato caos a sinistra. Tre giorni fa il segretario romano dei Democratici, Marco Miccoli, gli aveva chiuso la porta sul Corriere della Sera: “Dico no a personaggi che non hanno avuto successo in città”. Ma a favore delle primarie aperte, anche a Marchini, si sono schierati in parecchi. A partire da Goffredo Bettini, il regista delle vittorie di Rutelli e di Veltroni, che per il Campidoglio vuole fortissimamente Ignazio Marino. Ieri ha parlato anche Massimiliamo Smeriglio (Sel), probabile vice di Nicola Zingaretti in Regione: “Rilanciamo le primarie superando lo schema delle attuali alleanze e aprendole senza barriere ideologiche”. E in serata Miccoli è parso aggiustare la rotta: “Le primarie saranno aperte a quanti sottoscriveranno una carta di valori e di intenti per l’alternativa al centrodestra, e si riconosceranno in un codice etico di comportamento”. Aggiunta: “Non è un problema di nomi”. Insomma, Marchini dovrebbe esserci nelle primarie aperte, anzi spalancate.
CON QUALI regole, dovranno chiarirlo la segreteria romana del Pd di oggi e, soprattutto, l’assemblea di venerdì prossimo. Ad oggi, i candidati sono una folla: sei, solo per il Pd. Nelle ultime ore è tornato a circolare anche il nome della giornalista Concita De Gregorio. Ma la candidatura che potrebbe fare da spartiacque è quella di Marino, su cui potrebbero convergere gli zingarettiani. Rimane da capire chi potrebbe essere il vero sfidante tra i tanti in campo: dal capogruppo Pd a Bruxelles, David Sassoli (vicino a Franceschini) a Paolo Gentiloni (renziano), sino al capogruppo Pd in Campidoglio, il dalemiano Umberto Marroni. Proprio Marroni, intervistato da Affari Italiani, ha picchiato duro su Bettini: “Se fosse ancora lui a dare le carte a Roma non farebbe questo casino”.

il Fatto 6.3.13
La7, perché la patata è davvero bollente
di Loris Mazzetti


Manager come Paolo Grassi o industriali come Olivetti e Barilla non esistono più. Non credo al filantropo Urbano Cairo, così come non ho mai creduto che l’obiettivo dell’accoppiata Bernabè-Stella fosse, tramite la tv, di rendere la società più democratica, libera dai caimani e dagli squali, nel rispetto della Costituzione. La7 per loro è stata solo business. Bernabè, sollecitato dai soci, dopo l’ennesimo bilancio in rosso ha deciso la vendita dell’emittente. L’immagine de La7, rivoluzionaria e alternativa, è solo effimera, costruita grazie alla presenza di conduttori (i macachi caduti dal banano Rai), che in questi anni di censure e di epurazioni si sono impegnati per la libertà di espressione. Gli unici che possono dormire tranquilli sono Mentana e Santoro. La vera forza dell’emittente. La presenza in tv di Dandini, Crozza, Formi-gli, Lerner, le sorelle Parodi, i fratelli Guzzanti, Gruber, Cucciari, non è riuscita, al di là del successo o meno delle loro trasmissioni, a fidelizzare il pubblico verso l’emittente. L’ascolto in prima serata è più che raddoppiato, ma nella media annuale non supera il 4,5% di share, mentre in quella giornaliera è sotto il 3%. Bernabè ha preso La7 che valeva sul mercato il 2% con un passivo di circa 100 milioni di euro, oggi il passivo è di 250 milioni (con una previsione di altri 80 nei primi sei mesi del 2013), mentre il valore dell’emittente, nonostante l’investimento nelle star tv, supera di poco il 3%. L’errore di Stella è stato quello di non creare sul territorio una struttura produttiva, cittadelle della tv in regioni strategiche come la Toscana e l’Emilia-Romagna, le cui istituzioni, pubbliche e non, sarebbero state disponibili a investire per portare lavoro e cultura. Stella ha preferito avvalersi esclusivamente di produttori esterni, pagando i loro programmi cifre fuori mercato, subendo anche la loro influenza sulle scelte di palinsesto, non sempre condivisibili. La vendita era inevitabile. Come è stata obbligata la cessione a Cairo che de La7 gestisce la pubblicità con un contratto capestro per la Telecom fino la 2019. La “patata bollente” porta a Cairo un’azienda di 500 dipendenti. Il rischio non è quello che La7 diventi la quarta rete del Cavaliere, ma in assenza di nuove regole sul conflitto d’interessi, l’antitrust, ecc., è che diventi una Real time generalista. Cairo sa che se gli dovesse andar male dietro all’angolo c’è una super manager pronta a subentrare: Marinella Soldi in rappresentanza di Discovery Channel il cui proprietario, John Malone, è giù potente e ricco di Murdoch.

Repubblica 6.3.13
Vatileaks divide ancora il pre Conclave Herranz: nessun cardinale coinvolto l’ira degli stranieri: vogliono insabbiare
Sodano: parlatene a parte. Via ai lavori per preparare la Sistina
di Marco Ansaldo


