giovedì 7 marzo 2013

l’Unità 7.3.13
Il Pd: no alleanze con il Pdl
Sì a Bersani: otto punti per un «governo del cambiamento». La sfida ai grillini
La Direzione dà il via libera al segretario. «Non ci sono piani B»
Una sola astensione sulla proposta del segretario che poi chiama Napolitano
per illustrare gli otto punti del suo programma
«Non corteggio Grillo, il M5S va sfidato»
di Simone Collini


ROMA Incassa il sì all’unanimità dai membri della Direzione Pd (con un’astensione) e poi telefona a Giorgio Napolitano per illustrargli di persona gli otto punti che intende realizzare guidando un «governo di combattimento». Pier Luigi Bersani inizia a realizzare il piano che aveva illustrato all’indomani del risultato elettorale. Il primo passo era un mandato pieno del suo partito per andare a chiedere l’incarico al Quirinale. E questo, anche grazie all’assenza di riferimenti alle urne anticipate e a toni ultimativi, è arrivato puntuale (nonostante delle assenze che si sono fatte notare, come quelle di Matteo Renzi e di Walter Veltroni).
Ora la partita entra nel vivo, ma anche Bersani muove il primo passo ribadendo la «fiducia» nell’operato del Capo dello Stato, torna a più riprese anche sull’indisponibilità a qualunque operazione che coinvolga il Pdl. «Non sono praticabili accordi di governo con la destra berlusconiana», sottolinea il leader Pd aprendo i lavori della Direzione: «No a una soluzione al di sotto dell’esigenza di cambiamento che il Paese invoca, e il cambiamento non possiamo cercarlo con chi lo ha ostruito fin qui». E poi, nelle conclusioni dopo otto ore di dibattito, prendendo atto del via libera alla sua proposta per un «governo di combattimento», dice partendo dagli otto punti illustrati che «va sfidato» Grillo, e aggiunge: «Di ipotesi B non ne sono venute fuori».
LA PARTITA DELLE PRESIDENZE
Bersani è il primo a rendersi conto che la strada è stretta e in salita, ma è determinato a percorrerla fino in fondo. La prima condizione per portare a casa il risultato, nel caso Napolitano gli dia l’incarico, è incassare la fiducia al Senato. Sulla carta il leader Pd parte dal sì di 124 senatori, a cui dovrebbe aggiungersi il via libera dei 22 parlamentari di Scelta civica. L’obiettivo può essere raggiunto soltanto se i senatori Cinquestelle si moveranno a favore. E come si può indurli a farlo? Anche se Bersani ribadisce che il Pd è aperto a soluzioni di «corresponsabilità istituzionali», che riguardino anche i vertici delle commissioni parlamentari, in queste ore sembra perdere quota l’ipotesi che possa essere eletto alla presidenza della Camera un esponente del Movimento 5 Stelle. Dovesse perdurare l’indisponibilità da parte dei parlamentari grillini, potrebbe essere eletto per quell’incarico Dario Franceschi, mentre allo scranno più alto di Palazzo Madama potrebbe andare un senatore di Scelta civica. Bersani non intende «corteggiare» Grillo, ma sfidarlo sul suo stesso terreno, sulla richiesta di cambiamento che è arrivata da queste elezioni. Da qui gli otto punti, che costituiscono una serie di proposte di legge che già da oggi saranno pubblicate on-line, sottoposte a questionari, discussione pubblica e poi portate al centro di una mobilitazione che nei prossimi giorni verrà avviata in tutte le regioni italiane.
SFIDA A GRILLO IN OTTO PUNTI
Per Bersani questi otto punti costituiscono non solo un programma di governo, in caso arrivi la fiducia, ma anche la base di un programma elettorale nel caso si vada a elezioni anticipate. Perché è chiaro che se il Pd vuole approvare quel programma qualificato, nessun accordo di governo con Berlusconi potrà essere siglato. Basta leggerle quelle otto proposte di governo, che hanno al primo posto la necessità di uscire dalla «gabbia dell’austerità», che propongono misure per il fronte sociale e del lavoro, che affrontano il tema dei costi della politica, ma che insistono molto sui temi della moralità pubblica e della legalità. E non è un caso se le prima misure che verranno illustrata nel dettaglio, oggi insieme a Pietro Grasso, sono la legge sull’anticorruzione e quella sul falso in bilancio.
Su questi punti nessun accordo può essere trovato con il Pdl, mentre la sfida è lanciata ai Cinquestelle. «Davanti al Paese ognuno prenderà le sue di responsabilità. In particolare, chi ha avuto il consenso di oltre 8 milioni di elettori deve dire cosa vuol fare di questi voti, per l’Italia. Non ci si può ridurre a una proposta sulla raccolta differenziata. Cinquestelle pensa di scegliere fior da fiore, tenendosene fuori? Aspetta una sorta di autodistruzione del sistema? Spera che noi si stia fermi e muti? Se è così fanno dei conti sbagliati».
Bersani aggiunge nella replica con cui chiude la Direzione la disponibilità ad affrontare anche il «superamento dell’attuale sistema di finanziamento dei partiti», ma «in connessione con il funzionamento democratico dei partiti». E anche questa è una sfida a Grillo, che però risponde a stretto giro pubblicando sul suo blog una lista di dieci punti su cui, a suo dire, convergono Pdl e Pd (che replica sempre via web: «solo falsità, un modo per scappare»).
APPELLO ALL’UNITÀ
Se i niet dei Cinquestelle dovessero essere ribaditi in Parlamento, il tentativo di Bersani finirebbe nel nulla e si aprirebbe una nuova fase. Cosa succederebbe a quel punto? Il leader del Pd chiude la relazione con cui avvia i lavori della Direzione con un appello all’unità del partito: «Continueremo a decidere negli organismi ma chiedo che il Pd, pur nel vivo della sua dialettica, garantisca unità. Un Pd che discute come sempre ma che è unito è una risorsa di cui l’Italia non può fare a meno. Il Pd è l’unica forza che può portare l’esigenza di cambiamento e novità a una dimensione di governo e che può sottrarre il cambiamento all’avventura. Questa è la generosità che deve avere ciascuno di noi, a partire da me, a fare quello che si deve e non quello che si vuole».
L’appello viene raccolto, con un voto che chiude la Direzione all’unanimità. Ma se il «cambiamento di combattimento» non dovesse nascere, bisognerà vedere come reagirà il partito di fronte a nuovi scenari. Bersani, in ogni caso, non abbandona la strategia del passo dopo passo, e registra con soddisfazione il via libera che è stato dato non solo alla sua richiesta di andare a chiedere l’incarico al Colle per il governo di scopo, ma anche alla sottolineatura che non ci sono «ipotesi B» e che «accordi di governo con la destra berlusconiana non sono praticabili». E poi chiude i lavori con questa frase: «Appena sarà chiaro l’andamento dei calendari dovremo fissare l’assemblea anche per la convocazione del congresso».

l’Unità 7.3.13
Lavoro, Imu, sprechi. Ecco la proposta Pd
Nel programma presentato da Bersani il dimezzamento dei parlamentari, il taglio ai costi della politica e della burocrazia, la nuova legge elettorale


Otto punti. Qui di seguito pubblichiamo la proposta del segretario alla Direzione del Partito democratico per lo sviluppo, la crescita e il cambiamento.
1. FUORI DALLA GABBIA DELL’AUSTERITÀ
Il governo italiano si fa protagonista attivo di una correzione delle politiche europee di stabilità. Una correzione irrinunciabile dato che dopo 5 anni di austerità e di svalutazione del lavoro i debiti pubblici aumentano ovunque nell’eurozona. Si tratta di conciliare la disciplina di bilancio con investimenti pubblici produttivi e di ottenere maggiore elasticità negli obiettivi di medio termine della finanza pubblica. L’avvitamento fra austerità e recessione mette a rischio la democrazia rappresentativa e le leve della governabilità. L’aggiustamento di debito e deficit sono obiettivi di medio termine. L’immediata emergenza sta nell’economia reale e nell’occupazione.
2. MISURE URGENTI SUL FRONTE SOCIALE E DEL LAVORO
Pagamenti della pubblica amministrazione alle imprese con emissione di titoli del tesoro dedicati e potenziamento a trecentosessanta gradi degli strumenti di Cassa Depositi e Prestiti per la finanza d’impresa.
Allentamento del patto di stabilità degli enti locali per rafforzare gli sportelli sociali e per un piano di piccole opere a cominciare da scuole e strutture sanitarie.
Programma per la banda larga e lo sviluppo dell’Ict.
Riduzione del costo del lavoro stabile per eliminare i vantaggi di costo del lavoro precario e superamento degli automatismi della legge Fornero.
Salario o compenso minimo per chi non ha copertura contrattuale.
Avvio della universalizzazione delle indennità di disoccupazione e introduzione di un reddito minimo d’inserimento. Salvaguardia esodati.
Avvio della spending review con il sistema delle autonomie e definizione di piani di riorganizzazione di ogni pubblica amministrazione.
Riduzione e redistribuzione dell’Imu secondo le proposte già avanzate dal Pd.
Misure per la tracciabilità e la fedeltà fiscale, blocco dei condoni e rivisitazione delle procedure di Equitalia. Ciascun intervento sugli investimenti e il lavoro sarà rafforzato al Sud, anche in coordinamento con i fondi comunitari.
3. RIFORMA DELLA POLITICA E DELLA VITA PUBBLICA
Norme costituzionali per il dimezzamento dei parlamentari e per la cancellazione in Costituzione delle Province. Revisione degli emolumenti di parlamentari e consiglieri regionali con riferimento al trattamento economico dei sindaci.
Norme per il disboscamento di società pubbliche e miste pubblico-private.
Riduzione costi della burocrazia con revisione dei compensi per doppie funzioni e incarichi professionali.
Legge sui partiti con riferimento alla democrazia interna, ai codici etici, all’accesso alle candidature e al finanziamento.
Legge elettorale con riproposizione della proposta Pd sul doppio turno di collegio.
4. VOLTARE PAGINA SULLA GIUSTIZIA E SULL’EQUITÀ
Legge sulla corruzione, sulla revisione della prescrizione, sul reato di autoriciclaggio.
Norme efficaci sul falso in bilancio, sul voto di scambio e sul voto di scambio mafioso.
Nuove norme sulle frodi fiscali.
5. LEGGE SU CONFLITTI DI INTERESSE
Le norme sui conflitti di interesse, incandidabilità, ineleggibilità e doppi in-
carichi si propongono sulla falsariga del progetto approvato dalla commissione Affari Costituzionali della Camera nella XV legislatura che fa largamente riferimento alla proposta Elia-Onida-Cheli-Bassanini.
6. ECONOMIA VERDE E SVILUPPO SOSTENIBILE
Estensione del 55% per le ristrutturazioni edilizie a fini di efficienza energetica.
Programma pubblico-privato per la riqualificazione del costruito e norme a favore del recupero delle aree dismesse e degradate e contro il consumo del suolo.
Piano bonifiche.
Piano per lo sviluppo delle smart grid. Rivisitazione e ottimizzazione del ciclo rifiuti (da costo a risorsa economica). Conferenza nazionale in autunno.
7. DIRITTI
Norme sull’acquisizione della cittadinanza per chi nasce in Italia da genitori stranieri e per i minori cresciuti in Italia.
Norme sulle unioni civili di coppie omosessuali secondo i principi della legge tedesca che fa discendere effetti analoghi a quelli discendenti dal matrimonio e regola in modo specifico le responsabilità genitoriali.
Legge sul femminicidio.
8. ISTRUZIONE E RICERCA
Contrasto all’abbandono scolastico e potenziamento del diritto allo studio con risorse nazionali e comunitarie.
Adeguamento e messa in sicurezza delle strutture scolastiche nel programma per le piccole opere.
Organico funzionale stabile, piano per esaurimento graduatorie dei precari della scuola e reclutamento dei ricercatori.
Queste proposte, che non sono ovviamente esaustive di un programma di governo e di legislatura, ma che segnano un primo passo concreto di cambiamento, vengono sottoposte a una consultazione sia riferita alle priorità sia ai singoli contenuti. A questo fine verranno messi in rete l’elenco delle proposte e, via via per ogni singolo punto, i relativi progetti di legge o le specificazioni di dettaglio in modo da consentire una partecipazione attiva all’elaborazione e all’arricchimento dei contenuti.

l’Unità 7.3.13
Il primo sì, il primo no: la difficile prova di Bersani
di Pietro Spataro


È STATA UNA DISCUSSIONE SOFFERTA, CON DIVERSI SPUNTI AUTOCRITICI E QUALCHE eccesso di autocoscienza. Ma non poteva essere diversamente per un partito che aveva creduto fino alla fine nella vittoria e oggi si ritrova invece a gestire un risultato con troppe incognite. Eppure dalla direzione del Pd, alla fine, è venuta un'indicazione che, nel confuso panorama post-elezioni, è oggi l'unica cosa chiara.
In questo senso, riprendendo il titolo che l'Unità ha scelto ieri, il Pd ha battuto un colpo: si è presentato con una sua proposta sulla quale ora si dovrà discutere e che sarà tema di valutazione per chi si troverà a breve a gestire i passaggi istituzionali della crisi. Semplificando possiamo dire che da quel lungo dibattito durato otto ore sono venuti un sì, un no e un percorso accidentato.
Il sì riguarda la risposta da dare al sommovimento (sociale e politico) che ha trovato la sua espressione nel voto. La cosa più sbagliata sarebbe affrontare quel messaggio con le vecchie tecniche della politica e con il bilancino delle riforme da fare. Il segnale è stato dirompente e altrettanto dirompente deve essere la reazione sul piano del governo. Il tema è il cambiamento, cioè la capacità di introdurre nella vita sociale e politica del Paese quelle radicali correzioni senza le quali l'orizzonte diventerebbe ancor più buio. La responsabilità di un partito che vuole assumersi il rischio della prova, pur con tutte le incertezze, non può non partire da qui: dal fatto che l'Italia è arrivata a un punto di non ritorno e la miscela tra crisi sociale e crisi politica potrebbe provocare una frattura insanabile e portarci verso un inarrestabile declino. Quello che proprio ieri è successo a Perugia è il simbolo di una drammatica emergenza. Ma se le cose stanno così, non servono pannicelli caldi: serve una terapia d’urto sul fronte dell'economia e su quello della moralità pubblica. Bisogna avere la forza di prendere di petto le politiche dell'austerità e del rigore che, partendo dal cuore dell'Europa, hanno imbrigliato i Paesi membri, punito gli strati più poveri della popolazione e colpito il lavoro. Allo stesso modo bisogna eliminare tutte le tossine che hanno avvelenato la
politica e favorito diffusi fenomeni di corruzione. Sono solo due degli otto punti proposti da Bersani che ci dicono con chiarezza che oggi non serve un governo «low profile». Perché o il nuovo esecutivo avrà la forza di dire al Paese che la musica cambia oppure è meglio non provarci nemmeno.
E qui veniamo al no, che è la conseguenza di quel sì. Ieri nessuno ha immaginato la possibilità di quello che viene chiamato «governissimo» e che altro non è che un patto con il Pdl. Su quel versante la strada è chiusa. Ma non tanto conta anche questo, eccome perché questa destra italiana è un caso unico in Europa ed è dominata da un uomo come Berlusconi. La verità è che qualunque governo di cambiamento, soprattutto sui temi che abbiamo detto, è lontano anni luce dalle posizioni del Cavaliere. Basti citare due argomenti su tutti: il conflitto di interessi e una vera legge anticorruzione. Ma anche sulle risposte da dare alla crisi del lavoro e alle politiche industriali le differenze sono radicali. La destra e la sinistra esistono, e la destra è da un'altra parte. L'esperienza della «strana maggioranza» che ha sostenuto Monti, inoltre, sta lì a dimostrare che quel capitolo è archiviato ed è difficilmente ripetibile. Le drammatiche lacerazioni che si sono aperte nel Paese non possono essere curate attraverso la clonazione di vecchie formule che hanno mostrato tutti i loro limiti e provocato danni sociali. A una impetuosa e contraddittoria richiesta di cambiamento non si può più rispondere con le alchimie. E tale sarebbe, comunque lo si voglia battezzare, un governo che cerchi in Parlamento una maggioranza tra Pd e Pdl.
Voi direte: tutto bene, ma il Pd non ha la maggioranza al Senato e il governo di cambiamento non si fa senza numeri. Il confronto nel Pd e siamo al terzo punto si è svolto ieri con la consapevolezza di questo pesante limite. La strada che ha imboccato Bersani è in salita. Una salita ripida, lungo la quale gli ostacoli saranno numerosi, le trappole pronte a scattare, gli agguati imprevedibili. Riuscire ad arrivare in cima dipende dalla capacità del Pd di sostenere con forza questo percorso e di essere credibile agli occhi degli italiani e dei suoi interlocutori. Ma anche dal modo con cui gestirà, all’inizio della vita parlamentare, il dialogo istituzionale che è il primo delicato passaggio. Il coinvolgimento di altre forze nella scelta dei presidenti delle Camere e delle commissioni può aprire uno spiraglio, consentire un dialogo che oggi sembra impossibile, favorire un clima di collaborazione indispensabile. Lì si misureranno i no e i sì e lì si capirà anche se il gioco di Grillo resterà fermo al «tutti a casa». È evidente che non sarà una passeggiata. Ma oggi questa, con tutti le ipoteche, è l'unica strada possibile per dare una mano al Paese che vive un confuso declino. Le alternative ora è meglio non prenderle in considerazione. Ma nessuna di queste pare promettere nulla di buono.

l’Unità 7.3.13
D’Alema: l’impedimento è Berlusconi
Franceschini: necessaria l’unità tra no
Otto ore di dibattito e autocritica
Orfini: «Non siamo stati carne né pesce»
Soru: «Scegliamo di cambiare»
di Maria Zegarelli


ROMA Otto ore di discussione, di autocritica, di presa d’atto che in questa campagna elettorale, che in molti davano per vinta, quello che non ha funzionato è stato il tentativo di connessione con il Paese. Poco cuore, poco orecchio, poca passione, aggiunge qualcuno. Analisi spietata per un partito che si definisce popolare e con il popolo non si è capito abbastanza, uomini e donne che a un certo punto hanno iniziato a guardare altrove e a riconoscersi nelle urla e in quel «mandiamoli tutti i a casa» di Beppe Grillo.
La direzione Pd vota compatta un solo astenuto (alle 8 di sera ancora nessuno sa dire chi sia) dà il mandato al segretario per avviare quella che in molti, Bersani per primo, ritengono una via stretta e irta di ostacoli, e rinvia la fase due, quella della leadership, la rotta del partito, ma è chiaro che il congresso è già aperto, di fatto. C’è la sinistra dei giovani turchi e di una parte dei bersaniani, ci sono i liberal-veltronian-renziani e poi c’è chi si posiziona sulla sintesi, come Letta, Franceschini. Che sia lo schema del prossimo congresso? Due i segnali che vengono fuori dai moltissimi interventi: allargare l’orizzonte delle alleanze, in vista delle amministrative ma anche delle prossime elezioni (se saranno scongiurate a giugno restano comunque molto vicine) e aprire le porte al cambiamento. «Il messaggio che ci hanno inviato gli elettori ci è arrivato forte e chiaro», dice il vicesegretario.
Poi, c’è un messaggio, (seppur esplicitato da una minoranza) diretto al segretario e agli interlocutori esterni: mai un’alleanza con Grillo, meglio il governo del Presidente. È la posizione dei veltroniani (Walter Veltroni non parla e va via prima della fine de lavori), di Umberto Ranieri «credo torni l’esigenza di un’iniziativa del presidente di fronte all’impotenza dei partiti», di Magda Negri che definisce «incompatibile» con il Pd il M5s, di Paolo Gentiloni che evoca direttamente le ipotesi «b» che Bersani lascia fuori da questa discussione. E anche di Matteo Renzi, che se ne va a un certo punto, come ha sempre fatto, anche se questa è una direzione importante. Durissimo Gianni Cuperlo con il sindaco di Firenze: «Buona parte del confronto tra di noi e su di noi ruota attorno al sindaco di Firenze, che forse è venuto a questa riunione ma non prende la parola. Questo è oppure no un nodo che investe la nostra democrazia e riguarda che cos'è un partito, come discute o come decide? Ognuno fa ciò che crede e vuole, va dove crede che sia giusto collocare la sua autorevolezza», ha proseguito, ma «le logiche di percorsi paralleli, di circolazioni extracorporee nella dimensioni della politica possano risultare letali».
Poi, c’è chi, come Beppe Fioroni si sofferma più sulle distanze con Grillo che sulle assonanze, ossessionato dal timore del mantra «che per pigliare i voti dei grillini dobbiamo diventare grillini» e chi come Walter Tocci indica un altro percorso: un incarico a una personalità di centrosinistra che non sia Bersani e non inviso al M5s. Fabrizio Barca, come qualcuno indica?
Dario Franceschini su Monti: bisogna aprirsi, non chiudersi. Propone la «gestione collegiale» di questa fase delicatissima, ribadisce il «no a qualunque subordinata», ma se «c’è un nuovo bivio ci si riunisce di nuovo e si decide». Piero Fassino invita a portare le otto proposte di Bersani a «vivere nel Paese, perché abbiano la forza per passare». Massimo D’Alema, «seriamente d’accordo» con il segretario, ribadisce l’urgenza di una svolta in Europa, parla del rapporto con la destra, «non possiamo rinunciare, perché non sarebbe giusto, a ragionare sulla destra e con la destra». Si rammarica «che in un momento così drammatico non sia possibile una risposta in termini di unità nazionale. Purtroppo non è possibile e l’impedimento è rappresentato da Silvio Berlusconi». Rimbalza sul web il suo invito a «liberarci dal complesso dell’inciucio», critica la battaglia sulla rottamazione, «io mi sono autoliquidato felicemente», eppure non è bastata la liquidazione di un’intera classe dirigente, «perché un signore di 65 anni che corre incappucciato e sbatte la porta in faccia viene percepito come il cambiamento».
Dell’Europa parla Stefano Fassina, «é stata al centro delle scelte degli elettori», il giovane turco resta convinto che se fallisse il governo Bersani l’unica via sarebbero le elezioni. Ipotesi, questa ultima, che non viene mai citata dal segretario, condizione per ottenere questa unanimità. Renato Soru, condivide «il sentiero tracciato da Bersani» ma pone una questione su cui in molti torneranno con i loro interventi: «Non abbiamo ancora deciso se vogliamo essere un partito di cambiamento o di conservazione». Si chiede e chiede se la politica abbia «stretto abbastanza la cinghia». Credo di no, la risposta. Rosy Bindi appoggia il segretario, ma non con il calore di qualche tempo fa, parla di un processo di rinnovamento del Pd che non è stato capace di «raggiungere il cuore della gente» e osserva: «Tra la nostra proposta e gli esiti che ci saranno c'è il capo dello Stato e le sue decisioni, che non potranno non trovarci come interlocutori». Lucida l’analisi di Matteo Orfini: in campagna elettorale, dice, «non siamo stati né carne né pesce». «Facciamo fatica a tendere l’orecchio a quello che sta succedendo nella società», dice Marina Sereni, «non abbiamo più alibi», incalza Anna Finocchiaro, indicando nell’accelerazione nel cambiamento profondo la via per uscire dal tunnel.