CITTÀ DEL VATICANO — Ieri mattina il cardinale spagnolo Julian Herranz Casado era l’uomo più criticato fra i porporati riuniti nell’Aula nuova del Sinodo. Il fine giurista dell’Opus Dei, allievo diretto del fondatore del movimento Escrivà de Balaguer, e oggi a capo della commissione d’inchiesta sul caso Vatileaks, ha detto ai 148 suoi confratelli che il rapporto segreto sulla vicenda delle carte trafugate dall’Appartamento papale non contempla il coinvolgimento di cardinali.
Herranz Casado è la persona che assieme ai colleghi Jozef Tomko e Salvatore De Giorgi ha redatto la “Relatio” super segreta voluta da Benedetto XVI. Un lavoro approfondito, e capace di andare ben oltre quanto emerso pubblicamente con il processo al maggiordomo del Pontefice, Paolo Gabriele, condannato per la fuga di documenti assieme al tecnico informatico Claudio Sciarpelletti.
Le risposte di Herranz hanno così indisposto buona parte dei cardinali residenziali, venuti a Roma per votare il nuovo Papa discutendo assieme ai loro colleghi nelle tradizionali Congregazioni generali. Una posizione, la sua, che è parsa togliere credibilità all’eminenza spagnola, e giudicata nei conciliaboli fuori aula come «falsa e clamorosa» dopo che tutti i media del mondo hanno parlato del rapporto choc.
Molti i perplessi. Tra loro, l’arcivescovo di Vienna, Christoph Schonborn, tenace sostenitore della trasparenza nella Chiesa. Alcuni americani, come il newyorchese Timothy Dolan e il bostoniano Sean O’Malley. Per non parlare dei tedeschi. I più critici non comprendono le ragioni del comportamento di Herranz. E si chiedono se il giurista spagnolo abbia assunto questa posizione per rispettare il Papa emerito con la disposizione che il dossier passi nelle mani del suo successore. Oppure se lo faccia a causa di pressioni. O se infine il cosiddetto “partito romano” gli abbia consigliato una sorta di altolà. Il cardinale decano Angelo Sodano è dell’opinione che dell’argomento se ne possa parlare con i 3 porporati detective anche in sede separata dall’aula.
Le accuse dei cardinali stranieri alla Curia vaticana si sostanziano con i dubbi su un possibile insabbiamento dell’inchiesta. Importanti le domande dei prossimi giorni. Ieri l’ordine degli iscritti a discutere si è allungato, non permettendo a tutti di prendere la parola. Perplessità anche sull’annullamento delle riunioni pomeridiane, sostituite oggi da una preghiera collegiale nella Basilica di San Pietro. «Pregare è compito sommo — commenta una fonte — ma in questa fase appare un po’ riempitivo, mentre invece ci sarebbe bisogno di discutere. Forse c’è però paura di farlo, e di dover rispondere a domande inquietanti».
Una dilatazione dei tempi che rischia di far allungare l’inizio del Conclave (da ieri chiusa la Sistina ai turisti per cominciare i lavori nella Cappella) visto che tanti ipotizzavano l’11 marzo. La discussione della mattinata è stata comunque migliore, per vivacità di interventi, rispetto al debutto. Il Camerlengo Tarcisio Bertone ha parlato per 15 minuti delle attività della Curia, e molti hanno preso atto di quella che viene definita come «ricoesione» con Sodano, suo storico avversario. Un ricompattamento letto dal fronte esterno secondo una logica romano-centrica. Altri interventi sono risultati generici, da “Stati generali” della Chiesa. Alcuni, invece, apprezzati, come quelli di due italiani papabili come Angelo Bagnasco (Genova) e Giuseppe Betori (Firenze). Molti sorpresi dalle parole dell’arcivescovo di Cracovia, Stanislaw Dziwisz, l’ex segretario personale di Karol Wojtyla, il solo a tracciare una sorta di identikit del nuovo Papa. Al termine è stato inviato un telegramma al Papa emerito, ringraziandolo per il suo «instancabile lavoro nella vigna del Signore».
La cartina di tornasole delle discussioni del mattino è poi rappresentata dall’ormai consueto briefing pomeridiano dei porporati americani, al North American College ai piedi del Gianicolo. Protagonista ieri il cappuccino O’-Malley, il quale ha allontanato la possibilità di ereditare le chiavi della Chiesa da Benedetto XVI: «Indosso il saio da 40 anni, credo che non lo cambierò in futuro». E poi, seriamente: «Per una delle decisioni più importanti della vita dobbiamo avere il tempo necessario. È importante avere discussioni previe, in modo che quando si entra in Conclave abbiamo le idee piuttosto chiare su chi votare. Meglio discutere prima».

La Stampa 6.3.13
I 60 anni dalla morte
Nella Russia putiniana torna in auge il mito di Stalin
di Francesca Sforza


Tutti in Piazza Rossa per celebrare i 60 anni della morte di Josif Stalin. Proprio tutti no, ma certo in molti rispetto agli anniversari d’occasione degli anni passati, in cui il 5 marzo veniva ricordato da un manipolo di vecchietti smarriti che imbracciavano bandiere rosse d’epoca sovietica e agitavano ritratti di cartone stazzonati, fumando o chiacchierando all’ingresso dei giardini di Alessandro per tornarsene a casa quando cominciava a irrigidire, non senza aver cantato qualche vecchio inno improntato a un’involontaria mestizia. Quest’anno la partecipazione è stata più numerosa, almeno per la «photo opportunity» in Piazza Rossa, che ha visto, per esempio, il rappresentante dei vetero-comunisti del Kprf Ghennadi Ziuganov posare un garofano rosso davanti alla statua del «piccolo padre» circondato da un migliaio di persone alle spalle.
Più elevato il numero dei nostalgici di Stalin che emerge da un sondaggio del Centro demoscopico Levada: il 49 per cento degli intervistati contro un 32 per cento di condanne senz’appello. «La riabilitazione di Stalin - spiega Lev Dmitrevic Gudkov, sociologo dell’istituto di ricerca - è iniziata con l’arrivo al potere di Putin. Nel 2012 per la prima volta è stato inserito al vertice della lista delle grandi personalità della Russia». «La verità sull’era staliniana - aggiunge Gudkov - è stata cancellata, sostituita da un culto devoto per l’uomo forte, il leader efficiente». C’è poco da stupirsi dunque che il quotidiano comunista «Sovetskaya Rossiya» pubblichi in prima pagina un articolo su Stalin intitolato «Il suo tempo verrà».
Il presidente Vladimir Putin, pur condannando in diverse occasioni le purghe e il terrore, non ha fatto nulla per correggere la lettura di Stalin come salvatore della patria. Anno dopo anno le celebrazioni del 9 maggio per la vittoria della grande Guerra Patriottica si sono fatte più magniloquenti e pompose, condite di tanto in tanto da autentiche perle di retorica. Come quando disse che bisognava non avere cuore per non aver provato dolore di fronte alla dissoluzione dell’Unione Sovietica, o quando rispolvera il progetto di creazione di una grande Unione euroasiatica con la Bielorussia.
«Quello di Putin è un modo di fare politica - osserva ancora Lev Gudkov - che rischia di far dimenticare macroscopiche evidenze storiche». Il numero di vittime dei Gulag, per esempio, o «il fatto che la guerra, con tutta probabilità, non fu vinta grazie a Stalin, ma malgrado lui».

Corriere 6.3.13
Se la Russia non fa i conti con il passato e riporta Stalin sul piedistallo
di Luigi Ippolito


I tedeschi hanno perfino una parola, Vergangenheitsbewältigung, ossia fare i conti col passato, affrontare il passato in un corpo a corpo: nella fattispecie, l'incubo nazista e l'orrore dell'Olocausto. I russi, invece, apparentemente, non sono neppure sfiorati dall'idea di dover fare i conti col loro cuore di tenebra, lo stalinismo. Anzi, 60 anni dopo la morte del dittatore sovietico (la ricorrenza era ieri), i sondaggi indicano che la popolarità di Stalin è in costante ascesa: metà degli interpellati pensa che il «piccolo padre» abbia svolto un ruolo positivo, contro un 32 per cento che ritiene il contrario. Vent'anni fa, le percentuali erano rovesciate.
Il favore popolare nei confronti dello stalinismo è cresciuto man mano che le sicurezze sociali e l'orgoglio patriottico del periodo sovietico cedevano il passo al darwinismo sociale e alla disgregazione nazionalistica. Ma è stato soprattutto dopo l'ascesa al potere di Vladimir Putin che la «rieducazione ideologica» della società russa ha riportato Stalin sul suo piedistallo. Gli spin doctor del putinismo non sono certo dei negazionisti: nessuno mette in dubbio le purghe e le esecuzioni di massa, ma l'accento è spostato tutto sui meriti di Stalin come comandante militare e come statista che ha modernizzato l'Urss e ne ha fatto una potenza mondiale. Esattamente le virtù di cui oggi vuole ammantarsi Putin. Ecco dunque gli scaffali delle librerie affollati di volumi che rileggono in positivo l'era staliniana, i quaderni scolastici decorati con le foto del dittatore, la città di Volgograd che rispolvera per le celebrazioni il vecchio nome di Stalingrado, la stazione della metropolitana di Mosca adornata di liriche in lode del defunto leader.
Quale contrasto con la Berlino del Memoriale alle vittime dell'Olocausto, a pochi passi dal Bundestag, o del Museo dell'Ebraismo di Daniel Libeskind. È anche in virtù di questo che la Germania è ridiventata un Paese normale. Ma finché la Russia non percorrerà la stessa strada, resterà confinata dietro una cortina di ferro morale.