La Stampa 7.3.13
L’elogio di D’Alema all’inciucio E con il segretario cala il gelo
L’ex premier non boccia l’ipotesi di un governo di unità nazionale ma senza Berlusconi
di Fabio Martini


Una sequenza indimenticabile, cinque secondi di linguaggio del corpo più espressivi di tanti discorsi. Davanti alla Direzione del Pd Massimo D’Alema ha appena concluso un intervento double face, pieno di affettata condivisione per Pier Luigi Bersani, ma nella sostanza in radicale dissenso verso il segretario. L’ex presidente del Consiglio scende dal podietto degli oratori, passa davanti alla presidenza dove è seduto Bersani e tira dritto, con lo sguardo girato verso la platea. E mentre mezza Direzione applaude «Baffino» che torna a sedersi, Bersani tiene le mani conserte, gli occhi fissi alle sue carte. Gelo polare tra due ex amici che non parlano più la stessa lingua. In una lunga riunione della Direzione dedicata ad analisi del voto e alla proposta di governo e segnata da una collettiva rimozione della vittoria-sconfitta subita dal Pd, l’unica significativa novità è stato il discorso col quale D’Alema ha aperto ad una prospettiva di governo col centrodestra, sia pure emendato da Berlusconi. Un’apertura condita da un esplicito, coraggioso (dati i tempi) «elogio dell’inciucio»: «Liberiamoci dal complesso ossessivo, e dalla malattia psicologica dell’inciucio», perché «se c’è una cosa sicura in questa Seconda Repubblica è che non è mai stato fatto nessun accordo, né segreto né pubblico». Ma questa è una «malattia della seconda Repubblica», perché «tanti problemi non sono stati risolti». Tra gli elettori e gli eletti del centrodestra, al netto di Berlusconi, ci sono «tante persone perbene».
È stato il passaggio più forte di un intervento col quale D’Alema ha indicato il suo «Piano B». L’ex premier sa che i sondaggi post-voto premiano Grillo e Berlusconi, mentre penalizzano Bersani, sa che la corsa verso elezioni anticipate rischia di far naufragare la ditta-Pd e dunque ha calato subito le carte: una volta esaurito il sondaggio verso Grillo, D’Alema propone la prospettiva - non tanto di nuovo un governo tecnico - ma semmai allude ad un governissimo, formato dai partiti. Guidato da chi? Benedetto da quale Capo dello Stato? Da lui medesimo? Ovviamente su questi dettagli D’Alema glissa, anche se sul versante avversario non gli mancano interlocutori, che si chiamano Gianni Letta, Giulio Tremonti, Gaetano Quagliariello.
Rispetto a Bersani, quella di D’Alema rappresenta una divaricazione in pubblico che indirettamente conferma un tam-tam secondo il quale oramai da diversi giorni al piano nobile del Pd, il segretario parla con i principali notabili attraverso la mediazione di Enrico Letta. L’incipit di D’Alema (se confrontato al finale) era stato da brivido: «Sono seriamente d’accordo con Bersani». E ancora: «L’iniziativa del segretario non è una prima mossa da archiviare con una unanimità di facciata», ma comunque - ecco lo scarto - «non sarà l’atto conclusivo di una crisi difficile». E dunque, dopo aver spiegato che «non possiamo rinunciare a fare un discorso sulla destra e alla destra», D’Alema si è detto «rammaricato» per il fatto che «in un momento così drammatico per il Paese non sia possibile una risposta a livello di unità nazionale».

Repubblica 7.3.13
Il braccio di ferro con il Quirinale
di Claudio Tito


Pierluigi Bersani ha messo sul tavolo le sue carte.
Molte delle quali erano già note. Ha chiesto al suo partito di sostenerlo in questa prima fase di trattative. Basa il suo ragionamento sul risultato elettorale: il centrosinistra ha la maggioranza assoluta alla Camera, quella relativa al Senato. Un dato sufficiente per reclamare l’incarico di formare un governo. O almeno di provarci: di sondare fino in fondo l’indisponibilità di Beppe Grillo a far nascere qualsiasi tipo di esecutivo che non sia guidato da un esponente del Movimento 5Stelle. Una esplorazione avviata rimettendo sul tappeto due concetti che, a suo giudizio, potrebbero intercettare il gradimento grillino (e anche di Matteo Renzi): quello di unire l’opportunità di un’alleanza Pd-M5S al cambiamento; e quella della governabilità non disgiunta dalla società civile. Quasi che volesse dire all’ex comico: sono pronto a guidare il Paese tenendo conto delle istanze esplose nel voto al Movimento e provenienti dai ceti più disagiati e disgustati dai “vecchi” partiti. Certo, è il ragionamento di Bersani, se poi la risposta resta negativa, allora la responsabilità del caos non può che ricadere su Grillo: ci abbiamo provato ma se i vitalizi, gli stipendi dei parlamentari, i costi della politica sono sempre gli stessi, allora la colpa è loro e non nostra.
Un ragionamento che per ora è stato sufficiente per incassare il via libera dei Democratici. Per ora. Perché la vera partita si giocherà nei prossimi giorni. Nel Pd, infatti, in pochi scommettono sulla possibilità che il cosiddetto “piano A”, quello disegnato dal segretario, possa avere davvero successo. Non lo pensano i leader delle correnti e soprattutto non lo crede il presidente della Repubblica Napolitano. Il voto sostanzialmente unanime espresso al termine della riunione è il segno più marcato che si è trattato di un passaggio preliminare. Di un modo per tutelare la collegialità rinviando il confronto sulle “subordinate”. Quali? Un altro governo, con un presidente del Consiglio non di partito, che raccolga i voti in tutti gli schieramenti. Anche il Pdl. Oppure il ritorno alle urne. Il Pd, se e quando Bersani avrà esaurito il suo mandato, si troverà di fronte ad un bivio che può spaccarlo come è accaduto in passato.
Stavolta, però, il quadro è decisamente più complicato. Perché sulle due alternative è già in corso da dieci giorni un vero e proprio braccio di ferro tra il Quirinale e la segreteria democratica. Napolitano non può accettare di concludere il suo settennato lasciando l’Italia nel limbo di un’altra campagna elettorale, Bersani non può accettare di far cadere il suo partito nella trappola delle “larghe intese” consegnando un vantaggio competitivo ai grillini alle prossime elezioni. Soprattutto non può accettare l’idea di dar vita ad una coalizione con Berlusconi. Come dice Massimo D’Alema: con un centrodestra normale sarebbe naturale fare un “inciucio”, ma con il Cavaliere no. Una condizione che per la sua popolarità nel centrosinistra può diventare il vero atout contro il “compromesso” ma anche l’irresistibile chiodo a cui appendere lo scioglimento del Parlamento e le elezioni già questa estate.
Eppure nel Pd la faglia si è già aperta. Basti pensare che Veltroni non ha parlato e che lo stesso D’Alema ha comunque prospettato la necessità teorica di una Grosse Koalition.
La paura di sottoporsi di nuovo al giudizio dei cittadini infatti spaventa tutti: centrodestra e centrosinistra. Il fronte pronto ad ingoiare un’altra maggioranza spuria si è quindi già materializzato. E il Colle ha fatto intuire quali possano essere le subordinate. Il percorso che conduce ad un “governo del presidente” è la prima vera alternativa. La pressione dell’emergenza economica e i giudizi della comunità internazionale saranno i due fattori che condizioneranno la seconda fase della trattativa. Napolitano vuole fare in fretta: il suo mandato di fatto scade il 15 aprile, quando le Camere si riuniranno per eleggere il suo successore. Il fantasma che agita una parte del Pd (a cominciare dai bersaniani) è quindi quello di un esecutivo che agisca sotto l’ombrello protettivo del presidente della Repubblica, che offra le adeguate garanzie all’Europa e ai mercati internazionali, e che permetta l’approvazione di una nuova legge elettorale. Ma con una controindicazione: può un “governo del Presidente” nascere e restare in vita se il Presidente cambia? Come è accaduto per Monti, Napolitano è stato il vero tutor dei tecnici. Come è possibile che accada lo stesso se il settennato del Quirinale sta per scadere? Non è possibile, a meno che l’itinerario istituzionale non preveda anche la conferma sul Colle dell’attuale inquilino. Eppure ormai tutto spinge in quella direzione. Se poi le borse e lo spread faranno sentire il fiato sul collo della nostra politica, se le agenzie di rating dovessero lanciare un ennesimo avvertimento, allora la strada per un esecutivo del presidente diventerà obbligatoria.
Ma quella è forse la terza fase di questa lunga partita a scacchi. Tra due settimane il capo dello Stato affiderà il “primo” incarico. Da qui ad allora, Bersani scommetterà ancora sull’accordo con i grillini. Spera che alcuni dei senatori del M5S inducano il loro capo a più miti consigli e ad avallare almeno una iniziale nascita del governo Bersani. Una speranza che allo stato si sta rivelando vana. Esattamente la considerazione che molti democratici hanno fatto ieri. Forse per questo molti di loro hanno iniziato a sperare in una “seconda carta” interna al partito, magari una donna, se il centrodestra riuscirà concretamente a “deberlusconizzarsi” il prossimo 23 marzo quando è prevista la sentenza d’appello per il processo Mediaset. Ma affidare le speranze al passo indietro del Cavaliere significa non aver ancora capito come è fatta la destra italiana e quanto è tenace il suo leader. Una ulteriore sentenza di condanna non farà altro che rendere ancora più indigeribile l’opzione di una maggioranza con il Pdl. Anche se qualcuno le volesse mascherare dietro un abusato motto della Prima Repubblica: le convergenze parallele.

Repubblica 7.3.13
Se il leader fallisce, avanti una donna il Pd vuole evitare un altro tecnico
Idea Finocchiaro. Il Colle preoccupato per il veto sul Pdl
di Goffredo De Marchis e Umberto Rosso


ROMA — Il no a Berlusconi risuona più forte del sì alla trattativa impossibile con Beppe Grillo. Ed è il segno che il Partito democratico, a dispetto delle apparenze, scivola verso un piano B che si chiama ritorno al voto in poche settimane. «La vera riunione della direzione — dicono infatti i sostenitori delle elezioni immediate — sarà la prossima». Quella in cui il Pd potrebbe essere costretto a certificare il fallimento del tentativo di Bersani e dovrà fare i conti (e la conta interna) con l’ipotesi di un governo del presidente che tenga nella maggioranza anche il Pdl. Ma le alternative non si fermano alle urne. Ce n’è una che viaggia su un binario sotterraneo e per ora viene tenuta coperta. È quella di un rapporto con il centrodestra de-berlusconizzato (come lo ha dipinto ieri D’Alema) che non prevede un tecnico alla guida di Palazzo Chigi, ma un altro esponente del Pd. In questo caso occorrerebbe dare il senso di una netta discontinuità con il passato, rappresentare cioè una novità assoluta nella storia repubblicana. Una donna premier corrisponde a questo identikit.
Se è vero che in caso di rifiuto del Movimento 5stelle «si azzera tutto», come dicono a Largo del Nazareno, alcuni, tra le tante ipotesi, ragionano anche sulla soluzione a sorpresa: perché non dovrebbe essere il Pd a gestire un nuovo tentativo, cambiando protagonista? Si fa il nome di Fabrizio Barca, ministro tecnico del governo Monti, ma vicinissimo ai democratici. La novità però sarebbe un volto femminile e il pensiero corre subito ad Anna Finocchiaro. È solo una suggestione perché in questo momento il piano A è in campo senza subordinate. E perché Berlusconi regna incontrastato nel suo partito. Non ha fatto alcun passo indietro. Anche ieri, nella telefonata tra Bersani e Napolitano, non si è parlato di vie d’uscita diverse da quelle di un governo del segretario Pd. Il presidente della Repubblica ha molto gradito il gesto di cortesia, così come ha registrato con soddisfazione che nessuno, nella direzione, ha fatto cenno alle elezioni anticipate, immaginando «disegni precostituiti» che Napolitano aveva con durezza criticato. Questo non significa che il Colle non continui ad avere dei dubbi sull’aggancio dei 5Stelle. E che il no forte e chiaro del Pd rispetto a un dialogo con il Cavaliere sia un ulteriore ostacolo sulla strada di costruire un governo in tempi brevi, come da giorni chiedono tutte le Cancellerie rivolgendosi all’unico presidio certo rimasto: il Quirinale.
Molto si capirà dal gioco di incastri per le presidenze delle Camere. «Quando arrivi decidere come vengono assegnate Camera e Senato, hai capito anche come va a finire il rebus del governo», dicono al Pd. Se Berlusconi si ritira dalla corsa di Palazzo Madama, si può votare un esponente del Pdl? La partita è apertissima. I sondaggi del dopo voto arrivati sul tavolo di Largo del Nazareno dicono che non soffia una buona aria per i democratici.
Dunque, la via del ritorno alle urne è poco conveniente. Ma le bocce sono ferme e gli otto punti di Bersani per il «governo di cambiamento» hanno appena cominciato essere seminati nel campo dei grillini.
Fino alle consultazioni del capo dello Stato, il Pd è unito intorno al suo segretario. Cosa succederà però se il tentativo di Bersani fallisce? Ieri si è capito bene che il partito potrebbe esplodere. Che le tante voci favorevoli a un possibile governo del presidente (apprezzate da Napolitano) rischiano di scontrarsi con chi nega in radice una maggioranza con il Pdl e il ritorno di un tecnico. C’è davvero il pericolo serio di spaccatura definitiva nel Pd. Per questo, per evitare lo show down, può uscire dalla cassetto l’idea di mandare avanti un altro esponente del Pd.

Repubblica 7.3.13
“Governo di personalità per cambiare l’Italia via i marpioni dei partiti”
Dario Fo: i miei nomi? Rodotà, Settis, Hack
di Fabrizio Ravelli


MILANO — Dario Fo, dopo le elezioni in Italia siamo sull’orlo di un disastro o questa è l’alba di un nuovo giorno?
«Il disastro è lì fermo, purtroppo con l’urgenza di risolvere le cose. Però quella pantomima che sta accadendo — facciamo il governo, no aspettiamo, facciamo quello tecnico, aspettiamo, no fatelo voi — è una pre-battaglia».
E quando si farà questa battaglia?
«Magari non la si farà neanche, se si arriva a capire che non si può più farla con le strutture normali della politica, coi partiti come è andata avanti fino a ora. Caspita, avevano da fare quattro leggi importanti e le hanno tenute bloccate per anni, e le hanno buttate a monte con i rimandi».
Quindi la responsabilità dei partiti è stata non solo quella di non rappresentare, ma di non ascoltare.
«Vedi il Pd: dov’è che ha preso la grande legnata? In Val di Susa il Movimento 5Stelle ha preso fino al 45 per cento. E al Sud è uguale: dove c’è stata una disattenzione, chiamiamola così, davanti alla distruzione del territorio, e si è lasciato correre».
Quindi nella situazione attuale prevale la speranza e non lo spavento?
«Per me sì. Ma in tutti questi posti d’Italia durante la campagna elettorale si lamentavano: non abbiamo visto nessuno. In una situazione folle nessuno è venuto a farci un discorso, soltanto Grillo. La Sicilia, la Sardegna dei minatori, Taranto. A questa gente non ha dato solo una speranza: gli ha fatto capire che fa sul serio».
Grillo lei l’avrà sentito. Dopo questo successo non sarà anche un po’ preoccupato?
«Ovvio, ma lo era anche prima. La sua battuta è stata: oddio, che cosa ci sta capitando. Mica aveva bisogno di fare i sondaggi. Arrivava in una piazza dove per anni al massimo s’erano viste 50 mila persone, e ce n’erano 200 mila».
Lei ha detto in questi giorni che il M5S ora deve anche prendersi qualche responsabilità per mettere insieme un governo.
«Certo, e Grillo se le prende. Tant’è vero che la prima discussione che hanno avuto è stata sul che fare, a proposito del governo. Ma quello che hanno avuto subito chiaro è che loro, i partiti, stanno giocando alla solita manfrina atavica. Cioé tentare, fare le solite promesse, tirarsi indietro, disdire, mettersi d’accordo. E tutto non alla luce del sole».
Bersani ha detto: io andrò a proporre queste cose, e le ha elencate.
«Certo, ma la vedi la gente di Bersani, e la gente che c’è in cima alla nomenklatura? Tutt’intorno, i più grossi marpioni del partito. Tutti quelli che hanno fallito, che hanno fatto proposte che sono andate a monte, che si sono ritirati e poi ritornano. Guardali, tutti in fila come falchetti sui fili della luce».
Quindi lei dice: si può discutere delle proposte di Bersani, ma il problema sono quelli che gli stanno intorno.
«Ma nemmeno lui è credibile. Chi è che ha deciso di dare agli americani la nuova base del Dal Molin a Vicenza? Un’intera popolazione contro, e dov’erano quelli del Pd? Dall’altra parte, a dire ormai abbiamo firmato e non ci tira indietro nessuno. Ma come, tu hai una popolazione intera che era di destra cattolica, e ti elegge addirittura un sindaco Pd, e li tratti come degli ignoranti che non sanno niente, che guardano alle loro piccole cose».
E dunque come si esce in Parlamento da questa situazione?
«Si esce con questa proposta. Trovare una persona, e ce ne sono tante, che è magari di sinistra per carità, ma che non è dentro al gioco dei partiti, che s’è schifata a sua volta».
Per esempio chi?
«Ma ce n’è tanti. Si parla di Rodotà. E poi c’è Settis, una scienziata come Margherita Hack, o Carlin Petrini. Ci sono centinaia di uomini che hanno senso dell’organizzazione, scienza, credibilità. Tu li metti lì, e formi un gruppo di tecnici, che non si possono chiamare tecnici perché non vivono soltanto sul prodotto della sapienza ma hanno una coscienza civica. Si fa un governo di questo genere, di personalità, e si va via come dei treni. Senza uomini dei partiti».
Ha visto la prima riunione dei nuovi parlamentari di M5S?
«Sì, ce n’erano alcuni molto giovani e molto svegli, belli puliti, chiari. Tutti quanti avevano un’aria piacevole che ti dava fiducia. Pensa rispetto agli altri: sono stato molte volte ad accompagnare Franca in Senato, madonna che personaggi c’erano. Questi hanno freschezza, naturalmente avranno dei limiti. Ma io sono stato alle loro riunioni, li ho sentiti parlare, e qualcuno mi ha impressionato per la preparazione».
Colpisce una cosa. Molti di loro hanno una competenza specifica, concreta. Il movimento invece, soprattutto in Casaleggio e Grillo, sembra avere una componente messianica. Non c’è un contrasto?
«No, guarda quel libro che ho scritto con loro, “Il grillo canta sempre al tramonto”, che sta diventando una specie di vademecum del movimento, e dove si parla di argomenti che normalmente vengono taciuti, anche da gente del movimento. A qualcuno magari hanno dato fastidio certe stronzate che ha detto Grillo, e che poi si è rimangiato. Come a proposito di immigrati, che sono qui da moltissimi anni, e lui non era d’accordo che divenissero cittadini italiani. Ma nel libro c’è, a proposito, una dichiarazione mia, che è stata accettata senza drammi».
E Grillo adesso ha paura che questi nuovi parlamentari a Roma si sbandino, che vengano contaminati.
«Sanno che c’è una massa di persone che hanno l’abitudine del basso gioco politico, della corruzione, delle prebende, dei posti di potere. Danno 3 milioni a uno come De Gregorio per farlo passare dall’altra parte. E Scilipoti, e gli altri. È normale, la corruzione è normale».
Lei dice: corruzione imperante, giusto che Grillo si preoccupi.
«Ma certo. Siamo nella merda fino al collo, e c’è chi dice: guarda Grillo come è prepotente. Quanti si sono salvati dalla corruzione in Italia? Prima si incazzano perché Grillo fa del sarcasmo, e urla. E quando fa una cosa seria, per mettere al riparo gli eletti del suo gruppo, allora si incazzano».

La Stampa 7.3.13
Cancellieri, Barca Visco o Passera Inizia il toto premier tecnico
di Marcello Sorgi


Il «sì» della Direzione del Pd a Bersani sull’ipotesi di un governo con il Movimento 5 Stelle apre la strada a un tentativo del segretario che molti, dentro e fuori il partito, considerano già fallito prima di cominciare. Non é ancora chiaro neppure se Bersani riuscirà ad avere l’incarico: dipenderà dall’esito delle consultazioni che il presidente Napolitano comincerà il 19. Nell’attesa, fioriscono le subordinate tutte incardinate sull’idea di un governo tecnico con programma limitato che possa chiedere una fiducia molto distaccata ai due maggiori schieramenti -, di cui si discute apertamente ormai anche all’interno del Pd.
La prima é quella di un governo a caratura strettamente tecnica, guidato dall’attuale ministro dell’Interno Cancellieri, o dal Governatore della Banca d’Italia Visco, o dal suo direttore generale Saccomanni. Nel primo caso si tratterebbe di un esecutivo che, oltre a far fronte alle urgenze della crisi economica, proverebbe a proporre una riforma elettorale. Nel secondo e nel terzo l’attenzione sarebbe concentrata sull’economia e sugli impegni presi con l’Europa, lasciando ai partiti il compito di confrontarsi in Parlamento sulle riforme.
La seconda subordinata riguarda la possibilità che a guidare il governo sia chiamato un altro ministro di quello attualmente in carica, diverso dalla Cancellieri. Circolano i nomi di Passera (sviluppo economico) e Barca (coesione territoriale): entrambi, oltre alla loro esperienza, avrebbero il vantaggio di offrire un volto giovane a un Parlamento in cui, dopo la valanga grillina, la questione generazionale é destinata a prendere campo. Passera ha una collocazione centrista e fino alla sorprendente rinuncia dell’ultimo momento (non condivideva l’alleanza con Casini e Fini) era accreditato come il numero due della lista Monti. L’essersi tenuto fuori dalla campagna elettorale é adesso un vantaggio per lui. Barca é figlio di un dirigente del Pci di epoca berlingueriana, ha buoni rapporti anche con la sinistra radicale e ha lavorato al Tesoro con ministri di centrodestra, il che lo rende adatto a ricevere un sostegno parlamentare bipartisan. Ma é inutile nascondersi che l’uno o l’altro, proprio per l’effetto novità che rappresenterebbero, e per l’eventualità (che Passera non esclude) di un successivo ingresso in politica, potrebbero gelare ambizioni che già si intuiscono di nuove candidature in prospettiva di un rapido ritorno alle urne (vedi Renzi) e motivare diverse riserve negli schieramenti usciti in condizione di stallo dopo le elezioni, e per questo, giorno dopo giorno, sempre più evidentemente sull’orlo di una crisi di nervi.

Corriere 7.3.13
Gli spartani del segretario e gli ateniesi del sindaco
di Luciano Canfora


Richiamarsi, come fanno in questi giorni i «giovani bersaniani», ai trecento spartani caduti alle Termopili per sbarrare (invano) la strada all'esercito persiano può essere il riflesso di buoni studi liceali, oppure anche la eco del film, non proprio un capolavoro, intitolato «Trecento». E può essere l'indizio di un proposito nobilissimo: difendere la posizione fino alla morte. Ma resta un richiamo piuttosto funesto, tipico di chi è consapevole di essere votato alla sconfitta, e la accetta immolandosi: come ben sapevano i trecento capeggiati da Leonida. In tal caso toccherebbe a Vendola, in quanto poeta, recitare in memoria dei trecento caduti i celebri versi attribuiti a Simonide, definiti da Gennaro Perrotta «la più bella iscrizione funebre del mondo»: «Straniero! Annuncia agli Spartani che noi giaciamo qui per obbedire ai loro ordini!».
Definirsi invece «ateniesi», come i giovani «renziani» in vivace dialettica con i trecento spartani, può essere più promettente. Mentre Sparta fu, secondo una definizione del Führer «lo stato razziale perfetto», Atene fu città aperta, ricca, creativa. Se si parla, non a torto, di «miracolo greco» pensando a tutto ciò che dobbiamo ai greci (e che l'«Europa tedesca» spesso dimentica), ben più esatto sarebbe parlare di «miracolo ateniese», visto che quasi tutto ciò che s'è fatto poi, nella filosofia, nell'arte, nel teatro, si fece ad Atene. Che tra l'altro ha coniato le parole della politica che adoperiamo tuttora.

Corriere 7.3.13
Il viatico per il governo rischia di finire su un binario morto
di Massimo Franco


Pier Luigi Bersani ha il viatico del suo partito per Palazzo Chigi. E probabilmente riceverà dal capo dello Stato, Giorgio Napolitano, l'incarico per formare un governo. Ma il primo ad essere scettico sulla possibilità che ci riesca sembra proprio il Pd. La quasi unanimità raccolta ieri dal segretario è quella di una forza politica convinta di vincere il 24 e 25 febbraio, e traumatizzata dai risultati elettorali; e adesso, costretta a rendersi conto che i numeri parlamentari non permetteranno probabilmente alla sinistra di avere un presidente del Consiglio. L'alternativa del voto anticipato rimane sullo sfondo, ma almeno in apparenza si è allontanata.
La regia della crisi è nelle mani del Quirinale. Nel conflitto latente fra le ambizioni di Bersani e il realismo del capo dello Stato, sta lentamente prevalendo il secondo. Tra la nebbia fitta dei veti incrociati e di una campagna elettorale mai finita, si intravede la sagoma di un possibile «governo del Presidente». Ma i contorni sono sfuocati, e la stessa maggioranza che dovrebbe sostenerlo per il momento non prende corpo; né è scontato che riesca a materializzarsi in tempi brevi.
Per questo, fra le ipotesi estreme non si esclude nemmeno una sorta di «congelamento» di Mario Monti a Palazzo Chigi, rimandandolo alle Camere per vedere se riesce a strappare la fiducia del Parlamento. Significherebbe tuttavia prendere atto che non è stato possibile trovare una soluzione in grado di mettere d'accordo Pd e Pdl, visto il veto, comprensibile quanto rischioso, della sinistra nei confronti di Silvio Berlusconi; e che la «strategia del no» del movimento di Beppe Grillo tiene in scacco il Pd. In cambio, si fornirebbero garanzie ad un'Europa e a mercati internazionali che osservano con preoccupazione crescente l'involuzione dell'Italia.
«Meglio il voto che un governo antieuropeo», ha detto ieri il premier dimissionario incontrando i suoi parlamentari, e confermandosi l'interlocutore delle cancellerie. Comunque vada a finire, è evidente l'affanno irrisolto del sistema dei partiti e l'incapacità di dare stabilità al Paese in un passaggio cruciale. La politica è riemersa dalle urne più impotente e confusa, dopo la parentesi della coalizione dei tecnici che voleva invece archiviare. E il Pd appare incerto sul da farsi e inchiodato in un vicolo cieco dal «tanto peggio tanto meglio» dei grillini, che rifiutato in modo irridente le offerte di alleanza.
Il segretario del Pdl, Angelino Alfano, nota maliziosamente che Nichi Vendola rimane governatore della Puglia: segno, a suo avviso, che Bersani non riuscirà a fare un governo. Ma i passaggi sono ancora molti, e tutt'altro che scontati. Ingorgo politico e istituzionale si intrecciano più di quanto chiunque fosse in grado di prevedere. E, nonostante ogni sforzo di Napolitano, l'ipotesi che si torni alle urne di qui a un anno è difficile da scansare. Sarebbe un epilogo disastroso, perché darebbe ragione a chi ritiene che il sistema non regga più e dunque vada spazzato via definitivamente. Il problema è che non si capisce chi riempirà il grande vuoto di potere. Per quanto negato a parole, un compromesso si dovrà trovare.

Corriere 7.3.13
Prima di eliminare l’articolo 67 attenzione alle conseguenze
risponde Sergio Romano


Nel giugno 2011 le ho scritto: «Caro Romano, come si concilia l'art. 1 della Costituzione quando afferma che la sovranità appartiene al popolo con l'art. 67, dove viene sostenuto che ogni parlamentare esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato? È evidente infatti che se i parlamentari non sono tenuti a rispettare gli impegni presi in campagna elettorale sulla base dei quali sono stati eletti, la sovranità appartiene ai parlamentari e non al popolo come dice l'art. 1 della Costituzione». Come ben sa Grillo ha sollevato la stessa questione e mi piacerebbe sapere cosa ne pensa.
Pietro Volpi

Caro Volpi,
Quando scrissero l'art. 67, i costituenti volevano evitare il «mandato imperativo», vale a dire la regola, valida soprattutto nelle assemblee dell'Ancien Régime, che faceva del deputato un semplice procuratore, munito di una delega circoscritta. In tal modo volevano dare ai rappresentanti del popolo una maggiore autonomia. Volevano che le decisioni del Parlamento scaturissero da un libero confronto di idee e proposte, senza schieramenti precostituiti. Era una generosa dichiarazione di principio, difficilmente applicabile nell'era dei partiti di massa. Ma era un omaggio alla libertà di coscienza. Oggi, dopo tante capriole e cambiamenti di casacca, quell'articolo può sembrare l'alibi di cui molti si sono serviti per vendersi al migliore offerente o restare sempre, per quanto possibile, nel campo dei vincitori.
Prima di eliminarlo, tuttavia, dovremmo chiederci che cosa accadrebbe se ai deputati venisse imposto di rispettare scrupolosamente gli impegni assunti con i loro elettori al momento del voto. Quali impegni? I programmi sono un pot pourri di principi generali, buone intenzioni, promesse generiche che riflettono gli umori dominanti nel Paese al momento del voto. Quando la coalizione vincente può formare il proprio governo, i ministri constatano rapidamente che il programma deve essere continuamente adattato alle circostanze. Occorre trovare i mezzi finanziari necessari per le misure promesse. Se i mezzi sono scarsi, soprattutto in una fase di recessione, occorrerà scegliere la misura più urgente e mettere le altre in sala d'aspetto. Se il problema da affrontare non è contemplato nel programma, occorrerà decidere la linea da adottare. Se l'approvazione di una legge richiede la collaborazione di altri partiti occorrerà probabilmente compensarli con qualche concessione su altre questioni che li concernono. Se un avvenimento imprevisto, come l'attentato dell'11 settembre 2001 contro le Torri Gemelle o il fallimento di Lehman Brothers nel 2008, sconvolge il quadro internazionale, il governo dovrà prendere decisioni dolorose che potrebbero scontrarsi con le idee e le coscienze dei parlamentari del proprio partito.
So che ogni governo ha bisogno di poter contare sui voti del proprio gruppo parlamentare e so che anche nella «madre dei parlamenti», la Camera britannica dei Comuni, un deputato chiamato whip (la frusta) cerca di tenere in riga i propri colleghi al momento del voto. Ma ciò che viene chiesto ai deputati in queste circostanze, non è coerenza: è lealtà, disciplina, obbedienza al leader, vale a dire qualità che non giustificano, anzi sconsigliano, l'eliminazione dell'art. 67 dalla Carta costituzionale italiana.

l’Unità 7.3.13
Il calcolo dei voti
Al centrosinistra 125mila in più, M5S primo partito


Il Movimento Cinque stelle è il primo partito della Camera, con 45.372 voti di differenza con il Pd: il M5S ha ottenuto 8.691.406 voti, mentre il Partito democratico 8.646.034. Si tratta di cifre relative ai voti espressi dai cittadini italiani, esclusi i residenti all’estero. A ufficializzare i dati è stato l’ufficio elettorale centrale della Cassazione. La coalizione di centrosinistra ha conquistato la maggioranza con 10.049.393 voti.
Sel ne ha ottenuti 1.089.231, Centro democratico 167.328 e Sudtiroler Volkspartei 146.800.
La differenza tra coalizione di centrosinistra e di centrodestra (9.923.600) è stata di 125.793 voti.
Il Pdl ha ottenuto 7.332.134 voti, Lega Nord 1.390.534, Fratelli d’Italia 666.765, La Destra 219.585, Grande Sud-Mpa 148.248. Scelta civica con Monti 2.823.842 voti, Udc 608.321 e Fli 159.378. Totale di coalizione: 3.591.541.

Corriere 7.3.13
I 5 Stelle crescono di altri 3 punti
E superano il centrodestra
I consensi quasi al 29%. Sale il Pd, il centrosinistra resta primo
di Renato Mannheimer

qui

Corriere 7.3.13
Movimento
5 Stelle, è boom tra i giovani: 67% in Sicilia

Grillo come fenomeno generazionale: alla Camera quasi la metà degli under 25 ha votato 5 Stelle. Che il Movimento avesse un buon seguito tra i giovani si era capito già dalle indagini pre-voto. Ma l'esito delle elezioni ha fatto emergere quanto ampia sia la dimensione del fenomeno. L'analisi di Marco Albertini e Roberto Impicciatore pubblicata su Lavoce.info, che ha confrontato la differenza delle preferenze ai partiti tra Camera e Senato (dove gli under 25 non votano), parla del «più rilevante spostamento di voto della storia elettorale italiana». La quota di consensi per il M5S tra i giovani tra i 18 e i 24 anni ha superato il 47%. Con punte del 67% in Sicilia, del 57% in Liguria e del 54% nelle Marche. Cifre superiori alla percentuale media del 26%. È emerso il voto generazionale: «Un profilo di voto per i giovani drasticamente diverso rispetto a quello generale, con una forte sotto-rappresentazione del voto per gli altri partiti e per il Partito democratico in particolare». Situazione che, per i ricercatori, riflette uno scontro generazionale già in atto, in un Paese dove lo squilibrio delle condizioni socio-economiche si è inasprito: con una flessibilizzazione del lavoro scaricata «completamente sui nuovi entrati senza sfiorare chi nel mercato del lavoro c'era già»; un sistema di welfare che spende per gli anziani 12 volte quanto è destinato ai giovani; «la rottura del patto generazionale» con il passaggio al sistema contributivo per le pensioni». I nuovi elettori, concludono, «potrebbero aver trovato il loro partito».

il Fatto 7.3.13
Sconfitto
Il primo passo indietro è di Vendola che torna in Puglia
Nichi non sfonda e resta governatore, finito lo spirito delle Fabbriche
di Caterina Perniconi


Il primo a tirarsi indietro è lui, Nichi Vendola. Quando il piano A di Bersani si schianterà contro la dura realtà, lui non vuole esserci. E un eventuale piano B non contempla nessuno dei due. Senza un progetto di governo credibile e con un Parlamento in bilico, meglio tornare “a ballare” in Puglia, dove il tonfo elettorale è stato parecchio forte e c’è un sistema tutto da ricostruire prima di provare a passare il testimone a Michele Emiliano, probabile candidato governatore.
“Resto fino alla fine, fino alla fine per il bene di questa terra” ha detto Vendola ieri mattina a Bari, assediato dal Pdl che da giorni occupava la sala consiliare per sapere quale incarico volesse scegliere. Capolista alla Camera in tutte le regioni, Nichi si è comportato da leader nazionale e sembrava scontata fino a dieci giorni fa la sua partenza per Roma, non solo nelle vesti di deputato, ma anche in quelle di ministro. Poi il crollo elettorale in Puglia (Sel e Pd hanno dimezzato i voti). E la speranza del centrodestra di poter capitalizzare entro tre mesi.
Ma cosa è successo nel frattempo? La debacle non è imputabile solo al successo di Grillo e del Movimento 5 stelle. E Vendola lo sa. Tre anni fa, uscito vincitore dalle primarie e dalle elezioni, era lui “il nuovo”, la “rivoluzione pugliese da esportare al nord”, il “modello di un centrosinistra alternativo”. A sostenerlo le “Fabbriche di Nichi”, laboratori di giovani volontari al servizio di una politica che aveva già capito di dover cambiare, e in fretta. Oggi, parlando con loro, si scopre che “nulla è più come prima”, che “è venuta a mancare la fiducia”, che “non c’è più dialogo con la società civile”. I pontieri con il popolo erano loro, per Grillo lo spazio era molto ridotto. Poi Nichi si è candidato alle politiche, le Fabbriche sono state abbandonate a loro stesse e i dirigenti nazionali accusati di “voler solo un posto in Parlamento”. Tra di loro Nicola Fratoianni, assessore regionale alla Programmazione e politiche giovanili della Puglia, coordinatore del progetto delle Fabbriche. Vendola sarà a Roma con lui e gli altri eletti di Sel nelle prime due settimane di lavoro, poi lascerà lo scranno per tornare a Bari. Ricomincerà dal rimpasto: ha promesso di snellire la giunta e si è rammaricato di non poter tagliare le province. Sembra quasi pronto a un’altra campagna elettorale.

il Fatto 7.3.13
Beghe familiari
È stato il fidanzato della sorella a dare le foto di Vendola
di Antonio Massari


ALCUNE IMMAGINI DEL GOVERNATORE FORNITE A “PANORAMA” DA COSIMO LADOGANA

Bari Si spaccia per una sorta di 007 e offre a un cronista di Panorama le foto che ritraggono Nichi Vendola, o sua sorella Patrizia, con il giudice che ha da poco assolto il governatore pugliese. Fotografie che, in piena campagna elettorale, sono un colpo duro alla credibilità di Vendola, il quale annuncia subito querele. Fin qui, nulla di strano, un cronista e una fonte s'incontrano per la pubblicazione di una notizia. Il punto è un altro: la fonte dello scoop – per di più anonima – è il fidanzato di Patrizia Vendola, Cosimo Ladogana, che nei giorni scorsi – come ha raccontato Repubblica Bari – s'è presentato negli uffici della Digos: s'è assunto la responsabilità di aver fornito al settimanale quelle foto, di aver millantato di averne altre, il tutto per tutelare Patrizia Vendola e scoprire quali documenti avesse in mano Panorama . Storia incredibile considerando che è proprio Ladogana a fornire alcuni scatti a Panorama – che, a detta del cronista, alcune foto le aveva già. Il cronista e il fasullo 007 si studiano reciprocamente – sul sito web di Panorama c'è la versione del giornalista – e par di capire che i dialoghi, sia scritti sia verbali, sottendano sempre una richiesta inespressa: soldi. In caso di pagamento – mai avvenuto, sia nella versione di Panorama , sia del fidanzato di Patrizia Vendola – potrebbe profilarsi un reato: la ricettazione. E il cronista - questa è la sua versione – teme una trappola: Panorama scovato a pagare profumatamente foto, che potrebbero esser state anche rubate, oltre il reato, val bene la definizione di macchina del fango. Niente soldi, quindi, se non con regolare bonifico a una fonte che si rivela con nome e cognome. Ma la fonte preferisce restare anonima. Finché non viene scoperta. E di lì a poco si presenta alla Digos per fornire la sua versione. C'è un fatto, però, in questa storia da fotoromanzo, che andrebbe sgomberato da ogni ombra. Il compagno di Patrizia Vendola mostra al cronista – lui dice millantando – alcune foto del maggio 2012 che ritraggono la giudice De Felice con Patrizia Vendola. È vero che De Felice, prima di pronunciarsi sul governatore – e assolverlo – aveva correttamente informato il suo capo, per valutare un'eventuale astensione. Ed è vero anche che la Procura di Lecce ha archiviato la sua posizione perché le frequentazioni con la sorella di Vendola sono state occasionali. Ma sarebbe bene per tutti – magistratura in primis – aver la certezza che quelle frequentazioni non siano state così vicine alla data dell'assoluzione. E poi scoprire perché sia stato proprio uno stretto conoscente del governatore, a stuzzicare Panorama, con quegli scatti.