La Stampa 6.3.13
Israele, bus separati per i lavoratori palestinesi


Autobus separati per i coloni israeliani e i lavoratori palestinesi che quotidianamente devono passare il confine tra la Cisgiordania e lo Stato ebraico. L’istituzione di un servizio dedicato da parte della compagnia di trasporto pubblico israeliana Afikim, in seguito alle lamentele e ai timori di attentati da parte dei coloni, ha sollevato un polverone, con più di una associazione per i diritti umani che ha esplicitamente usato la parola “apartheid”.Viene subito in mente lo storico caso di Rosa Parks la donna afroamericana che sfidò per prima la segregazione razziale sugli autobus degli Stati Uniti negli anni Cinquanta, e che anche Obama ha recentemete celebrato. Oppure la discriminazione sudafricana, con panchine diverse per i bianchi e i “colored”. La realtà, come spesso accade, è però più complessa di tutte le interpretazioni schematiche, e tra i lavoratori palestinesi si sentono anche voci di apprezzamento per l’iniziativa. «Questi autobus - spiega quest’uomo - ci renderanno la vita più facile. Aspettiamo di avere l’orario completo e speriamo che siano operativi anche di venerdì». «La nostra compagnia di trasporti - aggiunge il direttore della Afikim - ha attivato questo servizio con due linee che passano vicino al confine, per il bene dei palestinesi che devono andare in Israele per lavorare».La sensazione è che, all’atto pratico, questa controversa soluzione venga considerata migliore dai palestinesi rispetto all’essere semplicemente lasciati a piedi dai mezzi occupati dai coloni, ma il tema simbolico della segregazione resta di grande impatto e, a completare il quadro arriva anche la notizia inquietante del rogo di due autobus riservati ai palestinesi. Così al confine la tensione resta palpabile.

Repubblica 6.3.13
In viaggio sul bus che divide Israele
A bordo del mezzo pubblico per i palestinesi che hanno il permesso di lavoro in Israele “Questa è la nuova segregazione”
Attivisti e politici di entrambe le parti accusano: “È un nuovo apartheid”
Una linea per gli arabi voluta dallo Stato ebraico fa scoppiare le polemiche
Ma i responsabili non sembrano pronti a cambiare idea. Perché in un Paese sempre più diviso la parola d’ordine resta una sola: sicurezza
Troppo spesso il vicino è visto solo come un nemico
di Fabio Scuto


QALQILYA UNA pattuglia dell’esercito israeliano controlla che non ci siano tafferugli alla nuova fermata del pullman numero 211, il “bus della vergogna”: così i gruppi per la difesa dei diritti umani hanno ribattezzato la linea della compagnia “Afikim”, destinata solo ai pendolari palestinesi.

Non si era ancora levato il sole, ieri, quando si sono accesi gli stop del bus bianco e verde che si è fermato sulla piazzola a lato dell’incrocio, appena superato il check-point di Eyal, uno dei punti di uscita dalla Cisgiordania per i palestinesi che possono andare a lavorare in Israele. Intirizziti dal freddo secco del mattino, qualche centinaio di pendolari con il fagotto del pranzo sotto il braccio e il permesso di lavoro in mano, aspettano mestamente sotto una tettoia. C’è un borbottio, quasi sommesso, poi comunque si forma una coda per salire sul bus, tutti vengono perquisiti dalla sicurezza.
Una pattuglia dell’esercito israeliano a distanza controlla che non ci siano tafferugli alla nuova fermata del pullman numero 211, il “bus della vergogna”: così i gruppi per la difesa dei diritti umani hanno ribattezzato questa nuova linea della compagnia “Afikim”, destinata solo ai pendolari palestinesi. Una decisione, quella del ministro dei Trasporti Yisrael Katz, che ha suscitato lo sdegno di molti israeliani – per le analogie con l’America segregazionista degli Anni Cinquanta, con il Sudafrica prima di Mandela – e la rabbia del governo dell’Anp che denuncia “la nuova apartheid”. «È una politica di segregazione razziale adottata da tutti i governi israeliani», accusa il viceministro palestinese per il Lavoro, Assef Said. La tensione sale pericolosamente e l’altro ieri notte due bus della compagnia destinati a queste linee speciali sono stati bruciati nel posteggio di Kfar Qassem. Il servizio, che per ora ha solo due linee, è stato lanciato lunedì scorso dopo le proteste mosse dai coloni israeliani del vicino insediamento di Ariel – anche se da quel che si vede dalla Highway numero 5, Ariel sembra più una città con i suoi quasi 50 mila “settlers” residenti – che si sentivano minacciati dalla presenza degli arabi alla fermata o a bordo dei bus usati anche da loro.
FINO a domenica scorsa i lavoratori palestinesi, dopo aver passato il checkpoint di Eyal, raggiungevano a piedi una fermata dei mezzi pubblici poco distante dall’ingresso di Ariel per poi prendere insieme agli israeliani un mezzo diretto a Tel Aviv e alla piana di Sharon, dove centinaia di piccole aziende impiegano gran parte dei 29 mila palestinesi che hanno il permesso di lavoro in Israele.
Un tempo gli operai arrivavano a decine di migliaia da Gaza e dalla Cisgiordania, poi con l’Intifada nel 2000 e l’ondata di attentatori suicidi palestinesi, il numero di lavoratori a cui è stato concesso di entrare in Israele è precipitato, così come gli stipendi che gli vengono pagati. E oggi con una disoccupazione media del 30 per cento e un salario che in Cisgiordania è la metà di quello medio degli israeliani, un permesso di lavoro in Israele è comunque una manna: intere famiglie vivono solo di questo reddito che è poco meno di mille dollari al mese. «Questi autobus sono una vergogna, è solo l’ultima umiliazione che ci infliggono», dice pacato Gamal, ingegnere meccanico presso una ditta israeliana di Haifa. «Ma chi ha famiglia come me non può fare altrimenti e deve subire. Ma fino a quando?».
Ibrahim, che viene da Bidya, racconta: «Hanno distribuito dei volantini per il mio villaggio annunciando questa novità; ci stanno rendendo la vita impossibile, io vivo lontano da questo check-point e per arrivare fin qui c’è un’ora e mezzo di macchina da fare. Oggi mi sono alzato alle quattro per essere sicuro di poter prendere questo maledetto autobus; se lo perdo, perdo anche la giornata al lavoro».
Il ministero dei Trasporti israeliano ha già respinto le accuse di razzismo mosse dall'organizzazione israeliana per i diritti umani B'tselem, sottolineando la sua intenzione di rafforzare la sicurezza dei passeggeri (ebrei) e di voler contrastare i trasporti illegali, cioè i furgoncini israeliani abusivi che trasportano i lavoratori palestinesi fino a Tel
Aviv per 40 shekel: una rapina per chi ne guadagna meno di 200 al giorno. Ma il direttore di B’tselem, Jessica Montell, ribatte che la creazione di autobus separati «è solo razzismo, tale piano non può essere giustificato con le pretese esigenze di sicurezza o sovraffollamento» .
Il presidente del partito di sinistra Meretz ha scritto al ministro dei Trasporti per chiedere di cancellare le “linee dell’apartheid”: «La segregazione sugli autobus dimostra che l’occupazione e la democrazia non possono coesistere: era una consuetudine in passato dei regimi razzisti in tutto il mondo ed è inaccettabile in un Paese democratico».
Anche se per legge a un palestinese con il permesso di ingresso in Israele non può essere impedito di viaggiare su autobus di linea, da tempo la polizia si sta preparando per far rispettare la segregazione. Di conseguenza, non è difficile che a un palestinese che raggiunge un posto di blocco su un autobus di linea israeliano verrà chiesto di scendere e aspettare l'autobus speciale, quello della “vergogna”.
Racconta Fawzi, che fa l’ebanista vicino Lod, che giovedì della settimana scorsa, un autobus carico di passeggeri è stato fermato al posto di blocco nei pressi dell’incrocio di Shomron Shaar. Al controllo delle carte di identità, è saltato fuori che tutti i passeggeri erano palestinesi: gli era stato ordinato di lasciare il terminale e raggiungere a piedi l’altro check-point, quello di Azoun-Othma, a quasi 3 chilometri di distanza. A nulla sono servite le proteste dei passeggeri, secondo la polizia gli agenti hanno semplicemente eseguito le istruzioni ministero dei Trasporti.
Anche se molti sono gli indignati – Haaretz ieri titolava in prima pagina “Le nuove strade del razzismo” - questa è solo la punta di un iceberg. Nella Cisgiordania occupata e a Gerusalemme Est la segregazione tra i passeggeri israeliani e palestinesi su mezzi di trasporto pubblico non è certo nuova. A Gerusalemme, dalla stazione centrale partono le linee che collegano la Città Santa a Tel Aviv, Haifa, il Mar Morto e a diversi insediamenti israeliani in tutta la Cisgiordania. Questi autobus – riconoscibili dal colore verde brillante - non devono fermarsi ai posti di blocco, i passeggeri sono solo cittadini israeliani, soldati e coloni. Alcuni di questi autobus, quelli diretti agli insediamenti che sono fortemente sovvenzionati dal governo israeliano, spesso percorrono la città mezzi vuoti. È facile per questi pullman avere un orario prestabilito di arrivi e partenze; la stazione centrale è confortevole, c’è l’aria condizionata e anche un McDonald’s kosher.
Per viaggiare da Gerusalemme in una città palestinese in Cisgiordania, gli scassati minibus bianchi partono dalla stazione di Nablus Road: è all’aperto, caotica e trasandata, quasi nascosta dietro alla Città vecchia. Questi bus collegano Gerusalemme a Ramallah, Nablus, Betlemme e molte altre piccole città e villaggi palestinesi. Devono perciò passare attraverso diversi posti di blocco, dove spesso tutti i passeggeri sono costretti a scendere mentre i soldati israeliani verificano la loro identità per assicurarsi che essi non siano dove non dovrebbero essere. Nessuna di queste linee è sovvenzionata dal governo israeliano: per risparmiare partono dal capolinea solo quando i mezzi sono pieni, spesso troppo pieni, con i passeggeri in piedi tra i sedili. Impossibile per questi minibus avere un orario regolare, e per i passeggeri sapere quando si parte e quando si arriva. “Inshallah”, dicono i palestinesi, ma non sorridono e non sono contenti.

Repubblica 6.3.13
Parla lo scrittore israeliano Assaf Gavron: “Questo è razzismo”
“Vogliono creare un mondo dove gli arabi non esistono”
intervista di Alessandra Baduel


Sono d’accordo con chi protesta. Non sono con chi incendia macchine, ma capisco chi è contro le discriminazioni insite in questa misura
Abitiamo sulla stessa terra e dovremmo vederci, guardarci l’un l’altro, condividere la vita e anche l’autobus, naturalmente

«Se per anni e anni sali su un autobus dove ti maltrattano, magari va a finire che non ce la fai più e quando te ne assegnano uno tutto per te sei pure contento, anche se l’idea che c’è dietro è sbagliata». Lo scrittore israeliano Assaf Gavron sceglie un punto di vista provocatorio, per commentare gli autobus “per palestinesi” inaugurati lunedì che hanno suscitato proteste e accuse di razzismo e apartheid, da parte di israeliani oltre che delle autorità e dei sindacati palestinesi. «Sono con chi protesta», precisa Gavron, che nel suo libro La mia storia, la tua storia ha cercato di immedesimarsi sia in un israeliano sopravvissuto a più attentati che in un palestinese sospettato di essere un terrorista, partendo dal punto di vista, costantemente terrorizzato, di un passeggero di uno di quegli autobus che sono stati spesso oggetto di attentati a Tel Aviv.
Gavron, da cosa nasce un’iniziativa simile?
«Da una brutta atmosfera, un’idea orribile e un luogo molto negativo. I coloni non vivono bene con i palestinesi e i palestinesi vengono maltrattati da tutti, anche sugli autobus. L’idea di crearne alcuni apposta per loro è analoga a quella dell’anno scorso, molto imbarazzante, che riguardava le donne, da tenere separate, secondo gli ultraortodossi, sempre sugli autobus. In entrambi i casi si tratta di discriminare un gruppo su un mezzo di trasporto. Anche se ci sono molte differenze, una soprattutto: lì si trattava di religione, qui si tratta di politica. Ma io insisto, bisogna sapere com’è la vita di tutti i giorni, la vita reale delle persone, prima di giudicare. Una contraddizione rischia di diventare una cosa buona alla fine, nonostante tutto».
I palestinesi però protestano e l’altro ieri notte due di quegli autobus sono stati incendiati.
«Sono dalla loro parte. Non sono con chi incendia autobus, naturalmente, ma con chi è contro il razzismo insito in un fatto del genere. Il problema è che gli israeliani continuano a cercare di creare un mondo nel quale i palestinesi non esistono, non si vedono, sono stati cancellati. Ma condividiamo la stessa terra e dovremmo invece vederci, guardarci l’un l’altro, condividere la vita e anche l’autobus, naturalmente».
Trova similitudini con gli Stati Uniti degli anni Cinquanta, dove sui bus i neri dovevano viaggiare separati dai bianchi? Il movimento di Martin Luther King partì da lì.
«Non mi piace fare paragoni, cercare analogie, parlare di altre proteste. La nostra è una situazione molto specifica. Il presente israeliano è davvero peculiare. Adesso è in arrivo un nuovo governo, credo un poco meno peggio del precedente. Ci sarà presto la visita di Obama e almeno una parte di questo nuovo governo dovrebbe voler riaprire il dialogo con i palestinesi. Sono in pochi a volerlo, ma forse la situazione almeno in parte migliorerà, sebbene ci sia sempre Netanyahu».
Delle paure dei coloni, cosa pensa?
«Certo gli attentati, agli autobus e altrimenti, ci sono stati, ma da due anni va molto meglio. E io capisco la paura, senza dubbio, ma va detto che ha origine sempre nella stessa cattiva idea: non voler vedere i palestinesi. Però, anche in questo caso, bisogna guardare le vite vere. Oltre ai tanti coloni che vorrebbero escludere dal loro mondo i palestinesi, nei Territori occupati ci sono anche coloni che lavorano e vivono con loro: sono amici, passano il fine settimana insieme. Sono una minoranza ma esistono e bisogna tenerne conto, prima di giudicare. Le situazioni vanno guardate da vicino, accettando la loro complessità e studiandola. Nei miei libri, cerco di fare proprio questo. È il mio modo di essere ottimista, e di combattere ogni razzismo».