l’Unità 7.3.13
Casaleggio
«Vi racconto il manager e le sue dodici regole»
Un ex dipendente spiega i metodi di controllo del guru 5 stelle
«Casaleggio punta a costruire un gruppo controllabile»
di Tullia Fabiani


Di lui Dario Fo ha detto che «è un timido che usa con attenzione le parole». Che è una «persona sottile, ironica e molto intelligente». Una «persona da scoprire». Quando nel 1998, poi nel 2003, pubblicò due libri per le edizioni de Il Sole 24 Ore (Movie Bullets e WebDixit) pochi lo conoscevano. Allora Gianroberto Casaleggio era «solo» un quotato manager, un ambizioso sperimentatore di nuove tecnologie applicate all'impresa, all'informazione, alla cultura. Un fautore, probabilmente, della politica partecipata. Ma non ancora un guru riconosciuto da milioni di persone. Né tantomeno il co-fondatore di un Movimento che oggi, senza alcun incarico politico o istituzionale, indica a dei parlamentari se votare o meno la fiducia a un governo. Allora Casaleggio era l'amministratore delegato della Webegg spa, un gruppo multidisciplinare per la consulenza delle aziende e della pubblica amministrazione in Rete, che faceva capo al gruppo Olivetti prima e a Telecom poi e aveva come obiettivo il posizionamento delle aziende in Internet. In questa società all'epoca lavorava un giovane programmatore informatico, diventato qualche tempo dopo, project manager, Mauro Cioni, e con lui alcuni di coloro che in seguito hanno fondato la Casaleggio Associati. «Di fatto gli attuali soci e anche molti dipendenti sono tutti ex-Webegg: Bucchich, Eleuteri, il figlio di Casaleggio Davide, Benzi, tutti appartenenti al suo cerchio magico di Milano, diciamo i più legati a lui per riconoscenza e magari anche opportunismo. Benzi (Maurizio, candidato alla  Camera, in Lombardia, ma secondo dei non eletti, ndr) nel 2005 organizzò il primo Meetup del M5S. E pensare oggi che di Casaleggio si diceva fosse sempre stato un leghista convinto fa abbastanza sorridere».
Cioni lavorava a Bologna mentre la sede principale della società era a Milano: «All'inizio la società si chiamava Logicasiel poi Webegg dal 1997 al 2007. Casaleggio era già in Logicasiel quando io arrivai nel 1997 e se ne andò nel 2003. In quel periodo mi capitava di incontrarlo qualche volta. Eravamo circa 250 dipendenti, poi cavalcando la bolla di Internet ci fu il tentativo di andare in borsa a inizio 2001. Webegg divenne un gruppo di circa 850 persone tramite acquisto e acquisizioni «a freddo» di altre aziende (Software Factory, TeleAp, Garage e altre minori). Venne fatta una massiccia campagna promozionale, di marketing, fu potenziata l'immagine dell'azienda, furono promosse molte persone a dirigenti e progettata l'apertura di sedi all'estero. Però a un certo punto non se ne fece più niente. L’azienda cominciò ad andare male, a perdere soldi pur continuando a mantenere l'immagine esterna all' americana con grande spreco di risorse. A inizio 2003 Casaleggio fu allontanato e venne chiamato un nuovo Ad che iniziò una campagna di risanamento», racconta Cioni.
DIETRO LE QUINTE
Che l'uomo e il manager Casaleggio fosse, come dichiarato da Fo, una persona intelligente e schiva lo ricorda anche Cioni; tanto schiva da lanciare un movimento politico restando il più possibile dietro le quinte, evitando ogni candida-
tura o coinvolgimento diretto. Salvo però dettare la linea insieme a Beppe Grillo, chiamato proprio da lui a metterci la faccia. «È una persona dalle idee forti, ma senza una gran carisma e molto timido. Difficilmente ti guarda in faccia quando ti parla... la sua gestione dell'azienda poteva essere una gestione vincente se applicata correttamente e non portata a estreme conseguenze».
Tra le particolarità della gestione aziendale Cioni ricorda i dodici comandamenti: «Erano parte della strategia mirata a creare un gruppo coeso, per far sentire tutti parte di una realtà unica e vincente, con una linea condivisa e ben riconoscibile; col senno del poi, per creare un gruppo controllabile. I comandamenti, come anche Max Netroom o il simbolo dell'uovo a rappresentare appunto la Webee, o i webcorner o le altre iniziative creavano un senso di appartenenza, una realtà riconoscibile in cui, volendo, ci si poteva immedesimare e fare parte dello stesso gregge. Tra i vari che ricordo – continua Cioni quelli più ipocriti sono "assenza di competitività interna" e "trasparenza nei rapporti interni ed esterni" perché era ben noto a tutti che ci fossero delle lotte. Di fatto non veniva tollerato il dissenso, l'indipendenza di pensiero. Molta forma e poca sostanza, perché quando le persone cercavano davvero di proporre iniziative nuove ma non allineate, venivano stroncate o almeno riportate nell'alveo aziendale».
Ma che c'entra tutto questo con il Casaleggio di oggi? Con il personaggio che rilascia interviste al Guardian e condiziona il futuro del Paese? Che il risultato raggiunto, in termini di visibilità, partecipazione e consenso, fosse
già un obiettivo ai tempi di Webegg? «Non lo so, secondo me la cosa si è ingigantita oltre le sue previsioni – dice Cioni ho l'impressione che il suo sia un mix tra una chiara visione del mondo e un certo spirito di rivalsa. Casaleggio è stato di fatto cacciato da Webegg a seguito dei risultati disastrosi della sua gestione. E credo adesso si compiaccia della sua capacità di convogliare le opinioni, di controllarle e di creare un gruppo di persone che devono tutto a lui; non credo voglia governare davvero, credo voglia dimostrare di essere capace di organizzare una specie di esercito di entusiasti. Anche ai tempi di Webegg il suo chiodo fisso era far diventare il sito dell'azienda tra i primi siti mondiali. Fare apparire l'azienda più che governarla. Col M5S non si può dire che non gli non sia riuscito. Lui e Grillo sono stati in grado di organizzare da niente un movimento innovativo, composto per lo più da giovani, entusiasti e riconoscenti. Questi ragazzi lavoreranno giorno e notte per portare avanti le idee del Movimento, non ho dubbi. Ma il problema è che hanno accettato fin dall'inizio che la loro indipendenza fosse limitata».
Il visionario, timido, ironico e intelligente potrebbe dimostrare che non è così; potrebbe farsi scoprire ben disponibile a tollerare non solo il dissenso, ma soprattutto le libere iniziative dei parlamentari; senza interferenze, senza diretto ed esclusivo controllo, confermando piuttosto quanto detto a piazza San Giovanni qualche settimana fa: «Per uscire dalla crisi in cui versa l'Italia serve trasparenza, onestà e competenza, altrimenti non cambierà nulla».

l’Unità 7.3.13
M5S, il partito in franchising alla prova del Parlamento
di Antonio Floridia


CHE IDEA HANNO DELLA DEMOCRAZIA GRILLO E IL M5S? NEL M5S, FINO AD OGGI, HANNO CONVISSUTO PRATICHE POLITICHE LOCALI ISPIRATE AD UNA VISIONE «PARTECIPATIVA» della democrazia e una presenza politica e mediatica centralizzata, che evoca al contrario un modello plebiscitario. Come hanno potuto convivere questi due poli? Hanno potuto farlo perché il M5S può essere definito, a tutti gli effetti, come un partito in franchising, ovvero un nuovo tipo di partito-azienda, fondato sul possesso e sulla registrazione di un marchio concesso alle «filiali» locali, ma le cui strategie comunicative (e politiche) sono prerogativa esclusiva del «centro».
È attraverso questo rapporto tra nazionale e locale che, sotto l’etichetta delle «cinque stelle», gruppi, associazioni e singole persone hanno trovato un canale di partecipazione politica e di accesso alle istituzioni che, evidentemente, non hanno visto altrove. La forza del M5S non è solo data dalla potenza comunicativa di Grillo: è data anche dal fatto che, sotto la copertura del suo brand, si sono messe in moto (anche attraverso il web, ma non solo) reti locali di attivismo civico rispetto alle quali, in tutti questi anni, partiti e istituzioni non sono stati interlocutori credibili. E così, mentre sembrava che il problema fosse solo quello della capacità «decisionistica» di leadership solitarie, o ci si affidava ad una tecnocrazia senz’anima, sotto traccia è cresciuto un fenomeno diverso: quello di una cittadinanza attiva che cercava e trovava nuove forme di protagonismo.
Questo, tuttavia, è solo un lato della medaglia: può spiegare come il M5S abbia attecchito proprio in alcune regioni, come l’Emilia Romagna o la Toscana, dove è sempre stato forte, e rimane forte, il potenziale di mobilitazione civica dei cittadini. Altrove, come in Sicilia o nel Sud, la situazione è diversa: e il M5S riesce qui a porsi come il collettore di una protesta, o anche di un ribellismo sociale che si nutre di una drammatica crisi economica e sociale, non più compensata dalle tradizionali risorse dello scambio politico.
Al cuore dell’ideologia M5S vi sono alcuni tratti tipici del «populismo», ma anche alcune originali ibridazioni di cultura politica: l’espansione su scala locale del M5S ha visto un frequente richiamo alla «democrazia partecipativa» (ad es., il «bilancio partecipativo», un modello nato a Porto Alegre e diffusosi sull’onda dei movimenti no global: qualcosa molto «di sinistra»!). Appartiene alla tradizione populista la contrapposizione tra «noi» e «loro», e l’idea che il cittadino «comune», schiacciato dalle élites, sia in grado di padroneggiare perfettamente la complessità dei problemi: ma questa è una posizione che si può coniugare sia con una logica carismatica (il capo che guida il riscatto del popolo), sia con una logica «direttistica», con l’idea che il popolo è in grado di governarsi senza filtri (e in questo si può cogliere qualche traccia di un peculiare «populismo» democratico, quello americano di fine Ottocento, che promosse nuovi istituti, come il recall, la revocabilità delle cariche pubbliche). In queste posizioni, vi è un radicale rifiuto della mediazione, o la negazione di una qualsiasi forma di rappresentanza politica. Vi può essere solo una delega vincolata: gli eletti sono solo dei portavoce dei cittadini, i quali danno «direttive» e «istruzioni» agli eletti, li controllano, li possono revocare, mettere sotto «accusa» e richiamare all’umiltà di chi si deve sentire solo provvisoriamente chiamato a svolgere un ruolo pubblico. Il rifiuto di ogni mediazione conduce a una visione atomistica della democrazia, dove «ognuno vale uno», e ad una sorta di «democrazia continua», dove (in linea di principio) si discute e si vota su tutto, sempre e comunque. Un’idea di democrazia che, naturalmente, viene fortemente accreditata nella sua effettiva praticabilità, dall’uso (o meglio, dalla mitologia) del web.
Ma come si potrà conciliare tutto ciò con il principio «uno per tutti», che sembra di fatto ispirare Grillo? Prevarrà l’idea che a livello locale sostengono molti esponenti M5S (per cui attraverso il dialogo e la partecipazione si può giungere ad una scelta condivisa); oppure, prevarrà, sulle grandi scelte politiche, una visione plebiscitaria, per cui è al capo che spetta il compito di una sintesi «empatica» che interpreti «lo spirito del popolo»? E davvero tutti si dovranno, o potranno, adeguare?
Come hanno scritto giustamente Piergiorgio Corbetta ed Elisabetta Gualmini, nelle conclusioni del loro libro sul «partito di Grillo» (Il Mulino), il M5S si trova ora di fronte ad un duplice passaggio, quello dal locale al nazionale, e quello dal movimento all’istituzione. È possibile ipotizzare che si produrrà una tensione tra la logica plebiscitaria, che ha portato a catalizzare tutte le più disparate ragioni del risentimento popolare, e la cultura politica di buona parte dei neo-eletti: una cultura che è un impasto di ambientalismo vecchio e nuovo, cultura del consumo critico, cultura della cittadinanza attiva. Dall’esito che avrà questa tensione, crediamo che dipenda non solo il futuro stesso del M5S, ma forse anche una parte non piccola delle possibili soluzioni all’inquietante crisi della democrazia italiana.

l’Unità 7.3.13
La scoperta dei grillini: uno vale uno anche per i parlamentari
di Maria Novella Oppo


SICCOME NON SIAMO NATI A VIVER COME BRUTI, STIAMO ANDANDO A SCUOLA DI GRILLISMO ATTRAVERSO LA TV, che finalmente ci mostra qualche faccia diversa da quella perennemente stravolta dall’urlo di Beppe Grillo. Non che siamo già in grado di conoscere nomi e cognomi, ma ci stiamo sforzando di imparare. Si tratta finalmente di persone normali, con facce normali, che potrebbero essere nostri vicini di casa o nostri cugini, come ha scoperto irresistibilmente Crozza, ricordandosi subito dopo di avere un cugino scemo.
Stanati nella loro nuova pubblica responsabilità da qualche talk show, i pochi grillini apparsi finora in tv, come Grillo sospettava, non ci stanno facendo una gran figura. Un po’ per inesperienza del mezzo, ma soprattutto per inesperienza del dibattito con voci diverse dalla loro. Dal modo in cui ripetono parole e idee, anche se vengono dalla comu-
nicazione planetaria del web, danno l’impressione di uscire da una cerchia ristretta e quasi catechistica, all’interno della quale hanno scoperto la politica come se prima non fosse mai esistita. Una scoperta, la loro, appassionata e comunque positiva, se solo reggerà al confronto con idee diverse e magari contraddittorie, alle quali, per ora, i fan di Grillo non sanno reagire se non con un sorrisetto imbarazzato e supponente.
Ieri mattina ad Agorà, i grillini in collegamento non hanno saputo spiegare la loro contrarietà alla libertà del parlamentare, che deve rispondere alla sua coscienza (come qualsiasi essere umano); o magari ai suoi elettori e non al suo capo bastone. Eppure, avrebbero potuto citare il loro motto, peraltro lapalissiano, secondo il quale «uno vale uno». A meno che, per loro, quell’uno non sia il solo Beppe Grillo.

Corriere 7.3.13
Politici e fascismo, un nuovo caso Polillo: ha fatto anche cose buone
Le Comunità ebraiche: inaccettabile mancanza di conoscenza storica
di Alessandra Arachi


ROMA — Ieri è stata la volta di Gianfranco Polillo, sottosegretario uscente all'Economia: «Il fascismo ha fatto delle cose bene e delle cose male, queste ultime a partire dal 1935». E anche ieri è scoppiata la bagarre per questo revisionismo sul governo che fu di Benito Mussolini. È un po' di tempo che ogni tanto qualcuno lancia affermazioni per riabilitare il fascismo.
Ieri il sottosegretario Polillo lo ha fatto dallo studio del programma di Radio 2 Un giorno da Pecora. L'altro giorno ci aveva pensato Roberta Lombardi, neocapogruppo del Movimento Cinque Stelle, ad accendere una miccia che non si è ancora spenta nonostante le numerose smentite da parte dell'interessata.
Ma a fare letteralmente esplodere il detonatore erano state le parole di Silvio Berlusconi, lo scorso 27 gennaio, pronunciate proprio durante il Giorno della memoria, quello istituito per ricordare le vittime dei campi di concentramento.
Ieri nello studio di Radio 2 Polillo ha anche elencato nei dettagli le cose che lui considera buone fatte da Mussolini: «Per esempio lui si è inserito in tutta quella che è stata l'elaborazione politica degli anni Trenta: Roosevelt, il keynesismo. E ha creato le basi del welfare in Italia. Inoltre ha favorito il processo di conversione industriale, ha avuto una grande attenzione a quelli che erano gli aspetti del Futurismo, che non era solo arte ma anche scienza».
Le prime sentite reazioni sono arrivate dalle comunità ebraiche, letteralmente «sconcertate». Dice infatti Renzo Gattegna, presidente dell'Ucei (Unione delle comunità ebraiche): «Queste dichiarazioni dimostrano una colpevole e inaccettabile mancanza di conoscenza storica della vera natura del fascismo. Molto prima delle leggi del 1938, che trasformarono l'Italia in uno Stato apertamente razzista, persecutore e assassino di una parte del proprio popolo, il fascismo aveva dimostrato di essere fondato su una ideologia fortemente intrisa di violenza e orientata a sopprimere le libertà e i diritti fondamentali».
Gattegna aveva unito le dichiarazioni di Polillo con quelle di Roberta Lombardi, la neoeletta capogruppo grillina alla Camera che a gennaio aveva scritto «parole sull'altissimo senso dello Stato del fascismo» che le erano valse un appoggio ampio e incondizionato da parte di Forza nuova e una bufera di polemiche da molte altre forze politiche e sociali, oltre l'onda lunga del web che le si era ritorta contro.
Roberta Lombardi si era difesa, a spada tratta: «Nessuna apologia del fascismo ma soltanto un'analisi storica sulla prima fase di un periodo da condannare». Ma da Genova anche un prete come Andrea Gallo, concittadino e simpatizzante di Grillo, non aveva esitato a manifestare tutte le sue critiche: «Roberta Lombardi non sa che cosa sia il fascismo: arroganza, razza superiore. Vada a rivedersi la storia, approfondisca. Il fascismo è la negazione della democrazia. Se sostiene un fascismo buono si dovrebbe dimettere».
Ma a fare quadrato attorno alla loro capogruppo ci hanno pensato in massa i grillini, ricordando quando Roberta Lombardi nel 2009 scese in piazza con in mano la Costituzione contro il lodo Alfano, leggendo le parole del padre costituente antifascista Piero Calamandrei. «Il mio giudizio positivo si riferiva al primo programma del 1919», ha rilanciato in sua difesa Roberta Lombardi.
Ma Gattegna non le ha fatto passare neanche questa: «Basta ricordare il programma chiaramente autoritario esposto da Mussolini già nel 1919, oltre alle azioni delle squadre fasciste dal 1920 contro i partiti e i sindacalisti socialisti e cattolici».

Corriere 7.3.13
«Grillo o Hitler?». Il tormentone del web

Un'arringa contro i partiti che sembra del comico ma è del Führer
E anche il leader pdl ne fa una gag
di Fabrizio Roncone


ROMA — Raccontano che Silvio Berlusconi, negli ultimi giorni, si diverta a sorprendere i suoi interlocutori con un indovinello.
Proprio così: non una barzelletta, ma un vero indovinello.
Per cominciare, immaginate lui che mette la mano in tasca, e che dalla tasca estragga un foglietto.
Ora immaginate di sentire la sua voce: «Allora... il giochino è questo: adesso vi leggerò due frasi, e voi dovrete dirmi chi le ha pronunciate. Pronti?».
Le frasi: «Mi hanno proposto un'alleanza, ma loro sono morti... Non hanno capito di avere a che fare con qualcosa di completamente diverso da un partito politico».
«Allora? — chiede Berlusconi — Chi è che parla dicendo cose così?».
Di solito, gli interlocutori del Cavaliere, dopo qualche istante di esitazione, rispondono con prontezza, sicuri di aver indovinato: «Ma è Grillo, presidente! Questo è quel comico di Grillo! Ah ah ah! Bravo, presidente! Bravo!».
Berlusconi, però, puntualmente li guarda e li gela con un sorriso dei suoi: «Sbagliato. È Hitler».
A Palazzo Grazioli c'è evidentemente qualcuno che viaggia sul web e che ha informato Berlusconi di quanto, da oltre una settimana, sta dilagando sui social network: un discorso di Adolf Hitler che sembra avere un paio di passaggi in comune con certi discorsi ripetuti di recente, e praticamente da ogni palco, dal gran capo del Movimento 5 Stelle, Beppe Grillo.
Insieme alle frasi (quelle proposte da Berlusconi nel suo indovinello) spesso viene pubblicato anche un video, che comunque potete vedere su YouTube (condiviso, insieme ad altri 18 video a tema, da EagleAndShield). Immagini in bianco e nero, Hitler arringa la folla a Berlino in un comizio, è il 4 aprile del 1932.
Sul sito Polisblog.it hanno fatto un lavoro che sembra accurato. Hanno visto il video di YouTube, sottotitolato in inglese, e hanno tradotto. «I due passaggi che caratterizzano maggiormente la similitudine tra Hitler e Grillo sono: quel "Mi hanno proposto un'alleanza" e quel "Sono morti"». Ebbene, sostengono nel blog, «Grillo non dice, esplicitamente, nessuna delle due cose».
Cominciamo dalla frase «Sono morti».
«Hitler dice per la precisione: "We've one goal before us: to fanatically, ruthlessly, shove all these into the grave". Che si può tradurre così: "Abbiamo un obiettivo davanti a noi: spingere tutti questi nella tomba, fanaticamente e senza pietà"».
Passando quindi alla questione delle alleanze, la traduzione appare anche più complessa. Nel discorso elettorale — spiegano sul blog — Hitler racconta infatti di aver incontrato il ministro dell'Interno, il quale gli avrebbe chiesto di sciogliere le Sturmabteilung, le squadre d'assalto, il primo gruppo paramilitare del partito Nazionalsocialista. Basta questo per dedurre la «proposta di un'alleanza?».
Lunedì scorso, in un suo commento su Repubblica, Gad Lerner dimostra di essersi accorto di quanto accade nella Rete. E, in un passaggio, scrive: «Per replicare all'idea M5S di una democrazia senza partiti, nei giorni scorsi è stato diffuso su Internet un filmato di Hitler che nel 1932 adoperava contro i partiti della Repubblica di Weimar un linguaggio molto simile a quello grillino: "Noi non siamo come loro! Loro sono morti, e vogliamo vederli nella tomba!" Ma sono schermaglie di scarso significato».
A Berlusconi, però, la faccenda — oltre a divertire parecchio — sembra possedere anche le caratteristiche per minare mediaticamente Beppe Grillo (tra l'altro, negli anni, è spesso accaduto che alcuni atteggiamenti, certe espressioni, siano state utilizzate sul web per tracciare del Cavaliere di Arcore un identikit del tutto simile al Cavaliere di Palazzo Venezia). Sul sito «Qualcosa di sinistra», www.enricoberlinguer.it titolano con ironia: «Tu chiamale se vuoi... coincidenze». Ritanna Armeni, solida intellettuale di sinistra, sospira annoiata: «Mah! A me sembra che, in questo Paese, chiunque vinca le elezioni poi, quasi automaticamente, diventi fascista...».
Su Facebook e su Twitter, comunque, la sarabanda impazza, e i commenti si aggiungono. «Grillo come Hitler? O viceversa?».
Tacciono, così pare, i grillini. Del resto, però, come ripeteva sempre Giulio Andreotti, «è inutile smentire una notizia. Si finisce solo per darla un'altra volta» (e Internet, ai suoi tempi, non esisteva ancora).

Corriere 7.3.13
La balena a 5 stelle per il capitano Grillo
di Beppe Severgnini


Beppe Grillo, in questi giorni, dev'essere preoccupato e divertito. Preoccupato perché ha buttato la rete pensando di tirar su qualche triglia, e ci ha trovato dentro una balena. Solo il capitano Achab sognerebbe una pesca del genere; ma lui doveva gestire solo Moby Dick, non 163 parlamentari inesperti e 8.784.499 elettori pieni d'aspettative.
Il barbuto nocchiero del M5S dispone, tuttavia, di alcuni modi per allentare la tensione. Il più efficace: ricordare le assurdità dette e scritte negli ultimi dieci giorni. Il catalogo è questo (ridotto per motivi di spazio).
«Il M5S ha vinto grazie a Internet». Non è vero. Il Movimento 5 Stelle si è limitato a utilizzare lo strumento per tenere contatti, organizzare incontri, tenere discussioni (da cui il leader si tiene regalmente distante, ma questo è un altro discorso). La pubblicità politica su misura (tailored political advertising), gestita da computer sempre più potenti e algoritmi sempre più sofisticati, quella che ha cambiato la faccia delle campagne elettorali americane, in Italia è di là da venire (con buona pace di Gianroberto Guruleggio).
«Il M5S ha vinto senza la televisione». Falso. È vero che Beppe Grillo in tv non c'è andato; ma ce l'hanno portato. Negli ultimi due mesi il policomico (piace il termine?) ha campeggiato sul piccolo schermo: piazze, comizi, polemiche, dichiarazioni, traversate. E diciamolo: ognuna di queste cose s'è rivelata più memorabile delle solite, stracche tribune politiche.
«Il M5S è un movimento collettivo». Inesatto. Le «parlamentarie online» sono state un mezzo flop (95.000 voti per 1.400 candidati, fonte www.beppegrillo.it). I grandi raduni erano legati alla presenza del leader, le cui capacità di intrattenimento sono fuori discussione (è questo il cruccio di Silvio Berlusconi). Tutti gli italiani adulti sanno chi è Beppe Grillo. Così, tutti gli elettori lombardi conoscevano Roberto Maroni; solo una parte sapeva chi fosse Umberto Ambrosoli. E sappiamo com'è finita.
«Il M5S ha vinto grazie al programma». Se volete vivacizzare le cene di primavera domandate agli amici che hanno votato Grillo: qual è il programma del Movimento? Programma politico, economico, energetico, sanitario. Fatevi elencare le proposte in materia di ricerca, informazione e trasporti (basta finanziamento pubblico ai giornali! No Tav! non sono risposte sufficienti). Il Movimento 5 Stelle non ha vinto grazie al programma. Ha vinto perché ha fornito un canale per la protesta e un'alternativa all'astensione (un merito, questo). Volendo essere più precisi: il voto al M5S è suonato come un'immensa pernacchia verso i partiti tradizionali. Che sono sordi, ma forse stavolta l'hanno sentita.

Repubblica 7.3.13
Grillismo, l’illusione della democrazia senza più partiti
di Giancarlo Bosetti


Il salto mortale logico sta nella pretesa che “conoscere” significhi di per sé “risolvere” i problemi come se non esistessero più le differenze di opinione
Una formazione nuova, ambiziosa con intenti radicalmente innovativi si è aggiunta a una situazione già molto difficile. Ma non si può fare a meno della rappresentanza

Fino a che punto può spingersi la sfida di Grillo alla democrazia rappresentativa? Il movimento ripudia espressamente la delega, propugna la disintermediazione, vuole aumentare le dosi di quello che i politologi chiamano “direttismo”. Quest’ultimo non è una novità nelle democrazie, ma è stato finora interpretato come un ampio ricorso ai referendum, una strategia applicata sistematicamente in Italia con alterni risultati, ma il “direttismo” del M5S non consiste in questo, bensì nell’uso della Rete per costruire il movimento e il consenso. Ma in che modo si passa dal consenso alla deliberazione e alla legislazione?
Se si cerca una risposta nel video animato di Casaleggio, Gaia-The Future of Politics, sull’avvento del governo universale (dopo una sconvolgente guerra mondiale), si scopre che una risposta a questa domanda in verità c’è. Una volta che tutti saranno connessi “senza password” (finalmente), nel 2054, il fatto stesso di stare in Rete porterà a “risolvere problemi” attraverso una forma di pensiero collettivo. Si istituirà un regime di saggezza unificata. Un mondo in cui «partiti politici, ideologie e religioni spariscono». Voilà, dalla preistoria alla storia, avrebbe aggiunto il vecchio Marx. E di tali “armonie”, sappiamo, è pieno il Novecento. Ma l’ardimento teorico maggiore — sia pure in metafora — sta nel salto mortale dal “conoscere” al “risolvere”, come se non ci fossero più opzioni alternative tra le quali scegliere (e tra le quali gli esseri umani continueranno invece a dividersi). La Terra sarà sommersa da una dozzina di metri di acqua? Eppure il miliardo di sopravvissuti di sicuro litigherà sui metodi di sopravvivenza e anche sugli appalti pubblici.
Dunque per i grillini si profila un guado che non si capisce come superare e non c’è ipotesi di aumento dei voti che possa eliminare lo scoglio, a meno di immaginare la assoluta unanimità, come soltanto in questo sogno su Youtube, dove si istituisce una “conoscenza collettiva” rappresentata graficamente da un unico cervello, che sembra capace, automaticamente, grazie all’enorme quantità di informazioni, di superare “problemi complessi”. È evidente l’impasse: il M5S ha una formidabile pratica e teoria nella mobilitazione, ma è del tutto privo di una idea di come si passa da qui al processo legislativo. A meno che vogliamo prendere sul serio l’idea “organica” di un universo dotato di una specie di spiritualità vivente e autoregolantesi (il nome Gaia fa pensare indubbiamente all’attrattiva ipotesi teorica di James Lovelock, che si chiama appunto così). Se però prendessimo alla lettera l’idea dell’eliminazione dei
partiti e con essi di ogni forma di dissenso, questa non sarebbe una buona notizia, anche per liberali poco esigenti.
Non stupisce che di questi tempi ricompaia con successo nelle librerie Democrazia senza partiti di Adriano Olivetti, un protagonista dell’industria, del design e della cultura italiana de- anni Cinquanta, che fondò, tra le altre cose, la rivista e il movimento di Comunità.
Ma l’ispirazione liberale dell’imprenditore di Ivrea contrastava l’egemonia della Dc a destra e del Pci a sinistra, con un’idea di autogoverno basato su piccole comunità, e collocava al centro della vita pubblica la capacità critica della persona-cittadino.
Comunità pubblicava anche, con evidente soddisfazione, i taglienti contributi di Simone Weil, la filosofa pacifista e mistica, morta a soli 34 anni, come Appunti per la soppressione dei partiti politici, in cui la mentalità prevalente dell’epoca veniva torturata quasi sadicamente: i partiti sono «macchine di passione collettiva » che opprimono il pensiero individuale e perpetuano se stesse. Con loro trionfa la menzogna, «una lebbra che si può superare solo con la loro soppressione».
Ma quella era l’epoca d’oro del Parteienstaat, lo “stato dei partiti”, di quelle floride organizzazioni che hanno attraversato, con le loro sezioni, federazioni, scuole, direzioni centrali e segreterie, gran parte del secolo scorso. Dobbiamo riconoscere, come fa oggi la scienza politica, che il “partito organizzativo di massa”, nato nell’Ottocento con il socialismo, ha pur svolto una funzione pedagogica, di elaborazione della “domanda politica”, di integrazione nelle istituzioni, di assorbimento dei conflitti e anche che la democrazia rappresentativa finora non ne ha potuto fare a meno. Certo sono valide le ragioni di Roberto Michels, il sociologo tedesco, secondo il quale la complessità della partecipazione organizzata di tanta gente impone una tendenza inevitabilmente oligarchica alla struttura, determina la professionalizzazione dei ruoli dirigenti e finisce per consentire la manipolazione della base. E quando il peggio può accadere, accade. Arrivano i politici che vivono non “per” ma “della” politica (Max Weber). Oggi la presenza dei partiti in Italia non appare ingombrante per le stesse ragioni che lamentavano Olivetti e la Weil: sono diventati più piccoli e più deboli, non hanno la più potenza ideologica con cui elaboravano linguaggi e visioni del mondo, sono diventati “partiti personali”, aggregati cangianti, dai nomi incerti. La loro patologia non produce oppressione ideale, ma altro: una tendenza invasiva della società, lottizzazione, finanziamento pubblico smisurato, corruzione. Sono gli argomenti dei grillini.
«Nessuna fiducia a un governo dei partiti» sostiene il M5S. Nella stessa riunione però un deputato del gruppo dice: «Demoliamo il nostro ego per metterlo al servizio del movimento». E che altro è questo se non disciplina di partito? Quella battuta sarebbe piaciuta a un bolscevico. E Simone Weil ci avrebbe visto tracce della “lebbra” di cui sopra. Anche qui c’è aria di una contraddizione in via di esplosione.
Per stare ai fatti, un partito ambizioso, e con intenti radicalmente innovativi, si è aggiunto al difficile concerto politico italiano. E giacché di rappresentanza e di partiti non si può fare a meno, per far funzionare la democrazia parlamentare nella sua pienezza costituzionale e deliberativa, bisognerà allentare le maglie della “legge” di Michels, e scommettere sul miglioramento di quelli vecchi, e sulla maturazione di quelli nuovi.

Repubblica 7.3.13
Come cambiano le Camere con l’ondata dei nuovi eletti
Arriva in Parlamento la generazione perduta
di Marco Revelli


L’età media è di 32 anni. A Montecitorio le donne sono il 35%, al Senato sfiorano il 50. I laureati o laureandi arrivano all’80. Molti sono ricercatori, spesso precari Su 109 deputati, 18 sono ingegneri, i più numerosi

In tanta incertezza un punto fermo c’è: il prossimo Parlamento sarà diverso. Forse sarà breve. Forse non riuscirà a produrre una maggioranza neppure per iniziare a lavorare. Ma sicuramente non assomiglierà a nessun altro precedente. In particolare non all’ultimo, quello nato nel 2008. Allora, si ricorderà, ne prese possesso — soprattutto attraverso il foro d’entrata del centrodestra, ma anche grazie al franchising dipietrista e di striscio all’ansia egemonica pidiessina — un esercito variopinto d’indagati con rispettivi avvocati, di vistose pin-up, di pittoreschi transfughi in pectore, accanto a una schiera di grigi funzionari di partito e di onorevoli in servizio permanente effettivo. Oggi, sulla cresta di un’onda anomala che ha spazzato la società politica da un capo all’altro, fa irruzione sui banchi di Camera e Senato un oggetto misterioso, curioso nella sua anomala normalità. Alieno nei tratti dei volti e nel linguaggio, più simile alla folla di un meeting del volontariato o di una piazza di Occupy Wall Street che a quella solita della buvette e del transatlantico. Un tipo umano antropologicamente “altro”, a segnare anche fisicamente la portata della frattura consumatasi.
Si sarebbe tentati di dire: «dagli indagati agli indignati». E per molti versi l’analisi anagrafica degli eletti nella lista del Movimento 5 Stelle sembrerebbe confermarlo. L’età media alla Camera è di 32 anni. Quasi un terzo di essi è ventenne. Tutti gli altri sono trentenni. Nessuno ha più di 40 anni. Le donne sono circa il 35 per cento del gruppo parlamentare, al Senato sfiorano il 50. Ma è soprattutto il titolo di studio che stupisce: più dell’80 per cento sono laureati, o laureandi, in taluni casi con laurea magistrale o master. Alcuni studiano ancora (come nella strepitosa gag di Crozza-Napolitano), altri sono ricercatori, spesso precari. Gli ingegneri sono il gruppo relativamente più numeroso: 18 sui 109 deputati. Seguiti a ruota dai laureati in informatica, o in scienze della comunicazione. Numerosi anche i tecnici, quasi sempre operanti nel campo delle nuove tecnologie.
Difficile leggervi un’analogia con il “diciannovismo” (anche se alcune dichiarazioni lasciano quantomeno perplessi). Sembrerebbero piuttosto disegnare il profilo di quella che Richard Florida, analizzando dieci anni or sono il fronte avanzato della società americana, ha definito la creative class.
Un insieme di professionalità e di biografie messe al lavoro sul crinale dell’innovazione, tra le pieghe di una società già pienamente post-fordista, spesso in possesso di saperi sofisticati ma compressi nel circuito del precariato e della marginalità di status. Non riconducibili alle tradizionali forme della rappresentanza sindacale né ai vecchi moduli della mobilitazione politica, ma intrinsecamente all’opposizione di ogni establishment. Sono anche, d’altra parte, la “generazione perduta” di cui ha parlato Mario Monti: un gigantesco, potenziale investimento sociale lasciato cadere al margine, invisibile ai radar dei decisori pubblici e dell’asfittica imprenditoria privata. Cosicché potremmo cavarcela col ricondurre il terremoto politico di questi giorni a una forma particolare di protesta generazionale, come se l’anomalia italiana consistesse nel fatto che qui si è riversato nelle urne quello che altrove si è manifestato in piazza. E quella generazione invisibile al potere si fosse d’improvviso materializzata alle spalle del potere stesso, nella sua stessa “casa”, a presentare il conto. Ma sarebbe tutto sommato riduttivo. Non ci permetterebbe di misurare tutto l’enorme potere destabilizzante che questa elezione — e questa new entry — ha sulle forme della politica. E sul meccanismo stesso della rappresentanza.
Quello che è entrato in Parlamento, infatti, tutto è tranne che la normale rappresentanza di un partito. O di un “soggetto politico” nel senso comune del termine. Ne è, per molti versi, la negazione. Un potenziale memento mori.
Intanto perché il leader — o meglio il “genio della lampada” che li ha evocati — non è con loro. È, anzi, antropologicamente altro da loro, diverso nell’aspetto, nella retorica, nella mimica facciale: titolare esclusivo della Rappresentazione (teatrale) separata dalla Rappresentanza (politica). E poi perché essi, a loro volta, sono diversi dai loro stessi elettori. O meglio, costituiscono una parte limitata del proprio elettorato, che è molto più ampio, infinitamente più articolato generazionalmente e professionalmente, eterogeneo o disperato. Sarà difficile, per gli altri soggetti politici, trattare con loro. Ma sarà anche difficile per loro rappresentare i propri elettori, praticando le inevitabili mediazioni. Come se la forma-partito si fosse improvvisamente deformata. E i diversi piani della piramide a gradoni che dal sociale va verso le istituzione fossero andati di colpo fuori asse, lasciando del tutto insoluta la questione della rappresentanza e della sintesi politica in una società senza sovrano.

il Fatto 7.3.13
Il bavaglio del Vaticano ai cardinali americani
di Carlo Tecce


IL CAMERLENGO BERTONE E I PORPORATI ITALIANI IMPONGONO IL SILENZIO AL GRUPPO USA CHE VUOLE RINVIARE IL CONCLAVE

Città del Vaticano In Vaticano non s'aspettavano l'attivismo dei cardinali americani: che non vogliono sbrigare le pratiche in fretta e furia, che non vogliono sotterrare il tema pedofilia, che non vogliono sorvolare le trame di Vatileaks, che non vogliono rinchiudersi in Conclave e fare un pasticcio. La reazione dei curiali, i porporati che controllano la Santa Sede guidati dal camerlengo Tarcisio Bertone, non si è fatta attendere: divieto di parola, basta conferenze stampa, qui comandiamo noi. Il bavaglio italiano agli americani è una ferita che segna la preparazione al Conclave, e fa scivolare il giorno di apertura: lunedì o martedì o addirittura mercoledì. Il garbato gesuita Federico Lombardo, portavoce vaticano, non si è fatto pregare. A chi insisteva con le domande sul tema, ha risposto brutalmente: “Questi interrogativi poneteli ai cardinali americani”. Sempre più inviperito, ha aggiunto: “Tutti sappiamo che gli americani sono un gruppo numeroso (11 elettori in Conclave, la seconda forza mondiale, ndr) e che hanno una buona organizzazione con i media. Non mi sono dunque stupito che abbiamo avuto questa tensione a comunicare. Altri episcopati non lo fanno perché o non hanno pensato di farlo o sono meno organizzati. Ognuno fa le considerazioni che ritiene”. Il gruppo americano, che rivendica trasparenza e dialogo, fa riferimento al cappuccino di Boston, Sean O'Malley: la Chiesa Usa che guarda oltre il Conclave e non copre il discusso Mahony, accusato di aver insabbiato le indagini sugli abusi sessuali nella sua diocesi. Nonostante le petizioni dei cattolici negli Usa, Mahony ha raggiunto la Capitale, anche se negli ultimi giorni ha chiesto scusa per i suoi errori. Questa è la dinamica controversa e molto florida (vorrebbero, però, abolire lo Ior, ndr) Chiesa americana che si scontra con i conservatori romani. La responsabile per i media, Mary Ann Walsh, non senza qualche imbarazzo e qualche stoccatina, ha comunicato la sospensione dei colloqui con i giornalisti: “Le Congregazioni generali hanno espresso preoccupazione per le fughe di notizie riservate riportate sui giornali italiani. Per precauzione, i cardinali hanno deciso di non dare interviste”. La parola da evidenziare è “precauzione”, un sentimento di ansia che attanaglia i porporati di Curia, impegnati a fischiare subito il finale di partita per incassare almeno la segreteria di Stato, non avendo la credibilità per eleggere il prossimo pontefice. Continua, però, il giochino dei ritardi: all’appello dei 115 cardinali elettori, figurano assenti un polacco e un vietnamita. Quando il collegio sarà al completo – forse domani – si potrà proporre e indicare l’inizio del Conclave.

il Fatto 7.3.13
Città del Vaticano
Pedofilia, quanti impresentabili
di Marco Politi