Repubblica 6.3.13
La rivoluzione interrotta del caudillo che usò il petrolio per diventare eterno
di Omero Ciai


PENSANDO all’uomo che ha governato fino a ieri il Venezuela, vincendo quattro elezioni consecutive, vengono in mente i personaggi delle epopee letterarie dell’America Latina, come viene in mente la tragica parabola di Simón Bolívar, da cui Chávez trasse impulso e leggenda collocando nel palazzo di Miraflores perfino una poltrona vuota, quella del “Libertador”, accanto alla sua. Nel bene e nel male Chávez ha attraversato oltre un decennio di storia, determinandola con la forza delle sue intuizioni e delle sue scelte. Persino delle sue «ricette» politiche che, magari riviste e corrette, hanno fatto scuola in molti Paesi, dal Brasile all’Argentina, dall’Ecuador alla Bolivia.
Anche quando entrò sulla scena per la prima volta, il 4 febbraio 1992, guidando un fallito colpo di Stato militare contro il presidente Carlos Andrés Perez, aveva già le idee chiarissime. Dieci anni prima, insieme ad un gruppo di giovani militari, Chávez aveva fondato il «movimento bolivariano rivoluzionario 200» (allusione ai 200 anni dalla nascita di Bolívar), che nei loro obiettivi avrebbe dovuto «cambiare il Paese» allontanando dal potere i vecchi partiti e i vecchi oligarchi incapaci di affrontare e risolvere l’estrema povertà della maggior parte dei venezuelani.
Un passaggio chiave nell’avventura politica di Chávez fu il famoso «Caracazo » del 1989. Il 27 e 28 febbraio di quell’anno l’esercito represse nel sangue una rivolta popolare contro un pacchetto di misure anticrisi imposte dal Fondo monetario internazionale. La violenza dei militari fu particolarmente brutale in tutta la cintura dei quartieri popolari alla periferia di Caracas, e il numero delle vittime non fu mai reso noto ufficialmente (alcune fonti parlarono di 3500 morti).
Tre anni dopo, in memoria di quella strage, Chávez tentò il putsch. Andò male e si arrese quasi subito ma nei «barrios» della capitale divenne un eroe così venerato che per la rivincita doveva solo attendere il suo momento. Trascorse appena due anni in carcere e, appena uscito, riprese l’attività politica.
Il primo incontro con il leader che avrebbe guidato e appoggiato la sua ascesa, Fidel Castro, avvenne alla fine del 1994, pochi mesi dopo la sua uscita dalla prigione. Subito dopo fondò il movimento Quinta repubblica e la coalizione elettorale «Polo patriottico », che in poco tempo raccolse l’appoggio di tutte le formazioni della sinistra venezuelana. Il 6 novembre del 1998 finalmente il successo. Chávez venne eletto presidente con il 56,5 per cento dei voti.
Da quel momento la sua unica ossessione fu quella di trasformare in eterna la vittoria mobilitando una parte della società venezuelana, quella più indigente, contro l’altra, «los escualidos» (gli squallidi) della classe media alta e dell’aristocrazia, rurale e petrolifera. Appena arrivato a Miraflores, il palazzo presidenziale nel vecchio centro barocco di Caracas, Chávez modificò la Costituzione, allungando a sei anni il mandato. Poi lo rese perenne: il presidente può ripresentarsi tutte le volte che può. Infine, al termine di un lungo braccio di ferro che si ricorda con il nome di «paro petrolifero», e dopo un golpe fallito contro di lui, tra la fine del 2002 e il 2003, conquistò le chiavi della cassaforte: il controllo personale e assoluto su Pdvsa, la holding del petrolio.
Una strategia perfetta che gli ha garantito il trionfo in tre elezioni successive: 2000, 2006 e 2012. Per oltre dieci anni ha fatto in Venezuela tutto quel che ha voluto, umiliando qualsiasi opposizione. Ha chiuso Rctv, la tv degli escualidos e ridotto all’obbedienza tutte le altre. Litigato con il re di Spagna e rotto con Washington. Ma soprattutto ha usato la sua grande risorsa, il petrolio, per modificare il ruolo geostrategico del Venezuela. Stringendo nuove alleanze con Cuba, l’Iran e infine la Cina.
Senza freni Chávez ha anche cercato di allungare la sua egemonia su Centro e Sud America, proponendosi come modello a molti personaggi in cerca d’autore. Dalla peronista Cristina Kirchner, nuova Evita dell’Argentina; a Evo, il presidente «indio» della Bolivia; a Daniel Ortega, il sandinista invecchiato male di Managua; fino a Correa, presidente caudillo dell’Ecuador. Suo mentore e spesso, finché ne ha avuto le forze, suo stratega, è stato Fidel Castro, che dopo anni di precario isolamento, post caduta del Muro e dell’Urss, aveva trovato in Chávez la capacità dissuasiva — milioni e milioni di barili di greggio — che dalla sua piccola e povera isola non avrebbe mai immaginato di possedere.
Nel suo Paese, confondendo sempre, da buon caudillo, il governo con lo Stato, ha occupato tutto quel che c’era da occupare. Riuscendo comunque a galvanizzare masse con le sue «misiones », i programmi sociali, che non hanno cambiato l’esistenza degli indigenti ma certo gliela hanno resa meno penosa e umiliante. Grazie a Chávez migliaia di venezuelani si sono potuti operare gratis, molti hanno avuto una casa, altri un paio di occhiali, altri ancora un vitalizio.
Giudicare oggi la profondità dei cambiamenti che è riuscito a realizzare non è facile. Bisognerà lasciar riposare tutta la sabbia della propaganda prima di valutare gli effetti del suo «socialismo del XXI secolo» ma non c’è dubbio che nella sua morte prematura c’è un aspetto crudele. Il suo tormento per diventare perenne s’è scontrato con un male incurabile. Così quella di Chávez è un’altra rivoluzione interrotta, abbandonata ai suoi precari epigoni, che lo trasformerà in un altro immortale o, se volete, più cinicamente, in un’altra effigie da t-shirt come Evita, il Che o Sandino.

Repubblica 6.3.13
Cina, inizia l’era di Xi Jinping il leader debole punta sull’esercito più 10% per le spese militari
L’Assemblea del popolo lo nominerà presidente il 17
di Giampaolo Visetti


PECHINO — La Cina proclama Xi Jinping presidente, ma scopre di avere alla guida il leader più debole degli ultimi vent’anni. Per la prima volta il neo segretario generale del partito comunista, divenuto anche capo dell’esercito nel congresso di novembre, si troverà a comandare mentre i suoi due predecessori, Jiang Zemin e Hu Jintao, sono in vita e politicamente attivi. Fino al 2017 la “cricca di Shanghai” e gli esponenti della Lega della gioventù comunista monopolizzeranno inoltre sia il Comitato centrale che la stretta cerchia del Comitato permanente, frenando l’ansia riformista esibita dai “principi rossi”, base del consenso di Xi Jiping. E tra cinque anni, alla scadenza del primo mandato, aperture e riforme potrebbero incontrare ostacoli più difficili. Tra i sette membri del Politburo, solo il presidente e il prossimo premier, il delfino di Hu, Li Keqiang, non raggiungeranno l’età della pensione e governeranno la Cina fino al 2017. Ma attorno a loro saranno cresciuti i promossi di Jiang e di Hu, oltre che gli allievi del premier uscente Wen Jiabao, leader più popolare del Paese.
Costruire un consenso personale e ottenere l’appoggio dell’esercito per varare riforme indispensabili a evitare l’implosione del sistema è la missione di Xi Jiping, il “leader fragile e solo” che il 17 marzo sarà incoronato “imperatore” della seconda economia mondiale. Il primo passo è stato mosso ieri, quando a Pechino i tremila deputati dell’Assemblea Nazionale del Popolo hanno aperto la sessione annuale. Wen Jiabao ha tenuto il suo “rapporto d’addio”, ricordando i trionfi economici del “decennio d’oro” cinese, segnato da una crescita del Pil a doppia cifra. Wen ha ridotto al 7,5% gli obbiettivi di crescita per il 2013, inferiori anche al 7,8% dell’anno scorso, peggior risultato degli ultimi tredici anni. Continuerà invece a rafforzarsi il budget della difesa, che tanto allarma i vicini dell’Asia e il presidente Usa, Barack Obama. Le spese militari saliranno ufficialmente del 10,7%, rispetto all’11,6% del 2012, impegnando quasi 116 miliardi di dollari. Nel Pacifico la tensione continua a salire — ha spiegato Fu Ying, prima donna portavoce del parlamento — e Pechino è decisa a trasformare i 2,5 milioni di soldati del suo esercito nell’armata più moderna del pianeta.
Tra le grandi novità del “tramonto dei tecnocrati”, l’irruzione nell’Assemblea nazionale dei problemi che negli ultimi mesi hanno occupato la Rete e cominciato a formare un’opinione pubblica che sfugge alla censura. Al primo posto la lotta alla corruzione e ai privilegi dei funzionari, seguita dalla riduzione del divario tra ricchi e poveri, dalla deburocratizzazione del partito, dalla guerra allo smog e ai veleni che stanno intossicando il Paese, dalla sicurezza alimentare, dalla fine dell’obbligo di figlio unico e dall’estensione del welfare ad oltre duecento milioni di migranti. Assieme alla «trasparenza» e alla «sobrietà» del potere, l’accelerazione dell’urbanizzazione è il primo punto nell’agenda della nuova coppia Xi Jinping-Li Keqiang. Nelle campagne il reddito medio è un decimo di quello urbano e una massa di oltre 750 milioni di cinesi resta esclusa dai consumi. «La Cina però — ha detto Wen Jiabao — per non crollare deve sottrarsi alla monocoltura delle esportazioni». L’Occidente consumerà meno e Pechino, per cambiare modello di sviluppo, deve prodursi anche i consumatori. Di qui la sfida dell’urbanizzazione, con decine di città da espandere in metropoli entro cinque anni e con l’impressionante massa dei «trapiantati» in attesa di fondi e diritti per convertirsi al «consumare è glorioso ». Un’impresa storica: a patto che nei prossimi giorni Xi Jinping conquisti l’esercito, lo convinca a lasciarlo meno solo nella lotta tra gli eredi di Jiang Zemin e di Hu Jintao, e a non cedere alle sirene della guerra che sempre più affollano l’Oriente. Riforme in cambio di stabilità: il «leader fragile » si gioca il futuro, il resto del mondo anche il presente.

Repubblica 6.3.13
Il no della madre “in affitto” il feto è malato, non abortisce
Rifiuta i soldi dei genitori. E l’America si divide
di Massimo Vincenzi


NEW YORK — È strano mettere l’aggettivo surrogata davanti a mamma nel raccontare la storia di Crystal Kelley che da questa mattina rimbalza da un notiziario a un dibattito negli studi della Cnn.
Questa è la storia di una giovane donna che ha lottato contro la medicina, la legge e soprattutto forse contro uno dei nodi più aggrovigliati della morale dei giorni nostri. Scatenando infatti subito un fiume di polemiche: «Salvatrice» o «Satana» viene chiamata sui blog, che la tv americana ospita sul suo sito. Salvatrice o satana per aver rifiutato di abortire, come le chiedevano i genitori a cui era destinato il neonato, dopo che gli esami hanno segnalato problemi gravi al feto. Salvatrice o satana per aver rifiutato 10mila dollari per mettere fine alla gravidanza, iniziando così una drammatica battaglia tra diritto ed etica.
La cronaca è semplice e all’inizio è la replica di mille altri casi simili qui in America. Crystal Kelley ha bisogno di denaro e soprattutto — dichiara lei alla Cnn — «vuole fare del bene a un’altra famiglia». Così si rivolge a un’agenzia che mette in contatto le coppie con difficoltà ad avere figli e le future madri surrogate. Qualche giorno di attesa poi la telefonata: «Ci sono dei potenziali genitori». L’incontro avviene vicino a casa di lei a Vernon, nel Connecticut, e sono subito abbracci, lacrime di gioia per quel che accadrà. Ma cinque mesi dopo, durante un controllo di routine all’ospedale, la cronaca fa il suo giro: «Ci dispiace ma il feto sembra avere dei problemi, servono nuovi controlli». Che arrivano e che confermano: «Il cuore è piccolo, ci sono danni alla bocca e una ciste al cervello».
La coppia non ha dubbi: «Abbiamo avuto altri figli prematuri con problemi, sappiamo quanta sofferenza comporta a loro vivere e quanto sia duro per noi. Volevamo qualcosa di meglio per il nostro quarto bambino». Ma la mamma surrogata dice no. Dice no anche quando, con ormai gli avvocati in campo da entrambi le parti, le vengono offerti 10mila dollari per abortire. Anche se, fanno notare i suoi detrattori, in un primo momento aveva pensato di chiederne 15mila: «Ma me ne sono subito pentita, appena sono salita in macchina per tornare a casa ho cambiato idea. In quel momento ho capito che io ero l’unica a volere lottare per quel piccolo », racconta sempre alla Cnn.
E così la sola strada da prendere è la fuga nel Michigan dove la diversa legislazione dello Stato attribuisce tutti i diritti alla madre surrogata che porta in grembo il bambino. E qui nasce “Baby S.” che adesso ha 9 mesi e che ha appena iniziato la sua battaglia per sfuggire al destino segnato dalle sue malattie. A occuparsi di lei, una nuova coppia che ha deciso di adottarla. Nell’attesa, prevedibile, che la sfida legale continui. Come quella ben più complessa sulla morale: salvatrice o satana.