LE VITTIME STATUNITENSI (SNAP): IN 12 DOVREBBERO DIMETTERSI

Come un acido corrosivo lo scandalo degli abusi morde il corpo della Chiesa. Senza tregua. Non se ne esce se i vertici della Chiesa non si decideranno a mettere in campo una definitiva operazione-verità. Facendo un esame di coscienza globale e arrivando a conclusioni trasparenti. Seguite da un giudizio preciso da cui risulti chi si è reso gravemente colpevole, chi è corso ai ripari in tempo, chi è senza ombra di sospetto. I casi del cardinale Law e Mahony restano memoriali di vergogna. Law, fuggito da Boston perché aveva chiuso gli occhi dinanzi al fenomeno dei preti molestatori, partecipò al conclave del 2005 nonostante che una delegazione di vittime fosse venuta a pregare sul sagrato di San Pietro, chiedendogli di ritirarsi. Mahony – il cui carteggio scandaloso con un collaboratore in diocesi, recentemente pubblicato, testimonia inoppugnabilmente manovre per evitare la cattura di preti criminali a Los Angeles – è venuto a Roma con tracotanza, fingendo di portare la croce di accuse ingiuste.
MA LA RESPONSABILITÀ ultima, in questo caso, è di Benedetto XVI, che come ha fatto pressione perché si dimettesse e non venisse in conclave il cardinale scozzese O’Brien (situazione diversa: è stato implicato in relazioni illecite con quattro sacerdoti), non ha mosso un dito per bloccare Mahony. Eppure papa Ratzinger aveva tutti poteri – poteri assoluti come si conviene al sommo pontefice – per spogliare della porpora il cardinale insabbiatore.
Famiglia Cristiana, con gran scandalo dei farisei ecclesiastici, ha pubblicato il dossier di Mahony e ha lasciato libertà di parola sul web ai lettori cattolici. Schiacciante il responso: il cardinale se ne vada. Ma in Vaticano fanno finta di niente e l’ultima trincea, dopo avere passato anni ad accusare la stampa di fomentare fantasmi anticlericali, è che ogni decisione va lasciata alla coscienza dei cardinali chiamati in causa. Un modo per lavarsene le mani. Intanto Snap, l’organizzazione statunitense delle vittime di abusi, mette all’indice dodici cardinali partecipanti al conclave. L’associazione cita alla rinfusa Norberto Rivera Carrera (Messico), Oscar Rodriguez Maradiaga (Honduras), Timothy Dolan (New York), Angelo Scola (Italia), George Pell (Australia), Dominik Duka (Repubblica Ceca), Tarcisio Bertone (Italia), Donald Wuerl (Washington), Marc Ouellet (Canada), Sean O'Malley (Boston), Leonardo Sandri (Argentina), Peter Turkson (Ghana). Difficile dire su che base questi porporati “non dovrebbero essere eletti”. Di alcuni si conoscono fatti precisi: il cardinale Carrera, ad esempio, coprì un sacerdote messicano colpevole di molestie. Per altri è giusto attendere imputazioni specifiche. Un porporato come O’Malley, per dire, è noto per la tenace opera di pulizia svolta nella diocesi di Boston e dunque la lista dà anche l’impressione di essere stata stilata soprattutto con l’obiettivo di suscitare polemiche. Dura la reazione del portavoce vaticano Lombardi: “Non spetta a Snap dire chi deve partecipare al conclave”.
Ma il ripetersi ciclico di accuse segnala l’esistenza di un problema che i vertici della Chiesa non possono rimuovere. E più tarderanno e maggiore sarà il danno. Perché un dato è sicuro. Sono tanti, troppo i prelati che si sono comportati esattamente nel modo bollato come negativo da Benedetto XVI nella sua Lettera ai cattolici d’Irlanda del marzo 2010.
TROPPI PRELATI si sono piegati alla logica di una “una preoccupazione fuori luogo per il buon nome della Chiesa”, con l’unico obiettivo di “evitare scandali” senza preoccuparsi delle sofferenze Troppi prelati non hanno portato i preti criminali davanti a tribunali statali, come pure riteneva giusto papa Ratzinger. E troppi vescovi, magari diventati cardinali, ricadono nella categoria condannata dal pontefice dimissionario: “Alcuni di voi e dei vostri predecessori avete mancato, a volte gravemente, nell’applicare le norme del diritto canonico codificate da lungo tempo circa i crimini di abusi di ragazzi”. Ora è scoppiato il caso del cardinale Domenico Calcagno, chiamato a rispondere di quando era vescovo di Savona. La lettera da lui inviata al prefetto del Sant’Uffizio cardinale Ratzinger nel 2003 per chiedere consiglio su come trattare un prete pedofilo recidivo (che lui vuole allontanare dal contatto con i minori) è lampante nel rivelare come l’obiettivo primario sia di non far trapelare il crimine all’opinione pubblica. Meno che mai di denunciare alla polizia il criminale. “Nulla è trapelato sui giornali e non ci sono denunce in corso”, comunica trepidante e soddisfatto mons. Calcagno a Ratzinger. Il marcio sta lì. Fino a quando i vertici ecclesiali – a cominciare dal nuovo papa – non saranno netti nel sanzionate questi comportamenti, gli scandali si ripresenteranno.
Inesorabili come l’ombra di Banquo nel Macbeth. C’è una parola che bussa alla porta di questo conclave 2013. “Accountability”. É il dovere di rendere conto.

Repubblica 7.3.13
Parla una delle gole profonde dei dossier di Vatileaks
“In Curia 20 corvi presto altre verità”
di Marco Ansaldo


«IL MAGGIORDOMO del Papa, Paolo Gabriele, non è l’unico corvo del Vaticano. I corvi sono tanti. Più di venti persone, tutte legate alla Santa Sede. Siamo donne e uomini, laici e prelati. Se abbiamo fatto uscire i documenti dall’Appartamento del Papa, con l’aiuto di Paolo Gabriele, è stato per compiere un’operazione di trasparenza nella Chiesa. Ora, dopo la rinuncia di Benedetto XVI al pontificato, e alla vigilia del Conclave, il caso Vatileaks continua a tenere banco».
“Non riusciranno a insabbiare tutto dietro Vatileaks siamo in venti e molte verità devono ancora uscire”
Parla uno dei corvi: la battaglia per la trasparenza continua

ROMA «E PER noi è venuto il momento di tornare a parlare».
Il tavolino della veranda di un bar ai Parioli, a Roma, lontano dal Vaticano e da occhi indiscreti. Una mano che tormenta un anello dorato con lo stemma del Papa. La persona che parla è credente, fedelissima alla Chiesa, ha una perfetta conoscenza della macchina vaticana, dei suoi protagonisti, e spiccate competenze in materia finanziaria. Nessun nome, com’è ovvio. Anche il maggiordomo del Papa è rimasto a lungo ignoto. Ma la “fonte Maria” che in passato aveva fornito ai media carte e documenti è del resto un nome collettivo.
In epoca di Conclave i corvi tornano a volare?
«Io sono un ex corvo».
Cioè?
«Non ci sono più Papi da difendere o verità da far emergere. È tutto nel rapporto segreto compilato dai tre cardinali anziani».
Che cosa c’è dentro?
«So qual è stata la metodologia, e soprattutto lo scopo di questa relazione».
Quale?
«I documenti fuoriusciti avevano portato a un’atmosfera di tutti contro tutti in Curia. E il Papa voleva capire cosa stesse succedendo, e se il malumore che aveva spinto quelle persone a utilizzare il suo maggiordomo fosse stata la molla di un disagio più grande».
Nel rapporto c’è la storia della lobby gay…
«Verissima. Altroché. Potrei fare nomi e cognomi di cardinali e monsignori, di vescovi e funzionari. Dai piani alti della Segreteria di Stato a dicasteri di prima fila».
Che altro c’è?
«Questioni finanziarie legate allo Ior. Benedetto confidava moltissimo nell’operazione di trasparenza che poteva fare Ettore Gotti Tedeschi. E nel momento in cui questi fu sfiduciato, ne chiese le ragioni. Le risposte furono insoddisfacenti, e la sua reazione fu di aprire una commissione di inchiesta che facesse piena luce».
Si è parlato di molte persone che stessero dietro al corvo: cardinali, laici, donne e uomini a contatto quasi quotidiano con Benedetto. Chi sono i mandanti dell’operazione Vatileaks?
«Noi abbiamo parlato, come ha fatto il maggiordomo, con la stampa. Ma se di mandanti si può parlare sono altre le sfere che vanno cercate. Ben più alte. Molto più vicine al pontefice di quello che siamo noi».
Ci sono altri documenti oltre a quelli già emersi?
«Sì».
Potrebbe uscire un altro libro di Gianluigi Nuzzi basato sulle carte?
«Sì».
Con documenti consegnati da Paolo Gabriele oppure con altre carte?
«So solo che il libro “Sua Santità” non contiene tutti i documenti in possesso di Nuzzi,  ma che ce ne sono altri».
Ma voi come avete lavorato per fare uscire le carte?
«Bisogna fare un passo indietro. A circa un paio di anni fa, nel momento in cui il Santo Padre decise di realizzare attraverso monsignor Carlo Maria Viganò un’operazione di razionalizzazione nelle attività economiche dalla Santa Sede, unite all’opera di trasparenza affidata a Gotti allo Ior».
E che cosa accadde?
«L’operazione di Viganò fu ostacolata perché infine considerata lesiva di determinati equilibri all’interno degli istituti soggetti a verifiche. Così nacque una lobby in Vaticano, composta da persone che lavoravano fra Governatorato, Apsa, Segreteria di Stato, Biblioteca, Archivio, Musei, Cei, Osservatore Romano, che ha cominciato a dialogare. Abbiamo pensato che rendere noto quello che succedeva nella Curia potesse essere un modo per sollevare l’opinione pubblica su determinati temi. Scatenando un’operazione di pulizia che avrebbe portato alla trasparenza. E il maggiordomo, che fisicamente aveva in mano le carte, le consegnò a Nuzzi, che aveva contattato. Abbiamo cercato di aiutare il Papa».
Però il Papa si è dovuto dimettere. E c’è chi dice che non sia stato solo per ragioni di salute, ma anche per critiche e amarezze.
E forse anche lo scandalo Vatileaks ha avuto la sua parte.
«Il Papa non si è dimesso per il caso Vatileaks. Né per le pressioni. Anzi, la sua presenza continuava a giustificare un determinato andazzo, che invece Joseph Ratzinger voleva scardinare».
La sua rinuncia è quindi una sconfitta o una vittoria?
«È una sfida. Alla Chiesa cattolica e alla Curia, perché facciano bene. E per realizzare quello che a lui non è riuscito: una Chiesa libera, forte e trasparente. Libera da interessi privati, anche di alcuni cardinali. Libera dallo scacco della “malagestio” che negli anni passati ha caratterizzato alcune operazioni dello Ior. Per una Chiesa capace di tornare a parlare ai fedeli. Gli stessi fedeli che oggi non vanno più in Chiesa. Sarà una sconfitta se determinati equilibri si manterranno. Una vittoria se il gesto estremo del pontefice segnerà la fine di un declino. Dando l’opportunità al suo successore di ripartire da zero».
Però adesso le tensioni stanno aumentando.
«Perché molti cardinali vogliono conoscere il rapporto. E il tentativo di chi vuole bloccare tutto è di dire: non fatevene influenzare, perché è un discorso slegato dai problemi della Chiesa. Hanno scatenato una caccia alle streghe. Mentre invece la “Relatio” riguarda il rapporto con i fedeli, lo Ior, l’immagine della Santa Sede».
Siete riusciti infine nel vostro scopo?
«Lo potremo sapere solo nel momento in cui uscirà il nuovo Papa. Se porterà alla realizzazione della trasparenza, allora sì. Se invece Vatileaks si risolverà nel solito “tutto cambia perché nulla cambi”, allora sarà stato un fallimento».
Quando verrà eletto il nuovo Papa voi corvi che farete?
«Rimarremo al servizio della Chiesa e del pontefice. Continuando a spiegare, ove sarà necessario, certe dinamiche. Ma spero che non ci sia più bisogno dei corvi per parlare al mondo».
Missione compiuta?
«Dipende da chi sarà il Papa eletto, da quale fazione verrà votato, e da chi sarà alla testa della prossima Segreteria di Stato».

l’Unità 7.3.13
Le bugie di Alemanno sui Rom capitolini
di Luigi Manconi e altri


Amnesty International, Associazione 21 luglio, Centro europeo per i diritti dei rom (Errc) e Open Society Foundations hanno indirizzato una lettera al sindaco di Roma, Gianni Alemanno, in cui evidenziano come il provvedimento approvato dal Comune, sull’assegnazione delle case popolari a persone di etnia Rom, violi le norme di diritto internazionale. Nel bando predisposto per l’accesso a tali strutture, indetto alla fine del 2012, si legge che alle persone attualmente in situazioni di “grave disagio abitativo” verrà data la priorità all’ingresso negli alloggi di “edilizia residenziale pubblica”. Ecco perché dovrebbero ottenere un punteggio elevato le famiglie “in situazione di grave disagio abitativo, accertato dall'autorità competente, che dimorino in centri di raccolta, dormitori pubblici o comunque in altre idonee strutture procurate a titolo provvisorio da organi, enti e associazioni di volontariato riconosciute ed autorizzate preposti all'assistenza pubblica, con permanenza continuativa nei predetti ricoveri da almeno un anno maturati alla data di presentazione della domanda”.
I campi attrezzati di Roma riservati ai Rom pare che non rientrino in quella categoria. Quei richiedenti risiedono nei campi attrezzati che “non possono essere equiparati alla situazione descritta nella categoria A1 in quanto da considerarsi strutture permanenti”, come è stato specificato con la circolare del 18 gennaio 2013. E, come ribadito dall’assessore alle Politiche del Patrimonio e della Casa di Roma Capitale, Lucia Funari, “per il beneficio dei 18 punti, i richiedenti devono risultare ospitati in ricoveri temporanei, ossia strutture dedicate all’accoglienza di persone senzatetto, senza casa o senza fissa dimora”. Ma questa spiegazione non ha convinto i rappresentanti delle associazioni firmatarie della lettera che l’hanno interpretata come un “intento discriminatorio di precludere alle persone appartenenti alle comunità rom la possibilità di ottenere il riconoscimento del punteggio previsto dalla Categoria A1 e, dunque, di negare loro una speranza concreta di vedersi assegnato un alloggio”. Inoltre la definizione di “strutture permanenti” attribuita ai campi attrezzati è in contrasto con la recente convenzione stipulata dal Comune di Roma per la gestione del campo attrezzato Barbuta o Camping River, in cui veniva stabilito che “la permanenza al campo assume il carattere di provvisorietà”. Non solo. Nel mese di febbraio del 2010, in occasione della festa di chiusura del campo Casilino 900, il Comune di Roma si era impegnato “a portare avanti il programma di sviluppo e di integrazione della Comunità Rom nella città di Roma, particolarmente in riferimento a educazione/formazione, lavoro, casa, problematiche giovanili e assistenza sanitaria”. Si sa, certe promesse, come le bugie, hanno le gambe corte. Il sindaco pensa che il provvedimento espresso nella circolare di gennaio rientri in quel programma di sviluppo?

Corriere 7.3.13
Cure psichiatriche e porto d'armi. Uccide due donne, poi si spara
«Sono rovinato». Imprenditore fa strage in Regione Umbria
di Fabrizio Caccia


PERUGIA — Quegli occhiali da sole che portava sempre, anche quando pioveva. E quel rovello che lo scavava dentro, sempre più a fondo, giorno dopo giorno, ossessione infernale per Andrea Zampi, piccolo imprenditore della moda: «Mi hanno rovinato, rovinato, rovinato», «sono finito, finito, finito...». Pensiero insopportabile, amplificato dalla malattia mentale che i suoi genitori, Giancarlo e Annamaria, conoscevano bene e avevano tentato in tutti i modi di fronteggiare, portandolo in cura al Cim di Perugia già nel 2009 e poi a Pisa da degli specialisti, ma senza ottenere grandi miglioramenti nonostante si fosse sottoposto anche a due Tso (trattamenti sanitari obbligatori).
Finché la sua ossessione non si è fatta progetto, lucido piano vendicativo, con una licenza per il tiro al piattello chiesta e ottenuta dalla Questura nel settembre scorso e una pistola, una Beretta 9x21, acquistata pochi giorni fa (nel 2009, visti i problemi psichici, gli era stata revocata la detenzione di due pistole). Così, Andrea Zampi, 43 anni, perugino, titolare con il padre Giancarlo della scuola di sartoria «Progetto Moda» di via Enrico Toti 26, si è presentato ieri a mezzogiorno e un quarto davanti al grande palazzo degli uffici della Regione, con le finestre affacciate sulla Piazza del Bacio, dove un tempo sorgeva la storica sede della Perugina. All'ingresso ha presentato il suo documento e ha ricevuto un badge per salire al quarto piano, ufficio accreditamenti dell'assessorato al Welfare: il suo obiettivo. Niente metal detector all'entrata, perciò l'allarme per la Beretta custodita dentro al giaccone non è suonato e Zampi in pochi secondi ha raggiunto il bersaglio. In corridoio ha cominciato a urlare e inveire contro decine di dipendenti pubblici terrorizzati («Voi siete al sicuro, a voi non vi licenzia nessuno, guadagnate troppo, io per colpa vostra invece sono rovinato...»), ha premuto il grilletto una prima volta senza colpire nessuno poi è entrato nell'ufficio accreditamenti degli enti di formazione, dove c'erano solo la funzionaria, la signora Margherita Peccati, 61 anni, ormai prossima alla pensione e la sua collaboratrice Daniela Crispolti, 47 anni, impiegata precaria con contratto Co.co.co. Andrea Zampi non ha avuto pietà: ha sparato a bruciapelo uccidendole entrambe, poi ha lasciato un biglietto farneticante sulla loro scrivania (preghiere a Dio e richieste di perdono) è uscito, ha fatto qualche passo ed è entrato in una stanzetta attigua, vuota, dove ha premuto il grilletto per altre due volte, puntandosi l'arma alla testa. Morto all'istante. In via Enrico Toti, fino a qualche anno fa, era un via vai di modelle, si organizzavano corsi di formazione e sfilate, la scuola di sartoria «Progetto Moda» sempre affollata di ragazze, ma poi la crisi economica ha investito il settore e la ditta Zampi ha iniziato a trovarsi in difficoltà. Andrea il 7 dicembre scorso era stato intervistato da due studenti della Scuola di giornalismo radiotelevisivo di Perugia, Manlio Grossi e Carlotta Balena, e anche su di loro aveva riversato i suoi incubi: «La Regione mi ha negato 160 mila euro di finanziamento per un cartello mancante di divieto di fumo». La Regione però smentisce e anzi fa sapere che l'ente di formazione era stato appena riaccreditato, perciò «Progetto Moda» avrebbe potuto continuare a concorrere ai bandi. Ma Zampi ormai era entrato nel suo tunnel senza uscita e lo ripeteva a tutti, al suo assicuratore Remo Berti, al barista del Tux di via Toti, Nazareno Zacchigna: «Sono rovinato». E i medici raccontano di «un paziente anarchico e indisciplinato, che non seguiva i protocolli e non prendeva le medicine». Così alla fine il tappo è saltato. E il suo delirio è costato tre vite.