Repubblica 6.3.13
Il rogo della Città della scienza sfregio criminale a Napoli dove nulla può sopravvivere
Così la camorra vuole cementificare Bagnoli
di Roberto Saviano


BAGNOLI è ai piedi della collina di Posillipo, sente l’alito della meravigliosa isola di Nisida, luogo incantevole, paradiso naturale che nessuno è riuscito a violare, nemmeno l’acciaieria — o piuttosto ciò che ne resta — che sembra ormai armonizzarsi al territorio, come archeologia industriale. Aver finora miracolosamente salvato questa zona dalla speculazione edilizia permette anche di poter leggere, attraverso Bagnoli, i capitoli dell’avventura napoletana: i sogni della città e le sue maledizioni, l’idea e il suo fallimento.
Bagnoli, Italsider, Città della scienza: territorio chiave per capire il Mezzogiorno. L’Italsider era stato il sogno di riscatto, l’idea che attraverso l’industrializzazione si potesse rilanciare il sud Italia, emanciparlo, costruire una classe operaia che acquisisse consapevolezza politica. Così un luogo meraviglioso venne trasformato in un’immensa fabbrica. L’acciaio ha bisogno di stare vicino al mare, e questa lingua di terra con il fuoco ci ha sempre avuto a che fare: con il fuoco degli altiforni. Il fuoco rovente della lega inattaccabile: l’acciaio.
Ma Bagnoli per le nuove generazioni non è l’Italsider: è il contrario. È un’area da salvare anche dai fallimenti di una sinistra finita sotto le macerie del muro di Berlino. È riappropriarsi di un territorio che secondo la storia recente di quei luoghi aveva enormi probabilità di diventare terra di conquista del cemento. Il sogno della Città della scienza sembrava essere stato realizzato perché la sua costruzione aveva sottratto quell’area alla speculazione edilizia. Lì, per la prima volta, avevo ascoltato il suono di una dinamite diversa che doveva servire a far saltare le ciminiere e non a uccidere persone oppure a distruggere i negozi di chi non si piegava al racket.
La riconversione di quell’area sembrò davvero cambiare tutto. C’è un libro che ha raccontato questa epica del lavoro come redenzione, divenuta poi tentativo di salvare quel territorio: “La dismissione”, di Ermanno Rea. Il protagonista, Vincenzo Buonocore, è un ex operaio dell’Italsider che ha creduto nel lavoro e ha creduto nella «bellezza » di quel luogo convertito da gioiello naturalistico in acciaieria. E dinanzi alle fiamme ho pensato proprio agli ex operai dell’Italsider e a tutti coloro che avevano creduto prima nell’industria e poi nella cultura come leve per emancipare questa terra dal sottosviluppo e dal crimine. E ne sono rimasti delusi.
Un territorio che è riuscito a sopravvivere all’acciaio, alla speculazione politica, resistendo a quella edilizia, una terra che aveva costituito nella mia adolescenza il sogno realizzato di un Mezzogiorno completamente diverso da quello che avevano vissuto le generazioni precedenti, il sogno di vedere un luogo dove i bambini potevano stare vicino al mare e studiare la fisica, dove potevano giocare imparando le scienze, cosa che avevo visto fare solo in Germania. Era davvero un segno di speranza concretissima e ci aveva dato anche la percezione che una volta adulti ci saremmo realizzati non lontano dalla nostra terra. Così non è stato. Ma di quel sogno era rimasto almeno lei, la Città della scienza. Il suo museo.
Città della scienza non è però stata soltanto bellezza, un luogo dove la scienza diveniva vita. Città della scienza doveva resistere anche alle manate della politica, perché era diventata un succulento boccone delle clientele. Dall’arte alla musica tutto doveva passare sempre attraverso il filtro della politica che era per forza di cose legata ad Antonio Bassolino. Spessissimo quindi la macchina di Città della scienza è stata utilizzata come un’estensione del potere politico, e quindi scambi di favori, posti e lavoro, voti. Di tutto questo è stata vittima e di questo centinaia di persone sono testimoni. La prima grande tragedia che ha vissuto Città della scienza è stata politica e ha coinciso con il passaggio da una politica riformista e realmente meridionalista, come provava a essere quella del primo Bassolino, alla seconda terribile parte della politica bassoliniana fatta di corporazioni, potere, scambio, sprechi.
Chi sia stato a darle fuoco solo le inchieste potranno dimostrarlo: ma certo era facile accedervi, era un luogo labirintico probabilmente difficile da monitorare. È ovvio il sospetto che possano essere state le organizzazioni criminali: la camorra ha innanzitutto un interesse nella bonifica dei territori contaminati dall’amianto a Bagnoli, l’area Eternit. Ma la camorra non ha da guadagnarci nulla direttamente, se non l’affronto, il gesto simbolico. Lì non si può realizzare il suo sogno, costruire condomini di lusso. Almeno per ora.
E allora chi è stato? Le organizzazioni criminali? Qualcuno che voleva incassare soldi delle assicurazioni e così trovare soluzione ai debiti? Ci sono anche ipotesi ancora più impervie. All’interno di Città della scienza vi era la possibilità da qualche anno di aiutare piccole imprese nella fase di start up, di poter prendere in affitto a canoni vantaggiosi alcuni locali. Tra queste la SSRI (acronimo di Sicurezza Sistemi Reti Informatiche) un’azienda che si occupa anche di prestare consulenza alla Procura della Repubblica di Napoli. Lavoro che implica la possibilità di custodire presso il proprio ufficio e quindi presso Città della scienza, memorie fisiche sottoposte a sequestro per lo svolgimento di indagini? Qualcuno voleva forse distruggere prove? Per ora tutte queste sono solo ipotesi frutto di rabbia mentre si è asfissiati dal senso d’impotenza ben più soffocante dei fumi di ieri notte.
La verità è che Città della scienza inizia a bruciare prima di questo rogo, inizia a bruciare quando non viene portata avanti la bonifica di tutta l’area. Inizia a bruciare quando la pressione politica non la fa crescere, non le permette il necessario sviluppo e la lascia incompiuta, come un bel sogno interrotto a metà. Spero che questa cenere sia elemento per ricostruire, per ricostruire meglio. Per ricostruire una città su cui nessuno può mettere le mani.
Spero insomma che questa città perennemente ferita a morte, trovi ancora una volta la forza di rialzarsi. Ma per farlo questa volta deve davvero chiudere con il suo passato più recente, con uomini, con poteri, con aziende, figli di quella riforma diventati poi tiranni di un territorio. E allo stesso tempo deve trovare un nuovo corso non fatto di proclami ma costruito nella difficile e certosina concretezza che non porta a soluzione immediate ma a percorsi lungimiranti il cui inizio, però, non può che partire oggi. Napoli lo merita, i napoletani hanno i talenti per farlo. Sotto la cenere sta la brace ardente.

Repubblica 6.3.13
Quale terra i miti erediteranno
Il saggio di Remo Bodei e Sergio Givone sulla terza Beatitudine
di Valerio Magrelli


Verso l’inizio del Novecento, un mirabile triangolo intellettuale venne tracciato fra India, Russia e Germania. Come una specie di costellazione, i nomi di tre grandi pensatori si intersecarono in un cielo destinato a conoscere tutto l’orrore delle Guerre Mondiali. Eppure, la sintonia raggiunta fra questi uomini non rimase priva di eredità, e in certi casi arrivò a modificare la Storia del XX secolo. Stiamo parlando di un politico (Gandhi), un romanziere (Tolstoj) e un teologo martire (Bonhoeffer). Infatti, fra il 1909 e il 1910, il teorico della non-violenza scrisse all’autore di Guerra e pace. Tolstoj, le cui vedute rivoluzionarie avevano provocato la sua scomunica da parte della Chiesa ortodossa, rispose alle lettere ammirate di Gandhi in un clima di piena concordanza sui temi della pace e dell’antimilitarismo. Giusto vent’anni dopo, sarà invece Bonhoeffer a stringere un rapporto epistolare con il Mahatma, ossia la “grande anima” (come fu chiamata la guida spirituale dell’India). A ricostruire tale impressionante convergenza filosofica, è Remo Bodei, in un intervento che compone, con quello di Sergio Givone, Beati i miti, perché avranno in eredità la terra (Lindau). L’idea di presentare una serie di brevi opere a quattro mani, caratterizza la nuova collana i Pellicani/le Beatitudini, nata per affrontare quella che viene considerata la “Magna Charta” del cristianesimo. Si tratta del Discorso della Montagna che Cristo tenne vicino al lago di Tiberiade, come si dice nel testo evangelico di Matteo 5, 5. Coordinato da Roberto Righetto con la collaborazione di Lorenzo Fazzini, il progetto editoriale prevede otto libri per altrettante Beatitudini e si è aperto con la prima, cioè Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli, a firma Gianfranco Ravasi e Adriano Sofri. Ad essa sono seguiti i testi sulle restanti sette, in cui compaiono, tra gli altri, studi di Franco Cardini, Luigi Ciotti, Franco Cassano, Goffredo Fofi, Luisa Muraro e Eraldo Affinati.
Ma torniamo ai contributi di Givone e Bodei su Beati i miti, perché avranno in eredità la terra.
Il secondo, si è visto, si concentra sui grandi interpreti della mitezza evangelica in epoca moderna (e ai nomi menzionati occorrerà aggiungere almeno quello di un missionario come Schweitzer). La sua analisi, però, muove da un serrato confronto fra l’etica cristiana e quella aristotelica, per sottolineare come, in entrambe le visioni, la mitezza non escluda il ricorso a una “giusta ira” nei confronti del male o dell’indifferenza. Un simile parere contrasta fortemente con quanto diffuso nella società contemporanea, dove la mitezza è spesso assimilata alla passività, alla debolezza, alla mancanza di coraggio. Nessuno, d’altronde, potrebbe confermare tali posizioni meglio dello stesso Bonhoeffer, che nella sua pura fede non esitò a partecipare alla congiura per uccidere Hitler del 1944, ben nota come “Operazione Valkiria” — scelta pagata con l’impiccagione.
Diversa l’impostazione che Givone dà al proprio lavoro, intitolato Abitare la terra. Pur soffermandosi sull’etimo della parola “beati” (che traduce i mites del latino), pur confrontando i diversi significati che la mitezza assume nel pensiero greco e nella cultura giudaicocristiana (in particolare nell’Antico Testamento, con i Salmi, nelle lettere di san Paolo e nella concezione ascetica e mistica del cristianesimo tipica del Medioevo), il suo esame si orienta piuttosto sulla seconda parte del titolo, per indagare appunto il concetto di “eredità della terra” e la sua reinterpretazione formulata dal pensiero ecologico. Nel contrapporsi alla prospettiva laica di Bodei, l’impostazione religiosa di Givone pone l’accento sulla necessità di salvaguardare la terra ricevuta in eredità per le prossime generazioni. «I miti», leggiamo, «avranno in eredità la terra in quanto miti. Vale a dire: non c’è altro modo di ereditare la terra che disponendosi verso di essa in un atteggiamento di totale remissione, di totale accoglienza e di totale consenso».
La parte finale del testo affronta i movimenti più recenti, dal pacifismo degli anni Sessanta all’ecologismo dei nostri giorni, per abbracciare il neoumanesimo di Hans Jonas e la sua parola d’ordine: «Agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la sopravvivenza della vita umana sulla terra». Secondo il pensatore tedesco, saremo giudicati per come avremo lasciato la terra alle generazioni future. Da qui la conclusione, secondo cui bisogna custodire la terra opponendo, alla rapace violenza del dominio, la misura, la cura, insomma, la mitezza dell’ospite. Per questo Givone può concludere affermando: «Beati i miti, perché abitano la terra in modo che possa ancora essere abitata dopo di loro».

Beati i miti di Remo Bodei e Sergio Givone Lindau pagg. 85 euro 13

La Stampa 6.3.13
Da oggi su Google si impara l’arte grazie agli hangout con i musei


Prende il via oggi il progetto Art Talks di Google. Ogni mese curatori, direttori di musei, storici e educatori di alcune delle istituzioni culturali più rinomate del mondo racconteranno le storie nascoste dietro alcune opere, spiegheranno come si cura una mostra e offriranno spunti per comprendere alcuni dei capolavori esposti e gli artisti che li hanno realizzati. Tutti gli appuntamenti saranno visibili in Hangout in diretta sulla pagina Google+ dedicata a Google Art Project o successivamente sul canale YouTube Google Art Project. Il primo Hangout, fissato per oggi, è con Deborah Howes, director of digital learning del MoMA di New York che, insieme con un gruppo di artisti e studenti, discuterà di come insegnare l’arte online. Il 20 marzo Caroline Campbell e Arnika Schmidt della National Gallery di Londra discuteranno delle rappresentazioni del nudo femminile. Nel mese di aprile invece un panel, guidato da Peter Parshall, curatore alla National Gallery of Art di Washington, parlerà di una delle opere più popolari all’interno di Google Art Project: la Torre di Babele di Brueghel (nell’immagine).