Corriere 7.3.13
La follia di uomini che si sentono dimenticati
di Dario Di Vico


Perugia come Campodarsego, due episodi di autentica follia che si sono susseguiti a venti giorni di distanza. Ieri in Umbria Andrea Zampi ha lasciato a terra due vittime innocenti e si è tolto la vita. L'11 febbraio in Veneto, un piccolo imprenditore, Luciano Franceschi, aveva aperto il fuoco contro il direttore del Credito Cooperativo che fortunatamente è ancora vivo. I due protagonisti hanno dietro di sé storie e caratteristiche differenti. Zampi, secondo quanto ha rivelato il sindaco di Perugia, era affetto da gravi disturbi psichici. Franceschi è un militante dell'indipendentismo veneto.
L'uno nel raptus ha preso di mira l'amministrazione pubblica accusando le impiegate di aver colpevolmente intralciato la sua attività e compromesso la sua azienda, l'altro aveva individuato «ideologicamente» nel banchiere il capro espiatorio della recessione. È facile ovviamente collegare i due episodi e ieri qualche sindacalista d'impresa lo ha fatto a tambur battente. Del resto le proporzioni della Grande Crisi sono così larghe che si prestano a spiegare qualsiasi fenomeno prenda minimamente corpo nella nostra incerta e malandata società. Il consiglio che però ci sentiamo di dare è quello di evitare di sommare in maniera semplicistica vicende che hanno genesi e percorsi non omologabili. Lo sforzo di capire deve prevalere sull'analisi abborracciata e sulle facili allusioni al contesto («l'ingovernabilità», «il clima di odio», «i politici insensibili» e via di questo passo).
Detto questo, è evidente che Zampi, Franceschi e altri piccoli imprenditori, che anche in queste ultime settimane hanno posto fine tragicamente alla loro vita, si sentivano innanzitutto «uomini dimenticati». È singolare, infatti, come le cronache di questi gesti estremi vengano più dai piccoli centri che dalle grandi città. L'impressione è che proprio nella dimensione locale si sia rotto qualcosa, le reti di protezione tipiche dei territori evidentemente si stanno smagliando giorno dopo giorno. L'uomo dimenticato, privato della solidarietà della sua comunità, crede di azzerare il male che si porta dentro vendicandosi. E individua il suo nemico mortale nell'impiegata della Regione, che magari come nel caso di ieri è una co.co.co., o nel direttore di una minuscola banca. È chiaro che i Piccoli, che pure in questi anni hanno resistito e non hanno licenziato in misura proporzionale al fatturato perso, non vedono davanti a sé grandi prospettive. E in tantissimi casi devono subire la beffa di chiedere in banca i soldi per pagare le tasse a quello stesso Stato che invece ritarda incredibilmente di onorare le sue fatture.
Non è questo il giorno/la sede per discutere se i corpi intermedi sono davvero un tappo alla modernizzazione del Paese o sono un capitale sociale di cui dobbiamo esser fieri, ma di sicuro la follia degli uomini dimenticati non può essere combattuta militarizzando uffici pubblici e banche. Non resta che agire ricreando attorno a loro quel clima di solidarietà a cui sono abituati. I prossimi mesi si presentano tutt'altro che facili, la ripresa è lontana e non è giusto che in questo attraversamento del tunnel della crisi si debbano ripetere episodi come quelli di Perugia e Campodarsego. Tocca alle forze vitali che agiscono sul territorio il compito di ascoltare gli uomini dimenticati, di far valere le loro ragioni e di rafforzare in questo modo l'argine contro la follia e la violenza. Lo dobbiamo innanzitutto alle vittime incolpevoli.

l’Unità 7.3.13
Orbàn, svolta autoritaria nel cuore dell’Europa
Ungheria. Modifiche alla Costituzione introducono la censura, limitano la libertà di stampa e di culto e consentono processi contro i partiti
di Paolo Soldini


Viktor Orbàn trascina l’Ungheria nel fascismo. Se qualcuno pensa che l’espressione sia troppo forte, dia un’occhiata alle modifiche alla Costituzione che sono state proposte dal partito Fidesz, il quale ha la maggioranza dei due terzi in Parlamento necessaria per farle passare, e che lunedì prossimo saranno votate e diverranno leggi. La libertà di espressione e di stampa viene pesantemente limitata. Potranno essere proibiti giornali e trasmissioni che feriscano «la dignità della nazione» e diffondano incitamenti «all’odio». Di fatto viene introdotta la censura. I poteri di controllo della Corte costituzionale vengono annullati: i giudici saranno chiamati a pronunciarsi solo sugli aspetti formali delle leggi. Sono autorizzati i processi politici contro i partiti che il governo giudica «associazioni criminali» (innanzitutto il partito socialista erede del partito comunista, membro attualmente del Pse). La libertà di culto viene garantita soltanto alle religioni «permesse» dal governo e infine viene modificato il diritto familiare: l’unica famiglia di cui si sanciscono i diritti è quella composta da un uomo e da una donna con l’obiettivo dichiarato di procreare.
Formalmente, il complesso di emendamenti alla Costituzione non è d’iniziativa del governo, ma è stato proposto da alcuni deputati di Fidesz, la formazione politica che il capo del governo domina senza discussioni e che – incredibilmente – fa ancora parte del Partito popolare europeo. Non c’è però alcun dubbio sul fatto che le misure autoritarie siano state preparate dal gabinetto Orbàn e dal ristretto clan di gerarchi che si stringe intorno all’autocrate. Esse sono le stesse che il governo aveva cercato di varare l’anno scorso e che vennero bloccate prima dalla Corte costituzionale e poi dall’Unione europea. Ora la Corte viene messa in condizioni di non nuocere, giacché si stabilisce un termine prima del quale tutte le sue deliberazioni sono nulle. Quanto alla Ue, esiste agli atti una lettera in cui le autorità di Bruxelles ammonivano i dirigenti di Budapest a non procedere con le modifiche e il governo Orbàn, allora, si era piegato perché rischiava di perdere gli aiuti economici dei quali la disastrata economia ungherese ha un disperato bisogno. Ma ora, evidentemente, lui e il suo partito hanno deciso di andare allo scontro duro, forti della maggioranza che hanno in Parlamento. Oltretutto, l’affondo contro l’Europa segue di pochi giorni la nomina a capo della Banca centrale ungherese di György Matolcsi, personaggio che viene da un milieu legato alla memoria del dittatore fascista alleato di Hitler Miklos Horthy, la cui riabilitazione da parte di Orbàn, qualche tempo fa, ha suscitato durissime proteste della comunità ebraica internazionale. Matolcsi si propone di praticare una politica economica «eterodossa» e denuncia un complotto internazionale dei governi dell’Eurozona, di non meglio precisati potentati economici e della stampa internazionale contro l’Ungheria. In realtà l’uomo è stato messo al suo posto per distruggere quel poco di autonomia che la Banca centrale era riuscita a conservare nella tempesta scatenata dalle scelte sbagliate del governo, che hanno portato la moneta nazionale, il fiorino, al livello più basso nei confronti dell’euro.
Ora si aspetta di vedere come reagirà la comunità internazionale e in particolare l’Unione europea. Nei paesi vicini all’Ungheria, come la Slovacchia, la Serbia e la Romania, dove vivono minoranze magiare, i soprassalti autoritari e nazionalisti di Orbàn hanno già suscitato, in passato, preoccupazioni e tensioni. La Slovacchia e la Romania fanno parte dell’Unione europea e potrebbero chiedere l’intervento delle autorità di Bruxelles. Le possibilità di contrastare la deriva autoritaria di Budapest in effetti ci sarebbero, come spieghiamo qui accanto, anche se si tratterebbe di procedure lunghe e complicate. Semplice, molto più semplice, sarebbe invece un’iniziativa del Ppe, del quale Finesz continua scandalosamente a far parte e nel quale gode dell’appoggio del Pdl italiano. Orbàn non ha mai fatto mistero dei suoi rapporti d’amicizia con Silvio Berlusconi e i due si troverebbero uno a fianco dell’altro se i vertici dei popolari decidessero di ritrovare l’anima democratica del loro partito.

l’Unità 7.3.13
Va contrastato, l’Italia si muova
di P. So.


CHI RITIENE INTOLLERABILE CHE IN UN PAESE DI ANTICA CIVILTÀ nel bel mezzo dell’Europa si possano cancellare i diritti democratici fondamentali batta un colpo. Lo batta, per esempio, il governo italiano. Quello che sta accadendo in Ungheria può e deve essere contrastato. Lo strumento c’è. L’articolo 7 del Trattato di Lisbona prevede un sistema di sanzioni contro i governi nazionali che violino i diritti fondamentali dei cittadini sanciti nell’articolo 2: libertà di espressione e di culto, garanzie sulla rappresentanza politica e contro gli arbitri dei poteri statali. Questi diritti sono in modo evidente negati dalle riforme della Costituzione ungherese. Secondo il Trattato, la denuncia delle violazioni in uno dei paesi dell’Unione deve essere fatta dalla Commissione, dal Parlamento europeo o da almeno un terzo degli stati membri. Deve essere poi il Consiglio a giudicare con maggioranza qualificata se le violazioni ci sono. Se sì, vengono stilate delle raccomandazioni a correggere leggi e procedure incompatibili con l’art. 2. Se il governo del paese in questione non obbedisce, vengono deliberate all’unanimità le eventuali sanzioni. Queste possono essere di natura economica (per esempio l’interruzione di ogni tipo di contributi) o di natura politica, come la sospensione dal diritto di voto in Consiglio. Si può arrivare anche alla sospensione tout court dello stato sotto accusa. Come si vede, la procedura è piuttosto complessa. Ma non bisogna sottovalutare l’effetto deterrente che il ricorso all’art. 7, anche farraginoso com’è, potrebbe avere sui propositi liberticidi di Orbàn e del suo Fidesz. Nel 2000 la minaccia del ricorso al Trattato (allora era quello di Nizza) aiutò a mettere fuori gioco il populista xenofobo Jörg Haider. L’Ungheria è in una situazione economica disastrosa e dipende largamente dagli aiuti europei. Sarebbe un’ottima cosa se il governo italiano prendesse l’iniziativa, magari nel Consiglio europeo del 14 e 15 marzo.

La Stampa 7.3.13
Hugo Chávez
Ecco perché il Caudillo mi ha affascinato
di Gianni Vattimo


IL FILOSOFO TORINESE È STATO SPESSO OSPITE DEL GOVERNO VENEZUELANO
ECCO PERCHÉ IL CAUDILLO MI HA AFFASCINATO

Il n’est pas tombé, il est mort»: questa frase, riferita tradizionalmente – credo – a Jean Antoine Carrel, uno dei primi scalatori del Cervino, mi viene in mente ora mentre, con una commozione che riesce nuova anche a me penso alla scomparsa di Hugo Chavez. Anche lui non è caduto, ha tenuto duro fino alla morte, facendo della sua resistenza alla malattia un emblema della sua lotta politica per l’ideale di una America Latina «bolivariana». Per me come per tanti occidentali della mia formazione, Chavez aveva tutte le qualità per essere guardato con sospetto: militare, «golpista» almeno agli inizi della sua avventura politica, populista, «caudillo», e via dicendo.
Pregiudizi che continuano a ispirare molta dell’opinione «democratica» prevalente. Che non solo si fanno gioco dei sospetti (non provati, ma del tutto verosimili conoscendo la Cia e le imprese petrolifere) sul suo preteso avvelenamento da parte dei suoi nemici di sempre, ma che dimenticano la sostanza della sua immensa azione di riscatto del suo Paese e di tutto il Sud America.
Chavez ha ripreso, facendone una corposa realtà, quella che ormai era diventata una sorta di mito, l’eredità di Castro e del Che. Incontrando direttamente, nel corso di ripetuti soggiorni, fino all’ultimo in occasione della sua ennesima rielezione nel novembre passato, la realtà del Venezuela, era difficile non rendersi conto della verità che troppo spesso i media occidentali ci nascondevano: e cioè che, avendo ricuperato i proventi dell’industria petrolifera, Chavez ha avviato e in gran parte realizzato una epocale trasformazione emancipativa del suo Paese: scuole che anche nelle zone amazzoniche più remote hanno ridotto drasticamente l’analfabetismo, assistenza sanitaria gratuita e di qualità, programmi sociali che hanno debellato la povertà estrema in cui il Paese, tra i più ricchi di risorse naturali, versava sotto i regimi «democratici» di impronta neocoloniale.
Impressionante è stato tutto il piano delle «misiones»: una sorta di sistema di gruppi di intervento volontari dei cittadini, che affiancano l’amministrazione pubblica in settori particolarmente importanti. Essendo gruppi volontari, è ovvio che chi vi si impegna siano i «chavisti», prestando così il fianco all’obiezione che si tratti di roba di regime. Non sono però chiusi a nessuno, basta decidere di partecipavi. Si è così diffusa una vitalità democratica «di base» che nelle nostre democrazie «mature» non si riesce nemmeno a immaginare. Le misiones e la politica sociale sono ciò che ha colpito tanti intellettuali occidentali, primo fra tutti Noam Chomsky, o cineasti come Michael Moore e Oliver Stone. I quali, come gli altri visitatori, quando arrivano a Caracas domandano quali quotidiani leggere, e si accorgono che i media sono tutti, salvo la televisione di stato, anti-Chavez. Sarebbe questo un Paese dove non c’è libertà di pensiero, di informazione, di stampa?
Ma la forza dell’esempio di Chavez si vede anche e soprattutto da quello che è accaduto in tanti Paesi latino-americani negli anni recenti. Come Chavez sarebbe impensabile senza Castro, così Evo Morales, Correa, Mujica e gli stessi Lula e Cristina Kirchner sono impensabile senza Chavez. Tutti insieme costituiscono forse la sola grande novità della politica mondiale di questi decenni, molto più che lo sviluppo neocapitalistico di Cina e India. Un modello di democrazia di base a cui l’Europa dovrebbe guardare con più attenzione.

Corriere 7.3.13
Hugo Chávez
Odio o amore, la fascinazione degli intellettuali
di Luca Mastrantonio


Nel gennaio del 1999 Gabriel García Márquez e Hugo Chávez hanno viaggiato assieme, dall'Avana a Caracas, su un aereo delle forze venezuelane. Si erano conosciuti durante un incontro con Castro. García Márquez si definiva un giornalista in pensione, Chávez era presidente del Venezuela da circa due settimane. Ma era un onore, per lui, conoscere lo scrittore colombiano, autore del romanzo Il generale nel suo labirinto, incentrato sulla storia di Simón Bolívar, letto e riletto in prigione. García Marquez — come raccontò in un articolo per la rivista Cambio — era magnetizzato da Chávez. Il «corpo di cemento armato», la «cordialità immediata, la «grazia da venezuelano puro».
Chávez parlò per tutto il viaggio. Raccontò la sua storia di povertà e trionfi, i suoi talenti, dal canto al baseball, la scelta militare, la formazione intellettuale, la rabbia sociale, il golpe fallito nel 1992 e la mossa di arrendersi a patto di parlare in tv a tutta la nazione. Quel video, annota García Márquez, «era il primo della campagna elettorale che lo avrebbe portato alla presidenza della Repubblica»; grazie all'amnistia arrivata dopo soli due anni e i consigli di un oscuro spin-doctor, l'argentino Norberto Ceresole, teorico del «caudillo» post-moderno.
Arrivati a Caracas — conclude nel suo articolo «L'enigma dei due Chávez» — García Marquez guarda dal finestrino una nebbiolina luminosa, come di stella distante, e conclude: «Mi venne l'impressione di aver viaggiato e conversato con due uomini opposti. Uno a cui la sorte ha dato l'opportunità di salvare il suo Paese. E l'altro, un illusionista, che potrebbe passare alla storia come un despota». Quale dei due fosse sceso da quell'aereo non è mai stato rivelato da Gabo.
Non aveva dubbi, invece, José Saramago. Sedotto a Caracas da come Chávez sapesse «toccare il cuore del popolo». Il nobel portoghese firmò un appello contro gli Usa per le presunte manovre dietro il golpe anti Chávez del 2002; Chávez lo scelse per sostituire la prefazione dell'ostile Vargas Llosa, peruviano, al Don Chisciotte in versione popolare. Nel 2005 Saramago intervenne per denunciare l'uso politico che gli anti-chavisti stavano facendo del suo romanzo Saggio sulla lucidità: «Mi hanno piratato un libro in Cina — scrisse — e in America Latina, ma nessuno mi aveva piratato un'idea», prima che l'opposizione venezuelana cercasse «di diffondere la falsa analogia tra il voto in bianco di cui si parla nel romanzo e l'astensione da loro invocata alle elezioni» in segno di protesta contro Chávez.
Dall'entusiasmo al livore. Altro che cuore. A Roberto Bolaño il caudillo venezuelano rivoltava lo stomaco. Non si può rifondare la sinistra — diceva a El Mercurio nel 2003 — se «continua ad appoggiare Castro, che è simile a un tiranno bananero». Il cileno lo trita nel sarcasmo di «Los mitos de Cthulhu», pubblicato nel Gaucho insopportabile: «Dio benedica i figli ritardati di García Márquez e i figli ritardati di Octavio Paz (…) Dio benedica i campi di concentramento per omosessuali di Fidel Castro e i ventimila desaparecidos dell'Argentina e la faccia perplessa di Videla e il sorriso da vecchio maschione di Perón e gli assassini di bambini di Rio de Janeiro e il castigliano di cui si serve Hugo Chávez, che puzza di merda».
La scrittura real-visceralista di Bolaño ribollì d'odio contro i chavisti che gestivano il Celarg, l'istituzione del premio Romulo Gallegos, che aveva vinto con il capolavoro I detective selvaggi nel 1999. Era giurato dell'edizione successiva, ma era stato falsificato il suo voto e fu messa in giro la voce che l'assenza era dovuta a biechi motivi economici (quando in realtà stavano peggiorando le sue già precarie condizioni di salute). Bolaño, nella lettera pubblicata dal giornale Tal Cual, invitò i «neo-stalinisti» dalla pancia piena come piccoli mafiosi a mettersi i soldi che gli dovevano dare e tutti i libri che aveva letto per loro, circa 250, là dove il Demonio, si dice, produca danaro.

Repubblica 7.3.13
Ada e Piero
La vedova del martire antifascista fondò giornali, fu scrittrice, partigiana e vicesindaco di Torino
Ora viene riscoperta in un convegno e nuovi documenti fanno luce sulla sua figura e sul marito
di Massimo Novelli


LA FORZA DELLE STESSE IDEE IN UN DIARIO PERDUTO COSÌ LA MOGLIE DI GOBETTI RICOMINCIÒ A VIVERE

TORINO Era un novembre mite e chiaro, di «calda luce». La località è sconosciuta, ma si tratta certamente di un posto di mare, probabilmente sulla Riviera Ligure, forse Varigotti. Anche l’anno non è noto, però dovrebbe essere il 1932 se Ada Prospero Gobetti, nata nel 1902, scrive: «Se la vita non mi avesse ridotta a trent’anni così disperatamente vecchia e sola, [...] oggi vorrei fabbricare, per la mia gioia, qualche impossibile sogno». Sei anni dopo la morte di suo marito Piero Gobetti, l’intellettuale antifascista spentosi in esilio a Parigi il 15 febbraio del 1926, Ada esprime il desiderio di ricominciare a vivere e di «schiudersi alla soavità del dare».
Non sta dimenticando Piero. Anzi: avendone introiettata la grande lezione umana, morale e culturale, con quella forza dentro ha deciso di accettare il suo destino, sbozzando se stessa. Furono una scelta, una consapevo-lezza, un’uscita non semplice dall’ombra di Piero. Solo nel 1937 si risposerà con Ettore Marchesini. Dal dolore nasce però una donna nuova. Lo testimonia bene questo frammento dei suoi diari pubblicato qui accanto, che per la prima volta viene reso noto e che riproduciamo grazie a Pina Impagliazzo e a Pietro Polito, direttore del Centro studi Piero Gobetti di Torino in cui sono custodite le carte di Ada e di Piero.
All’Ada Gobetti ancora pressoché sconosciuta, al pensiero e al percorso autonomo di scrittrice (da Diario partigiano a Storia del gallo Sebastiano) e di traduttrice, di educatrice, di antifascista, di protagonista della vita politica e sociale (fu il primo vicesindaco di Torino nella giunta della Liberazione, fondò Il Giornale dei Genitori), sono dedicate le giornate torinesi promosse, dall’8 al 23 marzo, dal Centro studi Gobetti, dall’Associazione culturale Incisione e Disegno e dal Centro studi e documentazione del pensiero femminile. Un omaggio, una volontà di scoperta e di rivalutazione, che passano attraverso una mostra, un convegno (l’8 marzo) a Palazzo Lascaris dal titolo “Ada e le altre: legami femminili tra educazione e valore della differenza”, un seminario e la proiezione di un documentario di Andrea Gobetti, il nipote di questa donna straordinaria morta nel marzo del 1968.
Come spiegano Angela Arceri, Romina Capello ed Emiliana Losma, giovani ricercatrici impegnate a fare riemergere la figura della compagna dell’autore de La rivoluzione liberale, «dall’esame di tutto il materiale fino a noi giunto, si è riusciti a delineare un quadro esaustivo della personalità e del pensiero di Ada, una donna che ha dato un notevole impulso e solide basi per un nuovo modo di pensare l’educazione dei ragazzi e anche per l’emancipazione delle donne».
Ada aveva conosciuto Piero quando era una ragazzina. Abitavano nello stesso palazzo del centro di Torino, frequentavano il medesimo liceo classico, il Gioberti. Piero era più vecchio di un anno. Eppure, appena diciassettenne, aveva già fondato Energie Nove, il suo primo giornale, filiazione de L’Unità di Gaetano Salvemini, al quale Ada aveva cominciato a collaborare. L’ammirazione per l’intellettuale si era presto trasformata in amore. Si sposarono nel gennaio del 1923, novant’anni fa. Tuttavia, come avrebbe scritto lei nel diario di quei giorni del ’26, Piero era destinato ad avere una «breve esistenza». Perseguitato e bastonato dai fascisti, e messo nell’impossibilità di lavorare per le perquisizioni, per i continui sequestri delle sue riviste, espatriò. Partì da Torino per Parigi il 6 febbraio. Sul treno, dopo avere salutato Ada e il figlio Paolo, nato pochi giorni prima, scrisse: «Io sento che i miei avi hanno avuto questo destino di sofferenza, di umiltà: sono stati incatenati a questa terra che maledirono e che pure fu loro ultima tenerezza e debolezza».
Piero Gobetti si ammalò subito di una grave bronchite. Poi tutto precipitò. Verso la mezzanotte del 15 febbraio morì nella stanza di un albergo di rue des Ecoles. Chi informò Ada di quanto era accaduto? Anche in questo caso, dal giacimento prezioso del Centro studi Gobetti è emersa della documentazione finora inedita. Spiega il direttore Polito: «Abbiamo trovato un telegramma che Giacomo Prospero, il padre di Ada, mandò alla moglie Olimpia da Parigi, dove era accorso al capezzale di Piero. Lo presenteremo con altre carte proprio a Parigi, il 25 aprile, durante un convegno dedicato agli ultimi giorni di vita di Gobetti. Non si era mai saputo che Giacomo Prospero fosse andato ad assistere Piero». In quel biglietto Prospero disse alla moglie di dare la notizia ad Ada con delicatezza. Nel diario del ’26, pubblicato per Einaudi da Ersilia Alessandrone Perona nel volume Nella tua breve esistenza, alla data del 16 febbraio lei scrisse: «Non è possibile. Non deve essere possibile. Non pensare, non pensare, non impazzire». Nelle pagine del ’32, accettato il dolore, ma non cancellato, ve ne sarà un’eco: «Non piango: non debbo pensare a nulla. Domani sarà come oggi. E un altro giorno ancora. Nulla oltre questo, nulla di diverso da questo. Non chiedo perché. Non mi ribello».

Repubblica 7.3.13
Jesi e i falsi miti dei fascismi europei
Ripubblicata la raccolta di saggi dello studioso “Il tempo della festa”
di Marco Filoni


Furio Jesi è stato un “mitologo”. A molti quell’epiteto doveva apparire scabroso. Erano gli anni a cavallo fra i Sessanta e Settanta e gli intellettuali storcevano volentieri il naso al primo, vago sentore del mito. Subito si evocavano conservatori e reazionari, pensatori esoterici, cultori di retoriche tradizionaliste. Ovvero la Cultura di destra, per dirla col titolo di un libro fondamentale dello stesso Jesi. Questo studioso irregolare, erudito e coltissimo, capace di raffinate architetture teoriche perlopiù costruite su nessi reconditi che gli riusciva di scovare nei testi, stava studiando un pantheon di autori fra i più disparati: Spengler e Frobenius, Eliade e Pirandello, Bachofen e d’Annunzio. «Ciarpame», sentenziò severo Norberto Bobbio, declassando i libri prodotti durante il ventennio come utili soltanto alla curiosità dello storico del costume.
Eppure quel retaggio stava in buona compagnia, soprattutto a sinistra. L’azione per l’azione di certo extraparlamentarismo trovava una sua formulazione teorica nel concetto del politico di Carl Schmitt; i pensatori della sinistra comunista (e non) che leggevano Céline, Drieu La Rochelle ed Ezra Pound (allora intervistato in tv da Pasolini), poi ancora Heidegger e Julius Evola. Alla storia (con la minuscola) di Hegel e Marx, si preferiva il Nulla (con la maiuscola) dei nichilisti. Eppure Furio Jesi non si fece ammaliare dalle sirene: da smaliziato studioso ebbe gioco facile nello scorgere e denunciare in quella “cultura” il linguaggio delle “idee senza parole”, di quel pensiero razzista e reazionario che aveva prodotto i fascismi europei e che, ancora, trovava buona eco.
Non solo: questa cultura si alimentava di elaborazioni mitologiche, rituali antichi spesso oscuri ed enigmatici, comunque legati a miti di fondazione. È proprio qui che Jesi ebbe la sua idea più originale ed efficace. Riprendendo l’intuizione di Kerényi secondo la quale sarebbe da distinguere un mito “genuino” da uno inautentico e ridotto a mero strumento di forza politica, Jesi radicalizzò questa posizione ipotizzando il modello interpretativo della “macchina mitologica”. Bisogna distinguere fra il mito originario e archetipico, dice, dalle mitologie, prodotte storicamente e ben più problematiche. Questo rivoluzionario dispositivo trova la sua più chiara formulazione nelle pagine de Il tempo della festa, la raccolta di saggi appena mandata in libreria per Nottetempo. Come avverte il curatore Andrea Cavalletti, vengono qui presentate per la prima volta pagine esemplari, forse le più belle che abbia scritto Furio Jesi. Al saggio sull’amato Rilke, il poeta tradotto e studiato per tutta la breve vita (Jesi morirà nel 1980 a 39 anni), si accompagnano quelli su Rimbaud, su Pavese, e ancora sul giovane Lukács e sulla “conoscibilità” (termine benjaminiano) della festa che dà il titolo al libro, arricchito da un inedito e da un’autobiografia in forma d’intervista.
Scritti che permettono di entrare nell’officina di Jesi, un esuberante laboratorio di idee e di connessioni tanto inattese quanto fruttuose. Certo, si può misurare il tempo che ci separa dalla loro elaborazione. Ma quegli strumenti critici che Jesi fornisce per tentare di smascherare le varie mitologie sono, una volta per tutte, ancora a nostra disposizione. Perché a ben guardare la nostra epoca non è per nulla vaccinata alle “mitologie”, a quella «sorta di pappa omogeneizzata che si può modellare e mantenere in forma nel modo più utile» che è la cultura dominante. Nella sua Cultura di destra Jesi metteva in guardia da quel potere che usa un linguaggio che non bisogna capire perché parla alla pancia e non alla ragione: «È il linguaggio della vacanza organizzata da chi ha il potere per chi non lo ha, in modo che quella vacanza sia cessazione di ogni sforzo». Corsi e ricorsi della storia. Val la pena allora leggere le pagine di Jesi come prezioso antidoto, affinché quel linguaggio, oggi ancora ascoltato, venga compreso per quello che davvero è.
Il tempo della festa di Furio Jesi a cura di Andrea Cavalletti Nottetempo pagg. 231, euro 15,50

l’Unità 7.3.13
Bosone di Higgs. È lui
ll Cern conferma la scoperta di luglio Lo spin pari a 0 non lascia dubbi
di Pietro Greco


La particella più ricercata della storia è fondamentale per stabilire la massa di tutte le altre
E ora si candida anche a svolgere un altro ruolo determinante: spiegare perché l’universo è oggi delle dimensioni e della forma che conosciamo

ORMAI È CERTO. PERSINO LO SPIN, PARI A 0, CORRISPONDE. La particella di massa compresa tra 125,3 e 126 GeV rilevata dalle collaborazioni Atlas e Mcs al Cern di Ginevra con il Large Hadron Collider (Lhc) al Cern di Ginevra è proprio lui: il bosone di Higgs.
L’annuncio, per così dire, quasi ufficiale è stato dato ieri a La Thuile in Val d’Aosta dove, da anni, sul finire dell’inverno un gruppo di fisici si riunisce per riflettere e sciare. I «cacciatori di particelle» venuti da Ginevra hanno portato nel paesino valdostano i nuovi dati che puntano tutti nella medesima direzione e indicano che quello rilevato dalle collaborazioni Atlas e Cms è effettivamente la particelle più ricercata della storia, il bosone ipotizzato da Peter Higgs.Le collaborazioni altro non sono che gruppi numerosi di fisici che realizzano un medesimo esperimento. E lo scorso 4 luglio i portavoce dei due gruppi di fisici che stanno realizzando gli esperimenti Atlas e Cms presso l’acceleratore Lhc annunciarono di avere dati statistici sufficienti per affermare di aver individuato una particella finora ignota con caratteristiche compatibili al bosone di Higgs. Ma di non avere la certezza assoluta che quella particella fosse davvero Higgs.
La questione non era (e non è) di lana caprina. Perché se la particella da 126 (o 125,3) GeV è davvero il bosone di Higgs, allora il Modello Standard delle Alte Energie, elaborato oltre mezzo secolo fa da Peter Higgs e da un altro nugolo di fisici teorici, viene definitivamente consolidato. E noi abbiamo un quadro solito di com’è fatto il mondo a scala microscopica.
Se invece la grassa particella non è il bosone di Higgs, allora al Cern non sarebbero meno contenti, perché avrebbero scoperto «nuova fisica». È per questo che, da luglio in poi, le due collaborazioni hanno lavorato «ventre a terra» e con entusiasmo per venire a capo del rovello. Pochi dubitavano che, in realtà, la particella scovata fosse proprio il bosone di Higgs. E anche per questo che a fine anno Fabiola Gianotti, leader della collaborazione Atlas, ha ottenuto (si è meritata) la copertina di Time. Ma ora se ne ha la conferma (pressoché) definitiva. La particelle del 4 luglio è proprio lui, il bosone così determinante e così a lungo cercato. Tra l’altro del bosone di Higgs ha anche lo spin atteso.
Lo scorso luglio non era ancora sufficientemente chiaro se la particella avesse spin 0 oppure spin 2. Lo spin (o momento angolare intrinseco) è una grandezza quantistica. Non ha omologhi nel nostro mondo macroscopico. Ma se il dio dei quanti ci perdona, potremmo assimilare lo spin al verso di rotazione di una palla che ruota intorno al proprio asse. Ebbene, il Modello Standard non dice che massa debba avere il bosone di Higgs, ma impone un solo spin: 0. A La Thuile i fisici di Atlas e Cms hanno confermato: la particella ha spin 0. Proprio quello atteso per il bosone di Higgs.
Il che, come sostiene il fisico teorico Antonio Masiero sul sito dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn) di cui è vicepresidente, spalanca a nuovi ruoli della determinante particella. Il bosone di Higgs non è solo la particella che regala una massa a tutte le altre. Ma anche una forma e una dimensione all’universo intero. Regala una massa al cosmo perché il bosone è espressione del campo di Higgs. Potremmo raffigurarci questo campo come una sorta di liquido viscoso, una melassa, che permea di sé l’intero universo. E la massa non sarebbe altro che la resistenza che ogni particella incontra nell’attraversare il campo. Se la resistenza è nulla, la massa è zero. Se la resistenza è grande, la massa della particella è grande.
Ma, sostiene Masiero, con uno spin zero il bosone di Higgs si candida anche a svolgere un altro ruolo determinante nell’universo primordiale e, dunque, a spiegare perché l’universo è oggi delle dimensioni e della forma che conosciamo. Il Modello Standard delle Alte Energie incontra il Modello Standard della Cosmologia, secondo cui l’universo (o meglio, l’universo osservabile) è nato 13 miliardi e rotti anni fa con l’immane esplosione di un punticino caldissimo, densissimo e piccolissimo. Poi, pochissimi istanti dopo, le sue dimensioni sono aumentate di centinaia se non migliaia di ordini di grandezza e l’universo osservabile è diventato un oggetto macroscopico. Questa trasformazione rapidissima, avvenuta a una velocità crescente e infine superiore a quella della luce, è durata a sua volta pochi istanti, ha consentito all’universo di congelare le disomogeneità quantistiche originarie e, dunque, di assumere la forma oltre che le dimensioni che presenta oggi. La fase della crescita rapidissima è stata definita inflazione cosmica. E sarebbe stata determinata da una particella chiamata inflatone. Una particella massiva con spin zero. Ebbene, sostengono molti fisici teorici impegnati a rendere omogenei il Modello Standard delle Alte Energie e quello della Cosmologia, il bosone di Higgs così come è stato rilevato a Ginevra dagli esperimenti Atlas e Cms ha proprio le caratteristiche dell’inflatone. E, probabilmente, è l’inflatone.
Se così fosse quello previsto da Peter Higgs con altri teorici all’inizio degli anni ’60 del secolo scorso e rilevato da Fabiola Gianotti e da migliaia di altri ricercatori lo scorso anno al Cern sarebbe di gran lunga la particella più importante nella storia dell’universo. E la scoperta confermata ieri sarebbe, di conseguenza, una delle più fondamentali di ogni tempo. A chi volesse saperne di più, diamo due consigli. Leggere A caccia del bosone di Higgs, il libro scritto dal fisico teorico Luciano Maiani, già direttore generale del Cern, oltre che dell’Infn e del Cnr, insieme con il giornalista Romeo Bassoli e pubblicato nei giorni scorsi da Mondadori. E venire a Roma il prossimo 14 maggio, perché all’Auditorium, con la guida sapiente di Marco Cattaneo, direttore di Le Scienze, ci spiegheranno tutto proprio i protagonisti della caccia: Fabiola Gianotti, Guido Tonelli e lo stesso Luciano Maiani.

Repubblica 7.3.13
Ecco l’identikit del bosone di Higgs la particella di Dio ha cinque volti
Il Cern conferma la scoperta. “Ora si aprono nuovi scenari”
di Elena Dusi


Peter Higgs, il fisico britannico che ha dato il nome alla “particella di Dio”. Ebbe l’intuizione dell’esistenza di una nuova particella subatomica nel 1964. Nella foto in alto, Higgs in visita al Cern di Ginevra

ROMA — Ma che volto ha il bosone di Higgs? Come in una danza dei sette veli, la particella concede a poco a poco i suoi segreti. Rispetto all’annuncio della scoperta — il 4 luglio 2012 al Cern di Ginevra — i fisici hanno raccolto il triplo dei dati. E ieri in una conferenza a La Thuile, vicino Aosta, hanno tracciato un identikit dai contorni meno fluttuanti ma non ancora privo di misteri.
Una cosa è certa: quello creato dall’Lhc — l’acceleratore di particelle più potente del mondo — è il bosone di Higgs. I fisici hanno cancellato i condizionali e il primo velo è caduto. Peter Higgs, il timido fisico inglese che nel 1964 teorizzò la sua esistenza, si avvia prevedibilmente verso il Nobel. Il puzzle delle 17 particelle fondamentali che compongono la materia a noi nota ha trovato il suo ultimo pezzo.
Da qui in avanti il terreno si fa meno solido. «Quello che abbiamo osservato potrebbe essere uno dei possibili bosoni di Higgs» suggerisce Sergio Bertolucci, direttore della ricerca al Cern. Come in un gioco di specchi, l’Higgs potrebbe presentarsi con identità plurime (fino a cinque). E la caccia al “latitante” che diamo per conclusa potrebbe essere solo all’inizio. La “moltiplicazione degli Higgs” è possibile grazie alla teoria della supersimmetria, secondo cui ogni particella ha una o più compagne rimaste finora ignote. Si spiegherebbe così perché il 96% dell’universo — suddiviso in materia ed energia oscura — è totalmente invisibile. Per penetrare nel regno della supersimmetria servirebbe però un varco. Un dettaglio inaspettato del bosone potrebbe suggerirne l’esistenza, ma finora la particella non ha offerto appigli o stranezze. «Speravamo di vedere segnali in disaccordo con le teorie attuali» spiega Gian Francesco Giudice, fisico teorico del Cern. «Invece tutte le caratteristiche dell’Higgs sono in linea con le previsioni. Questo non ci aiuta ad aprire nuovi sentieri».
Una sorpresa potrebbe ancora annidarsi fra le molteplici forme che l’Higgs assume alla fine della sua vita. L’Lhc, in tre anni di attività, ha prodotto 2mila trilioni di collisioni fra protoni veloci quasi come la luce. Negli scontri si sono formati circa 400 bosoni di Higgs. Dopo un’esistenza di un istante, queste particelle si disintegrano, ed è osservando i frammenti che i fisici ne ricostruiscono l’identikit.
Da questo minuzioso lavoro di interpretazione potrebbero saltare fuori novità. Anche perché esperimenti giganteschi come l’Lhc (costato 10 miliardi di euro) sono affidati a squadre di fisici diverse e indipendenti. A Ginevra ne esistono 4, di cui 2 specializzate nella caccia all’Higgs. I dati dei vari gruppi a La Thuile combaciano abbastanza, ma non perfettamente. E il bosone di Higgs per molti aspetti resta un bersaglio mobile. «A differenza di altre particelle elementari — prosegue Giudice — le sue proprietà non sono rigidamente determinate dalle simmetrie della teoria. Possono risultare diverse da quelle previste senza che l’intera teoria crolli. La questione che più lascia perplessi è quella dell’instabilità del vuoto».
Il vuoto, secondo i calcoli fatti al Cern e all’Istituto nazionale di fisica nucleare, non ha ancora raggiunto uno stato di energia minimo, quindi di quiete. Potrebbe “precipitare a valle” e scomparire. «Non accadrebbe in tempi brevi — tranquillizza Giudice — ma l’universo, per come ci appare il bosone oggi, si troverebbe in uno stato di equilibrio instabile, come un nido precariamente appeso a un ramo».

Repubblica 7.3.13
È solo il primo passo verso altre frontiere dalla materia oscura al destino dell’universo
di Fabiola Gianotti


LA SCOPERTA di una nuova particella è solo il primo passo di un lungo cammino. Per capirne le proprietà occorrono misure dettagliate, che richiedono tempo e dati. Ci sono due aspetti principali su cui stiamo lavorando. Il primo è determinare lo spin della nuova particella, una proprietà che potremmo considerare una specie di “codice genetico”, che ci permetterebbe di definirne la natura. Siamo sulla buona strada per affermare che lo spin della nuova particella è compatibile con il valore previsto per il bosone di Higgs (zero), mentre ad esempio l’elettrone ha spinun mezzo e il fotone spinuno.
L’altro aspetto importante è determinare come questa nuova particella interagisce con le altre particelle elementari. Su questo abbiamo fatto molti progressi negli ultimi mesi. Anche se il traguardo è migliorare la precisione delle misure, tutti i risultati ottenuti finora sono in ottimo accordo con l’interpretazione che la nuova particella sia proprio il bosone di Higgs. Lhc però è stato concepito e costruito per affrontare una lunga lista di questioni aperte. La domanda sull’origine delle masse delle particelle elementari, che ci ha accompagnato per decenni, è ora in via di risoluzione. Ma ci sono altri quesiti che stiamo esplorando, come la composizione della materia oscura, l’asimmetria fra materia e antimateria nell’Universo, l’esistenza di altre forze oltre alle 4 che conosciamo. Una delle prime curiosità che ci piacerebbe risolvere è la natura della materia oscura. Sarebbe bellissimo produrre in un acceleratore sotterraneo nella campagna fra Svizzera e Francia la particella responsabile del 25% dell’Universo. Si tratterebbe di una soddisfazione enorme per le migliaia di fisici di tutto il mondo, fra cui 600 italiani coordinati dall’Infn, che lavorano da 25 anni a un progetto senza precedenti.

L’AUTRICE Ha guidato Atlas, uno dei rivelatori che ha scoperto l’Higgs

il Fatto 7.3.13
Arte
Borderline: artisti tra normalità e follia
di Claudia Colasanti

Borderline. Artisti tra normalità e follia MAR, via di Roma 13, Ravenna

LA FOLLIA. Studiarla da fuori, viverla da dentro. Osservarla per capirne i movimenti, le deviazioni, le provocazioni. La follia, che può dilagare, oggi come nel passato, anche nell’area positiva (e non autodistruttiva) del gesto pittorico, del colore, del segno, in sintesi: dell’arte. Un’accurata mostra, presso il MAR di Ravenna, offre un itinerario laterale e differente, fra i tanti possibili, intorno ad un tema a volte tralasciato, altre compreso, spesso esaltato: quello dell’artista Borderline, che individua una condizione critica della modernità, antropologica, prima ancora che clinica e culturale. Attraverso un passaggio storico che partendo da lontano ribalta l’isolamento di decenni dell’Art Brut, per evidenziare proprio quelle fertili esperienze nate nei luoghi di cura per malati mentali .Artisti diversi per genere ed epoche, che entrano in relazione, sala dopo sala, alternando le frontiere mobili dell’arte e del disagio psichico grazie alla forza del linguaggio e distanti dalle categorie che le escludevano dai circuiti ufficiali. Nelle prime sezioni, da “Introspezione”, “Disagio della realtà” a “Disagio del corpo” sono proprio gli artisti storici (con gli splendidi dipinti di Hieronymus Bosch, Pieter Bruegel, Théodore Géricault e Francisco Goya) più nella parte degli ‘analisti-studiosi’ a prevalere, dimostrando come nelle ricerche di allora prosperava la revisione radicale di termini quali “arte psicopatologica”, che prendeva in esame queste produzioni sia come sorgenti stesse della creatività, quanto come modalità propria di esistere e vivere del mondo, da comprendere al di là del linguaggio formale. Affinità e differenze, fra artisti lucidi e folli, affiorano soprattutto nella sezione “Ritratti dell’anima”, dedicata al ritratto e all’autoritratto – fra le forme di autoanalisi inconsapevole più frequente nei pazienti delle case di cura – con opere di Francis Bacon, Enrico Baj, JeanMichel Basquiat, Pablo Echaurren, Antonio Ligabue, Mattia Moreni e Arnulf Rainer.